LDB «Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude»: l’eco dei versi leopardiani ci accompagna dai banchi di scuolaetalorapuòcapitaredi sorprendersi a risillabare suggestivi passaggi di liriche immortali, da A Silvia all’Infinito al Sabato del villaggio, patrimonio insostituibile di ogni persona di cultura, anche fuori d’Italia. Eppure, il reale profilo di Giacomo Leopardi (17981837)sfuggeaognitentativo di facile definizione: poeta del pessimo e del dolore? Cantoredellanegazioneedel vuoto esistenziale? La presente monografia – la prima pubblicata da molti anniaquestaparte–risponde proprio all’esigenza di un ripensamento organico della figura leopardiana, alla luce degli apporti piú significativi degli ultimi studi in materia. Scrittore multiforme e asistematico, Giacomo trova lasuacifrapiúcaratterizzante inun’attivitàprodigiosamente prismatica, di cui Tellini segue con tocco elegante le molteplicimanifestazioni,che poi ricompone in un quadro unitario: ecco allora il poeta degli idilli, delle canzoni e deicantiprimiesecondi,che fu al contempo autore delle Operette morali e dello Zibaldone di pensieri – quindi prosatore e diarista –, e ancora filosofo, erudito, traduttore,filosofo… Eserciziodifficile,eppure affascinante, che consente infine – afferrati i fili spesso contraddittorî e seguiti i percorsi per nulla lineari dell’officina leopardiana – di cogliere in profondo la preziosa identità del cristallo dacuiirradianotantiediversi fascidiluce. SESTANTE 5 GINOTELLINI LEOPARDI SALERNO EDITRICE ROMA ComposizionepressoBertoncello Artigrafiche,Cittadella(PD) Copertina: S.FERRAZZI,RitrattodiGiacomo Leopardi(oliosutela1897). ©CasaLeopardi Realizzazionetecnicaacuradi BertoncelloArtigrafiche,Cittadella (PD) 1aedizionedigitale:luglio2015 ISBN978-88-6973-077-1 Tuttiidirittiriservati-Allrights reserved Copyright©2015bySalernoEditrice s.r.l.,Roma.Sonorigorosamentevietati lariproduzione,latraduzione, l’adattamento,ancheparzialeoper estratti,perqualsiasiusoeconqualsiasi mezzoeffettuati,senzalapreventiva autorizzazionescrittadellaSalerno EditriceS.r.l.Ogniabusosarà perseguitoanormadilegge. PREMESSA QuestoLeopardiampliae approfondisce il capitolo Giacomo Leopardi del 1998, pubblicato nel volume VII (Il primoOttocento)dellaStoria della Letteratura Italiana diretta dall’amico Enrico Malato. Pur nella maggiore analiticità dell’impianto, il disegno generale è rimasto inalterato, con aggiunte tuttavia di non poco conto. Anzitutto è stata estesa la parte della biografia (cap. II), sí da fornire una cronologia sintetica, ma per quanto possibile dettagliata, che serva da cornice di riferimento e da utile connettivo dell’intero volume. Poi la scansione diacronica dei momenti piú rilevanti dell’opera dello scrittore include, in tre casi particolari, sondaggi piú specifici: per i canti pisanorecanatesi del 1828-’30 (cap. XIV), di cui si propone una lettura integrale; per «Lo Spettatore Fiorentino» (cap. XVI), che è episodio solitamente passato sotto silenzio, mentre consente di illuminare con chiarezza i presupposti ideologici dell’ultimo Leopardi; per la Palinodiaeirelativirapporti con l’ambiente culturale fiorentino (cap. XVII), onde dare il giusto risalto alla denuncia intellettuale e all’energia espressiva di un componimento che – in relazionealsuovalore–ètra i meno frequentati dagli studiosiedailettori. Lo stato attuale delle ricerchesuLeopardi,inItalia e nel mondo, è in attivissimo fermento. Specie negli ultimi venti anni le prospettive interpretative si sono rinnovate, con perlustrazioni d’archivio, accertamenti storici e biografici, restauri filologici, edizioni, commenti,riletture,contributi sul lessico, sulla sintassi, sulla metrica, come sul metodo speculativo del pensatore.Siprofilanocampi d’indagine finora poco esplorati: intorno all’ars memoriae del poeta e agli angoli piú riposti della sua cultura, alla tecnica del traduttore e dell’antologista, alla selva di significati che fermentano nello Zibaldone. Le voci della bibliografia critica incalzano a un ritmo sempre piú frenetico, con febbrile accelerazione planetaria. Soltanto il regesto sistematico delle pubblicazioni occasionate dalla ricorrenza bicentenaria del1998–nondiradoinutili odestinateaviverequantogli «insettichiamatiefimeri»,per ricorrereaunametaforadello Zibaldone – occuperebbe, da solo, un volume. Siffatto tumultuoso oceano rende sgomentante il tentativo di unaricognizionecomplessiva e si capisce bene perché l’interesse degli addetti ai lavori si orienti ormai da tempo verso indagini settoriali, verso zone delimitate e circoscritte dell’universoleopardiano. La presente monografia non aspira e non s’illude di fare – come usa dire – “il punto”. Né vuole tirare bilanci. Risponde però all’esigenza di un ripensamento organico, che valorizzi gli apporti piú persuasividelnuovocorsodi studi,eancheallanecessitàdi un raccordo funzionale tra le molteplici(spessoantitetiche) sollecitazioni emerse dal rinnovamento in atto. Mira perciò a colmare quello spazio vuoto che si è spalancato tra l’informazione divulgativa e le microanalisi specialistiche. Di qui una sintesi panoramica, augurabilmente aggiornata, da usare come manuale di servizio che intende rendere conto della sorprendente complessità di un autore multiforme e asistematico, senza però disgregarne l’eccezionale fisionomia in una frammentazione parcellizzata e pulviscolare. Perciòattentacuraèdedicata alle correlazioni tra i differenti versanti di un’attività avventurosamente prismatica,ainessitraleparti eiltutto:l’erudito,ilfilologo, il traduttore, il poeta degli idilli e delle canzoni e dei canti primi e secondi, il prosatore, il diarista, il filosofo…Tenereinmanoil filo comporta sacrifici, impedisce scandagli preziosi e scavi illuminanti, tuttavia aiuta, non a trovare coerenza dove c’è contraddizione, ma almenoanonperderedivista l’identità del cristallo da cui s’irradianotantifascidiluce. Firenze,23dicembre2000 G.T. AVVERTENZA Le citazioni dai testi di Leopardisonotrattedinorma da Tutte le opere (= TO), a cura di W. BINNI, con la collaborazione di E. GHIDETTI, Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll. In accordo con i criteri seguíti nella mia ed. (I Canti e le Operette morali, Roma, Salerno Editrice, 1994), non si adottano qui né il ricorso sistematico alla maiuscola in incipit di verso né l’impiego esclusivo dell’accento grave, propridell’usoleopardiano. Per le Operette morali si segue la paragrafatura fissata da O. BESOMI nella sua ed. critica (Milano, Fondazione Mondadori, 1979), riproposta anche nella cit. ed. a mia cura. Per lo Zibaldone (= Zib.) si rimanda all’ed. critica e annotata a cura di G. PACELLA (Milano, Garzanti, 1991, 3 voll.), con riferimento costanteallapaginae,quando indicata, alla data dell’autografo. Con Epist. s’intende l’Epistolario di Giacomo Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative, a cura di F. MORONCINI, Firenze, Le Monnier, 1934-1941, 7 voll. (l’ultimovolumeacuradiG. FERRETTI, con indice analitico generale di A. DURO); con Epist.2 s’intende l’Epistolario, a cura di F. BRIOSCHI e P. LANDI, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll. Per gli Elenchi di letture, compilatidaLeopardi,alcuni senza data, altri relativi al 24 febbraio 1819, ai mesi novembre 1822-maggio 1823 e al periodo 1° giugno 1823marzo 1830, il rinvio va a Elenchi di letture leopardiane, in Zibaldone, cit.,IIIpp.1137-72. Queste le sigle delle principali stampe d’autore chericorrononeltesto: B24 = Canzoni del conte Giacomo Leopardi, Bologna, AnnesioNobili,1824. B26 = Versi del conte Giacomo Leopardi, Bologna, StamperiadelleMuse,1826. F = Canti del conte Giacomo Leopardi, Firenze, GuglielmoPiatti,1831. N = Canti di Giacomo Leopardi, Napoli, Saverio Starita,1835. I UNBORGO MARCHIGIANO 1.NASCEREARECANATINEL 1798 Nascere a Recanati nel 1798 significa nascere nel silenziodellaprovincia,nella Marca Anconitana, in uno degli angoli piú depressi del depresso Stato della Chiesa:1 dove giunge fioca e con bagliori sinistri l’eco della modernità rivoluzionaria; dove resistono le strutture di una società arcaica, ecclesiasticaenobiliare;dove permangono quasi intatti gli usi di un’economia agricola parassitaria,insiemeaicanoni di una cultura erudita e accademica. I fermenti della nuova civiltà borghese, nell’assetto di questa ormai anacronistica monarchia assoluta politica e religiosa, che ha conosciuto con l’Arcadia e con il melodramma metastasiano le sue estreme stagioni di egemonia nazionale, promuovono nel secondo Settecento un riformismo miope e guardingo, non paragonabile al processo di rinnovamento attuato in altre zone della penisola. La progettualità “illuminata”, che investe l’ordinamento teocratico del potere pontificio, si muove con ottimismo ingenuo o con calcolatacircospezione:come nei Pensieri sulla pubblica felicità (1774) dell’economista romano Claudio Todeschi; nel saggio Della importanza e dei pregi del nuovo sistema di finanza dello Stato pontificio (1794) del milanese Paolo Vergani, dal 1781 funzionario papalino; nelle Riflessioni economiche politiche e morali sopra il lusso, l’agricoltura, la popolazione, lemanifattureeilcommercio dello Stato pontificio (1795) del liberista Nicola Corona, invano fautore di una legge agraria a favore della piccola proprietà, contro il latifondo improduttivo dell’aristocrazia terriera e del demanio ecclesiastico. Poiiltumultodeglieventi diFranciametteatacereogni velleità di riforma e apre la strada a una dilagante pubblicistica controrivoluzionaria che trova proprio in Roma il fronte della resistenza piú agguerrita e nel poema La Bassvilliana (1793) di Monti il monumento nostrano piú illustre della reazione antifrancese in smaltati abiti classicisti. Sta di fatto che nella movimentata planimetria del neoclassicismo di area romana, sostenuto dal rinnovato interesse per gli scavi archeologici e per il collezionismo antiquario, nonostante la scienza di uno studioso vigoroso come Ennio Quirino Visconti e le nostalgie visionarie di un ex illuminista come Alessandro Verri, la prospettiva europea del ritorno all’antico resta in buona parte confinata nel recinto angusto della vocazione estetizzante, della retorica neoarcadica, del municipalismo erudito. La Roma di Benedetto XIV (1740-1758) e di Pio VI (1775-1799), all’insegna di un singolare riformismo senzailluminismochenonha scalfito la clericalizzazione delle istituzioni e il dominio della nobiltà, si compiaceva nell’esibireaitantivisitatorie ai grandi ospiti stranieri il fascinodellepropriememorie lontane, isola fastosa e monumentale nella squallida desolazione della Maremma lazialeedellePaludiPontine. Ma nascere nel 1798 a Recanati significa anche nascere in «uno dei periodi piú agitati e travagliati della storia delle Marche».2 I moti giacobini del 1796-’97, la reazione sanfedista nel 1799 sostenuta dalle truppe austrorusse, quindi il ritorno dei francesi e l’annessione nel 1808 delle Marche al regno d’Italia, poi la sconfitta di MurataTolentinonelmaggio 1815 e la restaurazione pontificia: le scosse violente si susseguirono quasi senza sosta. Il padre di Leopardi, il conte Monaldo, conservatore schiettoe«cattolicissimo,ma non misticheggiante, anzi razionalista»,3 derivò da questevicendetumultuoseun odio sincero per la Rivoluzione e insieme un desiderio di quieto vivere, fuori da ogni aperto coinvolgimento politico. «Molto piú che suddito pontificio (a Roma si recò molto di rado e di malavoglia), si sentí marchigiano e, piú ancora, recanatese».4 Giacomo, cresciuto in questo clima controrivoluzionario cosí timoroso del nuovo e anche cosí incline ai compromessi, ebbe l’energia di maturare scelte autonome e radicalmente coraggiose, tanto da sentirsi cittadino del mondo. 2.GEOGRAFIA,STORIA, IDENTITÀCULTURALE L’origine biografica talvolta non spiega molto nella storia di un destino individuale. Ma nel caso che qui interessa, la nascita recanatese rende ragione, in via preliminare, di alcuni aspetticostitutividelcarattere leopardiano: anzitutto la passione per lo studio dell’antichità classica, tratto distintivo del ceto nobiliare romagnolo-marchigiano. Ne sonoprovaalcuninomiallora illustri: il bolognese Filippo Schiassi, epigrafista, docente di Archeologia all’Università di Bologna, autore di Sul dilettodeglistudîantiquarîe singolarmente della Numismatica (1808); il marchese bolognese Massimiliano Angelelli, docente di Lettere greche all’Università di Bologna, traduttore di tutto il teatro di Sofocle(1823-1824);Dionigi Strocchi, di Faenza, poeta, traduttore di Callimaco e di Virgilio; Bartolomeo Borghesi, di Savignano, eruditoearcheologo,studioso di epigrafia e numismatica, «un tecnico dell’antiquaria universalmente riverito in Europa»;5 il conte Giulio Perticari, anch’egli di Savignano ma residente per lopiúaPesaro,traifondatori nel 1819 del romano «Giornale Arcadico», roccaforte dell’antiromanticismo, scrittore in versi e in prosa, filologo e linguista, unito dal 1812 in infelice matrimonio con la bellissima Costanza Monti, figlia del poeta (le nozze furono celebrate con una raccolta collettiva di epitalami, a cui presero parte molti amici letterati, come StrocchieBorghesi:Inniagli DeiConsenti,Parma,Bodoni, 1812). Si ricordi che il pesarese Francesco Cassi, traduttore della Farsaglia di Lucano (apparsa, dopo un primosaggiodel1820,indue tomiadispensetrail1826eil 1836),nonchécuginoeamico carissimo di Perticari, era anche cugino di Monaldo Leopardi e che Giuseppe Melchiorri, cultore di antiquaria, era cugino di Giacomo. Siffatta vocazione classicista, respirabile nell’aria di famiglia, comporta il distacco, che poi diventa urto polemico, nei confronti degli schieramenti «modernisti» (i romantici lombardi, poco piú tardi i liberali toscani e i «nuovi credenti» napoletani), impegnati nella pragmatica battaglia del nuovo, per una cultura di immediata attualità e utilità. Non solo. Il rinnovamento in atto nel secondo decennio dell’Ottocentoriguarda,sisa, anche il sistema dei generi letterari e si spiega che la Milano romantica possa diventare l’officina di un teatro nuovo e di un nuovo romanzo (i due generi piú esposti alle attese del pubblico e alle sollecitazioni diunasocietàinmovimento), anzi il laboratorio del nostro romanzo moderno, come anche il centro di una nuova poesia, realistica e sliricata, da Porta a Manzoni. Si capisceinvececheaRecanati il terreno prediletto, per quanto non esclusivo, resti la poesialirica,autobiograficae soggettiva, il genere principe dellatradizioneaulicaitaliana (è miracolo del pontificio Belli dialettale far sí che a Roma il sonetto si trasformi, ma clandestinamente, in perfetto ingranaggio di una formidabile e corrosiva «commediaumana»). Si metta però anche súbito in conto il rapporto ancipite di amore e odio che lega Giacomo alla sua terra: fino alla rottura violenta (psicologicaeideologica)con la plumbea atmosfera circostante, per un’ansia di libertà che educa in lui un temperamento solitario quantopugnace,urtanteenon disposto al compromesso, orgoglioso della propria inattuale diversità. Tale moto di aspra ribellione non arriva a rinnegare le radici di un’identità culturale, ma ne spezza il conformismo provinciale e i limiti reazionari. Quello di Leopardi è il caso raro, non peròeccezionale,diunautore cheharaggiuntolagrandezza e la spregiudicata modernità con la lenta fatica di chi va controcorrente, attraverso lo scavoassiduonelpassatoeil rifiuto altrettanto assiduo della contemporaneità, dei falsi miti celebrati nel suo tempo. 1. Per un ampio panorama storico sulloStatodellaChiesa,vd.soprattutto M. CARAVALE-A. CARACCIOLO, Lo StatopontificiodaMartinoVaPioIX, Torino, UTET, 1978. Per aspetti piú specifici,vd.D.DEMARCO,Iltramonto dello Stato pontificio. Il papato di GregorioXVI,Torino,Einaudi,1949,e V.E.GIUNTELLA,RomanelSettecento, Bologna, Cappelli, 1971. Per una prospettivadiperiodizzazioneletteraria, vd.W.BINNI-N.SAPEGNO,Marche,in Storia letteraria delle regioni d’Italia, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 431-50, e piú analiticamente R. MEROLLA, Lo StatodellaChiesa,nell’operacollettiva Letteratura Italiana, dir. da A. ASOR ROSA,Storia e geografia, II/2, Torino, Einaudi, 1988, pp. 1019-109, senza prescindere dalle indagini di C. DIONISOTTI (Geografia e storia della letteratura italiana, ivi, id., 1967; Regioni e letteratura, nell’opera collettiva Storia d’Italia, coordinata da R. ROMANO e C. VIVANTI, V/2 [I documenti],ivi,id.,1973,pp.1373-95; Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, Il Mulino, 1988). Per il classicismo ottocentesco italiano, si sottintende il rinvioaglistudidiS.TIMPANARO (La filologiadiG.Leopardi[1955],RomaBari, Laterza, 19973; Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa,Nistri-Lischi,1965,19692;Aspetti e figure della cultura ottocentesca, ivi, id., 1980; Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa,ETS,1982;Nuovistudisulnostro Ottocento,Pisa,Nistri-Lischi,1995),di P. TREVES (Lo studio dell’antichità classicanell’Ottocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962; L’idea di Roma e la culturaitalianadelsecoloXIX,ivi,id., 1962)ediA.LAPENNA(Latradizione classica nella cultura italiana, nell’operacollettivaStoriad’Italia,V/2, cit.,pp.1319-72;Glistudiclassicidalla fondazione dell’Istituto di Studi Superiori, nell’opera collettiva Storia dell’Ateneo fiorentino. Contributi di studio,Firenze,Parretti,1986,2voll., I pp. 201-86; Tersite censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno,Pisa,Nistri-Lischi,1991). 2.S.TIMPANARO,Il Leopardi e la Rivoluzione francese (1990), in ID., NuovistudisulnostroOttocento,cit.,p. 127. 3.Ivi,p.128. 4.Ibid. 5. P. TREVES, Bartolomeo Borghesi, in ID., Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, cit.,p.829. II LEOPEREEI GIORNI,OVVERO ILCORAGGIODI UN’APPASSIONATA DISPERAZIONE 1.LAFAMIGLIAEIL«NATIO BORGOSELVAGGIO» La vita di Leopardi, se messaaconfrontoconquella degli altri protagonisti della nostra vicenda letteraria di primo Ottocento, appare singolarmente appartata e spogliadieventi.Labiografia foscoliana è percorsa da spirito d’avventura e da ardimentosa compromissione politica. All’esperienza manzoniana presiedono le relazioni con una società dinamica, lombarda e parigina, con una militante cultura d’avanguardia. Leopardi,invece,vienedaun climacivileeintellettualedel tuttodiverso.L’isolamentodi uno sperduto borgo marchigiano, nel torpore dello Stato pontificio; il rigoreossessivodiunfervore concettuale affilatissimo, coltivato in privato, nella solitudinediunabiblioteca,e intento al lirico trasalimento dei «tristi e cari / moti del cor»(Lericordanze,vv.17273); l’estraneità, per convinzioneeticaeperscelta ideologica, dalle tendenze dominanti del Risorgimento liberale: questi i dati piú appariscenti che distinguono la biografia leopardiana, intessuta di intenso amore alla vita e di eroica disperazione. Dal conte Monaldo Leopardi (1776-1847) e da Adelaide dei marchesi Antici (1778-1857), andati sposi il 27 settembre 1797, Giacomo nacqueaRecanatilaseradel 29 giugno 1798, primogenito di dieci figli, in una famiglia economicamente in declino dell’aristocrazia terriera. Profondoeaffettuososaràpoi il suo rapporto con il fratello Carlo (1799-1878)1 e con la sorella Paolina (1800-1869), mentre contatti occasionali manterrà con Luigi (18041828) e Pierfrancesco (18131851).Glialtricinquefratelli (un altro Luigi, Francesco Saverio,Raimondo,Giuseppe e Ignazio) non sopravvissero alla nascita o alla primissima infanzia. La giovanile inaccortezza delpadre,gentiluomodivasta culturaenonprivod’ingegno ma conservatore accanito, dogmatico e autoritario, con ambizioni di storico e di letterato, provocò dissesti al bilancio della famiglia, tanto che dal 1803 il governo domestico passò nelle mani dell’arcigna Adelaide e la cura del patrimonio fu legalmenteaffidata,pertutela dei creditori, a un amministratore giudiziario (l’interdizione di Monaldo cessòsoltantonel1820). Giacomo, prigioniero di una «ostinata nera orrenda barbara malinconia»2 ma infiammato da «grandissimo, forse smoderato e insolente desideriodigloria»,3sitrovò presto a soffrire, nella sua «porca bicoccaccia»,4 dell’incomprensione di un ambientegelidamentegrettoe conformista: machecredeEllamai?ChelaMarcae ’lmezzogiornodelloStatoRomanosia come la Romagna e ’l settentrione d’Italia? Costí il nome di letteratura si sente spessissimo: costí giornali accademie conversazioni librai in grandissimo numero. […] Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte,tuttoèinsensataggineestupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteraturaèvocaboloinudito.5 Crebbeinunclimadiangusto classicismo retorico, tipico dell’educazione gesuitica, e di rigida ortodossia confessionale, non assimilabile al nuovo fervore religioso della cultura romantica. Ebbe modesti insegnanti privati: fino al 1807, don Vincenzo Diotallevi e il gesuita messicano Giuseppe Torres (già precettore di Monaldo); poi, fino al 1812, don Sebastiano Sanchini della diocesi di Rimini. Piú si avvalse dei consigli di un amico del padre, il colto don Giuseppe Antonio Vogel (1756-1817), un alsaziano esule in Svizzera durante la Rivoluzione, quindi in Italia, prima a Fermo, poi (almeno dal 1806) a Recanati come professore di Storia ecclesiastica nel locale Seminario e dal 1809 canonicodellaCattedrale(nel 1814 trasferito a Loreto). Ma la sua vera formazione avvenneautonomamente,con prodigioso e frenetico autodidattismo, nella ricca biblioteca (circa quattordicimila volumi) teologico-storico-erudita, piuttosto che letteraria, costituita dal padre con le liquidazioni dei fondi librari ecclesiastici,svendutidurante leoccupazioninapoleoniche.6 Qui il ragazzo si applicò a letture febbrili, apprendendo per proprio conto il greco e l’ebraico. «Giovanetto, Recanati era per lui la stanza della biblioteca paterna; vi entrò recanatese, ne uscí cittadinodelmondo.Chétale è la scienza, la quale rende l’uomo contemporaneo de’ passati e meditativo dell’avvenire, e dà all’anima un occhio che abbraccia l’universo».7 L’implacabile contessa Adelaide mantenne con il figlio un distacco freddo e cerimonioso: sconcertante personaggiomaternochesiè guadagnato, nell’epistolario leopardiano, un misero ruolo di comparsa.8 Tenace e drammatico fu invece il legame con il padre. Orfano all’età di quattro anni, Monaldo aveva mitizzato il ruolo della guida paterna che a lui era mancata. E volle verso i figli esercitare questo ruolo con ferrea coerenza, persuaso di agire per il loro bene, specie nei riguardi del primogenito che profondamente amava a suo modo e orgogliosamente ammirava. Recanati era la nicchia a cui Monaldo si sentiva avvinto da continuità di sangue e di tradizione. Lí nasceva e moriva la sua geografia: fuori era il regno della corruzione e del caos, dell’intrigo e della perfidia, dèmoni ch’egli esorcizzava vigilando sulla quiete morale ereligiosadellasuacasaedei suoi cari. Il padre fu da Giacomo prima venerato come modello umano e intellettuale, poi rifiutato come esempio antitetico di cultura, ideologia, sensibilità, senza che s’infrangesse tuttavia il vincolo d’affetto. Nel figlio la docilità e la tenerezza sentimentale si coniugavano alla risolutezza del carattere e dell’ingegno. La volontà di compiacere il padre e di assecondarne l’etica familiare si scontrarono con l’inevitabile necessitàdelladisubbidienza, con l’opposto dovere di seguire le proprie inclinazioni. Erano due forze d’intensità equivalente che aprironounaferitainsanabile: un conflitto di rancore e di amore che generò dubbi, rimorsi, perplessità angosciose. La scoperta e l’affermazione di sé reclamavano un oltraggio all’altare domestico: un’infrazione che la ragione approvava e sosteneva, senza riuscire a cancellare il peso dellacolpa. Nei lavori eruditi della fanciullezza, insieme a scolastiche ingenuità, già s’intravede in Giacomo la passioneprecocedelfilologo, chedaràpoieccellenteprova di sé. A fianco di numerosi testipoetici«puerili»,acuisi dedicò – undicenne – dal 1809, con traduzioni e «dissertazioni filosofiche», compose anche due tragedie, entrambe in tre atti: La virtú indiananel1811ePompeoin Egitto nel 1812. Nel 1813 compilò la Storia della Astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXI (edita da Giuseppe Cugnoni nel 1880). Nel 1814 s’impegnò nello studio di Esichio Milesio, di Porfirio (Porphyrii de vita Plotini et ordine librorum eius), dei Retori (Commentarii de vita et scriptis rhetorum quorundamqui IIp.Ch.saec. vel primo declinante vixerunt).9 Tra il 1814 e i primi mesi del 1815 portò a termine le indagini sui frammenti dei Padri greci (Fragmenta Patrum Graecorum) e sugli scrittori di storia ecclesiastica (Auctorum Historiae EcclesiasticaeFragmenta). Nel 1815, oltre al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (pubblicato da Prospero Viani nel 1846) e allostudiosuGiulioAfricano (Sexti Iulii Africani quae supersunt omnia), compose nel maggio-giugno Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno (edita nel 1878), dopo la vittoria austriaca di Tolentino,il3maggio,contro Gioacchino Murat. Era la medesima occasione che al Manzonitrentennenell’aprile 1815(primadellasconfittadi Murat: «Signor che la parola haiproferita,/chetanteetadi indarnoItaliaattese»,vv.2-3) dettava i versi concitati della canzone–lasciataincompiuta dopoTolentino–Ilproclama diRimini, entusiastico elogio delrediNapolieinno«delle imprese alla piú degna» (v. 1), vale a dire all’unità e all’indipendenza nazionale (a cui il poeta faceva «scientemente»10sacrificiodi un brutto verso: «liberi non sarem se non siam uni», v. 34). Al Leopardi diciassettenne invece, ligio all’ortodossia monaldesca, l’epilogo fallimentare di questa precipitosa avventura militare giungeva come un sollievo. Anzi gli ispirava l’enfasi di una prosa eloquente e declamatoria che recuperava dalla classicità il mito antitirannico in chiave legittimista, con vibrati accenti antifrancesi specie all’indirizzo del «barbaro carnefice»11 Murat, in accordo con il clima dell’Europa restaurata: accordo però parziale, stante l’auspicio dell’«indipendenza italiana»,12 da Giacomo desiderata ma ritenuta impossibile,tantopiúsottola guida di «un uomo straniero di patria e d’interessi», un «usurpatore» e un «tiranno» che finge «sentimenti liberali».13 Riguardo all’effettivo significato dell’impresa di Murat, politicamente ambigua e velleitaria,l’asprogiudiziodi Leopardi risulta piú aderente alla realtà storica del commosso entusiasmo di Manzoni. Nello stesso 1815 approntò la traduzione degli IdillidiMosco(astampa,con il Discorso sopra Mosco, nel milanese «Lo Spettatore», 31 luglio-15 novembre 1816) e della Batracomiomachia, il poemetto pseudomerico sulla battagliadelleraneedeitopi (a stampa, insieme al Discorso sopra la Batracomiomachia, su «Lo Spettatore», 31 ottobre e 30 novembre 1816).14 Nel 1816 pubblicòleNotizieistorichee geografiche sulla città e chiesa arcivescovile di Damiata (Loreto, Tip. Rossi, giugno1816);ilPareresopra ilSalterioebraico,versificato da Giovambattista Gazola, sulla italianizzazione dell’abate Giuseppe Venturi contestoenote,Verona,Tip. Mainardi, 1816 («Lo Spettatore», 31 ottobre e 15 novembre 1816); Della fama di Orazio presso gli antichi («Lo Spettatore», 15 dicembre 1816). Sempre nel 1816 avviò (il 30 luglio) la tragedia Maria Antonietta (rimasta allo stadio di abbozzo), ma soprattutto tradusse i testi del grammatico latino Frontone scoperti in un palinsesto ambrosiano e pubblicati a Milano nel 1815 da Angelo Mai (bibliotecario dell’Ambrosiana dal 1811, poidal1819prefettoaRoma della Vaticana), le Iscrizioni Triopèe di Marcello Sidete (già trasposte in versi italiani daEnnioQuirinoViscontinel 1794), il I libro dell’Odissea («LoSpettatore»,30giugnoe 15 luglio 1816), il II dell’Eneide (Milano, Pirotta, 1817) e il poemetto pseudovirgiliano Moretum, con il titolo La Torta («Lo Spettatore», 15 gennaio 1817). Nel 1817 era la volta della Titanomachia esiodea («Lo Spettatore», 1o giugno 1817) e dei frammenti di Dionigi d’Alicarnasso rinvenuti in due codici ambrosiani e stampati a Milano nel 1816 da Mai, nonché della Lettera al Ch. Pietro Giordani sopra il DionigidelMai. Il furore di una simile forsennataapplicazionelasciò anche il segno della rovina nella salute dell’adolescente (nel 1815 la scoliosi e una pericolosa irritabilità della vista): insommaiomisonorovinatoconsette anni di studio matto e disperatissimo [1809-1816] in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i piú; e coi piú bisognaconversareinquestomondo.15 D’ora innanzi l’assillo della malattiaacuílasuasensibilità inquietaepiúdecisamentelo orientò alla consapevolezza della fragilità dell’individuo come essere biologico, all’amara coscienza di un immedicabile patimento connesso alla deperibilità dell’organismoumano.16 Risale circa al 1816 quella che il poeta piú tardi chiamò la sua «conversione letteraria», cioè il graduale spostamento d’interesse dagli studi eruditi (dalla «pura e secca filologia»)17 alla poesia,ilpassaggiodalsapere come retorica al «bello» come conoscenza interiore chefa«ingigantirel’anima»: Le circostanze mi avevan dato allo studio delle lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio gusto: io disprezzava quindi la poesia. Certo nonmancavad’immaginazione,manon credettid’esserpoeta,senondopoletti parecchi poeti greci. […] Il mio passaggio però dall’erudizione al bello non fu subitaneo, ma gradato, cioè cominciando a notar negli antichi e negli studi miei qualche cosa piú di prima.18 Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e far mioquellocheleggo,nonhandatoaltri che i poeti, e quella smania violentissimadicomporre,nonaltriche lanaturaelepassioni,mainmodoforte edelevato,facendomiquasiingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire, fra me: questa è poesia, e per esprimere quello che io sento ci voglion versi e nonprosa,edarmiafarversi.19 Iosonoandatounpezzointracciadella erudizione piú pellegrina e recondita, e dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a questostudioprofondamente,tantoche hoscrittodaseiosettetominonpiccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato) […]. È un anno e mezzo che io quasi senza avvedermene mi son dato alle letterebellecheprimanoncurava.20 Il che comportava una diversa, non formalistica, lettura dei classici e insieme una piú adulta maturazione intellettuale: la ricerca di un contatto piú aperto con gli altrieconlaculturanazionale che tumultuava fuori e lontanodallasuabiblioteca;il bisogno di evadere dalla strettezza del municipalismo locale. Appunto nel 1816, l’annod’esordiodellacontesa classico-romantica, inviò il 18 luglio alla milanese «Biblioteca Italiana» la Lettera ai Sigg. compilatori della «Biblioteca Italiana» (nonpubblicatadallarivistae rimasta inedita fino al 1906), in risposta agli articoli di Madame de Staël: il versante dei classicisti era súbito scelto da Leopardi come l’interlocutorepiúcongeniale, in antitesi con le posizioni romantiche. Ma per lui di un classicismo sui generis si trattava, perché inteso non come imitazione di modelli antichi, ma come ritorno (impossibile) all’antichità, allanatura,allaforzaaurorale di una sensibilità potente e incontaminata. Non importavano infine né le ragioni dei romantici né lo zelo accademico dei classicisti, sí bene e soltanto la rivitalizzazione d’una primigeniaeschiettaumanità. Ecco allora che nel 1816, insieme agli studi eruditi e alle traduzioni, s’inaugurava l’iter sperimentale del poeta: inprimaveral’idillioinsciolti Le rimembranze (presto «riprovate assolutamente dall’autore» nell’Indice dei propri scritti il 16 novembre 1816);21poil’InnoaNettuno, chefinsetradottodalgreco;22 le due anacreontiche Odae adespotae(l’unoelealtresu «Lo Spettatore», 1o maggio 1817); in estate la «burletta anacreontica»23 La dimenticanza (che ha per protagonisti Giacomo, Carlo, Paolina e il pedagogo Diotallevi); in novembredicembre il primo «poema originale», l’Appressamento della morte (cinque canti in terzine, inedito fino al 1880: manesaràtrattonel1835per l’edizione Starita dei Canti, con varianti sostanziali, il Frammento XXXVII). Quindi nella primavera 1817 compose i cinque Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio24 e il 2729 novembre il sonetto Letta la vita di Vittorio Alfieri scritta da esso. Nel febbraio dellostesso1817,inunasorta direazioneacatenadopoche s’era infranta la tutela familiare,avviavailcarteggio con un classicista di grande autorità e dottrina e intelligenza civile come Pietro Giordani (cui ha inviatoindonoil21febbraio la traduzione del II libro dell’Eneide), súbito divenuto suo consigliere ed estimatore entusiasta, con fervida reciprocitàdiaffetti: Oh, quante volte, carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovareunuomodicuored’ingegnoedi dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermil’amiciziasua.25 Con il luglio-agosto 1817 aveva inizio lo Zibaldone (pubblicato nel 1898-1900) e nel dicembre Giacomo conosceva anche la prima emozione d’amore (non dichiarata)perlaventiseienne cugina del padre, Geltrude Cassi (1791-1853) di Pesaro, sorella di Francesco Cassi e sposa dal 1808 di Giovanni Giuseppe Lazzari, venuta ospite in casa Leopardi dall’11 al 14 dicembre: ne è rimasta immediata testimonianza – súbito successivaallapartenzadilei – nelle Memorie del primo amore e nell’Elegia I (nei Canti, con il titolo Il primo amore). Nel marzo 1818 il poetaventenneribadivailsuo rigenerato, eccentrico quanto originale classicismo nel polemico Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica(invanodestinatoa «Lo Spettatore», ma rimasto inedito fino al 1906), in rispostaalleOsservazioni del Cavalier Lodovico di Breme sulla poesia moderna, apparsesu«LoSpettatore»il 1o e 15 gennaio 1818;26 quindi componeva l’Elegia II (di cui sopravvive nei Canti del 1835, con varianti, il Frammento XXXVI), probabilmenteispiratadauna nuova visita di Geltrude Cassi. Nel settembre-ottobre – dopo colloqui diretti con Giordanichesièintrattenuto a Recanati cinque giorni, dal 16 al 21 settembre – dava voce a un’animosa ispirazionepatriotticaecivile, in antitesi con le idee di Monaldo, nelle due canzoni «eroiche»All’ItaliaeSoprail monumento di Dante (Roma, Bourlié, gennaio 1819, con data 1818), accompagnate da una lettera dedicatoria a VincenzoMonti. Poi, nel luglio 1819, il maldestrotentativodifugada casa, scoperto e impedito dal padre. La lettera che a lui Giacomo scrisse in questa circostanza,mentrepreparava i bagagli per andarsene di nascosto – e che non arrivò nelle mani del destinatario, essendostatosúbitointerrotto il progetto d’evasione –, contiene le prime e ultime parole esplicite di denuncia contro il padre, contro la «fermezza straordinaria del suo carattere»27 che ha condottoilprimogenitoauna «risoluzione» imprevedibile, contro l’arroganza di un sistema educativo che esige dai figli «il sacrificio, non di roba né di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventú, e di tutta la nostra vita».28 Vibra l’eloquenza acuminata che nasce da un lungo silenzio: la chiarezza senza sottintesi di chi si è sentito in dovere di sottomettersi, di chi ha taciuto, sopportato, ubbidito, finché si è trovato con le spalle al muro, costretto a un «passo» risolutivo per non «morir […] di disperazione». In nessun’altra delle sue centotrentaseiletterealpadre, come in questa non letta da Monaldo, Giacomo ha esposto con pari energia le proprieragioni: Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello ch’io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sentirleprimeeultimevocidiunfiglio che l’ha sempre amata e l’ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere.29 Le prime «voci» senza reticenzasonodavveroanche le«ultime»,perchéquieora, tra le righe di questo «foglio […] indegno», è stato simbolicamente consumato l’atto del parricidio e Giacomo non potrà piú liberarsi dall’assedio della colpa, dal rimorso della sua sconfortata coscienza di «malfattore». Merita attenzione il paragrafo conclusivo: L’ultimo favore ch’io le domando, è chesemailesidesteràlaricordanzadi questo figlio che l’ha sempre venerata edamata,nonlarigetticomeodiosa,né lamaledica;eselasortenonhavoluto ch’Ellasipossalodaredilui,nonricusi di concedergli quella compassione che nonsineganeancheaimalfattori.30 Di qui occorre considerare l’intera corrispondenza con il padre, da questa lettera anomala che si distingue per la sua assoluta unicità d’accento,percapirelo«stile della dissimulazione»31 – intessuto di reticenze, allusioni, ambiguità – poi costantemente adottato da Giacomo con Monaldo: non doppiezza, bensí dolente bilanciamento tra dovere e ribellione, tra fedeltà alla pietasfamiliareefedeltàase stesso.Questaletteraspiegail meccanismo di censura e di autocondizionamento che ha condannato la scrittura epistolare del figlio a una cifra coatta, perché tenuta a frenodaun’angosciadilutto. L’eloquenza tesa, a fronte alta, del luglio 1819 rimarrà non altro che un ricordo: «il mio carattere è di chiudere nel profondo di me stesso tutti gli affanni e le affezioni vere», confiderà piú tardi a Monaldo.32 Si avviava in questo stesso 1819, ma si approfondiva dal 1822-’23 finoal1825-’26,lacosiddetta «conversione filosofica», con il passaggio dalla letteratura «alla ragione e al vero»,33 dallapoesiaallafilosofia,dal confessionalismodevozionale della fanciullezza a un convincimento ateo e materialistico, elaborato sulla base dell’atomismo greco e del sensismo settecentesco (che è cosa ben diversa dall’illuminismo ottimistico). La rivelazione del «vero», e dellavitacomenull’altroche dolore,fuun’autenticacrisidi disperazione (prossima al suicidio),resapiúacutadaun graveesaurimentofisiconella primavera 1819, con forte indebolimento della vista, e poi dal fallito tentativo di fugadacasa.34 Alle concitate canzoni politiche del 1818 si affiancavanoidueincompiuti drammi pastorali, Erminia (1818-’19), liberamente derivata dalla Liberata di Tasso, e Telesilla (1819), da un episodio del Girone il cortese (1548) di Luigi Alamanni; poi i materiali degli Inni cristiani (1819), quindi il dettato disteso, pacato, contemplativo dei sei idilli del 1819-’21 e l’irta condensazione espressivoconcettualedelleottocanzoni del 1820-’23: la prima delle quali,AdAngeloMai,editaa Bologna, da Marsigli, nel luglio 1820, con dedica al conte liberale vicentino LeonardoTrissino. Recluso nelle pareti della sua biblioteca, il poeta soffriva dell’ostilità che avvertivaintornoasé,sentiva lavitacomeunaguerrasenza quartiere e reagiva con dignitosa, indomita, drammaticamente ilare fierezza: Tutti noi combattiamo l’uno contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere. Ciascuno è nemico di ciascuno, e dalla sua parte non ha altri che se stesso. […] Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà dime,finchénonpotràspargermiperla campagna, e divertirsi a far volare la miacenereinaria.35 2.ROMA L’uscita per la prima volta dalla «tana»36 di Recanati fu possibile dal 17 novembre 1822 al 3 maggio 1823, quando i genitori permisero a Giacomo venticinquenne di soggiornare a Roma, ospite dello zio materno Carlo Antici.L’uscita,peraltrosotto scortaevigilatadalcontrollo dello zio, era tardiva e anche perciò profondamente deludente: dellegrancosecheiovedo,nonprovo ilmenomopiacere,perchéconoscoche sono maravigliose, ma non le sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezzalorom’èvenutaanoiadopo ilprimogiorno.37 L’isolamento, finora sofferto nell’eremitaggio del paese, era divenuto abito interiore e l’incontro con il mondo di fuori, tanto ansiosamente desiderato, finí per essere dolorosa conferma di un’invincibile inadattabilità alle relazioni sociali. Confidava a Giordani, proprio al termine del soggiornoromano: [il mio spirito] assuefatto per lunghissimo tempo alla solitudine e al silenzio, è pienamente ed ostinatissimamente nullo nella società degliuomini,etalesaràineterno,come mi sono accertato per molte anzi continueesperienze.38 La grande città lo avvilisce e lonausea: Tutta la grandezza di Roma non serve adaltrocheamoltiplicareledistanze,e ilnumerode’gradinichebisognasalire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano gli uomini.39 L’inganno delle aspettative è comunicato nella bellissima letteraaCarlodel6dicembre 1822, dov’è acutamente diagnosticata l’angoscia dell’anonimato, della perdita d’identità, della «noia» terribile che si può soffrire nel vortice della vita metropolitana. Il fratello, rimasto al paese, immagina l’ambiente cittadino come luogo di delizie, di distrazioni, di gratificazioni intellettuali, di piaceri anche erotici. Giacomo lo dissuade. In mezzo alla folla si sente perdutamente solo e ne soffre; perciò desidera l’effettiva solitudine, perché in questo modo può sentirsi appagato dalla vera compagnia che gli dà sollievo, quella delle persone che ama e quella del suo «cuore»: Veramente per me non v’è maggior solitudine che la gran compagnia; e perché questa solitudine mi rincresce, però desidero d’essere effettivamente solitario, per essere in effettiva compagnia, cioè nella tua, ed in quella delmiocuore.40 Giacomo rifiuta tuttavia di essere considerato «misantropo», «codardo», «bigotto». Non di questo si tratta e anzi spiega a Carlo chelapropriaseveradiagnosi dell’ambiente cittadino discende dall’«esperienza» e dalla«cognizione»disé: In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda,perchélasferaècosígrande, che l’individuo non la può riempire, nonlapuòsentireintornoasé,equindi non v’ha nessun punto di contatto fra essaelui.Daquestopotetecongetturare quanto maggiore e piú terribile sia la noiachesiprovainunagrandecittà,di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione,anzispassione,dell’uomo,ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitivadell’uomo,inquestiluoghi,si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si rifletteinverunmodonell’interno.41 L’ultimopuntoèrilevante.La sensazione esclusiva del «vedere» vuol dire che l’individuoèspettatorediuno spettacolo al quale non può prendereparte: L’attirare gli occhi degli altri in una gran città è impresa disperata; e veramentequestetalicittànonsonfatte senonperimonarchi,operuominitali che possano smisuratamente soverchiarelamassimapartedelgenere umanoinqualcheloropregioperlopiú di fortuna, come ricchezza immensa, dignità vicina a quella di principe, o cosesimili.Fuoridiquesticasi,voinon potete godere di Roma, e delle altre città grandi, se non come puro spettatore:elospettacolodelqualev’è impossibile di far parte, v’annoia al secondo momento, per bellissimo che sia.42 Lostatusdelvoyeur,chepure rende ragione di non pochi comportamenticollettivinella moderna società industrializzata,nonsiaddice pernullaaGiacomo,allasua risoluta ambizione di essere attore, non spettatore. La lettera a Carlo passa in rassegna le attese deluse anche in merito alla piú riservata cronaca delle faccendeamatorie: mi ristringerò solamente alle donne, e allafortunachevoiforsecredetechesia faciledifarconessenellecittàgrandi. V’assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedevamanifestamentecheciònonera per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutteledonnechequis’incontranosono cosí. Trattando, è cosí difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto piú, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza diquestebestiefemminine,cheoltredi ciònonispiranouninteressealmondo, sonopiened’ipocrisia,nonamanoaltro cheilgirareedivertirsinonsisacome, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donnepubbliche,lequalitrovoorache sono molto piú circospette d’una volta, e in ogni modo sono cosí pericolose comesapete.43 Le aspettative di Giacomo, lontano da casa, erano evidentemente di genere vario. Dal piano della riflessione esistenziale, il colloquio a distanza con il fratello è passato a toccare, sul tema delle «donne» che «non la danno», un tasto di piú confidente complicità cameratesca. Ma Carlo, com’era facile prevedere, nonostanteletanteproveche gli sono state portate in contrario,restadellasuaidea, e lo dice senza peli sulla lingua nella risposta del 12 dicembre: Iononsocontraddireindettaglioatutti i ragionamenti che tu mi fai, ma in massa,miparecheabbitorto,egrande. […]Sicchéchiprovatroppononprova uncazzo.44 Con le premesse di tale disposizione psicologica, che Carloliquidavaconsbrigativa franchezza, Giacomo visse a Roma isolato e in solitudine, indifferenteallamagnificenza della città, deluso dalla mediocrissima cultura prelatiziaeantiquaria,45onde frequentò per lo piú dotti stranieri che giudicava «ben altra cosa che i Romani»,46 come il grecista Friedrich Wilhelm Thiersch,47 professore a Monaco, ma soprattutto l’archeologo prussiano Christian Bunsen e lostoricoBartholdNiebuhr,48 ambasciatore di Prussia a Roma dal 1816 al 1823. Sconfortato dall’esperienza a lungo desiderata della grande città,atupertuconsestesso, afflittodallalatitanzad’affetti che ovunque lo inseguiva, scrisse al fratello Carlo: «Amami, per Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fattoperme».49 L’unico «piacere» che seppe provare in Roma confermava la sua estraneità al lussuoso clamore dell’orizzonte cittadino e dava invece prova del suo bisogno di appartata riservatezza e insieme di sensazioni che gli toccassero il «cuore». Rimase infatti commosso fino alle lacrime, ilvenerdí15febbraio1823– segnata come data memorabile –, dinanzi alla tomba di Tasso, nella chiesa diSant’Onofrio: Venerdí15febbraio1823fuiavisitare ilsepolcrodelTassoecipiansi.Questo è il primo e unico piacere che ho provatoinRoma.Lastradaperandarvi èlunga,enonsivaaquelluogosenon per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbeancheveniredall’Americaper gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo cheleimmensespesechequivedofare nonperaltrocheperproccurarsiunoo un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro chedaunapietralargaelungacircaun palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nascedalconsiderareilcontrastofrala grandezzadelTassoel’umiltàdellasua sepoltura. Ma tu non puoi avere l’idea d’un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani,paragonandoliallapiccolezzae nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppure il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. […] Anche la strada che conduce a quel luogopreparalospiritoalleimpressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri taliistrumenti,edelcantodelledonnee degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di piúsempliceedipiúumanochequelle degli altri; e dimostrano i costumi e il caratteredipersone,lacuivitasifonda sulveroenonsulfalso,cioèchevivono ditravaglioenond’intrigo,d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questapopolazione.50 Non solo, dunque, la consolante commozione che nasce dal contrasto tra la «grandezza» vacua e l’«umiltà» gloriosa, tra l’«infinitamagnificenza»ela «nudità», ma anche la forte attrazione per la semplicità ordinataeoperosa,perimodi piú umani della gente che vive di quotidiana fatica, di contro al lusso scioperato, all’«impostura», all’«inganno». Si oppongono non soltanto antitetiche immaginidicittàedivita,ma anche modi diversi di essere: fisionomie, atteggiamenti, maniere, costumi, caratteri. Lo sguardo che osserva in prospettiva panoramica la strutturaurbana,indagaanche ivoltieigestidellepersone. A Roma Giacomo ultimò il 1o dicembre 1822 la traduzione del Martirio de’ Santi Padri, iniziata a Recanati il precedente 29 ottobre (poi Milano, Stella, 1826),51eripresealacremente l’attività filologica: pubblicò la recensione al Filone del monaco armeno Giovan Battista Aucher (Venezia 1822), le Notae di critica testuale al trattato De re publica di Cicerone scoperto nel1819daMaiinuncodice vaticano e stampato a Roma nel1822(l’unaelealtrenelle «Effemeridi letterarie di Roma», dicembre 1822) e il contributo che Giordani considerava «la maggior gloria di Leopardi come filologo sommo»,52 cioè le AnnotazionisopralaCronica d’Eusebio pubblicata l’anno MDCCCXVIII in Milano dai Dottori Angelo Mai, e Giovanni Zohrab (nelle «Effemeridi letterarie di Roma», in sei puntate, 1823, e in veste autonoma, Roma, De Romanis, 1823 [ma 1825]). Proprio l’editore delle «Effemeridi letterarie», FilippoDeRomanis,propose a Leopardi, nel dicembre 1822, di firmare un contratto per la traduzione di tutto Platone.53 Era il «grandioso […] lavoro»54 che – insieme alla versione dell’Odissea – lo zio Carlo Antici già nel 1816 aveva vagheggiato a onoreegloria(eperlasicura carriera) del nipote. Lo zio Carlo «era un reazionario realisticoeattivo,edelnipote avrebbe voluto fare non un puro erudito, ma un uomo di cultura militante per le idee sanfediste».55 Nel clima spiritualistico della Restaurazione, Platone – «quellotraifilosofiGreciche piú di ogni altro combatte il vilematerialismo,edelquale gli stessi SS. Padri si sono prevalsi nelle loro opere immortali»–56funzionavada antidoto contro il materialismo settecentesco, e non per nulla la cultura romantica europea ne stava promuovendo edizioni ragguardevolissime: la traduzione tedesca di Friedrich Schleiermacher (1804-’28), la stampa con traduzione latina di Friedrich Ast (1819-’32), la traduzione francese di Victor Cousin (1822-’40). La proposta dell’editore De Romanis non fuaccoltadaLeopardi,magli forníl’occasioneperlalettura sistematica dei dialoghi platonici e per interventi filologici.57 Con la mediazione di Niebuhr, nel fermo proposito di evadere da Recanati, Giacomo inoltrò nel marzo 1823 al cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato, domanda d’impiego come «Cancelliere del Censo in qualche importante Capoluogo di Delegazione».58 Ma l’istanza – come altre consimili: impiego alla Biblioteca Vaticana59 e piú tardi, con l’interessamento di Bunsen,60 all’Accademia di Belle Arti di Bologna – fu resa vana dall’ateismo e dal liberalismo del poeta, ben noti al Governo pontificio, dalla sua «avversione al sacerdozio», nonché dal suo rifiuto a «prender l’abito di Corte».61Cosínescriveva,da Roma, al fratello Carlo, il 22 marzo1823: In somma è quasi certo che s’io avessi volutofarmiprelato,tufrapocoavresti sentitochetuofratelloinmantellettase n’andava a governare una provincia. […]Iomidiediun’occhiatad’intorno,e conchiusi di non volerne saper niente. Leragioni,chetipotreidire,sonmolte: io credo che tu convenga con me; in caso diverso, assicurati almeno che io non presi questa risoluzione per irresoluzione e poco coraggio: ma perchédamoltotempo,eprimadivenir qua, e molto piú dopo venuto, io ho fatto questa deliberazione che la mia vita debba essere piú indipendente che sia possibile, e che la mia felicità non possa consistere in altro che nel fare il miocomodo.Lamianaturaportacosí, e me ne sono accertato per tante esperienze che non ne posso piú dubitare.62 Con il ritorno «al silenzio ed all’oscurità»63 del «natio borgo selvaggio» (Le ricordanze, v. 30) svanirono molte speranze. Ma non cedeva allo sconforto della «vanità» del «tutto». Annotava in Zib. 3990 (17 dicembre 1823): «Tutto è follia in questo mondo fuorchéilfolleggiare.Tuttoè degno di riso fuorché il ridersiditutto.Tuttoèvanità fuorché le belle illusioni e le dilettevolifrivolezze». La prima notevolissima silloge poetica, dal titolo Canzoni (le dieci del 1818-’23), con il supporto eruditoeironicamentearguto delle Annotazioni – contro il purismo angusto della Crusca, in nome di un purismo modernamente piú consapevole, come quello della Proposta montiana –, apparve a Bologna, presso Nobili, nel 1824, a spese dell’autore: segnava il congedo (temporaneo) dalla poesiaperlaconversionealla prosa, quindi l’approdo alla meditazione filosofica dopo la fase delle liriche «illusioni» e della protesta eroica. Dal gennaio al novembre,aRecanati,scrisse le prime venti Operette morali, poi in volume a Milano, presso Stella, nel giugno 1827 (lo stesso mese della stampa del terzo tomo, presso Ferrario, dei Promessi sposi).64 3.MILANO,BOLOGNA, FIRENZE,PISA Sempre piú incalzava l’ansiadiallontanarsidacasa. Il 12 luglio 1825 partí per Milano, invitato dall’editore Antonio Fortunato Stella che contava di averlo come direttore per l’edizione di tutte le opere ciceroniane.65 GiunseaBolognail18edalí proseguí il 27 per Milano, doverimasecircaduemesi– in casa Stella –, fino al 26 settembre.66 Si illudeva, nonostante l’estrazione nobiliare e a dispetto delle deboli risorse fisiche, di potersi guadagnare da vivere con il proprio lavoro. Per qualche tempo – dall’ottobre 1825allafinedel1828–poté contare su un assegno mensile di dieci scudi (venti dal gennaio 1826) che riceveva dall’editore Stella, per il quale curò un’edizione commentata delle Rime di Petrarca (Milano, Stella, giugno1826,2voll.)eallestí una Crestomazia prosastica (ivi, id., ottobre 1827), composta tra l’autunno 1826 e l’estate 1827, recensita senza favore da Francesco Ambrosoli, in «Biblioteca Italiana» (XLVIII, ottobredicembre 1827), seguíta da una Crestomazia poetica (Milano, Stella, novembre 1828), composta tra il dicembre 1827 e il giugno 1828. Il 26 settembre 1825 lasciòMilanoegiunseil29a Bologna, ove si fermò oltre un anno, fino al 3 novembre 1826, dimorando in strada Santo Stefano. La conversione alla prosa si accompagnò ai volgarizzamenti – con altri lasciati incompiuti o soltanto progettati – specie di moralisti greci: le Operette morali di Isocrate (le prime tre, dal 15 dicembre 1824 al 12 gennaio 1825; l’Orazione areopagitica, dal 9 al 29 marzo 1825; il preambolo, febbraio1826:astampanelle Opere, a cura di Ranieri, 1845); frammenti dei Caratterimorali di Teofrasto (forseottobre1825,astampa nel 1906); il Manuale di Epitteto(trail22novembree il 6 dicembre 1825, a stampa nelle Opere del 1845); Ercole, favola di Prodico (novembre-dicembre 1825, a stampa nelle Opere del 1845); l’Orazione del bizantino Giorgio Gemisto Pletone in morte dell’imperatrice Elena (1826, nel milanese «Nuovo Ricoglitore», febbraio 1827, con il Discorso introduttivo). Il Manuale di Epitteto avrebbe dovuto inaugurare, presso lo Stella, la collana (non realizzata) «Scelta di Moralisti greci tradotti», per la quale Leopardi aveva redatto l’Avviso degli Editori.67 Per l’elaborazione delleOperetteeraimportante, con i moralisti greci, nonché le letture e riletture di Luciano, anche lo studio – specie nel febbraio 1825, condotto sul vol. VII dell’edizione fiorentina, a cura di Giovanni Lami, delle Opere dell’olandese Jan Van Meurs, o Meursius (17411763, 12 voll.) – dei taumasiografi o paradossografi alessandrini, Antigono Caristio, Apollonio e l’epigono d’età romana Flegonte di Tralles: scrittori eruditi, curiosi di fenomeni naturali, di usi e costumi bizzarri, con un gusto spiccatoperilparadossaleeil prodigioso.68 Mentre Giacomo si trovavaaBologna,Vieusseux gli scrisse, da Firenze, il 1o marzo 1826, per inviargli il fascicolo 61 (gennaio 1826) dell’«Antologia», contenente in anteprima, per volere di Giordani, tre Operette: il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il Dialogo di Cristoforo Colombo e il Dialogo di Torquato Tasso. Ma soprattutto gli comunicava il desiderio di vedere il giornale «fregiato» del suo nome e, «piú del nome ancora», dei suoi «eccellentiscritti».Glioffriva pertanto una collaborazione fissa all’«Antologia», retribuita«untantoafogliodi stampa», e chiudeva con un appello patriottico: «Non ve lo dimando per me, ma per questa cara patria, che tanto amate».69 Il poeta – al di là delsinceroereciprocoaffetto personale – respinse l’invito, lusinghiero, a strettissimo girodiposta,il4marzo,con una lettera memorabile, dove indugiavasullasua(presunta) ignoranza in tema di «filosofia sociale», ma per chiarire la distanza polemica che lo teneva lontano dall’attivismoimprenditoriale e dall’ottimistico utilitarismo dellaculturacontemporanea: La vostra idea dell’Hermite des Apennins, è opportunissima in sé. Ma perché questo buon Romito potesse flagellare i nostri costumi e le nostre istituzioni, converrebbe che prima di ritirarsinelsuoromitorio,fossevissuto nel mondo, e avesse avuto parte non piccola e non accidentale nelle cose della società. Ora questo non è il caso mio.Lamiavita,primapernecessitàdi circostanzeecontromiavoglia,poiper inclinazione nata dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono piú absent di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato. […] Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima partedell’universo,echeimieirapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente.Peròsiatecerto che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensí sonoassuefattoadosservardicontinuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezzaedègraditoinquestosecolo; è bensí utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e cosí mi aiuta a sopportarl’esistenza;manonsoquanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale.70 A Bologna conobbe e amò, al solito non corrisposto, la quarantunenne contessa Teresa Carniani Malvezzi (1785-1859), fiorentina, dilettante di belle lettere(traduttricediCicerone e di Pope), nonché amica e corrispondente di Monti, moglie dal 1801 del conte bolognese Francesco Malvezzi. Riferí di lei (senza nominarla)alfratelloCarloil 30 maggio 1826, parlandone come di una donna-angelo,71 ma l’incantesimo sfumò in fretta.72 Il 28 marzo 1826, lunedí di Pasqua, lesse nella sala dell’Accademia dei Felsinei73 l’epistola in sciolti dedicataalconteCarloPepoli (1796-1881), letterato liberale,esuledopoimotidel 1831.74 Nel 1826, presso la bolognese Stamperia delle Muse, uscí, a spese dell’autore, la raccolta dei Versi, che include tutti i testi approvati non compresi nelle Canzoni del 1824: i sei idilli del 1819-’21, le due elegie, i cinque Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio,l’epistolaaPepoli,il volgarizzamento in tre canti della Batracomiomachia (terza e ultima versione) e dellaSatirasopraledonnedi SemonidediAmorgo.75 Rientrato il 12 novembre 1826 nella sua «porca città»,76ripartíperBolognail 23 febbraio 1827 e il 21 giugno, invitato da Vieusseux, giungeva a Firenze, dove si fermò oltre quattro mesi, fino al 9 novembre. Qui compose il Dialogo di Plotino e di Porfirio ed ebbe modo di frequentare il cenacolo dell’«Antologia»: oltre a Stendhal, incontrò Manzoni (laseradilunedí3settembre, in Palazzo Buondelmonti, al ricevimento offerto da Vieusseux in onore dell’autore dei Promessi sposi), Capponi, Montani, Niccolini, Colletta, Tommaseo (che gli si mantenne sempre malevolmente ostile, dopo l’episodio dell’edizione ciceroniana nel 1825) e nel giugno 1828, sempre a Firenze, tramite Alessandro Poerio, anche il giovane intellettuale napoletano Antonio Ranieri (1806-1888) – esule dall’autunno 1827 perchéinsospettodisimpatie carbonare –, che fu, dal settembre 1830, suo compagno inseparabile, ma poi cronista maldestramente autoapologetico nelle tarde memorie dei Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi(1880).77 Dal 9 novembre 1827 al 10 giugno 1828 si trasferí a Pisa,78 dove risorse nell’aprile 1828 – dopo lo Scherzo del 15 febbraio – la voce per lungo tempo silenziosa del poeta con Il risorgimento e A Silvia. Quindi, trascorsi di nuovo alcuni mesi a Firenze, dal giugnoalnovembre,ilrientro a Recanati – il 20 novembre 1828, in compagnia di Vincenzo Gioberti, conosciutonell’ottobre,chea casaLeopardis’intrattenneun sologiorno–,inunesilio«di rabbia, di noia e di malinconia»,79 coincise con lagrandestagione(1829-’30) ditalunideicantipiúcelebri: Lericordanze,Laquietedopo la tempesta, Il sabato del villaggio,ilCantonotturno. 4.LAFUGADEFINITIVADA CASAEILSECONDO SOGGIORNOFIORENTINO Dopo «sedici mesi di notte orribile»,80 fuggí la mattina del 30 aprile 1830, questa volta per sempre, dal «soggiorno orrendo»81 di Recanati. Monaldo ha annotato nel Memoriale trasmesso nel 1837 ad AntonioRanieri:«Ioloviddi, quasi di trafugo e senza abbracciarlo, la sera del 29, perché il cuore non mi reggeva e lo viddi per l’ultimavolta».82 Dalla sua «orribile e detestatadimora»,83Giacomo non era mai partito, era sempre scappato, con il sentimento però di inappartenenza dell’esiliato che riascolta senza sosta dentro di sé il richiamo del «natio borgo selvaggio». La difficile e spesso osteggiata ricerca di un lavoro che gli consentisse di vivere libero fuoridicasa–dellasuaprima e unica casa –84 si infrenava con questo filo non spezzato che lo inseguiva ovunque, come un’attesa o una promessa di ritorno. Ma il ritorno alla «prigione» riaccendeva ogni volta, dopo una parentesi di taciturna convivenza con il padre, un nuovo bisogno di fuga, verso un “altrove” irraggiungibile, chesoloperoccasionepoteva prendere nome di Roma, Bologna, Milano, Firenze, Pisa, Napoli: tali i confini della limitatissima geografia fisica leopardiana. Non luoghidielezionemarifugio nascondigli, dimore senza riposo,provvisoriestazionidi un viaggiatore inetto alla felicità: tappe di un andare senza mèta che aveva come unico punto di arrivo l’impossibile allontanamento da Recanati. Dopo dieci anni di peregrinazioni, quando la pendolare circolarità di quest’immobile corsa verso l’ignoto stava per finire, il figlio confidava a Monaldo: «La vita in qualunque luogo mi è abbominevole e tormentosa».85 Lafugadefinitivadacasa, nell’aprile 1830, segnava nondimeno una data importante.IlCantonotturno, terminato il 9 aprile 1830, chiudeva la stagione del “risorgimento” pisano- recanatese e la chiudeva su una prospettiva universale che trascende l’orizzonte del borgo dov’erano lievitati gli altricanticoevi,daASilviaa Le ricordanze a La quiete dopo la tempesta a Il sabato del villaggio. Il borgo, trasceso liricamente, era ora trasceso anche materialmente eilpoetalasciavapersempre Recanati, per andare disperatoedecisoincontroal mondo, per misurarsi con gli altrieconsestesso.Segnodi una risolutezza nuova, che avrebbe dato nuovo accento agli scritti degli anni successivi. L’ideadellapartenza,con leincognitedeldoveandaree del come mantenersi, appariva dapprima impossibile: vigiurocheiononveggonépossibilità né speranza di lasciare questo esecrato soggiorno:sebbeneoramail’orroreela disperazione del mio stato mi condurrebbero, per uscire di questo Tartaro,adeporrel’anticaalterezza,ed abbracciarequalunquepartito,accettare qualunque offerta: ma, fuorché morire, non veggo compenso possibile, non essendobuonoafarnulla.86 Le gravi condizioni di salute non consentivano a Giacomo di fare assegnamento sul proprio lavoro: «Lo stato infelicedellamiatestanonmi permettenédiscrivere,nédi dettare, se non con grandissima fatica».87 Perciò molto confidava nel sostegno economico che poteva venirgli da un premio letterario. Con le Operette morali aveva infatti partecipato, nell’ottobre 1828, al concorso quinquennaledell’Accademia dellaCruscaperunpremiodi mille scudi da assegnarsi a un’opera che all’«importanza della materia» unisse «purità edeleganzadistile».Tantoci confidava, che l’8 gennaio 1830, facendo forza al proprio geloso e orgoglioso riserbo, chiese l’appoggio di Vieusseux, non accademico ma amico di accademici: «Si avvicina il tempo della decisionedellaCruscacircail premio quinquennale. Vi prego molto che raccomandiate l’affar mio a tutti quegli amici che giudicherete potermi giovare. Seiosperoalcunpoco,spero solamenteinvoiedinloro.Io ho perduto l’uso degli occhi, ma non la memoria de’ miei cari: vi rammento ogni giorno, e v’amo piú che la mia vita».88 Però nell’adunanza dell’Accademia del 9 febbraio 1830, su quindici votanti, soltanto un voto – molto probabilmente di Gino Capponi – fu assegnato alle Operette, uno alla Sacra scrittura illustrata con monumenti assiri ed egiziani di Michelangelo Lanci e trediciallaStoriad’Italiadal 1789al1814diCarloBotta. Svanita la speranza del premio, si rivolse di nuovo a Vieusseux: Sonrisoluto,conqueipochidanariche mi avanzarono quando io potea lavorare,dipormiinviaggiopercercar salute o morire, e a Recanati non ritornaremaipiú.Nonfaròdistinziondi mestieri; ogni condizione conciliabile colla mia salute mi converrà: non guarderò ad umiliazioni; perché non si dàumiliazioneoavvilimentomaggiore diquelloch’iosoffrovivendoinquesto centro dell’inciviltà e dell’ignoranza europea. Io non ho piú che perdere, e ponendo anche a rischio questa mia vita, non rischio che di guadagnare. Ditemi con tutta sincerità se credete che costí potrei trovar da campare dando lezioni o trattenimenti letterarii in casa; e se troverei presto; perché poco tempo mi basteranno i danari per mantenermi del mio. Dico lezioni letterarie di qualunque genere; anche infimo; di lingua, di grammatica, e simili. E vorrei che mi rispondeste subito che potrete, perch’io partirò presto, e secondo la vostra risposta determinerò se debbo voltarmi a Firenze, o cercare altri barlumi di speranza in altri luoghi. […] Vi fo questa domanda circa il dar lezioni, perché comporre, scrivere, leggere, io non posso. Potrei dar lezioni, o sia tenere scuola, facendo leggere ad altri.89 Non importava andare a Firenze,urgevalanecessitàdi lasciare Recanati, per «non ritornare mai piú». Non era una richiesta di aiuto ma un’implorazione e rivolta proprio a Vieusseux che nel marzo 1826 gli aveva invano offerta una collaborazione fissa e retribuita all’«Antologia». All’amico Pietro Colletta aveva espresso, il 22 novembre, la volontà di «deporre l’antica alterezza». Quell’ipotesi al condizionaleeraoradiventata realtà: «non guarderò ad umiliazioni». E quindi s’indusse ad accettare l’offerta, promossa da Colletta, degli «amici di Toscana»cheglimettevanoa disposizione un tributo mensileperunanno(laprima quota fu versata da Colletta nel maggio 1830, l’ultima il 1oaprile1831). Il 10 maggio 1830, dopo una sosta a Bologna, era a Firenze. Qui in ottobre conobbe il giovane filologo LouisDeSinner(1801-1860), originariodiBernaelaureato aTubinga,professoreaParigi dal 1828 al 1848. La conoscenza divenne calda amicizia e a lui Leopardi affidò tutti i suoi manoscritti filologici, nella speranza che riuscisse in qualche modo a ordinarli e pubblicarli. Era la definitiva rinuncia a continuare gli amati studi di filologia, sostanzialmente fermidal1828.90 In questo periodo si manifestarono le piú risolute opposizioni alle scelte culturali del poeta, con l’accusa di patriottismo passivo, di apoliticità e di disimpegno rivolta in specie alleOperettemorali,daparte di neoilluministi ottimisti, laici progressisti, spiritualisti, cattolici e dei piú eterogenei fautori della modernità, che nel materialismo e nel pessimismo leopardiani non riuscivano che a vedere la negazione del cosiddetto progresso, e non invece il rifiuto di ogni superficiale o interessatoostrumentalemito consolatorio: un rifiuto consapevole e severo, quanto vitalissimo,propostoinnome diuna«filosofiadolorosa,ma vera» (Tristano, par. 8), difesa con strenua e coerente oltranza contestativa. Il definitivo distacco da Recanati, paese odiato e al tempo stesso luogo di struggentimemorie,contribuí a determinare in Giacomo l’atteggiamento piú combattivo dei suoi ultimi anni, con rinnovati interessi civili che accentuarono il vigoredelsuoattaccosatirico controilconformismospesso miope degli intellettuali fiduciosi nelle «magnifiche sorti» (La ginestra, v. 51) di unafelicesocietàdimassa.91 Durante i moti del 1831, dal Comitato di Governo ProvvisoriodiRecanati,nella sedutadel20marzo,fueletto deputato presso l’Assemblea Nazionale convocata a Bologna, dove tuttavia in quello stesso giorno stavano per entrare le truppe austriache (la città fu occupata il 21), con il conseguente crollo del governo rivoluzionario.92 Il che permise al poeta, scrivendo il 29 marzo al Comitato recanatese, di evitareledimissioniformalie dichiarare «ineseguibili le disposizioni»93 che lo riguardavano, nonché di confidare lo stesso giorno al padre – allegando la lettera indirizzata al Comitato, del quale Monaldo era membro –: «Mio caro Papà. Spero ch’Ella sarà contenta dell’acclusa, ch’Ella suggellerà. Desidero però sommamentechelacittàela provincia si scordino ora totalmente di me e de’ miei: creda per certo che non possono farci cosa piú vantaggiosa».94 A Firenze uscí nell’aprile 1831, da Guglielmo Piatti, la prima edizione dei Canti:95 ventitré componimenti, dislocati nell’arco cronologico 1817-1830, con lettera dedicatoria, disperatamente funeraria, «Agli amici suoi di Toscana».96 Fiorentina è anche l’ultima e piú intensa passione d’amore – ancora una volta non ricambiata –: per Fanny Ronchivecchi (1805-1889), moglie del medico e naturalista Antonio Targioni-Tozzetti. Presentata alpoetadaAlessandroPoerio nella primavera 1830,97 la venticinquenne bella e colta Fanny ispirò i cinque canti del cosiddetto ciclo di Aspasia,iniziatoaFirenzema conclusoaNapoli:Ilpensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, poi, dopo la disillusione, A se stesso e Aspasia. Nel 1832 compose le ultime due operette – Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e Dialogo di Tristano e di un amico –, incluse nella seconda edizione delle Operette morali (Firenze, Piatti, giugno 1834).98 La consegna dei testi all’editore era avvenuta tra il luglio e l’agosto 1833. Per quest’edizione Giacomo incassò da Piatti quindici zecchiniemezzo. Quandonelgennaio1832 apparvero anonimi a Pesaro, presso Nobili, i Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno1831 di Monaldo99 – che ebbero enorme diffusione,conseiedizioniin tre mesi –, Giacomo non sopportò di vedersene attribuita la paternità, per errore o per malevolenza, e provvide in maggio a diramare pubbliche smentite: il 12 sull’«Antologia» – nel fascicolo che porta la data di marzo 1832 – e il 23 sul «DiariodiRoma».100 Nel maggio 1832 veniva diffuso il manifesto del settimanale «Lo Spettatore Fiorentino»–manonebbeil placet governativo e rimase soltanto un progetto –, che Leopardi intendeva dirigere con Ranieri e che sarebbe dovuto apparire, in fascicoli di sedici pagine, il «sabato d’ogni settimana, cominciando dal principio di Giugno prossimo».101 Nel Preambolo, che annunciava unasortadianti-«Antologia», il poeta ribadiva la pervicace inattualità del suo pensiero, intento al perseguimento non dell’«utile» ma del «dilettevole». 5.NAPOLI Lasciò definitivamente Firenze il 2 settembre 1833, dopo una parentesi romana, dal 1o ottobre 1831 al 17 marzo 1832, e con il devoto Ranieri prese dimora a Napoli, dove redasse i centoundici Pensierieultimò la stesura del «libro terribile»,102 i Paralipomeni dellaBatracomiomachia.Nel soggiorno partenopeo compose anche la citata Aspasia, le due canzoni sepolcrali, la Palinodia al Marchese Gino Capponi e la satira in terza rima I nuovi credenti(ineditafinoal1906) control’ambientedellarivista «Il Progresso» (1832-1846), fondata a Napoli nel marzo 1832 e diretta da Giuseppe Ricciardi, con la collaborazione di Francesco Saverio Baldacchini e Raffaele Liberatore. Proprio su«IlProgresso»,chetentava di continuare in area meridionale la linea programmatica dell’«Antologia» soppressa nel1833,RaffaeleLiberatore, recensendo gli Inni sacri di Terenzio Mamiani (Paris, Éverat, 1832, poi Napoli, Tramater, 1833), metteva a confrontol’InnoaiPatriarchi compreso in questo volume con l’Inno ai Patriarchi leopardiano e assegnava al primolapalma:«sel’innodel poetarecanateseparràamolti piúriccodiprofondiconcetti, meglio ideato nella sua macchinae,comedicono,piú filosofico,nessunodiràcheal tutto piú poetico non sia quellodelnobilerampollodei Della Rovere».103 La recensione,uscitaneln.6del settembre-ottobre 1833, non offriva a Leopardi, giunto a Napoliproprioil2ottobre,un augurale benvenuto. Era anzi prova della radicale distanza che separava l’autore dei Canti dal clima culturale partenopeo, orientato su posizioni di ottimismo spiritualistico e provvidenzialistico. Qui «io vivo in perfettissimo isolamento da tutti», confidava Giacomo al padre.104 La sorda ostilità dei «nuovi credenti» risalta con efficaciainunaletterainviata da Alessandro Poerio – rientrato a Napoli nel 1833 – aTommaseo,cheeraperaltro a sua volta un ben noto professionista nell’esercizio della polemica antileopardiana: «Qui, caro Tommaseo, sono alcuni i quali non dicono il vero, o quel che lor sembra il vero, con altezza di animo, spassionatamente, senza odio né timore, come fate voi; ma gli dànno addosso ferocemente, vilmente, senza nominarlo, mostrandolo a dito,mordendolosottomanto di religione, accagionandolo di voler capovolgere la Società, toglier via la distinzione tra il vizio e la virtú, empire la terra di sangue. (Sono citazioni di un librettopocofapubblicato).E voi sapete quanto sieno candidi e mansueti i costumi delLeopardi,com’eglinonsi curi di far proseliti d’incredulità, quanto abborra dalle risse letterarie, quanto bene sopporti le altrui opinioni, e come sia lontano daogniipocrisia.Macostoro gli rimproverano appunto la sua schiettezza d’animo. E che? Vorrebbero forse che egli ostentasse la Fede, non avendola in cuore?».105 Nell’orizzonte cattolicoconfessionale dei «nuovi credenti», piú chiuso e intransigente del cattolicesimo liberale fiorentino, il materialismo ateo di Leopardi veniva inteso come miscredenza blasfema che portava con sé, al di là del piano religioso, anche un temibile tasso di pericolosità sociale, etica, politica. A Napoli, Giacomo entrò in rapporto con Basilio Puoti e una sua visita alla scuola privatadelmarchesepuristaè stata rievocata a distanza di molti anni in una celebre pagina di De Sanctis (La giovinezza, cap. XI), allora giovanissimoallievopresente come testimoneattore a quell’incontro: Ecco entrare il Conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentreilMarchesegliandavaincontro. Il Conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuareinostristudi.Tuttigliocchi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non soloparevaunuomocomeglialtri,ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vitas’eraconcentratanelladolcezzadel suo sorriso. Uno degli Anziani prese a leggere un suo lavoro. Il Marchese interrogòparecchi,eciascunodicevala sua.Poisivolseimprovvisoame:–E voi cosa ne dite, De Sanctis? – […]. Parlavo adagio, spiccato, e parlando pensavo, tenendo ben saldo il filo del discorso,escegliendoqueimodididire chemiparevanononipiúacconci,mai piúeleganti.[…]Quandoebbifinito,il Contemivolleasévicino,esirallegrò meco, e disse ch’io aveva molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente piú alla proprietà de’ vocaboli che all’eleganza; una osservazione acuta, che piú tardi mi venne alla memoria. L’invito a «porre mente piú alla proprietà de’ vocaboli che all’eleganza» ricalcava l’aureo precetto di Quintiliano («Prima est eloquentiae virtus perspicuitas»: Inst. orat., II 3 8), ma anche ribadiva una regola raccomandata al «Contino» dal suo Giordani nel lontano 1817 («La principal cosa nello scrivere mi pare la proprietà sí de’ concetti e sí dell’espressioni»)106 e dal «Contino» allora considerata una«veritàtantoevidenteche fu la prima di cui io m’accorsiquandocominciaia riflettere seriamente sulla letteratura».107 Quella stessa normache,dettadaGiacomo, sembrava al giovane De Sanctis «una osservazione acuta», al giovane Giacomo era sembrata, detta da Giordani, una «verità evidente». Un’altra notissima istantanea del Leopardi napoletano si deve al poeta August von Platen (morto trentanovenne, nel 1835, a Siracusa),entratoinrelazione d’amicizia con Giacomo tramite lo storico e saggista Heinrich Wilhelm Schulz, tedesco di Dresda, autore di un notevole profilo monografico leopardiano.108 Lettore entusiasta delle Canzoni bolognesi e dei Canti fiorentini, Platen ha annotato nel suo diario, in data5settembre1834: IlprimoaspettodelLeopardi,pressoil quale il Ranieri mi condusse il giorno stesso in cui ci conoscemmo, ha qualche cosa di assolutamente orribile, quando uno se l’è venuto rappresentando secondo le sue poesie. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallidoesofferente,edeglipeggiorale sue cattive condizioni col suo modo di vivere, poiché fa del giorno notte e viceversa. Senza potersi muovere e senzapotersiapplicare,perlostatodei suoi nervi, egli conduce una delle piú miserevoli vite che si possano immaginare.Tuttavia,conoscendolopiú da vicino, scompare quanto v’è di disaggradevole nel suo esteriore, e la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare, dispongon l’animo in suo favore. Io lo visitai spesso.109 Il 15 giugno 1835 Leopardi stipulò con l’editore napoletano Saverio Starita il contratto per la stampa completa delle Opere, previstainalmenoseivolumi, duedimaterialiinediti:110ma l’iniziativa fu presto troncata dalla censura, appena usciti i primi due (i Canti nel settembre e metà delle Operette nel gennaio 1836, con data 1835), sequestrati dalla polizia borbonica.111 Con questa seconda edizione dei Canti, i componimenti salivano da ventitré a trentanove, distribuiti in un arcocompresotrail1816eil 1835, sí che profondamente mutava la fisionomia del libro. Quanto alle Operette (questaterzastampaerastata limitata al primo dei due previsti tomi, perciò non completa ma compiutamente predisposta dall’autore, come informa la Notizia intorno a queste Operette, premessa al primo tomo), il numero dei testi doveva passare a ventiquattro (dai venti del 1827 e dai ventidue del 1834). Dopo l’interdizione dellacensura,Giacomopensò nel 1836 di pubblicare a Parigi, presso Baudry, una nuova e definitiva edizione dei suoi scritti, Pensieri inclusi.112 Per il progetto francese, che la morte lasciò incompiuto, approntò con correzioni e varianti una copia della stampa Starita (Canti e metà Operette), conservata nella Biblioteca NazionalediNapoli. Dall’aprile 1836, per fuggire il pericolo del colera, GiacomoriparòconRanieria villa Ferrigni (proprietà di Giuseppe Ferrigni, avvocato partenopeo,maritodiPaolina Ranieri, sorella di Antonio) alle pendici del Vesuvio, fra Torre del Greco e Torre Annunziata. Qui scrisse La ginestra e Il tramonto della luna, i due componimenti estremi, poi inclusi – per sua volontà – nella postuma edizione fiorentina dei Canti, apparsa da Le Monnier il 10 marzo1845acuradiRanieri, portandocosíaquarantunoil numerodeitesti. Lamortealungoinvocata lo colse improvvisamente a Napoli,il14giugno1837,per l’aggravarsi dei mali fisici che da anni lo tormentavano: asma, oftalmia, idropisia. All’amico De Sinner aveva ribadito fino dal 1832: «Avant de mourir, je vais […] prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies».113 L’ultimalettera,il27maggio 1837, era inviata al padre, come lucidissimo e sereno addioallavita: I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono piú crescere:sperochesuperatafinalmente lapiccolaresistenzacheopponeloroil moribondo mio corpo, mi condurranno all’eternoriposocheinvococaldamente ognigiornononpereroismo,maperil rigoredellepenecheprovo.114 Fu sepolto fuori la chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Sulla tomba fu posta una lapide dettata da Pietro Giordani.115 Nel 1939 i resti del poeta sono stati trasferiti presso la cosiddetta tomba di Virgilio, nel parco di Piedigrotta. 1.«De’moltifratellinohounocon cui sono stato allevato fin da bambino (essendominoredimediunsoloanno) ondeèunaltromestessoesaràsempre insieme con voi la piú cara cosa che m’abbia al mondo; e con un cuore eccellentissimo; e ingegno e studio di cui potrei dire molte cose se mi stesse bene, è il mio confidente universale, e partecipe tanto o quanto degli studi e delle letture mie; dico tanto o quanto, perché discordiamo molto non per l’inclinazioneamandoluiglistessistudi che io, ma per le opinioni. Questi vi ama come è naturale, solo che altri vi conosca in qualche modo, e questi è il solo solissimo con cui apro bocca per parlaredeglistudi;ilchespessosifae piúspessosifarebbesesipotessesenza disputa, le quali sono fratellevoli ma calde» (G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,26settembre1817,inTO,Ip. 1039). 2. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,30aprile1817,ivi,p.1025. 3. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,21marzo1817,ivi,p.1020. 4. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 22 dicembre 1817, ivi, p. 1047. 5. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,30aprile1817,ivi,p.1024. 6.Cfr.M.G.MANSI,Lalibreriadel conte Monaldo, nell’opera collettiva I libridiLeopardi,Napoli,EliodeRosa, 2000,pp.25-63. 7. F. DE SANCTIS, ‘Epistolario’ di G. Leopardi (1849), in ID., Saggi critici, a cura di L. RUSSO, Bari, Laterza,1952,19654,3voll.,Ip.2. 8. Ma sulla feroce spietatezza della sua alienazione religiosa, la dice lunga Zib. 353-56 (25 novembre 1820): «Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini,magl’invidiavaintimamentee sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi piú volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendopiangereoaffliggersiilmarito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili,edarrivòaconfessarecheilsolo timore che provava nell’interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne’ malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda(chesisforzavadidissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse sí pocosaviodaattristarsene.Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendoisuoifiglibruttiodeformi,ne ringraziavaDio,nonpereroismo,madi tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi,rinunziasserointieramenteallavita nella loro prima gioventú: se resistevano,secercavanoilcontrario,se vi riuscivano in qualche minima parte, n’era indispettita, scemava quanto potevacolleparoleecoll’opinionsuai loro successi (tanto de’ brutti quanto de’ belli, perché n’ebbe molti) e non lasciava passare anzi cercava studiosamente l’occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivisuccesside’suoifigliinquestoo simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenzaconlorosopraciòcheaveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell’anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all’educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale.Sentivainfinitacompassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le piú compassionevoli de’ giovanetti estinti nel fior dell’età, fra le piú belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perché diceva che non importa l’età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se eranomortibenesecondolareligione,o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazieconunafreddezzamarmorea. Questadonnaavevasortitodallanatura un carattere sensibilissimo, ed era stata cosí ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei principii di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la piú misericordiosa ec. Ma laragioneècosíbarbarachedovunque ella occupa il primo posto, e diventa regolaassoluta,daqualunqueprincipio ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro». Il brano riportato è lungo eppure non è completo. La riflessione, come si vede da ultimo, verte sulla ragione piú che sulla religione: sulla ragione che, assolutizzata, conduce alla barbarie. Non, dunque, uno sfogo del figliovittima, ma una distaccata considerazionefilosofica.Nondimenoil lettore non può fare a meno di pensare aglieffettidevastantidiunatal«madre di famiglia» nella stessa semplice quotidianitàdellavitadomestica. 9. All’interno del volume manoscritto, legato in pergamena, Monaldo annotò con orgoglio: «Oggi, 31agosto1814,questolavoromidonò Giacomo mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, edèinetàdianni16,mesidue,giorni due»(cfr.G.LEOPARDI,Lepoesieele prose, a cura di F. FLORA, Milano, Mondadori, 1940, 2 voll., I p. LX). Il Porfirio ebbe pubblico riconoscimento dall’erudito abate romano Francesco Cancellieri (Intorno agli uomini dotati di gran memoria […], Roma, Bourlié, 1815, p. 87), ringraziato da Giacomo conletteradel15aprile1815(vd.TO, I pp. 1006-7). Il manoscritto, inviato da Monaldo a Cancellieri, fu da questi sottoposto anche al giudizio dell’epigrafista e orientalista svedese David Akerblad, residente allora a Roma, che lodò la precocità straordinaria dell’autore, ma anche lo consigliò, prima di pensare a una pubblicazione, di risalire ai «principali codici» del testo di Porfirio per controllare la lezione della vecchia e scorretta stampa alla quale si era attenuto (quella della Bibliotheca GraecadelFABRICIUS,ed.diAmburgo 1711, IV pp. 91 sgg.). Cfr. TIMPANARO, La filologia di G. Leopardi, cit., pp. 10-15. Su Cancellieri, «insopportabile per le estreme lodi che colla maggiore indifferenzadelmondodiceinfacciadi chiunque lo va a trovare», vd. G. Leopardi al padre, Roma, 9 dicembre 1822,inTO,Ip.1134. 10. C. CANTÚ, Alessandro Manzoni. Reminiscenze, Milano, Treves, 1882, 2 voll., II p. 308 (cfr. ancheIp.204). 11. Agl’Italiani. Orazione in occasionedellaliberazionedelPiceno, inTO,Ip.869. 12.Ivi,p.870. 13.Ivi,pp.871-72. 14.Questa(quattrocantiinsestine) èlaprimadelletreversionileopardiane della Batracomiomachia: la seconda (tre canti in sestine) fu approntata nel 1821-’22 e apparve anonima sul bolognese «Il Caffè di Petronio», il 7, 14, 21 maggio 1826; la terza (tre canti in sestine) fu composta nel 1826 a Bologna e inclusa nei Versi bolognesi dellostessoanno. 15. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 2 marzo 1818, in TO, I p. 1050. 16. Cfr. S. TIMPANARO, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi (1964), in ID., Classicismo e illuminismonell’Ottocentoitaliano,cit., pp.157-58. 17.Zib.193(29luglio1820). 18.Ivi,1741(19settembre1821). 19. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 30 aprile 1817, in TO, I p. 1026. 20. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,30maggio1817,ivi,p.1029. 21.Cfr.Indicidelleoperecomposte da Giacomo Leopardi compilati da lui stesso, ivi, pp. 996-1001: sono tre indici, il primo relativo agli anni 1809-’12; il secondo del 16 novembre 1816, con integrazioni fino al 1818; il terzodel25febbraio1826. 22.Giacomohacorredatol’Innodi una dedica all’immaginario scopritore deltestooriginale,diunAvvertimentoe di note erudite, allo scopo di convalidare la finzione. «Ella vedrà, se non l’ha già veduto, che quanto io spaccio della scoperta dell’Inno, è una novella.Innamoratodellapoesiagreca, volli fare come Michel Angelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterratolocredead’antico,portòil bracciomancante.Emiscordavachese egli era Michel Angelo io sono Calandrino» (G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 30 maggio 1817, ivi,p.1029). 23.Cosínell’Indicedelpropriscritti del16novembre1816,condata1816e l’indicazione «in stato da stamparsi quando si voglia» (ivi, p. 999), ma il testo(editoperlaprimavoltanel1878) forse ripropone una composizione puerile (ne esiste infatti, tra le carte napoletane, un apografo recanatese datato1811). 24. Sull’esempio dei Mattaccini, coronadisonettiindirizzatidaAnnibal Caro contro Lodovico Castelvetro, i cinque Sonetti leopardiani colpiscono Guglielmo Manzi, bibliotecario della Barberina di Roma. Questi, avendo curato un’edizione di testi di lingua censurata da un articolo della «Biblioteca Italiana», aveva replicato con una pubblica «diceria» risentitamente ostile a Giordani e a Monti.DiquilasatiradiLeopardi,che cosí informa nell’avvertenza premessa aisonettineiVersibolognesidel1826: «Come nei Mattaccini del Caro sotto l’allegoria del gufo e del castello di vetro dinotasi il Castelvetro, parimente in questi Sonetti disegnasi il detto scrittorello sotto l’allegoria del manzo. Il nome del beccaio è tolto dalla CronicadiDinoCompagni,laqualefa menzione di un beccaio fiorentino di quei tempi, detto per soprannome il Pecora»(TO,Ip.318). 25. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,30aprile1817,ivi,p.1023. 26. Composte per l’uscita della traduzione italiana del poemetto byroniano The Giaour (1813), le Osservazioni apparvero nello stesso anno in opuscolo: L. DI BREME, ‘Il Giaurro’, frammento di novella turca, scritto da Lord Byron e recato dall’inglese in versi italiani da Pellegrino Rossi. Ginevra, 1818. Osservazioni (Milano, Pirotta, 1818). Cfr. Discussioni e polemiche sul romanticismo(1816-1826),acuradiE. BELLORINI, Bari, Laterza, 1943, 2 voll., rist. a cura di A.M. MUTTERLE, ivi,id.,1975,Ipp.254-313. 27. G. Leopardi al padre, Recanati, s.d. (ma fine luglio 1819), in TO, I p. 1082. 28.Ivi,p.1081. 29.Ivi,pp.1081-82. 30.Ivi,p.1083. 31. Tale il titolo di un mio saggio dedicato a questa lettera leopardiana: cfr. Lo stile della dissimulazione (1988), in G. TELLINI, L’arte della prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp.145-54. 32. G. Leopardi al padre, Pisa, 2 giugno1828,inTO,Ip.1314. 33.Zib.144(1oluglio1820). 34.«[La]fortuna[…]daseimesiin quamihalevatoogniusodegliocchie della mente per una somma debolezza de’nervioculari,chem’impediscenon solamente qualunque lettura e studio, ma ogni minima contenzione del pensiero. E cosí spogliato del solo conforto che mi restasse in una città come questa, e nella mia condizione, può pensare V. S. che vita sia questa ch’io vo menando. Fui per cedere alla fortuna,dandoeffettoaunarisoluzione che m’avrebbe condotto in breve alla fine comune di tutti i mali, ma fui scopertoeimpedito,noncollaforzache non valeva, ma colle preghiere» (G. Leopardi a L. Trissino, Recanati, 27 settembre1819,inTO,Ip.1089). 35. G. Leopardi a P. Brighenti, Recanati,22giugno1821,ivi,p.1122. 36. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,30aprile1817,ivi,p.1024. 37. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma,25novembre1822,ivi,p.1129. 38. G. Leopardi a P. Giordani, Roma,26aprile1823,ivi,p.1163. 39.G.LeopardiallasorellaPaolina, Roma,3dicembre1822,ivi,p.1131. 40. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma,6dicembre1822,ivi,p.1132. 41.Ibid. 42.Ivi,pp.1132-33. 43.Ivi,p.1133. 44.C.LeopardialfratelloGiacomo, Recanati,12dicembre1822,inEpist.2, Ip.588. 45. «Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intendasottoilnomediletteraturaaltro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è stranieroinRoma,epareungiuocoda fanciulli,aparagonedeltrovaresequel pezzo di rame o di sasso appartenne a MarcantoniooaMarcagrippa.Labella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tuttoilgiornociarlanoedisputano,esi motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e cosí vive e fa progressi la letteratura romana» (G. Leopardi al padre, Roma, 9 dicembre 1822,inTO, Ipp.1133-34).Cfr.anche G.LeopardialfratelloCarlo,Roma,16 dicembre 1822; a G. Melchiorri, Recanati, 27 giugno 1823; a L. De Sinner, Roma, 24 dicembre 1831, ivi, risp.,pp.1135-36,1167,1370-71. 46. G. Leopardi al padre, Roma, 9 dicembre1822,ivi,p.1134. 47. Cfr. ibid.; anche G. Leopardi a P.Giordani,Roma,10marzo1823,ivi, p.1152. 48. Cfr. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma, 12 marzo 1823, e a P. Giordani, Roma, 10 marzo 1823, ivi, pp.1152-53.Vd.ancheladedicalatina aNiebuhr,ivi,p.990. 49. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma,25novembre1822,ivi,p.1130. 50. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma, 20 febbraio 1823, ivi, p. 1150. Cfr. W. BINNI, La lettera del 20 febbraio 1823 (1963), in ID., La protestadiLeopardi, Firenze, Sansoni, 1973,pp.267-75,nonché,ancheperla bibliografia relativa a questa lettera, L. TRENTI, Leopardi e i poeti a Sant’Onofrio(laletterasulsepolcrodel Tasso), nell’opera collettiva «Effetto Roma». Il mito, Roma, Bulzoni, 1995, pp.9-23. 51. La traduzione è da un testo greco compreso nella raccolta del francese F. COMBEFIS, Illustrium Christi martyrum lecti Triumphi vetustis Graecorum monumentis consignati, Parigi 1660 (presente nella biblioteca di casa Leopardi), ma è simulata come inedito volgarizzamento trecentesco dal latino: un “falso” perfetto(comeGiacomosicompiacedi riconoscere) tanto «che Cesari, stimato giudice supremo in queste materie, leggendo il manoscritto a Milano in presenza mia, lo giudicò per cosa del Trecentobellaebuona,ecosíècreduto ora in Milano e qui» (G. Leopardi al fratello Carlo, Bologna, 24 febbraio 1826,inTO,Ip.1240). 52.P.GiordaniaF.LeMonnier,23 maggio 1844, in I primordi della «Biblioteca Nazionale» di Felice Le Monnier in LX lettere a lui di P. Giordani, a cura di I. DEL LUNGO, Firenze,LeMonnier,1916,p.23.Madi GiordaniimportasoprattuttoilProemio agli Studi filologici, a cura di P. PELLEGRINI e P. GIORDANI, ivi, id., 1845,pp.VII-XXIX. 53. Cfr. G. Leopardi al padre, 4 gennaio1823,inTO,Ip.1140. 54. C. Antici a M. Leopardi, dicembre1816,inEpist.,Ip.37n.2. 55.TIMPANARO,LafilologiadiG. Leopardi,cit.,p.102. 56.C.AnticiaG.Leopardi,Roma, 21luglio1825,inEpist.,IIIp.167. 57. Cfr. Scritti filologici (18171832), a cura di G. PACELLA e S. TIMPANARO, Firenze, Le Monnier, 1969, pp. 475-542. Sono proposte di critica testuale e d’interpretazione a sette dialoghi (Protagora, Fedone, Gorgia, Teeteto, Sofista, Convito e Fedro), nate dalla lettura dei primi tre volumi dell’ed. curata da Friedrich Ast (Lipsia1819-1821),cheLeopardiaveva ricevuto in dono dall’editore De Romanis (cfr. G. Leopardi al padre, Roma, 13 gennaio 1823, in TO, I p. 1142, e anche la nota di Moroncini a questalettera,inEpist.,IIp.236). 58. G. Leopardi al cardinale E. Consalvi,s.d.(marzo1823),inTO, Ip. 1154. 59. Cfr., per es., G. Leopardi a G. Perticari, Recanati, 30 marzo 1821 e, nella stessa data, ad A. Mai, ivi, pp. 1117-19. 60. Cfr. G. Leopardi a C. Bunsen, Bologna, 21 ottobre, 24 ottobre, 5 dicembre1825,ivi,pp.1217,1218-19, 1226. Bunsen si adoperò anche perché venisseassegnataalpoetalacattedradi eloquenza greca e latina alla Sapienza diRoma(cfr.G.LeopardiaC.Bunsen, Bologna, 24 ottobre, 28 ottobre, 16 novembre1825,ivi,pp.1219-20,1222, e anche al fratello Carlo, Bologna, 28 ottobre1825,ivi,p.1220),maGiacomo declinò l’offerta: «ardisco di farle osservarechedaunaparteilsoggiorno di Roma, specialmente nell’estate, è pocoadattoalmiotemperamento,ealla miasaluteassaidebole;dall’altraparte, che una cattedra non so quanto mi potrebbe convenire per due ragioni, l’una fisica, cioè la grandissima debolezzadelmiopetto,l’altramorale, cioèlamiapocaattitudineatrattarecon unascolaresca,sempreinsolente,attesa la timidità naturale del mio carattere. Dubito ancora che gli emolumenti annessi alle cattedre di cotesta Università possano bastare a mantenermi in Roma, dove le spese quotidiane sono assai maggiori che in Bologna» (G. Leopardi a C. Bunsen, Bologna,24ottobre1825,ivi,p.1219). Bunsenavanzòanchelapropostadiuna cattedraaBerlinooaBonn,mainvano: «La idea che Ella mi propone di una cattedra in Berlino o in Bonn, è tale, che io l’assicuro che niun’altra mi potrebberiuscirpiúgrataelusinghiera. Ma sventuratamente ora la mia povera salute è in uno stato cosí tristo, che io non ardisco fermare il pensiero in una proposizione che del resto mi sarebbe giocondissima.CrederàEllacheappena io posso sopportare l’inverno in Bologna?[…]Orchesarebbeneiclimi di Germania?» (G. Leopardi a C. Bunsen,Bologna,1ofebbraio1826,ivi, pp. 1235-36). Circa il rifiuto di insegnare zoologia all’Università di Parma, cfr. almeno G. Leopardi ad A. Maestri,Recanati,31dicembre1828,a G. Tommasini, Recanati, 30 gennaio 1829,aF.Maestri,Recanati,6febbraio 1829,ivi,pp.1332sgg. 61. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma,22marzo1823,ivi,p.1156. 62. Ibid. Cfr. anche G. Leopardi a G. Vieusseux, Roma, 27 ottobre 1831, ivi, p. 1367: «Questo amerei che ripeteste a chi parla di prelature o di cappelli,cosech’ioterreiperingiuriese fosserodettesulserio.Masulserionon possono esser dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimolamiamanieradipensare,e sapendosi ch’io non ho mai tradito i mieipensierieimieiprincipiicollemie azioni». 63. G. Leopardi a B.G. Niebuhr, Roma,9aprile1823,ivi,p.1160. 64. La stampa delle Canzoni fu pagata dall’autore quaranta scudi e tirata in cinquecento esemplari (cfr. G. Leopardi a P. Brighenti, Recanati, 21 novembre 1823, e P. Brighenti a G. Leopardi,Bologna,26novembre1823, inEpist., IIIpp.45-48).PerleOperette morali, nonostante le promesse dell’editore (cfr. A.F. Stella a G. Leopardi, Milano, 1o aprile 1826, ivi, IV pp. 79-80 n. 1), Giacomo non ebbe alcuncompenso. 65.Illavorodovevaessereeseguito dall’abateFrancescoMariaBentivoglio (bibliotecario dell’Ambrosiana), che curò in effetti i 10 voll. delle Lettere (Milano, Stella, 1826-1831, con la traduzionediAntonioCesaricontinuata da Pietro Marocco), poi l’impresa si bloccò. Leopardi redasse i due manifestidell’edizione,latinoeitaliano (cfr. TO, I pp. 987 sgg.), e controllò sulle bozze il primo volume, quindi si liberò da ogni impegno (cfr. G. LeopardiadA.Papadopoli,Milano,19 agosto1825,eBologna,6marzo1826, ivi, pp. 1208 e 1243). L’editore Stella, essendosi originariamente accordato con Niccolò Tommaseo, ne aveva ricevuto un Saggio di edizione che pensò bene di sottoporre il 30 aprile 1825 al giudizio di Leopardi: questi rispose, da Recanati, il 18 maggio con argomentazioni tanto tecnicamente inoppugnabili che del progetto di Tommaseo (retorico-estetico e filologicamente sprovveduto) non si parlò piú. Quanto all’opinione di TOMMASEO, cfr. le sue Memorie poetiche,acuradiM.PECORARO,Bari, Laterza,1964,p.162;diLeopardi,cfr. le tarde e incompiute pagine Potenze intellettuali: Niccolò Tommaseo (forse dell’agosto 1836, inedite fino al 1931: in TO, I pp. 994-95). Sull’intera vicenda,cfr.TIMPANARO, La filologia di G. Leopardi, cit., pp. 127-29; G. BEZZOLA,Tommaseo a Milano (18241827), con appendice di lettere e testi inediti o rari, Milano, Il Saggiatore, 1978, pp. 114-22 (alle pp. 250-70 il Saggio di Tommaseo trasmesso a Leopardi dall’editore Stella), e ID., LeopardiaMilano,MilanoeLeopardi, in ID., Schede critiche, Milano, Cisalpino-Goliardica,1989,pp.315-35. 66. «Io vivo qui poco volentieri e per lo piú in casa, perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita chequelladelletteratosolitario.Partirò subito che me lo permetterà la buona creanzaversoloStella»(G.Leopardia C. Antici, Milano, 20 agosto 1825, in TO, I p. 1209). A Milano volle però rendere l’omaggio di una visita a Vincenzo Monti: «Qui non ho conosciuto ancora se non pochissime persone di merito, e tra queste niuna che mi paia disposta a concedermi la suaamicizia,eccettoilCav.Monti[…]. Mihatrattatomoltobenignamente,emi ha dato licenza di vederlo spesso» (G. Leopardi ad A. Papadopoli, Milano, 6 agosto 1825, ivi, p. 1207); «Appena arrivato, vidi Monti, il quale mi domandò subito di voi, e del vostro Lucano.[…]Daquellavoltainquanon l’ho mai veduto, e credo che non lo vedrò, perché in quella prima visita volli propriamente sputar sangue per parlargli in modo che egli mi potesse intendere; e in verità non ho forza di petto che basti per conversare con lui neancheunquartod’ora.Eccettoquesta sordità spaventosa, che me lo rende inutile, mi parve che stesse bene» (G. Leopardi a F. Cassi, Milano, 17 settembre1825,ivi,p.1212). 67.Ilprimovolumeavrebbedovuto contenere,conilManualediEpitteto,la «favola»diProdicoelaComparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (marzo 1822, già nelle Canzoni del 1824, come premessa al Bruto minore). A un volume successivo erano destinate le Operette morali di Isocrate. Cosí informa infatti il testo del leopardiano AvvisodegliEditori(TO,Ip.1448):«In un volume non diverso di forma, di carta e di caratteri del presente, pubblicheremo fra poco il Volgarizzamento delle operette morali d’Isocratefattodall’autoremedesimodi questiduecheoradivulghiamo:ilquale oltracciò ha in animo di dar fuori in breve altre sue versioni di altri libri greci morali, che saranno pubblicate medesimamemnte in questa forma e carta, e con questi tipi. E cosí di tutti questi Volgarizzamenti, raccogliendoli insieme, si potrà fare un corpo di Moralistigreciridottiinvolgare». 68. Cfr. TIMPANARO, La filologia diG.Leopardi,cit.,pp.115sgg. 69. G.P. Vieusseux a G. Leopardi, Firenze,1omarzo1826,inEpist., IVp. 51. Cosí il direttore dell’«Antologia» precisava gli obiettivi dell’auspicata collaborazione leopardiana: «Piú volte hopensatoadaverepercorrispondente unhermitedesapennins,chedalfondo delsuoromitoriocriticherebbelastessa Antologia,flagellerebbeinostripessimi costumi,inostrimetodidieducazionee di pubblica istruzione, tutto ciò in fine che si può flagellare quando si scrive sotto il peso di una doppia censura civile ed ecclesiastica. Un altro romito dell’Arno potrebbe rispondergli. Voi sareste il romito degli Appennini. Questa forma assai piccante ammetterebbe molta libertà, e desterebbe un interesse universale» (ibid.). 70. G. Leopardi a G. Vieusseux, Bologna, 4 marzo 1826, in TO, I p. 1242. 71. G. Leopardi al fratello Carlo, Bologna,30maggio1826,ivi,p.1254: «Ci confidiamo tutti i nostri secreti, ci riprendiamo, ci avvisiamo dei nostri difetti. In somma questa conoscenza forma e formerà un’epoca ben marcata della mia vita, perché mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili,echeiosonoancorcapace d’illusioni stabili, malgrado la cognizione e l’assuefazione contraria cosí radicata, ed ha suscitato il mio cuore, dopo un sonno anzi una morte completa,duratapertantianni». 72. Cfr. G. Leopardi a T. Carniani Malvezzi,s.d.(Bologna,ottobre1826), e Recanati, 18 aprile 1827; ad A. Papadopoli, Bologna, 21 maggio 1827 («quella puttana della Malvezzi»), e Firenze,3luglio1827(«quellastrega»), ivi,pp.1272,1280,1283,1286. 73.Ilresocontodellaseratasilegge nella lettera al fratello Carlo, Bologna, 4aprile1826,ivi,p.1248. 74.PerlarispostadelcontePepoli, nella lunga epistola in versi L’Eremo (dal nome di una sua villa fuori città), edita a Bologna nel 1828, cfr. G. LeopardiaC.Pepoli,Pisa,25febbraio 1828,ivi,p.1308.Cfr.C.DIONISOTTI, LeopardieBologna,inID.,Appuntisui moderni.Foscolo,Leopardi,Manzonie altri,cit.,pp.139sgg. 75.LatraduzionedellaSatirasopra le donne risale al 1823. Dello stesso Semonide di Amorgo tradusse, nel 1823-’24, anche i due frammenti poi inseriti nella stampa 1835 dei Canti come Frammenti XXXVIII e XXXIX, con iltitolo Dal greco di SimonideeDello stesso. Semonide di Amorgo non va confuso con il quasi omonimo Simonide di Ceo, immortalato nella canzoneAll’Italia(nelprimoOttocento erano entrambi solitamente chiamati Simonide). Su questi componimenti, cfr. TIMPANARO, La filologia di G. Leopardi,cit.,pp.108-9;E.PELLIZER, Bergk,Leopardi,WintertoneSemonide, fr. 29 Diehl: «Uno dei piú securi resultati della ricerca filologica», in «Quaderniurbinatidiculturaclassica», XXII 1976, pp. 15-21; F. D’INTINO, Nota ai testi, in G. LEOPARDI, Poeti grecielatini,asuacura,Roma,Salerno Editrice,1999,pp.272-74. 76. G. Leopardi a F. Puccinotti, Recanati, 21 aprile 1827, in TO, I p. 1281. 77. Ranieri afferma di avere conosciuto Leopardi, presentatogli da Alessandro Poerio, a Firenze il 29 giugno 1827 (cfr. A. Ranieri a L. De Sinner,Napoli,2settembre1837,inG. PIERGILI,Nuovidocumentiintornoalla vita e agli scritti di G. Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1880, 18892, 18923, p. 274) e cosí ripetono tutti i biografi.MaRanierihalasciatoNapoli nell’autunno 1827 e il suo primo incontro con Giacomo risale al 26 giugno 1828, come segnala anche Moroncini(cfr.Epist.,Vp.157n.3). 78.«Pisaèunmistodicittàgrande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto cosí romantico, che non ho mai veduto altrettanto» (G. Leopardi alla sorella Paolina, Pisa, 12 novembre1827,inTO,Ip.1296). 79. G. Leopardi ad A. Maestri, Recanati, 31 dicembre 1828, ivi, p. 1332. 80. G. Leopardi a P. Colletta, Recanati,2aprile1830,ivi,p.1347. 81. G. Leopardi a F. Puccinotti, Recanati,19maggio1829,ivi,p.1341. 82. La partenza avvenne molto probabilmente non il 29 aprile (come risulta da G. Leopardi ad A. Tommasini, Recanati, 28 aprile 1830, ivi, p. 1347: «Io parto domani») ma, sullabaseanchedelcitatoMemorialedi Monaldo, la mattina del 30, «per evitare, come di solito si faceva, il viaggionotturno»(Epist., VIp.3n.2). Il Memoriale di Monaldo (Cenni biograficiintornoaGiacomoLeopardi. Memoriale autografo di Monaldo LeopardiadAntonioRanieri,delluglio 1837) si legge in G. e R. BRESCIANO, Carteggio inedito di varii con G. Leopardi,conletterecheloriguardano, Torino, Rosenberg & Sellier, 1932. La richiestadiesatti«cennibiografici»era venutaespressamentedaRanieri,súbito dopo la morte dell’amico: «Ella deve avere ancora la bontà di darmi una notiziaesattadituttociòchepuòessere importanteachidevescrivereunavita compiutadiGiacomo;dellasuanascita, chenonvorreiaveresbagliata,de’suoi primi anni, de’ suoi primi studi, de’ maestri,delleinclinazioni,deglispassi, delle gioie, de’ dolori, delle infermità, delmododivita,dellevariepartenzee ritorni,dituttoinfinequelloch’ellapuò credere utile di farmi conoscere, e che troppo sarebbe lungo ad annoverarle capo per capo» (A. Ranieri a M. Leopardi, Napoli, 18 luglio 1837, in PIERGILI,Nuovidocumentiintornoalla vita e agli scritti di G. Leopardi, cit., pp.254-55).Ranieriil5settembre1837 ringrazia Monaldo dell’invio «di tante careeprezioseedesideratissimenotizie intorno al mio non mai bastantemente pianto e lacrimato Giacomo» (ivi, p. 257). 83. G. Leopardi a C. Bunsen, Recanati,5settembre1829,inTO, Ip. 1344. 84.G.LeopardiallasorellaPaolina, Bologna, 1o marzo 1826, ivi, p. 1241: «tu sai che fuori di Recanati io non sogno mai (cosa che mi fa meraviglia, peròverissima)». 85.G.Leopardialpadre,Firenze,3 luglio1832,ivi,p.1386. 86. G. Leopardi a P. Colletta, Recanati, 22 novembre 1829, ivi, p. 1345. 87. G. Leopardi ad A.F. Stella, Recanati,17febbraio1830,ivi,p.1346. 88. G. Leopardi a G. Vieusseux, Recanati,8gennaio1830,ibid. 89. G. Leopardi a G. Vieusseux, Recanati,21marzo1830,ivi,p.1347. 90. «Egli [De Sinner], se piacerà a Dio, li redigerà e completerà, e li farà pubblicare in Germania; e me ne promette danari, e un gran nome. Non potete credere quanto mi abbia consolato quest’avvenimento, che per piú giorni mi ha richiamato alle idee della mia prima gioventú, e che, piacendo a Dio, darà vita ed utilità a lavori immensi, ch’io già da molt’anni considerava come perduti affatto, per l’impossibilità di perfezionare tali lavoriinItalia,peldispregioincuisono talistuditranoi,epeggiopelmiostato fisico» (G. Leopardi alla sorella Paolina, Firenze, 15 novembre 1830, ivi,p.1353).SuitentatividiDeSinner per la stampa dei manoscritti e per l’esigua parte che riuscí, non bene, a pubblicare (Excerpta e schedis criticis Jacobi Leopardi comitis, in «Rheinisches Museum», Bonn 1835, pp. 1-14, e Probe aus Giacomo Leopardi’s Miscellaneis, in «Neue Jahrbücher für Philologie und Paedagogik»,VI1840,pp.278-86),cfr. N. SERBAN, Leopardi et la France, Paris, Champion, 1913, pp. 265 sgg.; M. MICHELESI, L’opera di L. De SinnerafavorediG.Leopardi,Firenze, Olschki, 1938; TIMPANARO, La filologia di G. Leopardi, cit., pp. 17181. Le carte consegnate a De Sinner furonodaquesticedutenel1859(conla propria biblioteca, per una pensione mensile di cento lire) alla Palatina di Firenze, quindi sono passate alla BibliotecaNazionalefiorentina. 91.OltrealTristano,parr.14e22, cfr. almeno G. Leopardi a F. TargioniTozzetti, Roma, 5 dicembre 1831, in TO, I p. 1369: «abbomino la politica, perchécredo,anzivedochegl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo;colpadellanaturachehafatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massafelice,compostad’individuinon felici». 92.Ilverbaleufficialedellasedutae la lettera di nomina trasmessa a Giacomo,indata21marzo,sileggono in Scritti vari inediti di G. Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, Le Monnier,1906,pp.421-23. 93. G. Leopardi al Comitato di Governo Provvisorio di Recanati, Firenze, 29 marzo 1831, in TO, I p. 1357. 94. G. Leopardi al padre, Firenze, 29marzo1831,ivi,p.1356. 95. «Ho venduto il ms. de’ miei versi, con 700 associazioni, per 80 zecchini: nello stato attuale sí problematico del commercio, non è stato possibile ottenere di piú» (G. Leopardialpadre,Firenze,23dicembre 1830, ivi, p. 1354). Degli ottanta zecchini (per il valore dello zecchino, cfr.cap. XVIn.12),ventifuronopagati alla consegna del manoscritto (gennaio 1831),glialtrisessantaintrerate,trail maggioeilgiugnodellostessoanno. 96. La «dedicatoria», che risponde anche all’ufficio pratico di implicito ringraziamento collettivo per l’aiuto economico ricevuto dagli amici residenti in Toscana, è «di troppo inferiore alla poesia che in quel momentoLeopardioffriva,echedilía poco, e poi senza interruzione piú fino all’ultimo anno di vita, ancora avrebbe offerto»(C.DIONISOTTI,Preistoriadel pastore errante, in ID., Appunti sui moderni,cit.,p.157). 97.«LaTargioni,cuinonveggose nonassaidirado,madallaqualefuiper presentarle il nostro Leopardi, mi commise salutarti» (A. Poerio ad A. Ranieri, a Parigi, Firenze, 18 maggio 1830,inF.MORONCINI,Lettereinedite diA.PoerioadA.Ranieri.1830-1837, in «Nuova Antologia», 16 luglio e 1o agosto 1930, pp. 137-56, 273-302, la cit.ap.153). 98.Laconsegnadeitestiall’editore deve essere avvenuta tra il luglio e l’agosto 1833. Per quest’edizione Giacomo incassò da Piatti quindici zecchiniemezzo. 99. Piuttosto che anonimo, il volume è firmato con un sibillino pseudonimo(cfr.Epist.,VIp.143n.3), perché il nome dell’autore figura nascosto dietro la sigla 1150, che in numeriromanidàMCL,cioèleiniziali diMonaldoConteLeopardi. 100.Cfr.Dichiarazioniaproposito discrittialuiattribuiti,inTO,Ip.993. Giacomo dette diplomaticamente notiziaalpadredelpropriocomunicato stampail28maggio(ivi,pp.1383-84), ma nella lettera al cugino Giuseppe Melchiorri, da Firenze, del 15 maggio, la smentita è denunciata con secca e iratainsofferenza:«iononnepossopiú, propriamente non ne posso piú. Non voglio piú comparire con questa macchia sul viso, d’aver fatto quell’infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Qui tutti lo credono mio: perché Leopardi n’è l’autore, mio padre è sconosciutissimo, iosonoconosciuto,dunquel’autoreson io. Fino il governo mi è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci»(ivi,p.1381). 101. Lo Spettatore Fiorentino. Giornalediognisettimana.Preambolo, inTO,Ip.993. 102. «Leopardi verso il fine della sua vita scrisse un libro terribile, nel quale deride i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, macheègiustissima»(V.GIOBERTI,Il Gesuita moderno, Losanna, Bonamici, 1846-1847, 5 voll., III p. 484). Il «poemetto […] a me pare un lavoro finissimo,perfetto,chedovrebbeessere studiato e pregiato altamente dagl’Italiani» (L. SETTEMBRINI, Il Leopardi, in Lezioni di letteratura italiana, a cura di V. PICCOLI, Torino, UTET,1927,3voll.,IIIp.336). 103.R.LIBERATORE,Innisacridel conte Terenzio Mamiani Della Rovere, in «Il Progresso delle Scienze, delle LettereedelleArti»,II61833,p.147. 104. G. Leopardi al padre, Napoli, 27novembre1834,inTO, Ip.1405.Il poeta aveva rinunciato nel 1832 a recensiregliInnisacri di Mamiani per l’«Antologia» (cfr. G. Vieusseux a G. Leopardi [Firenze, settembre 1832], in Epist., VI p. 210), ma ad essi, al loro spirito ottimisticamente «progressivo», alla loro illusoria fiducia di riscatto religioso dell’umanità farà sarcastico riferimento nel v. 51 di La ginestra, conclusivo della prima lassa («le magnifiche sorti e progressive»), e nell’ironicanotarelativa(«Parolediun moderno,alqualeèdovutatuttalaloro eleganza»). Quanto a Raffaele Liberatore, è probabile che sia entrato nellagalleriadeipersonaggiirrisinella satira I nuovi credenti sotto le vesti di Galerio, l’ottimista, il «buon garzon» che«contentoepio,/lodairaggideldí, loda la sorte / del gener nostro, e benedice Iddio» (vv. 52-57). Sulla mancata recensione agli Inni sacri di Mamiani(cheeracuginodellamadredi Giacomo), cfr. W. SPAGGIARI, La mancata collaborazione all’«Antologia» (1998), in ID., L’ eremita degli Appennini. Leopardi e altri studi di primo Ottocento, Milano, Unicopli,2000,pp.39-66. 105. A. Poerio a N. Tommaseo, Napoli,13luglio1836,inR.CIAMPINI, AlessandroPoeriodifendeLeopardi,in ID., Studi e ricerche su Niccolò Tommaseo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, p. 267. Difficile identificare il «libretto poco fa pubblicato», ma forse si tratta (cosí ha proposto, come ricorda Ciampini, G.A. LEVI,G.Leopardi,Messina,Principato, 1931,p.389,econcordaN.BELLUCCI, G. Leopardi e i contemporanei. Testimonianzedall’Italiaedall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, pp. 149-50) dellanovellainversiClaudioVanninio l’Artista, opera di Saverio Baldacchini, apparsa a Napoli, presso De Stefano, nel 1836. Anche Baldacchini si è guadagnato un posto tra I nuovi credenti, con ogni probabilità sotto le sembianze di Elpidio, lo ‘speranzoso’, «il valoroso Elpidio» che «con quel fiato / soave, onde attoscar suole i vicini,/incontroaldolormiodallabbro armato / vibra d’alte sentenze acuti strali»(vv.32-36). 106. P. Giordani a G. Leopardi, Milano, 15 aprile 1817, in Epist., I p. 73. 107. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 30 aprile 1817, in TO, I p. 1026. 108. H.W. SCHULZ, Giacomo Leopardi. Sein Leben und seine Schriften,in«Italia»,annuarioacuradi A. REUMONT, Berlino, II 1840, pp. 235-70 (alcuni estratti tradotti da B. CROCE, Testimonianze su Leopardi, in «LaCritica»,XXX1932,pp.65-71;altri in BELLUCCI, G. Leopardi e i contemporanei,cit.,pp.447-64,trad.di L.BOCCI). 109. Dei Diari di Platen (Die Tagebücher des Grafen August von Platen,acuradiG.VONLAUBMANNe L. VON SCHEFFLER, Stuttgart, Cotta, 1900) non esiste la traduzione italiana, ma i passi relativi a Leopardi sono tradottidaC.DELOLLIS, Augusto von PlatenHallermunde.Gliultimiannidel Platen, in «Nuova Antologia», 1o novembre 1897, pp. 9 sgg. (da cui si cita) e anche (trad. di L. BOCCI) in BELLUCCI, G. Leopardi e i contemporanei,cit.,pp.464-66. 110. Per l’autore era previsto un compensodicinqueducatiperfogliodi stampa. 111.«L’edizionedellemieOpereè sospesa, e piú probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancoranonsièpotutovendereaNapoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tuttoilmondo,sottounnomeosottoun altro, possono ancora e potranno eternamentetutto»(G.LeopardiaL.De Sinner, Napoli, 22 dicembre 1836, in TO,Ip.1415). 112. «Non gli restava piú che l’illusionediParigi,difattol’appelloai posteri, essendo impensabile che l’autoredeiParalipomenis’illudessedi poterstamparel’operasuainItalia.Nel suo supremo isolamento, aveva riconosciuto a Napoli la comicità meschina dell’intiera scena italiana contemporanea» (C. DIONISOTTI, Fortuna di Leopardi [1975], in ID., Appuntisuimoderni,cit.,p.214). 113. G. Leopardi a L. De Sinner, Firenze, 24 maggio 1832, in TO, I p. 1382. 114. G. Leopardi al padre, Napoli, 27maggio1837,ivi,p.1419. 115. «AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE / FILOLOGO AMMIRATO FUORI D’ITALIA / SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO / DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI / CHE FINÍ DI XXXIXANNILAVITA/ PERCONTINUE MALATTIE MISERISSIMA / FECE ANTONIO RANIERI / PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIUNTO / ALL’AMICO ADORATO. MDCCCXXXVII».Ilconfrontoesclusivo «coigreci»significavaperGiordaniun elogiostoricamentemotivato:«Chinon conoscaleideedelGiordaniinfattodi stileediletteraturarischiadiscambiare per una lode generica e meramente enfaticaquellache,nelleintenzionidel Giordani, era una valutazione ben precisa: il Leopardi era, per lui, il creatore del nuovo e perfetto stile italiano» (S. TIMPANARO, Il Giordani e la questione della lingua [1974], in ID., Aspetti e figure della cultura ottocentesca,cit.,p.189n.66). III TRAERUDIZIONEE FILOLOGIA 1.ICOMPONIMENTI«PUERILI» Non basta dire che nel palazzo Leopardi, per merito delconteMonaldo,ilibrielo studioeranodicasa,néchevi si applicavano nei riguardi dei figli ancora bambini i metodi d’una pedagogia affabilmentecoercitiva.Resta nondimeno portentosa la vastità enciclopedica degli interessi e stupefacente l’ostinazione con cui Giacomo ancora fanciullo – assecondato per poco, finché è stato possibile, da Carlo e da Paolina – non solo assimilaimodelliideologicoculturali dell’ambiente familiare, ma già lascia antivedere di volare per proprio conto e volare alto, sotto gli occhi sbalorditi d’ammirazionedelpadre,che sogna per il suo primogenito una luminosa carriera ecclesiastica. In una letterina in latino, indirizzata «A Sua Eccellenza / Il Signor Conte Monaldo Leopardi» il 16 ottobre 1807, il «Filius Iacobus» (che ne è devoto ammiratore) promette con candore: «erit gratius mihi studium, quam lusus» (‘lo studiomisaràpiúgraditodel gioco’).1 La promessa, non formale, sarà mantenuta e apreunospiraglioterribilesu quella pratica educativa, come sull’orgogliosa volontà d’apprendimento, sulla smania di distinzione e di affermazione che irrigidiscono il carattere del ragazzo-prodigio.2 Gli innumerevoli componimenti «puerili» del 1809-1810,traesercitazionie traduzioni (i primi due libri delle Odi di Orazio), prose e versi, in italiano e in latino, testimoniano un’educazione letteraria di ovvia marca arcadica (Metastasio, Savioli, Frugoni, Minzoni, Zappi): un’Arcadia non elettiva né selettiva, che risponda a un’autonoma scelta di gusto, bensí – com’è abbastanza naturale – imitativa e scolastica, conforme all’arretratezza circostante. Anches’avvertono,piúlabili, traccedialtreletture:Young, Gessner, l’Ossian di Cesarotti, le Notti romane di Verri. Ai sonetti, alle canzonetteanacreontiche,alle favole pastorali, agli idilli, ai distici martelliani burleschi, alle epistole giocose, ai poemetti di tema religioso e classico, tengono dietro, senza sosta, nel 1811 la versione in ottave dell’Ars poetica di Orazio; nel 1811-’12 le ventitré «dissertazioni filosofiche» di soggetto logico, metafisico, fisico e morale, saggi compilativi in cui il ragazzo esponelenozioniappresenel corso dell’anno scolastico;3 nel 1812 la raccolta di quaranta Epigrammi (poi nel 1814 gli Scherzi epigrammatici tradotti dal greco), preceduta da un Discorso preliminare sopra l’epigramma (derivato in buonapartedallaprimadelle bettinellianeLettere a Lesbia Cidonia sopra gli epigrammi),mentreintantole due tragedie del 1811 e del 1812 (memore La virtú indiana del Serse di Bettinelli,IlPompeoinEgitto del Catone in Utica, nonché dell’Attilio Regolo di Metastasio) confermano una prevalente matrice libresca arcadico-melodrammatica.4 2.GLISTUDIDEGLIANNI18131815 Il fervore (o rabbia) del settennale studio «matto e disperatissimo» (1809-1816) porta all’assimilazione di generi e modi propri del classicismo settecentesco, praticati con un’abilissima attitudine mimetica e combinatoria, ma non arriva se non con fatica a spezzare l’angustia di un umanesimo provinciale,esibitoanchecon una qualche dose di baldanzosa ingenuità. Ne dà provanel1813laStoriadella Astronomia, che accumula in cinque ampi capitoli – attraverso Talete, Tolomeo, Copernico, fino alla cometa dell’anno 1811 – una messe imponente d’informazioni erudite di seconda mano, per lopiútrattedallaBibliotheca GraecaeLatinadelFabricius (ed. di Amburgo 1711), assemblate sul filo di un’intrepida fiducia nell’ordineprovvidenzialedel creato5 e nei lumi del progresso scientifico.6 Opera compilatoria e anche scolasticamente impaziente; eppure il destino non sempre cieco fa sí che il lettore esperto del “dopo” rilevi non senza trepidazione, in questa montagna di pedanteria, l’ansia di un occhio ancora acerbo suggestivamente attratto dallo «spettacolo del cielo» e «della notte», dallo «splendore delicato ed argenteo della luna»,7 dalle «scintille […] dolci» e dai «soavi […] raggi» delle stelle, «moltitudine di globi» che «si dispergono negl’immensispazi».8 Un analogo disegno enciclopedico, dettato dal proposito razionalistico di divulgazione della verità contro l’errore delle antiche credenze, in difesa beninteso dellareligionecristiana,ispira nel 1815 il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, impresa piú matura per scioltezza di racconto e di scrittura. Illustra, distribuita in diciannove capitoli, una galleria stipatissima di casi anche singolari di superstizione pagana, per deriderli con ironia o con il sorriso sarcastico di Fontenelle e di Voltaire. Ma ildiciassettennechefrugatra imitielefavoleantiche,che s’ingegna di annoverare quelle leggendarie immaginazionitra«ifallidei nostriantenati»,9chesisforza di non credere «illusoria» l’«idea dei progressi quotidiani dello spirito umano»,10 mostra a momenti di maneggiare con la debita cautela una materia delicatissimachesarebbedilí a poco – svanita l’ironia e subentrato il rimpianto – risorta nel suo orizzonte di poeta(comenellecanzoniAd AngeloMaieAllaPrimavera o nella Storia del genere umano) con potente intensità rievocativa. Dal1814intanto,accanto al trattatista enciclopedico, si rivela anche il filologo. I Commentarii sulla vita e le opere di Esichio Milesio, di Porfirio,deiRetori,poi,trail 1814eil1815,deiPadrigreci e degli scrittori di storia ecclesiastica (d’intento anche apologetico contro il materialismo settecentesco e giacobino)11 sono in prevalenza lavori biobibliografici di compilazione erudita,magià,inalcunenote «dedicate alla discussione di variantiedicongetture»,ecco che «dal compilatore e dall’apologista vediamo sorgereilfilologo:ilfilologo in senso stretto, l’interprete ed emendatore di testi, quale l’Italia “antiquaria” da molto tempo non possedeva».12 Questa vocazione tecnica di criticatestualesuautorigreci e latini si sviluppa nel 1815 conil GiulioAfricano, poi si dispiega soprattutto con i discorsi preliminari e con le notealletraduzioni(inspecie della Batracomiomachia), con gli studi occasionati da scoperte di Angelo Mai (Frontone, Dionigi d’Alicarnasso, Eusebio, il De re publica di Cicerone), con le schede su Platone, sui taumasiografi,suirètorigreci (inprimoluogoLibanio),con gli appunti del 1827 sui Papiritorinesi(editinel1826 daAmedeoPeyron),elaborati invistadiunarecensionemai compiutaperl’«Antologia». Come appare chiaro, la passione – coltivata con grande raffinatezza – del filologo classico, emendatore e interprete, non si esaurisce con la fase erudita della stagione giovanile, né soccombe con la «conversione letteraria» che avvia un decisivo orientamento artistico, bensí accompagna e a lungo convive, marginale ma costante, con l’esperienza adulta del pensatore e del poeta.Sitrattadiuninteresse che ha conseguito – come è stato dimostrato da Timpanaro – risultati autonomi originali, ma al tempostessohaeducatonello scrittore un rigoroso, pragmatico,razionale habitus autocritico: lo ha abituato a valutare con puntuale acribia ilsignificatologicoestoricostilistico della parola, soppesandone l’intima necessità;13 lo ha distolto dal rischio della versificazione esornativa che è malattia endemica del nostro umanesimoretorico. 1.Cfr.«Entrodipintagabbia».Tutti gli scritti inediti, rari e editi. 18091810, a cura di M. CORTI, Milano, Bompiani,1972,p.417. 2. Tanto che dopo dieci anni Giacomo dirà: «Unico divertimento in Recanatièlostudio:unicodivertimento èquellochemiammazza»(G.Leopardi aP.Giordani,Recanati,30aprile1817, inTO,Ip.1025). 3. Sono un documento illuminante per la formazione del giovanissimo Giacomo e per il suo apprendistato di scrittore. Nell’ovvio contesto delle assimilazioni manualistiche (per le fonti, si vd. l’esemplare commento di Tatiana Crivelli, in G. LEOPARDI, Dissertazioni filosofiche, a sua cura, Padova,Antenore,1995),risaltanotemi e motivi destinati a imprevedibili sviluppi nella riflessione di Leopardi e nella sua attività di poeta. Questo l’indice delle cinque parti che compongono le Dissertazioni filosofiche: PARTE PRIMA. Dissertazione logica: Sopra la logica universalmente considerata. Dissertazioni metafisiche: Dissertazione sopra l’ente in generale; Dissertazione sopra i sogni; Dissertazione sopra l’anima delle bestie; Dissertazione sopra l’esistenza di un ente supremo. PARTE SECONDA. Dissertazioni fisiche: Dissertazione sopra il moto; Dissertazione sopra l’attrazione; Dissertazione sopra la gravità; Dissertazione sopra l’urto dei corpi;Dissertazionesopral’estensione. PARTE TERZA. Dissertazioni fisiche: Dissertazione sopra l’idrodinamica; Dissertazione sopra i fluidi elastici; Dissertazione sopra la luce; Dissertazione sopra l’astronomia; Dissertazione sopra l’elettricismo. PARTE QUARTA. Dissertazioni morali: Dissertazione sopra la felicità; Dissertazione sopra la virtú morale in generale; Dissertazione sopra le virtú morali in particolare; Dissertazione sopra le virtú intellettuali; Dissertazione sopra alcune qualità dell’animoumano,chenonsononévizj névirtú.PARTE QUINTA. Dissertazioni aggiunte. Logica: Dissertazione sopra la percezione, il giudizio, e il raziocinio; Metafisica: Dissertazioni sopra le doti dell’anima umana; Dissertazione sopra gli attributi, e la provvidenzadell’esseresupremo. 4. Sulle due tragedie, si veda l’ampiamenteargomentataIntroduzione di I. INNAMORATI a G. LEOPARDI, Teatro, ed. critica e commento, a sua cura, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,1999,pp.1-121. 5. «Tutto è provvidamente distribuitonellanatura.Laconfusionee il disordine non possono aver luogo nelleoperediquellasapienzachedetta leggi a tutto il creato» (Storia della Astronomia dalla sua origine fino all’annoMDCCCXI,inTO,Ip.735). 6.«L’uomopuòcertamentevantarsi diaversuperatiimaggioriostacoli,che la natura oppor potesse al prepotente suo ingegno, e d’esser quasi giunto all’apicedellasapienza»(ivi,p.585). 7.Ivi,p.730. 8.Ivi,p.735. 9.Saggio sopra gli errori popolari degliantichi,X(Degliastri),ivi,p.816. 10.Ibid. 11. Cfr. C. MORESCHINI,Metodi e risultati degli studi patristici di G. Leopardi, in «Maia», XXIII 1971, pp. 303-20. 12.TIMPANARO,LafilologiadiG. Leopardi,cit.,p.10. 13. Si pensi, per esempio, alla distinzione tra «proprietà» e «nudità» delle parole: «sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità» (Zib. 110, 30 aprile 1820). Si consideri anche (ibid.) la distinzione piú generale – secondo la nomenclatura derivata dal trattato IntornoallanaturadellostilediCesare Beccaria – tra «termini» e «parole»: i primi, tipici del linguaggio scientifico, presentano«lanudaecircoscrittaidea» dell’«oggetto significato»; le seconde, necessarie al linguaggio poetico e letterario, evocano («quando piú quandomeno»)«immaginiaccessorie», «idee concomitanti» (ivi, 1701, 15 settembre 1821), associazioni metaforiche: «tutto il bello di questo mondo»consiste«nellaimmaginazione chesipuòparagonarealleparoleealla costruzione libera varia ardita e figurata» (ivi, 111, 30 aprile 1820). Sull’attività piú propriamente lessicografica, cfr. G. NENCIONI, G. Leopardi lessicologo e lessicografo (1980), in ID., Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino,Einaudi,1983,pp.261-90. IV LA«CONVERSIONE LETTERARIA» 1.DALL’«ERUDIZIONEAL BELLO» Il 1816 è un anno importante, perché ora s’incrina in Giacomo il rapporto di devota emulazione nei confronti del padre: del suo modello ideologico-culturale di cattolicesimo reazionario, di enciclopedismo municipale e di provvidenzialismo illuministico (che coniuga fede e ragione), di legittimismo conservatore e di restaurazione antinapoleonica (che hanno ispiratoalfiglio,nelmaggiogiugno 1815, il primo intervento d’impegno civile con l’orazione Agl’Italiani). Lo sguardo che Giacomo rivolge alla realtà del presente, storico e privato, nazionale e recanatese, comincia a non essere piú interamente filtrato dalla prospettiva monaldesca. Tale èilsignificatoprofondodella «conversioneletteraria»cheil poeta ha piú tardi assegnato proprio agli inizi del 1816, ma che ha in effetti svolgimentolentodal1815al 1819. Il passaggio dall’«erudizionealbello»non indica un semplice spostamento di gusto: comporta un investimento senza risparmio nella militanza della letteratura e della poesia; il che significa un bisogno violento – anzi una «smania violentissima» –1didarevoce,«mainmodo forte ed elevato», all’urgere di «passioni» altrimenti incomunicabili: «per esprimerequellocheiosento ci voglion versi e non prosa».2 La clausura recanatese sta diventando un carcere. Queste «passioni» non sono innocenti né inoffensive: parlano di «patria», di «amore», di «gloria», di «virtú» con un’assolutezza di toni che le converteininvettivatagliente contro l’Italia della Restaurazione, contro lo squallido paesaggio della contemporaneità. L’uscita dalla prigionia familiare avvienepergradi,maècerto che il trapasso dall’«erudizione al bello» apre la via anche al patriottismo rivoluzionario delle due canzoni politiche del1818(nonostantel’attacco antifrancese, che è di segno liberale e non reazionario come nell’orazione Agl’Italiani), che faranno a buon diritto sobbalzare di paura il sospettoso e vigilissimoMonaldo. 2.TRADUZIONIDICLASSICI L’avvicinamento alla poesia e la ricerca di un linguaggio personale procedono attraverso le traduzioni, corredate di premesse teorico-critiche.3 Non sono piú un esercizio di scuola come quelle oraziane del 1809 e del 1811, ma nascono dal bisogno d’impossessarsi delle «divine bellezze» che sono privilegio dei classici:4 nel 1815 gli Idilli di Mosco e la Batracomiomachia; nel 1816 Frontone, le Iscrizioni Triopèe, il I libro dell’Odissea,ilIIdell’Eneide, il Moretum; nel 1817 la Titanomachia di Esiodo e i frammenti di Dionigi d’Alicarnasso. Specie le piú impegnative (Mosco, la Batracomiomachia, Omero, Virgilio, Esiodo) mostrano sintomatiche variazioni sperimentali di differenti registri espressivi: forme idillico-elegiache (Mosco), con echi arcadico-neoclassici (derivati da Giuseppe Maria Pagnini, traduttore di Mosco nel 1780) e preromantici (derivatidaFrancescoSoave, traduttorenel1790degliIdillj di Gessner); toni comici e parodistici (Batracomiomachia, in sestine sull’esempio degli Animali parlanti [1802] di Giambattista Casti); gusto puristico e solennemente antiquario (Odissea, con il supporto dell’articolo foscoliano Sulla traduzione dell’Odissea nei milanesi «Annali di scienze e lettere» dell’aprile 1810) inteso a ricreare l’arcaicità dell’antico dettato; modi intensi eroicopatetici (Eneide, con il supporto dell’articolo Caro e Alfieri traduttori di Virgilio, steso da Michele Leoni su materiali foscoliani, negli «Annali di scienze e lettere» del settembre 1811) e epicoorrifici in Esiodo, per renderne la «terribilità semplicissima».5 Lasceltadegliautoriedei testi presuppone un chiaro orientamento di gusto e di poetica. Eloquente, tra gli altri, il caso di Mosco: «La natura nelle poesie di Mosco non è coperta dagli ornamenti, non è offuscata dalle frasi poetiche, non è serva dell’arte. Questa viene ad assidersi a fianco della natura, e la lascia comparire in tutto il suo splendore. Moscoèunpoetacivilizzato, manoncorrotto;èunpastore che è sortito qualche volta dallasuavilla,machenonha contrattoivizideicittadini;è il Virgilio dei Greci».6 Il lavoro sulla Batracomiomachia documenta l’inclinazione spontanea in Giacomo alla burla e alla parodia, nel convincimento (con rinvio all’autorità di Pope) «che un grande autore può qualche volta ricrearsi col comporre uno scritto giocoso, che generalmente gli spiriti piú sublimi non sono nemici delloscherzo,echeiltalento per la burla accompagna d’ordinario una bella immaginazione, ed è nei grandi ingegni, come sono spesso le vene di mercurio nelleminiered’oro».7Siffatta vena «di mercurio» lieviterà nel tempo, dal 1815 ai tardi Paralipomeni, come componente comico-satirica inscindibile dall’«oro» della minieraleopardiana.8 Quanto a Omero, il giovane traduttore sceglie l’Odissea – la versione di Pindemonteuscirànel1822– enonl’Iliade,perscansareil confronto con Monti, che sarebbe «inutilissima temerità»:9quinonsitrattadi testi minori, ma del coraggioso se non temerario incontro, pressoché faccia a faccia, con la stessa Natura, giacché«egli[Omero]èquasi un’altra natura»,10 ovvero il vertice ineguagliato della creazioneartistica(«Tuttosiè perfezionatodaOmeroinpoi, manonlapoesia»).11Virgilio pone «infinite altissime difficoltà», eppure tradurlo è stato necessario – afferma Giacomo – per il bisogno di «far mie» quelle «divine bellezze»: «né mai ebbi pace infinché non ebbi patteggiato con me medesimo, e non mi fui avventato al secondo Libro del sommo poema, il quale piú degli altri mi avea tocco, sí che in leggerlo, senza avvedermene, lo recitava, congiando tuono quando si convenia, e infocandomi e forse talvolta mandando fuori alcuna lagrima».12 L’impegno maggiore è consistito nel salvaguardare l’aurea medietas virgiliana: «non intoppare nel gonfio e non cascarenelbasso,matenermi sempremai in quel divino mezzocheèilluogodiverità edinatura,edachemainon si è dilungata un punto la celesteanimadiVirgilio».13 Tradurre significa per Leopardi identificarsi e convivere con i classici, “avventarsi” su di loro, intrecciare la propria voce a quelladegliantichi: Ella dice da Maestro che il tradurre è utilissimonellaetàmia,cosacertaeche la pratica a me rende manifestissima. Perché quando ho letto qualche classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella mia mente, e l’arricchisconoemilascianoinpace.14 Il poeta moderno nasce da quest’immersionenelpassato, specie nel mondo greco – il regnodelladisinibitaintegrità naturale –, dal “tumulto” interiore che essa provoca, comenutrimentoeconquista, come appagamento di ansia conoscitiva,comerivelazione dell’io a se stesso, fuori dai condizionamentidellacerchia familiare, nonché del circostanteambientesocialee storico. Da qui la fedeltà del traduttore, rispettosissimo degli originali, perché l’accostamento all’antica naturalezzanonvatraditocon mediazioniculturali,ma–per quanto è possibile – centellinato e gustato nel suo intatto,originario«sapore».15 Però s’intende agevolmente che soprattutto importa la capacità di sentire e di ricantare quell’antica naturalezza:conproprieforze econautonomocanto. 3.PRIMEPROVEPOETICHE SIGNIFICATIVE La stessa variatio sperimentale messa in atto nelle traduzioni ritorna nello scrittore in prima persona, giovane artista alla ricerca di se stesso: nel 1816 – con la fondamentale Lettera del 18 luglio alla «Biblioteca Italiana» – le esercitazioni umanistiche dell’Inno a Nettuno e delle due Odae adespotae (non già esercizio di virtuosismo retorico ma tentativo d’impadronirsi dell’eleganza, schiettezza, semplicità arcaiche), l’idillio Le rimembranze, la «burletta anacreontica» La dimenticanza,laprovatragica interrotta della Maria Antonietta (la regina ghigliottinata, eco della pubblicistica antirivoluzionaria) e l’impegnativa cantica Appressamento della morte; nel 1817 – mentre s’avviano lo Zibaldone e il carteggio con Giordani – i cinque sonetti satirici e il sonetto alfieriano, le Memorie del primo amore e l’Elegia I. Stilizzazione idillico-arcadica su sfondo pastorale, scherzo comico e satirico, eloquenza tragica in chiave pateticosentimentale (nonostante il tema politico), scenografica visionemontianainnestatasu una situazione personale (la scoliosigravechesommuove il fantasma della morte imminente), diario autobiografico in prosa e sua lirica trasposizione nelle terzinedell’elegiaamorosa. La mutevolezza e l’intercambiabilità delle forme letteratissime lasciano filtrare due costanti: la tensioneeroicacomeansiadi grandezza, di vigore, di gloria, d’amore, resa incandescente dalla lettura dellaVitadiAlfierinel1817, e il senso acre del limite connesso alla propria privata condizionediprecarietàfisica (non ancora alla miseria dei tempi). Il contrasto provoca già tenui scintille drammatiche. Le rimembranze sono un idillio funebre (come l’Idillio terzo di Mosco), sul motivo dell’intempestiva scomparsa diFilino,rapitoallavitanella primaveradellanaturaedella giovinezza(vv.25-28): […]Leprimerose spuntavano,com’or,suquella fratta, quando,isuoigiuochi abbandonati,ilvidi sederpallido,emuto. La Maria Antonietta si apre per la protagonista, con la «memoria acerba» dei «lieti dí», proprio in prossimità della morte, quando è vano ogni impulso di resistenza («Resister bramo, / ceder m’è forza e lagrimare»).16 Il canto V dell’Appressamento della morte mette in scena, con calchi trasparenti, specie danteschi e petrarcheschi, un desideriodivita,diforzaedi gloria che è smentito dal presentimento della fine immatura(«Poveracetramia, già mi t’invola / la man freddadimorte,etraledita/ lo suon mi tronca e ’n bocca laparola»,vv.88-90),conlo sconforto pacificato, ancora per poco, dalla fede religiosa (vv.94-99): Orbianco’lviso,el’occhio piendipianto, atemivolgo,oPadreoRe supremo oCreatoreoServatoreoSanto. Tuttosontuo.SolaSperanza, iotremo esento’lcorchebatteesento ungelo quandopensoch’appressail puntoestremo. Ma l’invocato soccorso divino non pacifica il «gelo» del «punto estremo», dell’«orrendo passo» (v. 111);nonplacal’offesadella morte che cancella anzi tempo una giovane vita e ne soffoca la «speme» (vv. 32, 54) di affetto, di poesia, di fama(vv.55-63):17 Ahimionomemorrà.Sícome infante cheparlatononabbiai’vedrò sera, emiamortealnatalsarà sembiante. Saròcom’undelavolgare schiera, emorròcomemainonfossi nato, nésaprà’lmondochenel mondoiom’era. Ohdurissimalegge,ohcrudo fato! Quipiangoevegnomen,che sapreimorte, obblivionnonsovedermi allato. La coscienza della malattia diventainquietudinedimorte e sigilla il «funereo canto» (cosí,dopotredicianni,inLe ricordanze,v.118)nelsegno dellasperanzadelusa. Il sonetto Letta la Vita dell’Alfieririlancial’angoscia della«nemica[…]sorte»(vv. 9-10) e della condanna, questa volta senza lenimenti ultraterreni, a una «tomba» illacrimataesenzagloria(vv. 12-14): Dimenonsuoneràl’eterna tromba; starommiignotoenonavròchi dica, Apiangerei’verròsulatua tomba. Al registro comicosatirico, nei Sonetti in persona di ser Pecora fiorentinobeccaio,18compete invece la sponda della polemica culturale non dell’inchiesta autobiografica, dove – a parte La dimenticanza, probabile ripresa nel 1816 di spunti puerili – preme piuttosto, su tastivoltapervoltamutevoli, l’attrito tra passione (di vita, d’energia,d’amore,digloria) eforzatasolitudine,sensodel vuoto, ombra della malattia. La ferita aperta da quest’attrito sollecita nel 1817 le acuminate pagine autoanalitiche delle Memorie del primo amore, lucida cronaca diaristica di un turbato innamoramento, e insieme detta, piú aeree e riflesse, le vibrazioni liriche dell’Elegia Iepoinel1818– dopo le canzoni civili – dell’Elegia II, che associano, in correlazione progressivamente piú stretta, amore e dolore, moti del cuoreesoffertosentimentodi esclusione. 4.LACORRISPONDENZACON PIETROGIORDANI Ma l’attrito soprattutto si chiarifica, meglio si determinaetrovapiúschietto modo d’esprimersi, al di là dell’inventio artistica, nel bellissimo carteggio con Giordani, soprattutto intenso tra il 1817 e il 1821.19 La contrastata ansietà interiore del diciannovenne Leopardi reclama ora risarcimenti principalmente biografici: non per nulla la sua prosa acquista, nell’occasione, toni stupendi di accesa sincerità, schiettezza, confidenza inimmaginabili nell’accademica tessitura dellecoevescrittureeruditee saggistiche. Già nelle prime lettere del 1817, Giacomo tratteggiadiséunautoritratto indimenticabile: gli studi, la casa,ilpaese,lasolitudine,la salute precaria, il bisogno di amicizia e di affetto, la passione di gloria, l’orgoglio intellettuale, la sorprendente versatilità di un ingegno straordinario. Questo colloquio epistolare spalanca per il giovane isolato un varco – limitato ma prezioso – nella reclusione recanatese e consente il confronto con l’attualitàpoliticaeculturale: conferma nel giovane poeta l’aristocraticaconsapevolezza del proprio valore, rinsalda i suoirapporticonlatradizione classicistica e illuministica, accelera il processo d’affrancamento dall’ideologia monaldesca, verso un patriottismo laico e liberalesostenutodalmodello dell’antica «virtú», di contro alla decadenza dell’Italia presente. Nel carteggio – nonché nelle conversazioni intrattenute di persona tra i due amici a Recanati nel settembre1818–ilsensodel limite, che urta in Giacomo con le aspirazioni eroicoideali, da limite soltanto privato (la malattia, l’ambiente familiare e paesano)diventalimiteanche storico e nazionale. Che è premessa decisiva per le due canzoni civili dell’autunno 1818. Da parte sua, l’illustre Giordani(quarantatreennenel 1817),uomoausteroesevero, né incline all’effusione, resta folgorato dall’incontro a distanza con questo sconosciuto ragazzo di provincia che rivela una cultura e un temperamento inconsuetianchetralacerchia dei dotti piú apprezzati. E súbito si convince che il suo «Giacomino» o «Contino» – come lo chiama con cordiale affezione–faràmoltastrada. Infatti gli confida, da Piacenza, il 24 luglio 1817, dopo cinque mesi dall’inizio della loro corrispondenza: «Mio adorato Contino […]. Io fermamente mi son posto incuorechevoidoveteessere (e voi solo, ch’io sappia, potete essere) il perfetto scrittore italiano, che nell’animo mio avevo disegnato da gran tempo».20 Poi incalza, con autentica esultanza e non senza apprensione, sempre da Piacenza, il successivo 21 settembre: Chevolete?èunpezzoch’iol’hodetto a me stesso, e l’ho detto a molti; ora non posso tenermi che nol gridi a voi medesimo:Invenihominem.Appenalo credo a me proprio; ma è vero. Che ingegno!chebontà!Einungiovinetto! e in un nobile e ricco! e nella Marca! Perpietà,pertuttelecarecosediquesto mondo e dell’altro, ponete, mio carissimoContino,ognipossibilestudio aconservarvilasalute.Lanaturaloha creato, voi l’avete in grandissima parte lavorato quel perfetto scrittore italiano cheiohoinmente.Perdio,nonmelo ammazzate.21 Meraviglia e incredulità s’intrecciano al timore per la salute vacillante del suo interlocutore. Giordani lo ammira come un bene prezioso, raro e fragilissimo. Egiàil12marzo,daMilano, dopo avere da Giacomo ricevuto soltanto la prima lettera del 21 febbraio, gli ha annunciato: «Mi diletta il pensare che nel novecento il ConteLeopardi(chegiàamo) sarà numerato tra’ primi che alla patria ricuperarono il maleperdutoonore».22Cheè frase netta e perentoria, persuasa: pronunciata nel 1817, quando del «Contino» potevano leggersi soltanto pochi scritti apparsi sul milanese«LoSpettatore»–di là da venire ancora le Operette e i Canti –, suona come pronostico pressoché geniale. 1. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 30 aprile 1817, in TO, I p. 1026. 2.Ibid. 3.Inaccordoconlesollecitazionidi Giordani: «mi rallegra che VS., non contenta di molto leggere i classici, anche si eserciti a tradurne: esercizio chemipareaffattonecessarioadivenir grande scrittore, e proprio all’età giovane:ondefapietàilpoveroAlfieri, accortosene tardi, e postosi di cinquant’anni a quell’opera che sarebbegli stata utilissima trent’anni innanzi» (P. Giordani a G. Leopardi, Milano, 12 marzo 1817, in Epist., I p. 59). Sull’attività del traduttore, oltre a E. BIGI, Il Leopardi traduttore dei classici. 1814-1817 (1964), in ID., La genesidel‘Cantonotturno’ealtristudi sulLeopardi,Palermo,Manfredi,1967, pp. 9-80, cfr. F. D’INTINO, IntroduzioneaLEOPARDI,Poetigrecie latini,cit.,pp.VII-LXIII. 4. Traduzione del libro secondo dellaEneide,inTO,Ip.434. 5. Titanomachia di Esiodo, ivi, p. 447. 6. Discorso sopra Mosco, ivi, p. 409. 7. Discorso sopra la Batracomiomachia,ivi,p.384. 8. Sul «lungo travaglio correttivo» sopralaBatracomiomachia(cfr.cap. II par. 1 n. 14), «che non ha paragone nella vicenda poetica di Leopardi» e che risponde al bisogno di costruirsi «un proprio linguaggio da operetta morale in versi e, se vogliamo, poiché l’esito sarà proverbialmente “terribile”, da operetta immorale», cfr. E. SANGUINETI, Per la storia di un’imitazione(1988),inID.,Ilchierico organico.Scrittureeintellettuali,acura di E. RISSO, Milano, Feltrinelli, 2000, pp.120-25. 9. Lettera ai compilatori della «BibliotecaItaliana»,inTO,Ip.877. 10.Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,ivi,p.933. 11.Zib.58. 12. Traduzione del libro secondo dellaEneide,inTO,Ip.434. 13.Ibid. 14. G. Leopardi a P. Giordani, 21 marzo1817,ivi,p.1020. 15. «Sa ogni buon letterato che a tradurre Omero vuolsi piena fedeltà, e che ogni parola del testo trascurata è unagemmaperduta,poichéd’ordinario basta togliere a un verso d’Omero le parolechesembranodiniunrilievo,per privarlo di tutto il sapore Omerico e renderlo come un ramo senza foglie» (Lettera ai compilatori della «BibliotecaItaliana»,ivi,p.877). 16. Maria Antonietta, I 1, ivi, p. 329. 17. Cfr. E. GHIDETTI, Alle origini dellavocazionepoeticaleopardiana:la cantica ‘Appressamento della morte’, nel vol. collettivo Una giornata leopardiana in ricordo di Walter Binni (Firenze, 3 ottobre 1998), a cura di M. MARTELLI, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 15-38. 18. Sui Sonetti, cfr. M. ANDRIA, Percorsidell’autografia.Lavicendadei ‘Sonetti di ser Pecora’, nell’opera collettiva Autografi leopardiani e carteggi ottocenteschi nella Biblioteca Nazionale di Napoli, Napoli, Macchiaroli,1989,pp.29-38. 19.Cfr.inTO, Ipp.1018-124.Del carteggio, in parte disperso, avviato da Giacomo il 21 febbraio 1817, sono conservate settantasei lettere di Giacomo (l’ultima è del 6 settembre 1832) e centosei di Giordani (la prima del5marzo1817,l’ultimadel5giugno 1837). 20. P. Giordani a G. Leopardi, Piacenza,24luglio1817,inEpist., I p. 111. 21. P. Giordani a G. Leopardi, Piacenza, 21 settembre 1817, ivi, pp. 123-24. 22. P. Giordani a G. Leopardi, Milano,12marzo1817,ivi,p.59. V DEFINIZIONEDI UNAPOETICA CLASSICISTICA 1.LALETTERA(1816)ALLA «BIBLIOTECAITALIANA» Perproprioconto,intanto, l’accanito frequentatore dei greciedeilatinihacompiuto tempestivamentelasuascelta di campo, nel dibattito tra classicisti e romantici, con la Lettera del 18 luglio 1816 alla «Biblioteca Italiana» e due anni dopo con il piú impegnativo Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, di cui invia «la primaparte»all’editoreStella il 27 marzo 1818, con l’avvertenza che la «continuazione» potrà essere «speditasollecitamente».1 L’invito che Madame de Staël ha rivolto ai letterati italiani perché estendano le loro conoscenze degli autori stranieri è nella Lettera rifiutato come «vanissino consiglio».2 Il diciottenne articolistaraccomandainvece lo studio dei classici e della tradizionenazionale,3cheèla legittimaerededelpatrimonio greco-latino: la «italiana letteratura […] è di tutte le letterature del mondo la piú affineallagrecaelatina,cioè a dire (parlo secondo la mia opinione, ed altri segua pure la sua) alla sola vera, perché lasolanaturale,eintuttovota d’affettazione».4 Questo inequivocabile schieramento su posizioni antiromantiche significa difesa di un classicismo antipedantesco e antiretorico: non già inteso come imitazione dei classici in quanto perfetti modelli formali, bensí come ritorno all’antica purezza, come nostalgia e rimpianto dell’antichitàinquantoaurora del mondo e del genere umano, perciò età piú prossimaallavivafontedella «vera castissima santissima leggiadrissima natura».5 Con il che si dissolve lo stesso canone classicistico dell’imitazione e si rivendica il primato dell’originalità, della schiettezza scevra da artificio: Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori, e disaminamento di gusti stranieri. O noi sentiamo l’ardore di quella divina scintilla, e la forza di quel vivissimo impulso, o non lo sentiamo. Se sí, un soverchio studio delle letterature straniere non può servire ad altro che ad impedirci di pensare,edicrearedipernoistessi:se no, tutti gli scrittori del mondo non ci faranno poeti in dispetto della natura. Ricordiamoci (e parmi dovessimo pensarvi sempre) che il piú grande di tuttiipoetièilpiúantico,ilqualenon ha avuto modelli, che Dante sarà sempre imitato, agguagliato non mai, e che noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli antichi […] perché essi quando voleano descrivere il cielo, il mare, le campagne, si metteano ad osservarle, e noi pigliamo in mano un poeta, e quando voleano ritrarre una passione s’immaginavano di sentirla, e noi ci facciamo a leggere una tragedia, e quando voleano parlare dell’universo vi pensavano sopra, e noi pensiamo sopra il modo in che essi ne hanno parlato; e questo perché essi e imprimamente i Greci non aveano modelli, o non ne faceano uso, e noi nonpureneabbiamo,ecenegioviamo, manonsappiamofarnemaisenza,onde quasituttigliscrittinostrisonocopiedi altre copie, ed ecco perché sí pochi sono gli scrittori originali, ed ecco perché c’inonda una piena d’idee e di frasi comuni, ed ecco perché il nostro terrenoèfattosterileenonproducepiú nulladinuovo.6 Non «modelli», che producono «copie di altre copie», ma «scintilla», «impulso», «ardore», «forza» d’incontaminata ispirazione, primigeniafacoltàd’intendere e d’esprimere, come scoperta perlaprimavolta,lavocedel «cielo», del «mare», delle «campagne», delle passioni, dell’«universo». Da questa tutela dell’originalità e della soggettività, come dalla venerazione del primitivo, non è consentito ipotizzare una particolare tipologia di romanticismo leopardiano, se soltanto si rammenta che contro i canoni tipici della scuola romantica – culto del progresso, provvidenzialismo storico, ideologia cattolica e fede religiosa, rivalutazione delMedioevo–Leopardisiè dichiaratoostileesprezzante. Un siffatto classicismo eretico, o «primitivismo classico»,7 che aspira a richiamare in vita il mito dell’antichità, non solo è antiaccademico, ma anche si annuncia pugnace e spoglio di astrattezza teorica. Come concetto estetico è tutt’altro che nuovo: deriva – per eredità vichiana – da una vasta trattatistica di tardo Settecento8 e dalle tesi piú illuminate del purismo.9 Nell’adolescente Leopardi, però, proviene da un bisogno integrale di rifondazione dell’esistenza – quindi anche dioriginalitàespressiva–che egli sente minacciata a ogni passo nel mondo presente, «sterile» e inondato da una «piena» di conformismo. Diversamentedalclassicismo di Foscolo, saturo di cultura, distillato di una plurisecolare tradizione storica, il classicismo di Leopardi è strumento di cristallina naturalità. Perciò la Lettera, perquantoschieratacontroil fronte piú avanzato dei novatori, prelude nondimeno a una poetica d’avanguardia, solitaria e controcorrente, destinata a sostenere l’opera intera dello scrittore ma insieme a toccare questioni che vanno oltre la letteratura (e il paradosso di una poesia insieme nuova e primitiva scaturita dal «ruminare» sui classici), per riguardare le strutture, gli obiettivi, l’idea stessa della società moderna. Si spiega allora la solidarietà di Giacomo con un purista dissidente e un classicista giacobino come Giordani, proprio anche sul terreno di una laica contestazione culturaleecivile. 2.DISCORSODIUNITALIANO INTORNOALLAPOESIA ROMANTICA(1818) Le tesi sostenute nella Lettera del 18 luglio 1816 sono approfondite con asprezzapolemicanell’ampio e complesso Discorso del marzo 1818,10 fondato sul contrasto tra stato di natura (comeauroradelmondoedel singolo individuo nell’età della fanciullezza) e «corruzione» provocata dall’«incivilimento».11 Al giornod’oggi«tuttoèciviltà, eragioneescienzaepraticae artifizi»:12 di qui i connotati della poesia romantica riversata sull’attualità, sull’industria, sulla tecnica, su effetti scenografici, quindi intellettualistica («la maraviglia è vergogna»),13 arida,14 astratta,15 ostentatamente psicologica,16 stravagante,17 solo in apparenza «popolare»,18 platealmenteeinnaturalmente sentimentale,19 incline all’orrido («l’orridezza è l’uno dei caratteri piú cospicui del sentimentale romantico»),20al«brutto»21e al «vero» ritratto con «imitazioni facili e volgari».22 Al contrario, la grande poesia, come la primitiva – sull’esempio di Omero, di Esiodo, di Anacreonte, di Callimaco e della Scrittura «massimamente nel libro della Genesi» –,23 deve ispirarsiallanatura:24 Ora che cosa faceano i poeti antichi? Imitavano la natura, e l’imitavano in modo ch’ella non pare già imitata ma trasportata nei versi loro, in modo che nessuno o quasi nessun altro poeta ha saputopoiritrarlacosíalvivo,inmodo chenoinelleggerlivediamoesentiamo lecosechehannoimitate,insommain quelmodocheèconosciutoeammirato ecelebratointuttalaterra.25 Ispirarsi alla natura, «vergine e intatta», «incorrotta» e «immutabile»,significatrarre da essa «la candida semplicità»,26 il «simile al vero»,27 gli affetti delicati e spontanei, il «sentimentale […] verecondo semplice ignaro di se medesimo»,28 espresso con «celeste naturalezza»e«soavità».Con talimezzisiottieneil«diletto puro e sostanziale» che proviene dalla fantasia, dalle favole mitologiche, dalla «maraviglia», dalla «libertà d’imaginare»,29 dalle «illusioni potentissime».30 Giacché compito del poeta non è istruire ma «illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare».31 Le «illusioni», che pertengono agli «inganni» dell’«immaginazione» e non dell’«intelletto»,32 sono il lievito che dà senso e sapore allavita:«Alessandroecento altri tali sono, secondo la natura e la fama, grandi, secondo la ragione, pazzi», ma sono «grandi» e hanno fatto «cose grandi» perché signoreggiati dalle «illusioni»: «quanto crescerà l’imperiodellaragione,tanto, snervate e diradate le illusioni, mancherà la grandezza degli uomini e dei pensieriedeifatti».33 Alla difesa della natura (contro la ragione), delle illusioni (contro la scienza), delle finalità edonistiche del poeta («dilettare», contro la sua missione educativa) si affianca una forte componente sensistica, radicata alla terrestrità dell’esperienza fisica e umana, che implica il rifiuto di una poesia spiritualistica e effusiva,misticaemetafisica: Già è cosa manifesta e notissima che i romanticisisforzanodisviareilpiúche possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticarecoll’intellettoestrascinarladal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisicaeragionevoleespirituale.34 Atrarreunbilanciodelledue contrastanti posizioni, si può osservare che l’estetica romantica – sostenuta da di Breme – è funzionale alla modernità vista come valore positivo e propulsivo. Per Leopardi, invece, il moderno si definisce per via negativa, cometradimentodellanatura, e la sua estetica si sviluppa dalla coscienza storicoantropologicadiquesta fratturatrapassatoepresente. Di qui l’aspetto inedito del suo classicismo, funzionale a una poesia che supplisce l’assenza della natura in un mondochel’harifiutata,sída inaugurare il canto di una soggettività lirica che intona il dramma del proprio smarrimento, della propria inappartenenza alla civiltà delle macchine e della tecnica. L’avvolgente eloquenza del Discorso («effuso come unsolipsisticomonologo»),35 chesichiudeconilpatriottico appello ai «Giovani italiani» perché tengano desta – nel nomediAlfieriediCanova– la«fiammacheacceseinostri antenati»,36 contiene in embrione, nel pathos civile dell’epilogo e nelle suggestioni fantastiche evocate dalla «libertà d’imaginare»,l’energiaeroica delle due canzoni del 1818 (come delle successive del 1820-’22) e la poesia degli idilli del 1819-’21. L’acuminato flusso monologante di questa prosa, arditamente ipotattica e al contempoparlata,trasmettele inquietudinidiunreclusoche nell’affetto geloso della natura «santissima» proietta passioni incontenibili, repressedalla«corruzione»di tempi avversi. Anche si avverte con chiarezza che il crollo di quest’idea luminosa della natura non potrà che avere come compagna la disperazione. 1. G. Leopardi ad A.F. Stella, Recanati, 27 marzo 1818, in TO, I p. 1052. 2.LetteraaiSigg.compilatoridella «Biblioteca Italiana» in risposta a quella di Mad. la baronessa di Staël Holsteinaimedesimi,ivi,p.881. 3. «Leggiamo e consideriamo e ruminiamo lungamente e maturamente gliscrittideiGrecimaestriedeiLatini e degl’Italiani che han bellezze da bastare ad alimentarci per lo spazio di treviteseneavessimo»(ibid.). 4.Ivi,p.882. 5.Ibid. 6.Ivi,pp.880-81. 7. M. FUBINI, Giordani, Madame de Staël, Leopardi (1952), in ID., Romanticismo italiano. Saggi di storia della critica e della letteratura, Bari, Laterza, 1953, 19714, p. 91. Circa l’«inconsapevole affinità ideale» di Leopardi «con alcune delle concezioni tipiche del romanticismo europeo, in particolare tedesco» (poesia non come imitazione ma creazione soggettiva, primato della lirica e sua funzione gnoseologica,unitàdipensieroestile), cfr. M.A. RIGONI, Romanticismo leopardiano (1996), in ID., Il pensiero di Leopardi, pref. di E.M. CIORAN, Milano, Bompiani, 1997, pp. 115-31 (conrinviibibliografici). 8. Per riscontri diretti con l’enciclopedica compilazione Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura (7 voll., 1782-1799) del gesuita Giovanni Andres, cfr. FUBINI, Giordani, Madame de Staël, Leopardi, cit., pp. 88-89; per rispondenze con lo stesso articolo di Madame de Staël (Sulla maniera e l’utilitàdelletraduzioni,in«Biblioteca Italiana», I, gennaio 1816, pp. 9-18) a cui si richiama Leopardi, cfr. BIGI, Il Leopardi traduttore dei classici. 18141817,cit.,pp.44-45. 9. Cfr. TIMPANARO, Alcune osservazionisulpensierodelLeopardi, cit.,p.144,eID.,Natura,dèiefatonel Leopardi (1969), in ID., Classicismo e illuminismonell’Ottocentoitaliano,cit., pp.381sgg. 10. Il Discorso va letto in stretto rapporto con gli appunti, sulla stessa materia, raccolti nello Zibaldone tra il 1817 e il 1820 (cfr. in specie Zib. 15 sgg.). 11.Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,inTO,Ip.918. 12.Ivi,p.920. 13.Ibid. 14. La «scienza dell’animo umano già certa e quasi matematica e risolutamente analitica, secondo l’idioma scolastico de’ moderni, per poconons’esponeconangoliecerchi, e non si tratta per computi e formole numerali»(ibid.). 15. «[I romantici] arrivano a paragonareoggettivisibiliaquestooa quell’arcano del cuore o della mente nostra»(ivi,p.922). 16.Ivi,p.928. 17.Ibid. 18. «[Desiderano i romantici che il volgo] debba essere effettivamente uditore o lettore del poeta; e questo mentreché si sforzano di rendere la poesia quanto piú possano astrusa e metafisica e sproporzionata all’intelligenza del volgo. […] Queste cose che ho dette del popolo, bisogna intenderle dirittamente, il che avverto perché quasi pare ch’io tenga contro i romanticichelapoesianondebbaesser popolare, quando e noi la vogliamo popolarissima, e i romantici la vorrebbero metafisica e ragionevole e dottissima e proporzionata al sapere dell’età nostra del quale il volgo partecipapocooniente»(ivi,p.917). 19. «[Nei romantici] possiamo vedere non so s’io dica senza pianto o senzarisoosenzasdegno,scialacquarsi il sentimentale cosí disperatamente come s’usa ai tempi nostri, gittarsi a manate,vendersiastaia;personeelibri innumerevoli far professione aperta di sensibilità; ridondare le botteghe di Lettere sentimentali, e Drammi sentimentali, e Romanzi sentimentali e Biblioteche sentimentali intitolate cosí, risplendere questi titoli nelle piazze; tanta pudicizia strascinata a civettare sulla stessa fronte de’ libri; fatta verissima baldracca quella celeste e divinavergine,bellezzadeglianimiche l’albergano»(ivi,p.937).Sultemadel «sentimentale» e della «sensibilità» Leopardi intende chiarire bene, perché ilpuntoglistaparticolarmenteacuore: «Nonignorodunquecheincertomodo quistailnerbodelleforzenemiche;so che per giudizio d’alcuni, in questo differiscono capitalmente i poeti romanticieinostri,chequellimiranoal cuore e questi alla fantasia» (ivi, p. 933).Masiproponedi«sgagliardire»il «nerbo»degliavversari,osservandoche anche nei classici si trova il «sentimentale» (cita Omero, Virgilio e Petrarca come «il sovrano poeta sentimentale»), non «vanaglorioso e sfacciato» come nei romantici, ma con sembianza di spontaneità e «divina sprezzatura»(ivi,p.936). 20.Ivi,p.939. 21.Ivi,p.930. 22.La«poesiaromantica[…]imita il calpestio de’ cavalli col trap trap trap, e il suono de’ campanelli col tin tin tin […]. Che se l’evidenza sola va cercata nelle imitazioni, perché non dismettiamo del tutto questa materia disadattissimadelleparoleedeiversi,e non ci appigliamo a quella scrittura di certi barbari ch’esprime i concetti dell’animo con figure invece di caratteri? anzi perché ciaschedun poeta in cambio di scrivere non inventa qualche bella macchina la quale mediante certi ingegni metta fuori di mano in mano vedute e figure di qualsivogliaspecie,eimitiilsuonocol suono, e in breve, rappresentando ordinatamente quello che sarà piaciuto all’inventore, non operi sol tanto nell’immaginativa ma eziandio ne’ sensidelnonpiúlettoremaspettatoree uditoreechesoio?»(ivi,p.945). 23.Ivi,p.919. 24.«Lanaturaègrande,laragioneè piccola» (ivi, p. 921); cfr. Zib. 14: «Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola.Vogliodirecheunuomotanto meno o tanto piú difficilmente sarà grande quanto piú sarà dominato dalla ragione:chépochipossonoessergrandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni». 25.Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,cit.,p.933. 26. Ivi, p. 919. Cfr. anche Zib. 20: «chi sente e vuol esprimere i moti del suocuoreec.l’ultimacosaacuiarrivaè la semplicità, e la naturalezza, e la primacosaèl’artificioel’affettazione». 27.Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,cit.,p.944. 28.Ivi,p.936. 29.Ivi,p.920. 30. Ivi, p. 921. Sui pregi e piaceri delle «illusioni» è necessario anche il ricorsoalloZibaldone.Cfr.almeno:«Il piú solido piacere di questa vita è il piacervanodelleillusioni.Ioconsidero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana,edatedallanascitaatuttiquanti gliuomini,inmanierachenonèlecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la piú misera e barbara cosa» (Zib. 51, primavera 1819); «Cosí si vede che appunto chi conosce e sente piú profondamente e dolorosamente la vanità delle illusioni, le onora e desidera e predica piú di tutti gli altri, comeRousseau,laStaëlec.»(ivi,318, 10 novembre 1820); «Si può applicare all’uomo in generale avendo riguardo alleillusioniealmodoinchelanatura ha supplito coi felici errori ec. alla felicità reale, anzi può applicarsi ad ogni genere di viventi, quel verso del Tasso(Gerus. I.3)E da l’inganno suo vita riceve» (ivi, 3761, 23 ottobre 1823). Cfr. anche ivi, 99 (8 gennaio 1820),eG.LeopardiaP.Giordani,30 giugno1820,inTO,Ipp.1103-4. 31.Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,cit.,p.920. 32.Ivi,p.930. 33.Ivi,p.921. 34.Ivi,p.915. 35. G. CONTINI, Giacomo Leopardi, in ID., Letteratura italiana del Risorgimento. 1789-1861, to. I (unico pubblicato), Firenze, Sansoni, 1986,p.281. 36.Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,cit.,p.947. VI LECANZONICIVILI DEL1818, UN’IPOTESI NARRATIVAELE DUECANZONI FUNERARIE RIFIUTATE 1.ALL’ITALIAESOPRAIL MONUMENTODIDANTE Con All’Italia (settembre 1818) e Sopra il monumento di Dante (settembre-ottobre 1818),aridossodelDiscorso eall’indomanideicolloquiin Recanati con Giordani, il vigore delle passioni orgogliose e magnanime che siscontranoconlasorditàdel reales’incanalasulbinariodi una conversione ideologico- politica ormai esplicita, accesa da impeti di riscatto e di rinnovamento civile. La patria celebrata non è una figura retorica e non è piú quella soddisfatta della Santa Alleanza1 – come ancora nell’orazione Agl’Italiani del 1815 –, bensí è l’umiliata ItaliadellaRestaurazioneche soffre«neglettaesconsolata» (All’Italia, v. 15) l’offesa delle «catene» (v. 13) e «piange» la scomparsa della «forza antica» (v. 28). Il che non vuol dire militanza politica in senso romanticorisorgimentale(comeincoevi testi patriottici di Manzoni e diBerchet),bensíprospettiva metapolitica, nella quale l’impulso di rigenerazione giunge a toccare, piú in profondo, la corda dolorosa del compianto e del biasimo, comecoscienzadell’infelicità che affligge la vita contemporanea. L’eroico entusiasmo di rinnovamento dà soprattutto risalto all’amarezza per la vergogna attuale, all’accertamento di una perdita. Centrale nei due componimentinonèlacarica pedagogico-parenetica, bensí il senso della divaricazione tragloriapassataedecadenza moderna, sí che risulta prevalente, nell’eloquio concitato del solenne tessuto classicistico – anche affaticato dal maneggio sapiente degli artifici retorici –,nongiàiltonopropositivo (chenonmanca)ecorale,ma l’accento teso di un io lirico angosciato. In All’Italia la diversità tra moderno e antico si esprime nel contrasto tra gli italiani morti nella campagna napoleonica di Russia, senza onore né fama, per interessi stranieri («in estranie contrade / pugnano i tuoi figliuoli / […] / pugnan per altra terra itali acciari», VV. 43-53), e il valore (celebrato nelcantodiSimonidediCeo) dei caduti alle Termopili per la libertà della loro terra (vv. 61-63): Ohventuroseecareebenedette l’anticheetà,cheamorte perlapatriacorreanlegentia squadre[…]. Il rimpianto significa straziante nostalgia della classicità e il canto che s’intitola All’Italia diventa emblematica celebrazione della Grecia,2 quando i trecento di Leonida alle Termopili, secondo le parole di Simonide immaginato presente sul luogo della battaglia, correvano «ridenti» incontro alla morte come a unafesta(vv.91-100): Comesílieta,ofigli, l’oraestremaviparve,onde ridenti correstealpassolacrimosoe duro? Pareach’adanzaenonamorte andasse ciascunde’vostri,oasplendido convito: mav’attendealoscuro Tartaro,el’ondamorta; nélesposeviforooifigli accanto quandosul’asprolito senzabacimoristeesenza pianto. Il poeta moderno non imita Simonide: è Simonide. Nella dedica a Monti delle due canzonidel1818,riscrittaper lastampadel1824,silegge: riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza fossero perdute, non ch’io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procuraidirappresentarmiallamentele disposizioni dell’animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl’ingegni, tornare afarelasuacanzone.3 Il proposito è di «tornare a fare» l’antica poesia, di ricrearne modernamente l’energia e il vigore, «per ingannareildesiderio»dichi appassionatamente vuole vivere in quel mondo, appropriarsi di quella sensibilità e cultura. «Credea – ha commentato De Sanctis – di rifare Simonide, e gli è uscitafattalacanzonesua,la prima rivelazione della sua poeticavirtú».4Sièrivelatoa se stesso nell’immedesimazione con l’antico. La seconda canzone continua e sviluppa la prima. Riprende quel ritratto negativodella«patria»(v.11) là interrotto dall’apparizione dellaGrecia.Oral’antitesitra passato e presente oppone alla «virtude» (v. 28) di Dante, nuovo Omero e preclaro esempio di «fama» (v. 80) immortale, gli «amari / giorni» (vv. 38-39), lo «scempio»(v.91),i«perversi / tempi» (v. 120) dell’«oggi» (vv. 9, 95), che vedono la «moribonda/Italia»(vv.13536) «ancella e schiava» (v. 124) di «stranieri ed empi» (v. 123). Onde ritorna, con una pittura piú mossa, grandiosa e accorata, il motivo degli «itali prodi» (v. 141) scomparsi in Russia («per quello di neve orrido mare», v. 158), nel fiore dell’età, sacrificati non alla patriamaai«tirannisuoi»(v. 136), uccisi dal gelo, vittime di una morte ignota e inutile (vv.143-53): Cadeanoasquadreasquadre semivestiti,maceriecruenti, ederalettoagliegricorpiil gelo. Allor,quandotraeanl’ultime pene, membrandoquestadesiata madre, diceano:ohnonlenubienoni venti, manespegnesseilferro,eper tuobene, opatrianostra.Eccodate rimoti, quandopiúbellaanoil’età sorride, atuttoilmondoignoti, moriamperquellagenteche t’uccide. Nell’una e nell’altra lirica, per quanto protese nell’augurio di un sognato riscatto, l’epilogo non lascia campo alla speranza ma al rimpianto e all’indignazione: All’Italia si chiude con lo sguardo rivolto al mito aureo e per sempre svanito dell’antica Grecia; Sopra il monumento di Dante, sulla notacupadellosdegnoperla codardia presente, si chiude con l’immagine atterrita di un’Italia inerte, «vedova» e spopolata(vv.197-200): Nonsiconvieneasícorrotta usanza questad’animieccelsialtricee scola: sedicodardièstanza, megliol’èrimanervedovae sola. L’ispirazione civile non è corrusco incitamento all’azione ma fremente canto di cordoglio, che dalla contingenza politica vola al pianoassolutodelladelusione storica.5 Questo stesso smarrimento per generose illusioni non piú praticate trapassa–conunatransizione cheaffondaleradicinellapiú intima vicenda biografica del poeta – dal tema pubblico dellapatriaaquelloprivatoe autobiografico dell’amore. Cosí allo scadere del 1818 l’Elegia II condensa, in terzine ora convulse ora increspatedisopitofurore,gli affanni (l’«insania / angoscia», vv. 67-68) di una passione impossibile («spietato affetto», v. 72) e «senzaconforto»(v.82),che già annuncia il binomio poi fondamentale di amore e morte («[…] colei che in cor m’ha posto / di morire un asprissimo desio», vv. 14-15; «[…]confortoaltrononvedo / al mio dolor, che l’ultima partita»,vv.20-21). 2.RICORDID’INFANZIAEDI ADOLESCENZA I due piani distinti del tema patriottico e amoroso s’intrecciano,nellaprimavera 1819, in un progetto di romanzo: genere di cui l’Italia, «tra tutte l’altre nazioni civili», è «la piú povera», se non addirittura «priva affatto», come Giacomo osserverà poco piú tardi6 (d’accordo, a parte l’assenza dell’ironia, con la manzoniana prima Introduzione al Fermo e Lucia del 1821). Risalgono infattialmarzomaggio1819i cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza, materiali grezzi, riflessioni, pensieri, note per un non compiuto romanzo autobiografico: ipotesi narrativa che attinge alle pagine diaristiche delle Memoriedelprimoamoredel 1817 e che poi sarà a intermittenza e variamente ripresaconibreviframmenti delSupplementoallaVitadel Poggio (forse del 1820),7del Supplemento alla Vita abbozzata di Silvio Sarno (forse del 1822-’23), della Storia di un’anima scritta da Giulio Rivalta (forse del 1825).8 Doveva trattarsi di un’opera almeno in parte di taglio epistolare,9 sulle orme del Werther e dell’Ortis (probabilmente anche attraverso lo Sterne foscoliano), ma affrancata dall’ossequio diretto a quei modelli: un romanzo di tema amoroso e politico, però senza scansione avventurosa e senza eventi drammatici, senza soprattutto l’epilogo tragicodelsuicidio,giacchéil protagonista sarebbe dovuto morire di morte naturale, consumato dalla propria disperazione. E in scena sarebbe entrato non un personaggio d’eccezione, ma un non-eroe, un adolescente precocemente disilluso, un uomoafflittodalcontrastotra ansia d’eroismo e consapevolezza di una situazione storica degradata. Ilprogettoènotevolissimo,e tale da distinguersi dalla coeva narrativa di ambiente contemporaneo, perché riprende l’esempio introspettivo dell’Ortis, e quel nesso di amore e patria, ma da un’angolatura antieroica, garantita dalla volontà di straniamento prospettico dell’io narrante e protagonista. Infatti negli appunti dei Ricordi d’infanzia e di adolescenzal’usodellaprima persona oscilla con quello della terza: il racconto del narratore esterno si alterna alla voce del narratore interno, esplicitamente autobiografico;laconfessione si affianca allo studio autoanalitico, nel tentativo non riuscito di rinvenire un mezzo espressivo capace di rendere conto, con distacco critico, della «storia di un’anima». Il programma resta tale, anche se per lungo tempo ancora10 Giacomo accarezza l’idea di un romanzo che dovrebbe combinare l’io e l’egli, sí da connettere l’angoscia della sua privata condizione esistenziale alla realtà storica deltempo.Ildupliceimpulso della soggettività e dell’oggettività, che non è stato possibile saldare in un autonomoenuovoorganismo narrativo, segue poi, nell’attivitàleopardiana,linee distinte: quella della lirica, con la trasfigurazione autobiografica dei Canti, e quella della ragione investigativa, con la scrittura insieme arcaizzante e familiare, satirica e fiabesca, delle Operette morali: un librocoevoaiPromessisposi, mapolemicoversoleragioni stesse del romanzo ottocentesco; un’opera di prosa umoristica e antiromanzesca, rivolta all’appassionata contemplazione del negativo, e perciò isolata e minoritaria nel paesaggio della cultura letterariadialloraedioggi. Su un virtuale Leopardi romanziere scrisse in passato Giuseppe De Robertis, che invitavaanonsopravvalutare i frammenti superstiti e consigliava di leggerli soprattutto come illuminante preistoria dei Canti, ma con l’avvertenza che i Canti non solo si lasciano alle spalle ogni ipotesi di romanzo, ma tanto se ne staccano e la sorpassano.11 Il che è metodologicamente ineccepibile. Eppure merita ricordare che la suggestione di un Leopardi romanziere – aldilàdeimaterialispecifici qui considerati – è brillata con vigore nella fantasia del trentenneItaloCalvino: Per me il padre ideale del nostro romanzosarebbestatounocheparrebbe lontanopiúd’ognialtrodallerisorsedi quel genere: Giacomo Leopardi. In Leopardi erano vive infatti le grandi componenti del romanzo moderno, quelle che mancavano a Manzoni: la tensione avventurosa (quell’islandese che se ne va solo per le foreste dell’Africa,equellanottetraicadaveri nello studio di Federico Ruysch, e quell’altra sulla tolda di Colombo), l’assidua ricerca psicologica introspettiva, il bisogno di dare nomi e volti di personaggi ai sentimenti e ai pensieri suoi e del secolo. E poi la lingua: la via ch’egli indicò fu quella dei massimi effetti coi minimi mezzi, cheèsemprestatoilgransegretodella prosa narrativa. Ma è soprattutto di Leopardi il racchiudere nel giro d’un luogonoto,d’unpaese,d’unambiente, il senso del mondo. E qui il suo seme nontardòadarfrutto.Cosífuforsealle voci, ai rumori, ai bisbigli dei giorni e delle notti di Recanati che risposero altre voci, altri rumori, altri bisbigli di tragliortidiAciTrezza.12 Su Manzoni avrebbe avuto modo e tempo Calvino di cambiare parere; quanto a Leopardiilfuturoautoredelle Cosmicomiche sarebbe riuscito a rivitalizzarne la disciplina di stile e di fascinazionesurreale. 3.PERUNADONNAINFERMAE NELLAMORTEDIUNADONNA La delusione sempre piú acuminata, dinanzi a un presentespogliodivaloreedi virtú, si sposta dal piano politico-civileaquellomorale e antropologico con le due canzoni funerarie, composte nel marzo-aprile 1819, dal titolo Perunadonnainferma dimalattialungaemortalee Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo (su un fatto di cronaca nera pesarese, del gennaio 1819, che costò al «chirurgo» una condanna a sette anni di carcere).13 Non solo s’espande l’orizzonte del pessimismo,maancheaffiora il proposito nuovo di trarre motivi di riflessione e d’ispirazione dall’esperienza di faits divers,14 con un intervento realistico a presa diretta sull’immediata attualità che avvicina specie la seconda canzone a quel crudo patetismo romantico già condannato nel Discorso del 1818. Tale versante si rivela inidoneo e improduttivo(nonpernullale due liriche restano nel cassetto), ma è nondimeno sintomatico – a fianco della deprecatio politica – quest’intento d’ingrandimento ravvicinato dell’immoralità di costumi corrotti, come testimonianza di una denuncia estesa con sdegnoatuttigliaspettidella vitacontemporanea. In Per una donna inferma, il tema della morte intempestiva, che rapisce «beltà»e«giovanezza»(v.2) e spenge la speranza in «verde etade» (v. 15), introduce, in modi ancora germinali, motivi ricchi di futuro:lostraziodeldistacco dai cari rimasti dolorosamente in vita; l’impotenza dei «mortali» (v. 79) dinanzi «al fato» (v. 80); l’impietosodestinocherende la «nostra famiglia» un «gioco»(v.117)inmanoalla natura (evanescente presagio del «gioco reo» della Palinodia,v.166);ildilagare della corruzione (il «puzzo» del «mondo», v. 120); il contrasto tra la «candida gioventude» (v. 125) e la «nefanda vecchiezza» (v. 127); la celebrazione dell’innocenza(«Maquestoti conforti / sopra ogni cosa, ch’innocente mori», vv. 11819eanchev.151).Quianche s’incontranoiprimisegnalidi una natura non piú benefica («[…] natura / n’ha fatti a la sciaura / tutti quanti siam nati»,vv.97-99),maentroun contesto consolatorio che ne attenua fortemente il rilievo ideologico.15 L’altro testo, Nella morte di una donna, si apre con un rinvio significativo alle canzoni patriottiche(«Mentreidestini io piango e i nostri danni, / ecco nova di lutto / cagion s’accresce a le cagioni antiche», vv. 1-3),16 poi la denuncia dell’umana nefandezza s’ingorga tra lo sdegno e la pietà, per dare voce infine alla consapevolezza di un dolore comunecherendeauspicabile la morte. Si consoli la giovane defunta, pensando che piú triste della sua è la sortedichirestainvita,elei lo sa «per prova»: «E tu per prova il sai, […] il sai che mondo è questo» (vv. 11012). Tale è il mondo. Ma la denunciaeilbiasimolasciano indenne l’«amore» (v. 113), che «non è reo» (v. 114) di questa tragedia e anzi brilla come«solo/raggiodelviver mio diserto e bruno» (vv. 122-23). Amore e bellezza («santa beltà», v. 129) sono l’unico sostegno nell’«empia guerra» (v. 135). In «tanto mardicolpeedisciaure»(v. 133), uno spiraglio di salvezzavienedalleillusioni. 1. La polemica antifrancese e antinapoleonicainSoprailmonumento di Dante («Taccio gli altri nemici e l’altredoglie;/manonlapiúrecentee la piú fera», vv. 99-100, con quel che segue,doveesplicitamentesileggevaal v.100,nelledueedizionidel1818edel 1824: «ma non la Francia scellerata e nera») non significa ossequio all’ideologia reazionaria, ma anzi si avvale di energia alfieriana e ortisiana. Si veda anche la lettera di Leopardi a Pietro Brighenti, Recanati, 21 aprile 1820 (in TO, I p. 1099): «Quelli che presero in sinistro la mia Canzone sul Dante,feceromale,secondome,perché le dico espressamente ch’io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone[ipatriotiliberali],maparteper amor del puro e semplice vero, e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perché non potendo nominar quelli[gliaustriaci]chequestepersone avrebbero voluto, io metteva in iscena altriattoricomeperpretestoefigura». 2. «L’Italia è caduta tanto miserabilmente,cheilpoeta,giuntoalla metà del canto, se ne dimentica, e non cipensapiú,eviveinGreciaerimane inGrecia,dimodochel’Italiapareuna semplice occasione e quasi una introduzione all’inno di Simonide, e Pietro Giordani poté con qualche ragioneintitolarelapoesia:Canzonedi Simonide. […] Vuol parlare d’Italia, comincia a parlarne, e tutt’a un tratto torce il viso da lei, quasi lo prenda disdegnoodisgusto,ecantalaGrecia» (F. DE SANCTIS, La prima canzone di G. Leopardi [1869], in ID., Saggi critici,cit.,IIp.390). 3.Dedicatoriedellecanzoni,inTO, Ip.55. 4. DE SANCTIS, La prima canzone diG.Leopardi,cit.,p.398. 5. Il celebre passo «L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io» (All’Italia, vv. 3738), che è eco virgiliana (Aen., II 668) passata per l’Ortis (lettera del 19-20 febbraio1799),echeeccitòlacaustica malignità di Tommaseo («la bravata appare non essere che rettorica pedanteria»,nellavoceProcomberedel Dizionariodellalinguaitaliana), andrà letto come «allegorizzazione in guerresco del proposito dello scrittore» che vuole «ricongiungersi […] alla visionenaturale,edunquedivina,diun mondo iniziale e felice» (CONTINI, GiacomoLeopardi,cit.,p.281). 6.Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, in TO, I p. 981. 7.Secondoladatazionepropostada F.D’INTINO,inG.LEOPARDI,Scrittie frammenti autobiografici, a sua cura, Roma,SalernoEditrice,1995. 8. Si aggiunga anche la nota che si legge nei Disegni letterari, XII (1828), in TO, I p. 372: «Eugenio, romanzo (Werther),frammenti». 9. Cfr. A. MONTEVERDI, Gli ‘Appunti e ricordi’ (1908), in ID., Frammenti critici leopardiani (1959), Napoli,ESI,19672,p.15. 10. Sull’abbozzo della Storia di un’animascrittadaGiulioRivalta,cfr. G. Leopardi a P. Colletta, Recanati, marzo1829,inTO,Ip.1337:«Storiadi un’anima,Romanzocheavrebbepoche avventure estrinseche e queste sarebbero delle piú ordinarie: ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze, fino alla morte». 11.Cfr.G.DEROBERTIS,Leopardi romanziere (1939), in ID., Studi, Firenze, Le Monnier, 1944, 19532, pp. 164-68: severa recensione del volume di M. DAZZI, Leopardi e il romanzo, Milano,Bocca,1939. 12. I. CALVINO, Mancata fortuna del romanzo italiano (1953), in ID., Saggi 1945-1985, a cura di M. BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995, 2 voll., I pp. 1508-9. Sul tema, con riferimento particolare al Dialogo di Federico Ruysch e al Frammento XXXVIIdeiCanti,Calvinoèritornatoin Il fantastico nella letteratura italiana (1985),ivi,IIpp.1672-82. 13. Cfr. Epist., II p. 11 n. 3. Giacomo avrebbe voluto che l’amico Pietro Brighenti pubblicasse nel 1820, con il titolo Canzoni, questi due testi (cfr. G. Leopardi a P. Brighenti, Recanati, 4 e 25 febbraio, 7, 21 e 28 aprile 1820, in TO, I pp. 1092 sgg.), insieme alle due canzoni del 1818 e a quellaAdAngeloMai,malastampafu impedita da Monaldo, turbato dall’arditezza dell’argomento (cfr. P. Brighenti a G. Leopardi, Bologna, 22 aprile1820,inEpist., IIp.34).Ilpoeta poi ha implicitamente rifiutato questi componimenti lasciandoli inediti (non ne fa parola negli Indici dei propri scritti). La prima canzone è stata pubblicata, a cura di Alessandro D’Ancona, nel 1870 (da una copia allestita da Paolina) e nel 1931 da Moroncini (dall’autografo napoletano); l’altraèstataeditanel1906. 14. Come avviene anche con il disegno della Storia di una povera Monaca, forse dello stesso 1819 (cfr. Disegni letterari, I, in TO, I p. 367), sulla tragica vicenda di una fanciulla «nativa di Osimo che disperata essendosimonacataperforza,siuccise gettandosi da una finestra del suo monastero di S. Stefano in Recanati». Una materia in parte simile tratterà Verga,adistanzadicinquant’anni,nella Storiadiunacapinera(1869). 15. Cfr. V. DI BENEDETTO, G. Leopardieifilosofiantichi,in«Critica storica»,VI1967,p.303;TIMPANARO, Natura,dèiefatonelLeopardi,cit.,p. 388. 16. Cfr. BINNI, La protesta di Leopardi,cit.,p.40. VII LA«CONVERSIONE FILOSOFICA»EGLI SVILUPPIDEL PENSIERO LEOPARDIANO 1.DAL«BELLO»AL«VERO»E LACRISIDELPESSIMISMO «STORICO» Dalla delusione dell’oggi gridatanellecanzonidel1818 si sviluppa con gradualità un pensiero integralmente negativo. Il cosiddetto (dal desanctisiano Zumbini fino dal 1902) pessimismo «storico»1 – databile dalla «conversione letteraria» del 1816allasvoltadel1819-’23 –, palese nella Lettera alla «Biblioteca Italiana» del 1816,nelDiscorsodel1818e nei materiali coevi dello Zibaldone, viene dalla coscienza della frattura tra antico e moderno, quindi dal mito della natura benefica e dall’ideadellaclassicitàcome regno dell’immaginazione, giovinezza del mondo e del genere umano. La civiltà moderna, con l’imperio della «ragione», ha comportato l’allontanamento dallo stato originario, per cui le sofferenze individuali e la degradazione pubblica sono considerate effetto storico di questo divorzio. L’indignatio delpoetamiraaun’ipotesidi rigenerazione. L’idea della natura benigna comincia a mostrare leprime,labilicrepeapartire dal1819,l’annoperGiacomo di un cupo sconforto (anche per l’aggravarsi in primavera della penosa oftalmia e nel luglioperilfallitotentativodi fuga)checoincideconlasua «conversione filosofica», ossia con il passaggio dal «bello» al «vero», come informa Zib. 143-44 (1o luglio1829): Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umanoingenerale.Daprincipioilmio forteeralafantasia,eimieiversierano pieni d’immagini, e delle mie letture poeticheiocercavasemprediprofittare riguardo alla immaginazione. […] In sommailmiostatoeraalloraintuttoe pertuttocomequellodegliantichi.[…] La mutazione totale in me, e il passaggiodallostatoanticoalmoderno, seguí si può dire dentro un anno, cioè nel 1819 dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai piú tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopralecose[…],adivenirfilosofodi professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogodiconoscerla,equestoancheper uno stato di languore corporale, che tantopiúmiallontanavadagliantichie miavvicinavaaimoderni. A ventun anni, dunque, Giacomo entra nella modernità,maconl’animodi un classico condannato all’esilio in un paese «barbaro» (Zib. 22), ed è un ingresso traumatico che equivale«asentirel’infelicità certa del mondo». L’appressamento «alla ragioneealvero»(Zib.144), che procede con dolorosa lentezza, smorza la fantasia, glieroicientusiasmi,ilfurore delle passioni. Il «mondo» si disabbellisce e inaridisce. Il modernosignificail«vero»e il «vero» rivela la noia, il vuoto, il nulla, la disperazione, la «vanità di tutte le cose»,2 la «certezza dellanullitàdellecose»:3 Questaèlaprimavoltachelanoianon solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo;esonocosíspaventatodella vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la miadisperazione.4 Orasonostecchitoeinariditocomeuna canna secca, e nessuna passione trova piúl’entratadiquestapoveraanima.5 Quandonell’aprilepisanodel 1828ilpoetatratteggiaconIl risorgimento la propria autobiografiasentimentale,la strofa d’apertura (vv. 1-8) si richiama proprio a questa nuovacondizionechevedein lui, già «sul fior degli anni» (v. 2), venir meno «i teneri / moti del cor profondo» (vv. 5-6): Credeich’altuttofossero inme,sulfiordeglianni, mancatiidolciaffanni dellamiaprimaetà: idolciaffanni,iteneri motidelcorprofondo, qualunquecosaalmondo gratoilsentircifa. I settenari storicizzano, con implicitaallusioneal1819,il primo tempo di una «conversione filosofica» via via destinata a sopire, fino al “risorgimento” del 1828, la facoltà stessa di sentire, di provare emozioni e trarne piacere. La felicità è stata un’aspirazione che Giacomo ha sempre rincorso invano, ma ora sospetta di essere abbandonato anche dalla speranza di poterla raggiungere.Lasestalassadi A Silvia rievoca questo precoce e intempestivo disinganno; Silvia muore nell’autunno 1818 e di lí a poco («fra poco», v. 49), nel 1819, perisce in Giacomo la «speranza»(vv.49-52): Ancheperiafrapoco lasperanzamiadolce:aglianni miei anchenegaroifati lagiovanezza. Con la svolta del 1819 s’interrompe la militanza civile delle canzoni del 1818 e il poeta inizia – senza ancora rinunciare al sogno di unriscattomoraledellarealtà contemporanea – una nuova militanza, non storica ma esistenziale, e s’avvia ad essere il grande interprete dell’umanainfelicità. Questa nuova carriera si regge almeno su tre presupposti: 1)l’«incivilimento»rende inattuabile la «poesia immaginativa», riconosciuta come patrimonio esclusivo degliantichiedellorovigore naturale (tentata però con la magniloquenza eroica delle due canzoni del 1818), mentre propria «di questo secolo» è la «poesia sentimentale», ossia ragionativa,che«sgorgadalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, in somma dal vero»:6 il che attesta la netta separazione tra antico e moderno; 2) l’«incivilimento» distrugge le illusioni, ma esse, per un fertilissimo paradosso7 che sfugge alla logica della ragione, facendo scattarelalogicadellapoesia, permangono come unica «sostanza»8 reale, sí da mettere in moto quell’energico contrappunto, tra scoperta del «vero» (inaugurata dalla «conversione filosofica») e resistenza delle illusioni, che aiuta a comprendere sia la poetica degli idilli sia il «risorgimento» del 1828 e la ripresa post-1830; proprio dalle illusioni scaturisce il genere «lirico», che sarà consacrato nell’inedito titolo di Canti assunto dal 1831; il genere «lirico» è «la cima il colmo la sommità della poesia»,9 «prodotto della naturavergineepura»:10 primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; piú nobile e piú poetico d’ogni altro; vera e pura poesiaintuttalasuaestensione;proprio d’ogniuomoancheincolto,checercadi ricrearsi o di consolarsi col canto, o colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivoebensentitodell’uomo.11 3) la cognizione della «vanità delle cose» (Zib. 78) è conquista conoscitiva e insieme fonte di poesia. Proprio la poesia della «vanitàdellecose»,inquanto assoluta contemplazione del negativo, che non è mai esaltato né assolutizzato, può avere (per altro fertile paradosso) il duplice effetto di recare «conforto» – in senso terreno, non il metafisico «conforto stolto» diAmoreeMorte(v.119)–e di sprigionare un’eccezionale energia conoscitiva, un accrescimento di vitalità: infatti non solo porta con sé «il piacer del dolore»,12 il qualedonaun’«amaraedolce tenerezza», come «rassegnazione dolce alle sventure […] conosciute inevitabili»,mapiúancora,se affidataa«operedigenio»,in «un’anima grande» riesce ad accendere l’«entusiasmo», ad aprire e vivificare «il cuore»;13perché«conosciuto, ancor che tristo, / ha suoi diletti il vero» (Al Conte Carlo Pepoli, vv. 151-52), l’«acerbovero»(v.140).14 La polemica contro la «ragione»,chehainariditola vita dissipando le illusioni (nelDiscorsodel1818),resta attiva anche dopo la «conversione filosofica», finchédurailrimpiantodella natura «santissima», ma non assume mai connotati irrazionalistici. Poi gradualmente la ragione è riabilitata, perché serve ad aprire gli occhi sull’effettiva realtà dell’esistenza, sulle persecuzioni della natura, sulla cognizione del nulla. Si approfondisce la differenza, già introdotta nel Discorso del 1818, tra gli «inganni» dell’«intelletto» (che sono pregiudizi e false credenze, come l’antropocentrismo) e gli «inganni» dell’«immaginazione» (che sono «cari inganni»,15 nobili illusioni, passioni, ideali morali, fantastiche «larve» che recano diletto):16 tale distinzione rimane fondamentale e non muta. I primi sono combattuti dalla ragione;isecondisonocreati dallapoesia.Macompetealla poesia «il penetrare addentro ne’grandimisteridellavita», là dove non giunge la «ragione esatta e geometrica»: siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere17 ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sí generali, sí anche particolari, della natura. Essi soli possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendereiltuttodellanatura,ilsuo modo di essere, di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini.18 Tuttavia tra la ragione filosofica, che combatte gli «inganni» dell’«intelletto», e la poesia, che crea gli «inganni» dell’«immaginazione», può esserci alleanza e si comprende perché – ferma restando la netta separazione tra i due «inganni» – via via siriducalapolemicacontrola ragione ed emergano invece tratticomunitralapoesiaela filosofia: È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa piú contraria al bello; sieno le facoltàlepiúaffinitraloro[…].19 Lasorgentecheunisceledue «facoltà» è l’immaginazione, alla quale è attribuita una potente funzione conoscitiva: al poeta permette di trovare «metafore arditissime», di cogliere le similitudini, le «somiglianze tra le cose», le analogietra«glioggettidelle specie le piú distinte»; al filosofoconsente«discoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e digeneralizzare».20La«forza dell’immaginazione» fa il vero poeta come il vero filosofo,e«nél’unonél’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa piú che mediocremente dell’altro genere».21 Linguaggio del «bello» e linguaggio del «vero» si danno la mano. Di qui muove la ricerca unitaria bipartita tra poesia e prosa riflessiva, tra i Canti e le Operette. Dall’antitesi «ragione»-«passione» si giunge dunque a un loro particolare connubio, a una sorta di reciproca solidarietà in nome non dell’arido raziocinio geometrizzante ma dell’«entusiasmo della ragione».22 L’idea della natura beneficaemisericordiosa,pur tra incrinature, resiste fino circa al 1822-’23 (e con essa resisteanchel’ipotesiutopica diunarigenerazionemorale): infrangere questo mito salvifico, suscitatore di passioni eroiche e di magnanime illusioni, costa sacrificioepena,tantochela sua dissoluzione induce al silenzio nel 1823 la voce del poeta e apre la stagione prosastico-riflessiva, rassegnata e ironica, delle Operette morali. Ma importa osservare che la cognizione del «vero», con la conseguente denuncia dell’immoralità dei corrotti costumi contemporanei – come avviene nelle due poi rifiutate canzoni del marzoaprile1819–,inaspriscenello scrittoreilgiudizioesacerbato contro la società e «la scelleraggine degli uomini»,23 con punte di risentimento misantropico (specie nelle «prosette satiriche» del 1820-’22), ancora allo scopo di «scuotere la mia povera patria».24 Con la «conversione filosofica»siamoaunasvolta e non stupisce che nel 1819 l’officina leopardiana sia sollecitata da molteplici ipotesi operative, nel tentativo di sondare generi differenti che diano espressione adeguata a differenti esigenze conoscitive e stilistiche: nel marzo-aprile il realismo polemico delle due canzoni rifiutate (provvisorio accostamento alla sponda romantica); nel marzomaggio i Ricordi d’infanzia e di adolescenza, che valgono da antefatto degli idilli (avviati inquestomedesimoanno)ma sono anzitutto, s’è visto, materiali di un progettato e mai compiuto romanzo autobiografico,generecaroai novatori romantici; nell’estate-autunno gli appunti degli Inni cristiani (quattro anni dopo la stampa dei manzoniani Inni sacri) e del Discorso intorno agl’inni e alla poes. crist. («la relig. nostra ha moltiss. di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia»),25 testimonianzadiunafedeche chiede soccorso per i «nostri Immensi affanni»;26 nell’estate-autunno anche l’incompiuto dramma pastoraleTelesilla(suunavia già tentata nel 1818-’19 con Erminia), che si propone «Forzaeveritàmodernadella passione, unita per la prima volta alla semplicità e agli altri pregi antichi».27 Ma la fase sperimentale si blocca con l’approfondimento del «vero» e il radicalizzarsi del pessimismo. 2.LA«TEORIADELPIACERE» La sofferta conversione alla negatività integrale ruota intorno all’idea della natura. Il mito della natura benefica subisce una consistente incrinatura dalla riflessione speculativa dello Zibaldone, soprattutto nel periodo 1820-’21, detta «teoria del piacere». L’innato «amor proprio», come smisurato «amordisé»,accendeinogni individuo un illimitato bisogno di autogratificazione che non potrà mai essere interamente appagato, onde ancheimomentidigioiasono turbati dal rovello di una tensione edonistica insoddisfatta. Si veda Zib. 646-48(12febbraio1821): La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell’animo nostroediqualunquevivente,èquesta. Ilviventesiamasenzalimitenessuno,e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorché grande, ancorché reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla misura dell’amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorché reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perché questi desidera sempre di piú, giacché per essenza si ama, e quindi senzalimiti.Ottenutoanchedipiú,quel dipiúsimilmentenonglibasta.Dunque nell’atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perché inferiore al desiderio, e perché il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell’animale all’indefinito,aunpiaceresenzalimiti. Quindi il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perché l’indefinitononsipossiede,anzinonè. Ebisognerebbepossederlopienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchél’animalefossepago,cioèfelice, cioè l’amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa contraddittoria e impossibile. Dunquelafelicitàèimpossibileachila desidera,perchéildesiderio,sícomeè desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essersoddisfatto.Oraquestodesiderioè conseguenzanecessaria,anzisipuòdir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita,inquell’ordinedicosecheesiste,e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorché possa essere, ancorché fosse realmente. Dunqueognivivente,perciòstessoche vive(equindisiama,equindidesidera assolutamentelafelicità,valeadireuna felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, né potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa chenesegue. Al di là dei motivi che riguardano direttamente il sistema della poesia («il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommopossibile»;«lafelicità ed il piacere è sempre futuro»), interessa il nesso vincolantestabilitotralavita, l’amorproprio,ildesideriodi piacere senza limiti e la conseguente infelicità. Non piúsolo,dunque,pessimismo storico-sociale-politico, ma anche sensisticopsicologicoesistenziale,28 connaturato alla conformazione psichica dell’io. Il fatto stesso di esistere comporta necessariamentelasofferenza che discende da un intenso desiderio destinato a restare inappagato. Su questa strada si aggredisce anche la nozione della natura, perché proprio lei è additata (ma il processo è molto graduale) come la responsabile prima dell’innatasetedipiacereche affanna«qualunquevivente». Eloquente il passo di Zib. 4517(27maggio1829): La natura non ci ha solam. dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice,comechinonhadichecibarsi, patiscedifame.Orquestobisognoella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo,senzanemmenoaverposto lafelicitànelmondo. Il pessimismo psicologico-esistenziale, non dipendente da motivazioni di ordine storico e politico, allenta il contrasto antichimodernieaprelastradaauna diversa valutazione anche della civiltà antica, finora ritenutaindenne,nelsuostato di natura, dalla coscienza dellavanitàdelvivere. 3.CLASSICITÀFELICE? Larevisionecheinvesteil concetto della natura, fino a giungere a un autentico ribaltamento della posizione originaria, si attua anche attraverso la scoperta del pessimismo degli antichi. Un testo al riguardo significativo è la Comparazione delle sentenzediBrutominoreedi Teofrasto vicini a morte, del marzo 1822.29 L’apostasia della virtú, pronunciata da Bruto in punto di morte, è effetto di una circostanza particolare e si situa in un particolare momento storico: dopo una calamità come la sconfittadiFilippi(42a.C.)e in un tempo che segna «l’ultima età dell’immaginazione»,30 quindinellafasedidecadenza della civiltà classica. Ma l’apostasia della gloria, da partediTeofrastoinpuntodi morte, ha altro peso. Questo pessimismo non insorge in un’occasione luttuosa ma è maturatonelcorsodiunavita lungamente operosa, serena, rispettataeinpiúsimanifesta non in un periodo di decadenza ma nel fulgore dell’epoca classica, quando signoreggiano le illusioni, in tempi «non ripugnanti a quei sogni e a quei fantasmi che governarono i pensieri e gli attidegliantichi»:31 Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o piú veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intellettoumanocoll’andaredeisecoli hascoperto,nondicolanudità,mafino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazioneerimedioprincipaledella nostra infelicità, s’è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l’avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatticom’eranoacredere,secondo l’insegnamentodellanatura,chelecose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro che alla miseria, queste sí fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, nonsitrovacheintervenisserosenondi rado;eperò,quandositrova,èragione che il filosofo le consideri attentamente.32 Si sa che nel 1822 le conoscenze leopardiane sul pessimismo antico sono lacunoseechel’orientamento riferitoaTeofrastoètutt’altro che isolato.33 Sta di fatto tuttaviachel’accertamentodi simili sentenze pessimistiche nella Grecia felix – non dettate da un impulso passionale né da moti di rivolta ma scaturite da una pacata riflessione – è per Giacomo un motivo inedito che scalza uno dei presupposti del pessimismo storico,valeadirelaserenità degli antichi. Tale costatazione incrina, non abolisce però, l’immagine dellaclassicitàfelice34eporta piú tardi all’ironica affermazionechela«filosofia dolorosa» è tanto nuova «quanto Salomone e quanto Omero» (Tristano, 9): l’infelicitànonèconseguente al distacco dalla natura, e frutto del nuovo dominio della «ragione», ma attributo insito da sempre nell’esistenzastessa. 4.ILPESSIMISMO MATERIALISTICO La concezione della natura malefica, compiutamente elaborata nelle Operette (esemplare il DialogodellaNaturaediun Islandese,maggio1824),èla chiavedivoltadelcosiddetto (dal medesimo Zumbini fino dal 1902) pessimismo «cosmico»,35 da intendersi come pessimismo ateo e materialistico. Muta adesso di segno la stessa nozione di infelicità. Nella prospettiva del pessimismo storico essa significa disagio e difficoltà nella convivenza sociale, nelle relazioni pubbliche, nei rapporti umani. Nella prospettiva della «teoria del piacere»essasignificadolore per un desiderio inesaudito. Nella prospettiva del pessimismo materialistico essa significa necessaria sofferenza fisica. L’infelicità ora, non già – e non solo – causata dall’«incivilimento» che ha cancellato l’integra naturalezza delle epoche antiche, è intrinseca al fatto stessodiesistere,perchétutto ciò che esiste non è che un misero ingranaggio entro un ciecoprocessomeccanicistico diproduzione-distruzioneche salvaguarda la sopravvivenza della specie e dell’universo a prezzo dell’inevitabile patimento – precarietà materiali, malattia, invecchiamento, morte – di ogniesserevivente. L’Islandese, a colloquio con la Natura, si definisce (par. 6) alieno dalle relazioni sociali e «disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie». A suo modo, è corso ai ripari sia dall’infelicità connessa al pessimismo storico sia dall’infelicità connessa alla «teoria del piacere». Non gli resta che un’unica, superstite aspirazione: «non mi proposi altra cura che di tenermi lontanodaipatimenti»(ivi).E proprio anche su questo fronte si scopre indifeso e vulnerabilissimo. Le parole che da ultimo la Natura gli rivolge suonano limpide e chiare, nella loro impassibile freddezza sillogistica (par. 25): Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbeinsuodannosefosseinlui cosaalcunaliberadapatimento. Cambiano radicalmente ora molte cose. Il risentimento misantropico di Leopardi, provocato dalla degradazione dei costumi umani e sociali, cede il campo alla commiserazione e all’«odio» controlanatura,«originevera de’ mali de’ viventi», come risulta da Zib. 4428 (2 gennaio1829): La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parereachilaguardasuperficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel malumore,quell’odio,nonsistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosalanatura,ediscolpandogliuomini totalmente,rivolgel’odio,osenonaltro il lamento, a principio piú alto, all’origineverade’malide’viventi. Il laborioso approdo al pessimismo integrale presupponelaconoscenzadei filosofi sensisti e illuministi settecenteschi (Montesquieu, Diderot,LaMettrie,Voltaire, Condillac, Helvétius, D’Alembert, D’Holbach), avvenuta sia per via indiretta attraverso la pubblicistica confessionale settecentesca, sia per mediazione della contemporanea cultura classicistica, sia per lettura diretta dal 1820 (D’Holbach)36 e piú in particolare dal 1825.37 Tali frequentazioni intellettuali orientano il pensiero leopardiano in senso materialisticomeccanicistico, per giungere all’estrema conclusione che «la materia pensa e sente», non «lo spirito» che è propriamente (come il nulla) «una non idea».38 Quandosussistevailmito della natura benefica, il «male» appariva come un «inconveniente» o un «errore» nel sistema universaledellecose: lo stato presente dell’uomo, e le assurdità sue, dovranno esser considerate come una particolarità indipendente dall’ordine e dal sistema generale e destinato, e costante, e primordiale. Che se anche non c’è piú rimedioperl’uomo,nemmenoperchisi tagli una gamba, o sia schiacciato da unapietra,c’èpiúrimedio.Bastacheil male non sia colpa della natura, non derivinecessariamentedall’ordinedelle cose, non sia inerente al sistema universale; ma sia come un’eccezione, uninconveniente,unerroreaccidentale nelcorsoenell’usodeldettosistema.39 Caduto il mito della natura benefica, il «male» non appare piú accidentale ma regolare,diventa«essenziale» e rientra «nell’ordine» delle cose: Noi concepiamo piú facilm. de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebberostraordinarii,accidentali;noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta,comesonquelledell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondociapparirebbeunaragioneeuna potenza limitata: niente maraviglia; poiché il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ognisenso.Macheepitetodareaquella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’èdelmale,domanivipotràesserdel bene, esser tutto bene. Ma che sperare quandoilmaleèordinario?dico,inun ordineoveilmaleèessenziale?40 Il pessimismo materialistico arriva a demolire il mito del progresso, come ideologia e legge della storia, ma non rinuncia – secondo tutta la tradizione del materialismo – all’idea di una conoscenza scientificacapacediavanzare e progredire. La persuasione dell’infelicità inevitabile non spinge a cercare rifugio nella trascendenzaoinrisarcimenti mistici e spirituali; fino circa al 1822 permane in Leopardi il tormentato tentativo di conciliare il proprio pessimismo con il pessimismocristiano;41poisi afferma il suo ateismo agonistico, con il rifiuto di ogni credo finalistico, teleologico, antropocentrico, per arrivare all’agghiacciante rovesciamento del provvidenzialismo cristiano nella terribile figurazione lirica di Arimane («te con diversi nomi il volgo appella Fato,naturaeDio»),empiae persecutoriadivinitàdelmale («ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà»)42 che come «somma intelligenza» demoniaca sorpassa in «arcana malvagità» la natura, che è cieco e inconsapevole meccanismo di produzionedistruzione. 1. B. ZUMBINI, Attraverso lo ‘Zibaldone’,inID.,Studi sul Leopardi, Firenze, Barbèra, 1902-1904, 2 voll., I 1902,p.173. 2. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 19 novembre 1819, in TO, I pp.1089-90. 3. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 6 marzo 1820, ivi, pp. 109495. 4. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 19 novembre 1819, ivi, pp. 1089-90. 5. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,6marzo1820,ivi,p.1094. 6.Zib.734-35(8marzo1821). 7.Il«sistemadelparadosso»,come processo interno del pensiero leopardiano, è stato molto efficacemente indagato da L. BALDACCI, Il sistema del paradosso (1984), in ID., Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, Milano, Rizzoli, 1997,pp.77-105:«larealemodernitàdi Leopardi sta non già nell’avere intuito, comesuperamentodelprincipiodinon contraddizione, la necessità di una nuovadialettica,manell’averrifiutatoa priorilasuaradiceottimisticaequindi giustificatricedellarealtàqualè.Molte sonoleaporiediLeopardi,maunodei punti non contraddicibili del suo pensiero è che la realtà è ingiustificabile: e come avrebbe potuto allora cercare un accordo, sia pure occultamenteeinconsapevolmente,con quelle filosofie che, mirando a dominaretuttoilreale,tendevanoanche a giustificarlo?» (p. 86); «proprio nel paradossoLeopardiformalizzalalogica del relativismo medesimo: una logica chenonsiconclude,bensíesplode»(p. 102). 8. «Pare un assurdo, e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendounnulla,nonv’èaltrodireale né altro di sostanza al mondo che le illusioni»(Zib.99,8gennaio1820). 9.Ivi,245(18settembre1820). 10.Ivi,4236(15dicembre1826). 11.Ivi,4234(15dicembre1826). 12.Ivi,77e105(26marzo1820). 13. Il «sentimento del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento è vivo, come nel caso ch’io dico, la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sentelamorteperpetuadellecose,esua propria» (ivi, 259-61, 4 ottobre 1820, ma questo passo formidabile andrebbe citatoperintero). 14.Il«Leopardiècomeuncristallo di roccia purissimo […]. Nel Leopardi io vedo la bellezza del dolore. Ma il dolore è bello? […] la bellezza non è dal dolore ma da quella luce intellettuale che lo illumina» (SETTEMBRINI, Il Leopardi, cit., pp. 329,334-35). 15.Asestesso,v.4. 16. Cfr. Zib. 421-23 (dicembre 1820); Dialogo di Timandro e di Eleandro,par.39;Tristano,par.7. 17. Si osservi la consequenzialità del«quindi».Lapoesianonèeffusione emotiva, ma conoscenza, cognizione intuitiva e aurorale che consente di conoscerecosealtrimentiinconoscibili: «Perocchétuttociòch’èpoeticosisente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s’intende, né altrimenti può esser conosciuto, scoperto ed inteso, checolsentirlo.Malapuraragioneela matematicanonhannosensorioalcuno» (Zib. 3242, 22 agosto 1823). Il nesso «sentire e quindi conoscere» ritorna, invertito, nelle parole del pastore nel Canto notturno, vv. 100-4: «Questo io conoscoesento,/chedeglieternigiri,/ chedell’essermiofrale,/qualchebene ocontento/avràfors’altri;amelavita èmale». 18.Zib.3242-43(22agosto1823). 19.Ivi,3382-83(8settembre1823). 20. Ivi, 1650 (7 settembre 1821). Cfr. anche ivi, 2132-34 (20 novembre 1821). 21.Ivi,3383(8settembre1823). 22.Ibid. 23.Ivi,2473(13giugno1822). 24.Ivi,1393(27luglio1821). 25.Discorsointornoagl’inniealla poes.crist.,inTO,Ip.337. 26.InnoalRedentore,ibid. 27.Perun’avvertenzaallaTelesilla, ivi,p.349. 28.Cfr.L.BLASUCCI,Laposizione ideologica delle ‘Operette morali’ (1970), in ID., Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, pp.165-226. 29. Pubblicata nell’edizione bolognese (1824) delle Canzoni, come premessa al Bruto minore, poi (non inclusaneiCanti)nelleOperedel1845, acuradiA.RANIERI,inappendicealle Operette morali. La Comparazione si trova, anche in edizioni moderne, spesso riprodotta in appendice alle Operette, ma, essendo stata redatta comepremessaalBrutominore, la sua collocazione piú idonea risulta in appendice ai Canti. Su Teofrasto, cfr. giàZib.316-18(11novembre1820).p. 209. 30.Comparazionedellesentenzedi Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte,inTO,Ip.209. 31.Ibid. 32.Ivi,p.207. 33. Cfr. S. TIMPANARO, Il Leopardi e i filosofi antichi, in ID., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., pp. 199205. 34. E lascia anche intatto il culto «dell’aureaantichità»(Paralipomeni,III 13 4). Cfr. anche nei Disegni letterari, XI (1829), il Parallelo della civiltà degliantichi(cioèGrecieRomani)edi quella dei moderni (con le relative considerazioni),inTO,Ip.372. 35. ZUMBINI, Attraverso lo ‘Zibaldone’,cit.,p.173. 36.Cfr.Zib.183(23luglio1820). 37.Cfr.Elenchidiletture,pp.1153 sgg. (nel marzo 1824 è registrata la lettura del Candide di Voltaire). Nella biblioteca paterna Giacomo disponeva, tra le opere di Montesquieu, delle Considérations sur les Causes de la Grandeur des Romains et de leur Décadence, del Dialogue de Sylla et d’Eucrate, del Temple de Gnide, dell’Essaisurlegoût(testituttinell’ed. di Amsterdam 1781), delle Lettres persanes (ed. di Colonia 1730), di L’espritdeslois(ed.diGinevra1731). Cfr. A. FRATTINI, Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento, nell’opera collettiva Leopardi e il Settecento. Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 13-16 settembre 1962), Firenze, Olschki, 1964, pp. 253-82. Sugli Elenchi di letture, cfr. M. ANDRIA, Le tracce della lettura. Un elenco inedito dalle carte napoletane, nell’operacollettivaIlibridiLeopardi, cit.,pp.9-23. 38.Zib.4251-53(9marzo1827). 39.Ivi,365-66(1odicembre1820). 40.Ivi,4511(17maggio1829). 41.Cfr.inspecieivi,393-420(9-15 dicembre1820). 42. Ad Arimane (databile 1833), in TO,Ip.350. VIII LOZIBALDONE 1.LASTORIAESTERNA Il diagramma del sistema concettuale leopardiano, nei suoi intrecciati sviluppi, è ricomponibile in massima parte con l’ausilio dello Zibaldone di pensieri, lasciato dall’autore nel cassetto e pubblicato per la prima volta tra il 1898 e il 1900, a cura di una commissione di studiosi, nominata il 14 ottobre 1897 dal ministro Giovanni Codronchi e presieduta da Giosue Carducci.1 Abbastanza fortunose le vicissitudini toccate in sorte al manoscritto. Rimasto, con le altre carte di Leopardi, nelle mani dell’amico Ranieri, questi «si adoperò per sottrarlo alle ricerche avviatedall’autoritàpontificia a due anni di distanza dalla scomparsa del poeta».2 Ma alla sua morte, nel 1888, Ranieri lo lasciò in eredità a due donne di servizio, analfabete, in qualità di usufruttuarie.Passaronodieci anni, ci volle un processo e l’intervento decisivo del ministero della Pubblica Istruzione, prima che la proprietà dell’inedito manoscritto fosse assicurata alloStato. L’opera, avviata nel luglio-agosto 1817, è poi quotidianamente cresciuta negli anni – in particolare però, per circa tre quarti, dal 1821 al 1823 – fino allo scadere del 1832 (l’ultimo pensiero è datato «Firenze 4. Dic. 1832»), tanto da raggiungere una mole imponente. L’autografo, conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, è costituito da sei volumi rilegati in pergamena, con ognifoglioscrittosulrectoe sul verso, per un totale di 4526 pagine manoscritte. Cosí ne parla Carducci nella premessaallaprimaedizione: Èunamolediben4526faccelunghee larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell’autore, d’una scrittura spesso fitta,semprecompatta,eguale,accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per cosí dire, del giovine illustre con sé stesso, su l’animo suo, la sua vita, le circostanze;apropositodellesueletture ecognizioni;difilosofia,diletteratura, dipolitica;sul’uomo,sulenazioni,su l’universo; materia di considerazione piú larga e variata che non sia la solenne tristezza delle operette morali; considerazioni poi liberissime e senza preoccupazione, come di tale che scriveva di giorno in giorno per sé stessoenonperglialtri,intento,senon a perfezionarsi, ad ammaestrarsi, a compiangersi,aistoriarsi.Perséstesso notavaericordavailLeopardi,nonper ilpubblico:ciònonpertantogranconto eidovevafarediquestosuoponderoso manoscritto, se vi lavorò attorno a un indice amplissimo e minutissimo, anzi piú indici, a simiglianza di quelli che i commentatori olandesi e tedeschi apponevanoaiclassici.3 Le novantanove pagine inizialisonosenzadata(salvo la prima: «Luglio o Agosto 1817»),cheèinveceindicata con regolarità a partire da p. 100(8gennaio1820).Ladata segnatasullapaginad’esordio è stata apposta nel gennaio 1820, quando Giacomo avvertel’esigenzadi«dareun certo ordine al materiale che si viene estendendo e una specie di punto d’appoggio alla memoria».4 Ora precisa meglioasestessolafunzione chespettaalsuoZibaldone: L’infittirsi graduale dei rinvii a pagine precedenti viene a costituire come una rete di riferimento che serve all’autore perorientarsi,perrecuperarealdiscorso dati già acquisiti, per coordinare le proprieriflessioni,peraggiungerenuovi contributichemodificanounpensieroo nemostranoimplicazioniesviluppinon maturati in precedenza; quest’ultimo è anche lo scopo che costituisce per noi uno dei principali motivi d’interesse, direi quasi di continua e avvincente scoperta alla quale Leopardi ci guida. Spessissimovediamochedaunapagina all’altra, ed anche nella stessa pagina, gli argomenti dei pensieri cambiano continuamente e improvvisamente. Nello stesso giorno può capitare, per esempio, che Leopardi riprenda argomentimoraliefilosofici,giàtrattati in precedenza per aggiungere nuove considerazioni e che, subito dopo, scriva un appunto di carattere linguisticoocitiperscopivari(espesso non dichiarati esplicitamente) un brano diqualcheclassicoantico.Tuttoquesto dimostraconlamassimaevidenzaquale fosse il suo modo di procedere, che consisteva nel fissare sulla carta tutto quellochepotevaesseresuggeritolíper lí da un ripensamento, da una lettura recente, da un controllo effettuato sui lessici e cosí via. Nell’autografo le aggiunte interlineari e marginali sono piúfrequentidellemodifichestilistiche. Inlineadimassimapossiamoaffermare che Leopardi interviene sul testo con aggiunteecorrezioniosubito,nelcorso della stesura, o immediatamente dopo, rileggendo il pensiero appena scritto e apportandovi quelle modifiche che ritiene necessarie per la chiarezza e la completezza del contenuto. Alcune aggiuntenonsonocoeveaipensiericui si riferiscono, ma sono posteriori di qualche mese o addirittura di qualche anno.5 Giacomo provvide in momenti diversi, per avere unabussolad’orientamentoin siffattaselvadimaterialiein vista di una sua possibile utilizzazione editoriale, a stilare degli indici, che comportavano naturalmente la rilettura generale dell’insieme. I primi due (Indici parziali), di data incerta, sono piú propriamente degli spogli: uno,portailtitoloPensieridi varia filosofia e di bella letteratura e riguarda le pp. 1-100;l’altro,moltosuccinto, senzatitoloespecieattentoai passi filosofico-morali, riguardalepp.101-4118.Poi nel 1827 a Firenze, dall’11 luglio al 14 ottobre, redasse l’IndicedelmioZibaldonedi pensieri, che riguarda le pp. 1-4295,analitico,sistematico, funzionante, «condotto con un’agilità,conunaconcisione econunasaggiaflessibilitàdi criteri che nulla sottraggono alla chiarezza, e costituisce perquestounesempioancora valido, oltre che un sussidio agevolmente fruibile».6 Giacomo ha approntato l’Indice del 1827 con l’intenzione di trarre dallo Zibaldone un Dizionario filosofico che molto gli stava a cuore e che l’editore Stella avrebbevolentieripubblicato, ma che è rimasto allo stadio di progetto,7 al pari di altre analoghe iniziative.8 Si noti d’altronde che dopo la compilazione dell’Indice la carica propulsiva del “diario enciclopedico” si va smorzando:terrannodietroal già scritto soltanto circa duecentotrenta pagine nuove, nell’arcodicinqueanni. 2.UNPENSIEROINMOVIMENTO Il significato di questo autentico capolavoro va ben oltre la sua funzione documentaria, peraltro di sussidiopreziosoperscandire le fasi della carriera leopardiana. Lo Zibaldone è, sí, un eccezionale registro di riflessionifilosofiche,appunti filologici,linguistici,letterari, sociologici, etnologici, e come tale insostituibile officina di idee e autobiografiaintellettuale,ma insieme è archivio di memorie private, diario e laboratoriodiscrittura,spesso dotato di autosufficiente valore artistico. Sono memorabili non pochi brani che possono certo rendersi utili per spiegare altri testi (daiCantialleOperette)oper chiarire molte altre cose, ma che sono anzitutto splendide pagine perfettamente compiute. Cosí, tra i tanti casi,9 il passo sul «giardino» diZib.4174-77(Bologna,1922 aprile 1826), qui considerato nel cap. XIII par. 1. Oppure il passo seguente (Zib. 4310-11, Firenze, 30 giugno1828): veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti,nellesuevoci,saltiec.unnonso che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivaceomodesta;quelfiorepurissimo, intatto,freschissimodigioventú,quella speranza vergine, incolume che gli si leggenelvisoenegliatti,ochevoinel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione cosí viva, cosí profonda,cosíineffabile,chevoinonvi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che piú di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità,difelicità.Tuttoquesto,ripeto, senzainnamorarci,cioèsenzamuoverci desideriodipossederequell’oggetto.La stessadivinitàchenoiviscorgiamo,ce ne rende in certo modo alieni, ce la fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. […] Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di sedici o diciottoanni,siaggiungailpensierodei patimentichel’aspettano,dellesventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacitàdiquelfiore,diquellostato,di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita(tuttecosechenonpossonomancar divenireallamente)nesegueunaffetto il piú vago e il piú sublime che possa immaginarsi. Non inganni quell’«ec.» mentalmente espungibile, né la sintassi in apparenza affannata e slegata. Questa prosa è un eccellente commento del canto A Silvia (scritto due mesi prima), ma altempostessooffre,dasola, il ritratto di un «viso» che non si dimentica, come stupefacentefigurazionedella «pura gioia» e della sua «indicibilefugacità». Va da sé tuttavia che la latitudine dello Zibaldone è tale da non potersi circoscrivere a un uso soltanto strumentale o documentario, né a una valorizzazione antologica di brani letterariamente esemplari.Questainesauribile miniera non solo contiene pagine “utili” e pagine “belle”: è un organismo complesso dotato di vita propria. Il lettore si trova di fronte a un pensiero in movimento, dispiegato nella suagenesienelsuodivenire: menoconfessionepsicologica da journal intime, e piú inveceriflessioneconcettuale, onde anche l’autoanalisi non diventa inchiesta interiore o esame di coscienza (come invece avviene, per esempio, nel Diario intimo di Tommaseo), ma studio filosofico e «scienza dell’animoumano»(Zib.53). Diquilasaldaturatralaforza argomentativa e l’esperienza vissuta, nella solida convinzione dell’ardua ma possibile conoscibilità del «cuore» e del mondo.10 Perciò il rapporto con i testi creativi (Canti, Operette, Pensieri, Paralipomeni), spesso abusato dai commentatori su un piano di sovrapposizionecronachistica e dunque pleonastica, esige invece di essere volta per volta sottoposto a un confronto funzionale, comparativo alla pari, che misuri analogie e scarti di significazione – connessi al variare dei generi e della cronologia – entro un itinerariodinamico. L’enciclopedica vastità dei filoni tematici – che rendonoiltestodifficilissimo da indicizzare – consente specifiche letture settoriali (dallafilologiaallalinguistica alla teoria e critica letteraria),11 ma l’opera merita anche specifico riguardoautonomo.Nonsolo per la qualità della prosa, fermentante, ellittica, spontanea,mapiúancoraper la tecnica particolare degli intrecciedelleintersezioni,in un circuito polivalente di riletture e autocommenti: che èriflessodiun’originalissima attitudine argomentativa. La «filosofia» di Leopardi è antiistituzionale, antiprofessionale, antisistematica: non segue sistemi precostituiti, né ambisce a crearne di nuovi, mamuovedall’interrogazione dell’esperienza per convergere – come la poesia – verso l’obiettivo primo ed essenziale di capire il senso del vivere e dell’esistere, indagando i rapporti dell’individuo con la società, con la storia, con la natura, con l’universo, sul fondamento di una lucidissima, puntigliosa, avvolgente cognizione del reale. La folta materia dello Zibaldone, la sua strategia della mobilità e la sua ramificata polifonia, sono quotidiana testimonianza dell’insoddisfatta inchiesta conoscitiva di un «pensatore solitario, alle prese unicamente con se stesso»,12 che sposta senza sosta il puntod’osservazioneemaisi placa nella quiete di risultati acquisiti. 1. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi, Firenze,LeMonnier,1898-1900,7voll. I volumi primo e secondo uscirono nel 1898, il terzo e il quarto nel 1899, il quinto,ilsestoeilsettimonel1900.Il titolo di questa prima edizione è tratto dall’indice parziale delle prime cento pagineallestitodall’autore,ilqualepoi lo modificò in Zibaldone di pensieri nell’indice analitico compilato a Firenzenel1827. 2. E. GHIDETTI, Introduzione a G. LEOPARDI,Dizionariodelleidee,asua cura,Roma,EditoriRiuniti,1998,p.IX. Sulla questione, cfr. in partic. A. GIULIANO, G. Leopardi e la Restaurazione, Napoli, Accademia di Archeologia,LettereeBelleArti,1994. 3. Pensieri di varia filosofia e di bellaletteratura,cit.,Ipp.X-XI. 4. G. PACELLA, Introduzione a G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, ed. critica e annotata a sua cura, Milano, Garzanti, 1991, 3 voll., I p. xv. La stesuradelleprimenovantanovepagine èstatastabilitadaPacella,sullabasedi riscontri interni: «si può affermare senza alcun dubbio che Leopardi compose nel ’17 le pp. 1-5, nel ’18 le pp.16-42enel’19lepp.43-99.[…]In questeprime99pagine,piúspontaneee piúricchedisuggestioniediimmagini poetiche,sonogiàenunciatialcunitemi principali che formano quasi l’intelaiatura dello Zibaldone, come la relatività dei giudizi morali ed estetici, il conflitto tra natura e ragione, l’amor proprio, l’egoismo, il piacere, la noia, l’assuefazione. La formulazione di questimotividerivaingranpartedalle letture eseguite; esse vanno dagli articoli degli “Annali di Scienze e Lettere”, dello “Spettatore” e della “Biblioteca italiana”, fino a opere fondamentalicomeilWertherel’Ortis, il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza di Rousseau, le Études de la nature di Bernardin de Saint-Pierre, la Corinne di Mme de StaëlealcuneoperedelMontesquieue del Verri. Queste letture offrirono a Leopardi occasioni molteplici di riflessioneefuronoilpuntodipartenza dimeditazionicheegliapprofondínegli anni successivi con un apporto personale sempre maggiore di esperienza e di sensibilità critica» (pp. XIV-XV). 5.Ivi,p.XV.L’edizionediPacellaè la prima che renda conto della stratigrafia compositiva del testo, distinguendo la stesura originaria dalle aggiunte piú tarde. Il che è essenziale per stabilire la dinamica del pensiero leopardiano, come aveva per tempo raccomandatoS.TIMPANARO,Appunti perilfuturoeditoredello‘Zibaldone’e dell’epistolario leopardiano, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXV 1958, pp. 607-8: «In un’edizionecriticabisognerà,anzitutto, distinguere la stesura primitiva dalle aggiunte posteriori (interlineari o marginali): queste andranno, per esempio, incluse in parentesi quadre o angolari;einunveroeproprioapparato critico a piè di pagina andranno registrate, se non tutte le correzioni apportate da Leopardi al proprio manoscritto, almeno quelle che hanno unacertaimportanzaperilpensieroelo stile. Senza queste indicazioni, lo studioso rischia continuamente di attribuire a una certa data – e quindi a unacertafasedisvolgimento–ciòche ilLeopardiscrissemagarimoltodopo». 6. PACELLA, Introduzione, cit., p. XVI. 7. Cfr. G. Leopardi ad A.F. Stella, Bologna, 26 agosto 1826, in TO, I p. 1263; poi G. Leopardi allo stesso, Bologna, 13 settembre 1826, ivi, p. 1267:«QuantoalDizionariofilosofico, lescrissicheioavevaprontiimateriali, com’èvero;malostilech’èlacosapiú faticosa,cimancaaffatto,giacchésono gittati sulla carta con parole e frasi appenaintellegibili,senonamesolo.E di piú sono sparsi in piú migliaia di pagine,contenentiimieipensieri;eper poterne estrarre quelli che appartenessero a un dato articolo, bisognerebbe che io rileggessi tutte quelle migliaia di pagine, segnassi i pensieri che farebbero al caso, li disponessi, gli ordinassi ec.». Di qui la necessitàdiallestire,nel1827,l’Indice delmioZibaldonedipensieri. 8. Di cui restano taluni titoli: Galateo morale; Memorie della mia vita;ManualediFilosofiapratica. 9. Come, per es., lo spunto di Zib. 50-51, poi svolto in La sera del dí di festa, citato da L. BLASUCCI, Quattro modi di approccio allo ‘Zibaldone’, in ID., I tempi dei ‘Canti’. Nuovi studi leopardiani,Torino,Einaudi,1996,pp. 229-42. 10. Cfr. A. DOLFI, Le strutture cognitive dello ‘Zibaldone’ (1987), in EAD.,Ragione e passione. Fondamenti e forme del pensare leopardiano, Roma,Bulzoni,2000,pp.99-122. 11. «Quando un uomo come Leopardi lascia, in alcune migliaia di pagine, tutto quello che ha pensato in alcunemigliaiadigiorni,ènaturaleche inquelmucchiodifoglisitrovinomolti libri. Si tratta di districarli l’uno dall’altro,senzaromperetroppifili»(V. BRANCATI,PrefazioneaG.LEOPARDI, Società, lingua e letteratura d’Italia, a sua cura, Milano, Bompiani, 1941, p. 7). 12.S.SOLMI,La vita e il pensiero di Leopardi (1966), in ID., Scritti leopardiani, Milano, All’Insegna del Pesced’Oro,1969,p.67. IX GLIIDILLI 1.IPIACERIDELLA«FACOLTÀ IMMAGINATIVA» Dinanzi alla traumatica rivelazione del «vero», che assidera gli impulsi vitali, scatta l’infrazione prodigiosa delle illusioni che accendono d’inattesa luce i sei idilli (in endecasillabi sciolti) del 1819-’21, distesi in ritmi placati dopo il tumulto delle prime canzoni, in parole, suoni, accordi già definitivi.1 Dal mondo della storia, alla privata esistenza dell’io: «situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo».2 Nell’assedio della «seccaragione»(Zib.15)che incalza, gli idilli danno ascolto alla «facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono».3 Cosí riescono a regalare i piaceri dell’evocazione fantastica, come miracolo laico della «facoltà immaginativa», che riesce per un istante a ristabilire un rapporto diretto con la natura, al modo degli antichi. Proprio dall’intensità di questo rapporto illusoriamente ristabilito scattano gli “idillici” piaceri dell’immaginazione: limpidi trasalimenti o repentine visitazioni interiori che non valgono da evasiva fuga nell’irrazionale,madafugace risarcimento di fronte alla persistente coscienza del «vero». Essa affina il gusto raro,prezioso,trasgressivodi un edonismo pertinace appena per un momento appagato. Ungioielloditrasparenza ingannevolmente semplice, L’infinito: Semprecaromifuquest’ermo colle, equestasiepe,chedatanta parte dell’ultimoorizzonteilguardo esclude. Masedendoemirando, interminati spazidilàdaquella,e sovrumani silenzi,eprofondissimaquiete ionelpensiermifingo;oveper poco ilcornonsispaura.Ecomeil vento odostormirtraquestepiante,io quello infinitosilenzioaquestavoce vocomparando:emisovvien l’eterno, elemortestagioni,elacon versistraordinaripresente eviva,eilsuondilei.Cosítra4 questa immensitàs’annegailpensier mio: eilnaufragarm’èdolcein questomare. Ecco il piacere dell’annullamento dell’io in un’«immensità»(v.14)cheè finzione del pensiero (cfr. v. 7),5 dunque creatura mentale che acquieta l’angoscia, pur al cospetto della stagione «presente / e viva» (vv. 1213). La lirica, in virtú di una stupefacente astrazione nel tempo e nello spazio che dal familiare piú quotidiano (questo «colle», questa «siepe», queste «piante», questa«voce»,vv.1-2,9-10) giungeatoccareilsublimedi unsovrumano«mare»(v.15) senza limiti, può perfettamente bilanciarsi in una cornice di dolcezza («caro»,v.1;«dolce»,v.15). Sono piaceri d’incantata suggestione emotiva, sensistica non mistica, come «laricordanza»(v.11)inAlla luna, che ristora e giunge gradita, anche quando ridesta un passato doloroso e un «affanno» (v. 16) non placato. Il ricordo addolcisce la vita al pari di un balsamo, perché allevia il peso del presente e lo proietta su uno schermo dove l’io può guardare se stesso come un osservatore impartecipe. Ma allatardaaggiuntadeivv.1314 compete la rilettura dell’autore maturo che rifiuta di assolutizzare il conforto dato dal ricordo, e lo circoscrive alla stagione giovanile,quandolasperanza ha ancora lungo il corso e breve è invece quello della memoria. La pace interiore comunicata da un sereno notturno di luna apre con versi straordinari La sera del dídifesta(vv.1-4): Dolceechiaraèlanotteesenza vento, equetasovraitettieinmezzo agliorti posalaluna,edilontanrivela serenaognimontagna. La contemplazione di un’intatta notte lunare, in un’estasi luminosa e tersa comeilcristallo,ealparidel cristallofragilissima:stupisce la suggestione emotiva trasmessa con tanta parsimonia di parole, con tanta naturalezza. Viene in mente6 il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, dove si dice che gli antichi (Omero in particolare)7 imitavano la natura «in modo ch’ella non pare imitata ma trasportata nei versi loro», ritratta «cosí alvivo»che«noinelleggerli vediamo e sentiamo le cose che hanno imitate», avvertiamo «negli animi nostri» gli «effetti» che «le cose della natura» producono «quando sono reali». Queste anzi, «in specie quando sono comuni»,«fannoalpensieroe alla fantasia nostra molto piú forza imitate che reali», perché la nostra attenzione nella realtà ordinaria «spesso è poca o nessuna», mentre invece «è molta e gagliarda» dinanzi all’imitazione, «quando la cosa si vede o si senteinmanierastraordinaria e maravigliosa».8 La scommessa consiste nel suscitare «impressioni sentimentali»9 al modo degli antichi:trasportandoneiversi le «cose […] comuni» della natura (come una placida nottediluna),sícheagiscano nella fantasia con piú forza delle«cose»reali.Uncontoè però l’antefatto teoricoculturale che presiede a quest’incipit celeberrimo, e ne illustra la genesi, un altro conto è la sua inimitabile, trasparentelevitàchedàvoce aunostatodigraziadell’io,a un repentino smemoramento di sé dinanzi a una chiara nottediluna. Piú contingente e languidamente febbrile, nel patetico Il sogno, il piacere procuratodaibaciimpressiin sogno sulla mano della fanciulla amata e «nel fior deglianniestinta»(v.26).Si legganoivv.79-86: […]concedi,ocara, chelatuadestraiotocchi.Ed ella,inatto soaveetristo,laporgeva.Or mentre dibacilaricopro,ed’affannosa dolcezzapalpitandoall’anelante senolastringo,disudoreil volto fervevaeilpetto,nellefauci stava lavoce,alguardotraballavail giorno. Il «diletto» (Zib. 75) della solitudine agreste domina la terza lassa di La vita solitaria, nell’«altissima quiete» (v. 33) di un incontaminato paesaggio senza orma umana, in un meriggio onirico e surreale (vv.23-38): Talorm’assidoinsolitaria parte, sovraunrialto,almargined’un lago ditaciturnepianteincoronato. Ivi,quandoilmeriggioincielsi volve, lasuatranquillaimagoilSol dipinge, ederbaofoglianonsicrollaal vento, enonondaincresparsi,enon cicala strider,nébatterpennaaugello inramo, néfarfallaronzar,névoceo moto dapressonédalungeodiné vedi. Tienquellerivealtissima quiete; ond’ioquasimestessoeil mondoobblio sedendoimmoto;egiàmipar chesciolte giaccianlemembramie,né spirtoosenso piúlecommova,elorquiete antica co’silenzidellocosiconfonda. Il«Talor»iniziale,seguítoda tre successive precisazioni locative («in … sovra … al margine …», vv. 23-24), incalzate da un’ulteriore precisazione cronologica («quando…»,v.26),sortisce l’effettodicreareuntempoe uno spazio irreali. La determinazione è apparente, perché l’insistita puntualità dei dettagli dissolve la concretezza e la storicità dell’evento e lo iscrive in un orizzonte indeterminato, dai contorni fluttuanti e sfumati, comeinunsogno.Poiilv.28 («ed erba o foglia non si crolla al vento») sembra concludere la frase e insieme il quadro, con la luce meridiana che si riflette sulle acque tranquille del lago, nel silenzio circostante, mentre non stormiscono al vento né l’erbanélefoglie.Inveceilv. 28, che pare terminale, ha funzione propulsiva, perché inizia la serie interminabile delle altre negative che stanno per sopraggiungere, per di piú scandite dal forte risalto dato dallo scarto sintattico:nonpiú,comealv. 28, la negativa all’indicativo presente(«nonsicrolla»),ma all’infinito («non onda incresparsi», v. 29; «non cicala / strider», vv. 29-30; «né batter penna augello», v. 30; «né farfalla ronzar», v. 31),indipendenzadi«odi»e «vedi» del v. 32. La lunga sequenza di «non» e «né» (otto in cinque versi) azzera la colonna sonora e blocca l’animazione della scena, evoca una realtà immobile, muta, sospesa, un mondo inabitato. La sequenza degli infiniti, quasi sospesi nel nulla, anticipati e distanziati come sono dai verbi reggenti in clausola del v. 32, annulla la soggettività della percezione (se ne ricorderà Montale in Meriggiare pallido e assorto) e porta in primo piano la condizione oggettiva dell’essere, dell’esistere di questo mondo incolume e primigenio, non sfiorato da alcunché che possa inquinarlo. Risultato finale è il miracolo dell’«altissima quiete» (v. 33),10 non detta né descritta mastupendamenteresavivae presente su queste «rive» (v. 33): simile ma non uguale alla «profondissima quiete» di L’infinito (v. 6). Là è prodotto dell’immaginazione, qui attributo di un paesaggio surreale. Nell’«altissima quiete» l’io dimentica il mondo, i suoi affanni11 e anche in parte («quasi», v. 34) se stesso: sopita l’autocoscienza che porta dolore, percepisce la propria corporeitàcomedistaccatada sé, libera e sciolta dal peso della vita, non scossa da impulsi o sensazioni esterne, compenetrata e fusa «co’ silenzi del loco» (v. 38), placatainuna«quieteantica» (v. 37) che sembra durare da sempre,qualedovevaregnare nell’universo prima della creazionedelgenereumano. 2.IDILLIOEANTIIDILLIO Le illusioni recano doni preziosi ma fragilissimi. La «facoltà immaginativa» ristabilisceilperdutocontatto con la natura, ma il «vero» non arretra e l’idillio s’intreccia allora con l’antiidillio. Le figurazioni fantastiche brillano per un istante, assediate dalla coscienza della loro fuggevolezza. Nel «mare» dell’«immensità», miracolosamente tratto dal «contrasto efficacissimo e sublimissimo»stabilito«trail finitoel’indefinito»,12affiora non piú che l’ombra di uno sgomento, per l’improvviso timore di un naufragio nel nulla (L’infinito, vv. 7-8: «ove per poco / il cor non si spaura»).13 Il piacere della rimembranza attenua non cancella l’«angoscia» (Alla luna, v. 3), perché «travagliosa/eramiavita:ed è, né cangia stile, / o mia diletta luna» (vv. 8-10). L’incantesimo della chiarità notturna (La sera del dí di festa) svanisce come apparenza ingannevole e l’«io» (v. 11) avverte impietosa l’ostilità della natura(vv.11-16): […]ioquestociel,chesí benigno appareinvista,asalutar m’affaccio, el’anticanaturaonnipossente, chemifeceall’affanno.Atela speme nego,midisse,anchelaspeme; ed’altro nonbrillingliocchituoisenon dipianto. Onde lo sconforto ha un soprassalto violento («e qui perterra/migetto,egrido,e fremo. Oh giorni orrendi / in cosí verde etate!», vv. 2224)14eil«solitariocanto»(v. 25) dell’artigiano che ritorna atardanotteallasuaabituale condizione di pover’uomo, sfumati nel nulla i «sollazzi» (v. 27) della festa, stringe il cuore, perché rende palese la fuga rapinosa del tempo: «pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia» (vv. 29-30). L’associazione tra il presente e l’infinità dei secoli è vertiginosa,cosínella«pacee silenzio» (v. 38) attuali s’è spenta anche l’eco del «suono» (v. 33), del «grido» (v.34),del«fragorio»(v.36) d’antichi popoli per sempre scomparsi. La dolcezza che s’accompagna ai baci (Il sogno) diventa «affannosa» (v. 82) e annuncia l’«angoscia» (v. 95), perché l’«infelicissima fanciulla» (v. 75) non è che un fantasma: «[…] già scordi, o caro, / disse, che di beltà son fatta ignuda?» (vv. 88-89). Lo smemoramento nell’«altissima quiete» (La vita solitaria, v. 33) di un meriggio senza tempo dura un istante e non annulla gli oltraggi della natura, «un giorno oh quanto / verso me piúcortese!»(vv.16-17).Siè messo in moto il processo conoscitivo che dalla coscienza del dolore fa scaturire «le cose che non sono» e in qualche caso (come L’infinito) con supreme modulazioni d’accento («e in un modo in cuilecoserealinonsono»). Ma il dolore appartiene allaprivataesperienzadell’io. La natura è apostrofata con accenti polemici perché poco benignaepoco«cortese»(La vita solitaria, v. 17), ingenerosa e sorda con il poeta che si sente escluso, come individuo, da un rapporto vitale e salutifero che potrebbe salvarlo. La sofferenza ha connotati autobiografici e personali, non deriva da un inevitabile destinocheaccomunalasorte dituttiiviventi. Gli idilli-antiidilli irradianoluminescenzevivide quanto momentanee, mentre duraturi e dissonanti chiaroscuri provengono dalle canzoni: non i piaceri dell’immaginazione risolti in fluidestruttureliriche,inuno «stile ch’essendo classico e antico, paia moderno e sia facileaintendereedilettevole cosí al volgo come ai letterati»,15 ma il graduale disvelamento del «vero» consegnato a uno stile espressamente moderno (nelle intenzioni), alle ardue campiture della poesia «sentimentale», ovvero riflessiva e ragionativa. Agli idilli Leopardi assegna un ruolo se non subalterno certo piú privato e meno ufficialmente rilevante (e infatti restano nel cassetto finoal1825,quindiappaiono inrivistaeapuntate);mentre alle canzoni, sulla linea della grande tradizione dantesca (e montiana), consegna la sua prima identità pubblica di poeta con la stampa in volume del 1824. Poeta etico ecivile. 1. Nell’autografo napoletano (BibliotecaNazionalediNapoli,Fondo Leopardiano) l’ordine dei componimenti è il seguente: La ricordanza(1819,daFiltitolodiventa Allaluna;ivv.13-14,manoscrittisuun esemplare di N, sono stati aggiunti nell’ed. postuma 1845); L’infinito (primavera-autunno1819);Lospavento notturno(1819,mainorigineIlsogno, da N tra i Frammenti); La sera del giorno festivo (primavera o estateautunno 1820, da N La sera del dí di festa); Il sogno (fine 1820-inizi 1821); Lavitasolitaria(estate-autunno1821). Nell’autografo vissano (Archivio del ComunediVisso[Macerata]),derivato dall’autografo napoletano, l’ordine è sensibilmente mutato: L’infinito; La sera del giorno festivo; La ricordanza (= Alla luna); Il sogno; Lo spavento notturno; La vita solitaria. Si noti che L’infinitoèpostoinaperturaconruolo programmatico, seguíto dal terzetto La sera del giorno festivo, La ricordanza (in posizione centrale) e Il sogno, cui tengono dietro Lo spavento notturno e La vita solitaria: a parte Lo spavento notturno (penalizzato in F, poi recuperato tra i Frammenti in N), si tratta dell’ordine già definitivo. Infatti tutti i testi appaiono a stampa in due fascicoli del «Nuovo Ricognitore» di Milano: il n. 12 (dicembre 1825) contiene L’infinito. Idillio I e La sera del giorno festivo. Idillio II; il n. 13 (gennaio1826)contieneLaricordanza. Idillio III, Il sogno. Idillio IV (era già apparso anonimo in «Notizie teatrali, bibliograficheeurbane,ossiaIlCaffèdi Petronio», rivista redatta da Pietro Brighenti, Bologna, n. 33, 13 agosto 1825,coniltitoloIlsogno.Elegia), Lo spavento notturno. Idillio V e La vita solitaria. Idillio VI. Poi confluiscono, nellostessoordine,neiVersi bolognesi del 1826, quindi in F, senza però Lo spavento notturno, che è salvato tra i FrammentifinaliinN. 2. Disegni letterari, XII (probabilmente1828),inTO,Ip.372. 3.Zib.167(12-23luglio1820). 4. Questo «tra», in luogo del piú normale “in”, ha dato molto daffare ai commentatori. Ma la sua funzione è statabenespiegatadaA.TILGHER, La filosofia di Leopardi, Roma, Ed. di «Religio», 1940, pp. 152-53: «Il Poeta haoscillatotraduefantasticherie(iltra èrivelatore)separatedaunapercezione di realtà (lo stormire del vento): dalla fantasticheria dello spazio infinito […] è passato alla fantasticheria del tempo infinito. Tra questa immensità (spaziotemporale) il suo pensiero (che era vigile,alacre,agile,perchéeraessoche glifingevalospazioinfinitoeiltempo infinito, era esso che gli andava comparando lo stormire del vento al silenzioinfinitodeglispaziimmaginari) si annega in un dolce naufragio». L’interpretazioneèripresa(conulteriori rinvii bibliografici) e avvalorata con nuovi attestati da L. BLASUCCI, Paragrafisull’‘Infinito’(1980),inID., Leopardi e i segnali dell’infinito, cit., pp.97-122. 5. «Nessuna esperienza può dare l’ideadell’infinito.L’infinitoappartiene soltanto al pensiero» (G. MACCHIA, Leopardi e il viaggiatore immobile [1980], in ID., Saggi italiani, Milano, Mondadori,1983,p.258). 6. Cfr. G. LEOPARDI, Canti, con l’interpretazione di G. DE ROBERTIS, Firenze,LeMonnier,1927,p.125. 7. «Ora leggete questa similitudine diOmero:“Sícomequandograziosiin cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e l’aere è senza vento, e si discopre/ognicimade’montiedogni selva / ed ogni torre; allor che su nell’alto/tuttoquantol’immensoetrasi schiude, / e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma [Iliade, VIII 555-59]”» (Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, inTO, Ipp.933-34).La«similitudine» è scolpita nella mente di Giacomo, comerisultanelmarzomaggio1819dai Ricordid’infanziaediadolescenza(ivi, p. 361): «veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della mia casa tal qualeallasimilitudinediOmero». 8. Discorso di un Italiano intorno allapoesiaromantica,ivi,p.933. 9.Ibid. 10. Lungamente sognata: «profondissima quiete» (L’infinito, v. 6); «profondissima quiete» e «quiete altissima»(Canticodelgallosilvestre», parr.7e19). 11.Cfr.E.MONTALE,Ilimoni,vv. 18-20: «Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza». Per i «silenzi» montaliani (vv.22e34),cfr.i«silenzi»leopardiani delv.38. 12.Zib.1431(1oagosto1821). 13.Cfr.anchelarelativamisceladi «diletto» e di scontento prodotta dall’impressione dell’«indefinito», ivi, 472-73(4gennaio1821). 14.Cfr.G.LeopardiaP.Giordani, Recanati, 6 marzo 1820, in TO, I p. 1094: «poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza,evedendouncielopuroeunbel raggiodiluna,esentendoun’ariatepida ecerticanicheabbaiavanodalontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nelcuore,ondemiposiagridarecome un forsennato, domandando misericordiaallanatura,lacuivocemi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano cosí beato non ostante i miei travagli». La natura, che dispensa «illusioni e affetti vivi», potrebbe dare speranza e sollievo, ma per Giacomo la «voce» di lei è diventatamuta. 15. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,20marzo1820,ivi,p.1097. X LECANZONI 1.L’IRRECUPERABILITÀ DELL’ANTICO Dopo le due canzoni gemelle del 1818, la terza, che è Ad Angelo Mai (gennaio1820),nons’intende senza la crisi del 1819 ed è componimentodinuovaepiú profonda intensità: non piú il volontaristico progetto storico-politicodiattualizzare l’anticovalore(lasciatoanche allespallelosperimentalismo del 1819), ma il sentimento esistenziale di una frattura («o caro immaginar; da te s’apparta / nostra mente in eterno», vv. 102-3) che dissolve i «sogni leggiadri» (v.91)econdannailpresente («secol morto», v. 4; «secol di fango», v. 179) al «tedio» (v. 5), all’«ozio turpe» (v. 60), al «nulla» (v. 75), al «vero» (v. 101), al calcolo mercantile («il computar», v. 149) che tolgono il conforto «de’ nostri affanni» (v. 105), che al «grande» e al «raro» danno «nome di follia» (vv. 145-46) e lasciano «solo / veder che tutto è vano altro cheilduolo»(vv.119-20).La pace della Santa Alleanza – difesa nell’orazione Agl’Italiani del 1815 – è diventata asfissia, soffocamento, noia: la noia che, accanto al dolore, è la massima fonte di sofferenza; lanoia«amicadellaverità»,1 «morte nella vita»,2 «contrario della vita vitale»,3 sentimento dell’«infelicità nativa dell’uomo».4 Per la primavoltainAdAngeloMai il «nulla» (vv. 75, 100, 131) s’accampa come «Ombra reale e salda» (v. 130), nel convincimento che la rivelazione del vero non arricchisce ma svuota l’esistenza («[…] e discoprendo, / solo il nulla s’accresce», vv. 99-100), che il sapere e il conoscere – intesi come paralisi dell’immaginazione – non sono compatibili con la felicità. Il nucleo successivo delle seicanzonidell’ottobre1821luglio 1822 approfondisce la fratturatrapassatoepresente, indaga gli effetti di questa privazione (del «caro immaginar», lungamente rimpianto),5 ma anche dilata lo spettacolo dei tristi frutti del «vero»: il quadro già civile-politico, ora anche morale-esistenziale, s’estende dalla contemporaneità alle epoche lontane, dal degrado dell’oggi alla condizione stessa del vivere. Il che significa che il pessimismo storico–appuntofondatosul contrasto tra passato e presente – si viene gradualmente incrinando con la riflessione sull’infelicità degliantichi(attestatadaidue eroi suicidi, Bruto e Saffo, poi dalla Comparazione premessa al Bruto minore), con l’esito che l’età dell’oro, vivificatadall’immaginazione a diretto contatto con la natura, finisce con l’arretrare inunalontananzasemprepiú vaga,remota,mitica. Nelle nozze della sorella Paolina (ottobre-novembre 1821, matrimonio che non si celebrò mai) mette in scena un’Italiacorrotta(«ilcorrotto costume», v. 19) che non permette fausti pronostici a unagiovanesposa:«Omiseri o codardi / figliuoli avrai» (vv. 16-17), o infelici perché virtuosi, o fortunati perché vili e conformisti; di qui l’evocazione di memorandi modelli antichi, come i giovani spartani, educati tra i ricordi di gesta gloriose, e Virginia, la fanciulla romana sacrificatasi per la libertà.6A un vincitore nel pallone (novembre 1821) celebra la «sudata virtude» (v. 4) del «campion» (v. 5) che nello sport può dare esempio di «fattiillustri»(v.10),mentre imperversano tempi di «ozi oscuri e nudi» (v. 38); al tempostessoesaltalegaredi Olimpia – che erano palestra di impulsi vitali, di magnanimità, di eroismo – e insieme valorizza l’entusiasmo naturale suscitato dal gioco, perché nella vita tutto è «gioco» (v. 32)7epiúessaacquistasenso, pregio, valore se s’ispira alle «passate imprese» (v. 52), se «ne’ perigli avvolta» (v. 61) riesceadimenticaresestessa: tantopiúcaraachièstatosul punto di perderla («beata allor che il piede / spinto al varco leteo, piú grata riede», vv.64-65).NelBrutominore (dicembre 1821) l’antico eroe, sul punto di uccidersi, inveisce contro la virtú («Stolta virtú», v. 16), valore inconsistente, fantasma rovinoso di menti illuse, perché chi l’ha praticata non si è meritato che «ludibrio e scherno» (v. 21): il suicidio (tema già alfieriano e foscoliano) non ne riceve legittimazione,macampeggia in una luce sinistra come protesta disperata del guerriero «virtuoso» che non si rassegna alla propria sconfitta dinanzi all’«empio costume»(v.56)dellastoria;8 la morte di Bruto, dopo Filippi, segna la fine della romanità aurea, repubblicana e insieme la fine dell’«antichità» come gioiosa giovinezzadelgenereumano. Alla Primavera o delle favoleantiche(gennaio1822) replica all’antimitologia romantica con il rimpianto delle «favole antiche» (consuntedall’«atra/facedel ver», vv. 12-13), con la straziata nostalgia di quella ridenteprimaveradelmondo, collocata fuori della storia, quando la natura palpitava comecreaturaviva,animatae incantata da presenze arcane, dadivinitàboschive,daninfe e fauni, in accordo armonico e pietoso con l’«umana gente»(v.42),síche«l’altee rotte / nostre querele» (vv. 67-68) trovavano ascolto in cielo; poi, morte le antiche illusioni, la terra, ridotta a uno spettacolo di dolore, non hageneratochefigliinfelici.9 Dopo la Comparazione del marzo 1822, nell’Ultimo cantodiSaffo(13-19maggio 1822)ritornainaltrachiaveil tema del suicidio: la morte volontaria della poetessa greca,amantenoncorrisposta da Faone, emblematizza il condizionamento dell’aspetto fisico (in un mondo che non dà valore ai meriti dell’intelligenza e del cuore), quindi il dramma dell’esclusione dalla bellezza esteriore, la sventura di chi è condannato a un «disadorno ammanto» (v. 54). La ribellionediBrutoèdisegno etico-storico; questa di Saffo si delinea come conflitto psicologico-esistenziale, come protesta contro la natura:versolaqualel’eroina greca stabilisce però un rapportodiinnamoratatradita (vv.23-27): […]A’tuoisuperbiregni vile,onatura,egraveospite addetta, edispregiataamante,alle vezzose tueformeilcoreelepupille invano supplichevoleintendo.[…] Il tormento della deformità fisica connota Saffo di scoperti riflessi autobiografici:dal«disadorno ammanto» non deriva, com’è noto,ilpessimismodelpoeta, ma egli ne ha saputo trarre nondimeno un lucido spiraglio sulla tragicità del reale.Nell’InnoaiPatriarchi o de’ principii del genere umano(luglio1822)–l’unico compiuto degli Inni cristiani progettati nell’estate-autunno 1819 – l’ispirazione religiosa si risolve ormai in un repertorio di miti e simboli antichi, come vagheggiamentodiunafelice età naturale10 (sempre piú a ritroso nel tempo, fino ai «principii del genere umano»), quando fu amica «alsanguenostroedilettosae cara / questa misera piaggia» (vv.90-91)e«votad’affanno / visse l’umana stirpe» (vv. 98-99):taleoggi«fralevaste californie selve / nasce beata prole» (vv. 104-5), ma è violata e profanata dal «nostroscelleratoardimento» (v. 111) di colonizzatori, dallanostrafollia(«furor»,v. 114) di civilizzazione che porta «affanno» e desideri prima«ignorati»(v.115).11 Si profila un viaggio non solo dentro la negatività del moderno, ma dentro l’orizzonte tragico-sublime dell’infelicità nella storia come perdita di illusioni e dominio del «vero». Il pessimismo sensisticopsicologico-esistenziale, connesso alla «teoria del piacere», allenta il contrasto antichi-moderni, centrale nel sistema delle canzoni, e comportanonpernulla,dopo l’Inno ai Patriarchi, una lunga pausa di sospensione. Resiste nondimeno – ancora perpoco–lanozionepositiva dellanatura(«saggianatura»: Patriarchi, v. 112), sognata qualesalvezzavivaegodibile in un mitico tempo lontano: di qui il perdurare della protesta non rassegnata alla perdita patita, dell’irata denuncia per l’assenza di un benechenonc’èmapotrebbe o avrebbe potuto esserci (onde, al fondo, anche l’ipotetica prospettiva di un riscatto: cfr. almeno Ad Angelo Mai, vv. 175-80; Nellenozze,vv.31sgg.;Alla Primavera,vv.88-91). La modernità «sentimentale»dellinguaggio si sostanzia di quest’aspra risolutezza protestataria, ma insieme dell’alta eloquenza che conviene alla dolorosa pronuncia e alla densità ragionativa di verità filosofiche eretiche, che costano pena e coraggio. L’arditezza concettuale si dispiega in impalcature vertiginosamente ipotattiche, in ellissi repentine, iperbati, arcaismi, allusioni erudite e dotte.LeAnnotazioniannesse alla stampa del 1824 mostrano,ancheconironia,la filigrana antipedantesca di uno stile, al contempo rigorosissimo e libero, che è risvolto tecnico di un tormentato e perplesso itinerarioconoscitivo.Lettura non facile, anzi impervia, come disagevoli sono le successive stazioni dell’appressamentoal«vero». La serie si chiude, dopo circa quattordici mesi di silenzio – e trascorsa la parentesi deludente del soggiorno romano –, nel settembre 1823 con Alla sua donna,12 ormai alle soglie delle Operette morali, in prossimitàdellanuovamisura ironicamente disincantata (svanito il mito della natura benefica) del pessimismo leopardiano.Lafelicitànonè piú inseguita come un bene perduto ma possibile, bensí contemplata come un bene irreale, irraggiungibile («non è cosa in terra / che ti somigli», vv. 19-20), nondimeno intensamente desiderato: «e teco la mortal vitasaria/simileaquellache nel cielo india» (vv. 31-33). Non la protesta eroica né la denuncia, ma un tono sommesso e antieloquente di distaccata saggezza riflessiva percorreAllasuadonna: Carabeltàcheamore lungem’inspiri[…]. Salutonostalgicoe«inno»(v. 55) a un ipotetico ideale di bellezza che si sa «omai» (v. 12),13 dopo il «giovanile error» (v. 37), inesistente e intangibile, celeste e incantevole creazione del «pensier» (v. 25): «Cara beltà» (v. 1), «Non donna. Parla infatti d’un’immagine astratta, non d’una realtà»,14 eppure «lei» traspare anche nelle sue umane fattezze («al volto, agli atti, alla favella», v. 21), umanamente amata e accarezzata («Viva», v. 12; «vera», v. 25; «l’amor tuo», v. 30; «palpitar», v. 41; «sensibil forma», v. 46). L’eco di ritmi e stilemi stilnovistici evoca un clima rarefatto di remota allegoria, maintrisodellascienzaamara di un moderno che ne sente l’inquietaillusorietà.15 2.L’EDIZIONEDEL1824 L’edizione delle Canzoni esce a Bologna, presso Annesio Nobili, nell’ottobre 1824,16perlecuredell’amico Pietro Brighenti. Si tratta del primo grande libro di Leopardi, che lascia per il momento nel cassetto gli idilli e mira a presentarsi in veste di poeta etico e civile. L’opera aduna i dieci componimenti del 1818-’23 rispettando l’ordine cronologicodicomposizione, sí da documentare in presa diretta il lungometraggio di questa graduale caduta delle illusioni. Canzoni: indice della I ed. (Bologna,AnnesioNobili,1824) Achilegge All’Italia - canzone prima [con dedicatoriaaVincenzoMonti] SoprailmonumentodiDantechesi prepara [F: preparava] in Firenze canzone seconda AdAngeloMaiquand’ebbetrovato i libri di Cicerone della Repubblica canzone terza [con dedicatoria a Leonardo Trissino] Nelle nozze della sorella Paolina canzonequarta Aunvincitorenelpallone-canzone quinta Bruto minore - canzone sesta [preceduta dalla Comparazione delle sentenzedi Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte] Alla Primavera o delle favole antiche-canzonesettima Ultimo canto di Saffo - canzone ottava Inno ai Patriarchi o de’ principii delgenereumano-canzonenona Allasuadonna-canzonedecima Annotazioni Di un’autobiografia intellettuale si tratta, o «romanzo ideologico»17 o cronistoria lirica di un disinganno, che nella serrata traiettoria in negativo di sequenze strettamente correlate rende conto del paradossale–matemporaneo – approdo al silenzio (nel 1823), da parte di un poeta che cinque anni prima (nel 1818) ha pubblicamente esordito in veste di vate civile, appassionato e tumultuoso. Il crollo delle illusionihavariatodiregistro e poi disinnescato la molla della poesia. Non per nulla il bellissimo (e sorprendente) Annuncio delle dieci ‘Canzoni’,18 nel 1825, già immerso nel timbro nuovo delle Operette, trova la forza di ripercorrere l’intero film con il sorriso amabile (ma corrosivo) di uno spettatore dolorosamenteautoironico: Sono dieci Canzoni, e piú di dieci stravaganze.Primo:didieciCanzoniné pur una amorosa. Secondo: non tutte e non in tutto sono di stile petrarchesco. Terzo:nonsonodistilenéarcadiconé frugoniano; non hanno né quello del Chiabrera, né quello del Testi o del Filicaia o del Guidi o del Manfredi, né quello delle poesie liriche del Parini o del Monti; in somma non si rassomigliano a nessuna poesia lirica italiana. Quarto: nessun potrebbe indovinare i soggetti delle Canzoni dai titoli; anzi per lo piú il poeta fino dal primo verso entra in materie differentissimedaquellocheillettoresi sarebbe aspettato. Per esempio, una Canzone per nozze, non parla né di talamo né di zona [= cintura] né di Venerenéd’Imene.UnaadAngeloMai parla di tutt’altro che di codici. Una a unvincitorenelgiuocodelpallonenon è un’imitazione di Pindaro.19 Un’altra allaPrimaveranondescrivenépratiné arboscelli né fiori né erbe né foglie. Quinto:gliassuntidelleCanzoniperse medesimi non sono meno stravaganti. Una, ch’è intitolata Ultimo canto di Saffo, intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane: soggetto cosí difficile, che io non mi so ricordare né tragliantichinétraimoderninessuno scrittor famoso che abbia ardito di trattarlo,eccettosolamentelasignoradi Staël, che lo tratta in una lettera in principiodellaDelfina, ma in tutt’altro modo.Un’altraCanzoneintitolataInno aiPatriarchiode’principiidelgenere umano, contiene in sostanza un panegiricodeicostumidellaCalifornia, e dice che il secol d’oro non è una favola. Sesto: sono tutte piene di lamenti e di malinconia, come se il mondo e gli uomini fossero una trista cosa, e come se la vita umana fosse infelice. Settimo: se non si leggono attentamente,nons’intendono;comese gl’Italiani leggessero attentamente. Ottavo: pare che il poeta si abbia proposto di dar materia ai lettori di pensare, come se a chi legge un libro italiano dovesse restar qualche cosa in testa, o come se già fosse tempo di raccoglier qualche pensiero in mente prima di mettersi a scrivere. Nono: quasi tante stranezze quante sentenze. Verbigrazia: che dopo scoperta l’America, la terra ci par piú piccola che non ci pareva prima;20 che la Naturaparlòagliantichi,cioègl’ispirò, masenzasvelarsi;21chepiúscopertesi fanno nelle cose naturali, e piú si accresce alla nostra immaginazione la nullitàdell’Universo;22chetuttoèvano al mondo fuorché il dolore;23 che il dolore è meglio che la noia;24 che la nostra vita non è buona ad altro che a disprezzarla essa medesima;25 che la necessità di un male consola di quel male le anime volgari, ma non le grandi;26 che tutto è mistero nell’Universo, fuorché la nostra infelicità.27 Decimo, undicesimo, duodecimo:andatecosídiscorrendo. Recheremo qui, per saggio delle altre,laCanzoneches’intitolaAllasua donna,laqualeèlapiúbreveditutte,e forse la meno stravagante, eccettuato il soggetto. [Qui seguiva il testo della canzone Alla sua donna]. La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtú celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nelsonnoenellaveglia,quandosiamo poco piú che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e cosí chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora,odebbamainascere;sacheora non vive in terra, e che noi non siamo suoicontemporanei;lacercatraleidee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certochequestotaleamorenonpuòné dare né patir gelosia, perché fuor dell’autore,nessunamanteterrenovorrà fareall’amorecoltelescopio.28 Ironia e autoironia compenetrano si in quest’autorecensione scherzosa quanto sagace e tecnicamentepertinente.Parla di «stravaganze» per dire – senzafaretroppoaffidamento sulla loro accoglienza – le qualitàoriginali(esonotante: «Decimo, undicesimo …») che distinguono la raccolta: nella scelta dei temi; nello stile che per moderna classicità si differenzia dalla tradizionealtaeprossima(ma che piú si allinea, non già all’intramontabile versante petrarchesco, bensí al modelloinsignedellecanzoni di Dante, recuperato da Monti); nel trattamento degli argomenti, anticonvenzionali e spiazzanti rispetto alla promessa del titolo e alle attese del lettore;29 nella sostanza del pensiero, antitetica all’opinione corrente e dominante, tanto da sembrare paradossale («comeselavitaumanafosse infelice», assunta quale ipotesi dell’irrealtà dal punto di vista dell’utente comune); nella complessa tessitura erudita, linguistico-retorica e argomentativa, che presuppone un pubblico piú virtuale che effettivo («come se gl’Italiani leggessero attentamente», che è altra ipotesi dell’irrealtà, ma dal punto di vista questa volta dell’autore); nella sollecitudine concettuale richiestaallettore,comeseal lettore di un libro italiano «dovesse restar qualche cosa intesta»ose«fossetempodi raccoglierqualchepensieroin mente prima di mettersi a scrivere» (altre ipotesi dell’irrealtàdalpuntodivista dell’autore); nella brevitas assertiva e aforistica che punteggia il dettato lirico («tante stranezze quante sentenze»), con massime naturalmente eccentriche. Infine, l’autocommento esilaranteallacanzoneultima (Alla sua donna) riesce a trarrescintillecomichedauna materia e da una condizione amaramente sofferte e dolenti. Dinanzi a tante «stravaganze» che sono poi originalità, viene in mente la lettera di Giacomo a Giordani,dov’èaccarezzatoil proposito «di mostrare all’Italia qualche cosa ch’ella presentemente non si sappia neanchesognare».30 1.Zib.1691(13settembre1821). 2.Ivi,2220(3dicembre1821). 3.Ivi,2433(8maggio1822). 4.Ivi,4498(4maggio1829). 5. Di tale assenza e vuoto di valori nellarealtàcontemporanearendeconto, sul piano espressivo, l’insistenza – ricorrentenelcorpusdellecanzoni–sui terminisemanticamentenegativi,«ossia inclusivi di negazione», per cui cfr. D. DE ROBERTIS, Le Canzoni o l’«inganno del desiderio», in ID., Leopardi. La poesia, Bologna-Roma, Cosmopoli,1996,pp.27-85. 6.Cfr.E.SANGUINETI,Nellenozze della sorella Paolina (1998), in ID., Il chierico organico. Scritture e intellettuali, cit., p. 130: «a dirla schietta e breve, questa canzone […] rimane comunque un esempio di rovesciamento,e,siadettonaturalmente in maniera neutralmente etimologica, un esempio di parodia tragica, di parodia eroica, di parodia morale, di quel genere poetico perfettamente costituito, e tradizionalmente irrigidito, enormativamentecristallizzato,cheèla canzone, o la canzonetta, per nozze o nellenozze». 7. Per «il riconoscimento del gioco come essenza stessa del mondo», cfr. M.A.RIGONI,Commentoenote, in G. LEOPARDI,Poesieeprose,acuradiR. DAMIANI e M.A. RIGONI, con un saggio di C. GALIMBERTI, 2 voll., I. Poesie, Milano, Mondadori, 1987, p. 928. 8. «Finora Leopardi nelle canzoni aveva pianto sulla scomparsa virtú, aveva rimpianto la virtú antica, aveva esortato alla virtú per l’avvenire. […] Ora per la prima volta la virtú è rinnegata» (G. GETTO, Storia della poesia leopardiana, in ID., Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, p.51). 9. Da questa canzone trarrà, nel 1825, rinnovato impulso, l’anziano Monti, con gli sciolti del «sermone» Sullamitologia. 10. Leopardi legge ora con la medesimapassionelaBibbiaeipoemi di Omero: «Non per altro se non perch’essendoipiúantichilibri,sonoi piú vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà»(Zib.1028,11maggio1821). 11. Sul «senso segreto delle Canzoni», cfr. RIGONI, Commento e note,cit.,p.936:«eroidelleTermopili, grandi italiani del passato, vergini spartane e romane, vincitori nel gioco del pallone, favole greche, patriarchi non sono, in un poeta come Leopardi, reliquie di un semplice classicismo o primitivismo; sono proiezioni e travestimenti di una fuga dalla condanna della Storia, gesti di esorcismocontrol’incubodelTempoe lamaledizionedelDivenire». 12. L’analogo intervallo di quattordici mesi, che separa le due canzoni del 1818 da AdAngeloMai, è colmatodaiprimissimiidilliedalledue canzonirifiutatedel1819;ladistanzadi circa venti mesi, che intercorre tra Ad Angelo Mai e Nelle nozze, è occupata dagli altri idilli e dalle prime «prosette satiriche». 13. «Quanto strazio in quell’omai, che ti fa trasparire nel passato successive illusioni distrutte e rinascenti,oramancatepersempre»(F. DESANCTIS,‘Alla sua donna’. Poesia di Giacomo Leopardi [1855], in ID., Saggicritici,cit.,Ip.281). 14. LEOPARDI, Canti, ed. G. DE ROBERTIS,cit.,p.168. 15. Sul motivo di questa lirica, cfr. G.LeopardiadA.Jacopssen,Recanati, 23giugno1823,inTO, I p. 1166: «En effet il n’appartient qu’à l’imagination de procurer à l’homme la seule espèce de bonheur positif dont il soit capable. […] Ma vie est plus uniforme que le mouvementdesastres,plusfadeetplus insipidequelesparoledenotreOpéra». 16.Cfr.G.LeopardiaP.Brighenti, Recanati, 3 settembre 1824, ivi, p. 1186,ecfr.inEpist., IIIp.95n.3.Per lastoriaeditorialedellestampediversi leopardiani, cfr. D. DE ROBERTIS, Introduzione all’ed. critica dei Canti, a sua cura, Milano, Il Polifilo, 1984, 2 voll. 17. Cfr. L. BLASUCCI, Morfologia delle canzoni, nell’opera collettiva Le canzoni di Giacomo Leopardi. Studi e testi, a cura di M. SANTAGATA, Pisa, La Libreria del Lungarno, 1993, pp. 9- 41, e M. SANTAGATA, Le canzoni come «romanzo ideologico», in ID., Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna, Il Mulino,1994,pp.15-44. 18. Apparso nel «Nuovo Ricognitore», Milano, n. 9, settembre 1825, come premessa alla ristampa delleAnnotazioni. 19.Edunquesidistaccaanchedalla maniera di Chiabrera, autore di tre odi sui giochi del pallone organizzati a Firenze da Cosimo II nel 1618 e nel 1619. 20.AdAngeloMai,vv.87-88. 21.Ivi,vv.53-54. 22.Ivi,vv.99-100. 23.Ivi,v.120. 24.Ivi,vv.70-72. 25.Aunvincitorenelpallone,v.60. 26.Brutominore,vv.31-45. 27. Ultimo canto di Saffo, vv. 4647. 28. Annuncio delle dieci ‘Canzoni’ (1825),inTO,Ipp.56-57. 29.Cfr.G.LeopardiaP.Brighenti, Recanati,28aprile1820,ivi,p.1100,a proposito di Ad Angelo Mai: «mio padre non s’immagina che vi sia qualcunochedatuttiisoggettisatrarre occasione di parlar di quello che piú gl’importa». 30. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,20marzo1820,ivi,p.1097. XI IL«MIOCERVELLO ÈFUORIDIMODA». LEOPERETTE MORALIDEL1824E L’EDIZIONEDEL 1827 1.DALDISEGNODI«CERTE PROSETTESATIRICHE»ALLE OPERETTEMORALI L’antefatto determinante delle Operette morali è il tramonto della speranza: di riscattopolitico,dopoifalliti motidel1820-’21;diriscatto personale, dopo il soggiorno romano del 1822-’23; di rigenerazionedel«primitivo» comeintegritàvitale,dopola scopertadelpessimismodegli antichi e dopo la «teoria del piacere». Da siffatte disillusioni, nel corso stesso della stesura del libro, si sviluppa la mutata idea della natura, non piú positiva ma negativa,nonmadrebenefica (e perduta) ma matrigna indifferente e involontariamente malvagia, responsabile prima dell’umana infelicità. Ciò vuol dire che non hanno piú ragione d’essere né la protesta(fiduciosadiincidere sulpresente)perlaprivazione dell’originario eden naturale, néladenuncia(comestimolo di renovatio etica) del malcostume provocato dall’«incivilimento». La caduta della speranza fa tacere la voce del poeta, che s’alimentava di vigore agonistico o d’intensa nostalgia (canzoni) o s’animava,piúprivatamentee per intermittenti barlumi, nell’illusione di un ristabilito contattoconlanatura(idilli). Il disincanto trova la propria cifra espressiva nella prosa, che meglio si addice a una placata saggezza ragionativa, a una spassionata riflessione sulla nullità delle cose. Le Operette sono la stazione d’arrivo della lenta «conversione filosofica» iniziata nel 1819. Svaniti gli impulsi, gli entusiasmi, i desideri, restano l’ironia e il sarcasmo, la consapevolezza persuasa d’un dolore inevitabile, di una sofferenza che non è piú soltanto attributo di personaggi-eroi (Bruto e Saffo), ma quotidiano e insopprimibile bagaglio anche dell’uomo qualunque nella vita di tutti i giorni: come l’innominato Islandese dell’omonimo dialogo. Appartengono alla preistoria del nuovo libro quelle «certe prosette satiriche» di cui dà notizia una lettera a Giordani del 4 settembre 1820: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtú, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche».1 In esse non si è ancoraprecisatoperòilclima vero delle Operette. All’indomani della «conversione filosofica», la prosa serve qui come strumentodisatirapunitivae vendicativa contro la corrotta società contemporanea (lo strappotrapassatoepresente presuppone Ad Angelo Maie l’apostasia della «virtú»2 precorrel’invettivadiBruto), con toni di risentito coinvolgimento autobiografico3 – anche nel bisogno di fuggire dalla prigionia recanatese –, di irritata misantropia, di odio sincero contro gli uomini «diavoli in carne».4 Tra la scrittura lirica e la scrittura prosasticaèistituitounnesso non alternativo ma complementare, con l’analogo proposito di «scuotere la mia povera patria»:lacontestazionedella liricausa«learmidell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione», quella delle «prosette» impiega «le armidelridicolo»,sumateria attuale, «seria» e «importante», sociale e politica.5 Quando quest’ira bruciante s’è attenuata (dissolta anche la sua funzione pedagogica) e quando,coniltramontodella speranza, si sono chiarite le ragioni piú profonde di un pessimismo non solo «storico» ma «cosmico», allora le «prosette satiriche» rimangono nel cassetto e fioriscono altre prose, quelle delle Operette: aeree, ironiche, luminosamente rassegnate, non aggressive macomprensivediundolore che è stato ed è di tutti.6 Nascono già organiche e compiute, venti nella prima stesura, con un’applicazione intensissima nel memorabile 1824, dentro il buio silenzio di Recanati, tra il 19 gennaio e il 16 novembre:7 «in quel ms. consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata,eiol’hopiúcarode’ miei occhi».8 Diluito il veleno dell’ira, la prospettiva si apre rispetto alle «prosette satiriche», i toni variano, si diversificano e s’intrecciano, ma quel fuoco d’origine, non che spengersi, arde al fondo di calore piú intenso. Ora lo scrittore ha accordato gli strumenti necessari che gli consentono di mettere su carta un proposito già accarezzato da anni, riguardo alla «necessità» di «creare» una «vera prosa bella italiana», ch’egli definisce, nello slancio della progettazione, addirittura con otto attributi: «inaffettata, fluida, armoniosa, propria, ricca, efficace, evidente, pura».9 Neanche uno è stonato, non conveniente al risultatoraggiunto. Al genere nuovo e socialmente impegnato del romanzo storico, che i contemporanei salutavano con clamore, ma anche con un entusiasmo spesso incline alla divulgazione piú disinvolta, Leopardi risponde andando (al solito) controcorrente, non schierandosi dalla parte dei novatori, dei cosiddetti progressisti. Risponde con la moderna riproposta di un genereanticocomel’apologo morale,rivisitatoallalucedel settecentesco conte philosophique. Brani saggistici, racconti stilizzati, sequenze riflessive e descrittive, sceneggiature dialogate: il tutto consegnato a una miscela espressiva, insieme dissonante e melodica, di linguaggio ora arcaizzante e peregrino, ora comicoefamiliare.Risponde con un testo antitetico ai Promessi sposi, anzi polemico verso gli stessi intendimenti costruttivi del romanzoottocentesco:conun distillato di prosa umoristica, digressiva e antiromanzesca, rivolta alla contemplazione della follia e della pena (senza riscatto) del nostro starealmondo. Il superstite manoscritto autografo (conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, Pacco IX) – non stesura di prima mano ma trascrizione da materiali precedenti probabilmente allestita nel 1825 –, documenta l’originaria struttura del libro: struttura genetica,cherispettal’ordine di elaborazione dei singoli testi. Operette morali: struttura del ms. autografo (tra parentesi le date di stesuradiognicomponimento) I.Storiadelgenereumano(19gennaio- 7febbraio1824) II.Dialogo di Ercole e di Atlante (10- 13febbraio1824) III.Dialogo della Moda e della Morte (15-18febbraio1824) IV.Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (22-25febbraio1824) V.Dialogodiunlettorediumanitàedi Sallustio(26-27febbraio1824) VI.Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo(2-6marzo1824) VII.Dialogo di Malambruno e di Farfarello(1-3aprile1824) VIII.Dialogo della Natura e di un’Anima(9-14aprile1824) IX.Dialogo della Terra e della Luna (24-28aprile1824) X.La scommessa di Prometeo (30 aprile-8maggio1824) XI.Dialogo di un Fisico e di un Metafisico(14-19maggio1824) XII.Dialogo della Natura e di un Islandese (21, 27-30 maggio 1824) XIII.Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1-10 giugno1824) XIV.Dialogo di Timandro e di Eleandro(14-24giugno1824) XV.Il Parini, o vero della gloria (6 luglio-13agosto1824) XVI.Dialogo di Federico Ruysch e dellesuemummie(16-23agosto 1824) XVII.Detti memorabili di Filippo Ottonieri (29 agosto-26 settembre1824) XVIII.DialogodiCristoforoColomboe Pietro Gutierrez (19-25 ottobre 1824) XIX.Elogio degli uccelli (29 ottobre-5 novembre1824) XX.Cantico del gallo silvestre (10-16 novembre1824) Nel passaggio dal manoscritto alla stampa non intervengono mutamenti di grande rilievo. La prima edizione delle Operette morali comprende infatti i venti pezzi scritti nel 1824, con due sole – nondimeno significative – varianti rispetto all’ordine della cronologiacompositiva.10 Operette morali: indice della I ed. (Milano, Antonio Fortunato Stella, 1827) I.Storiadelgenereumano II.Dialogod’ErcoleediAtlante III.DialogodellaModaedellaMorte IV.Proposta di premi fatta dall’AccademiadeiSillografi V.Dialogodiunlettorediumanitàedi Sallustio VI.Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo VII.Dialogo di Malambruno e di Farfarello VIII.Dialogo della Natura e di un’Anima IX.DialogodellaTerraedellaLuna X.LascommessadiPrometeo XI.Dialogo di un Fisico e di un Metafisico XII.Dialogo di Torquato Tasso e del suoGeniofamiliare XIII.Dialogo della Natura e di un Islandese XIV.IlParini,ovverodellagloria XV.DialogodiFedericoRuyschedelle suemummie XVI.Detti memorabili di Filippo Ottonieri XVII.DialogodiCristoforoColomboe diPietroGutierrez XVIII.Elogiodegliuccelli XIX.Canticodelgallosilvestre XX.DialogodiTimandroediEleandro Nella stampa 1827 il Tasso (XII) anziché seguire precede l’Islandese (cioè passa dalla tredicesima alla dodicesima posizione) e il Timandro (XX) è spostato in ultima sede (dalla quattordicesima passa alla ventesima posizione). Nella struttura originaria del manoscritto, il Tasso (che offrenelsognounrifugiodal dolore) attenua la drammaticitàdell’Islandese;a suavoltailTimandroassolve unafunzioneditransitotrala prima parte del libro (piú sarcastica e combattiva, criticaeirridente,conmoduli stilistici derivati da Luciano) e la seconda (che passa in rassegna con riflessivo distacco ipotesi, ancorché vane, di felicità); infatti il Timandro è operetta bilanciata tra satira e sentimento della vita, tra «verità dure e triste» e «illusioni naturali dell’animo» (par. 39); infine l’intera serie è chiusa dal Cantico che vale da sublimazioneliricadeldolore e da annuncio di conforto, con la duplice prefigurazione («Verrà tempo» e «Tempo verrà»: parr. 11 e 19) della «quiete» recata dalla morte, degli esseri umani e dell’universo. I due spostamenti introdotti nella stampa1827ottengonoquesti effetti: il Tasso non ammorbidisce la negatività dell’Islandese, anzi è l’Islandese che cancella la consolazione del sogno e acquistapiúaccentuatorisalto drammatico; il Timandro, spostato in fondo, smorza fortementel’epilogoliricodel Cantico e il nuovo epilogo serveda«apologiadell’opera contro i filosofi moderni»,11 ossia la nuova collocazione del Timandro ne privilegia – anziché la funzione di cerniera–ilversantedisilluso e contestativo. Si potrebbe dire che cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Invece no. Nella struttura del manoscritto prevale un disegno liricofantastico proteso verso le illusioni («benché false»: Timandro, par. 39), fino al culminedel«silenzionudo»e della «quiete altissima» annunciati nel Cantico del gallosilvestre(par.19);nella struttura della princeps si rinforzainveceepiúrisaltala carica negativa della prospettiva ideologica e filosofica. L’esito delle Operette morali non è una divagante raccolta di prose d’arte, ma un organismo dal disegno affilatissimo, un’opera di rigore concettuale e di fantasie surreali, argomentativa e fiabesca, sorridente e disperata, che mescola in un ordito complesso «panorami dei sogni» e visioni «di terre inesplorate»,12 «l’angoscia e la gioia, una lucida gioia teoretica».13 Un libro aristocratico, affascinante e difficile,nondestinatoalargo successo: dapprima osteggiato, nella sua libera circolazione tra il pubblico, per l’interdetto della censura civile (che blocca l’edizione napoletana del 1835) ed ecclesiastica (che lo confina all’indice nel 1850); poi, se non dimenticato, certo rimosso dalla coscienza delle lettere nazionali e bandito dallecomuniconsuetudinidei lettori. Il fatto è che nelle Operette si elabora la filosofia negativa di Leopardi, quindi lo smontaggio dei falsi miti dell’ottimismo spiritualistico e della superbia tecnologica, contro ogni pretesa perfettibilità dell’individuo e del consorzio sociale, contro ogni certezza di progresso morale, ogni risorgente orgoglio antropocentrico e qualsivoglia finalismo provvidenzialistico. L’approdo ultimo nella stampa 1827 risiede – in un testo di riflessione metaletteraria come il Timandro – nel «concetto della vanità delle cose umane» (par. 17), nell’accertamento dell’«infelicità necessaria di tutti i viventi» (par. 25), con la«disperazionemagnanima» di chi ha la forza di «ridere dei mali comuni», senza dimenticare le «immaginazionibelleefelici, ancorché vane, che danno pregio alla vita» (par. 39). Diverso e piú tragico suono avrà l’altro testo metaletterario, il Tristano (1832), definitivo epilogo dell’opera dalla seconda edizionedel1834. 2.IMPIANTODINAMICOE CONTRAPPUNTISTICO Nel libro si dipana gradualmente il filo di un impianto dinamico14 e contrappuntistico che comporta passo dopo passo uno spostamento di visuale, un acquisto di conoscenza. Il sipariosiapreconunafavola mitologica arcaizzante, come si addice al suo carattere di remota leggenda, che funge da preludio. La Storia del genere umano, favoloso viaggio nel tempo all’inseguimento della felicità, racconta le vicende del misero destino umano logorato dalla caduta delle illusioni, le «maravigliose larve», che accendono l’animo «per cagioni belle e gloriose» (par. 30); ma la pietà di Giove induce infine Amore, «figliuolo di Venere Celeste» (par. 58), a discendere in terra per recare conforto «alla nostra somma infelicità»(parr.57,60-61): Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori piú teneri e piú gentili delle persone piú generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sí pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sí nobili, e di tanta virtú e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.15 Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissimainstanzadatutticoloroche eglioccupa:maGiovenongliconsente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superatadalladivina. Si direbbe un finale rasserenato, luminosamente catartico, che celebra la potenza vivificante dell’Amore; una sorta di miracololaicochespezzaper incanto la consequenzialità logica del pensiero negativo, perrivelareacuori«teneri»e «gentili» una straordinaria («pellegrina») e «mirabile soavità»: non metafora ma «verità»di«beatitudine»,che è sintagma violentemente eterodosso nell’orizzonte leopardiano.Laluceirradiata dall’explicit della Storia del genere umano vale come ipotesi, come campo di possibilità che il libro delle Operette s’incarica di verificare:16 deve maturare via via dentro l’opera, diacronicamente, la radicalità del pessimismo. Ora Giove giunge in soccorso, ma piú avanti quest’intervento pietosoverràmenoeapparirà incombente la presenza di una Natura che è impassibile e impietosa fonte di sofferenza. Quell’ipotesi è destinata a risultare falsa, ma occorre leggere il libro per accertarsene: le cose non sono chiare fino dagli antefatti,preliminarmente,ma sichiarisconostradafacendo, ondel’operasiconfiguranon comepanoramaillustrativodi un sistema concettuale, ma come storia interiore, come graduale itinerario conoscitivo. Quell’ipotesi sarà smentita, ma non si cancella il suo effetto di antitesi nei confronti della sistematicità negativa: resta indelebile la tensione chiaroscurale di una «beatitudine» radiata dalla terra, ma drammaticamente vivaeintensaneldesiderio. Seguono cinque testi (Dialogo d’Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte; Proposta di premi; Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo) dedicati al decadimento del mondo contemporaneo – il «secol morto» di Ad Angelo Mai,v. 4 –, quindi altri tre (Dialogo di Malambruno e di Farfarello; Dialogo della Natura e di un’Anima; Dialogo della Terra e della Luna) centrati sul tema dell’impossibile conquista dellafelicità.DallaStoriadel genere umano al Dialogo d’ErcoleediAtlanteilsaltoè notevolissimo: da un’arcaica solennità di lessico e di sintassi, a un linguaggio basso, comico e gergale; da un taglio narrativo miticofavoloso a un’irridente sceneggiatura dialogata; da Platone a Luciano. Dopo la sinfonia d’apertura, la macchina si mette in moto con toni d’ironica leggerezza da opera buffa, per irridere – dall’altitudine di un Olimpo farsesco–l’ignaviael’inerzia dellasocietàattuale.Laverve polemica della Proposta di premi investe l’assurda pretesa di identificare la civiltà delle macchine con il miglioramento morale. Il Sallustio lamenta la frattura tra il mondo antico e il moderno, che ha ribaltato la gerarchia dei valori a esclusivo vantaggio dell’interesse economico. Nella solitudine surreale di una terra spopolata per estinzione del genere umano, i due fantastici interlocutori del Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo si burlano di ogni antropocentrismo e provvidenzialismo. Ma soprattutto indimenticabile è il colloquio tra la Moda e la Morte. La Moda, «vezzosissima dea» dedicataria del Mattino di Parini, non è ritratta con il sorriso arguto del moralista cheperognimalehaprontoil rimedio, ma con l’amarezza diagnostica di un osservatore disperatamente disincantato. Veradominatricediunsecolo vacuo, economicistico e mercantile, la Moda – presentata come sorella della Morte, l’una e l’altra figlie della Caducità che consuma senza requie «le cose di quaggiú» (par. 4) – diventa emblema di una collettività senza ideali e senza valori, senza memoria storica e senza coscienza di sé, quindi manipolabile e mutevole, prontaacorrerelàdovetirail vento, «ancorché sia con suo danno»(par.8).L’ossequioal variare delle mode è davvero un abbraccio con la morte e non stupisce che Eleandro, dialogando con Timandro, affermi: «il mio cervello è fuoridimoda»(par.3). Il Dialogo della Terra e della Luna, terza sequenza della trilogia sulla felicità irraggiungibile, segna l’epilogo della prima parte. Dallo «sconforto» dell’individuo (Dialogo di Malambruno e di Farfarello) edell’umanità(Dialogodella Naturaediun’Anima),siamo allo spettacolo del «male» che coinvolge la pluralità dei mondi: vizi, misfatti, infortuni, dolori sono patrimonio non soltanto delle creature terrestri ma del cosmointero,«perchéilmale ècosacomuneatuttiipianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare» (par. 22). Cosí parla la Luna, «amica del silenzio» (par. 3; cfr. Canto notturno, v. 2: «silenziosaluna»),eproprioa lei spetta rivelare questa verità: è una Luna prosaica e in abiti da casa, pronta a discorrereconlaTerraalpari diuna«fantesca»(par.9)che s’intrattiene «in ciance» (par. 15)conlasuasignora;nonè l’assorta, candida, muta interlocutrice di un io affannato dalla noia e dal dolore, però sa che la Terra, nella sua orgogliosa persuasione geocentrica, è «peggio che vanerella» (par. 9) e sa che il «male» accomuna «tutti i pianeti dell’universo». A questo punto si può lasciare l’ambientazione planetaria, peravvicinarsial«quaggiú»e agliesserichelopopolano. La scommessa di Prometeo, in posizione centrale, con la discesa del protagonistadalcieloversola terra, segna il transito fra la prima e la seconda parte del libro. Nella prima, sullo sfondo di una spazialità cosmicapopolatadapresenze extraumane,prevaleunpunto divistaaereo,esternorispetto alle vicende terrene: la prospettiva del telescopio e dello straniamento satirico. L’otticadelladistanzaedella lontananza, lo spazio nudo e fuori del tempo, l’universo senza la presenza dell’uomo consentono di irridere, con ironia, sarcasmo e comica animazione gestuale, la piccolezza (vista da lassú) delle cose di questo mondo, insieme all’orgoglio sconsiderato e alla boria di chi lo abita. Gli esseri umani e le loro faccende risultano distanti e lontani, ma si avverte che sono loro l’oggetto dell’attenzione e loro saranno il soggetto della parte seconda. Dalla deserta solitudinedelcosmo,edaun Olimpo parodisticamente smitizzato e diseroicizzato (congedo dal multiforme teatrodelle«favoleantiche»), sientranelpalcoscenicodella storia non a caso con Prometeo, il mitico plasmatoredelgenereumano. Nellasecondaparteprevalela prospettiva del microscopio:17 ci si trasferisce nel vivo delle relazioni terrene, entro il significato stesso dell’esistere, entro i meccanismi di comportamento che conferiscono senso (o nonsenso) all’agire privato e collettivo, tra personaggi o storici o emblematicamente storicizzati. Non sono figure da romanzo, fortemente caratterizzate, ma figure sottoposte a un processo d’astrazione concettuale, figureemblema. Non importa la storia dell’individuo, regista e interprete della propria vita, ma importano i rapportiindividuo-esistenzae le differenti capacità di reazionedinanziallacertezza diundestinochenonmuta. Giunti in terra, súbito si pone la questione del significato della «vita» (DialogodiunFisicoediun Metafisico).PerilMetafisico, piúimportail“vivere”chel’ “esistere”,18 inteso come mero«durare»(par.22);vale a dire che è preferibile una vitabrevema«vera»,intensa disensazioniediaffezioni,a una vita comunque lunga ma vuota, inerte e tediosa, come talenondissimiledallamorte, perché «la buona o la cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei giorni» (par. 17). Ma il Fisico, che non bada a «sottigliezze» (par. 7) e guarda «alla grossa» (par. 19),nonèpersuaso,convinto che «la vita è bene da se medesima, e ciascuno la desidera e l’ama naturalmente»(par.4).L’urto concettuale, fino al paradosso, è necessario e vitale per le Operette, per il serrato scontro dialogico che in esse si dispiega tra i protagonisti e i loro antagonisti: da un lato, l’ardita oltranza-passione di un pensiero solitario; dall’altro lato, la resistenza duraeopaca,madisinvoltae baldanzosa delle idee condivise dai piú, in un tempo di ottimismo progressista e di euforia tecnologica. Dopo il confrontoantiteticotra“vita” ed “esistenza”, l’indagine si spostasugliaspettidiversidel male di vivere (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Geniofamiliare):iltarlodella «noia», l’insoddisfatta illusione del «piacere», il balsamo del «sogno». Il dolente poeta della Liberata, condannato all’inazione nella clausura tra i pazzi di Sant’Anna e quindi all’angoscia della «noia», mentre vanamente aspira al «piacere», non può che giovarsi dell’illusoria medicina del «sogno». Peccato che «Freud abbia ignoratoLeopardi»,19 solo se pensiamo all’edonismo materialisticoealla«pulsione libidica»20 che formano la sostanza dell’arte leopardiana. La «teoria del piacere»ritornaincompendio nel Tasso, tanto piú drammatizzata dall’intreccio autobiografico tra il protagonista e l’autore, nonché dal contesto carcerario e claustrofobico in cuiildialogoèambientato. Uno dei vertici è toccato con l’Islandese (cfr. cap. VII par. 4): alla consapevolezza della felicità impossibile – presente in tutta la prima parte – e del dolore che deriva dal desiderio insoddisfatto – ribadito nel Tasso – si aggiunge, a chiudere il cerchio sullo strazio dell’umana condizione, la consapevolezza di patimenti inevitabili. Il fulcro ideologico del pensiero materialistico è consegnato a un testo di sorprendente invenzione narrativa, che amalgama insieme racconto d’avventura, iperboli fiabesche, connotati esotici, suspense fantastica, per precipitareversoundialogato lucido e terso, sillogistico e sconcertante, sospeso su un «mistero» (Zib. 4099, 2 giugno 1824) che resta senza risposta, come la domanda formulata in ultimo dell’Islandese: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?» (par. 26). L’uomo qualunque che è protagonista del Dialogo – nella sua vulnerabile fisicità dicreaturacorporeaenelsuo vano peregrinare in cerca di un “altrove” piú benigno – presuppone la crisi del personaggio-eroe che si è consumata nelle canzoni, quindi il passaggio dalla protesta agonistica alla cognizione persuasa della nullità delle cose di «quaggiú». La Natura, da enteastrattoqualeapparenel Dialogo della Natura e di un’Anima, si è antropomorfizzata in «forma smisurata di donna» (par. 2); esiste in carne e ossa come concretizzazione figurale di un male invincibile. Nella prospettiva aerea ed extraterrenadellaprimaparte del libro, nel Dialogo della Natura e di un’Anima, la Natura si presenta affettuosa, ma impotente a contrastare il volere perverso del «fato»; l’Anima l’accusa di dispensare infelicità e lei ragionevolmente si discolpa. Ora – dopo poco piú di un mese, secondo la cronologia compositiva – di quel volere maligno è additata come la responsabile prima. Il fatto è che la vertenza sulla responsabilità della Natura resta, nella prima parte del libro,apertaeinconclusa:non si risolve, non può risolversi, nel colloquio di un’Anima che non ha ancora vivificato «un corpo umano» (par. 1), bensí è rinviata sulla terra, all’incontro risolutivo tra la Natura personificata e un uomoreale,appuntouncorpo umano,espertoeconsapevole dell’avventura del vivere. Le diverseesuccessivesequenze comportano, per l’interna dinamica strutturale delle Operette, un acquisto di conoscenza. L’idea nuova dellaNaturanonèilfruttodi un’autonoma folgorazione intuitiva, ma si precisa con dolorosa gradualità come momento interno al divenire dell’opera. Il genere umano, cosí ripetutamente bersagliato nella sua vana presunzione e malvagità e stoltezza, si profila ora anche nella sua fondamentale condizione di vittima.Diquiinnanzi,ilbrio dellasatirasiattenua.Lareità della natura fa scattare un moto di compartecipazione affettiva nei confronti della sorte comune. Anche la vis comica s’intride di una piú acuta pensosità, con un sorriso misto di disperato sconforto. Toccato il vertice del dramma conoscitivo, si assiste, nelle operette della seconda parte, all’antinomica bipolarità tra il vero e le illusioni, tra pessimismo concettualeesentimentodella vita. Perciò risaltano, proprio dal presupposto di un irrimediabile male di vivere, le vibrazioni estatiche e visionarie di un appassionamento interiore che filtra la luce di meravigliosi fantasmi, di «immaginazioni belle e felici»(Timandro,par.39). Il Parini si applica sul tema della gloria – il mito cantato da Foscolo come spiraglio di salvezza dalla rapina della morte (Dei Sepolcri, vv. 24-25) –, ritenuta un labile fantasma, vano come un’«ombra» (XII 1): cosí argomenta l’operetta che al tempo stesso si raccomanda come originale trattato di sociologia del mestiere di scrittore e della ricezioneletteraria.Perbocca di Parini, che si rivolge a un giovane aspirante autore, si delinea un’acutissima diagnosi sulla sorte della letteratura nella moderna civiltà di massa, che con i suoi meccanismi produttivi manipola e sovverte i valori piú autentici. Nondimeno il fantasma della gloria, cosí sconsolatamente ritenuto illusorio, acquista – con palese proiezione autobiografica – risalto e consistenza di valore assoluto,quantopiúarduoda raggiungere, tanto piú desiderato e vagheggiato pressolaposterità. Dopo l’accertamento, nell’Islandese, dell’inevitabile condanna alla sofferenza e dopo la negazione, nel Parini, della gloria come riscatto dalla nullitàdell’esistere,ilRuysch considera il tumulto dell’avventura umana dall’altra riva, dalla quiete gelidadelregnodelleombre, per sostenere il non-dolore della morte, anzi il piacere che accompagna il momento del trapasso, come progressiva languidezza che definitivamente e per sempre libera dal patire. La stagione della prosa – da Alla sua donna del settembre 1823 fino agli sciolti Al Conte CarloPepolidelmarzo1826 –registrailsilenziodelpoeta, con la sublime eccezione tuttavia della lassa libera di endecasillabi e settenari che costituisceilCorodimorti,in apertura dell’operetta. Sono versi di potente suggestione che esprimono l’assenza di vita, il vuoto, l’oblio, l’annullamento di ogni sensazioneediogni«fiamma vitale», la siderale quiete del non-ricordo, del non-affanno. Poesiacomenegazione,come voce del non-essere, dell’annientamento della coscienza: Solanelmondoeterna,acuisi volve ognicreatacosa, inte,morte,siposa nostraignudanatura; lietano,masicura dall’anticodolor.Profonda notte nellaconfusamente ilpensiergraveoscura; allaspeme,aldesio,l’arido spirto lenamancarsisente: cosíd’affannoeditemenzaè sciolto el’etàvoteelente senzatedioconsuma. […] Chefuquelpuntoacerbo chedivitaebbenome? Cosaarcanaestupenda oggièlavitaalpensiernostro, etale qualde’vivialpensiero l’ignotamorteappar.Comeda morte vivendorifuggia,cosírifugge dallafiammavitale nostraignudanatura; lietanomasicura; peròch’esserbeato negaaimortalienegaa’morti ilfato. La vita («punto acerbo») appare lontana, sedata, muta, finalmente depurata da superbia, da umana presunzione: è la vita, in quanto sede dell’«antico dolor», che incute paura agli abitanti dell’aldilà. Dall’oltretombasilevaquesto canto alla morte – «eterna» signora del riposo perenne – da parte dei defunti, non «lieti», non «beati», ma «sicuri», affrancati dal male di vivere. Però questo sereno regnodeimorti,spogliodelle paure terrene, suscita piú sgomento che attrazione. Leopardinoninnalzauninno alla «profonda notte» delle ombre,maesorcizzailterrore dell’ignoto dopo la vita e insieme pronuncia un tragicamente disilluso elogio della luce e della «fiamma vitale». L’Ottonieri presenta un arguto e ironico autoritratto, in forma di memorabili sentenze attribuite a un personaggio immaginario e rivolte a indagare le ambiguità dell’agire umano. Dopo il Ruysch, la placata saggezza dell’Ottonieri acquistailtimbrodiunavoce rasserenata che giunge dall’aldilà.Manonèintonata alla morte, bensí è curiosissima della vita: si protende con pertinace scrutinio analitico, impartecipe e sorridente, entro i congegni piú sottili, minuti, interiorizzati dei comportamenti individuali e sociali. Una siffatta figura non poteva che affacciarsi nella parte ultima del libro, dopo che il pensiero leopardiano si è chiarito nei punti essenziali, sí da potersi strutturare in autonomo personaggio, in vivente e icastico punto di vista calato sullecosedelmondo. IlColombosisvolgenella «solitudine incognita» (par. 12) dell’oceano, nel corso stesso della traversata del grande navigatore verso l’ignotoeintendedifendereil rischio e l’azzardo che tengono lontano l’assedio della noia. Importante non è lamètadaraggiungere,mail viaggio, l’andare. Il primato della vita intensa e attiva, rispetto all’inerzia di un’esistenzatediosa,èmotivo che proviene dal Dialogo di un Fisico e di un Metafisico: oraquelmotivosiconvertein autentica valorizzazione del piacere di esistere, in commossa riscoperta della semplice condizione creaturale,attraversoleparole diunnavigantechesasempre imminenteladisperazionedel naufragio. Questa difesa del valore di essere al mondo, prodotta dalla minaccia del pericolo,questoattaccamento alla vita traguardata con gli occhi di chi è sul punto di perderla, si espandono in tripudiodivitalitànell’Elogio degli uccelli: una prosa evocativa e visionaria che esalta nelle «creature dell’aria»,«vocaliemusiche» (par. 10) e agilissime, una mirabileesegretasuggestione di «gioia», «letizia», «soavità», «allegrezza», irraggiungibileperlecreature umane.Dalfondamentodella negatività filosofica, fiorisce la nostalgia di una vita diversa, l’incantata virtú di dare voce a una disperata e aerea“allegriadinaufragi”. Nel Cantico del gallo silvestre – l’ultimo testo composto nel 1824 – ritorna circolarmente il tema della felicità impossibile, già annunciato nel preludio della Storia del genere umano e ripreso nella trilogia VII-IX. Ora tuttavia quel tema è energicamente contrappuntato, nelle parole di una mitica creatura dell’aria, da una duplice prefigurazione di «quiete altissima», concessa dalla mortesiaalgenereumanosia all’intero universo: «Mortali, destatevi. Non siete ancora liberidallavita.Verràtempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno» (par. 11); «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta […],edelleinfinitevicendee calamità delle cose create, nonrimarràpureunvestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima,21 empieranno lo spazio immenso» (par. 19). La «sollecitudine» di morte che vibra nell’operetta (par. 17: «Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile») non si dissocia dall’idea che la «morte» è lenimento e pace, al pari del sonno che, «quasi una particella di morte» (par. 12), ristora dalle fatiche del vivere. L’accentuata scansione lirica che distingue questo «carme in prosa poetica»22 vale da sublimazione del suo stesso presuppostopessimisticoedè funzionale all’attesa liberatoria del riposo infine promesso. Posto in chiusura del libro – come nel manoscritto autografo – il Cantico comporta una conclusionetantoapocalittica (nellaprospettivadiuntotale spegnimento della vita) quantoconsolante. Nellaprincepsl’epilogoè consegnato al Timandro, un testo nato – s’è visto – come cerniera tra la prima e la seconda parte del libro, quindi bilanciato tra il mordente della satira e la forza delle illusioni. Posto in ultimasede,conladichiarata intenzione che debba servire da «apologia dell’opera contro i filosofi moderni», è da leggere come sintesi ideologica delle Operette. E la chiave di lettura risalta proprio dalle battute iniziali, quando Eleandro, alter ego dell’autore,èrimproveratoda Timandro: «Quel continuo biasimareederiderchefatela specie umana, primieramente è fuori di moda» (par. 2). Al cheEleandroreplica:«Anche il mio cervello è fuori di moda» (par. 3). Tutto il libro è «fuori di moda», perché rifiuta e contesta lo storicismo utilitaristico, il pedagogismo ottimistico dei «filosofi» contemporanei: «nonmisodilettareepascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata inungiudiziofermoeinuna certezza, non mi lascia luogo asognieimmaginazioniliete circa il futuro» (par. 27). «Disperazione» come ferma, razionale «certezza», onde sono banditi i «sogni» e le «immaginazioni» riguardo alla «perfezione dell’uomo» (par.34)eallasuaconquista, presente o futura, della felicità; non già però i «sogni»ele«immaginazioni» che scaturiscono dal fondo duro di questa «disperazione»: «lodo ed esaltoquelleopinioni,benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo» (par.39). Ecco che le Operette morali, al pari poi dei Canti, e su un piano equivalente di autonomia artistica, sono percorsedaunafondamentale tensione conoscitiva, tra lo sgomento «della vanità delle coseumane»(Timandro, par. 17) e l’entusiasmo teoretico dichinonripiegadifronteal disvelamento del vero. Non ripiega, ma ne riceve una capacitàdisguardolimpidoe maturo per antica saggezza (comenell’Ottonieri),oppure una vitalità di soprassalti fantastici, di consolanti, ancorché vane, illusioni: il confortodelsognonelTasso; il puro piacere di esistere nel Colombo; la mirabile allegrezza e festosa levità delle «creature dell’aria» nell’Elogio degli uccelli. Proprio la cognizione della precarietà dell’essere «ci fa cara la vita, ci fa pregevoli moltecosechealtrimentinon avremmo in considerazione»: «Chiposemainelnumerodei beniumanil’avereunpocodi terra che ti sostenga?» (Colombo, parr. 13 e 17).23 Di qui una tormentata bipolarità – cui si affida il fascino segreto del libro –, che sortisce effetti di stupefacente chiaroscuro, tra il radicalismo pessimistico semprepiúcupoeildesiderio struggentediunavitadiversa, l’esorcismo contro il terrore della morte (Ruysch), la nostalgia di «soli splendidi», di«ariecristallineedolci»,di «verzure liete», di «vallette fertili», di «acque pure e lucenti»(Elogiodegliuccelli, parr. 3 e 6): serie di plurali, adattestareladurataelanon casualità di questo spettacolo interiore. Nonèilripiegoimpotente dell’autocommiserazione, ma la virtú energica e rara di riscoprirelavitacongliocchi di un naufrago. Dall’oltranza delpessimismosisprigionano l’invenzioneimmaginativa,la forza evocativa, il teatro visionario dell’Elogio degli uccelli.24 L’autore conosceva bene le risonanze segrete di questo disperato bifrontismo, eppure si limitava a scrivere all’editoreStella:«Cheimiei principii sieno tutti negativi, iononmeneavveggo».25 1. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,4settembre1820,inTO, Ip. 1109. Queste «prosette», incompiute e inedite (fino al 1906), sono quattro: Dialogo … Filosofo greco, Murco senatore romano, Popolo romano, Congiurati (forse dell’agosto 1820); Dialoghi tra due bestie (di cui restano cinque abbozzi, probabilmente del 1819-’21); Dialogo Galantuomo e Mondo(dueabbozzi,probabilmentedel giugno 1821); Novella Senofonte e NiccolòMachiavello(treabbozzi,idue primiforsedel1820-’21,ilterzodatato 13 giugno 1822). Che questi testi rispondano al proposito di «dare all’Italia» un «vero linguaggio comico […]chebisognaassolutamentecreare» (intrecciando, sul modello di Luciano, «Dialogo»e«Commedia»),èdichiarato inun«disegnoletterario»del1819-’20: «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolodaicostumipresentiomoderni, e non tanto tra morti, giacché di Dialoghi de’ morti c’è già molta abbondanza»(Disegniletterari, III3,in TO, I p. 368). Quanto ai «Dialoghi de’ morti» l’allusione va almeno a Bernardo Bellini e ai suoi Dialoghi, ossia la conversazione degli antichi letterati negli Elisi (Milano 1816), già daLeopardibiasimati(comedaBorsieri nelle Avventure letterarie) nella lettera a Giuseppe Acerbi, Recanati, 17 novembre 1816 («trattandosi di morti, puzzano tanto di sepolcro e d’obblio», ivi, p. 1012). Lo stesso passo del «disegno letterario» si richiama, per dialoghi su materia contemporanea, a Monti imitatore di Luciano, con esplicito rinvio al Dialogo. Matteo giornalista, Taddeo suo compare, Pasquale servitore e ser Magrino pedante(intrepuntatedella«Biblioteca Italiana»,luglio-agosto1816)eaquelli daMontiinseriti«nellasuaoperadella lingua»(ovverolaProposta,apparsain seitomitrail1817eil1824,ancorain corso di pubblicazione, e da Leopardi posseduta non prima del marzo 1821, quando la ordina a un libraio romano: cfr. N. Fucili a G. Leopardi, Roma, 3 marzo, 28 marzo e 23 ottobre 1821, in Epist., II pp. 114, 118, 146). Ma poi anche il riferimento montiano, dopo la lettura diretta dei dialoghi inclusi nella Proposta, si chiarisce in termini polemici: occorre che l’impegno prosastico «alla maniera di Luciano […] [sia] rivolto a soggetti molto piú gravi che non sono le bazzecole grammaticali a cui lo adatta il Monti» (G.LeopardiaP.Giordani,Recanati,6 agosto 1821, in TO, I p. 1123); «A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopraqualcosadiserio,ed’importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e prestoannoia.[…]Ne’mieidialoghiio cercheròdiportarlacommediaaquello chefinoraèstatopropriodellatragedia […]» (Zib. 1393, 27 luglio 1821). Risaleal1819lostudiodiLuciano(vd. Elenchi di letture, pp. 1139-40) e probabilmente coevi sono il VolgarizzamentodaLuciano(sucuicfr. G. Leopardi a G. Sonzogno, Recanati, 27luglio1818,inTO, Ipp.1054-55)e ilframmentoditraduzionediCarontee Menippo(ivi,pp.455-56). 2. Cfr. Dialogo Galantuomo e Mondo,ivi,p.205. 3. Cfr. G. Leopardi a P. Brighenti, Recanati,22giugno1821,ivi,p.1122: «Ciascunoènemicodiciascuno,edalla suapartenonhaaltrichesestesso.[…] Del resto o vinto o vincitore, non bisogna stancarsi mai di combattere, e lottare,einsultareecalpestarechiunque vi ceda anche per un momento. Il mondo è fatto cosí, e non come ce lo dipingevano a noi poveri fanciulli. Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in unastanza,inmanierache,sevipenso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. […] Amami, caro Brighenti, e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’orbe terraqueo. Il mondo è fatto al rovescio come quei dannati di Dante [gli indovini, in Inf., XX] che avevano il culo dinanzi ed il pettodidietro;elelagrimestrisciavano giú per lo fesso [Inf., XX 24]. E ben sarebbe piú ridicolo il volerlo raddrizzare,cheilcontentarsidistarea guardarlo e fischiarlo». L’intera lettera rinviaalDialogoGalantuomoeMondo (ivi, pp. 199-205), con precisi nessi interni (il virtuoso «sputacchiato», p. 1122ep.205,oltreallostessorichiamo dantesco). 4. Novella Senofonte e Niccolò Machiavello,ivi,p.192. 5.Zib.1393-94(27luglio1821). 6. Emblematico e istruttivo il fatto che nel Dialogo di Timandro e di Eleandro (14-24 giugno 1824) i due immaginari personaggi avrebbero dovuto in origine chiamarsi diversamente: non Timandro (secondo l’etimogreco‘coluichestimal’uomo’) ma Filènore (‘colui che ama l’uomo’), non Eleandro (‘colui che commisera l’uomo’) ma Misènore (‘colui che odia l’uomo’). Già nel titolo autografo dell’operetta (Dialogo di Filènore e Misènore)unanotamarginalesegnalail definitivo mutamento dei nomi. Merita attenzione la variante onomastica dell’autobiografico interlocutore di Timandro, da Misènore a Eleandro, e quindi il passaggio dall’odio alla pietà nellasuaconsiderazionedegliuomini:a un intento misantropico-satirico è subentrato un rapporto piú distaccato e comprensivo. Avendo l’autore mutata idea intorno alla natura, anche ha cambiato il suo giudizio verso i propri simili:noncreaturecorrotteecolpevoli della loro corruzione, ma oppresse e fragilivittimediunentemalignochele trascende. 7.Lenoteaitestisonoaggiuntetra il7eil13dicembre. 8. G. Leopardi ad A.F. Stella, Bologna, 12 marzo 1826, in TO, I p. 1244. Cfr. anche G. Leopardi allo stesso,Bologna,26aprilee31maggio 1826,ivi,pp.1251-55. 9.Disegniletterari,III4(1819-’20), ivi,p.369. 10. Tali varianti sono già stabilite nell’Indice allegato al ms. autografo. Anteriormente alla prima edizione del volume, hanno visto la luce a Firenze tre operette nell’«Antologia» di Vieusseux(n.61,gennaio1826,pp.2543):ilTimandro,il Colombo, il Tasso, secondo una scelta voluta da Giordani; il «Nuovo Ricoglitore» di Milano ristampòitretestineinn.15(marzo)e 16 (aprile) del 1826. Quanto all’anticipazionesull’«Antologia»–che dovevaservireasondaregliumoridella censura–,Leopardiconfidavaall’amico Francesco Puccinotti, Bologna, 5 giugno1826,inTO, I p. 1255: «I miei Dialoghi stampati nell’Antologia non avevano ad essere altro che un Saggio, e però furono cosí pochi e brevi. La scelta fu fatta da Giordani, che senza miasaputamisel’ultimoperprimo». 11. G. Leopardi ad A.F. Stella, Bologna,16giugno1826,ivi,p.1257: «il qual Dialogo [di Timandro ed Eleandro]èneltempostessounaspecie diprefazione,edun’apologiadell’opera contro i filosofi moderni. Però l’ho collocatonelfine». 12. A. SAVINIO, Drammaticità di Leopardi,nell’operacollettivaGiacomo Leopardi, a cura di J. DE BLASI, Firenze,Sansoni,1938,pp.124-25. 13. G. MANGANELLI, Giacomo Leopardi: Operette morali (1984), in ID.,Laborioseinezie,Milano,Garzanti, 1986,p.200. 14. Cfr. M. MARTI, Cronologia dinamica delle ‘Operette morali’ di G. Leopardi, in «Giornale storico della letteraturaitaliana»,CLVI1979,494pp. 203-28. 15. Si pensi all’assolutezza dell’amore come tema-cardine che percorre i Canti: specie nel Pensiero dominante, in Amore e Morte, nel Consalvo (vv. 123-25: «Lice, lice al mortal, non è già sogno / come stimai gran tempo, ahi lice in terra / provar felicità»). 16. Cfr. R. REGNI, Ragione architettonica delle ‘Operette morali’, in «La Rassegna della letteratura italiana»,VII1981,3pp.501-10. 17.IlmicroscopiodelMetafisico.Si veda infatti quanto afferma il Fisico, passivamente appagato dai luoghi comuni delle credenze correnti: «se tu ami la metafisica, io m’attengo alla fisica: voglio dire che se tu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento […] senza metter mano al microscopio»(DialogodiunFisicoedi unMetafisico,par.19). 18. Analogamente (almeno) a Zib. 626-27 (8 febbraio 1821) e 4043 (8 marzo1824). 19. E. SANGUINETI, Il nulla in Leopardi (1988), in ID., Il chierico organico. Scritture e intellettuali, cit., p.105. 20.Ibid. 21. Una sorta di piacere dell’immaginazione, che richiama altri celebri passi: «profondissima quiete» (L’infinito, v. 6) e «altissima quiete» (Lavitasolitaria,v.33). 22. CONTINI, Giacomo Leopardi, cit.,p.396. 23.Cfr.ancheZib.82. 24. «E per vero nell’Elogio degli uccelli […] sembra che il Leopardi si siacompiaciuto[…]quasidiconcedersi uno svago» (M. FUBINI, in G. LEOPARDI,Operettemorali,asuacura, Torino, Loescher, 1966, p. 216). In realtà, non svago, ma nesso necessario tra riflessione e libertà fantastica. Il disperato bifrontismo è cosa molto diversa dall’antitesi desanctisiana «intelletto/cuore» (che implica il discredito dell’«intelletto» come pericoloso «scetticismo», onde la svalutazione delle Operette: cfr. F. DE SANCTIS, La letteratura italiana nel secolo XIX, III. Giacomo Leopardi, a cura di W. BINNI, Bari, Laterza, 1953, pp.208sgg.);comeèanchecosamolto diversa dalla dialettica idealistica di «negazione»e«ricostruzione»proposta convigoredaGentilenell’analisi–che egli ha il merito di avere avviata per primo – dell’impianto strutturale delle Operette (cfr. G. GENTILE, Le ‘Operette morali’ [1916], in ID., Manzoni e Leopardi. Saggi critici, Milano,Treves,1928,pp.155sgg.). 25. G. Leopardi ad A.F. Stella, Firenze, 23 agosto 1827, in TO, I p. 1291. XII LONTANODA RECANATI. IMPEGNO CULTURALEE DISIMPEGNO POLITICO 1.ILCOMMENTATOREE L’ANTOLOGISTA L’allontanamento da Recanatitrailluglio1825eil novembre1828(interrottodal rientro a casa nell’inverno 1826) comporta il contatto conl’ambienteintellettualedi Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Soprattutto conta il rapporto con l’editore Stella, perché–perquantosfumatii progetti dell’edizione ciceronianaedella«Sceltadi Moralisti greci tradotti» – sollecitaGiacomoadallestire trevolumidigrandeimpegno (il commento alle Rime di Petrarca nel 1826, la Crestomazia italiana dei prosatori nel 1827 e la Crestomazia italiana poetica nel 1828), non solo ragguardevoli per il loro significato critico-letterario, ma anche per la loro destinazione non specialistica. Con questi libri (necessitati da esigenze pratiche)1 il conte recanatese allarga la cerchia ristretta dei suoi lettori e affronta, in termini moderni, il problema del pubblico, della circolazione e della committenza del lavoro culturale. Ilcommentopetrarchesco (Canzoniere e Trionfi)2 è un’interpretazionemeramente esplicativa, nel rispetto del testo e del lettore,3 basata sull’assunto che «Nessuno oggi in Italia, fuori dei letterati(iovolevadirfuoridi pochissimi letterati), conosce né può intendere facilmente lalinguaitalianaantica».4Un Petrarca dunque (non senza autoironia) «fatto per tutti, anche per le donne, e, occorrendo, per li bambini, e finalmenteperglistranieri»:5 umile esegesi, metodologicamente fondamentale, antipedantesca e spoglia (anche troppo) di divagazioni erudite come di giudizi estetici, che dimostra l’esigenza di estendere alle nostre lettere la prassi dell’analisi testuale già egregiamente da Leopardi applicata nello studio dei classicigrecielatini.6 Le due crestomazie – quella dei prosatori7 impostata retoricamente per generi, quella dei poeti8 secondo cronologia – provengono dal medesimo intento divulgativo del Petrarca,maquil’operazione è piú delicata e compromettente, giacché implica il confronto con l’interatradizionedellanostra civiltà letteraria e dunque anche il confronto conseguente con i canoni del gusto contemporaneo. Le scelte leopardiane vanno, ancora una volta, controcorrente. Non assecondano la pedagogia allorainuso:nonsiattengono al criterio dello storicismo militante, né rispondono al credo del progresso morale, della provvidenzialità, degli entusiasmipolitici(funzionali alla formazione del «cittadino» borghese). Bensí difendono una pedagogia liberatoriaenonomologante, funzionale all’autonomo valoredellapersonaeallasua gratificazione: attenta all’integrità etica e psicologica dell’individuo, quindi pronta a promuovere la coscienza del male di vivereeinsiemelaricercadel «dilettevole» (intrecciando stile e pensiero),9 in senso estetico,ideale,fantastico.Le due antologie non solo documentano un’agilissima curiosità investigativa verso testi e territori spesso inesplorati; non solo tengono per noi oggi in serbo un prezioso repertorio di fonti variamente utilizzate nell’opera leopardiana; ma sono anzitutto libri d’autore, specchio di una filosofia, di una ideologia letteraria e civile. Leopardi li definisce libri «utili»,10 ma in base a unanozionedi«utilità»cheè sua, ed è antitetica all’utilitarismo della cultura ufficiale, come conferma l’impegno, sempre con l’editoreStella,11perunanon realizzata Enciclopedia delle cognizioni inutili («m’ingegno di renderla un’operapiúpopolarechesia possibile, anche nello stile»),12ecomepoiribadisce ilpiútardoPreambolo(1832) a«LoSpettatoreFiorentino». Ilfattoèche,sopitaormai da tempo con l’ironia delle Operette la morale eroica delle canzoni, l’adesione al materialismo meccanicistico (approfonditanel1825conil Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco) si unisce ora a una convinta apoliticità e a una morale dell’astensione di tipo stoico, che prescrive di sopportare i dolori e di rinunciare ai beni che non si possono ottenere. Questa fase del pensiero leopardiano trova un punto d’appoggio nel Manuale di Epitteto (tradotto nel 1825)13 e si manifesta nella già ricordata lettera a Vieusseux del 4 marzo 1826, con cui è rifiutato l’invito di collaborare all’«Antologia» (il «vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato»). Il bisogno di «solitudine», ivi dichiarato, e la proclamata ignoranza in tema di «filosofia sociale» sono da intendersi come inequivocabile scelta di non integrazione nel sistema operativo (con conseguente pedagogiastrumentale)caroa Vieusseux. 2.DISCORSOSOPRALOSTATO PRESENTEDEICOSTUMI DEGL’ITALIANI Dalla sua sponda di solitarioeversivo,Leopardisi è però già misurato con la questione della «filosofia sociale», come risulta dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (probabilmente elaborato tra la primavera e l’estate 1824,14 incompiuto e inedito fino al 1906). La guardatura fredda dell’etnologo vi tratteggia un quadro spietato, storico e antropologico, dei nostri costumi «al tempo presente», una radiografia severa (e senza soluzioni che servano da terapia) dell’inconsistente «spiritonazionale»italiano,15 quello che si dice senso civico. Da noi manca la «società stretta»16 (che si regge sul «bon ton», sulle buone maniere, sull’«onore», sui riguardi, sulle formali convenienze e convenzioni del vivere civile), mentre invece spadroneggiano l’individualismo, l’egoismo, il cinismo, la derisione reciproca. Una condizione di anarchia in cui ognuno «fa tuono e maniera da se».17Di qui l’invito a riflettere sui costi altissimi imposti dallo sviluppo della «civiltà moderna», la quale con la conquistadella«verità»ciha liberati dalla violenta e fanatica «barbarie» del Medioevo, ma ha provocato la «strage delle illusioni»18 (la virtú, la giustizia, la gloria,l’amore,lapatria)che erano la base dell’antica morale. I paesi piú progrediti (come la Francia, l’Inghilterra, la Germania) hanno rimediato a questa perdita con la «società stretta»,conun’artificialevita di relazione che ha ridotto l’etica a galateo. Nei paesi meno evoluti (come la Spagna e la Russia) l’ignoranza consente ancora la sopravvivenza dei fondamenti morali che sono stati distrutti dal progresso «dei lumi». L’Italia è meno civile dei primi e piú civile dei secondi: non può avvalersi degli anticorpi prodotti dalla civilizzazione avanzata, né godere dei benefici dell’arretratezza. Cosíquellacheuntempoera «la piú vivace di tutte le nazioni colte», è divenuta la piúimmorale,«lapiúmorta», «la piú ragionatrice», «la piú difficile ad esser mossa da cose illusorie», la piú insensibile alla poesia e alle «opered’immaginazione».19 L’«utile» che Leopardi difende non si confronta con la «società stretta», ma con quelle passioni e con quei valori vitali ch’egli chiama illusioni: perciò si appella a un edonismo sensistico, estetico e affettivo (non però estetizzante né misticheggiante né spiritualistico), che è altra cosa dall’«utile» pragmatico- economico perseguito da Vieusseux e dalla cultura liberale borghese. Lo chiarisce senza veli la lettera aGiordani,daFirenze,del29 luglio1828: In fine mi comincia a stomacare il superbodisprezzochequisiprofessadi ogni bello e di ogni letteratura: massimamentechenonmientrapoinel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. […] [Gli individui] sono condannatiallainfelicitàdallanatura,e non dagli uomini né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile miparechevaglianosopraognicosagli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Cosí avviene che il dilettevole mi pare utile sopratuttigliutili,elaletteraturautile piú veramente e certamente di tutte queste discipline secchissime; le quali anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità veradegliuomini[…].Inognimodo,il privare gli uomini del dilettevole negli studi,miparechesiaunveromalefizio algenereumano.20 Il «dilettevole» è «utile sopra tutti gli utili» e la «letteratura» è potente antidoto all’«infelicità inevitabile», perché fervida alunna delle illusioni in un mondo che ha assistito alla loroecatombe. 3.IVERSIDEL1826 A Bologna Giacomo pubblica,apropriespese,nel 1826 la sua seconda e rilevante silloge poetica (a parte le anticipazioni romane delletreprimecanzoni),peri tipi della Stamperia delle Muse, di cui era titolare l’amicoPietroBrighenti.21La raccolta comprende tutti i testi approvati non inclusi nelleCanzonidel1824. Versi: indice della I ed. (Bologna, StamperiadelleMuse,1826) GliEditoriachilegge Idilli-MDCCCXIX L’infinito.IdillioI Laseradelgiornofestivo.IdillioII Laricordanza.IdillioIII[inF:Alla luna] Ilsogno.IdillioIV Lospaventonotturno.IdillioV[in N:FrammentoXXXV] Lavitasolitaria.IdillioVI Elegie-MDCCCXVII ElegiaI[inF:Ilprimoamore] ElegiaII[inN:FrammentoXXXVI] Sonetti in persona di ser Pecora fiorentinobeccaio-MDCCCXVII SonettoI SonettoII SonettoIII SonettoIV SonettoV Epistola-MDCCCXXVI EpistolaalConteCarloPepoli Guerra dei topi e delle rane MDCCCXV CantoI CantoII CantoIII Volgarizzamento della Satira di Simonidesopraledonne-MDCCCXXIII Cosí informa la editorialed’apertura: nota Abbiamo creduto far cosa grata al Pubblico italiano, raccogliendo e pubblicando in carta e forma uguali a quelledelleCanzonidelconteLeopardi giàstampateinquestacittà,tuttelealtre poesie originali dello stesso autore, tra lequalialcuneinedite,dicuisiamostati favoriti dalla sua cortesia. Si è compresa tra le poesie originali la Guerra dei topi e delle rane, perché piuttosto imitazione che traduzione dal greco. In ultimo abbiamo aggiunto il Volgarizzamento della Satira di Simonide sopra le donne; della qual poesia, molto antica e molto elegante, manotaquasisoltantoaglieruditi,non sappiamo che v’abbia finora altra traduzioneitaliana.22 L’indice merita attenzione, perché – diversamente dalle Canzoni del 1824 – ci mette dinanzi a un libro d’autore che è destinato, nel suo impianto strutturale, a essere scompaginato e in buona parte annullato dai Canti,dal loro filtro di autoselezione e dalla loro diversa sintassi organizzativa. Conesclusionedegliidilli già apparsi in rivista nel 1825-’26 e del volgarizzamento della satira di Semonide di Amorgo (già nel «Nuovo Ricoglitore» di Milano, n. 11, novembre 1825), gli altri testi sono inediti – o in veste inedita, come la Guerra dei topi e delle rane, terza e ultima versione, in sestine –. Molti nonsarebberosopravvissutia questa stampa: cosí i cinque esercizi in chiave comicorealistica dei Sonetti in persona di ser Pecora fiorentinobeccaio;cosíidue volgarizzamenti comicosatirici.Altriavrebberoavuto sorte varia: Lo spavento notturno,sacrificatoneiCanti del 1831, è recuperato come Frammento XXXV nei Canti del 1835; l’Elegia I entra nei Cantidel1831comeIlprimo amore, ma l’Elegia II sarà salvata,peròinpiccolaparte, soltanto nei Canti del 1835 nel Frammento XXXVI (quindici versi, di contro agli ottantadue qui documentati).23 Il disegno si perde e con il disegno anche nonpochimateriali. Illibrohaunafisionomia eterogenea (e pluristilistica) ma non casuale: termina con laSatirasopraledonnecheè richiamo, o ammiccamento, propriamente antifrastico alla canzone Alla sua donna, conclusiva del volume bolognesedel1824.Concede ampio spazio a una componente satirica che i primi Canti avrebbero cancellato e i secondi ammesso(aparteloScherzo) con un unico, piú tardo campione (la Palinodia), ma di taglio arduo e severo, non comico-giocoso. Attesta, come già le Canzoni, una rigida specificazione retorica di genere poetico (Idilli, Elegie, Sonetti, Epistola) che sarà esemplarmente azzerata nei Canti, con il ricorso a un titolo nuovo di unificante sublimazione lirica. Segnala puntualmente la datazione – spessononpiúcheorientativa –24 delle singole parti, sí da tracciare, ma in modo un po’ estrinseco e meccanico, quel diagrammastoricodell’ioche iCantiaffidanoagliequilibri e alle antinomie di una studiatissima architettura interna. La strada da percorrere è ancora lunga, non meno che incerta, e il libro del 1826 non è che un passo in avanti, una tappa intermedia verso l’ancora imprevedibile stazione dei Canti. 1. Forse proprio l’ingrata fatica del commentoalleRime spiega, almeno in parte, il negativo giudizio sulla poesia di Petrarca espresso da Giacomo ad A.F. Stella, Bologna, 13 settembre 1826, in TO, I pp. 1266-67 (cfr. anche la nota di Moroncini, in Epist., IV p. 175).Ma,perunopportunoelimitativo bilancio del petrarchismo di Leopardi, vd. R. TISSONI, L’archetipo del commento divulgativo: l’ ‘Interpretazione’ petrarchesca di Leopardi (Milano 1826), in ID., Il commentoaiclassiciitalianinelSettee nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Padova, Antenore, 1993, pp. 175-203. Piúingenerale,sullavoroeditorialedi Giacomo a Milano, cfr. U. CASARI, L’esperienza editoriale milanese del Leopardi, in ID., Alla ricerca del lettore. Saggio su Leopardi, Verona, Fiorini,1990,pp.77-122. 2. Sul Petrarca leopardiano, anche per la dovizia dell’informazione bibliografica, cfr. R. BESSI, Leopardi commenta Petrarca, nell’opera collettiva Una giornata leopardiana in ricordo di Walter Binni, cit., pp. 95120; utili indicazioni anche in M. MANOTTA, Leopardi. La retorica e lo stile, Firenze, Accademia della Crusca, 1998,pp.149-57. 3. «Non è passata in silenzio nessuna difficoltà della quale io mi sia accorto; e dovunque io non ho inteso, ho confessato espressamente di non intendere, acciocché il lettore, non intendendo, non si credesse né piú ignorantenémenoacutodell’interprete, cometuttiglialtricomentatorivogliono che egli si tenga in tali occasioni» (Prefazionedell’interprete,allaseconda edizione, quella fiorentina del 1839, in TO,Ip.984). 4. L’autore dell’interpretazione a chilegge(premessaallaprimaedizione del 1826, ivi, p. 985). Riguardo al carattereparafrasticodelcommento,G. CARDUCCI (Prefazione a ‘Le Rime’ di FrancescoPetrarca,commentatedaG. CARDUCCI e S. FERRARI, Firenze, Sansoni, 1899, p. LIII), peraltro non tenero verso questo Leopardi «scoliaste», osservava: «nella comune interpretazione è sempre e senza paragoni piú degli altri conciso ed elegante». 5.Prefazionedell’interprete,cit.,p. 984. 6.Cfr.TIMPANARO,Lafilologiadi G.Leopardi,cit.,p.131. 7. Questo l’indice delle tredici sezioni (79 gli autori e 299 i brani): Narrazioni; Descrizioni e immagini; Apologhi; Allegorie, comparazioni e similitudini; Definizioni e distinzioni; Lettere; Discorsi dimostrativi; Eloquenza; Filosofia speculativa; Filosofiapratica;Relazioni di costumi, caratterieritratti;Paralleli; Filologia. La scelta è ardita, perché il Trecento, caro ai puristi, ai classicisti e ai romantici (appassionati cultori del Medioevo politico e religioso), è quasi ignorato, il Quattrocento abbastanza svalutato, mentre signoreggia il Cinquecento,elargospaziohannopoiil Seicento (Galileo è l’autore piú rappresentato)eilSettecento(senzagli scrittori viventi e con una striminzita presenza di Alfieri che si affaccia da una mezza pagina della Vita). «Soprattutto è notevole la scelta dei luoghi nelle opere di Galilei, e il suo studio non solo del ben dire, ma anche delbenpensare;ciòchelodistingueda quei puristi che credevano non potersi imparare la lingua altrimenti che “spensando”,comedicevaAlfieri»(DE SANCTIS, Giacomo Leopardi, cit., p. 189). Per i rapporti con le Leçons de littérature di Jean-François Noël e François-Marie-JosephDelaplace(Paris 1804, ma l’ed. usata da Leopardi è la IV, 1810), cfr. G. BOLLATI, Introduzione alla Crestomazia italiana. La prosa, Torino, Einaudi, 1968, pp. XXXVIII sgg. Utili indicazioni, dal confronto con l’antologia prosastica pubblicata a Londra nel 1828 da Antonio Panizzi, in C. DIONISOTTI, Panizzi professore (1980), in ID., Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, pp.219-21. 8. Premesso (cfr. Prefazione alla crestomaziaitalianade’poeti,in TO, I p. 992) che Dante e Petrarca, l’Ariosto delFuriosoedelleSatire,ilTassodella Liberata e dell’Aminta, il Pastor Fido di Guarini e Il Giorno di Parini vanno lettiperintero,l’antologia(81gliautori e 279 i brani) espunge del tutto il Trecento, è molto avara con il Quattrocento, si dilata con il CinquecentoeilSeicento,finoaessere generosissima con il Settecento e il primo Ottocento (esclusi i viventi, ma incluso in extremis Monti, deceduto il 13ottobre1828). 9. «Il quale intento non si poteva otteneresenonconunacondizione:che neipassichesiscegliessero,labellezza del dire non fosse scompagnata dalla importanza dei pensieri e delle cose» (Prefazione alla crestomazia italiana de’prosatori,ivi,p.991). 10.Ibid. 11. G. Leopardi ad A.F. Stella, Firenze,13luglio1827,ivi,p.1288. 12. G. Leopardi ad A.F. Stella, Firenze,23agosto1827,ivi,pp.129192.L’idearitornanei Disegniletterari, XI (1829): «Enciclopedia delle cognizioni inutili, e delle cose che non si sanno; o Supplemento di tutte le enciclopedie»(ivi,p.372). 13.«Oralanoncuranzadellecosedi fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici,vieneadirquestoappunto,cioè noncurarsidiesserebeatonéfuggiredi essere infelice» (Manuale di Epitteto. Preambolo del volgarizzatore, ivi, p. 493). 14. Assegnato per solito al marzo 1824(accettandolatesidiGinoScarpa, cfr.G.LEOPARDI,Opere, a cura di R. BACCHELLI e G. SCARPA, Milano, Officina Tip. Gregoriana, 1935, pp. 1294-95), se ne è proposta una cronologiacompositivaprotrattafinoal 1826-’27 (cfr. G. SAVARESE, Il ‘Discorso’ di Leopardi sui costumi degl’Italiani: preliminari filologici [1988], in ID., L’eremita osservatore. Saggio sui ‘Paralipomeni’ e altri studi suLeopardi,Roma,Bulzoni,1995,pp. 209-32), ma l’editore piú recente (M. DONDERO, Nota al testo, in G. LEOPARDI, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, intr. di M.A. RIGONI, testo critico di M. DONDERO, commento di R. MELCHIORI, Milano, Rizzoli, 1998, p. 31),sullabasedell’esamecodicologico dell’autografo (Biblioteca Nazionale di Napoli, Carte Leopardi) ipotizza «una datazione compresa tra la primavera e l’estate del 1824». Si veda anche, per ulteriore e analitica conferma, M. DONDERO,I problemi della datazione, inID.,LeopardiegliItaliani.Ricerche sul ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani’, Napoli, Liguori,2000,pp.13-36. 15. Cfr. anche Zib. 865 (24 marzo 1821):«[senzalo]spiritonazionale[…] non v’è stata mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza nazionale, maappenagrandezzaindividuale». 16.Discorsosopralostatopresente dei costumi degl’Italiani, in TO, I p. 968. 17.Ivi,p.971. 18.Ivi,p.969. 19.Ivi,p.981. 20. G. Leopardi a P. Giordani, 24 luglio 1828, ivi, p. 1321 (la data va corretta,non24ma29,cfr.Epist.,vp. 120,epureG.LEOPARDI, Lettere agli amici di Toscana, a cura di W. SPAGGIARI, Milano, Mursia, 1990, p. 29). Questo stesso motivo dell’«utile» ritornainunpassocapitale:Il pensiero dominante,vv.59-65. 21.Illibro(cfr.Epist., IVp.214n. 4)erastampatofinodalsettembre1826 (cfr., oltre all’annuncio in inglese nella lettera al fratello Carlo, Bologna, 20 settembre 1826, ivi, p. 183 e n. 6, la lettera della sorella Paolina, Recanati, 24 settembre 1826, ivi, p. 185 e n. 1, nonché la lettera a C. Pepoli, Bologna, s.d.[ottobre1826],ivi,pp.195-96en. 3), ma non ancora messo in circolazione. Giacomo infatti ne chiedeva notizia a P. Brighenti, da Recanati,il27dicembre1826:«Haitu mai pubblicato il libretto de’ miei Versi?L’Antologianehamaiparlato?» (in TO, I p. 1275). Brighenti rispondeva, da Bologna, il 3 gennaio 1827: «Oggi appunto ho dato le disposizioni per la pubblicazione del tuolibro,giacchéorapossofarlosenza violare le precauzioni prefissemi» (in Epist., IV p. 217; annota MORONCINI, ivi, p. 218 n. 3: «Non saprei dire che specie di “precauzioni” il Brighenti si fosse prefisse. Certo è che dovevano essere d’un qualche peso, se lo costrinsero a differire di circa tre mesi la pubblicazione del volumetto. Del quale però qualche copia era già in privata circolazione»). L’«Antologia» ne parlò con favore, per iniziativa di Giuseppe Montani (già recensore delle Canzoni nel dicembre 1824 come lo sarà poi delle Operette nel febbraio 1828), nel vol. XXVIII, nn. 82-83, novembre-dicembre 1827, pp. 273-75 (orainG.MONTANI,Scrittiletterari,a cura di A. FERRARIS, Torino, Einaudi, 1980,pp.195-96). 22.GliEditoriachilegge,inTO, I p.72. 23.Cfr.,inproposito,P.GIBELLINI, Notturno con tempesta: il frammento leopardiano ‘Io qui vagando’, nell’operacollettivaStudidifilologiae letteraturaitalianainonorediGianvito Resta, a cura di V. MASIELLO, Roma, Salerno Editrice, 2000, 2 voll., II pp. 857-78. 24.Siveda,traglialtricasi,ladata 1815 assegnata alla Guerra dei topi e delle rane, con riferimento alla prima versione del testo greco, mentre la redazionequipubblicata(laterza)risale al1826. XIII ILDISGELO 1.DALLA«COGNIZIONE»AL «SENTIMENTO»DELNULLA LoZibaldone permette di vedere al rallentatore il graduale disgelo del cuore,1 lospostamentod’interessedal piano cosmico-filosofico al terreno personale, dal mondo all’io, dalla «cognizione» al «sentimento» del nulla, con un riaccendersi dell’istinto vitale («l’ardor natio»: Il risorgimento, v. 150) suscitato dalla stessa radicalità del processo meccanicistico. Sono celebri alcunipassi,almenoquattro. Uno riguarda l’infondatezza del “principio di non contraddizione”, secondo il quale «Non può unacosainsiemeessereenon essere» (Zib. 4099, 3 giugno 1824),«nonpotestidemsimul esse et non esse» (ivi, 4129, 5-6 aprile 1825). Principio supremo eppure infondato, perché il «fine naturale dell’uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è né può essere altro che la felicità, e quindi il piacere suo proprio», ma «il fine dell’esistenza generale […] non è certamente in niun modo la felicità né il piacere deiviventi»(ivi,4128),bensí la loro infelicità; nondimeno «ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per necessario, perpetuo e solosuofineilsuopiacere,e lasuafelicità»: Contraddizione evidente e innegabile nell’ordinedellecoseenelmododella esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande,danonpotersimaispiegare,se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principiodicognizione,nonpotestidem simul esse et non esse (ivi, 4129, 5-6 aprile1825). Nell’anno di composizione del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, la teoria del piacere è ripensata alla luce del sistema meccanicistico comunicato dalla Natura all’Islandese. Tale «contraddizione […] innegabile» prelude al passaggiodallastagionedella prosa al «risorgimento». Dinanzi a questo «misterio grande» si arrende l’indagine concettuale e la «contraddizione spaventevole», insanabile per via di conoscenza logica, lascia il posto a una diversa forma di conoscenza propria della poesia, che si addentra nelle ombre del «misterio» e lascia conflittualmente convivere i contrari, sí da dare voce intensissima all’edonismo dell’io nel momento stesso che ne certifica l’impossibile appagamento. Un altro brano ha per temail«giardino»(Zib.417577, Bologna, 19-22 aprile 1826): Entrateinungiardinodipiante,d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella piú mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessunapartechevoinonvitroviatedel patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo piú, qual meno. Là quella rosaèoffesadalsole,cheglihadatola vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape,nellesuepartipiúsensibili,piú vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuoseapisenzaindicibilitormentidi quelle fibre delicatissime, senza strage spietataditenerifiorellini.Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciatodall’ariaodalsolechepenetra nellapiaga;quelloèoffesoneltronco,o nelle radici; quell’altro ha piú foglie secche;quest’altroèroso,morsicatonei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacoloeingombronelcrescere,nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanitàperfetta.Quaunramicelloèrotto odalventoodalsuopropriopeso;làun zeffiretto va stracciando un fiore, vola conunbrano,unfilamento,unafoglia, unapartevivadiquestaoquellapianta, staccataestrappatavia.Intantotustrazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermitànonsonomortali,altreperché ancoraconmalattiemortali,lepiante,e gli animali altresí, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita nell’entrare in questo giradino ci rallegral’anima,ediquièchequestoci pareessereunsoggiornodigioia.Main veritàquestavitaètristaeinfelice,ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben piú deplorabile che un cemeterio),esequestiesserisentono,o vogliamodire,sentissero,certoècheil nonesseresarebbeperloroassaimeglio chel’essere. Questa formidabile pagina – di poco successiva all’epistola Al Conte Carlo Pepoli – è preceduta nello Zibaldone dal passo che inizia con l’affermazione categorica «Tutto è male» e che prosegue con un unico periodo sintattico dove ossessivamente la parola «male» è ripetuta nove volte. Non sussistono dubbi sul significato logico dell’intero brano dedicato al «giardino», nel periodo del cupo pessimismo degli sciolti a Pepoli: la morte è preferibile alla vita, soltanto il non essere libera dal male, dall’infelicità necessaria. Ma latecnicaespressivadiquesta prosa comunica un altro significato: la descrizione, mentreaffermarazionalmente il concetto del patimento inevitabile, esprime emozionalmente, per virtú di stile,un’appassionataenuova sensibilitàperla«souffrance» universale (il termine dei grandi moralisti francesi indica l’alone affettivo della compartecipazione sentimentale al dolore).2 Si toccano con mano le vibrazioni emotive scaturite dal persuaso convincimento che «Tutto è male» e dolore. La scrittura ha deposto il rigore sillogistico dell’argomentazione razionale (già nell’ossessiva iterazione d’apertura sulla parola «male») e si avvale invecedisostanzametaforica, di insistite, tese, coinvolgenti inarcature sintattiche e lessicali. Si consideri l’amplificazione semantica ottenuta con le serie sinonimiche, a tre membri («di piante, d’erbe, di fiori»; «si corruga, langue, appassisce»), a quattro («industriose,pazienti,buone, virtuose api»; «da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare»), a cinque («le stritoli, le ammacchi, ne spremiilsangue,lerompi,le uccidi»), a sei, organizzati in triplice sequenza di opposizioni binarie («troppo caldo, […] troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppoumido,tropposecco»). Si vedano i nessi antinomici tra gli artefici innocenti del male (un «male» naturale, non il «male» di Manzoni, fruttodiumanascelleratezza) e gli effetti dolorosi del loro agire incolpevole: cosí le «api» che sono, con gradazione d’intensità crescente, «industriose, pazienti, buone, virtuose», e cheproducono«dolcemele», recano «indicibili tormenti» in «fibre delicatissime» e fanno «strage spietata di teneri fiorellini»; cosí la «donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli»; cosí il giardiniere «va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro». Antinomico, su un piano piú generale,ancheilrapportotra la situazione e il quadro ove essasisvolge:daunaparte,la «strage» che si consuma con spargimento di sangue («ne spremi il sangue»), con assassinii («le uccidi»), piaghe, ferite, trafitture, membra rattrappite, morsi nella carne viva; dall’altra parte, l’arcadica levità dei contorni paesistici, dell’ambiente, dei personaggi:ilgiardinofiorito, nella piú mite stagione dell’anno, la rosa, il giglio, con l’aerea delicatezza dei vezzeggiativi affettivi («fiorellini», «pianticella», «ramicello», «zeffiretto», «donzelletta»). Un mondo ridente e una realtà straziata, con effetti di spettacolarizzazione della sofferenza, attraverso interne didascaliecheorganizzanolo spazio scenico («Là … Là …»; «Quell’albero … quell’altro…;questo…quello … quell’altro …»). La manzoniana «vigna di Renzo»(Promessisposi,cap. XXXIII) è metafora della volontà di razionalizzare il caos prodotto da colpa umana; il «giardino» leopardiano è metafora del male che affanna, senza responsabilità individuale, l’intero creato. Non si tratta di cognizione del dolore, ma di emozione per la «souffrance» naturale. Le antinomie multiple su cui il testo si regge diventano antitesi tra idea e parola, tra significato e significante. Proprio dalla certezza che la mortesiapreferibileallavita, scatta l’angoscia per questo beneprofanatoeperduto:per la vita gustata come valore incantevole e prezioso, riscopertacongliocchidichi ha visto in volto la disperazione. 2.IMORTICOME«STATIVIVI» EILPOTEREVISIONARIO DELL’«IMMAGINAZIONE» Un altro passo è dedicato ai «morti» (Zib. 4277-78, Recanati, 9 aprile 1827). Perchésipiangonoidefunti? Noi c’inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare;avantiilragionamento,emal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli,tenghiamopermisero illorocaso,elamorteperunasciagura. Cosí gli antichi; […] cosí i moderni; cosí tutti gli uomini: cosí sempre fu e sempre sarà. Ma perché aver compassione ai morti, perché stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dalpensierochequestisitroviinluogo einistatodipunizione:intalcasonon potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perché lo stimerebbe reo. […] Da che vien dunque la compassione che abbiamo agliestintisenondalcredere,seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare,eindispettodellaragione,da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunquenoinoncrediamonaturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto,nonsiapiú. Ma se crediamo questo, perché lo piangiamo? che compassione può caderesopraunochenonèpiú?–Noi piangiamoimorti,noncomemorti,ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perché ha cessato divivere,perchéoranonviveenonè. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondonoi)diesserprivatodellavita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto. Quanto è al presente, noi piangiamolasuamemoria,nonlui. In verità se noi vorremo accuratamenteesaminarequellochenoi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è piú, io non lo vedrò piú. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni,leabitudini,chesonopassatetra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno maipiú;cifapiangere.Nelqualpianto, e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attristadolcementeec’intenerisce. Il pensiero – annotato nell’anno stesso del Dialogo di Plotino e di Porfirio – contesta la fede nell’immortalità dell’anima, ma non è questo lo scopo primario. Certo chi possiede il dono della fede religiosa non dovrebbe piangere i morti. Ma non è il caso di Leopardi. La sua certezza della nullità delle cose è fermamente acquisita, salda, irremovibile e dice che l’animaèmortale,chelavita è male e patimento, che soltantolamorterecariposoe quiete (l’eterna «quiete del sonno»: Cantico del gallo silvestre,par.11).Anchetale credo laico e materialistico dovrebbe escludere, a rigore, la commozione per i defunti. Perché allora si piangono, perché il poeta li piange? La sua filosofia della negatività integrale non s’incrina, ma proprio da questo fondamento, dalla ferma convinzione della mortalità assoluta di ogni vivente, discende l’angoscia d’una frattura irrimediabile e insieme scaturisce un sentimento nuovo di valorizzazione della vita come«bene»(«rifassiilgusto allavita»:DialogodiPlotino ediPorfirio,par.58),nonsul piano razionale («senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione»; «seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare»; «pur senza ragionare, e in dispetto della ragione»), ma affettivo. I moti del cuore stanno per ridestarsi dal loro «duro […] sopor» (Il risorgimento, v. 64). La consapevolezza materialistica della morte, comedefinitivacancellazione dell’essere, riscatta l’essere e lavita,realtàluminosa,labile, fuggitiva: non piú la vita guardata dalla sponda dei trapassati, dal versante del non-ricordo, come nel Coro di morti che apre il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie («Che fu quel punto acerbo / che di vita ebbenome?»,vv.21-22),ma la vita vivente e vissuta. Anche in Pascoli ritornano i morti (da La tovaglia a La tessitrice a Casa mia), ma irradiano nell’aldiqua una smarrita e funebre ansia di lutto. In Leopardi ritornano e non sono piú morti ma «stati vivi» (se ne ricorderà Pirandello con I pensionati della memoria), in una sorta quasi di rivincita della vita sulla morte. Di qui la riattualizzazione nel ricordo (avverrà in ASilvia) del loro esistere quotidiano, il ricorrere con la mente alle «cose», alle «azioni», alle «abitudini» di un tempo passato e sapere che «non saranno mai piú». Da una simile condizione interiore il «risorgimento» del 1828 trae la poetica della rimembranza e la coscienza della «nostra caducità». Infine, il quarto passo, che potremmo definire della “duplicità del mondo” (Zib. 4418,30novembre1828): All’uomo sensibile e immaginoso, che viva,comeiosonovissutograntempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchiunsuonod’unacampana;enel tempostessocoll’immaginazionevedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (edèpurtalelavitacomunemente)che nonvede,nonode,nonsentesenonche oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevonolasensazione. L’aspetto immaginativomemoriale-fantasticovisionario, che si sovrappone all’aspetto fenomenicocronachistico, ha la virtú di conferireagli«oggetti»ealle figure umane (come Silvia e Nerina) un significato emblematiconuovoeintenso, perché evoca valori fantasticati, lontani e perduti. L’immaginazione ricrea le «cose», riesce a “cangiare” il mondo: «e come al guardo mio / cangiato il mondo appar?» (Il risorgimento, vv. 103-4). Dalla realtà fenomenica del presente, drammaticamente segnata dalla coscienza del dolore, si libera un’altra realtà immaginata, capace di comunicare«tuttoilbelloeil piacevole delle cose». Si acuiscelacapacitàdiscoprire edicreareun“altrove”felice, fatto esistere per pura forza visionario-evocativa.Tuttavia il peso del presente doloroso non si annulla. L’immaginazione ricrea il mondo, ma al tempo stesso mette in moto il sentimento del tempo, la consapevolezza della caduta delle illusioni: l’esito è un incanto intriso di pathos e di strazio. Il passo citato dello Zibaldone illumina non solo l’energia immaginativa e memoriale che distingue i canti pisanorecanatesi, ma anche rende conto della tensione che ne movimental’internadinamica strutturale. 1. E. MONTALE, Ossi di seppia, I limoni, v. 46: «e il gelo del cuore si sfa». Bisogna avere visto in faccia la nullità delle cose anche per apprezzare ilgiallodeilimoni. 2. Cfr. E. BIGI, Dalle ‘Operette morali’ai«grandiidilli»(1963),inID., La genesi del ‘Canto notturno’ e altri studi sul Leopardi, Palermo, Manfredi, 1967,pp.81-112. XIV IL «RISORGIMENTO» EICANTIDEL1831 1.LARIPRESAPOETICA La ripresa poetica nell’aprile pisano del 1828 – appena conclusa l’immersione con relativo «assaporamento»1 nella galleria lirica della seconda Crestomazia–segnaunadata capitale. Il tempo delle Operette, annunciato nel settembre1823dallararefatta stilizzazione immaginativa di Alla sua donna, è stato scandito nell’agosto 1824 dall’eccezionale Coro di morti, siderale poesia del nulla e insieme annullamento dellapoesia,pois’èproiettato nel marzo 1826 nella densità ragionativa dell’epistola Al Conte Carlo Pepoli: due intermittenti bagliori del verso entro il sistema della prosa, entro il circuito dell’analitica investigazione delvero. Ora, nell’invernoprimavera del 1828, qualche anello di quel sistema si è spezzato: La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora,perlecircostanzemutate,risortala speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta piú speranza che desiderio, e piú speranze che desiderii[…].2 Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventú; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; […] oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmimecomedesimo;einfine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplaredasecompiacendosene,le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta pertaledaaltrui[…].3 hoquiinPisaunacertastradadeliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che inmateriad’immaginazioni,miparedi essertornatoalmiobuontempoantico […].4 ho finita ormai la Crestomazia poetica: e dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta.5 Il materialismo rimane saldo, come l’ossessione del nulla: cambia però quell’assetto degli equilibri tra consapevolezza del vero e illusioni che ha generato scintille anche nella prosa delle Operette. La negatività pessimistica, filosofica e civile, resta tale e quale. Ma proprio la sua avvenuta decantazione, il suo transito da conoscenza a persuasione interiorizzata,aiutanoacapire il «risorgimento» del 1828. Ora quella cognizione critica (che nelle Operette sprigiona soprassalti fantastici) non occupa piú il primo piano della ribalta; è un dato acquisito che non chiede di essere dimostrato. Giace al fondo, inamovibile. Quel disperato bifrontismo delle Operette sussiste inalterato, ribaltato però di segno, perché dinanzi all’arido vero non solo si ridestano i moti del cuore, ma invadono la scena. Una significativa tappa d’avvicinamento al disgelo del1828trasparedalleparole di Plotino nel Dialogo di Plotino e di Porfirio (parr. 58-59)del1827: E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente ladisposiziondelcorpo;apocoapoco; espessevolteinunsubito,percagioni menomissime e appena possibili a notare;rifassiilgustoallavita,nasceor questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto;masí,permododidire,al sensodell’animo.Eciòbastaall’effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimenoamalgradodellaragione,e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso(sipuòdire),enonl’intelletto,è quellochecigoverna. La«disperazione»,la«nullità delle cose», la «vanità delle cure» sono riconosciute «ragionevolissime». Nondimeno, spesse volte d’un tratto e per cause quasi impercettibili (si noti il superlativo di un superlativo: «menomissime»), rinasce «il gusto alla vita» e le cose umanesimostranomeritevoli diattenzione:«nonveramente all’intelletto»,chelesavane, «ma sí, per modo di dire, al senso dell’animo». Il «per modo di dire» suggerisce la difficoltà di definire questa facoltà intuitiva («senso dell’animo») che è interiore persuasione6 e intreccia memoria, pensiero, immaginazione, affetti. Non si tratta di antitesi tra intelletto e sentimento. Soltanto al cospetto di quella «nullità delle cose» indagata nelle Operette, e soltanto dopoquelviaggionelnulla,il cuoreconquistalacapacitàdi creare, esilissimi e duraturi, i propri miti. Il deserto della negatività rende ora piú prezioso, piú acuto e dolce il sapore raro (concretissimo e labile) delle illusioni, piú vivida la loro luminosa parvenza. La lingua della prosa, capace di svelare il voltovanodellecose,cedeil campo a un’altra lingua, capaced’intonarelavocedel sogno:7 la poesia è tanto piú liricamente assoluta e libera (dalla tradizione propria e altrui), limpida, melodica e senza scorie, quanto piú l’ascolto attentissimo delle «immaginazioni belle e felici» (Timandro, par. 39) è consapevole della loro fugacità. Siamo alla splendida stagione dei canti pisanorecanatesi del 1828-’30. Dopo il tenue preludio dello Scherzo8 (Pisa, 15 febbraio 1828) e dopo l’esultanza piena di stupore – omaggio neoarcadico, ma insieme dolenteelucidaautobiografia – consegnata a Il risorgimento (Pisa, 7-13 aprile 1828), ecco A Silvia (Pisa,19-20aprile1828),che inaugura non per nulla la struttura metrica inedita della “canzone libera” – variamente intrecciata di endecasillabi e settenari in lasse mutevoli di numero e misura –, esito ultimo di un laborioso processo sperimentale,9 poi Le ricordanze (Recanati, 26 agosto-12 settembre 1829), La quiete dopo la tempesta (ivi,17-20settembre1829),Il sabato del villaggio (ivi, terminato il 29 settembre 1829), Canto notturno di un pastoreerrantedell’Asia(ivi, 22 ottobre 1829-9 aprile 1830). Non rinasce la speranza («Ahidellaspemeilviso/io non vedrò mai piú»: Il risorgimento, vv. 107-8): la «risorta […] speranza», nel passo sopra citato dallo Zibaldone(comela«speranza nuova» del Plotino), è la «virtú nova» (v. 83) di sentire, immaginare, vivere, amare, «sognare a occhi aperti». Quel «mio buon tempo antico», quel «mio cuore d’una volta» (nelle lettereaPaolina)rinvianoagli idilli del 1819-’21. Non soltanto sono lontani (com’è ovvio)iltumultoconcettuale, l’impeto storico-civile, il bagaglio mitologico-erudito, il classicismo ardimentoso delle canzoni, bensí anche è trascesa la misura degli idilli giovanili: l’io lirico racconta (come allora) private «avventure» interiori, ma iscritteneldiagrammadiuna condizione collettiva (allora sconosciuta) e modulate con l’accorata solidarietà che spetta a una sofferenza comune; soprattutto s’è approfonditoilsentimentodel tempo,loscartotrailpassato della «verde etade» (La sera del dí di festa, v. 24) e l’età adulta, quindi cittadinanza onoraria spetta alla memoria,10 alla rivisitazione evocativa delle antiche illusioni. Gliattestatisoprariferiti– dalloZibaldoneedallelettere alla sorella – dicono almeno tre cose importanti: che la nuova lirica recupera e sviluppa la poetica della «rimembranza», assunta come distanziamento prospettico nel ricordo dei «dolcisogni»diuntempo(Le ricordanze, v. 20); che le successive sequenze («il riflettere sopra quello ch’io fui») s’intrecciano come tappe e capitoli di una «storia» autobiografica, primo annuncio del prossimo ordinamento nel 1831 dei Canti (straordinaria variante lirica del romanzo Storia di un’anima, rimasto nel limbo dei «castelli in aria»);11 infine, che l’assoluto della perfezioneformalecustodisce gelosamente in sé il valore della propria autosufficienza, come «piacere» e compiacimento e «soddisfazione» per «aver fatta una cosa bella al mondo»: «sia essa o non sia conosciutapertaledaaltrui». 2.ILRISORGIMENTO,ASILVIA, LERICORDANZE Sispiegadunqueperchéil «risorgimento» sia annunciato, il 15 febbraio 1828, dalla polemica denuncia, in modi epigrammaticamente scherzosi, contro il lassismo formale della letteratura moderna. Tale è appunto lo Scherzo, che lamenta l’abbandono dell’oraziano labor limae e perciò attesta l’inattualità rivoluzionaria di quellaperfezioneespressiva12 cheilpoetadeiCanti,alpari degli antichi, persegue come valore assoluto, dinanzi a un costume contemporaneo che vedemancare«nonpossodir l’uso, ma la memoria delle virtú dello stile» (Pensieri, LIX).13 La materia autobiografica scandisce, con linea ascendente, un tracciato di progressiva intensificazione memoriale, attraverso Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze.Ilprimoèiltesto che, dopo un lungo silenzio, annuncia con commossa stupefazionelarisortafacoltà di canto, il «risorgimento» ovvero la rinascita del «cuore». E il senso di meravigliata sorpresa súbito trapela dall’intonazione della voce, dal metro melodico e fortemente cadenzato della canzonetta settecentesca, un unicumnell’interacompagine dei Canti (esempio prossimo Il brindisi di Parini, incluso nellaCrestomaziapoeticacon il titolo L’età provetta).14 Sono venti strofette di otto settenari (doppie quartine), sdruccioliilprimoeilquinto (a inizio di quartina), tronchi inrimailquartoel’ottavo(a conclusione di quartina), pianiarimabaciatanelledue coppie mediane, secondo lo schema:abbc / deec, dove la rimacservedalegamentotra i due periodi ritmici: una musica “allegra” che, prima di essere mezzo d’espressione, è essa stessa sostanza espressiva. Ha pesatoepesasuquestocanto il giudizio limitativo di Giuseppe De Robertis: «Leopardiebbefrettaqui,col rinascergli dell’affetto, di attuar musica prima d’averla trovata».15 Ma non si tratta d’istituire confronti di valore con componimenti che sarebbero stati scritti in séguito; piú importa invece rilevare l’eccezionalità di questa lirica che ha sí timbro e taglio programmatici, ma che in pari tempo ha trovato la sua «musica» e anzi l’ha perfettamente bilanciata su due piani: la storia interiore dell’io e la radiografia del «cuore», da una parte; dall’altra, la resa stupefatta («si maraviglia il sen», v. 148) della «virtú nova» (v. 83) che l’io sente rigermogliata. Autobiografia intima e riflessione interrogativa sulla genesi e sui modi della rinascita; poesia e insieme metapoesia: non solo Il risorgimento segna una svolta capitale nellacarrieraleopardiana,ma a questa svolta dà il sigillo sicuro dell’autonomia creativa. Le venti strofette si dividono in due parti equivalenti, di ottanta versi ciascuna. La prima, nella sezione iniziale (vv. 1-40), ricostruisce le tappe del gradualeinaridirsidei«teneri /motidelcorprofondo»(vv. 5-6),dallacrisidel1819(«sul fior degli anni», v. 2) all’incupimento pessimistico attestato dalle Operette («Fra poco in me quest’ultimo / dolore anco fu spento», vv. 33-34).Ilcuore,interlocutore privilegiato e protagonista della“resurrezione”,èparolachiave che ritorna dieci volte (vv.6,11,28,40,48,78,88, 99, 106, 149) e tocca via via il culmine negativo al v. 11 («cor gelato») e ai vv. 39-40 («quasi perduto e morto, / il cor s’abbandonò»). Al gelo interiorefaeco,nellasezione secondadellaprimaparte(vv. 41-80), la serie delle occasioni perdute, degli oggettipoetabilirimastiinerti dinanziall’impassibilearidità sentimentale(la«rondinella», v. 45; le voci e le luci del vespero; i dolci sguardi d’amore e il contatto con «candida ignuda mano», v. 62):imodulideltradizionale repertorio arcadico sono funzionalizzati in negativo nella tensione di un autoritratto storico-critico, sono reinvestiti come motivi poetici virtuali lasciati spogli disignificato. La situazione nuova della seconda parte sopraggiunge improvvisa con lo scatto, quasi il tumulto, di cinque interrogative (vv. 81-92), poi incalzate, dopo una breve pausa, da altre due (vv. 1014). Il gelo e lo stato di sonnambulismo emotivo («grave,immemore/quiete», vv. 81-82) si sono dissolti, dinanzi a «Moti soavi» (v. 85), «palpiti» (v. 86), «affetti» (v. 91) da cui s’irradia quell’«unica / luce» (vv. 89-90), quella rinata capacità di commozione, che rende vivibile la vita. Le interrogative non significano soltanto meraviglia ma esaltano anche il potere di questa «virtú nova» (v. 83) che riesce a trasformare il mondo, a dipingerlo di nuovi colori:«ecomealguardomio / cangiato il mondo appar?» (vv. 103-4, che è l’interrogativa saliente, la settima). Eppure, nel sistema concettuale del pessimismo materialistico, nulla è cambiato. L’interrogativa dei vv.105-6(«Forselaspeme,o povero / mio cor, ti volse un riso?») è diversa dalle sette che precedono e introduce invece l’ampia sezione (vv. 105-44) che ribadisce con perentoria fermezza l’intatta solidità della filosofia negativa: il crollo della speranza (cfr. vv. 107-8) che harivelato«l’infaustaverità» (v. 116); la concezione della natura tale e quale s’è palesataall’Islandese(cfr.vv. 121-24); la ferocia dei rapporti sociali (cfr. vv. 12528);ladegradazioneculturale delpresente(cfr.vv.129-32); l’impossibilità dell’amore (vv. 133-44). Nulla è cambiato. Nondimeno: «Pur sento in me rivivere / gl’inganni aperti e noti; / e de’ suoi proprii moti / si maraviglia il sen» (vv. 14548). L’io prende atto che, nonostantetutto(«Pur…»),la rinascitaèavvenutaeneresta sorpreso. Il fatto è che non basta appellarsi all’antitesi cuoreragione. Il «risorgimento» presuppone «l’infausta verità» (v. 116), non per nulla distesamente confermata nei vv. 105-44: i «Moti soavi», i «palpiti», gli «affetti»dellanuovastagione leopardiana hanno come condizione e antefatto inevitabili la certezza della nullità di tutte le cose. E la non-rassegnazione del «cor» dinanziatalecertezza. Se Il risorgimento ha timbro e piglio programmatici, il canto A Silvia, nato in due giorni a distanza di una settimana, offre di questa rinascita uno dei frutti piú insigni. Si articola in sei lasse di varia misura (6, 8, 13, 12, 9, 15 vv.), ciascuna aperta da un verso irrelato, normalmente settenario (salvo che nella quinta, introdotta da tre endecasillabi), e chiusa sempre da un settenario non irrelato:allarimasiinterpone un verso nelle lasse prima, quarta e sesta; se ne interpongono cinque nella seconda; tre nella terza e quinta. Le rime baciate, ammesse soltanto all’interno dilassa,sonosette:duenella seconda (vv. 10-11, 12-13), una nella terza (vv. 20-21), tre nella quarta (vv. 29-30, 32-33, 35-36), una nella quinta (vv. 46-47). Tematicamente rilevante l’ultima della quarta lassa («sventura»: «natura»), nonché la parola-chiave «speme», l’unica che sia replicata in rima entro lasse diverse, nella quarta (vv. 3233)enellasesta(vv.55,58). Lastrutturadeltestosiregge su ben bilanciate simmetrie interne.Assegnandoallelasse prima e quarta – per numero di versi una multipla dell’altra – funzione, rispettivamente,introduttivae dicerniera,sidistinguonodue parti, entrambe bipartite in modo parallelo: la prima dedicata all’età della speranza, in Silvia (lassa seconda) e nell’io del poeta (lassa terza); la seconda dedicataaldisinganno,conla morte di Silvia (lassa quinta) econlamortedellasperanza nel poeta (lassa sesta). La quarta, lassa-cerniera tra le dueparti,constaditresezioni tetrastiche: la prima (vv. 2831) condensa, con due esclamative, l’incanto della speranza; la seconda (vv. 3235) prende atto che l’incanto sièspezzato;laterza(vv.3639) si rivolge, con due interrogative, alla natura. La chiave di volta, in un meccanismo siffatto, sono i vv. 32-35 – la sezione centraledellalassa-cerniera–, che scandiscono i due tempi fondamentali del canto: l’età favolosa e l’«apparir del vero»(v.60),isognielaloro smentita. Due momenti antitetici. La tensione tra il prima e il dopo si fonda su uno dei punti cardinali del pensiero leopardiano: il desiderio di felicità in ogni vivente, ineliminabile per natura, e l’altrettanto per natura ineliminabile insoddisfazione di questo desiderio, onde la «contraddizione spaventevole»16 da cui muovono le drammatiche interrogative dei vv. 36-39. Concettualmente l’antitesi si compendia nella rima «sventura»: «natura». Non altre cause di dolore affliggono l’io (diversa cosa sarà il Canto notturno): lo tormentano la smentita della speranza e dell’attesa, la promessanonmantenuta(cfr. vv. 37-38), l’inganno (cfr. v. 39). L’antitesi (o la «contraddizione») non è occasionale ma ubbidisce a una legge ferrea. Di qui la distanza dagli idilli giovanili, dove il dolore è patito come accidente privato e rimediabile, non sofferto e disperatamente contemplato come inevitabile destino («la sorte dell’umane genti», v. 39), senza effusività e senza invettive. Proprio questo nesso inscindibile tra speranza e inganno, per cui l’«apparir del vero» (v. 60) è presupposto fino dall’antefatto, conferisce connotatiparticolarialritratto di Silvia, evocata da una memoria attualizzante che ha il potere di renderla presente e viva, nei tempi verbali all’imperfetto durativo della sua «vita mortale» (v. 2),17 insieme persona fisica e creatura mitica, personaggio terreno e intangibile emblema, vagheggiato come immagine simbolica per la cruda coscienza della repentina fugacità della sua celeste apparizione (cfr. vv. 26-27)sullaterra. La memoria attualizzante – messa in moto dall’improvviso vocativo iniziale e dall’interrogazione confidente che occupa per intero la prima lassa, avviata nelnomediSilviaeconclusa conilsuoanagramma–vince il tempo cronologico e crea un tempo interiore, nel quale la fanciulla defunta da dieci anni18 risuscita nella concretezza del suo quotidianoesistere. Figura umana e simbolica. Ridestata alla vita dall’intensità di un ricordo mai interrotto, splende ora come allora nella bellezza e nella gioia della sua meravigliosa aspettativa di felicità. Non bellezza ma «beltà» (v. 3), come in Alla sua donna (v. 1), senza articolo che la determini, assoluta, da autentico attributo divino. Se ne conoscono i tratti fisici e tangibili, ma sono riferiti in modo cifrato, emblematicamente allusivo: gli«occhi»(v.4)ela«voce» (v. 20), gli aspetti somatici piú espressivi19 e incorporei, che parlano il linguaggio dell’interiorità.20 Canta e tesse, intenta alle faccende domestiche, ma ai vv. 5-6 il suo passo ha una solennità non terrena, «sí che par descriverel’ascesaallasoglia di un tempio».21 Il poeta lascialepropriecarteeporge realisticamente «gli orecchi» (v.20)alsuonodellavocedi lei, ma in un clima di sospensione onirica, come suggerisce l’arcaica e indefinita e rallentata stilizzazione del v. 19 («d’in su i veroni del paterno ostello»).Lafanciullacantae non parla; la sua comunicazione avviene per via melodica, come unicamente si addice non a ciò che lei è, ma a ciò che significa: «un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità» (Zib. 4310, Firenze, 30 giugno 1828).22 La rende straordinaria il fatto di non essere la donna amata: «La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni», ce la «fa riguardar come da una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare» (ibid.). E se ne va prima che fiorisca la sua giovinezza, in una vigilia di festa(cfr.vv.42-48),nongià prima dell’esperienza d’amore, ma prima delle confidenze d’amore con le amiche. La storicità biografica è implicita:il«maggio»(v.13) e il «verno» (v. 40) sono il maggio e l’inverno del 1818, comeilsuccessivo«frapoco» (v. 50) rinvia alla crisi del 1819. Ma anche il calendario si converte in età favolosa, come si smaterializza l’ambiente circostante, «le quiete / stanze (vv. 7-8), «le vie dintorno» (v. 8), «il ciel sereno»(v.23),«leviedorate e gli orti» (v. 24), «il mar», «il monte» (v. 25): interni ed esterni recanatesi, eppure luoghi di una mitica infanzia dell’umanità. La dosatissima miscela di «usuale» e «pellegrino» (Zib. 1324, 14 luglio 1821) disegna oggetti, figure, situazioni determinate che hanno l’incanto di un mondo mitico e intatto, tanto piú aereo quanto piú consapevolmente labile e fragilissimo, al pari di Silvia («tenerella», v. 42), e fuggitivo come i suoi occhi: schivi e assorti, ma insieme aperti su una realtà che sta per dileguarsi, insidiata da un’incrinatura sottile che ne rivela la precarietà (tale il «mortale» del v. 2 e il «pensosa» nell’endiadiossimorodelv.5). La particolare fattura della prima parte presuppone laseconda–unitecomesono da un nesso di necessaria complementarietà che ritroveremoinLaquietedopo la tempesta e Il sabato del villaggio –, dove continua (vv. 52 sgg.) il colloquiomonologodell’ioconun«tu» femminile – oggetto della medesima affabile naturalezza dei versi che precedono –, con una «cara compagna»(v.54)chenonè piúSilviamal’essenzadilei, la speranza giovanile. Non allegorismo o astrazione, ma graduale sviluppo della componente simbolica di Silvia, con il risultato però che anche la «lacrimata speme» (v. 55) s’intreccia a sua volta alla componente terrena della fanciulla bifronte, onde può concretizzarsi, umanizzarsi nella «cara compagna» e nellasuafisicagestualità(«la mano», v. 61). Il crollo della speranza toglie alla vita il velo illusorio delle belle apparenze e mostra il volto funereo della realtà, una tomba spoglia e una morte non consolatrice. Tanto l’incipit è luminoso quanto cereo l’epilogo, in un testo a struttura chiusa, scandito da trapassi rapidi, stringenti, «quasi uno schizzo lampeggiato lí per lí alla menteegittatosullacarta».23 Struttura chiusa ma virtualmente ciclica, perché daultimonullaimpedisceche di nuovo scatti la memoria attualizzante e riprenda il colloquio-monologo iniziale. La forma impersonale di «sovviemmi» (v. 32: «Quando sovviemmi di cotantaspeme»)chenell’ioil processo del ricordo, capace di riportare in vita i miti perduti, è spontaneo e improvviso, connaturato al suoessere,tantoforteèinfatti nel poeta l’intrepida nonrassegnazione di fronte all’«apparir del vero» (v. 60).24 Le ricordanze, il primo dei canti nati nell’ultimo soggiorno di Recanati, dopo unintervallodisedicimesida A Silvia, sono composte in pocopiúdiquindicigiorni.Il testo, in endecasillabi sciolti come gli idilli, si snoda in settelassenontuttedisuguali (27, 22, 27, 27, 15, 17, 38 vv.): pressoché costante è la misura delle prime quattro, poilaridottaestensionedella quintaedellasestapreparalo slancio dell’ultima (con la figura di Nerina). Nelle lasse dispariprevaleilricordodella giovinezza, nelle lasse pari (con eccezione però della sesta) «la tristezza della vita presente,dopoildisingannoe la morte delle speranze».25Il titolo rilancia quello originario (La ricordanza)26 di Allaluna e il passaggio al plurale dice che i ricordi si affollano, non durano l’emozione di un istante ma s’intrecciano in una sorta di «enciclopedia»27memoriale. Il confronto con l’idillio giovanileaiutaacapireilpiú complessoimpiantodelcanto einsiemeladiversafunzione lirico-drammaticadelricordo, in componimenti che prendono l’avvio entrambi con un’invocazionecontemplazione del cielo notturno («O graziosa luna …»; «Vaghe stelle dell’Orsa …»).Nell’idilliodidiecianni prima il ricordo ha funzione edonistica e consolante, in quantoallontanamentodauna realtà di sofferenza; convive con il «dolore» (v. 12) e «l’affanno» (v. 16), ma giunge nondimeno gradito e dàconforto,perchésmorzala consapevolezza del presente, implica fiducia nell’avvenire elascialuogoallasperanza– come provvede poi retrospettivamente a precisare, con effetto storicizzante, il tardo inserto deivv.13-14–.Orailricordo non giunge gradito ma crudele («rimembranza acerba», v. 173), perché non si separa dalla disperata coscienza dell’oggi, senza luce di speranza, e proprio il radicamento ineludibile all’infelicità attuale colora d’inedita suggestione la rievocazionedelpassatoene acuisceilrimpianto.28Daqui la brevità di Alla luna, flash di un’emozione repentina, e viceversa il ritmo poematico di Le ricordanze, autentico “romanzo” autobiografico oscillante tra ora e allora, sí che il flusso dei ricordi procedemovimentato,ampio, ininterrotto. Anche in A Silvia la rivisitazione del passato sottintende il dramma dell’oggi, ma la memoria attualizzante rigenera in un istante mentale l’incanto dei sogni svaniti, e a quell’incanto conferisce l’intattaefavolosalucentezza del mito, tanto che nella prima parte il presente pare dimenticato, svanito: la facoltà rigeneratrice ha respirointensoeveloce,onde il passo rapido del testo a struttura chiusa. Invece la «ricordanza» funziona da memoria dinamica, mai staccata dal presente, costantemente bilanciata tra oraeallora,sempreimpastata di acerbità e di dolcezza, di affannoedielegia,inuntesto a struttura aperta che conta centosettantatréendecasillabi, ma che è in effetti la «storia di un’anima». Le due parti distinte di A Silvia qui si intersecano in un amalgama, intriso di screziature e trasalimenti, che ha l’andamento di un racconto. Nella casa di Recanati lo sguardo cade su cose, immagini,situazionichesono abituali e ognuna ridesta con trapassi improvvisi il significato di una volta, fantasticato alla luce dell’oggi; ma il tempo lontano non si ricrea in una limpida sospensione di fiaba, bensí riverbera il suo fascino sempreunitoaunanotaacuta di angoscia. L’io autobiografico, che consegna l’autoanalisi a una trama tanto esile di fatti quanto vibrante di moti affettivi, si apparenta all’io protagonista dellaStoriadiun’anima: nonintendonarraresenonseicasidel mio spirito, e anche non ho al mio racconto altra materia, perocché nella miavitaniunrivolgimentodifortunaho sperimentato fin qui, e niuno accidente estrinseco diverso dall’ordinario né degno per se di menzione. Né pure i casi che narrerò del mio spirito, credo già che sieno né debbano parere straordinari; ma pure con tutto questo mipersuadocheagliuomininondebba essere discara né forse anche inutile questamiastoria,nonessendonésenza piacere né senza frutto l’intendere […] le intime vicende di un qualsivoglia animoumano.29 Che il progetto narrativo, avviato nel 1825, sia sempre presente alla mente di Giacomo, lo mostra la lettera a Colletta del marzo 1829: «Storia di un’anima, Romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche e queste sarebbero delle piú ordinarie: ma racconterebbe le vicende interne di un animo nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze, fino alla morte».30 La caduta delle illusioni e delle speranze, di fronte alla vanità dell’esistere:talelasummadi «questa mia storia» – intessuta dei «casi» non straordinari del «mio spirito» e delle sue «intime vicende» – che Le ricordanze s’incaricano di raccontare liricamente con i modi di un diffusomonologointeriore,di un pacato ragionare dell’io consestesso. La prima lassa ricrea l’incantodi«allora»(v.9),la stupefacente suggestione immaginativa dell’«arcana / felicità» (vv. 23-24) vagheggiata nella fanciullezza: e quei «pensieri immensi» (v. 19), come quei «dolci sogni» (v. 20), sono incorniciati dalla coscienza amara dell’oggi (vv. 6, 2527), dal contrappunto di una «vitadolorosaenuda»(v.26) quale Giacomo – nel periodo stesso di composizione del canto – descrive in confidenze epistolari: «Condannato per mancanza di mezzi a quest’orribile e detestata dimora, e già morto ad ogni godimento e ad ogni speranza, non vivo che per patire, e non invoco che il riposo del sepolcro».31 La seconda lassa introduce un forte scarto tonale rispetto ai sognidi«untempo»(v.7)ed è lassa fondamentale perché illustra la condizione del presente,lostatodisolitudine desolata su cui s’innesta la memoria e da cui quindi fiorisce per antitesi, con istantaneevividechesoltanto la disperazione sa dettare, la magica e illusoria trepidazione del passato. Ritorna con la terza lassa l’estasiata musica iniziale ed èquichesichiarisce(vv.5560) la tipologia – virtualmente narrativa – del «rimembrar»(v.57)messoin atto nel canto: non piú il ricordo«Dolceperse»(v.58) di Alla luna, né la memoria attualizzante di A Silvia, ma un«dolcerimembrar»(v.57) sempre commisto «con dolor»(v.58)al«pensierdel presente» (v. 59): dolci ricordi dolorosi, dolci memorie di un passato irrevocabile rivissuto con strazio. Il crollo delle speranze, tema sotteso fino dai primi versi, si palesa in apertura della lassa centrale, la quarta («O speranze, speranze …», v. 77), che è la sezione cardine perché mette a punto il presupposto concettuale della lirica (vv. 81-87),32 ovveroquellacoscienzadella vita come «inutile miseria» (v. 84) che rende conto della disperazione presente. Ora non per nulla si precisa un altro e determinante attributo di questo meccanismo memoriale: la sua inevitabilità; l’oblio infatti porterebbe quiete interiore, tuttaviale«speranze»perdute sonoridestatedalricordoper intima e autonoma necessità, nonperscelta(«obbliarvinon so», v. 81, e si veda anche il nesso sintattico dei vv. 5557). L’inevitabilità della memoria–cheespandeinun continuum potenzialmente senza fine la durata del componimento – significa energica non-rassegnazione alla «vita dolorosa e nuda» (v. 26) e alla negatività del pessimismo integrale («consolarmi non so del mio destino», v. 94): un’energia che alimenta, anche oltre Le ricordanze, buona parte della poesia leopardiana. La lucidità diagnostica della vita come«inutilemiseria»(v.84) fa sí che per la prima volta, entro il sistema dei Canti, la morte appaia in accezione risolutamente positiva, «invocata» (v. 95) come estremo rifugio. La quarta lassa si lega alla quinta proprio sul motivo della morte,«invocata»anchenella fanciullezza,nell’etàlietadei sogni, ma (il che resta implicito) in una situazione ben diversa dall’attuale: allora, vivi ancora il «desio» (v. 105) e «la speme» (v. 109), il desiderio della fine aveva funzione terapeutica, serviva a ridestare l’«affetto» alla vita (cfr. Zib. 82, a cui rinvianoivv.106-9),oraquel desiderio discende dalla disincantata cognizione del vero; un’analoga, radicale differenza separa il «funereo canto» (v. 118) di allora dall’«invocata morte» di oggi. Nonostante le «angosce» (v. 105) degli anni giovanili, ecco dunque riproposto e rinnovato nella lassa sesta il rimpianto del «primo entrar di giovinezza» (v. 120), che prelude alla sezione ultima e culminantededicataaNerina, non fanciulla-simbolo al pari di Silvia, ma fanciulla amata («miodolceamor»,v.149)e perciò piú tangibilmente terrena. Se Silvia torna viva come creazione istantanea di un mito, Nerina torna come stata viva (cfr. Zib. 4277-78, 9aprile1827)esuscitaacuto lo strazio della sua assenza, delsuononesserepiú.Silvia appare in un tempo onirico che attualizza il passato, Nerina è rievocata in un presente segnato per sempre dal vuoto, dall’irrevocabilità diquelpassato.Tuttoparladi lei nel paese – e il «natio borgo selvaggio», v. 30 si ingentilisce e nobilita in «Terranatal»,v.141–,dilei assente, e «la ricordanza» (v. 139) del poeta le restituisce fisionomia e carattere, luminosità («lume / di gioventú», vv. 155-56) e leggerezza e gioia di esistere («Ivi danzando», v. 153), ma è un lampo tanto piú suggestivo quanto fugace, come scandisce il funebre «Passasti» quattro volte ripetuto (vv. 149, 152, 169, 170):«unsimultaneoapparire e sparire».33 Il ricordo non cancella la frattura della morte, anzi il martellare ossessivo delle negative («non ti vede», v. 140; «non odo», v. 144; «tu non ti acconci piú, tu piú non movi», v. 161; «per te non torna / primavera giammai, non torna amore», vv. 16465;«orpiúnongode;icampi / l’aria non mira», vv. 16869) certifica l’angoscia irrimediabiledeldistaccoela durata senza fine della «rimembranza acerba» (v. 173). 3.LAQUIETEDOPOLA TEMPESTA,ILSABATODEL VILLAGGIO,CANTO NOTTURNO Dopo i primi tre componimenti, il motivo autobiografico gradualmente si allenta, con linea discendente, da La quiete dopo la tempesta al Canto notturno. Con La quiete, avviata súbito dopo Le ricordanze e rapidamente compostainquattrogiorni,si assiste – al pari del successivo Il sabato del villaggio–aunmutamentodi rotta. Diversamente da Il risorgimento, A Silvia e Le ricordanze, il testo non si articola sul rapporto strutturale tra presente e passato, bensí tra cronaca e destino, tra due diversi e antitetici aspetti del presente: quello particolare, fugace, illusorio di una giornata recanatese e quello universale, duraturo, permanente dell’effettiva condizione umana. L’uno trova espressione in modi figurativi, l’altro in modi ragionativi. Nel contempo, l’io del poeta, agente protagonista fin qui del processo memoriale tra ora e allora, esce dalla ribalta e si oggettivizza in un nitido quadro di paese, in uno spazio storico-geografico puntuale e circoscritto legato alla personale esperienza del soggetto poetante. Non per nulla i titoli (La quiete e Il sabato) sintetizzano un momento determinato e storicizzato di vita borghigiana. L’io affiora esplicito soltanto nella prima persona verbale all’inizio del v.2:«odo»(Laquiete)ealv. 50: «Altro dirti non vo’» (Il sabato). La spersonalizzazione è funzionaleallapitturanettae parlante del ritratto ambientaledelvillaggio. Nell’impianto strofico di La quiete, scandito in tre lasse di misura decrescente (24, 17 e 13 vv.), si distinguono due parti di estensione pressoché equivalente: la prima – di carattere figurativo –, costituita dalla lassa iniziale (vv. 1-24), si lega con un nesso di stretta complementarietà alla seconda – di carattere ragionativo –, comprendente le restanti due lasse (vv. 25- 54), tra loro congiunte dalla rimadeivv.40-42.Essendoil tema la vanità del piacere (v. 33: «gioia vana»), e piú in generalel’ostilitàdellanatura versolecreaturedaleistessa generate, ne deriva che propriolacognizionedelvero illustrata nella seconda parte serve a rendere piú vibranti gli accenti di quella «gioia» luminosa e illusoria – tanto piú luminosa in quanto illusoria – offerti in apertura. La parte seconda aiuta a leggere correttamente la prima, la quale dà l’incanto della vita risorta, ma quest’incanto non esisterebbe senzalapersuasionedellasua eccezionalità. IlpassodiZib.2601-2(7 agosto1822)èdisolitocitato come antecedente diretto del componimento: leconvulsionideglielementiealtretali cose che cagionano l’affanno e il male deltimoreall’uomonaturaleocivile,e parimente agli animali ec. le infermità, e cent’altri mali inevitabili ai viventi, anchenellostatoprimitivo,(iqualimali benchéaccidentaliunoperuno,forseil genere e l’università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordinenaturale,ilqualmiraintutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perché piú si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza essi mali, i beninonsarebberoneppurbeniapoco andare, venendo a noia, e non essendo gustati,nésentiticomebeniepiaceri,e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungotempo. Ma qui ancora resiste il mito della natura positiva, onde i «mali» risultano necessari allafelicità,siaperchédanno risalto ai «beni» sia perché distolgono dai «beni» continui che produrrebbero noia. Tutt’altro è invece il senso della poesia. Non solo quelmitoèsvanito,bensíora l’«ordine naturale» mira «in tutti i modi» e stabilire una norma fondata sul dolore: eccezione prodigiosa è la «quiete». Ilcherenderagionedella particolare tessitura formale della prima lassa, costruita con un caratteristico impasto di prosaicità realistica e di stilizzazione aulica (procedimento analogo ma nonequivalenteaquellodella prima parte di A Silvia), súbito annunciato dall’asimmetria sintattica34 delle due proposizioni dipendenti rette da «odo» (v. 2): una all’infinito con soggetto in accezione nobile («augelli») senza la determinazione dell’articolo; l’altraespressaconsostantivo fortemente colloquiale («la gallina», unicum nei Canti, con «la gallinella» in Lavita solitaria, v. 3) seguíto da frase relativa. Ma il nobile «augelli» è bilanciato dal discorsivo e metaforico «far festa», cosí come il colloquiale «gallina» è attenuato, reso piú aereo, dall’elegante e indeterminato «insulavia». Tra le occorrenze piú vistose sul versante familiare – oltre alla lineare scorrevolezza del ritmo sintattico, punteggiato da un duplice«Ecco»(vv.4e19)– si includano almeno anche l’«artigiano»(v.11,chehaun suogemello,matronco,inLa sera del dí di festa, v. 26), l’«uscio» (v. 13, unicum nei Canti), il «vien fuor» (v. 14, maconduplicetroncamento). Afiancosiregistrinoalmeno, sul piano nobile degli «augelli», il sintagma «a prova» (v. 13), il singolare categoriale «la femminetta» (v. 14) uscita «a còr» (v. 14) dell’acqua,nonchéla«piova» (v. 15, unicum nei Canti di controa«pioggia»di Lavita solitaria,v.1,delFrammento XXXVIII, v. 2, del Frammento XXXIX,vv.47e63).Unsimile impasto ottiene l’effetto d’un quadro insieme realistico e irreale, d’una pittura che ha l’evanescente concretezza di un sogno, di un miraggio.35 Taleèinfatti–lontanodaun innocente descrittivismo – questo rasserenamento del dopotempesta che s’espande per incanto nel paesaggio e tra i personaggi del borgo, fino a investire l’intero creato: un ridente inno alla vita, un prodigio miracoloso (v. 49: «per mostro e miracolo»). La tecnica della sceneggiatura ottiene una progressiva dilatazione spaziale e una progressiva rifrazione luminosa che assecondanol’effettosurreale del miracolo: dapprima la percezione acustica ravvicinata introdotta da «odo» (v. 2); poi la percezione visiva-coloristica («Ecco il sereno», v. 4) in prospettiva aerea dall’alto al basso («montagna», v. 5; «campagna»,v.6;«valle»,v. 7);36 infine il Sole, che si lascia attendere e appare soltanto al v. 19 e porta un’esplosionediluce. Unmiracolofuggitivo.Si osservi che al v. 1 la doppia inversione (del predicato e del soggetto rispetto all’ordine grammaticale: “la tempesta è passata”) comporta una pausa ritmica prima del soggetto e dà pertanto emblematico rilievo alla parola «tempesta»; accentua la livida immagine, ilpeso,lafataleincombenza, l’inevitabilepermanenzadella tempestanellavita;seguonoi duepuntichealzanoilsipario su un altro mondo rispetto all’usuale, su uno spettacolo d’aria e di luce, limpido e terso, incantato. Ma quella «tempesta»,inchiusuradelv. 1, non si dimentica e non perdona. La lassa seconda non giunge inattesa, già implicita nella filigrana espressiva della prima. Infatti il v. 25 si richiama con inversione al v. 8, a stabilire con quanto precede un nesso di continuità logico-esplicativa. Dopoilraccordo,ivv.26-31 introducono una serie di cinque interrogative che valgono da lunga pausa riflessiva, come eco del “rallegrarsi”, per ridire e soppesare la festa di quella gioia, di quella lieta trepidazione,perrifletteresul senso (intenso e fugace) di quelserenoediquelSole. L’incipit della lassa (vv. 25-30) è legato in rima incatenata e baciata, secondo lo schema abbacC: anche ritmicamente s’annuncia la dissolvenza del miraggio. L’enfasi delle interrogative, stipate di iterazioni, esalta il «Sirallegraognicore»(v.25) e insieme, gradualmente, ne rivela l’inconsistenza: dapprima la vita è definita «dolce» e «gradita» (v. 26) e da ultimo questa dolcezza non in altro risiede che nella dimenticanza dei «mali» (v. 31). Poi, dopo la dissonanza delv.31chesegueirrelatola serie in rima, il miraggio sfuma con «Piacer figlio d’affanno» (v. 32), settenario appositivo e riepilogativo, epigrafico e lapidario che suona come risposta secca al lungo indugio riflessivo dei vv.26-31.Diquiinnanzi(vv. 34-41) la scena è dominata dal turbine di quella «tempesta» rimasta minacciosa in clausola del v. 1; a quel «Passata» rinvia il «passato» del v. 34, ma è un rapido passare e súbito la norma riprende il suo statuto usuale, naturale. Tale è la realtà del vivere, tale la regola.Lalassainizialenonè stata che una sospensione della pena (cfr. vv. 45-50) e perciò è stata capace di trasformare un semplice episodio paesistico in evento miracoloso,surreale. Nello sconvolgimento di cielo e terra dei vv. 34-41 si mostra in azione la natura dell’Islandese e l’umanità si scopresgomenta,terrorizzata: «le genti» (v. 39), appunto, non i singoli individui ma la collettività, perché il «tormento» (v. 37) è di tutti. La «gioia vana» si può gustare individualmente, da singolepersonenominateuna a una (l’artigiano, la femminetta, l’erbaiuol, il passeggier). L’eccezione ha unvolto,lanormaèanonima egeneralizzata.Laterzalassa si apre nel nome della «natura»,giàvistainservizio attivo, e l’ironia è pacata («cortese», v. 42), amaramente asseverativa. Il motivo dell’irrealtà del piacere,della«gioiavana»,è scandito in parole ferme che rendono conto della fragilità diquel«miracolo»cheperun istante è fiorito nella prima parte: un «miracolo» incorniciatotrala«tempesta» (v. 1) e la «morte» (v. 54, la stessa «invocata» in Le ricordanze, v. 95), qui introdotta con funzione di congedo come unica e vera quietedopolatempesta. Il sabato del villaggio, composto dopo La quiete a distanza di pochi giorni, presenta un analogo respiro compositivo, ma con una diversa distribuzione della materia, organizzata in quattro lasse di varia misura (30, 7, 5, 9 vv.). La parte figurativa comprende le due lasseiniziali(vv.1-30,31-37) eperciò–aconfrontoconLa quiete costituita da un pressoché equivalente numerodiversi–questaparte risulta piú ampia, mentre si assottiglia quella ragionativa, affidata alle due lasse finali (vv. 38-51), che risultano insieme quantitativamente parialdoppiodellasecondae breve lassa che chiude la primaparte.Neconsegueche diventa piú scorciato e piú ellittico il momento riflessivo, fino alla reticenza esplicita di «Altro dirti non vo’»(v.50). Il tema, tipicamente leopardiano, è la vanità della speranza, già presente in A SilviaeLericordanze,maqui la speranza non è appannaggio esclusivo della giovinezza, bensí una disposizioneinteriorecomune aognietà,unmododiessere «cosí inerente e inseparabile dalsentimentodellavita,cioè dalla vita propriamente detta, come il pensiero, e come l’amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene» (Zib. 4145, 19 ottobre 1825): un desiderio che si nutre d’illusione, appunto l’«illusione della speranza» (Zib. 4284, 1o luglio 1827). Mentre però nelle note dello Zibaldone piú importa l’aspetto negativo del disinganno, nella lirica importa l’aspetto positivo dell’illusione, della commossacompartecipazione affettiva alla dolcezza della speranza e del desiderio, nell’attesa lieta della «festa», che non verrà (parola-chiave cinque volte replicata: vv. 7, 12, 21; poi, con dissimulata ombra di amarezza, 47, 50). Perciò il momento figurativoidillico si dilata rispetto al piú conciso e pacatodisvelamentodelvero, che avviene senza scatti esclamativi (diversamente da A Silvia, vv. 52-55; Le ricordanze, vv. 77-78; La quiete, vv. 50-51), in modi meno risentiti, piú distesi e sereni. Il che comporta la caratteristica unità ritmica e melodica che distingue l’intero canto, la sua tenuta armonica, non chiaroscurata da asprezze o dissonanze tonali. Il testo s’avvia con un ritmo di danza, grazie alla rima interna dei vv. 6-7 («appresta»: «festa») che rompe l’endecasillabo (v. 7) inunsettenarioeunquinario, per cui i vv. 5-7 «suonano come un agile tetrastico di canzonetta popolare a ballo, che aiuta mirabilmente a rappresentarciinimmaginela frescaesnellafanciulla»;37la tessitura fitta delle rime (due triple nella lassa iniziale: vv. 2, 4, 5; vv. 9, 13, 15; ma rimano anche i vv. 7-8, 16 e 19, 24 e 26, 27 e 29, nonché conrimainternaivv.28e30; poi in rima baciata i vv. 3132,conrimainternaivv.33e 35, 36 e 37) scandisce la fluiditàsintatticachetrapassa concontinuitàmelodicadalla prima alla seconda parte, come prova la struttura metricadelleduelassefinali, dove è occultata la presenza di tre quartine a rime incrociate(aivv.38-51,sesi espungono i vv. 41 e 43, irrelati, si ha lo schema: AbbA.aBbACdDC).38 AncheIlsabatoripropone l’impasto aulico/prosaico del canto precedente, tra la stilizzazione vistosa del «mazzolindiroseediviole» (v. 4), rilevata brillantemente daPascoli,39elaquotidianità del «fascio dell’erba» (v. 3), ma non sta qui la chiave distintiva del testo, bensí nel gioco dei parallelismi e delle antitesi che connota le situazionieipersonaggidella prima parte, sullo sfondo di una strepitosa resa ambientale-atmosferica del tempo che lentamente scorre. Situazioni e personaggi (la donzelletta, la vecchierella, i fanciulli, il bracciante, il falegname) mostrano, alla vigilia della festa, i differenti volti della speranza rappresentati nelle differenti età della vita (giovinezza, vecchiaia, fanciullezza, maturità), in differenti momenti del sabato, tra il tardopomeriggioelanotte.Il variare infatti dei profili umani è inciso nel graduale trascolorare della luce nel villaggio:daltramonto(vv.2 e 10) all’imbrunire della sera primadicena(v.16),quando la luminosità del giorno s’è spenta e le ombre, diradate duranteilcrepuscolo,tornano al chiarore della luna appena sorta (vv. 17-19),40 quasi in uno stupefatto, «indescrivibile mattutino delle tenebre»;41 poi sopraggiungono la notte e la silenziosa(v.33)oscuritàdel dopocena. Nell’estatica scansione delle ore che passano (tramonto, sera, notte), si direbbe che venga celebrata, nei suoi diversi aspetti, la trepidazionedellasperanza.E in effetti ciò accade, ma in modo particolare. Si osservi infatti che la sostanza concettuale del canto (la vanità della speranza e del desiderio, l’inconsistenza del piacere se non come immaginazione) è già implicitamente espressa nella parte figurativa, intrecciata alla gioia ariosa e sorridente dell’attesa. La «donzelletta» e la «vecchierella» occupano le primeduesceneesonofigure opposte: una rivolta al «dimani» (v. 7), l’altra al passato; una dinamica, posta a inizio di verso súbito accompagnatadaunverbodi moto, l’altra statica, in clausola di verso, distanziata dal verbo di stasi che le compete («Siede», v. 8). Figure emblematiche, come rivelanoiparallelismiinterni: «vien»(v.1)e«vien»(v.11); «siccome suole» (v. 5) e «solea» (v. 14); «ornare» (v. 6) e «ornava» (v. 12); «al dí di festa» (v. 7) e «ai dí della festa» (v. 12). Emblematiche e antitetiche. Una impersona la felicità della speranza, nell’età favolosa della speranza; l’altra il conforto dei ricordi, mitizzati nella memoria: la domenica è lieta non nella realtà (cfr. vv. 4041), ma nell’aspettativa della «donzelletta» e nel ricordo della «vecchierella» che abbellisce le cose lontane. Personaggioserenoecordiale anche la «vecchierella», perché illuminato dal ricordo (con una lieve incrinatura però al v. 10, quasi presagio di morte),42 ma personaggio che ha cancellato il desiderio elasperanzaeogniillusione di felicità, che non pensa al domani né al presente e vive nel passato. Il disinganno della festa futura è già annunciato:unabellafesta,se mitizzatadalricordo. Le prime due figure sono separate dalle due successive (ifanciullieilbracciante)da unostaccopaesistico(vv.1623) che, esattamente bilanciato su effetti cromatici (vv. 16-19) e sonori (vv. 2023), da un lato avverte che il soleètramontatoechecalail sipariosullesceneprecedenti, dall’altro anticipa il «lieto romore» (v. 27) dei fanciulli, la loro istintiva allegrezza. Maquest’impulsogiocosodei ragazzi che vivono nel presente la letizia della fanciullezza è smorzato dallo «zappatore»(v.29),nonlieto per la festa imminente, non felice, ma tranquillo all’idea del «riposo» (v. 30); non canta come l’artigiano (La quiete,v.12),fischia,mentre senza espansione, tra sé e sé, pensaaunintervallodellasua fatica. La strofa, aperta con ritmodidanza,sispengecon un passo stanco e assorto, su unanotadidisillusatristezza. Il«Poi»(v.31)d’apertura della seconda strofa sottintende una lunga pausa trailv.30eilv.31,durante la quale cala la notte, la piazzetta si spopola e nel borgoinvasodalbuioscende il silenzio: una lunga pausa che prolunga come un’eco la nota dolente del bracciante. Ma ecco il falegname a rincarare la dose dell’antiidillio. Un’altra figura adulta (l’età senza illusioni), affannata questa volta nella fretta di «fornir l’opra» (v. 36). Per il «legnaiuol» non vale l’idea del riposo, nel momento già che spetta al riposo, ma l’urgenza dell’«opra» che va finita, perché nel nuovo giorno non è consentito lavorare. Domani non per tuttièlostessogiorno:perla «donzelletta» è una «festa», perilbraccianteun«riposo», per il falegname sono ore inoperose. Il silenzio del villaggio spopolato è contrappuntato da una colonna sonora ossessiva («odi … odi», v. 33), altro che «lieto romore» (v. 27): dal«picchiare»delmartelloe dallostrideredella«sega»,al lume di una lucerna, in una bottega chiusa. La domenica si annuncia con questa musica sgraziata e disarmonica. La compartecipazione emotiva alla gioia dell’attesa è intrisa di disincanto e l’illusione della speranza, cosí ariosa e ansiosa nell’agile «donzelletta» che per prima torna dai campi, via via si è attenutagiàneldisegnodella primaparte.L’iononhafatto sentirefinoralapropriavoce, ma i modi della sua figurazione pittorica, mentre esprimonoilsentimentoaereo e fiabesco della speranza, comunicano anche, per via allusiva, il sentimento della sua labilità.43 Perciò la seconda parte, di tono riflessivo-esplicativo, può giungere quasi in sordina, ellittica e scorciata, come accorato commiato detto con mite e familiare confidenza proprio a uno di quei «fanciulli»cheprimadicena gridano e saltano nella «piazzuola»delvillaggio. Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, di elaborazioneeccezionalmente lunga a confronto dei testi coevi, in particolare Le ricordanze,chiudenell’aprile 1830aRecanatiilbienniodel “risorgimento”avviatoaPisa nell’aprile1828.44 Segna una svolta, ma non senza nessi strettidicontinuitàconicanti limitrofi.L’ioautobiografico, giàcon Laquiete e Il sabato oggettivato in figure e situazioni di domestica realtà borghigiana, scompare dalla ribalta, trasposto nell’alter ego del «pastore errante». Anche scompare quell’ambiente geografico e storico della giornata recanatese e si apre uno spazio senza confini, in un tempo remoto e indefinito.45 Viene meno l’antitesi cronaca-destino, presente contingente-presente universale e diventa dominante il presente universale. Di conseguenza non sussiste piú il duplice registro figurativo-idillico (cuicompetelaserenapittura dell’illusione) e riflessivoragionativo (che smentisce o commenta quella pittura), come avviene in ASilvia, La quiete, Il sabato; la riflessione invade il campo e sisublimain«canto»,ondeil titolodeltestoedellibroche loospiteràdal1831. Dire che il Canto notturno chiude la stagione pisano-recanatese significa che con esso ha termine la splendida facoltà di creare quelle limpide e luminose infrazioni alla norma che s’incontrano in A Silvia, La quiete, Il sabato. La serie si chiudeconuncomponimento cheesaltalanorma,lanorma dell’infelicità, e che, interrogandosi sul misterioso perché del «patir nostro» (v. 64), converte il momento meditativo in poesia di intensità biblica.46 La lontananza spaziale e temporale, di là dal ricordo privato, dal villaggio e dal presente storico, risulta condizione necessaria per la verità di un dolore che riguarda ogni vivente. Spetta aquestocantoconclusivouna scoperta rivoluzionaria: la conquista di uno spazio assoluto e di un tempo assoluto, tali da coinvolgere l’«innumerabile famiglia» (v. 92) che abita l’intero creato. Dalla radiografia del proprio «cuore»(Ilrisorgimento),l’io lirico è giunto, sotto sembianza del «pastore errante», all’elegia della sofferenzauniversale. Il Canto notturno è l’epilogodiunlungoviaggio e sigilla la fase pisanorecanateseinperfettasintonia con gli sviluppi della riflessione materialistica leopardiana, dalla «teoria del piacere» (sceneggiata con La quiete e Il sabato) alla diagnosi del patimento inevitabile («è funesto a chi nasce il dí natale», v. 143) sancita con il dialogo dell’Islandese, ma continuata e approfondita nello Zibaldone proprio nel corso del1829:«Lamiafilosofiafa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio piú alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi» (4428, 2 gennaio 1829); «La natura […] è essenzialmente regolarmenteeperpetuamente persecutriceenemicamortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti» (4485-86, 11 aprile 1829); «che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, chefondal’ordinenelmale?» (4511, 17 maggio 1829). Il canto del pastore esprime, constupefacentepacatezza,il «lamento»rivolto«all’origine vera de’ mali de’ viventi», al sistema «che include il male nell’ordine». L’occasione esterna è indicata dall’autore in Zib. 4400 (3 ottobre 1828), nell’autografo del componimento e quindi nelle NoteaiCanti.SeaFirenze,al Gabinetto Vieusseux, nell’ottobre 1828, Leopardi registra un particolare dettaglio47dellarecensioneal Voyage d’Orenbourg à Boukhara,faiten1820(Paris, 1826) del barone russo Aleksandr Kasimirovič Meyendorff,dal«Journaldes Savans» del settembre 1826 (p. 518), significa che quel dettaglio funziona per lui da sollecitazionediunamemoria privata. Cadono quelle brevi parole su un terreno ben predisposto ad accoglierle. Infatti da tempo Giacomo è attratto dal carattere e dalla condizione di popoli o individui preculturali. In passato, li ha considerati felici («io dico che la felicità consiste nell’ignoranza del vero»:Zib.326,14novembre 1820). Caduto il mito della natura benefica, li ha considerati non felici ma «savi» (ivi, 4208, 26 settembre 1826), capaci di sentire in modo schietto e vivo i valori essenziali dell’esistere, perché «la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte piú rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata» (ivi, 4478, 31 marzo 1829). Tali riflessioni aprono la strada allavocedel«pastore»,chesi lascia alle spalle l’evasione decorativa della tradizione bucolicaarcadico-edificantee si presenta invece come «ragione semplice» e «vergine»:«semplice»èdetto appunto il «pastore» (v. 78, unicum nei Canti), non già perché sia esponente di un aggraziato melos campestre, bensí «depositario di una saggezza antica»48 che equivaleadacutaintuizionee dolente sentimento del male divivere. Ma da tempo Leopardi è anche attento, come sappiamo, al primato della lirica,genere«primogenitodi tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia […]; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto» (Zib. 4234,15dicembre1826);«in questacircostanzadinonaver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva» (ivi, 4477, 30 marzo 1829). Quest’ultimo passo è contiguo all’altro del 31 marzo sulla ragione «semplice» e «vergine»: l’ipotesi verte su una lirica moderna-primitiva formulata da una voce «semplice», intuitivamente sensibile ai fondamentali perché della vita.SiaggiungainGiacomo l’interesse costante per la Bibbia, da cui rifulge un’«immaginazione antichissima», tipica «di un popoloquasiprimitivoaffatto ne’ costumi», tanto che nessuno può meravigliarsi «della straordinaria forza» poetica della Scrittura (ivi, 3543, 28 settembre 1823). Quelle brevi parole lette al Gabinetto Vieusseux nel «JournaldesSavans»valgono da spia luminosa che richiamaecombinaglisparsi pezzidiunmosaico. Il canto è intonato per intero dal pastore, al pari dell’Ultimo canto di Saffo, dove parla la poetessa greca, e in parte del Bruto minore (dal v. 16 in avanti), ma determinante, nel travestimento dell’io, è il passaggio da illustri personaggi storici a un «semplice» (v. 78) e ignoto pastore nomade, anonimo come l’Islandese. Il testo si suddivideinseilassedivaria estensione(20,18,22,44,28, 11 vv.): la quarta e la sesta, eccentriche per eccesso e per difetto alla misura pressoché equivalente delle altre, sono le due lasse che si chiudono sultemacardinedell’infelicità delvivere(laquartainchiave individuale:«[…]amelavita è male», v. 104; la sesta in chiave universale e non solo umana:«èfunestoachinasce ildínatale»,v.143).Larima «male»: «natale» è emblematica, perché stabilisce un’equivalenza ferrea tra vita e sofferenza, e si espande come rima-chiave che vale da connettivo melodico-semantico dell’intera lirica. Cosí ogni lassa termina in -ale (in parole dense di significato anche nelle lasse prima e quarta: «immortale»: «mortale»), con un verso via via di misura crescente (nei primi due casi un settenario, poi costantemente un endecasillabo), sempre in rimaancheentrolarispettiva lassa(baciatanellasecondae nella quinta) e con incatenamento tra la quinta e la sesta (in rima i vv. 131- 132-133 e 141, 143), come epilogo di funebre rintocco. Questoamalgamacompattoè rinforzato dall’intreccio di assonanze e di altre rime (anche interne), frequenti le triple(trenellaterzalassa:vv. 44, 49-50; vv. 47, 51-52; vv. 57-58, 60; una nella quarta: vv. 70, 97, 99; una nella quinta:vv.108,110,115;due nellasesta:vv.133,141,143; vv. 135, 138, 142). L’effetto mira a un’andatura uniforme, senza sussulti, severamente malinconica e accorata, sí da suggerire il ritmo di antica e remotaedolentemelodia. Il pastore, la luna, la greggia, su uno sfondo di sconfinata solitudine: un mondo nudo che si dilata verso l’immensità planetaria (vv.84sgg.),versol’universo assorto in un perpetuo moto di cui sfugge il senso, non l’effetto(vv.100-4).Lontano, ormai,ilpiaceredell’infinito, dell’immensitàimmaginatadi là da una siepe. Qui «l’aria infinita»(v.87),il«profondo / infinito seren» (vv. 87-88), la «solitudine immensa» (v. 89)comunicanoturbamentoe angoscia, per la gratuità «di tanti moti / d’ogni celeste, ogni terrena cosa» (vv. 9394),fuorchélasofferenzadel vivere, e insieme comunicano, con tangibile evidenza, l’inerme fragilità dell’io(«ediochesono?»,v. 98;«essermiofrale»,v.102) e di ogni vivente. In questo soliloquio esistenziale sul «perché delle cose» (v. 70), all’indeterminatezza geograficaestorica,risponde un linguaggio tanto letterariamente levigato da risultare povero e spoglio, elementare, sovranamente colloquiale(«Chefaitu,luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?», vv. 1-2), calato sull’essenzialità dell’esistere,sulle«cose»che sono per ognuno prime e capitali: la nascita, l’«andar del tempo» (v. 72), l’affaccendarsi («tanto adoprar», v. 93), il ciclo dei giorni e delle stagioni, la morte.Parolepovere,eperciò suggestive, come in Zib. 3564-65 (1o ottobre 1823) si dice della lingua ebraica, «poetica ancor nella prosa» proprio per la «sua estrema povertà», perché riesce in «ciascuna parola» a condensare «cento significati», come se ogni parola «formicolasse di significazioni» e risvegliasse una «molteplicità» di idee. Questa casta (ma intensissima) sobrietà di dettato è modulata con andamento iterativo, con richiami interstrofici, ritorni, riprese, parallelismi, repliche a distanza, come variazioni senza fine sullo stesso tema, sí da produrre effetti multipli d’ecotralassaelassa.Diqui l’unitarietà melodicoconcettuale del testo, la sua uniforme tristezza, la sua tenue scansione concettuale, ilsuobiblicosapored’antico. Laprimalassa,conlesei domande che il pastore rivolge alla luna intorno al significato del vivere umano e dei moti celesti, stabilisce tra i due interlocutori un rapporto di somiglianza (vv. 9-10), sul motivo della ripetitività e obbligatorietà del loro andare, e insieme di antitesi,tracaducitàedurata, tra il «vagar mio breve» (v. 19) e «il tuo corso immortale» (v. 20): lassa di apprensiva interrogazione rivolta a una compagna insieme vicina e distante, familiare e lontana nella sua siderale intangibilità. A che valga e ove tenda la propria vita(cfr.vv.16-17,18-19),il pastore lo sa per istintiva esperienza e lo dice nella lassa seconda, in veste di drammatica metafora tenuta su un unico, estenuato, logoranteperiodosintatticodi sedici versi (vv. 21-36), cui segue, come clausola epigrafica, un distico di settenari a rima baciata (vv. 37-38). La citazione petrarchesca(Canzoniere, XVI eL)intensificalatragicitàdel quadro, perché sia il «vecchierel»(XVI,v.1)siala «vecchiarella» (L, v. 5) s’affrettano verso una mèta serena, non verso l’«abisso orrido» (v. 35) che qui da ultimo si spalanca dopo un’attesa interminabile protrattaperquattordiciversi. Che la morte sia figurata come «abisso orrido», e non sia «invocata» come porto di pace(Lericordanze,v.95),è naturale,perchéchiparlanon concettualizza la vanità dell’esisteresídadesiderarne lafine,madichiarailproprio patimento e nell’epilogo dell’ora estrema vede non altro che l’esito vano di una lunga corsa, di una lunga attesadelusa.49 La terza lassa continua e amplia il tema della seconda (alla quale si lega con il distico-ritornello dei vv. 5758,chereplicaconvariazioni i vv. 37-38): dalla metafora negativa della vita alla riflessione sulle sue fatiche, pene, tormenti; là il «Vecchierel bianco» (v. 21), ritratto nell’inesorabile precipitare, ora l’infante al momento del «nascimento» (v. 40), ritratto dalla prospettiva dei mali che lo aspettano, tanto inevitabili che ai genitori non è consentito proteggerlo ma consolarlo (parola tre volte ripetuta:vv.44,49,54). Tale la vita per il pastore e tale il peso della sua angoscia, di fronte alla «silenziosa» (v. 2) e «muta» (v. 80) indifferenza della luna, «Vergine» (v. 37), «Intatta»(v.57),«eterna»(v. 61),«giovinettaimmortal»(v. 99)nonsfiorata,nelsuopuro e algido candore, dalle tribolazionidiquaggiú.Maal pastore, come all’Islandese, importa lo scopo del proprio soffrire.Diquitraeoriginela quarta lassa, il vertice del Canto, dove risuonano le domande supreme sul «perché delle cose» (v. 70). Le domande s’inseguono incalzanti, prima indirette (vv. 62-76), sul senso della vita terrena, poi dirette (vv. 86-89),sulsensodellospazio infinito, e quest’insoddisfatta ansia conoscitiva – nel martellare delle interrogative che sgomentano l’interrogante – fa sí che acquisti espressione tangibile il sentimento dell’ignoto e dell’inconoscibile. La consapevolezza nel pastore del proprio turbativo nonsapere dà fisica consistenza allaliricadelmisterocosmico e dell’umana caducità (si veda l’attrito violento iouniversoalv.89eaivv.6368 il «viver terreno» traguardato sub specie aeternitatis).Quisitoccacon manoilpotereimmaginativointuitivo della «ragione semplice» e «vergine». In Zib. 3237-43 (22 agosto 1823)sileggechela«ragione esatta e geometrica» non riesceapercepire«ilperché» delle «cose», che è insondabileecometalerende «poetico» il processo degli eventi di «natura»: lo si può cogliere soltanto per via immaginativa. La saggezza «semplice» del pastore, mentre esprime il lato «poetico» degli eventi di «natura», verbalizza l’inaccessibilità del «perché delle cose»50 e di un simile mistero comunica la vertigine. Con la lassa quinta sale alla ribalta il terzo personaggio di questa scena deserta, l’unica compagna terrena della voce recitante. Ma compagna che non reca conforto, perché il confronto con la greggia aggrava la condizione del pastore, essendo solo lui cosciente della propria «miseria» (v. 106) e in piú afflitto dal taedium vitae, dalla noia che «è manifestamente un male» (Zib. 4043, 8 marzo 1824), come «sentimento» dell’«infelicità nativa dell’uomo» (ivi, 4498, 4 maggio1829).Chelagreggia sia in parte affrancata dalla sofferenza – donde l’«invidia» del v. 107 e il modulo celebrativofoscolianodell’attacco:«ohte beata» – è supposizione (come segnala il «credo» del v. 106) che discende dall’ipotetico «fors’altri» del v.104(cuipoirinvial’«altrui sorte», v. 140). Ma il fatto è contraddettodalcelebrepasso diZib.4175(19aprile1826): «Non gli uomini solamente, mailgenereumanofuesarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali». Provvede tuttavia l’ultima lassa ad attenuare con energia, anzi a smentire, quella supposizione, come anche il sospetto che il volo possa dare al pastore la felicità. Il duplice «forse» (vv.139,141),dopoilprimo cheintroduceilsognodeivv. 133-36, è tanto poco dubitativo che «sembra quasi mutarsi in certo».51 Non per nulla la greggia è divenuta infine «dolce» (v. 137), perchéassimilataallacomune sorte di tutti i viventi. Resta, «candida»(v.138)eimmune da patimento, unicamente la luna,eternasignoradeltempo edellospazio. 4.LAPRIMAEDIZIONEDEI CANTI Con la prima stampa dei Canti (Firenze, Piatti, 1831), dopoleCanzonidel1824ei Versi del 1826, Leopardi adotta un titolo sciolto da determinazioni di categorie retoriche, ma funzionale a una raccolta selettivamente «lirica», in accordo con i coeviappuntidelloZibaldone intesiaproclamareilprimato e la modernità del genere «lirico».52 Il libro si configura come registrazione storica della vicenda ideologico-sentimentale e tecnico-espressiva del personaggio protagonista. Perciò l’ordinamento dei ventitré componimenti rispetta–conpocheeccezioni – la cronologia compositiva, lungo un arco di tredici anni, dal1817al1830:daIlprimo amore al Canto notturno. Alleprimenovecanzoniedite nel 1824 – ma prive dei corrediprosasticieconl’Inno ai Patriarchi del luglio 1822 antepostoall’Ultimo canto di Saffo del maggio 1822 –, seguono Il primo amore (già nei Versi del 1826 come Elegia I),cinquedeiseiidilli giovanili (secondo l’ordine della stampa 1825 sul «Nuovo Ricoglitore» e dei Versi del 1826: è omesso il quinto, Lo spavento notturno),poiAllasuadonna e Al Conte Carlo Pepoli, quindi Il risorgimento e il gruppopisano-recanatese,ma con l’arretramento del Canto notturno, che segue Le ricordanze e precede il binomio finale costituito da LaquieteeIlsabato. Canti: indice della I ed. (Firenze, GuglielmoPiatti,1831) AgliamicisuoidiToscana I.All’Italia II.SoprailmonumentodiDantechesi preparava [B24: prepara] in Firenze III.AdAngeloMai,quand’ebbetrovato i libri di Cicerone della Repubblica IV.NellenozzedellasorellaPaolina V.Aunvincitorenelpallone VI.Brutominore VII.Alla Primavera, o delle favole antiche VIII.InnoaiPatriarchi,ode’principii delgenereumano IX.Ultimo canto di Saffo [canzone ottavainB24] X.Ilprimoamore[B26:ElegiaI] XI.L’infinito XII.Laseradelgiornofestivo XIII.Allaluna[B26:Laricordanza] XIV.Ilsogno XV.Lavitasolitaria XVI.Alla sua donna [canzone decima inB24] XVII.AlConteCarloPepoli XVIII.Ilrisorgimento XIX.ASilvia XX.Lericordanze XXI.Canto notturno di un pastore vagantedell’Asia XXII.Laquietedopolatempesta XXIII.Ilsabatodelvillaggio Opera multiforme e cangiante, che trapassa da momenti di irta sintesi concettuale a momenti di affabile trasparenza comunicativa, i Canti trasmettono al lettore – paradossalmente – l’entusiasmo vitale della disperazione:incrementanola conoscenza dell’io e del mondo attraverso la vivida intensità del nulla. Alla loro fisionomia poliedrica risponde un’interna dinamicità, tanto che il libro cresce e si sviluppa nei suoi stadi diversi o successivi scompigliando le carte in tavola,conscartiesvolteche rimettono via via in discussione i dati già acquisiti. La struttura è tripartita (canzoni, idilli, canti pisanorecanatesi), con tre cerniere disposte nei due risolutivi punti di svolta: Il primo amore, tra le canzoni e gli idilli; Alla sua donna e Al Conte Carlo Pepoli, tra gli idilli e i canti pisanorecanatesi. Entro il nucleo compatto delle canzoni s’incunea l’altrettanto compatto e pressoché coevo nucleo degli idilli, con Il primoamore a fare da ponte tra la solennità della storia e la tessitura intima del coinvolgimento autobiografico. L’immediata, stridentecontiguitàtraquesto giovanilerefertodeimotidel «cuore» e l’Ultimo canto di Saffo–lacanzoneditemapiú individuale e interiorizzato, ora posposta all’Inno ai Patriarchi in modo da formare con l’Inno e Alla Primavera un binomio sull’età dell’oro – stabilisce un nesso stretto («ultimo»-«primo»)traantico e moderno, tra la tragedia di un amore impossibile e il miraggio di un amore inappagato.Lalineabinariae antitetica canzoni-idilli converge verso Alla sua donna (separata, in posizione strategica, dalla sua serie di appartenenza): stazione emblematica,allesogliedelle Operettedel1824,chechiude lefasigiovanilideltumultoe delle illusioni con la pacata persuasione di un’infelicità immedicabile. Poi incalza l’epistola Al Conte Carlo Pepoli (con alle spalle le Operette) e qui, sui fondamenti materialistici dell’«acerbo vero» (v. 140), pare spegnersi ogni virtuale incanto di suggestione emotiva. Ma la smentita è immediata e clamorosa con i canti pisano-recanatesi introdotti da Il risorgimento. Al loro interno, contro la cronologia compositiva, Le ricordanze e il Canto notturnosonoaffiancatiinun dittico esemplarmente antinomico: il romanzo dell’io e della memoria privata, sullo sfondo della domestica geografia marchigiana, si trova accanto all’impersonale assolutezza del «pastore» e alla sua universalizzante distanza spazio-temporale. Le sequenze conclusive (La quiete e Il sabato) consegnano a due cristallini quadri di vita borghigiana il significato figurativoriflessivodiuninterosistema concettuale. Si direbbe un epilogo definitivo, e tale è infatti nei primi Canti del 1831. Ma ancora una volta, con il ciclo di Aspasia, sono alleporteunanuovasorpresa eunanuovasmentita. 1.G.LeopardiadA.F.Stella,Pisa, 23novembre1827,inTO,Ip.1299. 2. Zib. 4301 (Pisa, 19 gennaio 1828). 3. Ivi, 4302 (Pisa, 15 febbraio 1828). 4. G. Leopardi alla sorella Paolina, Pisa,25febbraio1828,inTO,Ip.1308. 5. G. Leopardi alla sorella Paolina, Pisa,2maggio1828,ivi,p.1311. 6. La sinonimia tra «senso» e «persuasione» è attestata da Zib. 348 (22 novembre 1820): «Non basta intendereunaproposizionvera,bisogna sentirne la verità. C’è un senso della verità, come delle passioni, de’ sentimenti,bellezze,ec.:delvero,come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perché non ne prova il senso, cioè la persuasione». 7. Anche per Leopardi, come per Shakespeare, «Noi siamo la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni» (La tempesta, IV). «Le pays des chimeres est en ce monde le seul digne d’être habité»: la frase di Rousseau (dalla Nouvelle Héloïse) è trascritta in Zib. 4500(7maggio1829). 8. Le date di séguito indicate tra parentesi figurano, caso per caso, nell’unico autografo superstite (Biblioteca Nazionale di Napoli, Autografi Leopardiani), ma si tenga conto che in ogni caso l’autografo documentaunaredazioneprossimaalla definitiva, ma ancora in parte non assestata. 9. La «mescolanza di endecasillabi e settenarii, a rima libera, […] gli concedeognivarietàditinteedieffetti. La gravità dell’endecasillabo è temperatanellasveltezzadelsettenario, e la rima, ove cade, compie l’effetto musicale» (DE SANCTIS, Giacomo Leopardi, cit., pp. 275-76); «Nonostante si tratti di una forma “libera”, la canzone leopardiana non è priva, in genere, di una sua, sia pur sotterranea,soliditàstrutturale,ottenuta tramitelacalibratadisposizionediversi e rime nei punti “nodali” del componimento» (F. BAUSI-M. MARTELLI,Lametricaitaliana.Teoria e storia, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 240). 10. Sugli effetti della «rimembranza», dell’«indefinito», del «vago», che conferiscono alla realtà echi antidescrittivi, segreti e allusivi, cfr. almeno Zib. 4415 (Firenze, 22 ottobre 1828), 4426 (Recanati, 14 dicembre 1828), 4513 (21 maggio 1829). 11. G. Leopardi a P. Colletta, Recanati,marzo1829,inTO,Ip.1337. 12. G. Leopardi a P. Giordani, Recanati,4agosto1823,ivi,pp.116970: «ti confesso che l’aver mirato da vicino la falsità, l’inettitudine, la stoltezza dei giudizi letterarii, e l’universalissima incapacità di conoscere quello che è veramente buono ed ottimo e studiato, e distinguerlo dal cattivo, dal mediocre, da quello che niente costa, mi fa tener quasi per inutile quella sudatissima e minutissima perfezione nello scrivere allaqualeiosolevariguardare,senzala quale non mi curo di comporre, e la quale veggo apertissimamente che da niuno, fuorché da due o tre persone in tutto, sarebbe mai sentita né goduta». Nonostante il dichiarato sospetto di «quasi» inutilità, la «perfezione nello scrivere»rimaneobiettivocostante,non come ricerca di eleganza o di ornamento decorativo o di qualsivoglia altraqualitàaccessoria,macomescopo stessochedàsensoelegittimitàall’atto dellascrittura. 13. Il tema, che ricorre frequente nello Zibaldone, ritorna anche nel Parini(capp.IIeV)enelTristano,oltre cheneiPensieri(LIX). 14. Sappiamo (cfr. Elenchi di letture,p.1161)checomeunicalettura di Giacomo nell’aprile 1828 sono registratigli Innisacri di Manzoni e Il CinqueMaggio(Pisa1826).Speciesul pianometrico,accantoallerivisitazioni settecentesche legate alla Crestomazia, nonèdasottovalutarel’incontroconil Manzoni poeta. Cfr., in proposito, M. SANTAGATA, ‘Il risorgimento’, nell’operacollettivaLeopardiaPisa, a cura di F. CERAGIOLI, Milano, Electa, 1997 (Catalogo della mostra, Pisa, PalazzoLanfranchi,14dicembre199714giugno1998),pp.126-42. 15. LEOPARDI, Canti, ed. G. DE ROBERTIS,cit.,p.188. 16.Zib.4129(5-6aprile1825). 17.Se«qualcunomichiedessequal è il piú bel verso di Leopardi risponderei senza esitazione: “quel tempo della tua vita mortale”: cosí disarticolato, cosí disaccentato, senza nessuna resistenza o difesa» (L. BALDACCI, Distanza da Leopardi. Temi per un’Introduzione, in ID., Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, cit.,p.24). 18. Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta ventunenneditisiil30settembre1818. 19. «L’occhio è la parte piú espressiva del volto e della persona; l’animo si dipinge sempre nell’occhio; […] l’occhio ch’è la parte piú significativa della forma umana, è anchelaparteprincipaledellabellezza. […]Unpaiod’occhiviviedesprimenti penetrano fino all’anima, e destano un sentimento che non si può esprimere» (Zib.1576-77,28agosto1821). 20. Al v. 45 anche le «negre chiome», ma dal punto di vista non dell’iopoetantemadiquantiavrebbero potuto ammirarla, se non fosse morta primadelfioriredellagiovinezza. 21. G. LEOPARDI, Canti, a cura di M. FUBINI, ed. rifatta con la collaborazione di E. BIGI, Torino, Loescher,1964,p.167. 22. Per questo passo dello Zibaldone,cfr.quicap.VIIIpar.2. 23.F.DESANCTIS,LaNerinadiG. Leopardi (1877), in ID., Saggi critici, cit.,IIIp.247. 24. Il confronto con l’abbozzo Il canto della fanciulla, probabilmente composto a Pisa nell’aprile 1828 (lasciato inedito e pubblicato dapprima nel 1906), è istruttivo, a parte l’incommensurabile disparità dei risultati, per meglio precisare i meccanismi genetici costitutivi del canto A Silvia, del quale può considerarsi una sorta di antefatto esplicativo.Questoiltestodell’abbozzo (inTO, I p. 350): «Canto di verginella, assiduo canto, / che da chiuso ricetto errandovieni/perlequietevie;comesí tristo / suoni agli orecchi miei? perché mistringi/síforteilcor,chealagrimar m’induci? / E pur lieto sei tu; voce festiva/delasperanza:ognituanotail tempo/aspettatorisuona.Or,cosílieto, / al pensier mio sembri un lamento, e l’alma / mi pungi di pietà. Cagion d’affanno / torna il pensier de la speranza istessa / a chi per prova la conobbe». Il canto di quest’anonima fanciullainvadelestradetranquilleedè un tripudio di gioia, in cui risuona festosal’attesafiduciosadelfuturo.Ma al poeta comunica angoscia e pare un lamento. La spiegazione è nel periodo finale: il pensiero stesso della speranza addolora chi per esperienza ha conosciuto la disillusione a cui vanno incontroisognidellagiovinezza.Siamo concettualmente vicini a Silvia, in effetti molto lontani. L’impianto dell’abbozzoricordagliidilligiovanili: l’emozionedell’io,dinanziaunevento immediato e concreto, è indagata nelle causeeneimeccanismipsicologiciche l’hanno suscitata. Dominano le impressioni dell’io e la «verginella» resta senza nome, senza profilo, senza carattere. Non vi troviamo la creazione mitica della speranza viva, in atto. Il frammentorestaunicamenteancoratoal presente e si risolve nella riflessione finale che smorza e soffoca la gioia dell’attesa. Manca la dimensione del passato dove quell’illusione è fiorita, manca lo stacco passato-presente, manca il nesso di antitesi tra i due tempi, manca la memoria attualizzante che in A Silvia rende vivente quel passatoegiungeperciòadareunvolto, umano e simbolico, al candore della speranza, rivissuto nell’oggi come un bene per sempre perduto e perciò piú intenso. 25. LEOPARDI, Canti, ed. G. DE ROBERTIS,cit.,p.225. 26. Il titolo La ricordanza (in origine La luna o la ricordanza) è rimasto fino ai Canti del 1831, dove è stato mutato in Alla luna, per la presenzanellostessovolumedelnuovo cantoLericordanze. 27. CONTINI, Giacomo Leopardi, cit.,p.323. 28. Il «poeta si sente abbandonato anche dalla dolcezza del rimembrare, motivo ispiratore del componimento, e confessa, in quell’aggettivo acerba, l’imminentesqualloredellasuamiseria umana: anche la rimembranza diventa ormai una pena» (R. BACCHELLI, Leopardi e Manzoni. Commenti letterari,Milano,Mondadori,1960,pp. 240-41). 29. Storia di un’anima scritta da GiulioRivalta,inTO,Ipp.365-66. 30. G. Leopardi a P. Colletta, Recanati,marzo1829,ivi,p.1337. 31. G. Leopardi a C. Bunsen, Recanati, 5 settembre 1829, ivi, p. 1344. 32.Sullemultipleirradiazionidelv. 89 («[…] quel caro immaginar mio primo»),cfr.E.GHIDETTI, «Quel caro immaginar mio primo», in «Revue des études italiennes», 46 2000, 1-2 pp. 115-23. 33. DE SANCTIS, La Nerina di G. Leopardi,cit.,p.249. 34. Cfr. CONTINI, Giacomo Leopardi,cit.,p.335. 35. La «realtà» rappresentata nella prima lassa è interpretata da L. BLASUCCI (I tre momenti della ‘Quiete’, in ID., I tempi dei ‘Canti’. Nuovi studi leopardiani, cit., pp. 12930)come«realtàfamiliarealpoeta»ma «filtratadallamemoria[…].Piúchedi una realtà che si disvela per la prima volta al poeta […], si tratta di un’esperienza recuperata da una memoriaremotaeattivatadallospunto d’uneventopresente». 36. «È utile, a spiegar l’immagine, ricordare ciò ch’essa di per sé suggerisce, ossia che la campagna è vista dall’altura di Recanati» (BACCHELLI, Leopardi e Manzoni. Commentiletterari,cit.,p.253). 37. G. LEOPARDI, Canti, a cura di A.STRACCALI,Firenze,Sansoni,1892, p.199. 38. Cfr. LEOPARDI, Canti, ed. M. FUBINI, cit., p. 192. Cfr. anche M. FUBINI, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli,1962,pp.304-6. 39.G.PASCOLI,Ilsabato(1896),in ID.,Saggidicriticaediestetica,acura di P.L. CERISOLA, Milano, Vita e Pensiero,1980,pp.59-85. 40. La lezione «al biancheggiar della recente luna» (v. 19) è introdotta neiCantidel1835,mentrel’autografoe i Canti del 1831 hanno «a la luce del vesproedelaluna».Gliinterpretisono concordi nel valutare la redazione ultima un acquisto decisivo, meno C. BRANDI,Celso o della Poesia,Torino, Einaudi, 1957, pp. 110-11, che dedica, da grande intendente di valori pittorici, osservazioni suggestive e molto penetranti,perquantononpersuasive,a difesa della lezione originaria (in merito, cfr. B. BIRAL, Noterelle leopardiane[1971],inID.,Laposizione storicadiG.Leopardi,Torino,Einaudi, 1974,pp.192-95).Rilevatal’assonanza tra «vespro» ed Espero, la stella della sera, Brandi è affascinato dalle «due luci, cosí sottilmente divise l’una dall’altra,inmodotantoperspicuo»che brillano nella redazione originaria; inveceneltestodefinitivo,asuoparere, il poeta veniva «ad abbandonare la preziosarispondenza,[…]cosísottilee percettibile, che contrapponeva la luce nelvesproaquelladellaluna,comegià venivaasuddividersiilcoloredelcielo inazzurroesereno,conunaprecisione cromatica tale, che mai forse si era riusciti a distinguere cosí bene e a rendere indelebili due gradazioni della stessatinta,tantocheinprosasaremmo costretti a rafforzare in celeste e blu: mentre, nel verso, quel sereno dell’ultima ora di luce alita cosí leggero, alto e limpido sui colli e sui tetti,cheècomeunfirmamentonuovo, scoperchiato, quello che presenta ai nostri occhi davvero miracolati». Ma il «biancheggiar», che abolisce la distinzione tra le due luci, non semplifica il quadro, come afferma Brandi, bensí consegue almeno due risultati importanti: chiaroscura con maggiore intensità il contrasto con «imbruna» (v. 16) e unifica l’endecasillabo, prima frammentato in modopiúcronachistico,tantochesuona piú perentorio con forte accento sulla quarta sillaba. Cosí la luce non viene enunciata, ma rappresentata con un verbo che è colore in atto, coloreazione, giusta l’aurea regola degli antichi,ricordatanel1818nelDiscorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, in TO, I p. 933: «Ora che cosafaceanoipoetiantichi?Imitavano lanatura,el’imitavanoinmodoch’ella non pare già imitata ma trasportata nei versiloro,inmodochenessunooquasi nessunaltropoetahasaputopoiritrarla cosí al vivo, in modo che noi nel leggerlivediamoesentiamolecoseche hanno imitate, in somma in quel modo cheèconosciutoeammiratoecelebrato in tutta la terra». Un terzo effetto ottenuto dalla redazione ultima è segnalato da BIRAL, Noterelle leopardiane,cit.,p.195:«Laluna,che in virtú di quel verbo tronco e sonoro (biancheggiar) acquista la massima evidenza, si tinge di un lieve colore simbolico: le speranze si trasferiscono anche nel cielo e la luna abbellendo il paesaggio partecipa anch’essa con il suo volto splendente alla festa del borgo». Una sorta di inganno della natura. Quanto al «recente»: non direi che sia epiteto esornativo di «fredda eleganza neoclassica», come vuole Brandi; non ha soltanto funzione cronologica, ma allude anche a una sfumatura di cristallina fragilità e fugacità che rende il «biancheggiar» miracolosamente improvviso e fuggitivo. 41. BRANDI, Celso o della Poesia, cit.,p.111. 42. Piú diretto il presagio nella probabile fonte (cfr. Canti, ed. M. FUBINI, cit., p. 193): «Volta colà dove simuoreilgiorno»(N.FORTEGUERRI, Ricciardetto,XIV1095). 43. Si pensi anche alla nota di dubbio e di perplessa meraviglia implicitanel«diresti»delv.22. 44. Nell’autografo superstite (Biblioteca Nazionale di Napoli, Autografi Leopardiani, Pacco XIII 25), dove sono apposte le date «1829. 22 Ottob.-1830. 9 Aprile», la successione delleseilassenoncorrispondeaquella delle stampe (infatti l’attuale lassa quinta risulta collocata in terza posizione, quindi seguono le attuali terza, quarta e sesta), ma l’ordine definitivo è indicato dall’autore con cifre arabe (non aggiunte successivamente ma coeve all’autografo) segnate in capo a ciascuna lassa (1, 2, 5, 3, 4, 6). La differenzadiscritturaed’inchiostroche distingue la sesta rinvia con ogni probabilità a una stesura piú tarda. L’assetto del manoscritto, che presenta una situazione testuale ancora fluida, suscettibile di alternative e di varianti, rende conto di un processo elaborativo complesso, protratto in un tempo piú lungo del solito. Sulla dibattuta questionedellastrutturadelcanto,sulla genesi e sull’ordine di composizione delle singole lasse, cfr. A. MONTEVERDI, La composizione del ‘Canto notturno’ (1960), in ID., Frammenti critici leopardiani, cit., pp. 105-21; D. DE ROBERTIS-M. MARTELLI, La composizione del ‘Canto notturno’ (1972), in DE ROBERTIS, Leopardi. La poesia, cit., pp. 213-47; F. GRAZZINI, Connessioni interstrofiche nel ‘Canto notturno’, in «Filologia e Critica», XII 1987, 1 pp. 91-113; M. DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ, Sulla struttura del ‘Canto notturno’, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXIX 1992, 547 pp. 373-83; G. SAVOCA, Dall’autografo (e dal Meyendorff) al finale del ‘Canto notturno’,in«Critica letteraria»,931996,4pp.53-83. 45. «Importava una evasione dal presente,dallaciviltàeuropeaclassicae cristiana, verso un passato anteriore a ogni documento figurato o scritto» (DIONISOTTI, Preistoria del pastore errante,cit.,p.159). 46. «La poesia pare un poema biblico, una pagina del Giobbe» (DE SANCTIS, Giacomo Leopardi, cit., p. 277). 47. «Plusieurs d’entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell’Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il Barone di Meyendorff, Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820, appresso il giornale des Savans, 1826, septembre, p.518»:cosínelleNoteaiCanti. 48. D. DE ROBERTIS, in Canti, a curadiG.eD.DEROBERTIS,Milano, Mondadori,1978,p.312. 49. La metafora sulla negatività dellavita,comeviaggiofaticosoecorsa versounprecipizio,vienedaZib.416263 (17 gennaio 1826): «Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, allaneve,algelo,allapioggia,alvento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsidíenotteunospaziodimolte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere». Nel passaggio dal brano in prosa alla poesia (in entrambi i casi si tratta di un unico periodo sintattico), possiamo notare alcuni transiti diretti: «infermo» «infermo» (v. 21); «gravissimo» «gravissimo»(v.23);«permontagne»«per montagna» (v. 24); «al gelo» «quandopoigela»(v.27);«alvento»«al vento» (v. 26); «per arrivare» «infinch’arriva»(v.32);«precipizio»«precipitando» (v. 36); il «gravissimo carico» di Zib. lascia il segno in una variante del v. 23: «carco di soma». Quanto al procedimento adottato, si nota che alla esplicitazione discorsiva dellaprosasubentralarappresentazione per immagini dei versi: il termine «viaggio» di Zib. è espunto, risolto figurativamente con il distanziamento del soggetto («Vecchierel», v. 21) dai predicatideivv.28-30,inserendonello spazio intermedio i luoghi e le condizioni del viaggio; in Zib.iluoghi sono descritti («luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili»), nei versi sononominati(«persassiacuti,/edalta rena, e fratte», v. 25, poi al v. 29 «torrenti e stagni», mentre le varianti del v. 29 attestano anche «fossi [su un precedente fosse], gorghi, frane, chiane»); in Zib. è descritta anche la fatica del cammino («cammina senza mai riposarsi dí e notte uno spazio di molte giornate»), che viene poi rappresentata in azione con il ricorso a setteverbiintreversi(«correvia,corre, anela, / varca torrenti e stagni, / cade, risorge, e piú e piú s’affretta», vv. 2830). Dalla frammentata segmentazione della prosa si passa a simmetrie e parallelismi: dove Zib. reca «per montagne ertissime e luoghi…», viene introdotto il parallelismo «per montagna e per valle» (v. 24), con effettodidilatazionespaziale;Zib.reca «alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole», cinque elementi in serie elencativa per asindeto:diventanoquattro,conduplice parallelismo,dueunitiperasindeto(«al vento, alla tempesta», v. 26, prima di «tempesta», che sostituisce sintetizzando «neve» e «pioggia», aveva scritto «procella», ma poi ha optatoperlaparolaemblematicadelv. 1, e del titolo, di La quiete), due trasposti(«gelo»e«ardoredelsole»)in formeverbali(«avvampa»e«gela»,vv. 26-27) simmetricamente riferite allo stesso soggetto («l’ora», v. 27); l’«ardore» di Zib., qui omesso, ritorna al v. 75. Si consideri inoltre che nella prosa la mèta del viaggio è espressa direttamente, con lineare successione; nei versi invece è indicata dopo una perifrasi (vv. 33-34) che rallenta l’epilogo e lo drammatizza, quasi per visualizzarlo al rallentatore, dopo il precipitosoaffannodellalungacorsa. 50.Ilpastoresadisoffrire(cfr.vv. 100-4), ignora il «perché». La luna conosce questo «perché». Si osservi la progressioneinterna:«tuforseintendi» (v. 62); «tu certo comprendi» (v. 69); «Tu sai, tu certo» (v. 73); «Mille cose sai tu, mille discopri» (v. 77); «tu per certo, / […] conosci il tutto» (vv. 9899).Malalunaè«muta»(v.80). 51. Cfr. MONTEVERDI, La composizionedel‘Cantonotturno’,cit., p.118. 52.Cfr.Zib.4476-77(29-30marzo 1829). XV LEALTRE OPERETTEMORALI 1.LECINQUE«OPERETTE»DEL 1825-1832 Alla serie delle venti «operette»del1824,astampa nellibrodel1827,senesono aggiunte via via altre cinque, tra il 1825 e il 1832, rimaste per il momento inedite: il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, del 1825; il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio, entrambe del 1827; il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, entrambedel1832. Il Frammento apocrifo, che enuclea in termini inesorabili una concezione materialistica, si pone in rapportodicomplementarietà, ambivalente e dilemmatico, con il Cantico del gallo silvestre: nel Cantico, come informaunanotad’autore,1la «conclusione poetica» comporta infine il sollievo di una cosmica «quiete altissima» (par. 19); ora invece la conclusione «filosofica» nega quel sollievo lirico e afferma la «durazione eterna della materia» (par. 10), perpetuando nell’universo l’incessante affanno dell’esistere. Il testo, composto nell’autunno 1825, resta nel cassetto, ma la sua esplicita professione di materialismo lascia il segno in quegli spostamenti, introdotti proprio nel 1825 nell’indice del manoscritto autografo delle Operette(cfr. cap. XIpar.1),cheintendono attenuare il disegno liricofantastico della stesura originaria, dando piú risalto alla prospettiva ideologica e filosofica. Il Copernico, «sopra la nullità del genere umano»,2 teatralizza in abiti comici e domestici un evento storico memorabile – la teoria eliocentrica –, che Leopardi rimedita come necessariamente attuale, specie per il «grandissimo rivolgimento» che porta «anche nella metafisica». Fare sí che la Terra e gli uomini(«suamaestàterrestre, e le loro maestà umane») debbano «sgomberare il trono, e lasciar l’impero» (par.30)–perrestarsene«co’ loro cenci, e colle loro miserie,chenonsonopoche» –, non è «fatto», afferma Copernico, di poco conto (par.31): voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà cosí semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi della dignitàdellecose,el’ordinedeglienti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa delsapere.Enerisulteràchegliuomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere. Questi «effetti», di cui si rivendical’attualità,chiedono diesseretrattatinoncomeun dato ormai culturalmente acquisito e codificato, ma come l’esito di una coraggiosa rivoluzione che deve considerarsi permanente, contro ogni sempre rinnovata superbia antropocentrica.3 IlDialogodiPlotinoedi Porfirio (cfr. anche cap. XIV par.1),sultemadelsuicidio,4 è testo emblematico dell’antitetica bipolarità delle Operette morali tra «vero» e «illusioni», ma al tempo stesso anticipa il disgelo del 1828,perchédallacognizione razionale della «nullità delle cose» risale al conforto dell’amicizia e al «senso dell’animo» (par. 58), che è disperata voglia di esistere (come l’«ardor natio»: Il risorgimento, v. 150).5 La serrata sistematicità concettuale dell’allievo Porfirio, deciso a suicidarsi, riesceaconvinceremanona persuadereilmaestroPlotino, che non si arrende, perché avverte in quella sottile fermezza sillogistica un anello che non tiene. La giustificazione del suicidio si arresta cosí non dinanzi alle ragioni dell’intelletto – che contestano la trascendenza platonica e cristiana in nome diunamoralelaicarettadalle «buone leggi» e dai buoni «costumi» (par. 16) –, ma dinanzialleragionidelcuore, a causa di un risorgente, nonostante tutto, «gusto alla vita»(par.58). Nel Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere ritorna il desideriodivivere,nell’aerea levità di una sceneggiatura ironica e sorridente (cfr. anche cap. XVI par. 2). Il «Passeggere» sa che la fiducia nel domani è irragionevole, nondimeno l’asseconda,perchédiessasi alimenta anche il suo, per quanto desolato, sentimento della vita. La certezza del verononestinguel’«illusione dellasperanza».6 IlDialogodiTristanoedi un amico, di carattere metanarrativo al pari del Timandro, risuona – con riferimento all’accoglienza delle Operette edite nel 1827 – come irrisione del «secolo decimonono» (par. 10), che ha inventato la felicità, la «profonda filosofia de’ giornali», la «perfettibilità indefinita dell’uomo», della «specie umana» e del «sapere» diffuso nelle «masse»(par.27): Mavivalastatistica!vivanolescienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tantebellecreazionidelnostrosecolo!e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segnoottimo,comesapete. Tra sorriso e tragedia, il Tristano sancisce la chiara coscienza in Leopardi sia della propria irrimediabile sconfittadifronteallacultura egemone, sia dell’impossibilità di continuareanutrireilproprio illusorio «gusto alla vita» (Porfirio, par. 58): onde la vibrante invocazione alla morte. Ma la luce livida che questo estremo dialogo proietta a ritroso sull’intero percorso delle Operette non annulla l’energico contrappunto tra il «vero» e gli «inganni dell’immaginazione»(par.7). Qui il «vero» include, con secca determinatezza polemica, anche l’orgoglioso coraggiodirinunciareaciòin cui conviene credere, di calpestare la meschinità, gli opportunismi, la «vigliaccheria degli uomini», per «mirare intrepidamente il deserto della vita» e «accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (par. 8). La disfatta delle illusioni lascia però intatta la contemplazione estatica del sogno. Nella finale, michelangiolesca implorazione alla morte,7 come nel coevo Amore e Morte, risalta una stupefacenteansiadiaffettoe didesiderio.Unincontenibile ardore di vita altrimenti negato. La «bella Morte» dal «virgineo seno», sola al mondo pietosa dei «terreni affanni»(AmoreeMorte,vv. 98-99, 124), appare come l’ultimo inganno dell’immaginazione: non è la quiete del nulla che cancella il dolore, ma un tripudio di desiderio, un oggetto di soddisfazione, una creatura daamare. 2.LEEDIZIONIDEL1834EDEL 1835 Nella seconda edizione delle Operette morali (Firenze, Guglielmo Piatti, 1834)itestidaventisalgono a ventidue, con l’inserimento nelle due posizioni finali del Venditored’almanacchiedel Tristano, che va a porsi cosí, e ci resta per sempre, come epilogo ironico-tragico dell’opera. Restano fuori gli altri tre pezzi, scritti da anni ma ancora inediti per il fondato timorediunvetocensorio.8Il loro tentato recupero, nel 1835,convalidaqueltimoree non arriva in porto. Infatti la terza edizione, a Napoli presso Saverio Starita, è bloccata dalla censura,9 ma avrebbe dovuto, per espressa volontà dell’autore,10 includere anche i tre componimenti rimasti esclusi dalla stampa fiorentina del 1834. Operette morali: progettato indice della III ed. (Napoli, Saverio Starita, 1835) I.Storiadelgenereumano II.Dialogod’ErcoleediAtlante III.DialogodellaModaedellaMorte IV.Proposta di premi fatta dall’AccademiadeiSillografi V.Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo VI.Dialogo di Malambruno e di Farfarello VII.Dialogo della Natura e di un’Anima VIII.DialogodellaTerraedellaLuna IX.LascommessadiPrometeo X.Dialogo di un Fisico e di un Metafisico XI.Dialogo di Torquato Tasso e del suoGeniofamiliare XII.Dialogo della Natura e di un Islandese XIII.IlParini,ovverodellagloria XIV.Dialogo di Federico Ruysch e dellesuemummie XV.Detti memorabili di Filippo Ottonieri XVI.Dialogo di Cristoforo Colombo e diPietroGutierrez XVII.Elogiodegliuccelli XVIII.Canticodelgallosilvestre XIX.Frammento apocrifo di Stratone daLampsaco XX.DialogodiTimandroediEleandro XXI.IlCopernico.Dialogo XXII.DialogodiPlotinoediPorfirio XXIII.Dialogo di un venditore d’almanacchiediunpasseggere XXIV.DialogodiTristanoediunamico I testi sono incrementati da ventidue a ventiquattro, conl’espunzionedelSallustio (presenteinquintasedenella princepsdel1827comenella stampadel1834)el’aggiunta del Frammento apocrifo (súbitodopoilGallosilvestre a cui antiteticamente si collega), nonché del Copernico e del Plotino, inseriti in quest’ordine tra il Timandro e il Venditore d’almanacchi.Cheèl’assetto definitivo, messo però in pratica soltanto dopo un decennio, nelle postume Opere a cura di Ranieri (Firenze, Le Monnier, 1845): ultimo atto che chiude le tribolateperipeziediunlibro audacissimoeimpopolare. 1.Lanota,riferitaalperiodofinale del Cantico («Cosí questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi»), introduce la seguente precisazione: «Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, nonavràmaifine». 2. G. Leopardi a L. De Sinner, Firenze, 21 giugno 1832, in TO, I p. 1385. 3. Il capitale rilievo ideologico del testo leopardiano è ricordato da Pirandello nel saggio L’umorismo (1908):«Unodeigrandiumoristi,senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta. Si legga quel dialogo del Leopardi che s’intitola appunto dal canonico polacco» (L. PIRANDELLO, L’umorismo e altri saggi, a cura di E. GHIDETTI, Firenze, Giunti, 1994, pp. 143-44). Sul piano narrativo, l’effettoCopernico, è reso esplicito nella Premessaseconda(filosofica)amo’di scusaaIlfuMattiaPascal(IlfuMattia Pascal,inID.,Tuttiiromanzi,acuradi G.MACCHIA, con la collaborazione di M. COSTANZO, Milano, Mondadori, 1973,2voll.,Ip.324). 4.Sull’argomento,oltreallecanzoni diBrutoediSaffo,eroisuicidiacausa di gravissime sventure patite, occorre vedereancheilFrammentosulsuicidio (in TO, I pp. 198-99), assegnabile al 1820, e La scommessa di Prometeo, testi entrambi che presentano casi di antieroiche morti volontarie, provocate non altro che da «tedio della vita» (La scommessa,par.36). 5. Cfr. G. GUGLIELMI, Al di là dellafilosofia,inID.,L’infinitoterreno. Saggio su Leopardi, Lecce, Manni, 2000, p. 87: il «senso dell’animo» è «sentimento che si fonda su se stesso. […] Tutto è in sostanza contro la vita, tranne la vita stessa. Contro l’assolutismo dell’intelletto, Plotino […]coniugafilosofiaesentimento.Efa della vita l’ironia nascosta della ragione». 6.Zib.4284(1oluglio1827). 7.Cfr.MICHELANGELO,Rime,Per qual mordace lima, v. 12: «porto invidia a’ morti», e Tristano, par. 35: «Invidioimorti».Suipossibilirapporti di Leopardi con le Rime di Michelangelo, cfr. A. PARRONCHI, Michelangelo e Leopardi, in ID., La nascita dell’ ‘Infinito’ e altri studi leopardiani, Montebelluna, Amadeus, 1989,pp.35-52. 8.Cfr.G.LeopardiaL.DeSinner, Firenze, 21 giugno 1832, in TO, I p. 1385:«Hobensíduedialoghidaessere aggiuntialleoperette,l’unodiPlotinoe Porfirio sopra il suicidio, l’altro il Copernico sopra la nullità del genere umano.Diquestedueprosevoisieteil padrone di disporre a vostro piacere: solo bisogna ch’io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero facilmente pubblicarsiinItalia». 9. L’edizione napoletana era prevista in due tomi, ma è stampato soltantoilprimo,nelgennaio1836con data 1835, comprendente tredici testi, dallaStoriadelgenereumanoalParini incluso.L’interventodellacensuravieta la distribuzione del tomo edito e impediscelastampadelsecondo. 10. Come risulta dalla Notizia intorno a queste Operette, premessa al primo tomo napoletano (in TO, I p. 189): «Queste Operette, composte nel 1824, pubblicate la prima volta in Milano nel 1827, ristampate in Firenze nel 1834 coll’aggiunta del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere,ediquellodiTristanoedi un amico, composti nel 1832; tornano ora alla luce ricorrette dall’autore notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, scritto nel 1825, del Copernico,edelDialogodiPlotinoedi Porfirio, composti nel 1827. Il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio, che si trova nelle altre edizioni, in questamancapervolontàdell’autore». XVI «LOSPETTATORE FIORENTINO», GIORNALEDI «NESSUNA UTILITÀ» 1.CRONACADIUNGIORNALE MAIUSCITO Su «Lo Spettatore Fiorentino»,1 progettato da Leoparditral’autunno1831e la primavera 1832, non si sa molto.Sisa,comeinformail Preambolo leopardiano, che doveva uscire a Firenze il «sabato d’ogni settimana», iniziando da sabato 2 giugno 1832, nel formato «di 16 pagine, in ottavo, in carta reale»echeleassociazionisi ricevevano «all’uffizio dello Spettatore fiorentino, lung’Arno,n.4194».2 Ilcontratto3fustipulatoin Firenze, nel «Maggio 1832», tra il livornese Giovanni Freppa, editore-finanziatore,4 il conte Leopardi e Antonio Ranieri. I tre contraenti costituivano «una società», nella quale «il Signor Freppa impiegheràilcapitaleditutte le spese necessarie» alla pubblicazione «ed i Signori Leopardi e Ranieri impiegheranno rispettivamente il capitale dellefatichedicompilazione, e tutt’altro che riguarda la redazione e la stampa».5 «Il valoreintrinsecodellefatiche dicompilazione»erastabilito nella «ragione di Lire ottanta fiorentine» per ogni numero. L’editore assicurava a Leopardi e Ranieri, per un trimestre, «l’anticipazione mensile di lire trecentotrenta da pagarsi loro con un mese sempreanticipato»;tratteneva persé«lirecento»mensiliper le spese amministrative e doveva «presentare in ogni trimestreilcontodicassaagli altri due socj».6 Se la prima scadenza trimestrale si chiudeva in attivo, l’impresa sarebbe continuata «almeno perlospaziod’unanno».«In fine d’ogni anno, l’utile netto» sarebbe stato «diviso fra i tre socj in tre parti uguali». Se alla prima scadenza trimestrale si registrava una «perdita», l’impresa sarebbe cessata e «detta perdita» sarebbe stata «divisa ugualmente in tre partiuguali».7 Tanto puntiglioso scrupolo legale-finanziario, registrato su carta bollata, si sachefuresovanodalrifiuto governativo. Giovanni Freppa, il 5 maggio 1832, inoltravaistanzaalPresidente del Buon Governo, Torello Ciantelli, per il permesso di pubblicazione, allegando, in copia di suo pugno, il testo del Preambolo8 con in chiusura il nome dell’estensore Giacomo Leopardi.9 Il Presidente del Buon Governo non ebbe indugi nel rifiutare l’autorizzazione e incaricava, in data 8 maggio, il CommissariodelQuartieredi Santa Maria Novella di notificarelarispostanegativa all’interessato. Cosí su «Lo Spettatore Fiorentino», mai nato, calò per sempre il silenzio. Giacomo ne dette privata notizia alla sorella Paolina il successivo26giugno: De’mieiaffari,cometudici,chedovrei scriverti?Riempirtiilnasodifumo,non mi dà piú l’animo, e mi fa nausea. Di arrosto,delqualeancora,nelmiostato presente, m’importerebbe poco, non possoparlarti,perchénullasiconclude. Il 25 Luglio 1830 ha rovinata coll’Europa la letteratura per un buon secolo. Un mese e mezzo fa, io aveva ripreso un progetto formato già prima dellamiapartenzaperRoma[avvenuta il 1o ottobre 1831], di un Giornale settimanale. Prendendo a mio carico tutta la compilazione, io riceveva 50 francesconi il mese. Di questa somma (assai larga) pagando i compilatori, forse un terzo sarebbe potuto rimanermi. Di piú, avrei ricevuto il terzo dell’utile netto dell’impresa, il quale si calcolava che dovesse essere molto grosso. Stesi e sottoscrissi il manifesto: fu steso il contratto in carta bollata. Il governo, per motivi che ho poicapiti,echetunonpuoiindovinare, decise nel consiglio de’ Ministri di rigettare il manifesto.10 Non fu gran disgraziaperme,chesapevogiàchela mia salute mi avrebbe lasciato andare pochissimoavanti;lamiaintenzioneera difardelbeneadalcuniamiciavviando il Giornale; il che fatto, e fondato questo stabilimento che tutti predicevanoassailucroso,avreilasciata ognicosaaloro.11 Per le drammatiche angustie economiche di Leopardi, i «50 francesconi» mensili indicati alla sorella – che puntualmente traducono le «trecentotrenta lire» del contratto –12 sono davvero cifra «assai larga», ma il «terzo»cheGiacomocontava «forse» di trattenere per sé s’accosta (un po’ per difetto) aquei«18francesconi»cheè la somma mensile da lui indicata a Pietro Colletta come bastante alla sua sopravvivenza in Firenze13 e infatti poi per un anno regolarmente ricevuta dalla liberalità degli «amici di Toscana», dal maggio 1830 all’aprile1831. Perché il rifiuto del governo a questa iniziativa? Secondo il piú recente biografo, «Giacomo si persuase che gli venisse imputata la paternità dei Dialoghetti»14 del padre, apparsi a Pesaro nel gennaio 1832 (con data 1831) e dal figlio pubblicamente ricusati proprioinquelmaggio1832: il 12 sull’«Antologia» – nel fascicolo che reca tuttavia la data di marzo – e il 23 sul «Diario di Roma». L’ipotesi potrebbe trovare conferma anche nelle parole da Giacomo inviate al cugino Giuseppe Melchiorri il 15 maggio: «Fino il governo mi è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci».15 Ma con ogni probabilità la ragione del divieto governativo era diversa, di carattere meno diplomatico e piú direttamente politico. Dipendeva dal fatto che il conte Giacomo Leopardi risultavaiscrittonellalistadei “sospetti” tenuti d’occhio dalla polizia granducale, messaall’ertadopoglieventi del luglio francese (come attestano anche i provvedimentidiesiliocontro GiuseppeeAlessandroPoerio e contro Giordani nel novembre1830),eancorapiú allarmata dopo i moti del 1831. Dai quali, com’è noto, Leopardi si tenne convenientemente discosto, peramaroconvincimento(già nella prospettiva dei Paralipomeni) della loro dolorosa impotenza, per quanto i concittadini recanatesiavesseroconfidato, eleggendolo deputato il 20 marzo 1831 per l’Assemblea Nazionale di Bologna, nell’acceso patriottismo delle canzoniall’ItaliaeaDante. Stadifattochenellalista dei “sospetti” figurava per certo il suo nome, insieme a quello di altri frequentatori del Gabinetto Vieusseux,16 dopo i rapporti segreti alla polizia inviati dall’amico avvocato Pietro Brighenti, insospettabile spia al servizio dell’Austria.17 È da credere tuttavia che Leopardi fosse consapevole della ragione verachehaindottoilgoverno toscanoabloccarel’iniziativa del settimanale. Non per nulla, nella lettera a Paolina, il resoconto sull’«impresa» fallita è preceduto da una fraserivelatrice:«Il25Luglio 1830 ha rovinata coll’Europa la letteratura per un buon secolo». Quei «motivi» che Giacomo afferma di avere «poi capiti», e che la sorella non può «indovinare», dovevano essere, anche per lui, di carattere propriamente politico.Lapresuntapaternità dei Dialoghetti,18 con la loro intransigente coerenza reazionaria,puòaverereso«il governo […] poco amico» al poeta, ma è il timore di un liberalismo cospirativo, agli occhi inquisitori della polizia leopoldina celato sotto l’apparente leggerezza divagante del Preambolo leopardiano, che ha troncato sul nascere il progetto del nuovogiornale,inquelclima teso d’intolleranza che porterà di lí a dieci mesi, nel marzo 1833, alla soppressione dell’«Antologia».19 CheinLeopardienelsuo sodale Ranieri l’idea di quest’«impresa» giornalistica sianatadaurgentebisognodi danaro, è fuori dubbio. Nell’aprile 1831 (mentre uscivanoiCanti) era scaduta l’ultima rata versata a Giacomo per interessamento diPietroCollettaenelluglio dello stesso anno Ranieri era privato dell’assegno paterno. L’incertezza del domani tormentavaentrambigliesuli, proprio quando s’erano ripromessidivivereinsiemee diessere«unacosasola».20Il «progetto» del settimanale, è detto nella lettera a Paolina, era «formato già prima della miapartenzaperRoma»,vale a dire prima dell’ottobre 1831: era dunque maturato proprio in quell’estate nella quale per i due amici ogni concretosussidioeravenutoa mancare. Le «angustie» si erano fatte, come Giacomo confessava a Carlo Troya, da Roma, il 29 dicembre 1831, «veramente orribili», anche «perlenecessitàurgentissime della giornata».21 In siffatta precarietà, che toccava davvero il limite della sussistenza, il progetto del periodico s’era presentato come uno spiraglio per «non perire di stento»:22 spiraglio illusorio, perché il poeta sapevacheinognicasolasua salute lo «avrebbe lasciato andare pochissimo avanti» (come scrive alla sorella) e ancheperchébeneconosceva, per triste esperienza personale, la condizione di crisidelmercatolibrario:«La letteratura–sisfogavaconil padre, da Firenze, il 21 giugno 1831 – è in istato d’asfissia dappertutto, e i poveriletteratisonoinmezzo alla strada. […] L’Europa è piena di fallimenti di librai».23 2.LA«INUTILITÀ»DEL «FLÂNEUR» La genesi coatta del settimanale, che tenta di far fronte a pressanti urgenze economiche pur con la consapevolezza di impedimenti e di rischi oggettivi, ha persuaso non pochiinterpretiasorvolaresu quest’episodiodellabiografia leopardiana, considerato eccentricoemarginale.Ilche ha portato a sottovalutare il giusto rilievo che invece compete a «Lo Spettatore Fiorentino», che è significativa «iniziativa pubblica»24 di carattere giornalistico promossa da Leopardi, a conferma in lui, nel periodo del secondo soggiorno fiorentino come poi negli anni napoletani, di un sorprendente bisogno di confronto diretto con le ragioni (o irragioni) della cultura contemporanea. La circostanzacontingente,cheè l’occasione del progetto fallito,comportatutt’altroche occasionalità o marginalità d’intervento da parte del poeta, che non smentisce se stesso e anzi mette in moto, nel delineare il programma del giornale, i presupposti stessi di quel radicale dissenso intellettuale e conoscitivo che distingue la sua ultima stagione. Con ciò siamo al significato del Preambolo, che conviene rileggere almeno nei passi essenziali: […]èmoltodifficileadefinirechecosa debba essere […] [questo] Giornale. […] Non si trova altro che idee negative: Giornale non letterario, non filosofico, non politico, non istorico, nondimode,nondiartiemestieri,non d’invenzioni e scoperte, e via discorrendo.Maun’ideapositiva,euna parola che dica tutto, non viene. E di qui un gran farneticare e un sudar freddo per dare un titolo a questo bellissimo Giornale. Se in italiano si avesse una parola che significasse quello che in francese si direbbe le flâneur, quella parola appunto sarebbe stata il titolo sospirato […]. Ma nella linguaitaliana,benchéricchissima,non si trova mai una parola di questo genere. Per disperazione, abbiamo lasciatodiaspirareallanovitàdeltitolo; ecominciandodaunattodiumiltà,che nonèlanostravirtúprincipale,cisiamo appigliatialnomediSpettatore,chefu nuovounsecoloemezzoaddietro[…]. Se la natura del nostro Giornale è difficileadefinire,noncosíloscopo.In questo non v’è misteri. Noi non miriamo né all’aumento dell’industria, néalmiglioramentodegliordinisociali, né al perfezionamento dell’uomo. […] Confessiamo schiettamente che il nostro Giornale non avrà nessuna utilità. E crediamo ragionevole che in unsecoloincuituttiilibri,tuttiipezzi di carta stampata, tutti i fogliolini di visitasonoutili,vengafuorifinalmente un Giornale che faccia professione d’essereinutile[…]. Il nostro scopo dunque non è giovare al mondo, ma dilettare quei pochi che leggeranno. Lasciamo stare che lo scopo finale d’ogni cosa utile essendo il piacere, il quale poi all’ultimo si ottiene rarissime volte, la nostra privata opinione è che il dilettevole sia piú utile che l’utile. Noi abbiamo torto certamente, poiché il secolo crede il contrario. Ma in fine se nelgravissimosecolodecimonono,che finquinonèilpiúfelicedicuis’abbia memoria, v’è ancora di quelli che voglionoleggereperdiletto,eperavere dalla lettura qualche piccola consolazione a grandi calamità, questi tali sottoscrivano alla nostra impresa. […] Benché proponghiamo di ridere molto,ciserbiamoperòinteralafacoltà di parlar sul serio: il che faremo forse altrettanto spesso, ma sempre ad oggettoeinmanieradidoverdilettare, anco se si desse il caso di far piangere.25 I modi dell’ironia ricordano l’Annuncio delle dieci ‘Canzoni’ del settembre 1825. Ma là era il disincanto di un autore che ripercorre a ritroso il diagramma delle proprie illusioni cadute e si ritraedallascenadellastoria, immerso nel timbro nuovo delle Operette morali, dal punto di vista impartecipe e straniato di Filippo Ottonieri, di quella sua saggezza imperturbata e dolente, spoglia di coinvolgimento emotivo. Ora, nel maggio 1832, l’Ottonieri ha ceduto il passo a Tristano, allo «sdegno» e alla «fiera compiacenza» (par. 8) di chi nonsiritraedallascenadella storia ma si scontra con gli idolidell’oggi,conle«grandi scoperte del secolo decimonono» (par. 10). Il quadro è profondamente mutato, come è mutato il poeta («cangiato molto nel morale»)26 per effetto di quella «grande esperienza di se»27 che significa anche impulso a operare dentro e «in mezzo» alla vita, non la vita «immaginata» ma «reale»28 (vd. cap. XVII par. 1).Perciòècambiataanchela musicadeisuoiversi:nonpiú la poesia della «rimembranza», dell’evocazione memoriale, ma la poesia del presente, riversata sui “pensieri dominanti” nel presente, piú tesa e franta. Se pensiamo alla complessità dei motivi etici, sociali, ideologici tra loro interconnessi nell’unitario motivo dell’«amore» che sostiene il ciclo di Aspasia, si direbbe risortalatensionepropositiva e parenetica delle canzoni giovanili, pre-Operette, e difatti anche nei testi di Aspasia risuona acuminata la polemica contro il «mondo sciocco»econtro«questaetà superba» (Il pensiero dominante, vv. 38 e 59), con accenti che saldano insieme passioneemorale,autoanalisi ecoscienzacivile. Ma la protesta delle canzoni giovanili presuppone l’idea ancora positiva della natura, quindi non esclude l’ipotesidiunriscatto,perché esprime il rimpianto di una felicità perduta ma non irraggiungibile e non irreale, sídalasciarevarchisocchiusi alla speranza. La scrittura assolvealloralasuafunzione propulsiva e il poeta affila le armi, come risulta da Zib. 1393 (27 luglio 1821), per «scuotere la mia povera patria,esecolo»:scuoterlida un corrotto e degradato torpore. Questo impegno militante è tenace e ancora nel 1826, il 5 giugno, Giacomo, attratto nell’orbita della prosa morale-filosofica delle Operette tuttora inedite involume,scriveaFrancesco Puccinotti: «Andando dietro ai versi e alle frivolezze (io parlo qui generalmente), noi facciamo espresso servizio ai nostri tiranni, perché riduciamoaungiocoeadun passatempo la letteratura, dallaqualesolapotrebbeaver sodo principio la rigenerazione della nostra patria».29 Non è consentito indulgerealle«frivolezze»né ai passatempi e conviene guardare al «sodo». Siamo lontani, come si vede – e il termine «passatempo» è un rilevatoresintomatico–,dalla «inutilità» del «flâneur» esibita a chiare lettere nel Preambolo a «Lo Spettatore Fiorentino». Anzi, per la strategia della deprecatio attivatanellecanzonicomein parte anche nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, uno degli obiettivi consiste proprio nel «giovare al mondo»: che è per l’appunto lo «scopo» espressamente rifiutato nel Preambolo del 1832. I due piani della militanza costruttiva e della «professioned’essereinutile» appaiono separati, inconciliabili: tale il paradossale itinerario d’un autore che dall’esordio pubblico in veste di vate civile,appassionatocultoredi rinnovamento morale, è giunto, strada facendo, all’apologiadell’«inutilità».Il tragitto è stato lungo, sofferto, non rettilineo. Infranto il mito della natura benefica e tramontata la speranza, esaurita la fase dell’astensione “stoica” tra il 1825-’26 e poi trascorsa la stagione del “risorgimento” pisanorecanatese, il rinato fervore etico-civile intorno al Trenta ha trasformato la protesta in denuncia, ha convertito l’irta indignatio delle canzoni giovanili in trasgressivo dissenso ideologico che demolisce la chiavedivoltadellamoderna cultura borghese. Vale a dire che il rifiuto colpisce l’etica dell’utile e il suo funzionalismo sistematico, tanto inteso al profitto e al correlato mito del progresso da non accordare credito né valore a quanto esula dalla categoria dell’«utilità» quantitativamente, statisticamentemisurabile. L’attacco esplicito contro l’egemonia dell’utile (dopo talune sparse riflessioni dello Zibaldone) risale almeno al primo soggiorno fiorentino, quando Leopardi lavora a quella non compiuta Enciclopediadellecognizioni inutili di cui riferisce all’editore Stella il 13 luglio 1827: «Ora son dietro ad ordinare i materiali della Enciclopedia. Spero che sarà un’Opera che si farà leggere per forza da ogni sorta di persone»;30 e poi il successivo 23 agosto: «Sono sempre occupato dell’Enciclopedia, e m’ingegno di renderla un’operapiúpopolarechesia possibile,anchenellostile».31 Ilprogettononandràinporto, ma l’idea ritorna nei Disegni letterari, XI (1829): «Enciclopedia delle cognizioniinutili,edellecose che non si sanno; o Supplemento di tutte le Enciclopedie».32 In precedenza, nei Disegni letterari, X (forse del 1826), aveva annotato: «Enciclopediadiciance(odi passatempo ec.)».33 I termini «ciance» e «passatempo» rilanciano,maquiinpositivo, le «frivolezze» e il «passatempo» denunciati nella coeva lettera a Puccinotti. Cosa l’Enciclopedia potesse contenere è difficile dire, ma certo soccorre in proposito, sulnesso«utile»-«inutile»,la celebre lettera bolognese a Vieusseux,del4marzo1826, laddove Giacomo, rifiutando l’offerta di collaborazione all’«Antologia» con corrispondenze “eremitiche”, affermachelasua«filosofia» non risponde al canone dell’«utilità» apprezzato «in questosecolo»:«èbensíutile a me stesso, perché mi fa disprezzarlavitaeconsiderar tuttelecosecomechimere,e cosí mi aiuta a sopportar l’esistenza;manonsoquanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivereperunGiornale».34E piú ancora soccorre l’altrettanto celebre lettera a Giordani, da Firenze, del 29 luglio 1828 (vd. cap. XII par. 2). La progressione tra il 1826 e il 1828 è stringente. Non manca che un passo per arrivare a Il pensiero dominante e all’apostrofe decisiva (vv. 59-65) contro «questa età superba, / […] / stolta, che l’util chiede, e inutile la vita / quindi piú sempre divenir non vede». Il valore dell’inutilità diviene unica garanzia per dare «Pregio»(v.80)allavita,per liberarla dai lacci d’una prigione, dal dominio dell’economia e della statistica, dalle parole d’ordinedei«nuovicredenti» e dei nuovi tecnocrati: «perché,quandotuttoèutile, resta che uno prometta l’inutileperispeculare».35Gli aforismi dei Pensieri hanno punte taglienti contro la monetizzazione della vita, contro «negozianti ed altri uomini dediti a far danari», «eroi vili»36 del mercantilismo contemporaneo, contro il primato della «roba»37 e la mercificazione dell’arte.38 L’«utile» divinizzato porta a divinizzare la «moneta», a identificare l’«uomo» con i «danari»chepossiede: Quasi che gli uomini, discordando in tutte l’altre opinioni, non convengano che nella stima della moneta: o quasi cheidanariinsostanzasienol’uomo;e non altro che i danari: cosa che veramenteparepermilleindizichesia tenuta dal genere umano per assioma costante, massime ai tempi nostri. Al qual proposito diceva un filosofo francese del secolo passato:39ipolitici antichi parlavano sempre di costumi e di virtú; i moderni non parlano d’altro che di commercio e di moneta. Ed è gran ragione, soggiunge qualche studentedieconomiapolitica,oallievo delle gazzette in filosofia: perché le virtú e i buoni costumi non possono stare in piedi senza il fondamento dell’industria; la quale provvedendo alle necessità giornaliere, e rendendo agiatoesicuroilvivereatuttigliordini di persone, renderà stabili le virtú, e proprie dell’universale. Molto bene. Intanto, in compagnia dell’industria, la bassezza dell’animo, la freddezza, l’egoismo, l’avarizia, la falsità e la perfidia mercantile, tutte le qualità e le passioni piú depravatrici e piú indegne dell’uomo incivilito, sono in vigore, e moltiplicano senza fine; ma le virtú si aspettano.40 Non solo il termine «industria» ha deposto il significato di ‘operosità’ e ‘laboriosità’ (che ritroviamo nelle Operette morali), per designare invece la moderna organizzazione produttiva di beni di consumo, ma questa nuova accezione è introdotta perboccadiuno«studentedi economia politica», «o allievo delle gazzette in filosofia», con rinvio dunque all’ironico “evviva” del Tristano verso le «scienze economiche» (par. 27) e al mordente satirico della Palinodia contro i «severi / economici studi» di «questa virile età» (vv. 233-34) e contro «le gazzette, anima e vita / dell’universo, e di savere a questa / ed alle età venture unica fonte!» (vv. 151-53).Laclausolalapidaria («malevirtúsiaspettano»)è da collegarsi, con analoga funzione di desolato rimpianto, a «Valor vero e virtú, modestia e fede / e di giustizia amor», evocati con drammatico pudore nella Palinodia (vv. 69-70), e poi alla«Bellavirtú»salutatanei Paralipomeni(V47-48)dopo l’epicamortediRubatocchi. Se nel marzo 1826, nella lettera a Vieusseux, la «filosofia» dell’inutilità sembra non «convenire a chi debba scrivere per un Giornale», ecco che nel maggio 1832 proprio su questa «filosofia» negativa si fonda l’impresa d’un nuovo giornale.41 All’aristocratico e disperato «vizio dell’absence» e della «solitudine»42èsubentratoun propositooperativo:nonneè protagonista però il Romito degli Appennini che, da intellettuale liberale, flagella «i nostri costumi e le nostre istituzioni» per la riforma della società, ma ne è protagonista l’uomo antipolitico o apolitico della «grande esperienza di se»43 che difende l’eversiva «filosofia» dell’inutile, perché non s’illude sulla «perfezione degli stati civili»44 né sul rinnovamento politico e sociale né sulla «felicità dei popoli»,45 ma intende spalancare gli occhi suoiedituttisulla«infelicità inevitabile»46 di ogni individuo e da tale disillusa consapevolezza trarre l’energia per «sopportar l’esistenza».47 Non si tratta piú, come nel 1826, di rifiutare l’adesione all’«intrapresa» di Vieusseux,madipromuovere una «intrapresa» antitetica all’«Antologia», legittimamente considerata l’espressione piú alta e piú agguerrita di una militanza intellettuale fiduciosa nelle «magnifiche sorti e progressive».48 Antitetica all’«Antologia», come antiteticaa«IlProgresso»che si stampava allora a Napoli; anzi il Preambolo leopardianoribaltaallalettera il Proemio apparso due mesi prima (anonimo ma forse di Giuseppe Ricciardi) in aperturaalnumeroinaugurale del foglio napoletano, il 5 marzo1832,dovesilegge: ciascunopuòvederepersémedesimoi termini di quest’opera, nella quale studiosamente accorremo ogni cosa, purché in sé chiuda alcun utile, purché sia rivolta a giovare il progresso dell’umano sapere. […] Non tanto alle lettere ed alle arti avremo riguardo, quanto alle scienze, in queste principalmente il grand’utile consistendo, queste giovando potentemente quel caro progresso che favellammo.49 Chi ha scritto il Preambolo a «Lo Spettatore Fiorentino» sa bene che «il secolo crede il contrario» di quanto lui sostiene e sa bene di essere solo. La sua appassionata apologia dell’«inutile» e del «dilettevole» viene da un processo distruttivo che sta per aprire la strada ai veleni della satira, con i Paralipomeni e la Palinodia. Ilpuntodivistadel«flâneur» che si propone «di ridere molto», serbandosi «però intera la facoltà di parlar sul serio», prelude alla crudezza aforistica dei Pensieri, ai giudizi del «mal pensante» neiParalipomeni(V24,v.3) e alla sua filosofia «amara e trista» (IV 16, v. 6), come prelude all’ironica dissimulazione, beffarda e drammatica, della Palinodia. Ma al tempo stesso la difesa dell’«inutile» e del «dilettevole» sottintende un valoreconoscitivo,storicoed esistenziale: è l’«inutile» della bellezza, degli affetti, dell’amore,èl’«inutile»della poesia e delle illusioni che unicamente può dare senso e respiro alla fragile tragicità dell’esistere.«Dellaletturadi un pezzo di […] vera poesia […], si può, e forse meglio, (anche in questi sí prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essaaggiungeunfiloallatela brevissima della nostra vita» (Zib.4450,1ofebbraio1829). Importa osservare che il Preambolo leopardiano s’indirizza «massimamente» alle «donne» – già chiamate in causa nella premessa al commento petrarchesco del 1826 –, non per ridicola «galanteria», bensí «perché è verisimilecheledonne,come meno severe, usino piú degnazione alla nostra inutilità»:50 interessa un pubblico virtualmente non omologato e non asservito alle parole d’ordine del funzionalismo produttivo. Proprio su questo significato dell’«inutile», fiorito nel «desertodellavita»(Tristano, par. 8) e prodigiosamente libero dai condizionamenti delleideecorrenti,sigiocala modernità di Leopardi, con suggestiva prefigurazione del flâneur di Baudelaire. «Inutile» vuol dire passione della conoscenza per la conoscenza come valore in sé; vuol dire ricerca di una dignità dell’essere e dell’esistere che non si può vendere né comprare. Il Preambolo nel maggio 1832 vadiparipassoconlosdegno chevibranellafamosalettera a De Sinner, del 24 dello stesso mese, e l’uno e l’altra vanno insieme con il Tristano:segnocheilprimato dell’inutilità è un atto dissacrante nei confronti del modello di sviluppo della moderna società borghese e insieme un atto di fierezza che comporta (con le parole di Tristano) «il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, […] ed accettaretutteleconseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera»(par.8).Il«dilettevole» del «flâneur» non è distrazionedal«vero»,perché «glistudidelbello,gliaffetti, le immaginazioni, le illusioni» (di cui discorre la lettera a Giordani del luglio 1828) indissolubilmente si legano alla contemplazione del negativo e acquistano intensità proprio dall’acuta coscienza del nulla. Come il profumo dell’odorata ginestra. Ogni navigazione perigliosa (dice Colombo a Gutierrez) «ci fa cara la vita, cifapregevolimoltecoseche altrimenti non avremmo in considerazione» (par. 13): la vita, «cosa arcana e stupenda» (Coro di morti, v. 23).«Chiposemai–continua Colombo – nel numero dei beniumanil’avereunpocodi terra che ti sostenga?» (par. 17). Il fatto nuovo nel 1832 è il proposito di rendere «popolare» con «Lo Spettatore Fiorentino» la «filosofiadolorosa,mavera», secondo il disegno già vagheggiato con l’Enciclopedia delle cognizioniinutili(«Speroche sarà un’Opera che si farà leggere per forza da ogni sorta di persone»; «m’ingegno di renderla un’operapiúpopolarechesia possibile, anche nello stile»). Fattonuovoenonirrilevante, se il motivo della diffusione del «vero» diventa centrale nella terza lassa di La ginestra(vv.145-57). Rendere «popolare» una filosofia disperata non vuol dire ridurla in pillole dorate, ma affabilmente comunicarla in forme piane, ironiche, sorridenti, tanto che dalla drammatica consapevolezza del dolore scatti la molla del «dilettevole», si produca la condizione necessaria per assaporare questo prodigioso efuggitivo«figliod’affanno» (La quiete dopo la tempesta, v. 32): non come occultamentodel«vero»,non come inganno dell’intelletto (Tristano,par.7)mainganno dell’immaginazione, “dilettoso inganno” (cfr. Il tramonto della luna, v. 24). Ha allora ottime probabilità di cogliere nel segno l’ipotesi51 che a «Lo Spettatore Fiorentino» fosse destinato il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere. L’operetta si richiama, fino dal titolo, a quellaproduzionedivulgativa dialmanacchi,strenne,lunari che molto era cara all’ambiente dell’«Antologia», del «Giornale agrario toscano», come poi della «Guida dell’Educatore» e delle sue annesse «Letture per i Fanciulli» e «Letture per la Gioventú».52 Ma l’«utile» professato dai responsabili di questi periodici comporta, com’è noto, una letteratura edificante, filantropica, paternalistica, intonata a guardinghi programmi riformistici di ammodernamento dell’apparato produttivo, quindi incline al patetico della benevolenza, alla necessità del sacrificio, al rispetto dell’autorità, all’idillico interclassismo dei benefattori e dei subalterni beneficati. L’«inutile» professato da Leopardi si traduce in una sceneggiatura dialogata di domestica levità che ricorre alla tecnica maieutica dell’interrogazione e per questa via illumina la sostanzaconcettualedelmale di vivere, abilitando in senso attivo e partecipe il ruolo di spalla del «Venditore», poi circolarmente si chiude lasciando intatta l’«illusione dellasperanza»(Zib.4284,1o luglio1827). Non una pedagogia strumentaleeomologante,ma un «dialogo» liberatorio, funzionale all’autonoma libertà di giudizio dell’interlocutore, alla sua integrità etica e psicologica. L’ironicaleggerezzadeltesto smorza ma non cancella l’amarezza speculativa. Il divagante e scherzoso «flâneur» (al pari del «Passeggere») può trovarsi, come si avverte nel Preambolo, nel «caso di far piangere», ma non accetta di rinunciare al sorriso, al «dilettevole», al “dilettoso inganno” dell’illusione che «aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita». «Coll’anno nuovo, il caso incominceràatrattarbenevoi e me e tutti gli altri, e si principieràlavitafelice.Non è vero?». La vita felice … conl’annonuovo. 1. In questo capitolo mi avvalgo in parte del mio studio «Lo Spettatore Fiorentino», giornale di «nessuna utilità», in «La Rassegna della letteratura italiana», s. IX 1999, 1 pp. 210-22,quindinell’operacollettivaUna giornata leopardiana in ricordo di WalterBinni,cit.,pp.75-93. 2. Lo Spettatore Fiorentino. Giornalediognisettimana.Preambolo, in TO, I p. 993. Su «Lo Spettatore Fiorentino» si segnala lo studio pregevole di I. DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, in «Nuova Antologia», 16 agosto 1920, pp. 297-310, che osserva come il Preambolo «non sia stato rilevatoperquelsingolareeimportante documento ch’esso è del pensiero leopardiano, anzi documento di vita e d’anima non meno rilevante che gli Scritti [di Leopardi] divulgati nella comunedeilettori».Adistanzadicirca ottant’annil’affermazionerestaattuale. 3. Il testo del contratto si legge in BRESCIANO,Carteggioineditodivarii con G. Leopardi, con lettere che lo riguardano,cit.,pp.475-77. 4. Su questo non propriamente raccomandabile personaggio, nato a Livornonel1794emortoaFirenzenel luglio 1870, faccendiere di pochi scrupoli, cfr. DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, cit., pp. 306 sgg., con le relativesegnalazionibibliografiche. 5.BRESCIANO,Carteggioineditodi variiconG.Leopardi,cit.,p.476. 6.Ibid. 7.Ibid. 8. L’istanza di Giovanni Freppa, con allegata la copia apografa del Preambolo leopardiano, e la relativa risposta negativa del Presidente Ciantelli, si conservano all’Archivio di Stato, Firenze, Presidenza Buon Governo Affari comuni (1814-1848), Parte I, 2217, Filza 19, n. 33. Questi documenti sono editi in DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, cit., p. 307, che riproduce anche il testo del Preambolo dalla primaedizionenota,valeadirequellaa cura di Giordani e Pietro Pellegrini (Studi filologici, Firenze, Le Monnier, 1845,pp.280-83),registrandoinnotale varianti della copia annessa alla domanda di Giovanni Freppa. Si noti che secondo DEL LUNGO (p. 307), la suddettadomandarisultaprivadidata. 9. Altra copia manoscritta del Preambolo, per mano di Ranieri, si trova nella Biblioteca Riccardiana di Firenze, Raccolta Frullani, ms. 1057, 2 (cfr.P.G.CONTI,L’autoreintenzionale. Ideazioni e abbozzi di G. Leopardi, Losone, Alla Motta, 1966, p. 48). L’autografo leopardiano è tra le carte napoletane(B.XI9).GiovanniMestica (ScrittiletteraridiG.Leopardiordinati erivedutisugliautografiesullestampe corrette dall’autore, Firenze, Le Monnier, 1899, 2 voll., II pp. 379-82), pur conoscendo naturalmente l’autografo napoletano, ripropone il testo Giordani-Pellegrini (dove non è indicatalafonte),ritenendoloesemplato sull’«edizione originale» del manifesto apparsa a Firenze nel 1832: «Questo Preambolo fu stampato a Firenze nel maggio o giugno del 1832 […]. Non avendo io potuto trovare l’edizione originale, mi attenni alla ristampa fattane dal Giordani» (ivi, II p. 430). FrancescoFlora(LEOPARDI, Le poesie eleprose,cit.,IIpp.715-18)pubblicail Preambolo dall’autografo napoletano e segnalanell’apparatolevariantidell’ed. Giordani-Pellegrini del 1845, che anch’egli ritiene fondata sulla stampa fiorentina del 1832 (ivi, p. 1136). Invece è certo che Giordani-Pellegrini hanno riprodotto la copia Ranieri della Biblioteca Riccardiana. Quanto alla stampa del manifesto (a Firenze, nel 1832) data per sicura da Mestica (in maggio o giugno) e da Flora (in maggio),quindinominatadasuccessivi editori, è molto probabile che non sia mai esistita. Convincente in proposito DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnatodaG.Leopardi,cit.,p.308n. 1: «il cercare, come il Mestica fece, “l’edizione originale” era vano, e malfondato il suo credere che il Preambolo fosse “stampato”, poiché ben s’intende come, presentato manoscritto al Buon Governo, non fu, dopolanegativadiquesto,piúilcasodi stamparlo né sarebbe stato permesso». EDELLUNGOipotizzadiconseguenza (ma erroneamente) che GiordaniPellegrini debbano essersi avvalsi dell’autografo. L’edizione dunque del Preambolo non può che attenersi all’autografo napoletano (edito da Flora), corredato in apparato dalle varianti delle copie apografe che sono note. 10. Leopardi afferma che il rifiuto del «manifesto» fu deciso nel «consiglio de’ Ministri», ma ne fa dubitare (osserva DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, cit., p. 307) «la forma della comunicazione»trasmessaaFreppadal Presidente del Buon Governo, «e nessundocumentoarchivistico,nédagli atti del Ministero né da quelli della Censura sulla stampa, suffraga tale affermazione», né è plausibile «il supporre comunicazioni verbali che siano passate fra “Ministero” e “Dipartimento del Buon Governo”, o fraCensuraeDipartimento». 11.G.LeopardiallasorellaPaolina, Firenze, 26 giugno 1832, in TO, I p. 1386. 12.Unfrancesconeequivalevacirca a lire toscane 6,6. Per comodità di chi legge l’epistolario leopardiano, dov’è quasi costante il riferimento a monete diverse, può essere utile rammentare (prendendocomebaseilpaolotoscano) che: 1 zecchino vale 22 paoli; 1 scudo toscano 17 paoli; 1 francescone 10 paoli;1lira1,5paoli. 13. «Mi diceste una volta che 18 francesconialmesebastavanoalvostro vivere» (P. Colletta a G. Leopardi, Firenze,23marzo1830,inEpist., V p. 272). 14.R.DAMIANI, Vita di Leopardi, Milano, Mondadori, 1992, p. 471. Di analogo parere già Moroncini, cfr. Epist.,VIp.193n.1. 15. G. Leopardi a G. Melchiorri, Firenze, 15 maggio 1832, in TO, I p. 1381. 16. Come Pietro Colletta, che si vide nel maggio 1831 intimato l’esilio, «al quale fu sottratto dalla malattia, e ben presto dalla morte» (LEVI, G. Leopardi, cit., p. 385), sopraggiunta a Firenzeil10novembrediquell’anno. 17.Inproposito,cfr.oralapreziosa documentazione fornita da W. SPAGGIARI, Leopardi, Giordani, Brighenti(1996),inID.,L’eremitadegli Appennini. Leopardi e altri studi di primoOttocento,cit.,pp.67-116. 18. Un rapporto di Brighenti, redatto il 23 aprile 1832, svelava al governo austriaco il vero autore dei Dialoghetti.Cfr.SPAGGIARI,Leopardi, Giordani,Brighenti,cit.,p.83. 19. Di altro avviso è DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, cit., p. 307, che ritiene indecifrabili i «motivi» che Giacomo dice alla sorella di avere «poi capiti»; quindi, p. 301 n. 2, dopo avere citato G.A.CESAREO,LavitadiG.Leopardi, Palermo,Sandron,1902,p.140(«Stese e sottoscrisse il manifesto; ma il Governo, conoscendo i suoi polli e spaventato da’ moti dell’anno antecedente, negò il permesso della pubblicazione»), postilla: «Io temo che ciò sia un far troppo onore a quel Governo, e che quel Governo non ne facesse tanto a Giacomo Leopardi». Credo che quest’«onore» spetti a quel governo, ch’era meno distratto di quantoritengaDelLungo. 20.G.LeopardiaC.Troya,Roma, 29dicembre1831,inTO,Ip.1372. 21.Ibid. 22.Ibid. 23. Ivi, p. 1361. Questo stato di estrema necessità economica indusse Giacomo, svanito il progetto del settimanale,alladisperatarisoluzionedi chiedere soccorso al padre, da Firenze, il 3 luglio 1832, con una lunga lettera dignitosamente accorata e drammatica: «Mitrovo[…]senzaimezzidiandare innanzi. / Se mai persona desiderò la morte cosí sinceramente e vivamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi fu superiore.[…]Nonsoselecircostanze della famiglia permetteranno a Lei di farmi un piccolo assegnamento di dodici scudi il mese. Con dodici scudi non si vive umanamente neppure in Firenze, che è la città d’Italia dove il vivere è piú economico. Ma io non cerco di vivere umanamente: farò tali privazioni, che a calcolo fatto, dodici scudimibasteranno.Megliovarrebbela morte, ma la morte bisogna aspettarla da Dio. In caso che Ella potesse e volessequesto,nonavrebbecheaporre didueinduemesiamiadisposizionela somma di 24 scudi presso qualche suo corrispondente in Roma, avvisandomi la persona; sopra la quale io trarrei di qualadettasommapercambiale.Avrei caro che il suo ordine fosse per 24 francesconi,ilcheaLeinonporterebbe grande aumento di spesa, e a me farebbe gran divario, essendoci ora grandissima perdita nel cambio degli scudi romani o colonnati con francesconi. Ed Ella sa che i francesconisispendonoquicomecostà i colonnati» (ivi, pp. 1386-87). Non avendoricevutarisposta,Giacomoil24 luglio scrisse di nuovo con ansia («perché la cosa di cui le parlavo, è urgentissima», ivi, p. 1388) e finalmente il 4 agosto Monaldo gli comunicò di concedere la somma richiesta di «24 francesconi» ogni due mesi (cfr. la lettera di Giacomo al padre,14agosto1832,ivi,p.1389). 24. D. DE ROBERTIS, Leopardi e Firenze (1987), in ID., Leopardi. La poesia,cit.,p.274. 25. Lo Spettatore Fiorentino. Giornalediognisettimana.Preambolo, inTO,Ipp.992-93. 26.G.LeopardiallasorellaPaolina, Firenze,26giugno1832,ivi,p.1386. 27.Pensieri,LXXXII,ivi,p.238. 28.Ibid. 29. G. Leopardi a F. Puccinotti, Bologna, 5 giugno 1826, in TO, I p. 1255. 30.Ivi,p.1288. 31.Ivi,pp.1291-92. 32.Ivi,p.372. 33.Ibid. 34.Ivi,p.1243. 35. Lo Spettatore Fiorentino. Giornalediognisettimana.Preambolo, ivi,p.992. 36.Pensieri,VII,ivi,p.218. 37.Pensieri,XCIV,ivi,p.241. 38.Cfr. Pensieri, III e LIX, ivi, pp. 217e233. 39.Ilpassooriginaleèregistratoin Zib. 4500 (8 maggio 1829): «Les anciens politiques parloient sans cesse de moeurs et de vertus; les nôtres ne parlent que de commerce et d’argent. Rousseau, Pensées, II, 230». Leopardi lesse le Pensées di Rousseau (Amsterdam 1786, 2 voll.) nel 1829 (cfr. Elenchi di letture, p. 1164) e ne trascrisse numerosi brani in Zib. 4474511(28marzo-17maggio1829). 40.Pensieri,xLIV,inTO,Ip.229. 41. Quanto al titolo «Lo Spettatore Fiorentino», si rammenti il progetto annotato nei Disegni letterari, XII (1828),inTO, Ip.372:«Articolidiun Giornale settimanale, Osservatore o Spettatore ec.». DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi, cit., p. 306, ricorda (con rinvio a P. PRUNAS, L’«Antologia» di G.P. Vieusseux, Roma-Milano, Albrighi-Segati, 1906, p. 104) che «quelle corrispondenze “eremitiche”», richieste a Leopardi da Vieusseux nel 1826, «dovevano, intrecciate con altre corrispondenze “cittadine” di altri, formare una rubrica trimestrale da intitolarsiloSpettatoreitaliano». 42. G. Leopardi a G. Vieusseux, Bologna, 4 marzo 1826, in TO, I pp. 1242-43. 43.Pensieri,LXXXII,ivi,p.238. 44. G. Leopardi a P. Giordani, Firenze,29luglio1828,ivi,p.1321. 45.Ibid. 46.Ibid. 47. G. Leopardi a G. Vieusseux, Bologna,4marzo1826,ivi,p.1243. 48. Curioso (in DEL LUNGO, Un periodico-parodia disegnato da G. Leopardi,cit.,pp.303-4)lostuporeper il fatto che Leopardi non si sia consigliato in merito a «Lo Spettatore Fiorentino» con l’amico Vieusseux: «Parrà strano che del disegno di un periodico, sulla cui pubblicazione il povero Leopardi faceva tanto assegnamento, egli non si consigliasse con l’uomo che a consigliarlo e praticamente avviarlo era, non che in Firenze ma in tutta Italia, il piú atto, e che gli aveva dimostrato non meno affetto che stima, Giampietro Vieusseux», proprio il direttore dell’impresa giornalistica che il giornale leopardiano intendeva contestare. 49. «Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti», I, Napoli, Porcelli,1832. 50. Lo Spettatore Fiorentino. Giornalediognisettimana.Preambolo, inTO,Ip.993. 51. Cfr. LEVI, G. Leopardi, cit., p. 359. Cfr. anche Operette morali, ed. FUBINI, cit., pp. 274-76, e A. FERRARIS,L’ultimoLeopardi.Pensiero e poetica 1830-1837, Torino, Einaudi, 1987,pp.26-27. 52. Sull’argomento, cfr. G. TELLINI, Manzoni 1827: Milano e Firenze (1985), in ID., Letteratura e storia. Da Manzoni a Pasolini, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 11-37; ID., Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998,pp.65sgg. XVII ILCICLODI ASPASIAELEDUE SEPOLCRALI 1.LA«VITA»NON «IMMAGINATA»MA «REALE» La lettera dedicatoria «AgliamicisuoidiToscana», in data 15 dicembre 1830, premessa ai primi Canti (1831), ha il rintocco funebrepatetico del congedo testamentario: «prendo commiatodallelettereedagli studi. […] Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena». Eppure la smentita è imminente e subito s’annuncia con il ciclo di Aspasia:1 Il pensiero dominante (Firenze, forse primaveraestate1831),Amore eMorte(ivi,forseprimaveraestate 1832), Consalvo (ivi, forse autunno 1832), A se stesso (ivi, forse primavera 1833),Aspasia(Napoli,vd.il «mar» al v. 112, forse primavera1834). Gli eventi biografici rendono conto, in buona parte,diquestasvolta.Del30 aprile 1830 è l’addio per sempre a Recanati. Il borgo trasceso liricamente nel Canto notturno (terminato il 9aprile)èoratrascesoanche fisicamente: che è strappo quasi temerario per il poeta, per le sue devastate condizioni di salute e per le sue misere finanze, quindi avventurosa quanto disperata sceltadivincereaognicosto la solitudine e l’isolamento, per confrontarsi, fuori della «notteorribile»2delvillaggio, con la realtà del mondo di fuori.Ilconfrontosisacheè stato uno scontro, come dichiara nel 1832 – con il Preambolo a «Lo Spettatore Fiorentino» – la risolutezza ironicotragica del Tristano. Maisegnidellasconfittanon placanoi«desideriiintensi»,3 l’energia, le «facoltà» e le «forze» interiori che hanno indotto lo scrittore al passo risolutivo della fuga senza ritorno, spinto dalla necessità di «una grande esperienza di se»: Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a sestesso,determinainqualchemodola fortunaelostatosuonellavita.[…]In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed eglisisenteinmezzoadessa,forsenon piú felice, ma per dir cosí, piú potente diprima.4 Piú potente: «in mezzo» alla vita, non «immaginata» ma «reale». La fuga da casa non colma il vuoto dell’isolamento e della solitudine – che hanno radici profonde e vengono dal didentro –, ma è risolutiva autochiarificazione («rivelando lui a lui medesimo»),premessadiuna stagione nuova, di un’indomita protesta ideologica. Si direbbe il ritornoallafasedellecanzoni giovanili, pre-Operette: ma gli anni non sono passati invano e quella carica combattivanehafattotesoro. L’incontro fiorentino con Fanny è l’occasione esterna, il combustibile necessario all’ardore di questa «grande esperienza di se» che ridesta le illusioni, prima e suprema quella dell’amore. Un nuovo «risorgimento», ma con altri attributi. L’autoanalisi del soggetto poetico integra il nesso tra l’io e la condizione esistenziale con un rianimato interesse–piúconsapevolee disperato a confronto delle canzoni giovanili – rivolto alla realtà storica, al «mondo sciocco» (Il pensiero dominante, v. 38), a «questa età superba» (v. 59). L’«esperienza di se» fa sentire i suoi effetti. Rispetto alla stagione lontana delle canzoni – scomparsa la centralità del contrasto antichi-modernicheneerala molla propulsiva e venuta meno da tempo la nozione salvifica della natura –, s’è dissolto quell’accento di animosa protesta che ancora implicava la possibilità di un riscatto, di una rigeneratio dei costumi. Ora la denuncia è condanna senza appello, pronunciata con tono alto e risoluto, anche acre, da un io che è protagonista della scena, acceso dall’intensità delleproprieillusioni,intento a celebrare le ragioni che rendono per lui la vita degna di essere vissuta, di contro alle«votesperanze»dell’«età superba». Il pensiero dominante risuona perentorio (vv.59-68): Diquestaetàsuperba, chedivotesperanzesinutrica, vagadiciance,edivirtú nemica; stolta,chel’utilchiede, einutilelavita quindipiúsempredivenirnon vede; maggiormisento.Ascherno hogliumanigiudizi;eilvario volgo a’beipensieriinfesto, edegnotuodisprezzator, calpesto. Il giro sintattico tiene energicamente distanti i due attori in conflitto, l’«età superba» e l’io, sí da accentuare la tensione dell’urto. La posta in gioco non è di poco conto: si tratta di dare un senso alla «vita» (v.63),chesoltantogliaffetti e i sentimenti disinteressati possono non rendere «inutile». Anche rispetto ai canti pisano-recanatesi, la voce ha mutato tono e flessione. Non piú la poesia della «rimembranza», l’evocazione memoriale del passato, la cristallinapitturadelborgo,il duplice registro figurativo e ragionativo, l’alta riflessione elegiaco-melodica; ma la poesia del presente (dell’amore disvelato nell’oggi), piú tesa, franta, segmentata, scabra, esclamativa, antimelodica, anche aperta a echi di rimatori antichi prepetrarcheschi (Guittone, i Siciliani, gli Stilnovisti, Dante incluso).5 L’umano desiderio, che nella canzone Alla sua donna vibra in absentia per «la donna che non si trova»; l’umana affezione che altrove – come per Nerina nella lassa ultima di Le ricordanze – ricade su se stessa e rende straziante il ricordo, si espandono in presenza di un’«Angelica beltade» (Il pensiero dominante, v. 130) che abita miracolosamente sulla terra, non in un tempo ipotetico o remoto, ma qui e ora. La fusione dei registri figurativo eragionativocomportal’esito inedito di una lirica che intreccia passione e morale, confessione e ideologia (come nel Tristano), interrogazione interiore e coscienzacivile:raffigural’io innamoratoeargomentasulla natura dell’amore, come eroica virtú che insegna a contrastare le «voglie» non nobili6 e insieme spinge allo scontro agonistico contro gli idoli della cultura contemporanea(cheèaspetto ripreso nei versi satirici, poi sviluppato con La ginestra). L’indignatio delle canzoni giovanili ritorna temprata da una lunga meditazione, illimpidita e acuminata dal filtro delle Operette e dei canti pisano-recanatesi, sí da mettereinmotoinquest’idea dell’«amore» («l’inganno estremo»: A se stesso, v. 2) una sorprendente complessità di motivi affettivi, etici, sociali,ideologici,civili. 2.LESEQUENZE DELL’«INGANNOESTREMO» Il ciclo di Aspasia scandisce le sequenze di una vicenda amorosa a epilogo (prevedibilmente) infausto, dal tumultuoso appassionamento (Il pensiero dominante, che su diverso piano ridice la stupefazione cantata con Il risorgimento)7 fino al disinganno (A se stessoeAspasia).Il pensiero dominante rifiuta il ricorso alla parola «amore» e impiega«affetto»(vv.70,71, 76), soprattutto «pensiero» (vv.6,88,110,117,147),per non impoverire con un termine logorato dall’uso la sovrana potenza di questo «dominator di mia profonda mente» (v. 2): dominatore «possente» (v. 1), insieme «Dolcissimo»e«terribile»(v. 2). Non già l’amore come reciprocità, relazione inter pares, conoscenza intersoggettiva, ma l’amore cheesaltaetrasfigura,sentito e cantato come valore assoluto, esclusivo, totalizzante,dapartedichiha interiorizzato la nullità del vivere e dell’esistere. Di qui il particolare stilnovismo della lirica, che oppone gentilezza («gentili inganni», v. 123) a «viltà» (v. 58): la prodigiosa nobilitazione interiore congiunta a «tanto bene» (v. 99) e la miseria morale, l’utilitarismo del «mondosciocco»(v.38),del «mondo inetto», dell’«età superba» (v. 59), del «vario volgo» (v. 66), della «gente stolta» che non ne riconoscono la sovranità. Arcanaforzachepadroneggia la «profonda mente» (v. 2), quest’amore è una «gioia celeste» (v. 28) intrisa di sbigottimento che dissolve la morte come «un gioco» (v. 47),peròrende«piúgentile», piú godibile, piú prezioso il dono della «vita» (v. 87), come mai era accaduto nella poesia leopardiana. Il climax ascendentetoccailculmineai vv.100-16: Chemondomai,chenova immensità,cheparadisoè quello làdovespessoiltuostupendo incanto parmiinnalzar!dov’io, sott’altralucechel’usata errando, ilmioterrenostato etuttoquantoilverpongoin obblio! Talison,credo,isogni degl’immortali.Ahifinalmente unsogno inmoltaparteondes’abbellail vero seitu,dolcepensiero; sognoepaleseerror.Madi natura, infraileggiadrierrori, divinasei;perchésívivae forte, cheincontroalvertenacemente dura, espessoalvers’adegua, nésidileguapria,chein gremboamorte. Il trapasso è istantaneo: «mondo» (v. 100), «immensità» (v. 101), «paradiso» (ivi). Soltanto il poeta del dolore universale può conoscere e comunicare l’estatico trasalimento del «diletto» (v. 128) vissuto come un «delirio» (v. 129). Paradisiaco incanto e, insieme, certezza della sua illusorietà. Anche nel momento di massima tensione emotiva, il sentimento del nulla e del vero resta vigile, sebbene talmente «forte» (v. 113) sia il vigore del sogno da trasformare il «palese error» (v. 111) in realtà. Già tuttavia, da sola, la stessa definizione di «pensiero dominante» lasciava sospettare l’antitetica compresenza di estasi e di riflessione, che si riversa nell’impasto dicotomico del linguaggio, tra «obblio» (v. 106) e «vero» (vv. 106, 109, 114). Tanto piú struggente e inquieta risulta la voce dissonante di quest’inno esclamativamente eccitato che esalta l’assolutezza dell’amore, con la coscienza dellasualabilità. Lo«stupendoincanto»(v. 103) è fuggitivo e presto svanisce. In Amore e Morte infatti qualcosa si è spezzato elaconflittualitàlatentenelle antitesi del «pensiero dominante», insieme «Dolcissimo» (v. 1) e «terribile»(v.3),simanifesta come scontro aperto. Il fragilissimo dosaggio di illusioneerealtà,cherendeva il sogno autentico e vero, ha smarrito quel suo miracoloso equilibrio. È accaduto che il desiderio si riconosce inappagatoeinappagabile:un «fier disio» (v. 43) che, ruggendo («rugghiando», v. 44)alparideltuono,oscurail cielo, nell’imminenza della tempesta, tanto che l’«Amore»,da«gioiaceleste» che era, si mostra come tormento, «procella» (v. 40), forza devastante che scatena l’uragano nel cuore (cfr. vv. 45-47). La vita, prima fervidamente goduta, si convertein«deserto»(v.35), il sogno s’incrina nel presentimentodelrisveglio,e la «Morte» – trascorsa l’irripetibile estasi dello «stupendo incanto» – torna a profilarsi, per l’io lirico che conosce la vanità del tutto, come «quiete» (v. 40), come «porto» (v. 42) di pace, lei sola «pietosa» (v. 98) dei terreni affanni.8 Anzi ora appare (come nel coevo Tristano) non solo creatura benefica ma sensualmente agognata in veste di «Bellissimafanciulla»(v.10) dal «virgineo seno» (v. 124). Perciò, fino dall’apertura, «Amore e Morte» sono congiunti,inundisticoarime baciate, da un rapporto di fratellanza(vv.1-9): Fratelli,auntempostesso, AmoreeMorte ingeneròlasorte. Cosequaggiúsíbelle altreilmondononha,nonhan lestelle. Nascedall’unoilbene, nasceilpiacermaggiore cheperlomardell’esseresi trova; l’altraognigrandolore, ognigranmaleannulla. Il«piacermaggiore»coincide (richiamatoanchedallarima) con l’annullamento di «ogni gran dolore».9 Non piú sorella della Moda, come nelleOperette,magemelladi Eros, al pari di lui giovane, alata («sorvolano insiem la via mortale», v. 15) e bellissima, la morte si metamorfizza nella donna amata. L’ardore suscitato da Eros,erimastopersuanatura inappagato, diventa appassionata e agonistica invocazione di Thanatos, «dell’età reina» (v. 107), regina dell’eterno (vv. 10824): Mecertotroverai,qualsisia l’ora chetulepennealmiopregar dispieghi, ertalafronte,armato, erenitentealfato, lamancheflagellandosicolora nelmiosangueinnocente nonricolmardilode, nonbenedir,com’usa peranticaviltàl’umanagente; ognivanasperanzaonde consola secoifanciulliilmondo, ogniconfortostolto gittardame;null’altroinalcun tempo sperar,senontesola; soloaspettarsereno queldích’iopieghi addormentatoilvolto neltuovirgineoseno. Non solo è reinventata l’iconografia tradizionale della morte («Bellissima fanciulla,/dolceaveder,non quale / la si dipinge la codarda gente», vv. 10-12),10 ma le personificazioni del mito classico si sono trasformate in sofferta materia autobiografica, onde è esaltata – di fronte all’«anticaviltà»dell’«umana gente» (v. 116) – anche l’intrepida risolutezza dell’io cheaspettalamorteindomito e a fronte alta, la desidera comeunadolceamantechelo accompagna verso il regno del non-essere: «null’altro […]/sperar,senontesola», senza alcuna speranza di vita futura, senza alcuna consolazione di «conforto stolto».Ilpathosaffettivoela componente edonistica s’intrecciano al coraggio stoico,inunasintesielegiacotragica, sorretta da saldi presuppostimaterialistici,che nonhaequivalentinellavaria tipologia del binomio amoremorte caro alla poesia romantica europea. Da Il pensiero dominante, tumultuoso inno all’amore come illusione della mente, siamo pervenuti alla consapevolezza del suo impossibileappagamento,che ègiàpresagiodeldisinganno. IlConsalvo11èvariantedi differente fattura, che ripropone il gemellaggio amore-morte in chiave narrativo-melodrammatica, come trasposizione della densità concettuale di Amore e Morte in un idillio romanzescochefacoincidere sogno e realtà, ideale ed esperienza. Cosí l’amata Elvira può imprimere baci veri sulle «convulse labbra» del morente Consalvo (vv. 67-74): Equelvoltoceleste,equella bocca, giàtantodesiata,eper molt’anni argomentodisognoedi sospiro, dolcementeappressandoal voltoafflitto escoloratodalmortaleaffanno, piúbaciepiú,tuttabenignaein vista d’altapietà,suleconvulse labbra deltrepido,rapitoamante impresse. La «felicità» (v. 125) lungamente agognata, infine conquistata e goduta da Consalvo prima di spirare, grazie alla facile compensazione dei baci di Elvira, tinge il quadro di enfasi patetica ed è tutt’altra cosa dall’affannosa tempesta del cuore che in Amore e Morte si placa soltanto nell’amorosa dolcezza del non-essere. La disillusione attesa e inevitabile,conladissolvenza dello «stupendo incanto» (Il pensiero dominante, v. 103), sopraggiunge lapidaria nella frammentazione sintattica di Asestesso(laliricapiúbreve dei Canti),disperatodialogosoliloquio con il proprio cuoreperchécessiunabuona volta di vagheggiare altre chimere.12 Sdegnosamente perentori, scanditi con rintocchilenti,punteggiatida pause di silenzio, martellati da inarcature che dicono la tenacia dell’autocontrollo emotivo,questiversihannola spoglia asciuttezza di un epitaffio.13 Scarsi sono gli aggettivi, perché importa la sostanza delle cose piuttosto che i loro attributi, e il diagramma aggettivale (da «stanco» del v. 2, riferito al cuore,all’«infinita»delv.16, che si lega alla «vanità del tutto») mette in luce un processo interno che dalla privata condizione dell’io si estende all’universo intero. La materia semantica si coagula in sostantivi che designano la fondamentale condizione dell’esistere: «terra» (v. 9); «noia» (ivi); «vita» (v. 10); «fango» (ivi); «mondo»(ivi);«fato»(v.12); “morte” («il morire», v. 13); «natura»(v.14);«vanità»(v. 16).14Lasostanzaconcettuale è resa inesorabile da termini di significato categorico: «sempre» (vv. 1 e 6); «estremo»(v.2);«eterno»(v. 3);«nessuna»(v.7);«mai»e «nulla» (v. 10); «omai» (vv. 11 e 13); «ultima volta» (v. 12); «tutto» (v. 16). La tessitura verbale varia dal perfetto,alpresente,alfuturo, perché la prospettiva è alta, tanto da dominare la dinamicadeltempo. Ma l’epitaffio è apparente. A se stesso esprimeinveceilpropositodi una pedagogia risentita ma vana. Il cuore vi è introdotto come alter ego che occorre istruire sulla negatività dell’esistere, per ricondurlo allo stato di quiete. Infatti il testo è stipato di imperativi (quattro in sedici versi: «Posa»,v.6;«T’acqueta»,v. 11;«Dispera/l’ultimavolta», vv. 11-12; «disprezza», v. 13), che nel loro concitato accumulo lasciano però intravedere la vitale indisciplina dell’interlocutore, di questo «cor» (v. 2), stanco ma non vinto suscitatore di «cari inganni» (v. 4). La saggezza dell’esperienza e la cognizione del vero non hanno la forza persuasiva di fare tacere l’inestinguibile sorgente di una conoscenza intuitiva, aurorale. Il sistema dei Canti vibra senza riposo sulla corda dissonante di questoattritotralaveritàeil candoreilluso,tralanormae l’infrazione, tra la certezza del vuoto e la resistenza eroicadichinonsirassegnaa vedere nello spettacolo del vivere non altro che un deserto. Se A se stesso è l’aspro controcanto di Il pensiero dominante e il disinganno vi bruciacomeunaferitaaperta, inAspasia–ilcapitoloultimo chesigillalaserie–iltempo ha lenito il trauma, sí da consentire una sorta di retrospettivo bilancio della disillusionepatita.15Ilricordo dello scacco lacerante si è tramutatonelripensamentodi un’autoanalisidistaccata,fino al sorriso, e capace di articolarsi in un organismo strutturale, di taglio evocativo-dialogico- riflessivo,chevaleinsiemeda canto liberatorio e da protettiva conquista di una desolata condizione di atarassiasentimentale. Solo ora l’innominata «colei» di Il pensiero dominante (v. 126) acquista un nome ed è quello poco lusinghiero di Aspasia, una professionista dell’eros nella Grecia classica, nativa di Mileto,caraaPericleenona lui soltanto. Il testo è singolare e complesso, per la rilettura critica (fino dal titolo)cheproponedell’intero “romanzo” dell’amore fiorentino. L’io lirico intende riconquistare piena autonomia e padronanza di sé, dopo il tumulto della passata esperienza: riappropriarsi del proprio controllo razionale, in nome di quella ragione che in A se stessohaparlatoalcuorecon accenti epigrafici e sincopati; riappropriarsi della propria libertà, superata la sconvolgente frenesia di «un lungo vaneggiar» (v. 105). Ecco che la tavola dei valori in campo muta di segno: l’amore, che in Il pensiero dominante era radiosa e paradisiaca energia rigeneratrice, ora è ripensato come servitú, come «giogo» (v. 103) che ammanetta l’anima; la «vita», che allora appariva «intollerabil noia» se spoglia della «gioia celeste» generata dal «delirio» amoroso (Il pensiero dominante, vv. 2324, 28, 129), ora non s’illumina di nuova luce («è notte senza stelle a mezzo il verno», v. 108), ma è nondimeno sopportabile, per chi – sopito in sé ogni desiderio nell’immobilità del cuore – sa contemplare la spettacolo dell’universo e sorridere della sua infinita vacuità(vv.109-12): giàdelfatomortaleame bastante econfortoevendettaèchesu l’erba quineghittosoimmobile giacendo, ilmarlaterraeilcielmiroe sorrido.16 L’autoanalisi procede con rigore verso l’autocoscienza intellettuale. L’io indaga l’ingannosoffertoeneaddita la causa nell’«errore» (v. 46) in cui è incorso, scambiando la donna con l’«idea» (v. 39) sublime che di lei si era creato, confondendo una creatura reale con «la figlia» della propria «mente» (vv. 38-39). Si attualizza l’intero percorso che da Alla sua donna giunge a Il pensiero dominante: dalla consapevolezza dell’idealità inattingibile all’euforia dell’incontro in terra con un «sogno» tanto «forte» e intenso da sembrare vero. L’io storicizza con lucido distacco la vicenda della disillusione e non ne incolpa Aspasia(cfr.vv.46-48).Però la materia autobiografica di cui parla è cosí scottante che lacalmariflessivanonbastaa frenare il risentimento dell’«uomo ingannato» (v. 55),17 onde prende voce un inusitato e crudo attacco antifemminile (cfr. vv. 4860), solo in parte bilanciato dal credito riconosciuto all’eccezionale forza di suggestione estetica ed emotiva che spetta alla bellezza muliebre. Autoanalisi, dunque, e inchiestaragionativa,daparte dichi,«contento»(v.105),ha recuperato «senno con libertà»(v.106)econquistato il coraggio di amaramente sorridere delle umane cose. Eppure nel testo c’è anche altro. La razionalizzazione dell’«errore» (v. 46) non annullagli«indicibilimoti»e i «deliri» (v. 65) del sogno, ora riconosciuto come tale. LapedagogiarisentitadiAse stesso non tiene a bada la vitale indisciplina dei «cari inganni» (v. 4) e anche di fronte alla propria tenace autocastigazione quel «cor» non si acquieta, come mostra ilbellissimoavviodiAspasia (vv.1-8): Tornadinanzialmiopensier talora iltuosembiante,Aspasia.O fuggitivo perabitatilochiamelampeggia inaltrivolti;operdeserti campi, aldísereno,alletacentistelle, dasoavearmoniaquasiridesta, nell’almaasgomentarsiancor vicina, quellasuperbavisionrisorge. Canto liberatorio, ma con l’«alma a sgomentarsi ancor vicina», per l’intermittenza («talora», v. 1) di un ricordo pieno di fascino, lampeggiante, radicato nella profondità dell’io e improvvisamente ridestato o dallafisionomiadiunvoltoo da una musicale armonia. La memoria ritorna al giorno dell’appassionata scintilla d’amore, rievoca il luogo, l’ambiente, il profumo, i colori, gli arredi, l’abbigliamento,lafiguraela sua«forma»(v.18),igesti,la «voluttà»(v.20):nonunfilm proiettato con freddezza investigativa, ma la visualizzazionealrallentatore diunascenachehaladensità e il sapore dell’evento vissuto,turbativoalloracome ora. Poi, dopo la lassa d’apertura, si dispiega con gradualità l’inchiesta autoanalitica che approda all’amaro sorriso finale. Nondimeno quel «Torna» (v. 1) non si cancella, rimane imprevedibile e inatteso, suscitato da una memoria involontaria che non dimentica e mantiene anzi vivalanostalgiaperi«gentili errori» (v. 107). E si spiega che alla vita spoglia dell’illusione d’amore Leopardi faccia dono di uno dei suoi endecasillabi piú belli: «è notte senza stelle a mezzoilverno»(v.108). 3.LAMORTEDISABBELLITA «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte» (Consalvo, vv. 99-100). Il ciclo di Aspasia ha rivelato l’inganno dell’amore – lasciandone intatta la nostalgia – e l’abbozzo Ad Arimane («Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualcheapparenzadipiacere? l’amore?»)18 ha ribaltato Il pensiero dominante, per cui l’amore, da «sola discolpa al fato» (v. 82), è diventato motivo d’accusa contro la divinità persecutrice. Spetta invece alle due bellissime canzoni sepolcrali (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane mortaèrappresentatainatto di partire, accommiatandosi dai suoi, Napoli, 1834-’35; Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, ivi, 1834-’35) l’incarico di disabbellire la morte, di convertirne la seduzione in dolore. Se la dipartita avviene in giovane età, scompare anche il conforto dell’epigrafe – da Menandro – in Amore e Morte: «Muor giovane colui ch’al cielo è caro». Le «Due cose belle» mostrano entrambe il loro volto straziato. La cognizione del veroormaidatempohanella morte, nell’«invocata morte» (Le ricordanze, v. 95), l’«unico schermo» (Sopra il basso rilievo, v. 61), ma ora anche questo «solo conforto» (v.70)èvistonelsuoaspetto dolente. Come la musica arcadico-metastasiana che intona Il risorgimento si smorza nella sconsolata spersonalizzazione del Canto notturno e nella pacatezza figurativa del dittico La quieteeIlsabato,cosílafiera esultanza autobiografica celebrata con Il pensiero dominante defluisce, venuto menoilprotagonismodell’io, nel timbro oggettivato e universalizzante delle sepolcrali, che spengono anche il gelido sorriso di Aspasia (v. 112). La morte non è piú fulgido oggetto di desiderio, bensí epilogo crudele. Non stupisce che i due testi19 nascano a Napoli, centro principe della cultura barocca controriformista, che ruotasull’ossessionedeltema funebre-sepolcrale, sui rintocchi della morte in agguato, sulla labilità della vita,sullafugaprecipitosadel tempo, su lugubri immagini ditombe,discheletrieteschi, di ossa ridotte in cenere: motivi che variamente celebrano, di fronte al volatilizzarsi delle cose terrene, la fede religiosa e la fiducia nella salvezza eterna dell’aldilà. Va da sé che il recuperodeltemadapartedi Leopardi – anche i lunghi titoli esplicativi assecondano latitolisticaparafrasticadella letteratura barocca – è quale siaddicealsuopensierolaico e materialistico, senza prospettiva alcuna di compensoultraterreno. L’una e l’altra sepolcrale si reggono su antitesi concettuali, a loro volta dipendenti dalla differente tipologia delle due figure caratterizzate fino dal titolo, la«giovanemorta»ela«bella donna»: la giovinezza estinta nel fiore degli anni, che richiama in specie Silvia e Nerina; lo splendore della bellezza femminile, dissolta in polvere, che evoca il fascino seducente del sembiante di Aspasia. Il primo e piú ampio componimento (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale) s’interroga sul significato della morte intempestiva: la «donzella» (v. 3) scomparsa in verde età deve ritenersi «misera» o «fortunata» (v. 17)? La risposta è antitetica, dilemmatica: «questo se all’intelletto / appar felice, invade / d’alta pietade ai piú costantiilpetto»(vv.41-43). La «Bellissima fanciulla» di AmoreeMorte,intensamente desiderataanchenelTristano, ha perduto la sua assoluta, univoca forza d’attrazione. Solo l’«intelletto» (v. 41) la riconosce per amica, non piú il «petto» (v. 43), che invece sente ora acutissimo, nella morte, lo strazio della separazione che rende la «dipartita» (v. 54) inconsolabile, sia «a chi si parte» sia «a chi rimane in vita» (v. 53). La lirica tocca unodeisuoiverticiproprioin questa ulteriore metamorfosi dell’«ultimo istante» (v. 19), in questo disincanto che spenge anche la gioia del «solo conforto» (v. 70) riservato alle fatiche, ai travagli, ai «danni» (v. 69) del vivere: «meta» (v. 65) non piú lieta, ma resa amara dall’ombra del lutto. Ritorna la prospettiva del Plotino (il «grandoloreagliamici»,par. 64) e dell’«amante compagnia»(v.68)delCanto notturno,maoralosconforto spettaanche«achisiparte»e nulla sopravvive della consolazioneche,nelPlotino, è data dal ricordo superstite degliamici(par.65): E quando la morte verrà, allora non ci dorremo:eancheinquell’ultimotempo gliamicieicompagniciconforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno,eciamerannoancora. Piú risalta però il dolore di «coluichelamorte/sentede’ carisuoi»(vv.80-81),ovvero la pena di chi resta (vv. 8192): […]Chesenelvero, com’ioperfermoestimo, ilvivereèsventura, graziailmorir,chiperòmai potrebbe, quelchepursidovrebbe, desiarde’suoicariilgiorno estremo, perdoveregliscemo rimanerdisestesso, vederd’insulasoglialevarvia ladilettapersona conchipassatoavràmolt’anni insieme, edireaquellaaddiosenz’altra speme diriscontrarlaancora perlamondanavia; poisolitarioabbandonatoin terra, guardandoattorno,all’oreai lochiusati rimemorarlascorsa compagnia? L’antitesi–fattavibraredalla rima–tra«intelletto»(v.41) e «petto» (v. 43) mette in contrastostridentelafilosofia negativa con l’angoscia del lutto e recupera il motivo fondamentale dei defunti come «stati vivi» (Zib.427778, Recanati, 9 aprile 1827). Il comune sentimento della morte,tragico«addio»(v.92) alla«dilettapersona»(v.90), sigilla con desolato epilogo un monologo lucidissimo eppure apprensivo, tenuto su unregistrodiargomentazione riflessiva invasa però d’«alta pietade» (v. 43). Un fatto va osservato: il topos antico dell’addio trova accenti paradossalmente inediti, proprio perché espresso da chihacelebratolamortecon l’affetto di un amante. L’intellettononsipentedelle proprie certezze ma neppure si quieta in esse, che non spiegano tutto e non portano pace. Il ricordo degli «stati vivi» non si anima nella rivisitazionedelpassatoenon è piú premessa, come nel 1827, del «risorgimento» della memoria. Qui, fino dall’incipit cosí stupendamente affabile e cordiale e drammatico («Dove vai? chi ti chiama / lunge dai cari tuoi, / bellissima donzella», vv. 13), si sente lo strappo («strappar», v. 99) dell’ora estrema «al cominciar del giorno» (v. 18), si patisce lo smarrimento dell’addio, del distaccodefinitivodal«nido» (v. 19), della partenza senza ritorno, lontano dai «dolci parenti» (v. 21), per un viaggioinsolitudine(«Sola», v. 4), per un andare («peregrinando», v. 4) che porta non altrove che «sotterra»(v.23). Lasecondasepolcrale20si apreconilcontrastoviolento tra la bellezza fisica della donna viva, voluttuosamente evocata con trepida emozione,eirestimortalidel suo corpo distrutto, nascosto allavistadallapietratombale che, inerte e muta, raffigura «invano» (v. 3) una «beltà» (v. 7) per sempre trascorsa. Ma la lirica è ben altro che un’elegia sulla caducità della bellezza corporea: all’orrore per il disfacimento organico dell’essere si unisce lo sgomento per il dileguarsi anche delle sublimi sensazioni destate da quella bellezza che «fra noi parve piúviva/immaginedelciel» (vv. 21-22), che sembrò offrireinterraindizioesicura speranza, come dono celeste, «di sovrumani fati, / di fortunati regni e d’aurei mondi» (vv. 28-29). Con il dissolvimento dell’«angelico aspetto» (v. 35) si dissolve d’untratto–richiamatoanche dalla rima – l’«ammirabil concetto» (v. 38) che «da lui moveva» (v. 37). Gli effetti paradisiaci dell’umana «sembianza» (v. 21) sono paragonati alle «visioni» (v. 40) esaltanti create dalla musica, del pari fragilissime (vv.39-49): Desideriiinfiniti evisionialtere creanelvagopensiere, pernaturalvirtú,dotto concento; ondepermardelizioso,arcano erralospirtoumano, quasicomeadiporto arditonotatorperl’Oceano: maseundiscordeaccento ferel’orecchio,innulla tornaquelparadisoinun momento. Il«paradiso»(v.49)rinviaal «paradiso» (v. 101) di Il pensierodominante, solo che là l’estasi è svanita per lo scompenso tra donna reale e «amorosa idea» (Aspasia, v. 39),quiinveces’èspentacon la morte della creatura che miracolosamente l’ha suscitata. Basta un minimo accidente, una «lieve forza» (v. 32) come un «discorde accento» (v. 47), per cancellare il «paradiso» dalla terra. Come può accadere? Perché la scomparsa dell’«angelico aspetto» (v. 35) fa dileguare all’istante dalla mente anche gli «eccelsi, immensi / pensieri» (vv. 23-24) da lui ispirati? Questoèil«Misterioeterno/ dell’essernostro»(vv.22-23), che costituisce il fulcro concettuale sul quale in ultimo la lirica drammaticamente s’interroga (vv.50-57): Naturaumana,orcome, sefraleintuttoevile, sepolveedombrasei,tant’alto senti? Seinparteancogentile, comeipiúdegnituoimotie pensieri soncosídileggeri dasíbassecagioniedestie spenti? Il tema funebre approda a un dramma non affettivo né sentimentale (quale il compianto per la donna defunta), ma conoscitivo. I «se»dellalassafinale(vv.51, 52,53)nonsonoipotetici.Per il sensismo leopardiano la «Natura umana» è «in tutto» materia«vile»(v.51),eppure può concepire emozioni sublimi; e insieme è «in parte» materia «gentile» (v. 53), nobile, pensante,21 eppure i suoi «moti» (v. 54) piú degni sono facilmente esposti a cause tanto contingenti, come il fiorire e il deperire della «frale» (v. 51) sostanza fisica, della bellezza corporea. La domanda capitale e irrisolta riguardalamortedel«mirabil concetto»: la sua precarietà, la sua inquietante fugacità.22 La poesia del sepolcro, tema principe del barocco e del neoclassicismo europei, ritorna materialisticamente priva di ogni appello ultraterreno,maanchediogni consolante (foscoliana) funzione eternatrice. Non c’è scampo al «nostro male» (Sopra un basso rilievo, v. 109). 1. La datazione di questi componimenti, come delle due sepolcrali, nonché degli altri canti dell’ultimo Leopardi, in assenza di esplicite indicazioni d’autore (e degli autografi, eccettuati il Consalvo e Il tramonto della luna), è congetturale e controversa.Perlapropostaquiindicata tra parentesi, che notevolmente differisce da quella avanzata a suo tempo da U. BOSCO, Ricostruzione d’un episodio biografico: Aspasia, in ID.,TitanismoepietàinG.Leopardie altri studi leopardiani, Firenze, Le Monnier, 1957, poi Roma, Bonacci, 1980,pp.65-83,cfr.leargomentazioni di M. MARTI, Leopardi e i tempi di Aspasia, in ID., I tempi dell’ultimo Leopardi,Galatina,Congedo,1988,pp. 7-45. 2. G. Leopardi a P. Colletta, Recanati, 2 aprile 1830, in TO, I p. 1347. 3.Pensieri,LXXXII,ivi,p.238. 4.Ivi,pp.238-39. 5. Cfr. D. DE ROBERTIS, G. Leopardi e i rimatori antichi, in «Il Tempo»,Roma,16settembre1976;ID., Leopardi.Lapoesia,cit.,pp.279sgg. 6. «Avarizia, superbia, odio, disdegno, / studio d’onor, di regno, / chesonaltrochevoglie/alparagondi lui?» (Il pensiero dominante, vv. 7376). 7. Ma Il risorgimento celebra il risveglio dell’«ardor natio» (v. 150), la rinascitadiuna«virtúnova»(v.83)edi una nuova sensibilità che non scaturiscono dall’illusione dell’amore, anzi fioriscono pur nella consapevolezzachel’amoreèunsogno impossibile: «E voi, pupille tremule, / voi, raggio sovrumano, / so che splendeteinvano,/cheinvoinonbrilla amor. // Nessuno ignoto ed intimo / affetto in voi non brilla: / non chiude una favilla / quel bianco petto in se. / Anzid’altruiletenere/curesuolporre in gioco; / e d’un celeste foco / disprezzoèlamercè»(vv.133-44). 8. Lo stesso termine «gentile», riferito alla vita in Il pensiero dominante («la vita della morte è piú gentile», v. 87), ora è applicato alla morte («la gentilezza del morir comprende»,v.73). 9. Cfr., come testimonianza epistolareutileancheperladatazionedi Amore e Morte e del Consalvo, G. Leopardi a F. Targioni-Tozzetti, Firenze, 16 agosto 1832, in TO, I p. 1389: «certamente l’amore e la morte sonolesolecosebellechehailmondo, e le sole solissime degne di essere desiderate». Lo stesso motivo ricorre, semprenel1832,nell’Iscrizione dettata da Giacomo per il busto di Raffaello, nel giardino Puccini presso Pistoia, dove il pittore è definito «felice per la gloria in che visse / piú felice per l’amore fortunato in che arse / felicissimo per la morte ottenuta / nel fioredeglianni»(ivi,p.994). 10. Sull’argomento, cfr. le ampie indaginidiF.FEDI,Mausoleidisabbia. Sulla cultura figurativa di Leopardi, Lucca,PaciniFazzi,1997. 11. La proposta di datare il componimento al 1832 è avvalorata dalla lezione base (nell’autografo napoletano) dei vv. 3-4: «innanzi / al mezzodisuavita»,cioèatrentaquattro anni (vale a dire nel 1832); la correzione in «a mezzo / il quarto lustro», cioè a ventidue anni e mezzo (valeadirenel1820-’21),èintervenuta (in N) con l’idea di retrocollocare il testo al termine degli idilli, ai quali si apparenta anche per la scelta metrica degli endecasillabi sciolti. Questo spostamento all’indietro forse vuole alludere alla giovanile fantasia di una situazioneanalogaaquelladescrittanel Consalvo (e già presente nell’idillio Il sogno), certo tenta di occultare l’occasione risentitamente autobiograficadelcantoeneevidenzia la diversità di taglio compositivo a confronto delle altre quattro sequenze delciclodiAspasia. 12. Un’attenta analisi sintatticostrutturale si deve a A. MONTEVERDI, Scomposizione del canto ‘A se stesso’ (1965), in ID., Frammenti critici leopardiani,cit.,pp.123-36. 13. Tre le rime: «sento»: «spento» (vv.3e5);«Dispera»:«impera»(vv.11 e15);«brutto»:«tutto»(vv.14-16).Le parole messe in evidenza dalla rima («spento»,«impera»e«brutto»,riferito al potere malefico soggetto di «impera») condensano il senso acuto delcrollodell’illusione. 14.Aivv.12-13silegge:«Algener nostroilfato/nondonòcheilmorire». Delle due cose «belle» di Amore e Morte (vv. 3-4), non è rimasta che la morte, non piú però in veste di «Bellissimafanciulla»,bensídiastratto «morire», sentito nient’altro che come terminediunlungoaffanno.Svanitoil sogno dell’amore, svanisce anche la pulsioneeroticaversolamorte. 15. «Cantare il disinganno è piú difficile che cantare l’ebbrezza del sentimento. Ed è in questo canto del disingannocheLeopardièilpiúgrande maestro» (L. SPITZER, L’ ‘Aspasia’ di Leopardi,in«CulturaNeolatina», XXIII 1963,2-3p.119). 16.«Terribileedawfulèlapotenza del riso; chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire» (Zib. 4391, 23 settembre1828). 17. L’apparente contraddizione tra «l’uomoingannato»(v.55),nellalassa seconda,e«ingannatonongià»(v.86), nella lassa terza, è stata rilevata e spiegata da SPITZER, L’ ‘Aspasia’ di Leopardi,cit.,p.130n.26:«Credoche nella seconda lassa, dove è descritta la fenomenologia dell’amore dell’uomo per la donna in generale, Leopardi voglia indicare la possibilità d’inganno nell’uomo […], ma lui, Leopardi, non era vittima di tale inganno: il suo drammainterioreeral’ugualmenteforte coscienza della bellezza della donna e della sua inferiorità morale». Il che è giustissimo, ma Spitzer mostra tuttavia di intendere i vv. 82-83 («già dal principio conoscente e chiaro / dell’essertuo,dell’artiedellefrodi»)in modo limitativo: il «già da principio» rinvia, sí, alla «scena della lassa I in poi», come scrive Spitzer (p. 122), ma rinvia anche all’inizio vero della passioneperAspasia,cioèaIlpensiero dominante, vv. 108 sgg., dov’è detto che l’«incanto» non è che un’illusione. Il «conoscente e chiaro dell’esser tuo» significaconsapevolezzachesitrattadi un sogno. Il «dramma interiore» di Leopardi non consiste soltanto nel conflittotrala«bellezzadelladonna»e la sua «inferiorità morale», ma anche nella coscienza (preliminare) della illusorietàdiquest’amore. 18.AdArimane,inTO,Ip.350. 19. Per le fonti iconografiche delle due canzoni, cfr. A. GIULIANO, Giacomo Leopardi, Carlotta Lenzoni, Pietro Tenerani, in «Paragone-Arte», XVII 1966, 193 pp. 87-94; G. CARSANIGA, Su una probabile fonte iconografica di Leopardi: ‘Amore e Morte’ e le due canzoni sepolcrali, in «Annali della Scuola Normale Superiore»,ClassediLettere, VII1977, 3pp.1183-200;A.VERGELLI,Genesie linguaggiodellesepolcralileopardiane, Roma, Bulzoni, 1977; FEDI, Mausolei di sabbia. Sulla cultura figurativa di Leopardi,cit.,pp.103sgg. 20. Tradotta in inglese dal giovane EzraPound,nel1911,coniltitoloHer monument,theimagecutthereon. 21.Cfr. Zib. 4253 (9 marzo 1827): «la materia pensa e sente; perché tu vedi al mondo cose che pensano e sentono,etunonconoscicosechenon sieno materia; non conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire,altrochemateria»;ivi,4288 (Firenze, 18 settembre 1827): «Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altrochemateria». 22. Lascia perplessi la lettura di F. FORTINI,‘Soprailritrattodiunabella donna’, in ID., Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, 2 voll., II pp. 56-85: «Il canto può dunque venir inteso anche come un itinerario di riconciliazione e remissione dopo una messa in scena sadica. Si è convitati a due dissoluzioni: la carnale Dama che imputridisce e il dissolvimento di un’armonia. Ma se la prima è irrecuperabile, la seconda è perpetuamente recuperata nel “paradiso” del testo» (p. 64). La poeticità del testo risiede nella sua dilemmatica tensione conoscitiva, che non è compensata né placata da alcun risarcimento melodico. Cfr., in proposito, i persuasivi rilievi di L. BLASUCCI, ‘Sopra il ritratto di una bella donna’ (1987), in ID., I titoli dei ‘Canti’ealtristudileopardiani,Napoli, Morano,1989,pp.129-52. XVIII GINOCAPPONIE LAPALINODIA 1.LEOPARDIECAPPONI La lettera del 21 novembre 1835, da Varramista, con cui il marchese Gino Capponi esprimeaLeopardilapropria «gratitudine»1perladedicae i «nobili versi» della Palinodia,compostiaNapoli nel 1835, deve essere al «candido Gino» costata non pocafatica:laquale,credo,è stata ripagata, perché n’è uscito, nel genere letterario delle responsive sottilmente dissimulate, un testo notevolissimo. Il grado della dissimulazione salta agli occhi, com’è noto, se si mettono a confronto il tono della missiva inviata a Leopardi e il registro diverso adottato, in quello stesso torno di tempo, nella corrispondenza con Tommaseo e con Vieusseux, doveilmarchesedimenticala sua abituale signorilità, come diradogliaccade.Sononote leparolerivolteaTommaseo: «Il Leopardi m’ha scaricato addosso certi suoi sciolti, dovegentilmentemicogliona come credente a’ giornali, a’ baffi, a’ sigari, alla sapienza edallabeatitudinedelsecolo. E poi prova al solito, come quattro e quattr’otto, che la naturaciattanaglia,echil’ha fatta è un boja. Io gli ho rispostoinprosa,gentilmente, ringraziandolo».2 Altrettanto note (e costantemente citate) sonoancheleparolerivoltea Vieusseux: «Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo,ches’èmessoincapo di coglionarmi, e per quella volta almeno, Dio sa s’io me lo meritavo, che è proprio un’idea storta. Ma vo’ ringraziarlo, perché egli se la piglia meco, come anche con Domeneddio».3 Con gli intimi,Capponidàsfogoagli umori dell’irritazione astiosa, ma la replica pensata e ponderata è nella lettera spedita a Giacomo. Certo è che il marchese s’è sentito inaspettatamente ferito: «Dio sas’iomelomeritavo,cheè proprio un’idea storta». Nondimeno s’è anche súbito accorto, con equilibrato giudizio, che il suo risentimentoèimpulsivo,non giustificato dalla considerazione pacata dei «nobili versi» della Palinodia. Nonaltrimentisispiegala lettera lunga e cortese a Leopardi, che non è mossa strategica, né frutto d’occasionale circostanza o d’urbanaconvenzionalità,ma un autoritratto meditato. Eppureèdocumentochenon gode buona reputazione presso gli studiosi: per Bonaventura Zumbini è stilato «in maniera […] poco perspicuaepersino[…]vaga e indeterminata»;4 a Roberto Ridolfi pare, per stile e linguaggio, «una stonatura» (anche per eccesso d’umiltà) nell’intero epistolario di Capponi;5piúrecentementeè sembrata «lettera […] di rara perfidia».6 Il fatto è abbastanza curioso. I crucci malevoli comunicati agli amici ottengono il credito della schiettezza senza veli, invece le soppesate argomentazioni rivolte al poeta dei Canti paiono sospette e suonano, si dice, false. Lo stile basso del parlatofamiliaresembrerebbe doversi imporre sullo stile alto dell’eloquio ufficiale. Peròloscartoespressivosisa che è risorsa canonica del genere epistolare e dipende dalvariaredeicorrispondenti, ma non ha molto, o nulla, a che fare con la sincerità. Né dovrebbe essere il caso di rammentare che il marchese Capponi, per la rettitudine dell’agireedelpensarecome per l’indubitabile prestigio di cui godeva, non era persona da sentirsi in dovere di compiacere o assecondare un suo interlocutore (e fosse pure Leopardi), se non era convinto di doverlo fare senza tradire le proprie idee. Nessuno poteva spingerlo a tanto.7 Ciò che confida a Giacomo contrasta con ciò che sbrigativamente – e di scorcio–diceaTommaseoe a Vieusseux, ma non si vede perché avrebbe dovuto mentire mentre scriveva, per libera scelta, al poeta dei Canti la lettera che gli ha scritto. Questa lettera è dissimulata, dove professa «gratitudine» sincera; è forse anche ironica, specie nella battuta di congedo («E poi benedico il bel clima di Napoli, che vi dà salute quanta non poteva al certo darvene l’aria mefitica di Firenze»); però è veridica, doveaffermadiconcordarein buona parte con il tema del canto leopardiano. Conviene rileggerequestapagina,cheè fondamentale nella controversa vicenda delle relazioni tra Leopardi e Capponi: vorreichelemieparole,epiúdellemie parole, la cognizione che avete dell’animomioversodivoi,bastassero a persuadervi la gratitudine che sinceramente vi professo per avermi intitolatoqueivostrinobiliversi.Epiú vi ringrazio perché mi avete stuzzicato sopra un argomento, il quale, non che solleticarmi,micuoce,elamiapovera testanoncessad’almanaccarvisopra.Io mi conosco abbastanza da non presumere di me troppo, e a molta profondità non m’espongo, ma perché non trovo altro da fare, penso, e le generalità son vizio del secolo, facile teatro de’ volgari, siccome campo de’ forti, ed io sono giunto a quegli anni, ne’ quali per rendermi il pensiero tollerabile, m’è divenuto necessità formarmi quello che chiamano un sistema,einessoostinarmiperalmeno togliermi dalla bruttezza de’ vacillamenti. Io non vuo’ dire che questomiopoverosistemasiaconforme aquellodavoicontantadottrinaetanta autorità professato. Questo ammiro come vostro, e perché nutrito di tanto sapere,matengoilmio,comemio,cioè partedime,eperchésmuovendoquella base, ogni altra cosa da me pensata se ne anderebbe a gambe all’aria, né ho tempo a ricominciare. Ma in questo punto capitale sono d’accordo con voi, e ne vo superbo, e m’avete proprio grattatoilsolletico,nelriderecioèdella minaccia de’ peli e della fiamma de’ sigari, e della sapienza de’ giornali, e (qui avrei voluto che la potente parola vostra fosse venuta a difendermi le spalle,mavoiprudentevisietetaciuto) della virtú redentrice delle società filantropiche, e d’altre cose simili. Queste io le credo piú necessità del secolo che felicità, perché la società umana, come l’uomo, ha legge di vivere, e quando un modo le manca, quando un elemento di coesione si discioglie, l’uomo, anche senza volerlo o saperlo, ne fabbrica un altro. E il credereallabeatitudinediquestanuova composizione è stimolo all’operare, e questa credulità della perfezione immancabile e imminente dell’opera sua,stoltezzaorganicad’ognunochefa. Il mondo a un bel circa sarà lo stesso, gli sbocchi del male non si potranno mainétapparenérestringere,edibeni materialidiffondendosi,nonperquesto aggiugneranno,iocredo,pureunatomo alla massa della felicità umana. E in tutto il dimenarsi di questo secolo, se v’è qualcosa di buono, la pedanteria8 de’nostriprofessoridicivilsapienza,la rendeintollerabile.Lequaliteoricheda me con voce esile, pur talvolta messe fuori,digiàmiminaccianolebastonate de’ perfettibili. Ma se vedrò il bastone in aria, mostrerò i vostri be’ versi e griderò: fermate; perché io non sia calpestato come un povero cadavere in mezzoaduncampodibattaglia.9 In questa lettera, rimasta senza risposta, la sostanza della vertenza è chiarita con fermezzaesenzaequivoci.Si oppongono due «sistemi» tra loro antitetici, peraltro entrambi energicamente asistematici: quello di Leopardi, materialista, ateo, sconsolato, proprio d’un uomo negato alle relazioni mondane; e quello di Capponi,10 spiritualista a suo modoecattolico,macredente in una religione antigesuitica e anticonfessionale, nonché proprio d’un uomo affaccendato in molteplici viaggi e negozi, alacremente operativonellapraticasociale epolitica.Ilcontrastoètanto evidente da non meritare commenti. Entrambi i dialogantilosanno.Conviene tuttavia osservare che le parole del marchese fiorentino non sono, come pure è stato autorevolmente sostenuto, di «limitato consenso»11 nei riguardi del conte di Recanati, bensí concordano su un aspetto «capitale». Quei cosiddetti «sistemi», fatti apposta per essere lontani l’uno dall’altro epernonintendersi,possono invece trovare un punto sostanzialediconvergenza.E proprio su questo punto la letteradiCapponiinsistecon decisione: nel «ridere cioè dellaminacciade’peliedella fiamma de’ sigari, e della sapienza de’ giornali, e […] della virtú redentrice delle societàfilantropiche,ed’altre cose simili»; nel riconoscere che è «stoltezza organica d’ognunochefa»ilconfidare nella «perfezione immancabile e imminente dell’opera sua», giacché il «mondo […] sarà lo stesso, gli sbocchi del male non si potranno mai né tappare né restringere,edibenimateriali diffondendosi,nonperquesto aggiugneranno[…]unatomo alla massa della felicità umana». Molti passi della Palinodia sono puntualmente rilanciati e confermati. Il che non scalfisce l’antitetica distanza tra i due interlocutori,tuttaviamettein chiaro il fondamento critico, disincantato, pessimistico dello spiritualista e cattolico Capponi,uomodinegoziedi faccende.Ilqualenonintende giocare di contropiede, con un’ironica (a sua volta) «palinodia»delpropriocredo e del proprio operato di attivissimo promotore di «giornali», di «società filantropiche» e «d’altre cose simili». Vuole però confermare un habitus interiore, un costume di vita, un’attitudine di pensiero che gli sono abituali e lo distinguono dall’orgoglioso ottimismo che, nell’ambiente fiorentino, s’accompagna al mitodelprogressoliberale;lo distinguono dall’euforia attivistico-tecnologica dell’«età superba», che si nutre«divotesperanze[…],/ vaga di ciance, e di virtú nemica» (Il pensiero dominante,vv.59-61).Poche, in vero, le «speranze» nutrite dal «candido Gino»: lui che sulla sua lapide desidera sia scritta un’unica frase: «vissuto inutilmente infelice»;12 lui che nelle confessionialsuoTommaseo si congeda piú volte, senza alcuna voglia di scherzare, con un secco: «Pregate davvero Dio che m’ammazzi presto».13Vengonoinmente, nella lettera di Leopardi al padre del 3 luglio 1832, le «ardentissime preghiere» di Giacomo per ottenere la «grazia»dellamorte.14 L’antiottimismo, l’antieuforia, l’antiorgoglio imprenditoriale s’incontrano a ogni passo nelle pagine di Capponi, del pedagogista e dello storico. Il lettore dei suoi carteggi conosce bene l’amaro sentimento di tedio, di vuoto, di sconforto che turba la quotidiana esistenza del marchese, benché «marchese grasso» – come dice con autoironia –.15 «Io inoperoso, disperato e imbecille», scrive di sé a Tommaseo l’11 settembre 183316 e il successivo 23 settembreincalzasullostesso motivo e parla della propria «disperazione ostinata», dell’«atmosfera» irrespirabile cheloopprime,mentre«sente a quarant’anni tutte le illusioni della gioventú, né soddisfatte né spente, invadere una vecchiaia senza pace»;17 e si riconosce assediato dalla vacuità di «pensieri» che «una volta m’eranodilettosi»epoisono stati «dismessi perché disperatamente inutili».18 Nonèsoltanto–comespesso si afferma – lo stato d’animo del solitario malinconico, ma il «gelo» della sfiducia, dell’inoperosità, dell’impotenza che inquietano un’intelligenza generosaeversatile. L’angoscia esistenziale si uniscealgiudiziodisillusosia sull’epoca presente sia sulla cerchia culturale fiorentina. Contro i guasti del «mal secolo»–cosíaTommaseoil 10 luglio 1835 –, ha parole senza speranza: «Non fate ch’io sappia nulla mai del mondo presente: notte orribile, fredda, burrascosa, che lampeggia».19 Vede nell’oggiun«secolomatto»20 malato di miope utilitarismo, come attesta il «frammento» Sull’educazione.21 E «questa povera età nostra»22 gli appare il «secolo de’ bambini»,23 che echeggia il «secolo di ragazzi» del Tristano(par.24).Semprein Sull’educazione si legge: «un gran numero degli educatori moderni[…],direbbesiquasi, che si studino a mantenere l’uomo perpetuamente fanciullo»,24 e poi: «l’uomo nelnostrosecolo[…]paresi voglia a bello studio rannicchiaresulfanciullo,per farsipiccolocomelui»,25che sono immagini non lontane dal«pargoleggiar»del«secol superbo e sciocco» dell’ancora inedita La ginestra (vv. 59-63). Di nuovo sul tema del «mal secolo», il par. 53 del «frammento» biasima il livellamento e l’omologazione al basso, «terra terra», della cultura e della pratica pedagogica moderne («Il secolo vuole che s’insegni a zoppicare tra le inegualità della vita; e a raggirarsi continui nel tristo cerchioincuiviviamo,nona slanciarsi piú oltre»),26 tanto che non sembra infondata l’ipotesi27 di ravvisare in Capponinoncertol’«Amico» dialogante con Tristano,28 bensí l’«Amico» ricordato da Tristano: «Mi diceva, pochi giorni sono, un mio Amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati» (par. 25). La metafora usata dal marchese («Il secolo vuole che s’insegni a zoppicare») richiama, sempre dal Tristano, il «paese di zoppi» (par. 24), dove chi cammina diritto deve andare a nascondersiperlavergogna. Quanto alla sua città, il giudizio di Capponi non è menosconfortato: Non ho piú una persona sola con cui discorrere. Il vostro buon Vieusseux vaneggia oltre ogni credere; e tutti, sí tutti vaneggiano perché tutti dicono le stesse cose, per uso, e per moda, e per indolenzadipensare.Vaneggianocome attossicatituttiaunmodo,inatmosfera mefitica, senza originalità, senza sentimento, senza verità. Non ne posso piú,miocaro.29 L’«atmosfera mefitica» richiama l’«aria mefitica» in chiusura della lettera a Leopardi, con l’effetto di fortemente attenuarne – sino forse a cancellarlo – il piglio sarcasticorilevatoebiasimato daalcunistudiosi.Il«tutti,sí tutti vaneggiano perché tutti diconolestessecose,peruso, epermoda,eperindolenzadi pensare»favenireinmenteil «Quanto estimar si dee, che fedeinspira/delsecolchesi volge, anzi dell’anno, / il concorde sentir!», amaramentesatireggiatonella Palinodia (vv. 218-20), e induce a riflettere se davvero in questo «concorde sentir» sia coinvolto il «candido Gino». «A voi non piace la vostra Firenze», conclude Tommaseo, il 27 marzo 1835.30MadellasuaFirenze, qualche settimana prima, l’8 marzo,inanticiposui«nobili versi» della Palinodia, Capponi ha anche deriso i «giovani co’ baffi» che affollano i «caffè sospetti», daiqualisonouscitiduranteil carnevaleperandarea«urlare suilungarni».31 Gli orientamenti di Capponi e Leopardi divergono profondamente: da una parte, pessimismo cattolico e impegno per un’educazione religiosa ma antigesuitica; dall’altra parte, pessimismo materialistico, ateismo, impegno per un’educazione laica e antispiritualistica. È però da credere al «candido Gino», quandoscriveall’autoredella Palinodiacheiloro«sistemi» sono lontani, ma concordano in un «punto capitale». E Leopardi lo sa. Si sono conosciuti nel 1827; si sono frequentatiespessoincontrati al Gabinetto Vieusseux, in palazzo Buondelmonti, luogo perentrambidivisiteassidue. Né Giacomo s’è dimenticato diquantoilmarchesehafatto per lui, in merito al premio quinquennale bandito dalla Crusca – sebbene senza esito – e nella sottoscrizione degli «amici di Toscana». Ma piú importalaconsuetudinedelle conversazioni private, rivelatrici del carattere di Capponi, della sua indole e sensibilità,deiconnotatidella sua cultura. I quali si sono pubblicamente manifestati, proprio in occasione del premio della Crusca, nel giudizio che ha voluto formulare sulle Operette morali,operacertoosticaalla suaideologia,eppurevalutata in termini acuti e pertinenti che fanno propriamente macchia nella palude dei pareri espressi da altri accademici terrorizzati da quellibro.32 Riesce difficile immaginare che, con la dedica della Palinodia, Giacomoabbiavolutocolpire in lui il campione di un ottimismo attivistico, fiducioso nella «beata sorte» (Palinodia, v. 133) e nella «comun felicitade» (v. 202) dell’umanità: in lui, uomo «senza pace», che soffre di vivere in «un’atmosfera mefitica, senza originalità, senza sentimento, senza verità», dove «tutti, sí tutti vaneggiano perché tutti diconolestessecose,peruso, epermoda,eperindolenzadi pensare»; in lui che ha il cuoreelamenteridottiauno «strumentoscassinato»33 e si rode l’anima in una «disperazione ostinata», nel «gelo» dello sconforto e dell’«impotenza»; che a quarant’annisisentevecchio, «senza fiducia nell’avvenire, senza speranza che ci riscaldi».34 Riesce difficile immaginare che a lui Leopardi abbia ritenuto opportuno rivolgersi con epiteti che sono alla lettera affabili («candido», v. 1; «lodato», v. 227; «spirto gentil», v. 182), ma che in realtà dovrebbero celare il veleno della corbellatura. Invece si sa che la tradizione dell’epistolasatirica(oraziana e moderna) vuole che dalle frecce polemiche vada esente proprioildestinatario. Nonsoloil«candido»del v.1nonèirriverente,35come non lo è il «lodato» del v. 227,néilpetrarchesco«spirto gentil» del v. 182: ma anche le altre due occorrenze esplicite di Capponi, designato con il semplice nome, ai vv. 38 e 210 («o Gino»),nellalorocolloquiale speditezza, sono espressione non di una solidarietà d’intenti che tra i due interlocutori, specie in tema religioso e politico, non poteva esserci, bensí di un rispetto che la divergenza delle idee non cancella.36 Si osservi anche che il vocativo «spirtogentil»,nelqualenon so vedere quel «malizioso equivoco petrarchesco» che vi è stato notato,37 cade in uno dei punti nevralgici del testo, dove tace la satira ideologica e risorge il tono meditativo del Dialogo della Natura e di un Islandese; dove parla il poeta delle «miserieestreme/dellostato mortal» (vv. 182-83) e scandisce le pause con lentissimaandaturasintattica, perfissarealungolosguardo sui «mali immedicabili» e sulle «pene» (v. 174) che affaticano il «fragil mortale» (v. 175). Qui e non altrove, sultemadellamalattiaedella morte, scatta l’appellativo «spirto gentil», riferito a un uomo come Capponi che doveva intenderlo nel suo valore di schietta confidenza umana: un uomo precocementevisitatodalutti familiari e presto ferito da una penosissima infermità agli occhi (ne parla con dignitosa accoratezza nel carteggioconTommaseo)che loavrebbeportatonelgirodi pochiannialbuioassoluto. LadedicadellaPalinodia nasce da un rapporto di stima38 e chiama in causa Gino Capponi perché il marchese, intellettuale europeo, è l’esponente di punta della cultura cattolicoliberale fiorentina e nazionale,mainparitempoè uomo «senza pace», osservatore disincantato del presente, e come tale, all’internodelloschieramento toscano,èdestinatariocapace d’intendere – che non vuol direcondividere–lamiraalta e la contestazione non contingentedei«nobiliversi» delpoeta.Proprioquestanoncontingenza va rilevata, perché da essa deriva la grandezzaartisticadelcanto. 2.SATIRAIDEOLOGICA Laquestionenonriguarda soltanto l’affrancamento di Capponi dalla satira leopardiana – che può essere cosa secondaria –, ma riguarda il significato e la portata di questo stesso attacco satirico.39 Il quale s’indirizzacontroFirenzenon per motivi di politica o di strategia culturale, né d’occasione biografica, né tanto meno di contrasto personale,maperilfattoche Firenze rappresenta l’avanguardia piú dinamica dellanuovaculturaborghese. La satira è il riconoscimento d’un primato, è l’attestato d’unamodernitàcheLeopardi vuole smitizzare, con energia parialcoraggio,bensapendo di andare, disperatamente solitario, controcorrente. Perciò nella Palinodia non è dato trovare l’acrimonia sprezzante e individualizzata presente in I nuovi credenti, componimento che non per nulla resta fuori dall’orchestrazionedei Canti, dove non c’è posto per la polemica ad personam, con nomeecognomeesplicitatia chiare lettere, bensí il dissenso,anchedissacrante,è sempretenutosulpianodella riflessionestorica,ideologica, filosofica. Nondimeno anche I nuovi credenti, pure esclusi dai Canti, non recano una dedicaironicamentebeffarda, ma sono dedicati all’amico Ranieri. Che l’obiettivo della satira, nella Palinodia, consista non in un paesaggio fisico di luoghi e di persone (come in I nuovi credenti), ma in un paesaggio mentale diidee,loprovailfattocheil riferimentoaFirenzesiaffida unicamente al nome del dedicatario, ma poi nel testo, senza appiglio alcuno alla realtà cittadina, dopo l’animata pittura dell’interno d’un caffè, la geografia di colpo si slarga e si dilata in prospettiva sovranazionale: «da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo, / e da Boston a Goa» (vv. 29-30), da«l’Europa»a«l’altrariva/ dell’atlantico mar» (vv. 6263), da «Parigi a Calais, di quiviaLondra,/daLondraa Liverpool» (vv. 121-22), dal «Tago all’Ellesponto» (v. 269).40 L’obiettivo della satira è la cultura del secolo.41 Geografia e storia, pungenteicasticitàdidisegno e tensione concettuale s’intrecciano in un’impalcatura teorica che mirainalto,benaldilàdelle sponde dell’Arno. Quando il dissensoideologicosiavvale, inununicocaso,d’unricordo specifico e dunque implica il richiamo puntuale a una persona e tira in causa molto probabilmente Tommaseo («Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco / di poetar maestro […]», vv. 227-28), allora il nome è taciuto, sostituito da una perifrasi tanto discretamente allusiva da essere sfuggita – se di Tommaseo si tratta – anche all’occhio,certonondistratto, deldirettointeressato.42 La Palinodia, introdotta inchiusuraneisecondiCanti come magistrale pezzo satirico, a meglio marcare il pluristilismo del libro, riprende dal Tristano (analogopezzoconclusivo)il motivo della finta ritrattazione. Sono due testi palinodici che, nella stampa Starita, hanno in comune il privilegio dell’epilogo. Ma mentre l’operetta alza da ultimo il sipario sulla tragica realtàdelprotagonista,conla vibrante invocazione alla morte che l’apparenta al coevo Amore e Morte, l’io che parla nell’epistola in sciolti non si mostra autobiograficamente allo scoperto e non depone le «armi del ridicolo» (Zib. 1393,27luglio1821). Dal Tristano alla Palinodia:ilpassaggiomerita di essere considerato. Il tono funebre e dimissionario che scandisce la lettera dedicatoria «Agli amici suoi di Toscana», premessa ai primi Canti, è stato smentito prima dalla risolutezza ironico-tragicadelTristano(e nel maggio dello stesso 1832 dal Preambolo a «Lo Spettatore Fiorentino»), poi dalla satira della Palinodia, che rinvigorisce l’estremo sorrisodi Aspasia(«ilmarla terraeilcielmiroesorrido», v.112)eloconverteinnuova forza conoscitiva. All’indirizzo degli amici di Toscana, ossia all’indirizzo della piú avanzata cultura egemone, dopo la musica flebile della lettera dedicatoriaantepostaaiprimi Canti («Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena»), s’inviano sfide acuminate (Tristano e Palinodia), entrambe dettate daunoscrittorechehachiara consapevolezza della propria irrimediabile sconfitta di fronte all’orgoglio del «secol superbo e sciocco». Ma il pathos dello scatto finale del Tristano («invidio i morti») non ha riscontro nella Palinodia, né vi ha riscontro quella prolungata vibrazione d’una soggettività appassionata. Loscartoèforte.Afferma Tristano:«Deidisegniedelle speranzediquestosecolonon rido: desidero loro con tutta l’animaognimigliorsuccesso possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere» (par. 35). Invece l’io della Palinodia ne ride. Il fattoècheTristanovedenella morte«ilsolobenefizio»che può riconciliarlo «al destino» (par. 37), ma questo estremo «benefizio» ha perduto attrattiva con le due canzoni sepolcrali che, nella tessitura deiCanti,súbitoprecedonola Palinodia.Anchelamorteha perduto la sua forza di attrazione. Perciò il protagonistadell’epistolanon deponele«armidelridicolo» e trasferisce il pathos liricoautobiografico del Tristano nell’acuminata densità della riflessione e della contestazione eticoideologica. Cosí la satira, al dilàdellaprivatavicendadel poeta e della contingente polemica fiorentina, acquista compattezza di stile e profonditàfilosofica,tantoda presentarsi, in anticipo rispetto a La ginestra, come summa magistrale del pensiero leopardiano. L’impegno riversato dagli interpreti nell’indagare i procedimenti formali e le modalità enunciative del registro satirico ha spesso distolto l’attenzione dall’organicaeoriginalissima solidità costruttiva dell’intero componimento. 3.STRUTTURADELLA PALINODIA La vivacità rappresentativa, l’impasto di forme auliche e quotidiane, l’alternanza di toni ora affabiliediscorsivioraseveri e sconsolati, la dissonanza stridente tra moderno e antico, tra moda effimera e sentimento del tempo, tra futilità e durata, tra immaginazione surreale e cronacarealistica,nonmirano soltanto al divertimento della caricaturaedellaparodia,ma sono al servizio di una dinamica strutturale, scandita in nove lasse, che non interrompe la finzione palinodica, però la smorza, condrammaticaserietà,43per lasciare spazio a momenti di denuncia tragicamente sofferta. La finta ritrattazione («Errai …», v. 1) serve a esaltare in modo iperbolico gli aspetti piú appariscenti degli attuali prodigi delle macchine,sídaridicolizzarne –dallaprospettiva,beninteso, che qui importa – la vacuità; al tempo stesso il sarcasmo della simulata ritrattazione dice che il poeta sa bene di combattere una battaglia perduta. Perché non si tratta per lui di riforme o di avanzamenti o di miglioramenti economici, sociali, politici. La mira è diversa e piú alta. Non riguarda la sfera dell’«utile» ma la sfera del «dilettevole», cheè«piúutilechel’utile».44 Si tratta propriamente di «felicità», giusto l’appunto dei Disegni letterari, XIV (1833 o 1834): «Palinodia sopra la felicità della vita».45 Si tratta di quell’«alma / felicità» (ironicamente citata ai vv. 30-31) che sola può dare per Leopardi davvero alimento e senso alla vita: come ansia della gioia piú vera, che nasce dall’intrepida salvaguardia di intatti valori morali («Valor vero e virtú …»,v.69),dalcaloreintenso degli «affetti» (v. 232) e dell’amore, dalla contemplazionedellabellezza del mondo. Tutto il resto ha importanzarelativa.Nonèun caso che il termine «felicità» (o «felicitade») ricorra quattro volte nell’epistola al «candidoGino»(vv.31,109, 202, 258), registrando la frequenza piú alta nel complessivo sistema dei Canti.Quest’«alma/felicità» è illusoria: un dilettoso inganno dell’«immaginazione» (Tristano, par. 7), ma l’immaginazione è creatrice, quindi quel fantasma di «felicità»acquistaperilpoeta energia e slancio di passione vitale, diventa fondamento dell’esistere,comeilprofumo dell’odorata ginestra che il deserto consola. Perciò l’«alma / felicità» non può essere promessa invano, né esaltata come conquista tangibile, attuale, facile e a portata di mano. Si noti l’aspro ossimoro al v. 109: «mortal felicità».46 La Palinodia non combatte il progresso tecnologico della rivoluzione industriale né le speranze rivoluzionarie dei liberali, ma duramente combatte la pretesa di poter identificare l’uno e le altre con l’«alma / felicità». La quale invece non si può disgiungere dalla coscienza del nulla. Il «dilettevole», «piú utile che l’utile», non è distrazione dal «vero», ma «figlio d’affanno» (La quiete dopo la tempesta, v. 32), e riceve luminosa intensità proprio dall’acuta cognizione del dolore. Scambiare e confondere l’«utile» con il «dilettevole» ha effetti rovinosi, perché significa occultare il «vero» («ha suoi diletti il vero»: Al Conte Carlo Pepoli, v. 152), annullare il «dilettevole» e rendere «inutile la vita» (Il pensiero dominante, v. 63). Proprio contro questo scambio di valori, e le sue conseguenze, s’innalza il canto della Palinodia, che segue la linea contestativa della dissacrazione, per lasciare affiorare il «dilettevole» soltanto e contrario, a sprazzi intermittenti, come i miseri residui d’un naufragio (cfr. vv.69-70,232,235-37). Si spiega cosí perché il testo intrecci con ritmo incalzante ironia e spietato pessimismo.L’ironia,mistaa sarcasmo, predomina in tutte lenovelasse–menolaterza elasesta–einvestelafallace promessa d’una felicità ottenuta con le conquiste del progresso industriale e della cospirazione politica; il pessimismo scatta nelle lasse terza e sesta – significativamente le due piú lunghe – e chiarisce la permanente condizione d’infelicità che tormenta il vivere umano, sul piano storico (lassa terza) e sul piano biologico-esistenziale (lassasesta,lapiúestesa). L’ironiairridentecolpisce anzitutto la voce concorde delle «gazzette» (v. 20), «animaevita/dell’universo, e di savere a questa / ed alle etàventureunicafonte!»(vv. 151-53), formidabile strumento non di conoscenza madipersuasione;colpisceil livellamento al basso della cultura; la superbia delle nuove tecnologie («le macchinealcieloemulatrici», v.50);laconclamatacertezza d’una fratellanza sovranazionale («Universale amore …», v. 42) sempre smentita dai fatti; la rincorsa ai consumi come fonte di felicità (abbigliamento e arredamento: vesti di lana, seta,cotone,pellicce;tappeti, coltri, seggiole, canapé, sgabelli, tavole, letti e nuovi paiuoli e nuove pentole), nonché l’accelerazione dei trasporti considerata come riscatto dal male di vivere; l’illuminazione a gas come garanzia «nottetempo» (v. 130) di ordine pubblico e di comune sicurezza; i grafici statistici sui consumi alimentari e sui decorsi demografici, diffusi come dati che renderanno la vita piú serena e piú lieta; la filosofia dogmatica e spiritualistica del presente; la moda delle idee correnti («il concorde sentir», v. 220) che nessuno per conformismo e per adulazione osa contrastare, eppure sono idee labili che mutano con il mutare delle stagioni; il discredito verso lo studio rivolto all’esplorazione dell’io e della coscienza, ritenuto irrilevante e vano di fronteai«severi/[…]studi» (vv. 233-34) dell’economia e della politica; la «matura speme» (v. 238) di un’umanità felice ormai imminente, quindi «il pelo» (v. 259) fluente dei rivoluzionari che di quella speranzaè«visibilpegno»(v. 256)concessodagliDei:anzi, già inizio della «nova / felicità» (vv. 257-58) che deveinaugurareilregnodella «gioia»(v.277). L’ironiavienemenonelle lasse terza e sesta. Sono le due lasse portanti e si richiamano una all’altra con unnessostrettochesmentisce l’esultanza derisa nelle parti ironiche e non lascia scampo almitodelprogresso-felicità. Dal piano storico-sociale (lassaterza)sipassaalpiano materialistico-esistenziale (lassa sesta) del «gioco reo» (v.166)edeicapricciconcui la «natura crudel» (v. 170) si trastulla. Lo spettacolo disumanodelleguerreedelle «stragi» (v. 62), provocate non altro che da avidità di possesso e di rapina, si associa allo spettacolo non meno desolante delle «miserie»(v.182)biologiche («vecchiezza e morte», v. 183) inflitte al «fragil mortale»(v.175)dall’«empia madre» (v. 181). Il primato dell’avere sull’essere, l’oblio dell’individuonell’anonimato delle statistiche e della massa,47 la presunzione scientista d’un domani radioso, la dimenticanza dell’immedicabile pena di vivere che è connaturata alla fragilità della «prole mortal» (v. 6) non destinata a dimorare in un «Eden odorato» (v. 8): tali i cardini di un’argomentazione serrata che mette in chiaro anche il ribaltamento dei valori indotto dalla civiltà dell’utile e dei consumi, nel turbine – intuítoconocchioprofetico– di un villaggio globale manipolato e monopolizzato dalla«giornalieraluce/delle gazzette» (vv. 19-20). I massacri perpetrati da «cagionqualsisiach’adauro torni» (v. 68) altro non sono che «lievi reliquie» (v. 97) del passato, piccoli incomodi accidentali, e non turbano l’ascesa sicura del progresso, perché altre sono ora le cose che contano, «le cose / piú gravi» (vv. 107-8) che regalano la felicità: il rinnovamento degli abiti e delle suppellettili, gli spostamenti rapidi, anzi i voli,daunanazioneall’altra, levieilluminatedailampioni agas. Le cose essenziali diventano secondarie e le secondarie essenziali. Il primato dell’utile distorce e vanifica il significato dell’esistere. Ne risulta ribadita la cancellazione di «Valorveroevirtú,modestia e fede / e di giustizia amor» (vv. 69-70): parole afflitte e vinte, davvero sillabate con struggente pudore, quasi richiamate in vita da una lontananza siderale e contemplate intatte nel loro primigenio significato. Il motivo ritorna ossessivo nell’ultimo Leopardi: da «la sincerità e la modestia» che «resteranno indietro» nell’inno Ad Arimane48 alle «virtú» invano attese nel magistrale Pensiero XLIV,49 dalla «Bella virtú» salutata con rimpianto nei Paralipomeni(V47-48),dopo l’epica morte di Rubatocchi, al«veroamor»evocatoinLa ginestra (v. 132) con austera non rassegnazione dinanzi al crollo della speranza – davvero,nonostantetutto,per quantosia«laspemeestinta», rimane vitalissimo e «incolume il desio», come vuole Il tramonto della luna (v. 48) –. Di fronte al dominio dell’utile, Leopardi ha scelto l’ardua strada dell’«inutile»,50 del «dilettevole»,dell’umano. Passo dopo passo, tra satira e tragedia, la dissacrazione del moderno raggiungenellaPalinodiauna disperata radicalità, politica, etica, filosofica, che ben pochi tra i contemporanei, in Italia e fuori, potevano condividere. Tra questi non poteva esserci il «candido Gino», per quanto intellettuale avverso all’orgoglio del «mal secolo» e «secolo matto», per quanto uomo «senza pace», «senza fiducia nell’avvenire, senza speranza che ci riscaldi». Lo «strumento scassinato» del cuore lo promuove interlocutore plausibile, assortoepartecipe,luilettore sagace d’un libro difficile e turbativo come le Operette morali; lo promuove destinatario pensoso e perciò capace di meditare sulle ragionialtedelpoeta(edifatti riconosce: «mi avete stuzzicato sopra un argomento, il quale, non che solleticarmi, mi cuoce»), ma non lo promuove compagno di viaggio. Nel suo viaggio dentro il «deserto della vita» (Timandro,par.8)esull’orlo del nulla, dove piú «stupendo» brilla l’«incanto» (Il pensiero dominante, v. 102) delle illusioni, Leopardi erasolo. 1. G. Capponi a G. Leopardi, Varramista, 21 novembre 1835, in Epist., VI pp. 304-6. In questo capitolo mi avvalgo in parte del mio studio Leopardi, Capponi e la ‘Palinodia’, presentato al Convegno Leopardi a Firenze (Firenze, 3-6 giugno 1998), in corso di stampa negli Atti relativi (Firenze,Olschki,2001). 2. G. Capponi a N. Tommaseo, [Firenze], 12[-16] nov[embre 1835], in N. TOMMASEO-G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, a cura di I. DEL LUNGO e P. PRUNAS, Bologna,Zanichelli,1911-1932,4voll., I(1833-1837)1911,pp.330-31. 3. G. Capponi a G. P. Vieusseux, [Varramista, 24 novembre 1835], in G. CAPPONI-G.P. VIEUSSEUX, Carteggio, a cura di A. PAOLETTI, Firenze, Le Monnier, 1994-1996, 3 voll., II (18341850) 1995, p. 82. Sui rapporti cronologici tra le lettere di Capponi a Tommaseo, Vieusseux e Leopardi, cfr. R. RIDOLFI, Candido Gino, nell’opera collettiva Gino Capponi linguista, storico, pensatore, Firenze, Olschki, 1977,pp.76-77n.34. 4. ZUMBINI, Studi sul Leopardi, cit.,II1904,pp.274-75. 5. RIDOLFI, Candido Gino, cit., p. 76. 6. FERRARIS, L’ultimo Leopardi. Pensiero e poetica 1830-1837, cit., p. 114: «lettera […] di rara perfidia, tutta giocata sulla dissimulazione sottile di un’irritazione profonda». Osservazioni pertinenti sulla lettera di Capponi si devono a LEVI, G. Leopardi, cit., pp. 382-83. 7. Ne è prova la lettera affettuosa ma fiera e risoluta che Capponi ha inviatoaPietroGiordaniil18dicembre 1833(editainA.D’ANCONA,Memorie edocumentidistoriaitalianadeisecoli XVIIIeXIX,Firenze,Sansoni,1914,pp. 536-40, poi anche in Carteggio Giordani-Vieusseux.1825-1847, a cura di L. MELOSI, pres. di G. LUTI, Firenze, Olschki, 1997, pp. 183-84), dopocheGiordaniavevaritenutogiusto nel 1830 interrompere con lui ogni rapporto, per «un malumore forse ingiustificato» (TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., p. 122 n. 4). 8. Sulla «pedanteria», cfr. almeno G. CAPPONI, Sull’educazione. Frammento (1841), «Seconda edizione riveduta e corretta», Firenze, Paggi, 1869, pp. 76-78. Il testo Sull’educazione, avviato nel 1835 e compiuto nel 1841, uscí dapprima, con il titolo Pensieri sull’educazione, in stampaanonimaenonvenale,aLugano nel 1845, presso la Tipografia della Svizzera Italiana; il nome dell’autore compare dalla seconda edizione del 1869 (cfr. ora Sull’educazione. Frammento, a cura di R. RIDOLFI, Firenze, Edizioni della Cassa di Risparmio,1976). 9. G. Capponi a G. Leopardi, Varramista, 21 novembre 1835, in Epist.,VIpp.304-5. 10.Peril«sistema»diCapponi,cfr. R. CIAMPINI, La ‘Palinodia’ di Leopardi e il «sistema» di Gino Capponi, in «Nuova Antologia», maggio-agosto1948,pp.136-42;perla sua asistematicità, cfr. in partic. il ritrattodel«candidoGino»disegnatoda E. GARIN, Gino Capponi, nell’opera collettiva Gino Capponi. Storia e progresso nell’Italia dell’Ottocento. Atti del Convegno di studio (Firenze, PalazzoStrozzi,21-23gennaio1993),a cura di P. BAGNOLI, Firenze, Olschki, 1994,pp.5-17. 11. CONTINI, Giacomo Leopardi, cit.,p.353. 12. G. CAPPONI, Epigrafi, in ID., Scritti editi e inediti, a cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbèra, 1877, 2 voll.,IIp.472. 13. G. Capponi a N. Tommaseo, [Firenze, aprile 1834], in TOMMASEO- CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al1874,cit., Ip.21;cfr.ancheivi,pp. 107,126,143,169. 14.G.Leopardialpadre,Firenze,3 luglio1832,inTO,Ip.1386. 15. G. Capponi a N. Tommaseo, [Firenze, ottobre 1833], in TOMMASEO-CAPPONI, Carteggio ineditodal1833al1874,cit.,Ip.33. 16.Ivi,p.21. 17.Ivi,p.28. 18. G. Capponi a N. Tommaseo, [Firenze, ottobre 1833], ivi, p. 34, per cui cfr. almeno i «dilettosi inganni» in Iltramontodellaluna,v.24. 19. G. Capponi a N. Tommaseo, [Varramista, 21 ottobre 1833], ivi, p. 41. 20. CAPPONI, Sull’educazione, cit., p.19. 21.Cfr.ivi,p.30. 22.Ivi,p.19. 23.Ivi,p.36. 24.Ivi,p.64. 25.Ivi,p.36. 26.Ivi,p.62. 27. Cfr. G. LEOPARDI, Le prose morali,acuradiI.DELLAGIOVANNA, Firenze,Sansoni,1895,p.271n.18. 28. Per questa piú tradizionale identificazione, che ritengo inaccettabile, cfr. da ultimo F. CERAGIOLI,La‘PalinodiaalMarchese Gino Capponi’, nell’opera collettiva Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia. Atti del IX Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 18-22 settembre 1995), Firenze,Olschki,1998,pp.461-62. 29. G. Capponi a N. Tommaseo, 8 gennaio 1835, in TOMMASEOCAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al1874,cit.,Ip.206. 30.Ivi,p.246. 31.Ivi,p.232. 32.QuestialcunipassidelRapporto sulle Operette morali redatto da Capponi: «il Conte Leopardi ha dato nelle sue Operette morali un bel modellodellinguaggioches’appartiene alla filosofia. Felicissime le invenzioni e bene immaginati i personaggi tra’ quali suppone intervenuti i suoi dialoghi.Moltalacopiadellesentenzee la giustezza dei pensieri […]. Noi tegnamo per fermo questa sua filosofia esser frutto di lunga meditazione sui casiveridellavita,equestaraccoltadi Operette dottissime essere da anteporsi a qualunque altra opera che in piú grossi volumi e sotto piú severe sembianze fosse dettata dal piú accigliato dottore. […]. Il massimo pregio è lo stile che può dirsi perfetto […]. Sarebbe grave danno invero spogliarelescritturedelC.Leopardidel suostilech’èproprio,ricco,elegantee soprattutto chiarissimo; ma non per questo io credo che parrebbero cose di niunvalore,credoanzicheresterebbero sempre cose piene di senno e di dottrina, quelle ch’ei discorre ed esamina in queste Operette morali». Nello stilare il Rapporto, in qualità di Presidente della commissione giudicatrice,Capponihafattoproprioil giudizio dell’accademico Lorenzo Collini. Sulla questione del premio della Crusca, cfr. G. FERRETTI, Leopardi e la Crusca, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXVI 1918, 211 pp. 49-70; ID., Leopardi, L’Aquila, Vecchioni, 1929, pp. 215 sgg. (sono riportati i giudizi espressidaivaricommissari);LEVI,G. Leopardi, cit., pp. 322-32; S. PARODI, Quattro secoli di Crusca. 1583-1983, Firenze,AccademiadellaCrusca,1983, pp.129-30;BELLUCCI,G.Leopardiei contemporanei, cit., pp. 124-38. Nell’adunanza dell’Accademia del 9 aprile 1830, su quindici votanti, come sappiamo, un solo voto fu assegnato alle Operette morali. A chi spetti il merito di quell’unico voto, è controverso:oltreaCollinieaCapponi, anche Giovanni Battista Niccolini era favorevole alle Operette morali, ma molto probabilmente (anzi «certamente», a detta di LEVI, G. Leopardi,cit.,p.326)quelmeritovaa Capponi;senz’altrononaCollini(come inveceritieneBELLUCCI,G.Leopardie i contemporanei, cit., p. 138) che era deceduto nell’ottobre 1829 (cfr. il necrologio Lorenzo Collini, in CAPPONI, Scritti editi e inediti, cit., I pp.468sgg.). 33. G. Capponi a N. Tommaseo, [Firenze], 20 febbraio [1835], in TOMMASEO-CAPPONI, Carteggio ineditodal1833al1874,cit.,Ip.224. 34. CAPPONI, Sull’educazione, cit., p.37. 35. Benissimo lo ha dimostrato S. TIMPANARO, Leopardi e la sinistra italiana degli anni settanta, in ID., Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, cit., pp. 182-83, che spiega«candido»come«capacediretto e imparziale (e piuttosto benevolo che malevolo) giudizio», sull’esempio dell’oraziano (in analoga posizione d’apertura)«candideiudex»(Epistole, I 41). 36.Ladivergenzadelleideesiacuí con il passare del tempo, quando Capponi non si mantenne all’«acme della maturità intellettuale, nella pienezza delle sue finalità incivilitrici ed europeistiche» (P. TREVES, Capponi, Gino, nell’opera collettiva Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, XIX 1976, p. 37). Cfr. anche GARIN, Gino Capponi, cit., pp. 5-17, che assegna agli anni Trenta la fase piú significativa del magistero di Capponi. Di tale successivo declino, di idee e di affetti, è prova il tardo Pensiero su Leopardi (compreso come XVIII nei Pensieridiversi,inScrittieditieinediti, cit.,IIpp.445-46). 37. Cfr. DIONISOTTI, Leopardi e Bologna,cit.,p.137. 38.«Fuunmodoperlui[Leopardi] di dire, all’unica persona che egli ritenesse degna di ascoltarlo, il “candidoGino”,tuttoquantoglirestava da dire e prima, nei suoi versi, non avevaancordetto»(A.PARRONCHI,«Il computar», in ID., La nascita dell’ ‘Infinito’ e altri studi leopardiani, cit., p.93). 39.LaPalinodia, nonostante la sua centralità nella poesia dell’ultimo Leopardi, non è tra i «canti» piú studiati. Per interventi critici significativi, cfr. in partic.: V.G. GUALTIERI, La ‘Palinodia’ e la sua fonte inavvertita, in «Fanfulla della Domenica», 27 gennaio 1918 (sulla IV Ecloga virgiliana); CIAMPINI, La ‘Palinodia’ di Leopardi e il «sistema» di Gino Capponi, cit., pp. 136-42; F. MARIANI CIAMPICACIGLI, Prepotenza dell’io. Modalità enunciative nella‘Palinodia’diGiacomoLeopardi, in «Strumenti critici», 47-48 1982, pp. 161-68;S.ROMAGNOLI,La‘Palinodia al Marchese Gino Capponi’ di GiacomoLeopardi,in«IlPonte», XLIII 1987, 2 pp. 89-108; S. CARRAI, Una variazione sul tema del Della Casa: la ‘Palinodia’leopardiana, in «Rivista di letteraturaitaliana»,VI1988,1pp.1016;PARRONCHI,«Ilcomputar»,cit.,pp. 77-95; L. BLASUCCI, Procedimenti satiricinella‘Palinodia’(1992),inID., I tempi dei ‘Canti’. Nuovi studi leopardiani, cit., pp. 162-76; CERAGIOLI,La‘PalinodiaalMarchese Gino Capponi’, cit., pp. 461-71; D. DELLATERZA,GinoCapponi,Antonio Ranieri e lo stile della ‘Palinodia’ leopardiana,nell’operacollettivaIlriso leopardiano. Comico, satira, parodia, cit., pp. 473-89; A. SOLE, Note sulla ‘PalinodiaalMarcheseGinoCapponi’, nell’operacollettivaStudidifilologiae letteraturaitalianainonorediGianvito Resta,cit.,IIpp.825-55. 40. Nei Paralipomeni invece, al di làdellafinzionefavolisticaezoomorfa, risulta piú puntuale il riferimento all’ambientefiorentino,specienelconte Leccafondi,«toporaroa’suoidí,chedi profondi / pensieri e di dottrina era un portento:/leggiestatisapead’entrambi i mondi, / e giornali leggea piú di dugento; / al cui studio in sua patria avevaeretto,/siccom’oggidiciamo,un gabinetto»(I343-8).Perirapportitrai Paralipomeni VI 15 sgg. e il tentativo insurrezionale fiorentino (testimoniato daiRicordidiCapponi,inScrittieditie inediti, cit., II pp. 39 sgg.), cfr. G.A. LEVI, Capponi, Colletta e i ‘Paralipomeni della Batracomiomachia’, in «La Cultura», IX1930,7pp.597-607. 41. «Che il “confronto col proprio secolo”siailverotemadellaPalinodia, lo dimostra palesemente il fatto – una voltatantoanch’iomivogliometterea computerizzare–chelaparola“secolo” ricorrebennovevoltenelcanto,esesi aggiungono le espressioni concorrenti “la lieta / Nonadecima età” e “l’età ch’or si volge”, undici volte: un numero, nella suprema economia linguistica leopardiana, di per sé significativo: a indicare l’obbiettivo dell’accusa» (PARRONCHI, «Il computar»,cit.,p.93). 42. L’identificazione del «franco / di poetar maestro» con Tommaseo è beneargomentatadaAlfredoStraccalie quindi da Oreste Antognoni (G. LEOPARDI, Canti, Firenze, Sansoni, 1892,19103,pp.280-82),conrinvioal saggio tommaseano Dell’educazione. Scrittivarii(Lugano,Ruggia,1834)eai libri Dell’Italia (Parigi, Delaforest, 1835), poi da Luigi Russo (ID., Canti, Firenze, Sansoni, 1945, p. 363), con rinvio a Dell’educazione. Sul tema ritornano FERRARIS, L’ultimo Leopardi, cit., pp. 119 sgg. (con riferimentoall’interventodiTommaseo Dellaletteraturaconsideratacomeuna professione sociale, nell’«Antologia» delluglio1832),eL.CELLERINO,L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pp. 15 e 39 (con riferimento all’incompiuto scritto leopardiano Potenze intellettuali: Niccolò Tommaseo, di cui si sottolineano eloquenti consonanze lessicali con il passo della Palinodia). Certamente insostenibile (già è stato notato da STRACCALI-ANTOGNONI, Canti,cit.,p.280;RUSSO,Canti,cit.,p. 363; TIMPANARO, Leopardi e la sinistraitalianadegliannisettanta,cit., p. 183) è la congettura di ravvisare Manzoni nel «franco / di poetar maestro», come Capponi propose a distanzadiquarant’anni,il9novembre 1875,interpellatodaFedeleLampertico (cfr.LetterediGinoCapponiedialtri alui,acuradiA.CARRARESI,Firenze, Le Monnier, 1882-1890, 6 voll., e Appendice, 2 voll., IV 1885, pp. 41618). Se di Tommaseo si tratta, come sembra sicuro, va osservato che il profilo del futuro autore di Fede e bellezza delineato qui da Leopardi coglie taluni aspetti significativi dell’originale,manonrendecontodella sua piú complessa e inquieta fisionomia, sí che ne risulta un profilo unilaterale. L’interrogativa «Il proprio petto / esplorar che ti val?», con quel che segue («Materia al canto / non cercar dentro te»), mal si conviene a uno scrittore che proprio in siffatta esplorazione e in siffatta ricerca era appassionatamenteintento:sirammenti almeno che nel 1836 Tommaseo intitolavaConfessioniilsuoprimolibro di poesie e che fino dal 1831 con il racconto Due baci aveva inteso analiticamente «esplorare» non altro che «i segreti del cuore» (N. TOMMASEO, Due baci, in ID., Tutti i racconti,acuradiG.TELLINI,Milano, San Paolo, 1993, p. 140). La polemica parzialità del ritratto può spiegare perché Tommaseo non si sia in alcun modo riconosciuto nell’innominato personaggio celato dietro il velo dell’allusioneleopardiana. 43. «Benché proponghiamo di rideremolto,ciserbiamoperòinterala facoltàdiparlarsulserio:ilchefaremo forse altrettanto spesso, ma sempre ad oggettoeinmanieradidoverdilettare, ancosesidesseilcasodifarpiangere» (Lo Spettatore Fiorentino. Giornale di ognisettimana.Preambolo,in TO, I p. 993). 44.Ibid. 45.Ivi,p.373. 46. Sull’aggettivo «mortale», che ritornaseivoltenellaPalinodia(vv.6, due volte, 22, 109, 167, 183; al v. 175 comesostantivo),cfr.ROMAGNOLI,La ‘PalinodiaalMarcheseGinoCapponi’ diGiacomoLeopardi, cit., pp. 96-97 e 104. 47. «Ma novo e quasi / divin consiglioritrovàrglieccelsi/spirtidel secol mio: che, non potendo / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice: e tal portento, ancora / da pamphlets,darivisteedagazzette/non dichiarato, il civil gregge ammira» (Palinodia,vv.197-207);«Sapetech’io abbominolapolitica,perchécredo,anzi vedochegl’individuisonoinfelicisotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici» (G. LeopardiaF.Targioni-Tozzetti,Roma, 5 dicembre 1831, in TO, I p. 1369); «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse,diconoelegantementeipensatori moderni. […] Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui,desideroesperochemelo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo» (DialogodiTristanoediunamico,par. 22). 48.AdArimane,inTO,Ip.350. 49.Ivi,p.229.Cfr.cap.XVIpar.2. 50. Lo Spettatore Fiorentino. Giornalediognisettimana.Preambolo, ivi,p.992. XIX ICANTIDEL1835 1.ILPASSEROSOLITARIO Tra le non poche novità offerte nel 1835, con la seconda edizione dei Canti, troviamo anche Il passero solitario,untestodialtissima fattura, tanto piú notevole e originale in quanto singolarmente eccentrico nel periodo post-1831, entro la lineamaestrachedalciclodi Aspasia giunge alla Palinodia.Nellastampa1835 è collocato dopo Il primo amore, con funzione di premessa agli idilli giovanili, ma premessa a posteriori, compiuta in età avanzata, comeattestanosenzadubbioi procedimenti della tecnica metrico-stilistica.1 L’ambientazione puntualmenteriferitaal«loco natio» (v. 25), al «nostro borgo» (v. 28), e una fitta tessitura di echi interni richiamano i canti pisanorecanatesi del 1828-’29 (A Silvia, Le ricordanze, La quiete, Il sabato). Però, diversamente da questi, Il passero solitario mette in scena un io autobiografico non disingannato dal crollo della speranza, bensí un io giovane, intento a contemplare la «Primavera» (v. 5) stagionale che «dintorno / brilla nell’aria, e perlicampiesulta»(vv.5-6), proprio mentre brilla anche «la primavera» (v. 26) della sua vita. Dapprima rivolge l’attenzione al «passero solitario»(v.2)che,difronte ailietivolideglialtriuccelli, siritrae«pensosoindisparte» (v.12),lontanodaicompagni eindifferenteailoro«spassi» (v. 14), che canta in solitudine e cosí consuma «dell’anno» e di «sua vita il piúbelfiore»(v.16).Quindi considera se stesso, «romito» (v.24)e«solitario»(v.36)al pari del passero. L’io vive la sua «primavera» con speranza, giacché non cura «Sollazzo e riso» (v. 18), né «amore» (v. 20), ma «ogni dilettoegioco»(v.38)rinvia «in altro tempo» (v. 39), in anni sperabilmente piú belli di là da venire. Avverte tuttavia, con angoscia, il correredeigiorni,cometriste presagio di una «gioventú» che sta per tramontare (vv. 39-44): […]eintantoilguardo stesonell’ariaaprica mifereilSolchetralontani monti, dopoilgiornosereno, cadendosidilegua,eparche dica chelabeatagioventúvien meno. Poi, da ultimo, i due destini, del passero e dell’io, sono messiaconfronto.Il«solingo augellin» (v. 45), giunto alla sera della vita, non si dorrà del suo «costume» (v. 47), perché risponde a un ordine naturale. E l’io? Qui intervieneunarepentinacorsa in avanti e quel presagio non lieto si materializza in una prefigurazione del futuro. L’iogiovanesivedevecchio, svanita ormai la speranza, quando il domani s’annuncia «piú noioso e tetro» (v. 55) dell’oggi. E immagina che allora, da vecchio, tornerà con la mente alla sua giovanile «voglia» (v. 56) di solitudine, alla sua «primavera» sprecata e tirerà un bilancio fallimentare della propriaesistenza(vv.58-59): Ahipentirommi,espesso, masconsolato,volgerommi indietro. L’esperienza del disinganno, già avvenuta al momento della scrittura, è resa non in atto, bensí prefigurata nel futuro, ma espressa tuttavia concategoricacertezza,come indica il tono perentorio dei vv. 58-59. L’io scrivente è l’io «sconsolato» del v. 59 e perluilamemoriadelpassato è una memoria crudele, una «rimembranza acerba», come in Le ricordanze (v. 173), e riguarda in questo caso un «costume»,anziuna«voglia» (v. 56), e come tale biasimevole, che gli ha rovinatolagiovinezza.2 Però Il passero solitario non adotta il rapporto cronologico presente-passato, quale è istituito in ASilvia e Le ricordanze, dove il presenteèiltempodisillusoe il passato il tempo illuso: istituisce invece un rapporto cronologico diverso, presente-futuro, sí da rappresentare l’età dell’illusione al presente e l’età della disillusione al futuro. Un futuro, sappiamo, già sperimentato: lo dice anche il lugubre accento vissuto con cui è definito l’amore («sospiro acerbo de’ provetti giorni», v. 21) e qualificata la vecchiezza («quando muti questi occhi all’altruicore,/elorfiavòto ilmondo,eildífuturo/deldí presente piú noioso e tetro», vv. 53-55). Questo fa sí che l’io giovane guardi se stesso con la consapevolezza del triste destino che lo aspetta, perciònelproprioautoritratto dà peso particolare a quel «costume» che lo renderà infelice. In A Silvia e Le ricordanze l’età giovanile è l’età degli «ameni inganni» (Le ricordanze, v. 77), dissolti all’apparire del vero; qui invece è soprattutto l’età nongodutacomesidovrebbe, il che spiega il retrospettivo «pentirommi» del v. 58 e anche spiega perché la responsabilità della «natura» (cfr. A Silvia, vv. 36-39; Le ricordanze, vv. 71-76) non sia ora chiamata in causa. Le responsabilità sono individuali. In un meccanismosiffatto,ilcentro lirico, che distingue il componimentotraipiúaltidi Leopardi, sta nell’incanto trepido, esultante, luminoso dellaprimavera(vv.5-11,2735), stagionale e biografica: un tripudio prodigioso, ricreato attraverso la sensibilità e lo stato d’animo di un giovane che appartiene emotivamente e biologicamente a questa stagione felice e festosa, ma chenonneèpartecipeesela lascia sfuggire. L’invenzione dell’io giovane, che vive come attuale quel lontano tempo perduto, spiega l’inserimento del canto nel 1835inlimineagliidilli,con lo scopo di introdurre il lettore alle immaginazioni della «novella età» (v. 19), ma con la coscienza disillusa di chi ha chiara cognizione delpropriofuturo. 2.LASECONDAEDIZIONEDEI CANTI Con la seconda edizione (Napoli, Saverio Starita, settembre 1835), il libro dei Canti cambia identità. La stampa del 1831, con testi compostitrail1817eil1830, è selettivamente lirica, a struttura lineare e chiusa, sigillata con Ilsabato su una nota affabile e reticente («Altrodirtinonvo’»,v.50). Siarticolasuitrenucleidelle canzoni, degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, con tre componimenti a fare da cerniera(Ilprimoamoretrai due blocchi iniziali, Alla sua donna e Al Conte Carlo Pepoli tra il secondo e il terzo). Nel 1835 i testi salgono da ventitré a trentanove, dislocati in un arco temporale che dal 1816 giunge al 1835. L’impianto è piú frastagliato, a struttura aperta, la panoramica dell’io protagonista si è espansa in senso meno selettivo, piú articolato, prospettico e pluristilistico–anchesatirico, soprattutto con la Palinodia –.Precedutidall’Imitazionee dalloScherzo(cherisaleal15 febbraio 1828), entrano in chiusura i cinque Frammenti (degli anni 1816-’24, esclusi nel 1831), allo scopo di tracciare un autoritratto piú mosso, come testimonianza culturaleetecnico-stilisticain prospettiva storica generosamentedocumentaria. I Canti: indice della II ed. (Napoli, SaverioStarita,1835)3 I.All’Italia II.SoprailmonumentodiDantechesi preparavainFirenze III.AdAngeloMai,quand’ebbetrovato i libri di Cicerone della Repubblica IV.NellenozzedellasorellaPaolina V.Aunvincitorenelpallone VI.Brutominore VII.Alla Primavera, o delle favole antiche VIII.Inno ai Patriarchi, o de’ principii delgenereumano IX.UltimocantodiSaffo X.Ilprimoamore XI.Ilpasserosolitario XII.L’infinito XIII.Laseradeldídifesta[F:La sera delgiornofestivo] XIV.Allaluna XV.Ilsogno XVI.Lavitasolitaria XVII.Consalvo XVIII.Allasuadonna XIX.AlConteCarloPepoli XX.Ilrisorgimento XXI.ASilvia XXII.Lericordanze XXIII.Canto notturno di un pastore errante[F:vagante]dell’Asia XXIV.Laquietedopolatempesta XXV.Ilsabatodelvillaggio XXVI.Ilpensierodominante XXVII.AmoreeMorte XXVIII.Asestesso XXIX.Aspasia XXX.Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accommiatandosi daisuoi XXXI.Sopra il ritratto di una bella donnascolpitonelmonumento sepolcraledellamedesima XXXII.Palinodia al Marchese Gino Capponi XXXIII.Imitazione XXXIV.Scherzo Frammenti XXXV.«Odi, Melisso … » [B26: Lo spaventonotturno.IdillioV] XXXVI.«Io qui vagando … » [B26: ElegiaII] XXXVII.«Spentoildiurnoraggio…» XXXVIII.DalgrecodiSimonide XXXIX.Dellostesso Le aggiunte, come si vede,oltreall’Imitazione,allo Scherzo e ai cinque Frammenti, riguardano altri nove testi e sono incrementi risolutivi:Ilpasserosolitario, poi–secondocronologiaedi séguito al nucleo dei canti pisano-recanatesi–ilciclodi Aspasia,leduesepolcraliela Palinodia al Marchese Gino Capponi. Il passero solitario è collocato súbito dopo Il primo amore: uniti in una coppiachepreludeagliidilli, ma Il passero, mentre introduce alla illusa stagione della giovinezza, denuncia anche l’irrealtà di quelle immaginazioni con l’esperienza sconsolata degli anniavvenire.Estrapolatodai coevi ma differenti canti di AspasiaèilConsalvo,postoa sigillo degli idilli – con i quali intrattiene, a distanza cronologica, vincoli di familiarità, specie con Il sogno – e prima di Alla sua donna, alla quale si associa per antifrasi: sí che le situazioni antitetiche dell’amore terrestre e dell’amorementalesitrovano a coabitare l’una con l’altra. Lafebbrilecantabilitàerotica di Elvira e Consalvo risulta frenata, quasi castigata, dalla stilnovistica stilizzazione della «donna che non si trova». I posti assegnati ai nuoviarrivi“extravaganti”(Il passero e Consalvo) confermano la tecnica dello scarto e dell’increspatura in vigore già nell’ordinamento del1831.Maperillettoredei Cantidel1835questatecnica risalta da tutte le piú importanti sezioni aggiunte: la voce dell’io che si è gradualmenteaffievolitaentro la sezione dei canti pisanorecanatesi risorge di colpo potente nel ciclo di Aspasia, persmorzarsinellesepolcrali, epoiritorna,variatiiltimbro e il tema, nella satira della Palinodia, che rivitalizza il sorriso di Aspasia (v. 112) e ammicca (per altra via rispettoadAmoreeMorte)al Tristano, che risponde nelle Operetteadanalogafunzione ditestoepilogo. I cinque Frammenti rendono in ultimo giustizia all’idillio Lo spavento notturno (non accolto nel 1831), a un segmento con varianti dell’Elegia II e del giovanile Appressamento dellamorte (dai vv. 1-82 del canto I), nonché a due libere versioni in endacasillabi e settenari da Semonide di Amorgo, composte nel 1823-’24.4 Cosí il libro si conclude con una rassegna retrospettiva che arretra fino al lontano 1816 dell’Appressamento, con sintomatici recuperi di salvataggio da esperienze e stagioniormairemote,eppure nondimeno vive nella memoria dell’autore, nel diagramma della sua storia personale. Chiudere con le versioni dal greco significa ribadire la durata di quel colloquio mai interrotto con gli antichi, da cui il poeta modernohatrattolalinfaela forzadellapropriaoriginalità. E si tratta di due splendide versioni:5 la prima ha la cadenza dolente e ferma del pessimismoradicale,conechi delCorodimorti;laseconda esprime infine l’invito a godere dei «presenti diletti» (v. 23).6 L’opera termina – nel 1835 e per sempre – con la dilemmatica antitesi tra filosofia negativa e inappagatoedonismo. Mancanogliestremiversi del 1836 (Il tramonto della luna e La ginestra, che andranno a collocarsi di séguito alla Palinodia), nonché le correzioni autografe apportate su un esemplare della stampa Starita, perché questi secondi Canti abbiano l’imprimatur definitivo (quello della postuma edizione fiorentina del1845,acuradiRanieri),il sigillo ultimo della loro lenta gestazione, stratificata nel raggio di un ventennio, dal 1816al1836(standoalledate dei pezzi inclusi). Opera dunque in divenire, non solo perl’incrementoneltempodi componimenti nuovi ma anche, volta per volta, per la revisione dei componimenti già editi: divenire del libro e divenire dei singoli attori dentro il libro. Ne deriva che allacronologiacompositivasi associa, per ogni canto, una dinamica cronologia correttoria e che alla intertestualità genetica (rapporti tra testi di genesi coeva) si unisce una intertestualità trasformativa (rapporti tra le varianti introdotte nel medesimo periodo in testi diversi, nonché tra queste e la prassi scrittoria coeva).7 Da siffatta laboriosissima officina è sortitounlibroinsiemearduo e trasparente, limpido ed enigmatico, scritto da un intenditore raro della gioia e del piacere di vivere, un viaggio intrepido e disperato all’inseguimento della felicità: tanto piú cercata e desiderata, sognata e assaporatadachisacheèun miraggio impossibile da raggiungere. 1. L’idea del componimento risale con probabilità al 1819 (cfr. l’appunto «Passero solitario» negli Argomenti di idilli,II,inTO,Ip.336),malastesura– come reclama l’impianto metrico e stilistico della “canzone libera” – deve appartenere agli anni post-1828 (cfr. almeno,tematicamente,Zib.4421-22,2 dicembre 1828). Controversa ogni ulteriore precisazione: forse iniziato a Recanati nella primavera 1829, ma ultimato dopo l’aprile 1831 (per la sua assenza nei primi Canti) ed entro il settembre 1835. Sulla lungamente dibattuta questione, vd. almeno, anche perladoviziadirinviibibliografici,A. MONTEVERDI, La data del ‘Passero solitario’(1958,conPoscrittadel1965 e del 1966), in ID., Frammenti critici leopardiani, cit., pp. 67-101: propone Firenze, tarda primavera o estate 1831; U. BOSCO, Sulla datazione di alcuni canti leopardiani, nell’opera collettiva Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 618-23: propone Napoli, in prossimità dell’edizione Starita; M. CORTI, Passero solitario in Arcadia (1966,conPoscrittadel1969),inEAD., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, 19772, pp. 193-207: propone 1819-’20, poi «solo la redazione definitiva con l’attuale strutturazione metrica» negli anni post-1828, adducendo «argomenti» che Monteverdi nella Poscritta del 1966 giudica non persuasivi; G. GETTO, «D’insulavettadellatorreantica»,in ID.,Saggileopardiani,cit.,pp.223-38: proponeRecanati,«forsenell’intervallo compreso fra il Sabato (fine di settembre)el’iniziodellacomposizione del Canto notturno (22 ottobre), che avrebbe appunto, con la sua tanto diversa ispirazione e tanto travagliata gestazione,impeditoalpoetadiportare a compimento l’idillio. […] Ma non è neppure da escludersi che il poeta avesse ritentato l’antico tema fin dalla primavera del ’29 e se ne fosse poi staccato prima di portarlo ad una perfetta esecuzione, distratto dal pensiero delle Ricordanze»; D. DE ROBERTIS, La data dei ‘Canti’ (1968, confuta la Corti nella Postilla I e nella Postilla II del 1969 replica alla replica di lei), nell’opera collettiva Leopardi e l’Ottocento. Atti del II Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 1-4 ottobre 1967), Firenze, Olschki, 1970, pp. 233-61: avvicina Il passero a Il tramonto della luna; B. BIRAL, Il passero solitario (1971), in ID.,LaposizionestoriadiG.Leopardi, cit.,pp.181-86:«Ilcanto[…]fuscritto, in una prima stesura a Recanati nel 1829, […] ma non ritoccato e perfezionato. Forse a Firenze l’ultima strofa, dissonante dalle altre due, acquistòquelsuotimbroluttuosoequel finalefattodiparolechepaionocadere cupamente nell’ombra»; D. DE ROBERTIS, Una «contraffazione» d’autore: il ‘Passero solitario’ (1976), in ID., Leopardi. La poesia, cit., pp. 279-332: propone una data tarda, prossimaal1835;M.MARTI,Leopardi, due sepolcri e un passero, in ID., I tempidell’ultimoLeopardi,cit.,pp.4769:identificaIlpasserosolitarioconil «morceaudepoésiesuperbe»,dicuiDe SinnerscriveaLeopardi,daParigi,il1o giugno 1832 (Epist., VI p. 187), alla quale «poésie» Giacomo lavorava nell’ottobre1832(cfr.G.LeopardiaL. DeSinner,Firenze,21giugno1832,in TO,Ip.1385);proponeRecanati,prima della partenza nell’aprile 1830, poi stesura compiuta piú tardi, probabilmente a Napoli; F. GAVAZZENI, L’unità dei ‘Canti’: varianti e strutture, premessa ai Canti, a cura sua e di M.M. LOMBARDI, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 29-34: indica, sulla base di ragioni sottili, «il tempochesiestendedalConsalvoadA sestesso». 2.Prezioso,inproposito,Zib.383742 (5 novembre 1823), sul tema dei giovani inclini a rifuggire i piaceri e i godimenti propri della loro età, nonché sull’educazionealoropiúconveniente: «Il giovane è in queste cose [nelle privazionideigodimenti]cosícostante, risoluto, forte, durevole, che gli educatori e quelli che han cura di lui, anche sommamente benevoli, assai spesso e il piú delle volte stimano tali risoluzioni e tali forme di vita essergli naturali, nascere dalle sue inclinazioni, esser conformi al suo vero carattere, e peròdeterminanodinondistornelo,non impedirnelo, di confermarvelo, di secondarlo, e cosí fanno, anche talora senz’alcun proprio interesse, per sola premura ed affezione verso di lui. E s’ingannanosommamente,eintalicasi lalorpocacognizionedelcuoreumano e de’ suoi mirabilissimi accidenti […] nuoce grandemente a quei poveri giovani, i quali ben potrebbero ancora, ma non senza molta forza e molto artifizio, essere strappati a quelle dure risoluzioni, azioni e abitudini, e riconciliati con se stessi e con la vita […]. Quindi e’ [questi poveri giovani] vivono e muoiono disperati e infelici, tanto piú quanto e’ credono felici gli altri, e che la loro infelicità, il lor soffrire,illoronongodere,oilnonaver mai goduto e sempre sofferto, sia provenutodaloro;laqualeopinioneeil qual pentimento è la piú amara parte chepossatrovarsiinqualunqueabituale o attuale infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo dell’infelicità». Si noti il finale «pentimento» come «colmo dell’infelicità»: «Ahi pentirommi, e spesso»(v.58). 3. Il corsivo spaziato evidenzia i componimenti ora inseriti per la prima volta. 4.Sirammenticheal1823risaleil Volgarizzamento della Satira sopra le donnedellostessoSemonide,inclusoin B26 e non piú riproposto (cfr. cap. XII par.3). 5. «In nessuna traduzione, forse, comeinquesta[DalgrecodiSimonide e Dello stesso] trovò e lasciò concordanza di ispirazione e lo stampo suo; nessuna come questa riecheggiò una nota della sua anima e della sua tristezza; in nessuna, cercando modi e parole,ascoltòprimadituttosestesso» (LEOPARDI, Canti, ed. G. DE ROBERTIS,cit.,p.372). 6. Si vedano le osservazioni di D’INTINO,Introduzione,cit.,pp. LVIIILIX. 7.NellastampaStaritadel1835,per esempio, in Ad Angelo Mai (v. 91) NostrisognileggiadrisostituisceNostri beati sogni, sull’onda non solo degli studileggiadridiASilvia19).Ilcorso, neiduecelebriversiinseritiinAllaluna (vv. 13-14) con le varianti autografe sull’esemplaredellastampaStarita,non comparemaiprimadelCantonotturno (v.15)maanchedeileggiadrierroridi Ilpensierodominante(v.112);Ilsogno (v. 33) muta cui la tomba estingue in che sotterra è spenta, introducendo un avverbio per la prima volta attestato (a parte il «frammento» Dal greco di Simonide)dalleduesepolcrali(epoida La ginestra); Il sabato corregge a la luce del vespro e de la luna con al biancheggiar della recente luna, che ricordailcontiguoEbiancheggiartrail verde all’aria bruna dei Paralipomeni (II 2 1); in Alla sua donna (v. 2) m’insegni passa a m’inspiri, presente due volte in Aspasia (vv. 50, 62); in Il risorgimento(vv.115-16)nonladomò ladura/tuaforza,overitàsitrasforma in non con la vista impura / l’infausta verità, che rilancia l’infausta vita di Amore e Morte (v. (v. 20), poi ritorna conIlpensierodominante(v.94),maè presenza attiva nel periodo napoletano (Sopra un basso rilievo, Palinodia, Il tramontodellalunaeLaginestra). XX LASATIRAFUORI DEICANTI 1.LALINEASATIRICAEINUOVI CREDENTI «Terribile ed awful è la potenza del riso; chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggiodimorire».1Lavena satirica ha una storia movimentata nell’opera di Leopardi, come controcanto del versante lirico, contrappunto inquieto e mordente, piú privato e segreto ma non occasionale. Immagazzina umori pugnaci, aspra contestazione ideologica, ma anche muove dal proposito di rinnovare la «ComicaItaliana»,bisognosa soprattutto di un’efficace terapia espressiva, di una «lingua al tempo stesso popolare e pura e conveniente».2 Le «armi del ridicolo» sono sempre tenute a portata di mano, da valersene come strumento conoscitivo, mezzo polemico o liberatorio, «massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo».3 Dalle «prosette satiriche» (1820-’22) alle Operette del 1824 il passo è piú lungo di quanto la cronologia del calendario non lasci sospettare. Quella satira sdegnosa, rovescio comicocaricaturale delle solenni canzoni, scaricata la molla dell’impegno storico e sociale, si depura nella saggezza delle Operette, nell’ironia del disincanto. Anche quest’ironica leggerezza può risentirsi e sulla pagina allora scattano striature satiriche, non piú contro la corruzione dei costumi, bensí contro la superbia dell’antropocentrismo e della pretesa perfettibilità umana. La «potenza del riso» non aggredisce i comportamenti deviatimalefalseideologie. La successiva e fondamentalefasedellasatira leopardiana coincide, dopo il 1830, con il secondo “risorgimento”, quello fiorentinonapoletano. Ora, con il definitivo addio a Recanati, il poeta supera quella morale dell’astensione maturata con le Operette, quindi sublimata nel primo “risorgimento” del 1828-’30, e celebra con il ciclo di Aspasia un’idea di «amore» che congiunge passione e coscienzacivile.Esceotenta di uscire dalla sua isolata riservatezza, come mostra il Preambolo a «Lo Spettatore Fiorentino», e attacca nel Tristano l’euforia ottimistica delle«opinioni»correnti(par. 21).Sentedidoversimisurare conlaculturacontemporanea e oppone il proprio pessimismo materialistico alla fiducia progressista dell’«Antologia», come allo spiritualismo cattolico dei «nuovi credenti» napoletani. La coscienza dello scontro senza possibilità di mediazione suggerisce il ricorso alle «armi del ridicolo», che ritornano nel Tristano, nei Pensieri, nella Palinodia, nei Paralipomeni dellaBatracomiomachia. A confronto della «potenza del riso» nella Palinodia,lapitturagrottesca dello zelo spiritualistico e religioso degli intellettuali partenopei, nel capitolo in terza rima I nuovi credenti (1835-’36)dedicatoall’amico Ranieri, ha sprezzatura piú acre, nonché piú personalizzata – come vuole ilcanonedelgenerebernesco –, e perciò il componimento non è entrato nei Canti.4 Obiettivo polemico diretto è in particolare la cerchia dei collaboratori e sostenitori del periodico «Il Progresso», editoaNapolidal1832–per iniziativa di Giuseppe Ricciardi – e attivo fino al 1846. Vi occupava un ruolo preminente lo scrittore Saverio Baldacchini, che «aveva le carte in regola per impersonare posizioni d’equilibrio»,5 ma che nondimeno concludeva un suosaggiodel1835,Delfine immediato d’ogni poesia, annoverando tra i «Grandi» Manzoni, ma non Leopardi, indirettamente apostrofato con perifrasi maligna: «Tra’ quali molto volentieri pongo ilManzoni;manontaluniche l’Alfieri chiamerebbe “Disinventori o inventor del nulla”, che né poeti, né versificatori sono, comunque gridino forte; ma spero che i buonigriderannoinfineanche piú forte di loro».6 Il che rende conto della pervicace avversione degli ambienti ufficiali napoletani verso l’autore dei Canti e delle Operette, non per nulla costretto al silenzio dal veto editoriale della censura borbonica. Non stupisce allora la replica adirata del poeta che rileva, in apertura del componimento, il discredito delle sue idee in ogni strada e sobborgo della città(vv.11-18): […]einbreveaccesa d’unconcordevolertuttainmio danno s’armaNapoliagaraalla difesa de’maccheronisuoi;ch’ai maccheroni antepostoilmorir,troppole pesa. Ecomprendernonsa,quando sonbuoni, comepervirtúlornonsien felici borghi,terre,provinciee nazioni. Poi gli strali s’indirizzano verso tipi concreti, allusivamentecaratterizzati:il «valoroso» Elpidio (secondo etimologia ‘l’uomo della speranza’, forse lo stesso Saverio Baldacchini), dal «fiato» (v. 32) maleodorante, che arde di «pietà» (v. 43) religiosa soltanto per conformismo; il giovane Galerio (‘il sereno’, l’ottimista, forse Emidio Cappelli o Raffaele Liberatore), dal muso di capra,impotenteeambizioso; e «un altro» (v. 66) che, minato dalla sifilide, grida tossendo: «Bella Italia, bel mondo, età felice, / dolce stato mortal!» (vv. 66-65). A differenza della Palinodia, il poeta ora non argomenta e non s’indigna con questi avversari, «credenti» anche peropportunismoinossequio alla moda, quanto soprattutto meschiniedissoluti.Silimita adisprezzarli(vv.76-78): Racquetatevi,amici.Avoinon tocca delleumanemiseriealcuna parte, chemiseranonèlagente sciocca. Solo di scorcio, dalle linee taglientidiritrattisfiguratida una fantasia deformante, affiorailnessotrainfelicitàe virtú di «alme ben nate» (v. 92), quindi prendono consistenza, su uno sfondo partenopeo di ilare sconsideratezza, l’antitetica identità di un «io» che «il vivere» chiama «arido e tristo»(v.72),lasolitudinedi un «cor» che non vuole rinunciarealsognodiqualche «gentilcosa»(v.98). 2.PARALIPOMENIDELLA BATRACOMIOMACHIA I differenti motivi satirici degli ultimi anni, tra Firenze e Napoli, convergono nell’epicentro basilare dei Paralipomeni della Batracomiomachia, composti tra il 1831 e il 1837,7 editi postumi a Parigi nel 1842, presso Baudry, a cura di Ranieri. Il poemetto (otto canti per complessive 375 ottave) si presenta come continuazione (“paralipomeni”, cioè ‘cose omesse’,dunque‘appendice’) dellafavolapseudomericatre volte tradotta da Leopardi ed è opera assolutamente originale, che trova una base documentarianella Storiadel Reame di Napoli di Pietro Colletta(editanel1834mada Giacomo conosciuta manoscritta) e un precedente letterario negli Animali parlanti di Giambattista Casti. La scelta di protagonisti zoomorfi – tratti da un bestiario non nobile, ma infimo e degradato – rende evidente la prospettiva antieroica dell’allegoria politica, sottesa alla finzione animalescaeriferitaalquadro dell’Italia e dell’Europa durantelaRestaurazione,con riferimento ai moti del 1820-’21 e del 1831: i topi (guidati dal valoroso Rubatocchi, hanno eletto come ambasciatore il conte Leccafondi) alludono ai liberali,leraneailegittimisti, i granchi agli Austriaci (il loro re è Senzacapo, un despotasuperbo,eilgenerale è Brancaforte). Il dileggio colpisceduramenteigranchi, efferati e ottusi («orrendo / esercito di bruti ingordi e strani», I135-6).Chihaloro affidato il privilegio di presiedere all’universale equilibrio politico, vigili e pronti a punire chi si sia azzardato a espandersi?, domanda il conte Leccafondi (II363-8): maqualnumeordinòche presedesse all’equilibriogeneralde’mondi lanazionde’granchie ch’attendesse aguardarsepiúlarghiosepiú tondi fosserchenondoveantopio ranocchi pertrarloroolepolpeoilnaso ogliocchi? Larispostavienedalgenerale Brancaforte (ivi, 37 1-2): «Noi, disse il General, siam birri appunto / d’Europa e boiaeprofessiamquest’arte». Ma è risposta tautologica, onde Leccafondi insiste (ivi, 39,1-6): Chitalcarcovidiè?richieseil conte: Lacrosta,disse,dichesiam vestiti, el’essersenzanécervelné fronte, sicuri,invariabili,impietriti quantoilcoralloedilcristaldi monte perdurezzafamosiintuttiiliti. L’effetto comico scaturisce dall’inconsapevole autocaricaturadiBrancaforte, tanto sicuro di sé da non avvedersi della carica derisoria e deformante del proprioautoritratto. Lapolemicasirivolgepiú blanda verso i topi, generosi nel loro patriottismo, quanto velleitari, astrattamente verbosi e inclini al compromesso. Tutt’altro, dunque, che satira antiliberale, bensí tempestiva diagnosi dei limiti storici del nostroRisorgimento. Ma il dissenso profondo trascende (ancora una volta) il piano politico e si misura sul piano filosoficoconoscitivo. Il gusto umoristicamente digressivo del racconto, lo scatto inventivo, la comicità fantasiosa, l’estro ammiccante, l’epos beffardo, l’ironia livida e scarna, la secchezza caricaturale, il sarcasmo del «mal pensante» (V 24 3) cooperano all’irrisione asciutta e tragica degli idoli contemporanei: l’antropocentrismo,8 la fiducia in un irreversibile progresso, lo spiritualismo cristiano, come nella grandiosa e dissacrante figurazione parodica dell’Avernotopesco,neicanti VII-VIII, dove «il brivido metafisico del Coro di morti del Ruysch riaffiora fra il sinistroeilgrottesco».9 Al dettato figurativo, allusivo, indiretto del racconto, si alterna la parola esplicita e diretta del narratore, che ribadisce i cardini della propria argomentazione concettuale, come in IV 14-16, dove sono poste a contrasto la «filosofia» dominante nel «secolnostro»ela«filosofia» illuministica: Nonèfilosofiasenonun’arte laqualdiciòchel’uomoè risoluto dicredercircaaqualsivoglia parte, comemeglioallafinl’è conceduto, leragioniassegnandoempiele carte oleorecchietalorper instituto,10 conpiúd’ingegnoomen,giusta ilpotere11 cheilmaestrool’autorsitrova avere. Quellafilosofiadicoche impera nelsecolnostrosenzaguerra alcuna, echeconguerrapiúomen leggera ebbeneglialtrinonminor fortuna, fuornelprossimoaquesto,12 oveseintera lamiamenteosodir,portò ciascuna facoltànostraaquellecimeil passo ondetostoinchinarl’èforzaal basso. Inquell’età,d’un’aspra guerrainonta,13 altrafilosofiaregnarfuvista, acuidinanzivalorosaepronta l’etànostraarretrossiappena avvista diciòchepiúlespiaceeche piúmonta, esserquellainsostanzaamarae trista; noncheiprincipiiinleinéle premesse mostrarfalsedasébenben sapesse.14 Davvero comoda una «filosofia» che innalza a sistema teorico ciò che fa piacerecredere,quantoardua e dolorosa l’«altra filosofia», che toglie la quiete e comunicaunaverità«amarae trista».Diquipromana,senza indulgenza, il tono corrosivo e anche acre dei Paralipomeni. La diagnosi non prescrive ricette curative e le «armi del ridicolo» confermano nel «mal pensante» la coscienza della propriaemarginazione.Mala verve comica e il liberatorio «coraggiodiridere»nonsolo tonificanoladisperazione,ma ne rivelano anche l’irriducibile vitalità, l’«entusiasmo» teoretico che «ravviva»il«cuore».15 1.Zib.4391(23settembre1828). 2.Disegniletterari,III3(1819?),in TO,Ip.368. 3.Zib.1393(27luglio1821). 4. Ranieri afferma di non avere incluso I nuovi credenti nei Canti del 1845 per volontà dell’autore. Cfr. A. Ranieri a L. De Sinner, Napoli, 11 agosto 1877 (ma 1844), in PIERGILI, Nuovidocumentiintornoallavitaeagli scritti di G. Leopardi, cit., p. 282: «mi sono ardito di toglier di mezzo una satiretta, dove erano offesi personalmente e terribilmente tre viventi; e questo ho fatto dopo averne ottenuto il permesso dell’autore, e per una ragione troppo urgente, qual’era un’offesapersonale». 5.M.MARTI,LeopardiaNapoli,in ID.,Itempidell’ultimoLeopardi,cit.,p. 128. 6. S. BALDACCHINI, Del fine immediato d’ogni poesia, in ID., Purismo e Romanticismo, a cura di E. CIONE, Bari, Laterza, 1936, p. 57, cit. ibid. 7. Si ritiene che l’opera sia stata iniziataaFirenzenel1831,perchéinI4 si cita come avvenuta «dianzi» (v. 1), ossia‘dapoco’,lasconfittadeiBelgia Lovanio, da parte degli Olandesi, in data12agosto1831. 8. Argutamente bersagliato nel conte Leccafondi, facendo leva sull’orgogliotopescodelpersonaggio(I 411-8):«Fudisuaspecieilconteassai pensoso,/filosofomorale,efilotopo;/ enaturalodòcheilsuofamoso/poter mostri quaggiú formando il topo; / di cuil’opre,l’ingegnoeilglorioso/stato ammirava; e predicea che dopo / non molto lunga età, saria matura / l’alta sortechealuidavanatura». 9.RIGONI,Commentoenote,cit.,p. 1007. 10. la qual … instituto: la quale, escogitando le giustificazioni (le ragioniassegnando), come meglio alla fine le è consentito, di ciò che l’uomo hadecisodicredereintornoaqualsiasi argomento, talora per professione (per instituto) riempie i libri o le orecchie (degliallievi). 11.giustailpotere:inrapportoalle capacità. 12. fuor… a questo: fuorché nel secoloprecedente. 13. d’un’aspra … onta: malgrado unaviolentaopposizione. 14. non che … sapesse: non già perché(l’etànostra)riuscisseconlesue forze (da sé ben ben sapesse) a confutare i princípi e le premesse di quellafilosofia(inlei). 15.Zib.260(4ottobre1820). XXI DALLOZIBALDONE AIPENSIERI 1.LOSPETTACOLODEL «MONDO» I centoundici Pensieri (editipostuminelleOperedel 1845 a cura di Ranieri) sono probabilmente redatti tra il 1832, quando tace per sempre,il4dicembre,lavoce dello Zibaldone, e il 1836, quando Leopardi parla a De Sinner di «un libro del tutto inedito»1 da pubblicare a Parigi, dopo il veto della censura partenopea alla stampa Starita. Il progetto non va in porto, ma che il «libro» annunciato sia quello dei Pensieri è confermato da altra lettera, sempre a De Sinner, di poco successiva: «Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractèresdeshommesetsur leur conduite dans la Société».2 Materia, dunque, etica e sociale, sui caratteri, sui costumi, sui comportamenti umaninellavitadirelazione: un tema di antico interesse, discusso nelle «prosette satiriche» (1820-’22), in moltiappuntidelloZibaldone (come mostra anche l’Indice d’autore del 1827), nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), nonché registrato piú volte nei Disegni letterari (XI-XII, 1828-’29). La novità dei Pensieri–compiutieallestiti per la stampa, diversamente datuttiitestisopraricordati– sta nel fatto che la materia è ora trattata nella concisa asciuttezza di aforismi taglienti. Ma l’innovazione non sta soltanto nel levigato nitore dello stile, che è il segno di una mutata lucidità diagnostica. La ricerca dell’utile individuale, l’orgoglio e il profitto, l’alterigia e la mercificazionedituttiivalori ideali, la frode e la vanagloria, l’incultura oppressiva e l’«infame accanimento» contro i «virtuosi» (XVI): tale lo spettacolo che l’io osservatore vede rappresentato sulla scena del «mondo», popolata da nuovi eroi, ma «eroi vili», da «uomini dediti a far danari» (VII), devoti alla «roba» (XCIV) e alla legge arrogante della forza. Nella «commedia»dellavita(XXIII), un motivo ossessivamente ricorrenteèlafinzione:verso glialtricomedissimulazione, per cui anche ogni piú spontanea profferta d’aiuto non è da considerarsi altro che «un purissimo suono di sillabe» (LII); verso se stessi come autoinganno, tanto che ciascuno considera vere quelle credenze che gli sono necessarie «alla tranquillità dell’animo» (LIV). Il meccanismo della finzione produce la «discordia tra i dettieifatti»,lascissionetra le cose e i loro nomi («il mondoparlacostantementein una maniera, ed opera costantemente in un’altra», XXIII),traildoppiogiocodelle parole che accreditano come attualivalorieticiscomparsie la realtà dei fatti che di quei valori è la smentita quotidiana. Di qui il comune dispiego di energie nell’ostinazione dell’«odio intenso di ciascuno contro ciascuno»(XCIV), nella «lotta di ciascuno contro tutti, e di tutti contro ciascuno» (C); di qui la cecità collettiva di fronte a «mali» inevitabili: «Gli uomini sono miseri per necessità,erisolutidicredersi miseriperaccidente»(XXXI). In siffatta fenomenologia della violenza e dell’impostura, dell’etica e della semantica capovolte, nonsiassolutizza,irrigiditoe astorico, il giudizio sulla società da parte dell’autore dei Pensieri. Questi aforismi non trasmettono l’acre concetrato di una metafisica dei costumi, bensí esprimono unavalutazionestorica.Sono lontaniitempidelle«prosette satiriche», della loro ira e dellaloropedagogiafiduciosa in un arduo eppure non impossibile rinnovamento morale. Con la mutata idea della natura – dalle Operette ai canti pisano-recanatesi –, all’odio contro l’umana malvagità è subentrato, sappiamo, un senso di comprensiva commiserazione: La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parereachilaguardasuperficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia […]. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente,rivolgel’odio,osenonaltro il lamento, a principio piú alto, all’origineverade’malide’viventi.3 L’occhio si è spostato dall’individuo-cittadino all’individuo-uomo, alla pianta-uomo come vivente e mortale. Ma dopo il 1830, con il secondo soggiorno fiorentino e poi il periodo napoletano, il poeta si confronta con le istituzioni della cultura e della politica contemporanee. La meditazione su se stesso e sulla pianta-uomo torna a intrecciarsi con la riflessione sui propri rapporti con gli altri e sull’individuo come cittadino, come «animale» sociale: da Il pensiero dominante al Tristano, dalla Palinodia a I nuovi credenti, ai Paralipomeni, a La ginestra. I Pensieri appartengono a questa famiglia e sono la risposta all’utilitarismo e all’ottimismo riformistico propugnati dai fautori della modernità. Dimenticata da tempo la giovanile misantropia, ora però vengono meno anche il disinteresse e la benevola indulgenza nei riguardi dell’agire sociale. Non piú ira, come una volta, ma sdegno, non invettiva ma denuncia. Alla pietas per l’inevitabile infelicità della sorte comune, non si accompagna la remissione dellecolpeumane.I Pensieri presuppongono il passo dello Zibaldonesoprariportato,ma anche presuppongono la smentitadiunincisochepure èdecisivoinquelmemorabile brano: «discolpando gli uominitotalmente».Allareità della natura non si contrapponel’innocenzadelle sue vittime, bensí si assommano i loro misfatti. Vittime colpevoli. Le responsabilitàchespettano«a principiopiúalto»,allanatura come «madre di parto e di volermatrigna»(Laginestra, v. 125), non deresponsabilizzano i «figli» enonservonodaalibi. Tra la diagnosi dei Pensieri e il solidarismo invocato con La ginestra, in quanto fratellanza di tutta l’«umana compagnia» (v. 129), non c’è contraddizione, nella logica paradossale del contrappunto tra pessimismo e illusione. Anzi i Pensieri aiutano a meglio comprendere non soltanto il fondo disperato di quell’appello solidaristico, in vistadiuna«guerra»(v.135) che schiera in campo forze troppodiseguali,maanchela genesi critica, antisentimentale e anticonsolatoria, di quella consociazione ispirata da «vero amor» (v. 132). Un sentimento, questo, evocato come un fantasma; con forte tensione tragica, con austera non-rassegnazionedapartedi un poeta che nella impietosa fermezza testimoniale dei suoi aforismi si è dimostrato benespertodellaevanescente rarità del «vero amor», ben intendentedel«mondo»come «lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili controigenerosi»(I). 2.UNCASOSINTOMATICODI RISCRITTURA I Pensieri derivano in buona parte dallo Zibaldone. Perciò alcuni interpreti vi hanno lamentato l’assenza dell’aspetto “creativo” e hanno parlato di stanco repêchage, lasciando intenderechelaraccoltanulla o poco di nuovo avrebbe da dire in senso stilistico e concettuale.Anzi,addirittura, il tardo recupero di appunti scritti molti anni prima, estrapolati come rami secchi dalmagmainfermentodiuna pulsante diacronia diaristica, avrebbe conseguito l’effetto dell’appiattimentosincronico. Le cose non stanno cosí. Bastino due soli esempi.4 Si vedailpensieroXXVIII: Ilgenereumanoe,dalsoloindividuoin fuori, qualunque minima porzione di esso,sidivideindueparti:gliuniusano prepotenza, e gli altri la soffrono. Né legge né forza alcuna, né progresso di filosofia né di civiltà potendo impedire che uomo nato o da nascere non sia o degliuniodeglialtri,restachechipuò eleggere, elegga. Vero è che non tutti possono,nésempre. Lo spunto si trova in Zib. 1721(17settembre1821): Non si vive al mondo che di prepotenza. Se tu non vuoi o non sai adoperarla,glialtril’adoprerannosudi te. Siate dunque prepotenti. Cosí dico dell’impostura. Dallo stesso tema della «prepotenza», pianta sempreverde nel paesaggio del «mondo», discendono deduzioni diverse. Sul piano esternamente enunciativo, il primoperiododelpassotratto dalloZibaldoneeilprimodel pensiero coincidono: o si esercita la prepotenza o la si subisce. Ne deriva nel 1821, di fronte allo sconforto di questa affermazione, una sorta di polemica rivincita in positivo («Siate dunque prepotenti»): segno che quellosconfortononnasceda una sistematica riflessione critica sulla debolezza e precarietà dell’umana condizione; esso anzi può consentire d’intravedere, se nonunospiragliodisalvezza, almeno una terapia liberatoria, tanto da tradursi inunconsigliopratico,inuna regola attiva di comportamento. Anche nei Pensieri, in altri casi, dinanzi alla nefandezza del costume sociale si reagisce con consigli aggressivi. Non qui, perché la «prepotenza» è un dono, un’arte che non si apprende, o appresa non si può sempre manifestare. Una labile spia è già nello Zibaldone(«Setunonvuoio non sai adoperarla»), ma lí rimane premessa senza sviluppo. Invece nell’aforisma, a rincalzo del primo periodo, segue l’appassionata quanto ferma smentita di ogni pretesa idea di progresso, allo scopo di ratificare, senza possibilità di dubbio, l’enunciato iniziale. Poi, in luogo dell’antico consiglio, non piú che una disillusaconstatazione(«resta che chi può eleggere, elegga»), ma con la fondamentaleconsapevolezza che la scelta non è libera e dipende dalle persone, dalle circostanze,daitempi.Nonsi trattapiúsoltantodi“volere” o “sapere”, ma di “potere” adoperare la «prepotenza». Cosí il «mondo» non si configura piú soltanto abitato da prepotenti e da oppressi, bensí anche da una nuova categoria, quella degli oppressori potenziali e impotenti, che subiscono perché impossibilitati a opprimere.VieneinmenteLa Rochefoucauld, Maximes, 237: «Nul ne mérite d’être loué de bonté, s’il n’a pas la force d’être méchant» (‘Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà, se non ha la forza di essere cattivo’). Non è questione di sceltamadipossibilità,valea dire di forza. Ai vari meccanismi della violenza sociale, studiati da Leopardi, si aggiunge qui un ulteriore ingranaggio, sottilmente perverso, non contemplato nelpassodelloZibaldone. SileggailpensieroLXVI: Nel secolo presente i neri sono creduti di razza e di origine totalmente diversi da’ bianchi, e nondimeno totalmente uguali a questi in quanto è a diritti umani. Nel secolo decimosesto i neri, credutiavereunaradicecoibianchi,ed essereunastessafamiglia,fusostenuto, massimamente da’ teologi spagnuoli, che in quanto a diritti, fossero per natura, e per volontà divina, di gran lunga inferiori a noi. E nell’uno e nell’altro secolo i neri furono e sono venduti e comperati, e fatti lavorare in catene sotto la sferza. Tale è l’etica; e tanto le credenze in materia di morale hannochefarecolleazioni. Si confronti con Zib. 4300 (Pisa,14gennaio1828): Cosa curiosa, e notabile per chi vuol conoscere la storia, e dalla storia inferire il valore delle opinioni degli uominiintornoaidirittieaidoveri,siè che ne’ secoli passati i negri erano creduti d’una origine e quindi d’una famiglia stessa co’ bianchi, e pur quei medesimi che li tenevano per tali, sostenevano la ineguaglianza naturale di diritti tra i bianchi e loro, la inferioritàdeinegri,elagiustiziadella loro servitú, anzi schiavitú ed oppressione: oggi i negri sono conosciutidiorigine,eperòdifamiglia, onninamente diversa dai bianchi, e quellicheglihannopertali,sostengono la loro uguaglianza sociale rispetto a noi,elaparitàde’lorodiritti,elatotale ingiustizia del farli schiavi, o maltrattarli, o dominarli, e l’assurdità dell’opinioneanticaintalproposito. La distanza del pensiero dall’equivalente luogo dello Zibaldone è notevole, per impianto retorico-formale e concettuale.Nelparagrafodel diario, dove si tratta di «storia» («per chi vuol conoscere la storia»), l’esemplificazione procede dai «secoli passati» all’«oggi»erilevaunapalese contraddizionetraetnologiae morale.Nelpensierol’ordine cronologicoèribaltatoesiva all’indietro, dal «secolo presente» al «secolo decimosesto»: l’inversione serve ad anticipare in primo piano il presunto progresso umanitario del presente – l’«Aureo secolo» dell’«Universale amore» derisonellaPalinodia,vv.38 sgg.–,alloscopodidarepiú risaltoallasmentitaintrodotta nei due periodi conclusivi, nuovirispettoalloZibaldone. Si badi, nel penultimo periodo,alrichiamochiastico che le due forme verbali «furono e sono» istituiscono con il «secolo presente» e il «secolo decimosesto», a confermare la studiata struttura del pensiero che punta all’evidenza sconcertante di quel «sono». Ora non è piú soltanto questione di «storia» e di relatività nella storia delle credenze morali («il valore delle opinioni degli uomini intornoaidirittieaidoveri»: motivogiàconsideratoinZib. 452, 22 dicembre 1820), ma di conflitto tra «etica» e «azioni», quindi di subordinazione della morale all’utile, con i corollari della violenza e del sopruso istituzionalizzati. Il sistema delle derivazionidallo Zibaldone– scelta e riscrittura – parla chiaro. Indica una volontà di originale rielaborazione che meglio definisce la specifica fisionomiadeiPensieri,come operadaiconnotaticoerentie nuovi, anzitutto intesa all’indagine spregiudicata della «società», all’analisi dell’individuo e dei suoi rapporti con i propri simili, giustoiltitoloprogrammatico trasmesso il 2 marzo 1837 a De Sinner: «Pensées sur les caractèresdeshommesetsur leur conduite dans la Société». Ogni selezione ubbidisce a un orientamento di scelta e dall’immenso serbatoio dello Zibaldone possono defluire innumerevoli fiumi. Non soltanto la scelta è autonomamente orientata, quindi viva, ma è anche attentamentecalibratanelsuo disegno interno: coerente e storicizzata, funzionale al nuovo sistema ideologicoespressivo dell’ultimo Leopardi. Un caso sintomatico di riscrittura, tenuta sul registro di una prosa tornita con effetti di impersonalelucentezza:senza iltumultoeglisfoghieanche la vibrata gesticolazione fantastica di talune celebrate pagine dello Zibaldone. In forme traslucide e disadorne, che hanno reso invisibili i segni del cesello, si distilla uno stile di epigrafica, cristallinadensità. 1. G. Leopardi a L. De Sinner, Napoli, 22 dicembre 1836, in TO, I p. 1415. 2. G. Leopardi a L. De Sinner, Napoli,2marzo1837,ivi,p.1416. 3.Zib.4428(2gennaio1829). 4. Per altri esempi, rinvio al mio studioGli aforismi leopardiani (1994), inTELLINI, L’arte della prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, cit., pp. 155-83. Sull’argomento, cfr. anche F. MECATTI, «Per isvagamento del lettore». Firenze e Napoli nei ‘Pensieri’, in «La Rassegna della letteratura italiana», s. IX 1999, 1 pp. 274-301. XXII LAPROSA EPISTOLARE 1.AUTOCONTROLLOE CONFESSIONE In un secolo come l’Ottocento che esibisce epistolografi d’eccezione (Foscolo, ma pure Manzoni, poi Tommaseo e Nievo e Carducci), a Leopardi spetta con unanime consenso un posto d’onore. Anche nella sua scrittura epistolare, come avvieneinFoscolo(nonperò nel razionalista e antiautobiografico e sliricato Manzoni), parla la voce del «cuore». Ma è un «cuore» diverso da quello foscoliano: ha accezione sensistica e materialistica,nonromantico- sentimentale.Nonèeffusione odeliriodellepassioni,bensí facoltà immaginativa, lucido sogno a occhi aperti. Questo «cuore», nutrito di forte componente intellettuale, aiuta a intendere perché Leopardi non sia un poeta d’amore,maungrandepoeta del disincanto amoroso: il controllo della ragione presiede costantemente ai «moti del cor profondo» (Il risorgimento, v. 6). La piú intensa poesia d’amore dei Canti s’intitola non per nulla Il pensiero dominante e la parola «amore» non vi è mai nominata, soltanto due volte la parola «core», di scorcio e mai riferita all’io protagonista:amore,appunto, come «pensiero» che padroneggia la «profonda mente». Non solo Leopardi è il poeta dell’amore non goduto, patito come disinganno,maancheilpoeta delle illusioni vagheggiate e sofferte nel momento della smentita, quando ne rimpiange la scomparsa o ne avverte la reale impraticabilità. Questa consapevolezza del vero, apertamente conclamata o lasciata implicita, frena gli stimoli dell’espansività, della curiosità per gli accadimenti pubblici, della socievolezza mondana,delladimestichezza affettiva. Ne deriva allo statutoepistolarediLeopardi, rispetto a quello di Foscolo, una molto piú esile disponibilità comunicativa e diconseguenzaunamoltopiú accentuata selezione nella scelta degli interlocutori, un’angolatura gelosamente autoprotettiva. I fatti della storianonentranoinscena,si svolgono in lontananza, distanti da queste pagine. Onde il tono di pensosa stasi contemplativaeautoanalitica, anche di calibrato riserbo confidenziale, che sono il riflesso di una vita vissuta in disparte,senzascosseesterne, senza sobbalzi di eventi memorabili:«Mavieestplus uniforme que le mouvement des astres».1 Il piacere del dialogononsisocializza,non si esterna come in Foscolo nello scrivere lettere, ma si consuma in solitudine, nel solitario, tortuoso e fermentante soliloquio dello Zibaldone. Lo stile della missiva leopardiana è dunque antinomico e conflittuale: la disciplina dell’autocontrollo tiene a bada gli impeti della confessione, i lampeggiamenti di un’interiorità disperata, di un insaziato bisogno d’affetto. Di qui l’antiesornatività di questa scrittura, spesso spoglia e severa. I gradi dell’intreccio tra autocontrollo e confessione, tra volontà di dire e volontà di tacere, variano con il variare dei corrispondenti. Nel carteggio con il padre, che nell’intero epistolario occupalazonapiúcospicuae piú avvelenata, il conflitto esistenziale del figlio comporta,s’èvisto,ilricorso agli accorgimenti difensivi della reticenza e della dissimulazione. Nelle lettere alfratelloCarlooaPaolinail freno si allenta verso il disvelamento di sé, con una schiettezza cordiale, ora ridente e giocosa, ora tenuta sul filo di una commozione che comunica segrete risonanze etiche e sentimentali. Accade in due mirabili missive a Carlo, quellacelebredel20febbraio 1823, da Roma, per descrivergli il «piacere delle lagrime»2 dinanzi all’umile sepolcro del Tasso; e l’altra del 30 maggio 1826, da Bologna, per confidargli l’amore (sogno momentaneo e malamente svanito) per la nonnominatacontessaTeresa Carniani Malvezzi, «donna […] di una grazia e di uno spirito» che creano «un’illusione maravigliosa», creatura salvifica, che pare sopraggiunta da remote lontananze come un angelo celestecheridonalavita(«ha risuscitatoilmiocuore,dopo un sonno anzi una morte completa, durata per tanti anni»).3 E proprio a Carlo grida da Roma, come invocazione e supplica: «Amami, per Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita».4 Accade anche, per esempio,nellasolareletteraa Paolina, da Pisa, del 12 novembre 1827, che disegna un ambiente cittadino contemplato con incantato stupore: «Vi si passeggia poi nell’invernocongranpiacere, perché v’è quasi sempre un’aria di primavera: sicché in certe ore del giorno quella contrada [il lung’Arno] è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte dibellaarchitettura».5Anche si allenta, il freno, nelle lettere a Giordani, come sappiamo, dove vibra piú acuto lo sdegno contro la propriamalasortedireclusoe insiemesipalesapiúscoperto il gusto concitato dell’autoritrattoeroico.Enon di rado nelle lettere ai rari amici, da Brighenti a De Sinner, da Vieusseux al cuginoMelchiorri,oallacara AntoniettaTommasini. 2.L’«UOMOINSE» Il dato piú rilevante che affioracomechiavedilettura perl’interoepistolario,6trale maglieorapiúserrateorapiú scioltedellarivelazionedisé, è il fatto che l’occhio dello scrivente non cura tanto il rapportodell’ioconilmondo esterno, quanto l’autoanalisi: non (foscolianamente) per la teatrale sceneggiatura del personaggio-io, né per inclinazione autoinquisitoria (come in Tommaseo), bensí per lo studio, anche spassionato, dell’uomo in sé, come individuo vivente, considerato nei suoi rapporti con la vita della natura e del cosmo.7 Eloquente la lettera, chegiàconosciamo,inviataa Vieusseux, gentile e risoluta, il4marzo1826,daBologna, in cui il poeta si dichiara disinteressato alle cose del mondo e ai «rapporti scambievoli» tra gli uomini, perché la sua attenzione è rivolta al didentro del «cuore»edel«propriopetto» (Palinodia, v. 235), all’osservazione di sé come essere biologico, come creatura mortale: «sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della natura». Si sa che questa lettera confessa un distacco dalle«cosedellasocietà»che sarebbe poi scomparso negli anni successivi. Nondimeno essaponenellagiustalucelo stile dominante nell’epistolario leopardiano: lo stile nudo della solitudine, di una sconsolata eppure magnanima condizione interiore divenuta forza conoscitiva, strumento di riflessione e di analisi introspettiva applicate alla vivaesperienzadell’esistere. Cheunapartenonpiccola delle lettere sia occupata dal temaossessivodellamalattia, non si spiega soltanto per la tragica circostanza delle innumerevoli infermità che hanno logorato una gracile «complessionediragnatelo»,8 ma anche per l’attitudine permanente, divenuta assuefazione,ameditaresulla «civiltà […] del corpo»,9 sulla fragilità dell’organismo umano, sui fili invisibili che unisconoilfisicoallamentee al carattere, come aspetto determinante dell’indagine sull’«uomo in se». Quando, dopo l’indispozione causata daunapiagachegliimpediva di camminare, Giacomo scrive a Carlo di essere «in piedi, e posso dir guarito, dopo duecent’ore giuste di letto»,10 dice anche che quelle«ore»lehacontateuna a una, nell’assorta solitudine della sua camera, a tu per tu consestessoeisuoimalanni, mentre agogna invano la salute come «il principale, anzil’unicobenecheiocerco in questa vita».11 I bollettini sanitari, per lo piú infausti, che con turbativa fissità punteggiano la corrispondenza, sono riflesso anche di questa inchiesta intorno alle misteriose leggi che regolano la «costruzione organica»12dell’individuo: Tuttiimieiorgani,diconoimedici,son sani; ma nessuno può essere adoperato senzagranpena,acausadiunaestrema, inaudita sensibilità, che da tre anni ostinatissimamente cresce ogni giorno: quasi ogni azione, e quasi ogni sensazionemidàdolore.13 I referti dell’epistolario testimoniano con spietata progressione il tormentato disfacimento di una «povera macchina»14 in precario equilibrio tra la vita e la morte,15 fino al momento dell’estrema “guarigione”,16 eppure la pena di una cosí lunga sofferenza non diventa lamentazione privata, né provocascattidirisentimento per la propria individuale malasorte.L’iosièconvertito nell’«uomo in se» ed ha appreso la dignitosa virtú di non contrastare il «fato», come insegna in ultimo il Parini17 e come sa la «lenta ginestra».18 1. G. Leopardi ad A. Jacopssen, Recanati, 23 giugno 1823, in TO, I p. 1166. 2. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma,20febbraio1823,ivi,p.1150. 3. G. Leopardi al fratello Carlo, Bologna,30maggio1826,ivi,p.1254. Su questa lettera e sulla donna che vi appare come «visitatrice dell’anima», cfr. A. MOMIGLIANO, Il carteggio di Leopardi (1941), in ID., Cinque saggi, Firenze,Sansoni,1945,pp.139-75. 4. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma, 25 novembre 1822, in TO, I p. 1130.SiconsideriancheG.Leopardia G.Vieusseux,Pisa,16novembre1827, ivi,p.1298:«oramaifomoltopiúconto dell’affetto che della stima degli uomini; e però avrei maggior concetto di me stesso se mi credessi capace di farmi amare, che di farmi stimare»; G. Leopardi ad A. Tommasini, Firenze, 5 luglio 1828, ivi, p. 1318: «Io non ho bisognodistima,nédigloria,néd’altre cosesimili;mahobisognod’amore». 5. G. Leopardi alla sorella Paolina, Pisa,12novembre1827,ivi,p.1296. 6. Il Leopardi epistolografo è stato studiatoconattenzionedaL.DIAFANI, La «stanza silenziosa». Studio sull’epistolariodiLeopardi,Firenze,Le Lettere,2000. 7. «Non cerco altro piú fuorché il vero,chehogiàtantoodiatoedetestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degliuominiedellecose,ed’inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo» (G. Leopardi a P. Giordani, Recanati, 6 maggio 1825, in TO,Ip.1198). 8. G. Leopardi a L. Mazzanti, Bologna, 30 dicembre 1825, ivi, p. 1231. 9.Zib. 4291 (Firenze, 20 settembre 1827). 10. G. Leopardi al fratello Carlo, Roma, 22 gennaio 1823, in TO, I p. 1143. 11. G. Leopardi ad A. Papadopoli, Bologna,3settembre1826,ivi,p.1263. 12.Zib.372(2dicembre1820). 13. G. Leopardi ad A. Tommasini, Firenze, 19 giugno 1830, in TO, I p. 1349. 14.G.Leopardialpadre,Napoli,9 marzo1837,ivi,p.1417. 15. G. Leopardi ad A. Ranieri, Firenze, 5 gennaio 1833, ivi, p. 1396: «Madimenontemermainulla:ionon corro pericoli, e se anche ammalassi, nientesiconchiuderebbe,perchélavita cheho,nonètanta,cheabbialaforzadi ammazzarmi»; alla sorella Paolina, Firenze, 6 maggio 1833, ivi, p. 1401: «ma siate tranquillissimi: io non posso morire: la mia macchina (cosí dice ancheilmioeccellentemedico)nonha vita bastante a concepire una malattia mortale». 16.G.Leopardialpadre,Napoli,27 maggio 1837, ivi, p. 1419: «prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocché dopoch’iogliavròrivedutiunabuonae pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti». 17.«Mailnostrofato,dovecheegli citragga,èdaseguireconanimofortee grande;laqualcosaèrichiestamassime alla tua virtú, e di quelli che ti somigliano»(XIIpar.5). 18. «[…] E piegherai / sotto il fasciomortalnonrenitente/iltuocapo innocente»(vv.304-6). XXIII L’ESTREMO CONGEDODEL POETA 1.ILTRAMONTODELLALUNA I due ultimi componimentideiCantisono composti dopo la stampa napoletanadel1835,conogni probabilità nella primavera 1836, prima La ginestra, o il fiore del deserto, poi Il tramonto della luna, ma destinati dall’autore a una nuova edizione (che sarà la postuma del 1845), rispettivamente come XXXIII (Il tramonto) e XXXIV (La ginestra), dunque tra la Palinodiaelafinalesequenza (Imitazione e Scherzo) che precedeiFrammenti.1 Súbito successiva nell’ordine del libro alla Palinodia, la liricità impersonale intonata con Il tramontodellalunaintroduce uno scarto stridente con l’io energico e satirico che parla al «candido Gino» (dove nondimeno, al v. 278, il binomio «vecchiezza e gioventú del par contente» prelude in chiave ironica al nucleo concettuale che regge Iltramonto).Oraquell’iosiè eclissatodietrolequinteeha lasciata libera la scena alle ombre delle sepolcrali. Di contro alla tradizionale antitesi giorno-notte, come metafora del rapporto vitamorte, è geniale invenzione l’antitesi notte lunare-notte senza luna che occupa le prime due strofe (vv.1-33)legateunaall’altra dalla«mestamelodia»(v.16) di un lentissimo, sospeso e singultato flusso sintattico. Ritornano le forme e l’evocativa musicalità dell’idillio nella splendida inquadratura iniziale del notturno lunare (vv. 1-12), motivo principe dell’ispirazione leopardiana, da Alla luna al Canto notturno: Qualeinnottesolinga, sovracampagneinargentateed acque, là’vezefiroaleggia, emillevaghiaspetti eingannevoliobbietti fingonl’ombrelontane infral’ondetranquille eramiesiepiecollinettee ville; giuntaalconfindelcielo, dietroApenninoodAlpe,odel Tirreno nell’infinitoseno scendelaluna;esiscolorail mondo[…]. Svanisce la suggestione di unarealtàbaluginantedivita, di«millevaghiaspetti»(v.4), di «ingannevoli obbietti» (v. 5) e il mondo rivela un volto funebre e muto. Il verbo «scolora» (v. 12) dice non solo la fine della vita ma la cancellazione delle cose che fanno bella la vita, come nel Cantonotturno, dove la luna «forse»intendechecosasiail morire: «questo supremo / scolorar del sembiante, / e perirdallaterra,evenirmeno / ad ogni usata, amante compagnia»(vv.65-68). Ma non si tratta dell’incantato ritorno allo stile di una volta: l’assenza del coinvolgimento autobiografico – o di una primapersonamonologante– rendeilquadroassolutamente oggettivato. Non gli accenti dell’esperienzapersonale,ma il pathos della certificazione in atto di un destino inevitabile. Tramontata la luna, si spenge quella miracolosa illusione di fantastici miraggi creata dai riflessi di luce nell’oscurità: «e si scolora il mondo» (v. 12). Ma la notte senza luna nonequivaleallamorte,bensí allavitadopocheèfuggitala giovinezza: il buio di un’esistenzaancoralungama smarrita,senzascopoesenza «ragione»(vv.27-33): Abbandonata,oscura restalavita.Inleiporgendoil guardo, cercailconfusoviatoreinvano delcamminlungocheavanzar sisente metaoragione;evede cheasel’umanasede, essoaleiveramenteèfatto estrano. Verrà a suo tempo la morte, chenonèconsolazione,mala «terribil morte» (v. 43) delle sepolcrali, prima però ci aspetta «la vecchiezza» (v. 47,epurevv.183e278della Palinodia), assai piú dura della morte, anzi il «male sommo» (Pensieri, VI), che accresce «le pene» (v. 49), inaridisce i sensi, uccide la speranza e lascia intatti gli appetiti, «incolume il desio» (v. 48). La tessitura idillica delluminosonotturno,fissato nel momento della dissolvenza, s’intride della disperazione materialistica e antiprovvidenzialistica – la forza innominata e malefica di «lassú» (v. 36) – dell’ultimo Leopardi, sí da renderequestoestremoidillio tagliente come La ginestra. L’oppressionedellanatura(la decadenza fisica, la vecchiaia) e la perentoria severità concettuale (suggellata dalla «sepoltura» finale, in rima baciata con «oscura») tanto piú esaltano quel«desio»(v.48)incolume che esplode nell’eccezionale pienezza di «lucidi torrenti» (vv. 56-62), che è dono negato alla sorte umana, eppure bagliore di un’inappagata ansia di vita e di luce (contro la «terribil morte») che soltanto questa filosofia della negatività riesce a concepire e comunicare. 2.LAGINESTRA Laginestrachiudeillibro inesauribile dei Canti con la polifonia di una sintesi magistrale. La condizione dell’umana esistenza, che Il tramontodellalunaripropone da una prospettiva terrena, in rapporto alla fugacità della giovinezzaedellesperanze,è oraconsideratadaunpuntodi vista cosmico, in rapporto al processo meccanicistico dell’universo che trascende e ignora «questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome» (vv. 190-91). Senso dello spazio e sentimento del tempo si compenetrano con effetti finora inediti di dilatazione pluriprospettica: dal «Qui» (vv.1,42,52)delVesuvioal remoto passato di Roma, Ercolano e Pompei; da «queste rive» al vertiginoso notturno siderale delle nebulosestellari(vv.158-85): Soventeinquesterive, che,desolate,abruno vesteilfluttoindurato,epar cheondeggi, seggolanotte;esulamesta landa inpurissimoazzurro veggodall’altofiammeggiarle stelle, cuidilontanfaspecchio ilmare,etuttodiscintillein giro perlovòtoserenbrillareil mondo. Epoichegliocchiaquelleluci appunto, ch’alorsembranounpunto, esonoimmense,inguisa cheunpuntoapettoalorson terraemare veracemente;acui l’uomononpur,maquesto globoovel’uomoènulla, sconosciutoèdeltutto;e quandomiro quegliancorpiúsenz’alcunfin remoti nodiquasidistelle, ch’anoipaionqualnebbia,a cuinonl’uomo enonlaterrasol,matuttein uno, delnumeroinfiniteedella mole, conl’aureosoleinsiem,le nostrestelle osonoignote,ocosípaion come essiallaterra,unpunto dilucenebulosa;alpensiermio chesembriallora,oprole dell’uomo?[…] Di un infinito, si tratta, dove non è dolce naufragare. Anche nel Canto notturno si spalanca la contemplazione del cielo stellato («quando miro in cielo arder le stelle», vv. 84 sgg.): là, tuttavia, importail«perchédellecose» (v. 70) e il passo è scandito da domande incalzanti sul senso della vita terrena e dello spazio infinito, con un’ansia di sapere che dà espressione alla lirica dell’incognito e dell’inconoscibile, del misterocosmicoedell’umana caducità. Qui domina il motivo della paurosa limitatezza dell’uomo, della terra, delle nostre stelle: la poesia dell’ignoto acquista un’intonazione inclemente e una severità conoscitiva assentinelCantonotturno. Le interrogazioni riguardano non il senso della vita terrena e celeste, ma il giudizio che deve formularsi sulmododiessere,diagiree dipensaredella«mortalprole infelice»(v.199);ungiudizio che, implicito nell’intera lassa, infine precipita e si condensa nella clausola perentoria:«Nonsoseilriso o la pietà prevale» (v. 201). La poesia del mistero astrale e del dolore fa risuonare, intensa, la nota acuta dell’umana follia. Quel cosmo extraterrestre, ironicamente visitato dall’interno nella prima parte delle Operette morali, ora è contemplato dal basso, da «quaggiú», con un misto di fascino e di sgomento. La coscienza della limitatezza,2 della fragilità di esseri che sono anche tanto protervi, acuiscelafacoltàdicoglieree godere l’incanto di un «mondo» che può avere la sognante limpidezza dell’illusione: «veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, / cui di lontan fa specchio / il mare, e tutto di scintille in giro / per lo vòto seren brillare il mondo» (vv. 163-66). La simultaneità della corsa spazio-temporale fa centro su un punto: l’immutabile durata della «natura» (v. 292), che è quella dell’Islandese, resa però non indifferente ma feroce dall’ombra di Arimane. La tradizione “rovinistica” setteottocentesca, spogliata dell’aura estetizzante delle cose sfiorite e distrutte, non serve, come invece avviene nelle canzoni giovanili (vd. almeno Sopra il monumento di Dante, vv. 188-96), da monito di delusione storica e da sdegnosa rampogna nel tentativo di ridestare antiche virtú scomparse; serve bensí daprovainconfutabilediuna tortura sicura, di un male certochegovernailmondo:e già le immagini mortuarie delle sepolcrali, materialisticamente esenti da mistiche evasioni, preludono a questo bruciato deserto vesuviano. Di fronte alla fragilità dell’«uman seme» (v. 43), scatta – dalla vicina Palinodia e dai Paralipomeni, come dal Tristano–ilsarcasmocontro l’ottimismo antropocentrico del«secolsuperboesciocco» (v.53),control’ingannodelle «magnifiche sorti e progressive»(v.51),controle «superbe fole» (v. 154) delle compensazioni ultraterrene. La ribadita fermezza materialistica comporta la coraggiosa accettazione del dolore e la coscienza di una «guerra comune» (v. 135) a difesa dalle «angosce» (v. 134) che la natura ci riserva: questo il presupposto di una morale laica fondata su «l’onesto e retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietade»(vv.151-52);nonché anche il presupposto dell’invito solidaristico – che è aspetto tematicamente nuovo – a una collettiva confederazione contro l’«empianatura»(v.148,cfr. Palinodia, v. 181).3 Non per vincere, ma per alleviare sofferenze che sono inevitabili: onde l’appello al «vero amor» (v. 132) di una fratellanza sovranazionale, estrema e generosa illusione di cui i coevi Pensieri mostrano il fondo amaramente disincantato. Davvero «incolume» il «desio» (Il tramonto della luna, v. 48) acceso dalla disperazione della nullità delle cose. Germogliata da questa landa della vita, in un paesaggio brullo e infuocato dove si tocca con mano il male che affatica il mondo, fiorisce lo splendido «fiore del deserto», l’«odorata» (v. 6), «gentile» (v. 34), «lenta» (v. 297), «innocente» (v. 306), «saggia» (v. 314) e fragile (cfr. v. 315) ginestra, che incornicia, presente nella prima e ultima lassa, l’intera partitura del componimento (vv.1-7,297-306): Quisul’aridaschiena delformidabilmonte sterminatorVesevo, laqualnull’altroallegraarbor néfiore, tuoicespisolitariintorno spargi, odorataginestra, contentadeideserti.[…] Etu,lentaginestra, chediselveodorate questecampagnedispogliate adorni, anchetuprestoallacrudel possanza soccomberaidelsotterraneo foco, cheritornandoalloco giànoto,stenderàl’avarolembo sutuemolliforeste.Epiegherai sottoilfasciomortalnon renitente iltuocapoinnocente[…]. Tangibile creatura, la «ginestra» proclama una nobilissima e fiera dignità dell’esistere, e del comunicare grazia, bellezza, profumo, comprensiva pietà, nella nuda coscienza del nulla.4 Ineguagliabile immagine di ardimento intellettuale e di energia morale, nella consapevolezza della propria emarginazione, come annuncia fino dall’apertura l’epigrafe giovannea: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». La dilatazione spazio-temporale salda insieme gli inserti riflessivi e l’evocatività lirica, i pannelli descrittivi (come nell’inquietante notturno pompeiano dei vv. 280-88) e l’invettiva della satira, sí che le ampie campate delle sette lasse – per complessivi 317 versi – orchestrano la grandiosaorganicitàdelcanto nella solidissima sintassi di una musica ora aspra e sferzante ora affabilmente dolcissima: giusta l’antitesi chiasticacheapreIlpensiero dominante. 1.«Fucomeseilpoetadeldoloree dellamorteparlassed’oltretomba»(G. PASCOLI, La ginestra [1898], in ID., Saggi di critica e di estetica, cit., p. 167). 2.AncheinZib.3171-72(12agosto 1823) il tema verte sulla «piccolezza» dell’uomo, ma in tutt’altra accezione: «Quandoegli[l’uomo]considerandola pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minimaparted’unodegl’infinitisistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza,eprofondamentesentendola e intentamente riguardandola, si confondequasicolnulla,eperdequasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forzaedellaimmensacapacitàdellasua mente,laquale,rinchiusainsípiccoloe menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose». La coscienza della «piccolezza» qui non implica la denuncia dell’umana superbia; anzi, associandosi al «pensiero della immensitàdellecose»,regalailpiacere proprio dell’idillio L’infinito e in piú comporta anche il gratificante tributo alla «nobiltà», alla «forza» e alla «capacità» della mente che «è potuta pervenire a conoscere» cose tanto superioriallasuanatura.Siamolontani dall’orizzonte lirico-ideologico dell’ultimoLeopardi. 3. La «grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura» è annotata in Zib. 4279-80 (Recanati, 13 aprile 1827), come tema che «può servire»perlaLetteraaungiovanedel 20o secolo (già progettata nei Disegni letterari,IX[1821],inTO,Ip.371). 4. Per i possibili rapporti tra il «fiore» leopardiano e il «tacito fior» dell’Ognissanti (1847) di Manzoni, rinvio al mio Alessandro Manzoni, nell’opera collettiva Storia generale della letteratura italiana, VIII. L’Italia Romantica.IlprimoOttocento,Milano, Motta,1999,p.373. XXIV MODERNITÀE TRADIZIONE 1.PRIMATODELL’IOE MEMORIASTORICA La rivoluzionaria modernità di Leopardi consiste nel primato assoluto riconosciutoallavocedell’io. Con due corollari, complementariedecisivi,che riguardano la libertà espressiva conquistata dal soggetto protagonista (quindi l’intonazione della sua parola) e la duplice, ambivalente energia che egli vuole comunicare (quindi la funzioneconoscitivadellasua parola). Nella struttura della “canzone libera”, come nella prosa umoristica delle Operette, l’io spezza i lacci dei canoni retorici tradizionali; l’intensità delle illusioni, scaturita dalla martellante disperazione del pessimismo materialistico, assegna all’io un ruolo che è insieme sistematicamente distruttivo (come pensiero negativo e annientamento della speranza) e inventivamente vitalissimo (come instancabile, sempre nuovosuscitatorediemozioni e di sogni). In nessun altro nostro autore ottocentesco è dato trovare uniti gli ingredienti di questa miscela che produce – all’insegna della contraddizione –1 un effettosbalorditivodifissitàe dimovimentoincessante. La complessa apertura verso la modernità trova per paradosso la propria genesi nel radicale rifiuto («disprezzo»: La ginestra, v. 65) del “modernismo”, nell’appassionata nostalgia del passato e dell’antico. Il che significa tutt’altro che spirito reazionario: significa culto non pedantesco dei classici, risoluta attualizzazione del loro modello,nonperimitarloma riviverlo (umanizzarlo) secondo gli impulsi di una sensibilità orgogliosa, indocile e anticonformista, insofferente di ogni idea ricevuta e di ogni moda, di ogni tirannia e di ogni assolutismo, in politica come nelle scelte culturali. La musica nuova (senza «ostentazione rivoluzionaria»)2 della “canzone libera” viene dallo studio metrico calibratissimo delle prime canzoni, come l’inventio prosastica delle Operette viene dalla quotidiana familiarità con la prosa greca e latina. Viaggio lungo, ma l’insegnamento in ogni caso che giunge dall’antico non è valso che come esercizio e tirocinio di libertà. A questo coraggio dell’inattualità, a quest’affrancamento non dal passato, ma dai vincoli inerti del passato, hanno aspirato invano–aparteManzoni,su altro e antitetico piano – i cultori e i fautori del nuovo, stilisticamenteimpigliatinella riproposta di forme vecchie, troppo prossime alla tradizione che intendevano ignorare, e ideologicamente inefficaci,perchéchiusinella rete delle idee correnti (il «concorde sentir!» della Palinodia,v.220),esposteal fenomeno della rapida obsolescenza. La rincorsa delle mode è un abbraccio con la morte. Proprio dalla memoria storica, dal sentimento lancinante della corsa rapinosa dei secoli, Leopardi ha tratto la forza di quella distanza prospettica e polemica dal presente che è stata la garanzia della sua modernità. «Perdóno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la maniera antica […]. Perdóno se il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poiché esser contemporaneo a questo secolo, è, o inchiude essenzialmente, non esser poeta,nonesserpoesia».3 Allafugadeltempoealla furia di distruzione che porta con sé, non ha opposto il riparo di alcuna verità positiva:nonlafedereligiosa nel trascendente, non la fede laica nell’agire umano e nel progresso, non la fede umanistica – cui approda il materialismo foscoliano – nella funzione eternatrice della poesia che «vince di mille secoli il silenzio» (Dei sepolcri,v.234).Maneppure hafesteggiatoconirrazionale esultanza il trionfo del nichilismo. Lo spettacolo della rovina, indagato con eroico ardire, si sa che comporta l’intrepida risolutezza del disinganno, la contemplazione dignitosa e fiera del negativo, ma genera sgomento («orror»: La ginestra, v. 280), tanto piú terribileperchésenzariscatto. Suldesertodel«comunfato» (v. 114), del «mal che ci fu dato in sorte» (v. 116), il cerchio si chiude. La parola ritorna all’io e al primato del soggetto lirico, alla sua voce castaespietatachehaattinto – dalla nostalgia dell’antico, dallaconsapevolezzachequel mondo è cancellato, dall’audacia di guardare in volto l’«arido vero» – il suono di una suprema e sconvolgentelibertà.Laquale vuol dire anche suprema altitudine, non come allontanamento dalla terra (verso il mistero o il misticismo), ma come distacco dal superfluo e dall’inessenziale, da tutto ciò chenontocca,quieora,nella nostra indifesa fragilità di individui biologici, la condizione prima ed elementare dell’esistere. La voce dell’io allora diventa capace di porsi domande semplici e capitali, di interrogarsi sul senso della vita e della morte, sugli affannideldolore,sullaforza dell’amicizia e dell’amore. Il poetachepiúdiognialtroha sofferto la schiavitú dell’individuo di fronte alle leggi inesorabili della natura, è anche il poeta che piú ha sentito, con stupefacente vertigine,lalibertàdell’io. 2.VERITÀEVITA «A goder della vita, è necessario uno stato di disperazione».4 Il tenace investigare sul significato dell’esistere approda all’urto dellacontraddizionetraverità e vita. Dinanzi alla certezza del nulla, l’io comunica la propria ansia di piacere, insopprimibile e vitale (che non significa vitalistica);5 rivive ricordi, desideri, passioni, «immagini», «palpiti» (Il risorgimento, v. 86); ridice a se stesso con intatto candore, contro i miti delle ideologie vigenti, i valori della bellezza, della virtú, della civile concordia, degli affetti, del dilettevole («utile sopra tutti gli utili»)6 che umanizzano la vita e la fannodegnadiesserevissuta, tanto che «cangiato il mondo appar» (v. 104): vane illusioni, eppure «non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni».7L’evocativacarica lirica («sí viva e forte»: Il pensiero dominante, v. 114) riescearenderlevere(«alver s’adegua»,v.115)econcrete. La poesia trasforma l’incanto dell’immaginazione in atto conoscitivo,perchéhaildono di «convertir la ragione in passione»,8anzidisuperareil «principio di cognizione»9 e dare intensissima tangibilità ai fantasmi. Non sussiste conflitto tra «cuore» e «intelletto», perché soltanto dinanzi all’«infausta verità» (Il risorgimento, v. 116), naturale e storica e sociale, riesce a modularsi questo canto dell’io: lucidissima diagnosi critica del reale e desiderio struggente di un bene tanto piú luminoso (e inattingibile) quanto piú insidiato dalla consapevolezza della sua friabilità. L’arte di essere infelices’intitolaunodeitanti «disegni letterari» che, rimasti virtuali, non lasciano in pace la fantasia del lettore.10 1. «Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente ma anche materialmente» (Zib. 4204, Bologna, 25 settembre 1826). Sul «lacerante sentimento della contraddizione», come «unica e piú profonda logica di Leopardi», che rifiuta «la logica antica senza peraltro ammettere una logica diversa» che spiani o riduca a unità i paradossi dell’esistenza, cfr. BALDACCI, Il sistema del paradosso, cit., pp. 80-83. Lo stesso Baldacci ha acutamente osservato – ed è un punto su cui conviene riflettere –: «A Leopardi si puòfardiretuttoeilcontrarioditutto. In realtà bisognerebbe rinunciare a cercare in lui un pensiero affermativo per riconoscere invece un pensiero doloroso che ha sí una sua linea, ma è intimamente riluttante a concludere» (ID.,Dueutopie [1982], in ID.,Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, cit., p. 187). 2. CONTINI, Giacomo Leopardi, cit.,p.279. 3.Zib.2946(11luglio1823). 4.Ivi,2555(6luglio1822). 5. L’«impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente» (ivi, 4186, Bologna, 13 luglio1826). 6. G. Leopardi a P. Giordani, Firenze,24(ma29)luglio1828,inTO, Ip.1321. 7.Zib.99(8gennaio1820). 8.Ivi,293(22ottobre1820). 9.Ivi,4129(5-6aprile1825). 10.«L’artediessereinfelice.Quella di essere felice, è cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi, e da nessuno poi con effetto» (Disegni letterari, XI [1829],inTO,Ip.372). XXV LAFORTUNA CRITICA 1.ILETTORIOTTOCENTESCHI Nel clima delle «magnifiche sorti e progressive»,icontemporanei hanno rifiutato il pensiero di Leopardi e misconosciuta la grandezza della sua poesia: da Cantú a Tommaseo, da Colletta a Mazzini. Nella denuncia dell’umana infelicità spesso non hanno visto – tra «maraviglia e sdegno» (Palinodia, v. 7) – che il lamento di disgrazie personali, l’immediato riflesso di una lacrimevole condizione biografica.1 Pochissime le eccezioni, come Giordani. In altri casi (Montani,Gioberti,Tenca),il tributo al valore umano, morale e artistico dello scrittore si arresta di fronte all’aspra sostanza del suo sconsolato materialismo. Siffatta difficoltà, inerente alle speranze riformatrici della cultura risorgimentale, condiziona anche la tribolata ammirazionediDeSanctis,al qualesidevelaprima,solida monografia organica (rimasta incompiutanel1883)delsuo amatissimo Leopardi: il dilemmatico contrasto tra «cuore» e «intelletto», tra gli affetti appassionati e lo «scetticismo» negativo (inassimilabile alla poetica realistica del progressismo laicodesanctisiano),inducea rimuovere lo scoglio della riflessioneconcettuale,dando credito alle componenti idilliche, con conseguente incomprensione delle Operette. Poi, nel volgere di pochianni,sisfaldal’edificio laboriosamente messo in piedi da De Sanctis. Nell’epoca delle certezze positive, talune sprovvedute applicazioni del metodo di Lombroso intendono dimostrare l’origine psicopatologica del pessimismo leopardiano: comenelfisiologorecanatese Mariano Luigi Patrizi, docente all’Università di Modena,2 e nell’antropologo siciliano Giuseppe Sergi, docente all’Università di Roma;3 invece dimostrano la miopia dell’orgoglio scientista e l’improvvido proposito – clinico in apparenza e in realtà politico –4diesorcizzarecomeeffetto di nevrosi un sistema filosoficoeretico. Altra importanza compete, nel medesimo àmbito positivista, alle ricerche erudite della scuola storica, patrocinate da Carducci,conlastampadello Zibaldone (1898-1900), nonché con gli studi, le edizioni, i commenti, specie di Giuseppe Cugnoni, Alfredo Straccali, Giuseppe Piergili, Giovanni Mestica, Ildebrando Della Giovanna, Giuseppe Chiarini. Ma già nello stesso Carducci si vede bene come le ragioni della forma si vadano dissociando dalle ragioni delle idee. Di lí apoco,nel1904,ilfinissimo saggio di Cesare De Lollis, sul Petrarchismo leopardiano, avvalora un Leopardi elegiacopetrarchesco (dopo quello dantesco e alfieriano caro a DeSanctis)chepreludeaipiú tardi riconoscimenti che sarebbero sopraggiunti dai cultori della liricità pura. Resta dunque minoritaria la linea interpretativa che a fatica,beneomale,scavasul terreno del pensatore (come negli Studi sul Leopardi di Bonaventura Zumbini, 19021904), giacché non tira un ventopropizioascavisiffatti, in un’Italia orgogliosamente estetizzante, superomistica e dannunziana: piú propensa, nellacrisidivaloriculminata nel dramma della Grande Guerra, ad assecondare irrazionali avventure dello spirito, piuttosto che a promuovere sondaggi sulla tragicità della vita. Le indagini di Gentile, protratte per oltre un trentennio a partire dal 1907, s’indirizzano, con notevole profitto in merito al disegno strutturale delle Operette, su questa strada dell’accertamento ideologico, la quale però si espone al rischiodinonsaldareinsieme (se non astrattamente) pensieroepoesia. Quanto alla presenza di Leopardi nel panorama della lirica italiana, l’Ottocento è stato erede distratto, se non insensibile. Quando non si tratti di mera eco idillico- campestre o eroicopatriottica, se non di mitologie personali (come nell’esordiente Paolo Buzzi delle Rapsodie leopardiane, 1898), accanto ai rari fedeli (inprimisAlessandroPoerio, ma anche a suo modo Giovanni Prati), si afferma piuttosto un’adesione capovolta in senso religioso, come in alcuni testi di Tommaseo. Suggestiva del resto l’ipotesi che nel tardo ritorno alla poesia del Manzoni sliricato, con il «tacito fior» (v. 20) che sboccia su «inospite piagge» (v. 18) nel frammento di Ognissanti (1847), non sia passato invano il fascino dell’«odorata ginestra» (a stampa nel 1845). Orizzonti antitetici, eppure non contraddittorî: l’ostilità verso l’utilitarismo del «secol […] superbo»(Ognissanti, v. 5) e l’acuta coscienza dell’umana caducità fanno luce sul tragicopessimismodellafede manzoniana. Il quadro muta allafinedelsecolo,quandosi afferma la lezione del simbolismo francese, da Baudelaire a Mallarmé, e si assiste a una retrospettiva – quanto distorta in chiave magico-allusiva – riscoperta di Leopardi poeta della «musica», del «vago» e dell’«occulto» (Graf),5 poeta dell’«Ignoto»6 e sacerdote dell’«irreligione»(Pascoli).7 Differenteèl’accoglienza fuori d’Italia: in Francia con Sainte-Beuve (1844) e in Germania con i filosofi del pensiero negativo, come Schopenhauerche,lettoregià dal 1830 delle Operette, sintetizza il suo giudizio ammirativo nella III ed. (1859) del Mondo come volontà e rappresentazione (1819, 18442): «Ma nessuno hatrattatocosíafondoecosí esaurientemente questo soggetto [del nulla e dei dolori della vita] come, ai giorni nostri, Leopardi. Egli ne è tutto pervaso e compenetrato. Il suo tema è ovunquelabeffaelamiseria di quest’esistenza, da lui rappresentate, in ogni pagina delle sue opere, con una tale varietà di forme e di espressioni, con una tale ricchezza di immagini, che essononvienemaianoia,ma è invece sempre interessante e commovente» (IV 46).8 Nietzsche a sua volta, negli appuntidel1875perilsaggio Wir Philologen, dimostra di apprezzarecomepochialtriil filologo,dicuiprobabilmente conoscegliExcerpta editi da De Sinner nel 1835, le note apparse sui «Neue Jahrbücher» nel 1840 e gli Studi filologici del 1845; ma anche in piú occasioni – prima di cambiare idea intorno al 1884 – rilascia attestati di profonda stima al pensatore-poeta «sovrastorico» e allo «stilista»: la seconda delle Considerazioni inattuali (1874) è intessuta di echi leopardiani (specie dal Canto notturno), fino alla citazione dei vv. 7-11 di A se stesso (nella traduzione tedesca di RobertHamerling),eLagaia scienza (1882) riconosce allo scrittore di Recanati «un magistrale dominio nella prosa»(II92). 2.ILPRIMONOVECENTO Nel quarantennio che intercorre tra l’incompiuta monografia di De Sanctis (1883) e il saggio di Croce (1922)siirrigidiscelafrattura tra ideologia e stile, con un Leopardi sempre piú liricamente rarefatto e devitalizzato.Perunverso,il tormentato avvicinamento al poeta dei Canti proposto in area vociana da Rebora, Boine, Sbarbaro, Michelstaedter (e per proprio conto da Thovez, come da PirandelloedaTozzi)cededi fronte alle piú quiete rivisitazionidiarearondistae poi ermetica. Per altro verso, l’arduastoricizzazionetentata daDeSanctisfanaufragionel liquidatorio distinzionismo di Croce, il quale cerca di reagire allo stilismo formalistico della «Ronda», ma porta infine acqua allo stesso mulino, perché risolve l’antitesi drammatica tra «cuore» e «intelletto» con il drastico intervento chirurgico sulsecondodeidueterminiin conflitto. Non può esserci infatti antitesi alcuna nella desolazione di una «vita strozzata»:9 i «filosofemi» di Leopardi non sarebbero (con recupero del determinismo antropologico di scuola lombrosiana) che la «proiezione raziocinante» del suo«statoinfelice»,dellasua «offesa base fisiologica», del suo adirato «malumore»; sarebbero i sintomi di una «malattia» che «gli avvelenava» il sangue; l’unica alternativa possibile è trapatologiaesalute,onde«il Leopardi schietto e sano» dovremmo cercarlo nei fuggitivi momenti in cui, dimenticata la propria «vita strozzata», gli accade «di risentirsi vivere», di riconoscersiin«armonia»con il mondo, tanto da «accoglierlo in sé simpaticamente».10 Che è la piúseccadifesadiun’astorica e idillica «armonia» estetica da parte dell’idealismo primonovecentesco. Tra le due guerre non mancanoalcunedeterminanti, talvoltasostanziali,correzioni di tiro rispetto alla lettura fortemente limitativa di Croce: Karl Vossler (1923, trad. it. 1925), Giuseppe De Robertis(ed.delloZibaldone, 1922, commento ai Canti, 1927,intr.alleOpere,1937e poi il Saggio del 1944), Mario Fubini (intr. all’ed. commentata delle Operette, 1933), Attilio Momigliano (Introduzione al Leopardi, 1938), Luigi Russo (La «carriera poetica» di G. Leopardi, premessa all’ed. commentata dei Canti, 1945, recaladata«ottobre1943-23 giugno 1944»). Fondamentale,trail1927eil 1931, il contributo filologico delle edizioni critiche, corredate di tutte le varianti manoscritte e a stampa, del recanatese Francesco Moroncini: Canti (2 voll., 1927), Operette morali (2 voll., 1928), Opere minori approvate(2voll.,1931),cui poisiaggiungono,trail1934 e il 1941, per iniziativa sempre di Moroncini, gli ancora indispensabili, per il nonsuperatocommento,sette volumi dell’Epistolario, con le lettere dei corrispondenti. Sullevariantileopardianesiè proficuamente applicata la «critica degli scartafacci» d’autore (da Piero Bigongiari a Giuseppe De Robertis a Gianfranco Contini), dapprima intrapresa in antitesi alla nozione idealistico-crociana dell’opera d’arte come risultatostaticoeassoluto. Negli stessi anni, nel laboratorio della letteratura coeva, al di là dell’espressionismovocianoe dell’autoanalisi di Saba, a distanza dal leopardismo umanistico di Cardarelli e di Bacchelli (interprete acuto, specie dei Paralipomeni), la prosa delle Operette attira l’attenzione di Svevo nella CoscienzadiZeno,poi,perlo piú come stimolo fantasticosurreale, accende d’entusiasmo Savinio,11 Delfini,Landolfi,12Sinisgalli. Insieme al poeta dei «prodigi» e del «mistero» riletto da Bontempelli,13 esplodeconUngarettiilmito di un Leopardi filtrato attraverso Mallarmé, quindi artefice della parola innocente, «come una ferita di luce nel buio»,14 favoloso motore di miraggi, vaticinanteeveggente.Spetta invece a Montale, all’arsa geografia dei suoi Ossi di seppia e al suo laico male di vivere, l’accostamento meno avventuroso alla coscienza dellanegatività.Sull’esempio montaliano procede il Solmi poeta (studioso di Leopardi come di Montale) e nei versi A Giacomo Leopardi (1962-’66) s’intrattiene a colloquio con la «cara […] ombra»delcontediRecanati, nel tentativo di catturare almeno un «tremante barlume» di quella «magia suprema, che fermare / sa in aeree di musica struggenti architetture, […] / la piú fonda / pena del nostro esistere».15 3.ILSECONDONOVECENTO Occorre aspettare la svolta civile e culturale del secondo dopoguerra, perché, sul piano propriamente critico, s’avvii un nuovo corso:conlarivalutazionedel pensiero «progressivo» (Cesare Luporini, 1947) e della poesia eroica, antiidillica,satiricapost-1830 (Walter Binni, 1947, 1973), con originali indagini sulla filologia di Leopardi, sulla ideologia e le letture dei filosofi antichi (Sebastiano Timpanaro, 1955, 1965), quindi su aspetti della biografia, della personalità, dello stile rimasti fino ad allora in ombra (Emilio Bigi, Luigi Blasucci, Umberto Bosco, Carlo Dionisotti, Cesare Galimberti, Giovanni Getto, Mario Marti, Angelo Monteverdi, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Sergio Solmi, Leo Spitzer). Su rigorosa base scientifica si sviluppa l’incremento delle conoscenze testuali: stampa di concordanze e di inediti (primi esercizi poetici,16 scritti filologici, dissertazioni filosofiche); nuove o rinnovateedizionicritiche,in particolare dei Canti, con il corredo fotografico dei manoscritti (a cura di Emilio Peruzzi, 1981; secondo differenti criteri, a cura di Domenico De Robertis, 2 voll., 1984), e dello Zibaldone (a cura di Giuseppe Pacella, 3 voll., 1991); nonché anche sofisticate ri-edizioni di testi giàegregiamentepubblicati. Sul versante artistico, nonostante la contestazione della Neoavanguardia che coinvolge, almeno sul piano programmatico, anche «il linguaggio argomentante» di Leopardi,17 la letteratura nuova tiene viva la funzione tecnico-gnoseologica dei CantiedelleOperettemorali, da Fortini, Luzi, Zanzotto, a Brancati, Sciascia, Manganelli,18 Calvino,19 Bufalino,20Ceronetti. Le istanze «progressive», interpretate come prefigurazione di «un moderno internazionalismo», come impegno per un progresso piú radicale del falso progresso borghese, su «un’onda piú lunga»21 a confronto del breve respiro del liberalismo moderato di primo Ottocento, sono state polemicamentediscussenegli anni Settanta da chi ha visto nel rifiuto leopardiano di integrazione organica nell’ambiente fiorentino una forma di aristocratica arretratezza rispetto al processo di sviluppo promosso dal gruppo dell’«Antologia», una forma limitativa di chiusura «e di estraneità verso l’emergente organizzazione capitalistica».22 Quelle stesse istanze «progressive» sono andate incontro, dagli anni Ottanta a correzioni sempre piú decise, con l’annessione di Leopardi nel circuito del moderno pensiero negativo: «Non pessimismo e progressismo, ma nichilismo eillusione».23 Se correzioni vanno fatte –comeopportunamentesono state fatte, specie sul senso della partecipazione politica implicita nell’agonismo leopardiano –, bisogna tuttavia distinguere tra tanti «nichilismi»disegnodiverso, materialistico, mistico, esistenzialistico,trail«nulla» che oscuramente sottintende unaqualsivogliametafisica,e il «nulla» che la esclude, che non permette viaggi verso altra realtà fuori dell’io. Per limitarsi a Nietzsche: una cosa è la celebrazione del «nulla» come smascheramento di falsi valori che prepara la strada all’avventodel«superuomo», e altra cosa è lo strazio del «nulla» come smascheramento di falsi valori che pone l’io di fronte allaconsapevoledignitàdella propria limitatezza fisicobiologica.Necessarioèanche guardarsidaantistoriciricorsi all’attualità, secondo prospettive di tipica ascendenza novecentista. «Leopardi, poeta musicalissimo, non ha mai sacrificato il significato al significante, non è stato mai poeta di pure immagini o di puri suoni, non ha mai rinunciato a fare della sua poesia o prosa d’arte uno strumento conoscitivo: da questo punto di vista, non è un “contemporaneo”, e va letto “storicamente”. Chi si sente suo contemporaneo (non solo ammiratore, ma “seguace”) deve avere la consapevolezza di trovarsi in una posizione di minoranza, nonostante il frastuono ingannevole dei congressi […] e la plètora della bibliografia».24 La «magia suprema» di cui ha parlato Solmi, e che ogni lettore sa bene cosa sia, non deve far dimenticare il nesso inscindibile pensieropoesia (la poesia di quel pensiero, non l’evasione da quel pensiero): senza tentazioni misticheggianti o estetizzanti, irrazionalistiche o formalistiche25 che cancellano il fondamento etico,lafunzionecognitiva,il presupposto edonistico e sensistico, l’oltranza materialistica della «filosofia dolorosa,mavera»(Tristano, 8). 1. L’indignata protesta dell’interessato si legge nel Tristano e nella Palinodia, nonché nella lettera a L.DeSinner,Firenze,24maggio1832, inTO,Ip.1382. 2. M.L. PATRIZI, Saggio psicoantropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia, Torino, Bocca, 1896; ID.,Fisiologiadell’arteleopardiana,in ID., Nell’estetica e nella scienza. Conferenze e polemiche, Palermo, Sandron,1899,pp.195-229. 3.G.SERGI,Leoriginipsicologiche delpessimismoleopardiano,in«Nuova Antologia», 16 aprile 1898, pp. 577603; ID., Leopardi al lume della scienza,Palermo,Sandron,1899. 4. Alla rimozione dell’ideologia leopardiana appartiene anche la controversa vicenda dei «falsi» attribuitialpoetanel1898daGiuseppe Cozza-Luzi: cfr. S. TIMPANARO, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani (1966), in ID., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, cit., pp.295-348. 5. A. GRAF, Estetica e arte di G. Leopardi (1898), in ID., Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Chiantore, 1945,p.265. 6.PASCOLI,Ilsabato,cit.,p.84. 7. PASCOLI, La ginestra, cit., p. 171. 8. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. VIGLIANI, intr. di G. VATTIMO, Milano, Mondadori, 1989, p.1507. 9. B. CROCE, Leopardi, in «La Critica», XX, 20 luglio 1922, pp. 193204, poi in ID., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1923,pp.103-19(lacit.ap.108). 10.Ivi,p.116. 11. «Leopardi – che nel Dialogo della Natura e di un Islandese predice Baudelaire; che nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare predice il Wagner del Tristano; che nei suoi filologici giochi predice Nietzsche; che nelle battute finali del Dialogo della Terra e della Lunapredicel’umorismodelmusic-hall (dice la Terra: “Addio dunque; buon giorno” e la Luna risponde: “Addio; buona notte”) – Leopardi noi lo possiamo trattare con la confidenza di un contemporaneo» (SAVINIO, DrammaticitàdiLeopardi,cit.,p.127). 12.Cfr.T.LANDOLFI,Varietà non letterarie(1941),ripropostonelvolume collettivo«Quellibrosenzauguali».Le ‘Operette morali’ e il Novecento italiano, a cura di N. BELLUCCI e A. CORTELLESSA, Roma, Bulzoni, 2000, pp.417-26. 13. M. BONTEMPELLI, Leopardi l’«uomo solo» (1937), in ID., Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani,1945,19645,pp.33-65. 14. G. UNGARETTI, Immagini del Leopardi e nostre (1943), in ID., Vita d’unuomo.Saggieinterventi,acuradi M. DIACONO e L. REBAY, Milano, Mondadori,1974,p.450. 15.S.SOLMI,AGiacomoLeopardi, in ID., Dal balcone (1968), quindi in ID., Poesie complete, Milano, Adelphi, 1974, pp. 102-5. Su questo «“curioso” componimento», vd. le indicazioni preziose di L. CARETTI, Itinerario di Solmi(1969),inID.,Antichiemoderni. Studi di letteratura italiana, Torino, Einaudi,1976,pp.450-51. 16. «Le indigeste compilazioni giovanili vanno di pari passo con le puerilia letterarie che la curiosità dei posteri non ha lasciato nel naturale riposo» (CONTINI, Giacomo Leopardi, cit.,p.282). 17. A. GIULIANI, Introduzione a I Novissimi.Poesiedeglianni’60(1961), a sua cura, Torino, Einaudi, 19652, p. 19. 18. «Perché mai [Leopardi] questo apologeta delle tenebre è condannato a fare un inesauribile dono di luce?» (MANGANELLI, Giacomo Leopardi: Operettemorali,cit.,p.201). 19. Alcuni giudizi di Calvino su Leopardipoetaeprosatore:«ilmiracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare» (I. CALVINO, Leggerezza, in ID., Lezioni americane.Seiproposteperilprossimo millennio [1988], in ID., Saggi 19451985, cit., I pp. 651-52); «Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione,chesacoglierelasensazione piú sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri […]; la ricerca dell’indeterminato diventa l’osservazione del molteplice, del formicolante, del pulviscolare …» (Esattezza, ivi, p. 681); «E mi sono soffermato soprattutto su Leopardi perché in questo grande lirico e prosatore, il piú nutrito di cultura classica e forse per questo il piú moderno allora e oggi, il Leopardi che disprezzava tutti i romanzi tranne il DonQuijote,esisteunnucleofantastico che intravediamo in alcuni dei suoi dialoghi, o in quel frammento poetico [Frammento XXXVII: «Odi, Melisso …»] che descrive un sogno in cui la luna si stacca dal cielo e si posa su un prato.[…]Èquelloilverosemedacui poteva nascere il fantastico italiano. Perché il fantastico, contrariamente a quelchesipuòcredere,richiedemente lucida, controllo della ragione sull’ispirazione istintiva o inconscia, disciplina stilistica; richiede di saper nello stesso tempo distinguere e mescolare finzione e verità, gioco e spavento, fascinazione e distacco, cioè leggereilmondosumolteplicilivellie in molteplici linguaggi simultaneamente» (Il fantastico nella letteratura italiana [1985], ivi, II pp. 1675-76).Cfr.anchecap.VIpar.2. 20. Cfr. G. BUFALINO, I conti col Leopardi (1987), in ID., Saldi d’autunno, Milano, Bompiani, 1990, pp.125-26. 21. C. LUPORINI, Leopardi progressivo, in ID., Filosofi vecchi e nuovi,Firenze,Sansoni,1947,pp.27274. Cfr. A. MARINOTTI, Luporini, Leopardielafilosofiadel’900,in«La Rassegna della letteratura italiana», s. IX1999,1pp.331-65. 22.U.CARPI,Letteraturaesocietà nella Toscana del Risorgimento. Gli intellettuali dell’«Antologia», Bari, De Donato, 1974, p. 119. La questione è ampiamente dibattuta da TIMPANARO, Leopardi e la sinistra italiana degli annisettanta,cit.,pp.145-97. 23.M.A.RIGONI,Lavertiginedella lucidità (1985), in ID., Il pensiero di Leopardi, cit., p. 182. Non già un Leopardi «“sombre amant de la mort” (quale lo vorrebbe accreditare ancor oggi certa critica pretestuosamente revisionista), ma persuasore ineguagliabiledicoraggiointellettualee dignità morale, oltre i limiti del “secol superbo e sciocco” che lo vide antagonista irriducibile» (GHIDETTI, Introduzione a LEOPARDI, Dizionario delleidee,cit.,p.XVIII). 24. TIMPANARO, Prefazione a ID., NuovistudisulnostroOttocento,cit.,p. XVII. 25. Come l’apologia astratta dello «stile leopardiano», ridotto a categoria metafisica, dimenticando l’aureo precetto di Zib. 2907 (7 luglio 1823): «rigorosamente parlando, l’idea dello stileabbracciacosíquellochespettaai sentimenti come ciò che appartiene ai vocaboli». BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 1.OPERE Sono tre le edizioni complessive delleopere:Tutteleopere,acuradiF. FLORA, Milano, Mondadori, 19371949, 5 voll.; Tutte le opere, a cura di W. BINNI, con la collaborazione di E. GHIDETTI, Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll.; Tutte le poesie e tutte le prose (con taluni incrementi, specie delle Dissertazionifilosofiche)eZibaldone,a cura di L. FELICI e E. TREVI, Roma, Newton & Compton, 1997, 2 voll. Ancora meritevoli di molta attenzione le edd. critiche a cura di F. MORONCINI:Canti,Bologna,Cappelli, 1927, 2 voll.; Operette morali, ivi, id., 1928, 2 voll.; Opereminoriapprovate, ivi, id., 1931, 2 voll. Incompiuta è rimasta l’edizione degli «Scrittori d’Italia», a cura di A. Donati, Bari, Laterza, 1917-1932: Canti (1917); Versi, Paralipomeni (1921); Puerili e abbozzi vari (1924); Operette morali (1928); Pensieri, Moralisti greci, Volgarizzamentiescrittivari(1932). Storicamente importanti, per la pubblicazione di inediti, i seguenti volumi:OperediG.Leopardi.Edizione accresciuta, ordinata e corretta, secondo l’ultimo intendimento dell’autore, a cura di A. Ranieri, Firenze, Le Monnier, 1845, 2 voll. (su questastampapostuma,cfr.F.P.LUISO, Ranieri e Leopardi. Storia di una edizione,Firenze,Sansoni,1899);Studi filologici,acuradiP.PELLEGRINIeP. GIORDANI,Firenze,LeMonnier,1845; Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di P. VIANI, ivi, id., 1846; Opere inedite di G. Leopardi pubblicatesugliautografirecanatesi,a curadiG.CUGNONI,Halle,Niemeyer, 1878-1880,2voll.;ScrittiletteraridiG. Leopardi ordinati e riveduti sugli autografi e sulle stampe corrette dall’autore, a cura di G. MESTICA, Firenze, Le Monnier, 1899, 2 voll.; ScrittivariineditidiG.Leopardidalle cartenapoletane,ivi,id.,1906. Le tre citate edizioni complessive vanno almeno integrate con la Crestomazia italiana. La prosa, a cura diG.BOLLATI,Torino,Einaudi,1968, ela Crestomazia italiana. La poesia, a cura di G. SAVOCA, ivi, id., 1968. Si aggiungano inoltre: Scritti filologici (1817-1832),acuradiG.PACELLAeS. TIMPANARO, Firenze, Le Monnier, 1969; Fragmenta Patrum Graecorum. Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta (1814-1815), a cura di C. MORESCHINI, ivi, id., 1976; Porphyrii devitaPlotinietordinelibrorumeius,a cura di C. MORESCHINI, Firenze, Olschki, 1982; Giulio Africano, a cura di C. MORESCHINI, Bologna, Il Mulino,1997.PerleRimediFrancesco Petrarca, colla interpretazione compostadalconteGiacomoLeopardi, Milano, Stella, 1826, 2 voll. (II ed. Firenze, Passigli, 1839, in I quattro poeti italiani, Parte II, con nuova prefazione di Leopardi, composta a Napoli e inviata a Passigli nell’aprile 1837), cfr. le ristampe moderne: F. PETRARCA, Il Canzoniere, con le note critiche di G. LEOPARDI, Napoli, Marotta,1974;RimediF.Petrarca,con l’interpretazione di G. LEOPARDI, a curadiA.NOFERI,Milano,Longanesi, 1976 (anastatica dell’ed. Firenze, Passigli, 1839); a cura di U. DOTTI, Milano, Feltrinelli, 1979, 19922; con intr. di G. NENCIONI, Firenze, Le Monnier, 1989 (anastatica dell’ed. Firenze,LeMonnier,1851).Glielenchi delle proprie letture compilati da Leopardi,alcunisenzadata,altrirelativi al 24 febbraio 1819, ai mesi novembre 1822-maggio 1823 e al periodo 1o giugno 1823-marzo 1830, dapprima parzialmente editi da M. PORENA, in «Rivista d’Italia», XXV 1922, pp. 68 sgg., e in «La Cultura», 15 dicembre 1926 (poi in ID., Scritti leopardiani, Bologna, Zanichelli, 1959, pp. 419 sgg.), sono pubblicati da G. PACELLA, Elenchi di letture leopardiane, in «Giornale storico della letteratura italiana»,CXLIII1966,pp.557-77. Ragguardevoli edizioni moderne di specificimomentioperativiodisingole opere:«Entrodipintagabbia».Tuttigli scrittiinediti,rarieediti.1809-1810,a cura di M. CORTI, Milano, Bompiani, 1972; Appressamento della morte, ed. critica a cura di L. POSFORTUNATO, Firenze,AccademiadellaCrusca,1983; Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, ed. critica a cura di O. BESOMI, D. CONTINATI, P. DE MARCHI, C. GIAMBONINI, R. MARTINONI, B. MOSER, P. PARANCHINI, L. PEDROIA, G. PEDROJETTA, Bellinzona, Casagrande, 1988; Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’INTINO, Roma, Salerno Editrice, 1995; Dissertazioni filosofiche, a cura di T. CRIVELLI, Padova, Antenore, 1995; Discorso di un Italiano intorno alla poesiaromantica,acuradiR.COPIOLI, Milano, Rizzoli, 1998; Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, intr. di M.A. RIGONI, testo critico di M. DONDERO, commento di R. MELCHIORI, ivi, id., 1998;Pensieri, ed. critica a cura di M. DURANTE, Firenze, Accademia della Crusca, 1998; Poeti greci e latini, a cura di F. D’INTINO, Roma, Salerno Editrice, 1999; Teatro, ed. critica e commento a cura di I. INNAMORATI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1999 (contiene: La virtú indiana, Pompeo in Egitto, Maria Antonietta, Erminia,Telesilla);Appuntiericordi,a curadiE.PASQUINIeP.ROTA,Roma, Carocci,2000. Ampie raccolte antologiche: R. BACCHELLI e G. SCARPA (Milano, OfficinaTip.Gregoriana,1935);G.DE ROBERTIS (Milano, Rizzoli, 1937, 3 voll.); G. FERRETTI (Torino, UTET, 1948-1950, 2 voll.); S. e R. SOLMI (Milano-Napoli, Ricciardi, 1956-1966, 2 voll.); G. GETTO e E. SANGUINETI (Milano,Mursia,1966);C.MUSCETTA e G. SAVOCA (Torino, Einaudi, 1968, con le concordanze di tutta l’opera in versi, divisa per Canti, Paralipomeni dellaBatracomiomachia,Poesievariee Traduzioni poetiche, a cura di L. LOVERA e C. COLLI); M. FUBINI (Torino, UTET, 1977); R. DAMIANI e M.A. RIGONI, con un saggio di C. GALIMBERTI (Milano, Mondadori, 1987-1988,2voll.). Per i Canti: oltre all’ed. di L. GINZBURG (Bari, Laterza, 1938), si vedano le edd. critiche, di differente impianto, entrambe con riproduzione fotograficadegliautografi,acuradiE. PERUZZI (Milano, Rizzoli, 1981) e a cura di D. DE ROBERTIS (Milano, Il Polifilo, 1984, 2 voll., su cui cfr. G. TELLINI, Testo critico e autografi dei ‘Canti’ leopardiani, in «Paragone», 416,ottobre1984,pp.71-78).Ristampe anastatiche:Canti,Firenze,Piatti,1831 (Firenze, Le Lettere, 1987, 19972, con il saggio di D. DE ROBERTIS, Identità dell’opera);Canti,Napoli,Starita,1835 (Napoli, Marotta, 1967, 19762). Principali commenti: G. CHIARINI (Firenze, Sansoni, 1886); G. MESTICA (Firenze, Barbèra, 1886); F. SESLER (Firenze, Sansoni, 1890); A. STRACCALI(ivi,id.,1892;poidal1910 con aggiunte di O. ANTOGNONI, ristampato nel 1957 con intr. di E. BIGI); M. PORENA (Messina, Principato, 1916, 19242); G.A. LEVI (Firenze,Battistelli,1921;poiVenezia, La Nuova Italia, 1929); G. DE ROBERTIS (Firenze, Le Monnier, 1927); A. MOMIGLIANO (Messina, Principato, 1929); M. FUBINI (Torino, UTET,1930;conlacollaborazionediE. BIGI, Torino, Loescher, 1964); E. CHIORBOLI (Bologna, Zanichelli, 1945); L. RUSSO (Firenze, Sansoni, 1945); N. GALLO e C. GARBOLI (Roma, Colombo, 1959; poi Torino, Einaudi, 1962), A. TARTARO (Napoli, Glaux, 1964; poi Roma-Bari, Laterza, 1984); L. FELICI (Roma, Newton & Compton,1974,poied.ampliata1996); F. BANDINI (Milano, Garzanti, 1975); G. e D. DE ROBERTIS (Milano, Mondadori, 1978); E. GHIDETTI (Firenze, Sansoni, 1988); U. DOTTI (Milano, Feltrinelli, 1993); G. TELLINI (Roma, Salerno Editrice, 1994); F. GAVAZZENI e M.M. LOMBARDI (Milano, Rizzoli, 1998); M. DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ (ed. bilingue, italiana e spagnola, Madrid, Ediciones Cátedra, 1998). Cfr. A. BUFANO, Concordanze dei ‘Canti’ del Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1969; G. SAVOCA, Concordanza dei ‘Canti’ di G. Leopardi. Concordanza, liste di frequenza, indici, Firenze, Olschki, 1994. PerleOperette morali, alla cit. ed. critica di MORONCINI si è affiancata un’ulteriore ed. critica, a cura di O. BESOMI (Milano, Fondazione Mondadori, 1979). Principali commenti: I. DELLA GIOVANNA (Le prose morali, Firenze, Sansoni, 1895; ristampato nel 1957 con intr. di G. DE ROBERTIS); N. ZINGARELLI (Napoli, Pierro,1895);O.ANTOGNONI(Il libro delle prose, Livorno, Giusti, 1911); G. GENTILE (Bologna, Zanichelli, 1918, 19252); M. PORENA (Prose scelte, Milano, Hoepli, 1921); M. FUBINI (‘Operettemorali’seguitedaunascelta dei‘Pensieri’,Firenze,Vallecchi,1933; poi Torino, Loescher, 1966, quindi in Opere,Torino,UTET,1977);A.PRETE (Milano, Feltrinelli, 1976); S. ORLANDO (Milano, Rizzoli, 1976); C. GALIMBERTI(Napoli,Guida,1977);P. RUFFILI (Milano, Garzanti, 1982); G. TELLINI (Roma, Salerno Editrice, 1994).Cfr.leConcordanzediacroniche delle ‘Operette morali’ di Giacomo Leopardi, a cura di O. BESOMI, R. DREWECK, M. ERNI, A. LOPEZBERNASOCCHI, Hildesheim, Olms, 1988. Per lo Zibaldone: la prima stampa apparve per il centenario della nascita delpoeta,coniltitoloPensieridivaria filosofia e di bella letteratura, Firenze, LeMonnier,1898-1900,7voll.,acura di una commissione di studiosi presieduta da G. CARDUCCI.Oltrealle citt. edd. di FLORA, di BINNIGHIDETTI e di FELICI-TREVI, si vedano: Zibaldone di pensieri, ed. fotograficadell’autografocongliindici e lo schedario, a cura di E. PERUZZI, Pisa, Scuola Normale Superiore, 19891994, 10 voll.; Zibaldone di pensieri, ed. critica e annotata a cura di G. PACELLA, Milano, Garzanti, 1991, 3 voll. (nel vol. III, pp. 1137-72, sono riprodotti gli Elenchi di letture leopardiane, cit., già editi da Pacella); Zibaldone di pensieri, a cura di R. DAMIANI,Milano,Mondadori,1997,3 voll. Per i Pensieri: la prima stampa apparve postuma nelle Opere, cit., a curadiA.RANIERI, II.Prose,pp.11184. Per le edizioni commentate, oltre alle raccolte complessive e alle sillogi delleopere,sivedainpartic.:I.DELLA GIOVANNA (in Le prose morali, cit.); O.ANTOGNONI(inIllibrodelleprose, cit.);M.PORENA(inProsescelte,cit.); M.FUBINI(in‘Operettemorali’seguite da una scelta dei ‘Pensieri’, cit., poi, ed. integrale, in Opere, cit.; quindi autonomamente,Pensieri,Milano,TEA, 1988); C. GALIMBERTI (Milano, Adelphi, 1982); U. DOTTI (Milano, Garzanti,1985);S.ORLANDO(Milano, Rizzoli, 1988); A. PRETE (Milano, Feltrinelli, 1994); G. TELLINI (Milano, Mursia,1994). Per i Paralipomeni della Batracomiomachia: la prima edizione uscípostumaaParigi,pressoBaudry,in cinquecento copie, nel 1842, per iniziativa di Ranieri. Si segnalano i seguenti commenti moderni: E. ALLODOLI (Torino, UTET, 1921); E. BOLDRINI (Torino, Loescher, 1970); M. FUBINI e E. PERONA ALESSANDRONE (in Opere, a cura di M. FUBINI, cit.); G. CAVALLINI (Galatina, Congedo, 1987); F. RUSSO (Milano, Angeli, 1997). Cfr. G. SAVOCA, Concordanza dei ‘Paralipomeni’ di G. Leopardi. Testo con commento, concordanza, liste di frequenza,Firenze,Olschki,1998. Perlelettere:Epistolario,acuradi P.VIANI,Firenze,LeMonnier,1849,2 voll. (poi 19257, 3 voll. con «nuove aggiunte» di G. PIERGILI); fondamentale, per i testi dei corrispondenti e il prezioso commento, l’Epistolario di Giacomo Leopardi. Nuovaedizioneampliataconletteredei corrispondentieconnoteillustrative,a cura di F. MORONCINI, Firenze, Le Monnier, 1934-1941, 7 voll. (l’ultimo volume a cura di G. FERRETTI, con indice analitico generale di A. DURO); Lettere, a cura di F. FLORA (vol. V 1949, di Tutte le opere, cit.); Epistolario,acuradiBINNI-GHIDETTI, inTutteleopere,cit., Ipp.1003-419(e Appendici, pp. 1462-64); Epistolario,a cura di E. TREVI, in Tutte le poesie e tutteleprose, a cura di FELICI-TREVI, cit., pp. 1123-445 (e Appendice, pp. 1445-48); Epistolario, a cura di F. BRIOSCHI e P. LANDI, Torino, Bollati Boringhieri,1998,2voll.(conlelettere dei corrispondenti). Scelte antologiche commentate:Storiadiun’anima.Scelta dall’epistolario, a cura di U. Dotti, Milano, Rizzoli, 1982; La vita e le lettere,acuradiN.NALDINI,intr.diF. BANDINI, Milano, Garzanti, 1983; Il monarca delle Indie (carteggio tra Giacomo e Monaldo Leopardi), a cura diG.PULCE,intr.diG.MANGANELLI, Milano, Adelphi, 1988; Lettere agli amicidiToscana, a cura (e con ottimo commento) di W. SPAGGIARI, Milano, Mursia,1990. 2.STUDI Repertori generali d’orientamento nell’illimitata bibliografia critica su Leopardi (la piú imponente e pletorica delle nostre lettere, dopo quella dantesca): G. MAZZATINTI-M. MENGHINI-G. NATALI, Bibliografia leopardiana, Parte I (fino al 1898) e Parte II (1898-1930), Firenze, Olschki, 1931-1932, 2 voll.; G. NATALI-C. MUSUMARRA, Bibliografia leopardiana,Parte III (1931-1951), ivi, id.,1953;A.TORTORETO,Bibliografia analiticaleopardiana(1952-1960), ivi, id., 1963; A. TORTORETO-C. ROTONDI, Bibliografia analitica leopardiana(1961-1970),ivi,id.,1973; E. CARINI, Bibliografia analitica leopardiana(1971-1980),ivi,id.,1985; E.GIORDANO,Illabirintoleopardiano. Bibliografia1976-1983(conunabreve appendice1984-85),Napoli,ESI,1986; ID., Il labirinto leopardiano II. Bibliografia 1984-1990 (con una appendice1991-1995),Napoli,Liguori, 1997; E. CARINI-A. SBRICCOLI, Bibliografia analitica leopardiana (1981-1986),Firenze,Olschki,1998. Per la biografia: A. RANIERI, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Milano, Giannini, 1880 (a curadiG.Cattaneo,conunanotadiA. ARBASINO, Milano, Garzanti, 1979; a cura di R. BERTAZZOLI, Milano, Mursia, 1995); G. PIERGILI, Nuovi documentiintornoallavitaeagliscritti di G. Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1882, 18892, 18923; ID., Vita di Giacomo Leopardi scritta da esso, Firenze, Sansoni, 1899 (a cura di F. FOSCHI, Bologna, Transeuropa, 1992); G. CHIARINI, Vita di Giacomo Leopardi, Firenze, Barbèra, 1905; G. FERRETTI, Vita di Giacomo Leopardi, Bologna, Zanichelli, 1940; I. ORIGO, Leopardi. A study in solitude, London, Hamish Hamilton, 1953 (trad. it. di P. OJETTI, Milano, Rizzoli, 1974); R. WIS, Giacomo Leopardi. Studio biografico, Firenze, Olschki, 1959; M. PICCHI, Storie di casa Leopardi, Milano, Camunia, 1986; R. DAMIANI, Vita di Leopardi, Milano, Mondadori, 1992; U. LOMBARDI, Vite parallele. Monaldo, Adelaide e Giacomo Leopardi, presentazione di G. PANELLA, Firenze, Polistampa, 1998. Si vedano almeno anche MONALDO LEOPARDI, Autobiografia e Dialoghetti, a cura di A. BRIGANTI, intr. di C. GRABHER, Bologna, Cappelli, 1972; le Lettere inedite di Paolina Leopardi, a cura di G. FERRETTI,intr.diF.FORTINI,Milano, Bompiani, 1979, e anche PAOLINA LEOPARDI, Io voglio il biancospino. Lettere (1829-1869), a cura di M. RAGGHIANTI,Milano,Archinto,1990. Di utile consultazione, in rapporto alle letture compiute dal poeta nella biblioteca paterna, il Catalogo della Biblioteca Leopardi, in «Atti e MemoriedellaR.DeputazionediStoria patria per le province delle Marche», vol. IV 1899, pp. 1-447 (da usare nondimeno con molta cautela per la frequenza degli errori e delle omissioni). Fortuna e storia della critica: N. SAPEGNO, De Sanctis e Leopardi (1953), in ID., Ritratto di Manzoni e altrisaggi, Bari, Laterza, 1961, 19663, pp. 141-49; E. BIGI, Giacomo Leopardi,nell’operacollettivaIclassici italianinellastoriadellacritica,acura diW.BINNI,Firenze,LaNuovaItalia, 1955,19673,2voll.(poi3voll.), IIpp. 351-407; C. GOFFIS, Leopardi, Palermo, Palumbo, 1961, 19755; M. MARTI, La fortuna del Leopardi nella critica predesanctisiana, in ID., Dal certo al vero, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962, pp. 285-301; W. BINNI, De Sanctis e Leopardi (19531956, con una Nota, 1971), in ID., Carducciealtrisaggi,Torino,Einaudi, 1972, pp. 195-240; C. STUFFERI MALMIGNATI, Leopardi nella coscienza dell’Ottocento, Roma, Bonacci,1976;A.FRATTINI, Leopardi nella critica dell’Otto e del Novecento, Roma, Studium, 1989; B. STASI, Apologiedellaletteratura.Leoparditra De Roberto e Pirandello, Bologna, Il Mulino, 1995; N. BELLUCCI, G. Leopardi e i contemporanei. Testimonianzedall’Italiaedall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, PontealleGrazie,1996. Per la presenza di Leopardi nella poesia italiana: R. NEGRI, Leopardi nella poesia italiana, Firenze, Le Monnier, 1970; G. LONARDI, Leopardismo. Saggio sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Firenze, Sansoni, 1974; A. DOLFI, La doppiamemoria.SaggiosuLeopardie il leopardismo, Roma, Bulzoni, 1986. Sulla fortuna all’estero: N. SERBAN, Leopardi et la France, Paris, Champion,1913;G.SINGH,Leopardie l’Inghilterra, Firenze, Le Monnier, 1966; Leopardi nella critica internazionale,acuradiM.SANTORO, Napoli,Federico&Ardia,1989. Tra i contributi della critica ottocentesca, si segnalano in particolare: G. MONTANI, rec. alle Canzoni,ai Versi, alle Operette morali e ai Canti, in «Antologia», risp., dicembre 1824, novembre-dicembre 1827, febbraio 1828 e aprile 1831, ora in ID., Scritti letterari, a cura di A. FERRARIS, Torino, Einaudi, 1980, pp. 193-215; P. GIORDANI, Scritti editi e postumi, a cura di A. GUSSALLI, Milano, Borroni e Scotti, 1856-1858, soprattuttotomiIVpp.118-31e151-78, VIpp.122sgg.;V.GIOBERTI,Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, a cura di F. UGOLINI, Firenze, Barbèra, 1856; C.A. SAINTEBEUVE,Leopardi, in «Revue des deux mondes»,15settembre1844,poiinID., Portraits contemporains et divers, III, Paris, Didier, 1847 (trad. it. Ritratto di Leopardi,acuradiC.CARLINO,intr.di A. PRETE, Roma, Donzelli, 1996); G. GLADSTONE, G. Leopardi, in «Quarterly Review», marzo 1850; C. TENCA, Tradizioni del pensiero italiano. Giacomo Leopardi, in «Il Crepuscolo», II5(2febbraio1851)e9 (2marzo1851),orainID.,Saggicritici, a cura di G. BERARDI, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 108-25; F. DE SANCTIS,StudiosuGiacomoLeopardi, Napoli, Morano, 1885 (vd. ID., La letteratura italiana nel secolo XIX, III. GiacomoLeopardi,acuradiW.BINNI, Bari, Laterza, 1953, e a cura di E. GHIDETTI,Roma,EditoriRiuniti,1983; e pure Leopardi, a cura di C. MUSCETTA e A. PERNA, Torino, Einaudi, 1960; per gli altri saggi leopardiani di De Sanctis, oltre alla pagina memorabile contenuta nell’ultimo capitolo della Storia della letteratura italiana, cfr. ID., Saggi critici, a cura di L. RUSSO, Bari, Laterza, 1952, 19654, 3 voll.: I [‘Epistolario’diG.Leopardi,del1849, e ‘Alla sua donna’. Poesia di G. Leopardi,del1855],II[Schopenhauere Leopardi.DialogotraAeD,del1858, eLaprimacanzonediG.Leopardi,del 1869]; III [La Nerina di G. Leopardi, del 1877, e Le nuove canzoni di G. Leopardi, del 1877]); F. NIETZSCHE, Intorno a Leopardi, a cura di C. GALIMBERTI (con testo originale a fronte),includeancheilsaggiodiW.F. OTTO, Leopardi e Nietzsche (1937, editopostumo,1963),postfazionediG. SCALIA, Genova, Il Melangolo, 1992 (il volume comprende passi e frammenti di Nietzsche, dal 1874 al 1889); F. DE ROBERTO, Leopardi, Milano, Treves, 1898 (a cura di N. BORSELLINO, Roma, Lucarini, 1987); G. PASCOLI, Il sabato (1896) e La ginestra(1898),inID.,Prose,acuradi A. VICINELLI, Milano, Mondadori, 1946, 2 voll., I pp. 57-106; G. CARDUCCI, Sulle tre canzoni patriottiche di Giacomo Leopardi (1898) e Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi (1898), poi in ID., Opere, Ed. Nazionale, XX, Bologna, Zanichelli, 1944, pp. 3-231; A. GRAF, Estetica e arte di G. Leopardi, in ID., Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Loescher, 1898, pp. 165-397, poi Torino, Chiantore,1945,pp.183-442. Inambitonovecentesco,traglistudi invariomodosignificativisullacultura, sul pensiero e sull’attività artistica di Leopardi, si vedano, con selezione necessariamente drastica: B. ZUMBINI, StudisulLeopardi, Firenze, Barbèra, 2 voll., 1902-1904; C. DE LOLLIS, Petrarchismo leopardiano (1904), in Scrittorid’Italia,acuradiG.CONTINI e V. SANTOLI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, pp. 193-219; G. GENTILE, Studi leopardiani (19071917),IntroduzioneaLeopardi (1927), Le ‘Operette morali’ (1916), Prosa e poesia nel Leopardi (1919), La poesia delLeopardi (1927), in ID.,Manzoni e Leopardi.Saggicritici,Milano,Treves, 1928, pp. 31-217; C. REBORA, Per un Leopardi mal noto (1910), poi nell’opera collettiva Omaggio a ClementeRebora,Bologna,Boni,1971 (autonomamente, a cura di L. BARILE, Milano,Scheiwiller,1992);G.A.LEVI, Storia del pensiero di G. Leopardi, Torino, Bocca, 1911 (a cura di A. DI BENEDETTO,Bologna,Boni,1987);V. CARDARELLI, La favola breve di Leopardi (1918), in ID., Viaggi nel tempo, Firenze, Vallecchi, 1920; B. CROCE,Leopardi(1922),inID.,Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1923, 19352, pp. 103-19; K. VOSSLER, Leopardi, München, Musarion Verlag, 1923 (trad. it. di T. GNOLI, Napoli, Ricciardi, 1925); A. ZOTTOLI, Leopardi. Storia di un’anima, Bari, Laterza, 1927; W. BENJAMIN, rec. (1928) alla trad. tedescadeiPensieri,orainID.,Critiche erecensioni,Torino,Einaudi,1979,pp. 67-69; G.A. LEVI, G. Leopardi, Messina, Principato, 1931; L. SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, Einaudi, 1935; P. BIGONGIARI, L’elaborazione della lirica leopardiana, Firenze, Le Monnier, 1937; M. BONTEMPELLI, Leopardi, l’«uomo solo» (1937), poi in ID., Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1945, 19645, pp. 35-65; A. MOMIGLIANO, Introduzione al Leopardi (1938), in Introduzione ai poeti, Roma, Tumminelli, 1946, poi Firenze,Sansoni,19793,pp.215-44;A. SAVINIO, Drammaticità di Leopardi, nell’operacollettivaGiacomoLeopardi, acuradiJ.DEBLASI,Firenze,Sansoni, 1938, pp. 109-32; A. TILGHER, La filosofia di Leopardi, Roma, Ed. di «Religio», 1940, poi Bologna, Boni, 1979; F. FIGURELLI, Giacomo Leopardi poeta dell’idillio, Bari, Laterza, 1941; G. UNGARETTI, ImmaginidelLeopardienostre(1943), poi in ID., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. DIACONO e L. REBAY, Milano, Mondadori, 1974, pp. 430-50 (qui anche Il pensiero di Leopardi, del 1933-1934; Secondo discorso su Leopardi, del 1950, e L’ ‘Angelo Mai’ del Leopardi, del 1946); M. MARTI, La formazione del primo Leopardi, Firenze, Sansoni, 1944; G. DE ROBERTIS, Saggio sul Leopardi, Firenze, Vallecchi, 1944, poi ed. accresciuta, ivi, id., 19735; C. LUPORINI, Leopardi progressivo, in ID., Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 183-279 (in vol. autonomo, Roma, Editori Riuniti, 1980); W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947, poi ed. accresciuta, ivi, id., 19713; G. DEROBERTIS,Sull’autografodelcanto ‘A Silvia’ (1947), in ID., Primi studi manzoniani e altre cose, Firenze, Le Monnier, 1949, pp. 150-68; G. CONTINI, Implicazioni leopardiane (1947), in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968),Torino,Einaudi,1970,pp. 41-52; G. DE ROBERTIS, Biglietto per G. Contini (1947), in ID., Primi studi manzoniani e altre cose, cit., pp. 16972; E. BIGI, Tono e tecnica delle ‘Operettemorali’(1950),Linguaestile dei“grandiIdilli”(1951)e‘Il passero solitario’eiltemadellasolitudinenella storiadellapoesialeopardiana(1952), inID.,Dal Petrarca al Leopardi. Studi di stilistica storica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 111-42, 143-70, 171-81;S.TIMPANARO,Lafilologiadi G. 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Atti del Convegno internazionale dell’Università di Lovanio (10-12 dicembre 1987), a cura di F. MUSARRA, S. VANVOLSEM, R. GUGLIELMONE LAMBERTI, Roma, Bulzoni, 1989; G. Leopardi. Il problemadelle«fonti»allaradicedella sua opera, a cura di A. FRATTINI, Roma, Coletti, 1990; La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore, a cura di A. DOLFI e A. MITESCU, Roma, Bulzoni, 1990; U. CASARI, Alla ricerca del lettore. Saggio su Leopardi, Verona, Fiorini, 1990; E. SEVERINO, Il nulla e la poesia alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990; N. BONIFAZI, Leopardi. L’immagine antica, Torino, Einaudi, 1991;A.FERRARIS,Lavitaimperfetta. Le ‘Operette morali’ di Giacomo Leopardi, Genova, Marietti, 1991; A. 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L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1997; L. BALDACCI, Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, ivi, id., 1998; R. BONAVITA, Descrizione di una battaglia. Leopardi e la querelle classico-romantica, in «Antichi e Moderni», I 1998, pp. 21-73; G.A. CAMERINO, L’invenzione poetica in Leopardi. Percorsi e forme, Napoli, Liguori,1998;V.GUARRACINO,Guida alla lettura di Leopardi, Milano, Mondadori, 1998; M. MANOTTA, Leopardi.Laretoricaelostile,Firenze, Accademia della Crusca, 1998; P. ROTA, Leopardi e la Bibbia. Sulla soglia d’«alti Eldoradi», Bologna, Il Mulino, 1998; ID., Leopardi e i narratorinella«Crestomaziaitaliana», nell’opera collettiva Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani tra Trecento e Seicento, a cura di G.M. ANSELMI, saggio introduttivo di F. RICO, Roma, Carocci, 1998, pp. 25163; G. TELLINI, Giacomo Leopardi, nell’opera collettiva Storia della letteratura italiana, dir. E. MALATO, VII.IlprimoOttocento, Roma, Salerno Editrice,1998,pp.727-830;U.DOTTI, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi,Roma-Bari,Laterza,1999;C. LUPORINI,DecifrareLeopardi,Napoli, Macchiaroli,1999;G.TELLINI,Vossler lettorediLeopardi,nell’operacollettiva ItalieninDeutschland-Deutschlandin Italien. Die deutsch-italienischen Wechselbeziehungen in der Belletristik des 20. Jahrhunderts, herausgegeben vonA.COMIundA.PONTZEN,Berlin, Erich Schmidt, 1999, pp. 389-404; Giacomo Leopardi. Poeta e filosofo. Atti del Convegno dell’Istituto italiano di Cultura (New York, 31 marzo-1o aprile 1998), a cura di A. CARRERA, Firenze, Cadmo, 1999; Giacomo Leopardi. Viaggio nella memoria, a cura di F. CACCIAPUOTI, Milano, Electa,1999;LeopardieBologna. Atti del Convegno di studi per il Secondo Centenario Leopardiano (Bologna, 1819 maggio 1998), a cura di M.A. BAZZOCCHI, Firenze, Olschki, 1999; Leopardi e l’età romantica. Atti del Convegno internazionale (Padova, 6-7 maggio e Venezia, 8 maggio 1998), a cura di M.A. RIGONI, Venezia, Marsilio, 1999; Studi leopardiani, a cura di E. GHIDETTI (numero monografico di «La Rassegna della letteratura italiana», s. IX 1999, 1); Giordani Leopardi 1998. Convegno nazionale di studi (Piacenza, 2-4 aprile 1998), a cura di R. TISSONI, Piacenza, Tip. Le. Co, 2000; I libri di Leopardi, Napoli, Elio de Rosa, 2000; Una giornata leopardiana in ricordo di WalterBinni(Firenze,3ottobre1998), a cura di M. MARTELLI, Roma, Bulzoni, 2000; «Quel libro senza uguali». Le ‘Operette morali’ e il Novecento italiano, a cura di N. BELLUCCIeA.CORTELLESSA,ivi,id., 2000; A. BRILLI, In viaggio con Leopardi,Bologna,IlMulino,2000;M. DONDERO, Leopardi e gli Italiani. Ricerche sul ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani’, Napoli, Liguori, 2000; G. GUGLIELMI, L’infinito terreno. Saggio su Leopardi, Lecce, Manni, 2000; L. DIAFANI, La «stanza silenziosa». Studio sull’epistolariodiLeopardi,Firenze,Le Lettere, 2000; A. DOLFI, Ragione e passione. Fondamenti e forme del pensare leopardiano, Roma, Bulzoni, 2000; E. LANDONI, Questo deserto, quell’infinitafelicità.Lalinguapoetica leopardiana oltre materialismo e nichilismo, Roma, Studium, 2000; E. SANGUINETI, Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. RISSO, Milano, Feltrinelli, 2000 (comprendequattrosaggileopardiani:Il nulla in Leopardi [1988], pp. 99-112; Leopardi e la Rivoluzione [1996], pp. 113-19; Per la storia di un’imitazione [1988], pp. 120-25; Nelle nozze della sorellaPaolina[1998],pp.126-37);W. SPAGGIARI,L’eremitadegliAppennini. Leopardi e altri studi di primo Ottocento, Milano, Unicopli, 2000; C. VECCE, Tre letture leopardiane, Recanati, Centro nazionale di studi leopardiani,2000. RilevantigliAtti(editiaFirenzeda Olschki)deiConvegniinternazionalidi studi che si svolgono a Recanati dal 1962, per iniziativa del Centro nazionaledistudileopardiani:Leopardi e il Settecento (I Convegno, 13-16 settembre 1962), 1964; Leopardi e l’Ottocento (II Convegno, 1-4 ottobre 1967), 1970; Leopardi e il Novecento (IIIConvegno,2-5ottobre1972),1974; Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento (IV Convegno, 13-16settembre1976),1978;Leopardi e il mondo antico (V Convegno, 22-25 settembre 1980), 1982; Il pensiero storicoepoliticodiGiacomoLeopardi (VI Convegno, 9-11 settembre 1984), 1989; Le città di Giacomo Leopardi (VIIConvegno,16-19novembre1987), 1991; Lingua e stile di Giacomo Leopardi(VIIIConvegno,30settembre5 ottobre 1991), 1994; Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia (IX Convegno, 18-22 settembre 1995), 1998. Si raccomandano per l’interesse documentario, anche iconografico: Leopardi,VieusseuxeFirenze,acuradi M. BOSSI e F. ZABAGLI, Firenze, Vieusseux, 1987 (Catalogo della mostra, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 28 novembre 1987-30 gennaio 1988); G. Leopardi, a cura di F.CACCIAPUOTI, Napoli, Macchiaroli, 1987 (Catalogo della mostra, Napoli, Biblioteca Nazionale, 23 novembre 1987-2ottobre1988);Album Leopardi, a cura di R. DAMIANI, ricerca iconografica di E. ROMANO, Milano, Mondadori, 1993; Casa Leopardi. Il giovane Giacomo, a cura di F. Foschi, Tolmezzo, Tip. A. Moro, 1995 (Catalogo della mostra, Recanati, Palazzo Leopardi, 16 luglio-30 ottobre 1995); Leopardi a Pisa, a cura di F. CERAGIOLI, Milano, Electa, 1997 (Catalogo della mostra, Pisa, Palazzo Lanfranchi, 14 dicembre 1997-14 giugno1998);LeopardiaRoma,acura diN.BELLUCCI e L. TRENTI, Milano, Electa, 1998 (Catalogo della mostra, Roma, Museo Napoleonico, 10 settembre-10dicembre1998). INDICEDELLE ILLUSTRAZIONI 1.A. CECIONI, Giacomo Leopardi. Busto in gesso (1879).Firenze,Biblioteca Marucelliana. 2.Prima facciata del manoscritto autografo della canzone Alla sua donna, vv. 12-33, con a fianco varianti e annotazioni (1823). Napoli, Biblioteca Nazionale. La successione delle strofe nell’autografo è diversa da quella delle stampe, ma ogni strofa è distinta da un numero che corrisponde all’ordine definitivo. Questa la distribuzione delle strofe nell’autografo: 2, 3, 5, 4, 1. 3.Prima facciata del manoscritto autografo della Storia del genere umano (1824). Napoli, BibliotecaNazionale. 4.Recanati,PalazzoLeopardi. INDICE PREMESSA AVVERTENZA I.UNBORGOMARCHIGIANO 1.NascereaRecanatinel1798 2.Geografia,storia,identitàculturale II.LEOPEREEIGIORNI,OVVEROIL CORAGGIODI UN’APPASSIONATA DISPERAZIONE 1.Lafamigliaeil«natioborgo selvaggio» 2.Roma 3.Milano,Bologna,Firenze,Pisa 4.Lafugadefinitivadacasaeil secondosoggiorno fiorentino 5.Napoli III.TRAERUDIZIONEEFILOLOGIA 1.Icomponimenti«puerili» 2.Glistudideglianni1813-1815 IV.LA«CONVERSIONELETTERARIA» 1.Dall’«erudizionealbello» 2.Traduzionidiclassici 3.Primeprovepoetichesignificative 4.LacorrispondenzaconPietro Giordani V.DEFINIZIONEDIUNAPOETICA CLASSICISTICA 1.LaLettera(1816)alla«Biblioteca Italiana» 2.DiscorsodiunItalianointornoalla poesiaromantica(1818) VI.LECANZONICIVILIDEL1818, UN’IPOTESINARRATIVAELE DUECANZONIFUNERARIE RIFIUTATE 1.All’ItaliaeSoprailmonumentodi Dante 2.Ricordid’infanziaediadolescenza 3.PerunadonnainfermaeNellamorte diunadonna VII.LA«CONVERSIONEFILOSOFICA» EGLISVILUPPIDELPENSIERO LEOPARDIANO 1.Dal«bello»al«vero»elacrisidel pessimismo«storico» 2.La«teoriadelpiacere» 3.Classicitàfelice? 4.Ilpessimismomaterialistico VIII.LOZIBALDONE 1.Lastoriaesterna 2.Unpensieroinmovimento IX.GLIIDILLI 1.Ipiaceridella«facoltà immaginativa» 2.Idillioeantiidillio X.LECANZONI 1.L’irrecuperabilitàdell’antico 2.L’edizionedel1824 XI.IL«MIOCERVELLOÈFUORIDI MODA».LEOPERETTE MORALIDEL1824E L’EDIZIONEDEL1827 1.Daldisegnodi«certeprosette satiriche»alleOperette morali 2.Impiantodinamicoe contrappuntistico XII.LONTANODARECANATI. IMPEGNOCULTURALEE DISIMPEGNOPOLITICO 1.Ilcommentatoreel’antologista 2.Discorsosopralostatopresentedei costumidegl’Italiani 3.IVersidel1826 XIII.ILDISGELO 1.Dalla«cognizione»al«sentimento» delnulla 2.Imorticome«stativivi»eilpotere visionario dell’«immaginazione» XIV.IL«RISORGIMENTO»EICANTI DEL1831 1.Laripresapoetica 2.Ilrisorgimento,ASilvia,Le ricordanze 3.Laquietedopolatempesta,Ilsabato delvillaggio,Canto notturno 4.LaprimaedizionedeiCanti XV.LEALTREOPERETTEMORALI 1.Lecinque«operette»del1825-1832 2.Leedizionidel1834edel1835 XVI.«LOSPETTATOREFIORENTINO», GIORNALEDI«NESSUNA UTILITÀ» 1.Cronacadiungiornalemaiuscito 2.La«inutilità»del«flâneur» XVII.ILCICLODIASPASIAELEDUE SEPOLCRALI 1.La«vita»non«immaginata»ma «reale» 2.Lesequenzedell’«ingannoestremo» 3.Lamortedisabbellita XVIII.GINOCAPPONIELAPALINODIA 1.LeopardieCapponi 2.Satiraideologica 3.StrutturadellaPalinodia XIX.ICANTIDEL1835 1.Ilpasserosolitario 2.LasecondaedizionedeiCanti XX.LASATIRAFUORIDEICANTI 1.LalineasatiricaeInuovicredenti 2.Paralipomenidella Batracomiomachia XXI.DALLOZIBALDONEAIPENSIERI 1.Lospettacolodel«mondo» 2.Uncasosintomaticodiriscrittura XXII.LAPROSAEPISTOLARE 1.Autocontrolloeconfessione 2.L’«uomoinse» XXIII.L’ESTREMOCONGEDODEL POETA 1.Iltramontodellaluna 2.Laginestra XXIV.MODERNITÀETRADIZIONE 1.Primatodell’ioememoriastorica 2.Veritàevita XXV.LAFORTUNACRITICA 1.Ilettoriottocenteschi 2.IlprimoNovecento 3.IlsecondoNovecento BIBLIOGRAFIAESSENZIALE Indicedelleillustrazioni 1.A. CECIONI, Giacomo Leopardi. Busto in gesso (1879).Firenze,Biblioteca Marucelliana. 2.Prima facciata del manoscritto autografo della canzone Alla sua donna, vv. 12-33, con a fianco varianti e annotazioni (1823). Napoli, Biblioteca Nazionale.Lasuccessione delle strofe nell’autografo è diversa da quella delle stampe, ma ogni strofa è distinta da un numero che corrisponde all’ordine definitivo. Questa la distribuzione delle strofe nell’autografo: 2, 3, 5, 4, 1. 3.Prima facciata del manoscritto autografo della Storia del genere umano (1824). Napoli, BibliotecaNazionale. 4.Recanati,PalazzoLeopardi.