LDB
«Sempre caro mi fu
quest’ermo colle / e questa
siepe, che da tanta parte /
dell’ultimo orizzonte il
guardo esclude»: l’eco dei
versi
leopardiani
ci
accompagna dai banchi di
scuolaetalorapuòcapitaredi
sorprendersi a risillabare
suggestivi passaggi di liriche
immortali, da A Silvia
all’Infinito al Sabato del
villaggio,
patrimonio
insostituibile di ogni persona
di cultura, anche fuori
d’Italia.
Eppure, il reale profilo di
Giacomo Leopardi (17981837)sfuggeaognitentativo
di facile definizione: poeta
del pessimo e del dolore?
Cantoredellanegazioneedel
vuoto
esistenziale?
La
presente monografia – la
prima pubblicata da molti
anniaquestaparte–risponde
proprio all’esigenza di un
ripensamento organico della
figura leopardiana, alla luce
degli apporti piú significativi
degli ultimi studi in materia.
Scrittore
multiforme
e
asistematico, Giacomo trova
lasuacifrapiúcaratterizzante
inun’attivitàprodigiosamente
prismatica, di cui Tellini
segue con tocco elegante le
molteplicimanifestazioni,che
poi ricompone in un quadro
unitario: ecco allora il poeta
degli idilli, delle canzoni e
deicantiprimiesecondi,che
fu al contempo autore delle
Operette morali e dello
Zibaldone di pensieri –
quindi prosatore e diarista –,
e ancora filosofo, erudito,
traduttore,filosofo…
Eserciziodifficile,eppure
affascinante, che consente
infine – afferrati i fili spesso
contraddittorî e seguiti i
percorsi per nulla lineari
dell’officina leopardiana – di
cogliere in profondo la
preziosa identità del cristallo
dacuiirradianotantiediversi
fascidiluce.
SESTANTE
5
GINOTELLINI
LEOPARDI
SALERNO
EDITRICE
ROMA
ComposizionepressoBertoncello
Artigrafiche,Cittadella(PD)
Copertina:
S.FERRAZZI,RitrattodiGiacomo
Leopardi(oliosutela1897).
©CasaLeopardi
Realizzazionetecnicaacuradi
BertoncelloArtigrafiche,Cittadella
(PD)
1aedizionedigitale:luglio2015
ISBN978-88-6973-077-1
Tuttiidirittiriservati-Allrights
reserved
Copyright©2015bySalernoEditrice
s.r.l.,Roma.Sonorigorosamentevietati
lariproduzione,latraduzione,
l’adattamento,ancheparzialeoper
estratti,perqualsiasiusoeconqualsiasi
mezzoeffettuati,senzalapreventiva
autorizzazionescrittadellaSalerno
EditriceS.r.l.Ogniabusosarà
perseguitoanormadilegge.
PREMESSA
QuestoLeopardiampliae
approfondisce il capitolo
Giacomo Leopardi del 1998,
pubblicato nel volume VII (Il
primoOttocento)dellaStoria
della Letteratura Italiana
diretta dall’amico Enrico
Malato. Pur nella maggiore
analiticità dell’impianto, il
disegno generale è rimasto
inalterato, con aggiunte
tuttavia di non poco conto.
Anzitutto è stata estesa la
parte della biografia (cap. II),
sí da fornire una cronologia
sintetica, ma per quanto
possibile dettagliata, che
serva
da
cornice
di
riferimento e da utile
connettivo
dell’intero
volume. Poi la scansione
diacronica dei momenti piú
rilevanti dell’opera dello
scrittore include, in tre casi
particolari, sondaggi piú
specifici: per i canti pisanorecanatesi del 1828-’30 (cap.
XIV), di cui si propone una
lettura integrale; per «Lo
Spettatore Fiorentino» (cap.
XVI),
che è episodio
solitamente passato sotto
silenzio, mentre consente di
illuminare con chiarezza i
presupposti
ideologici
dell’ultimo Leopardi; per la
Palinodiaeirelativirapporti
con l’ambiente culturale
fiorentino (cap. XVII), onde
dare il giusto risalto alla
denuncia intellettuale e
all’energia espressiva di un
componimento che – in
relazionealsuovalore–ètra
i meno frequentati dagli
studiosiedailettori.
Lo stato attuale delle
ricerchesuLeopardi,inItalia
e nel mondo, è in attivissimo
fermento. Specie negli ultimi
venti anni le prospettive
interpretative
si
sono
rinnovate, con perlustrazioni
d’archivio,
accertamenti
storici e biografici, restauri
filologici,
edizioni,
commenti,riletture,contributi
sul lessico, sulla sintassi,
sulla metrica, come sul
metodo speculativo del
pensatore.Siprofilanocampi
d’indagine finora poco
esplorati: intorno all’ars
memoriae del poeta e agli
angoli piú riposti della sua
cultura, alla tecnica del
traduttore e dell’antologista,
alla selva di significati che
fermentano nello Zibaldone.
Le voci della bibliografia
critica incalzano a un ritmo
sempre piú frenetico, con
febbrile
accelerazione
planetaria. Soltanto il regesto
sistematico
delle
pubblicazioni
occasionate
dalla ricorrenza bicentenaria
del1998–nondiradoinutili
odestinateaviverequantogli
«insettichiamatiefimeri»,per
ricorrereaunametaforadello
Zibaldone – occuperebbe, da
solo, un volume. Siffatto
tumultuoso oceano rende
sgomentante il tentativo di
unaricognizionecomplessiva
e si capisce bene perché
l’interesse degli addetti ai
lavori si orienti ormai da
tempo
verso
indagini
settoriali,
verso
zone
delimitate e circoscritte
dell’universoleopardiano.
La presente monografia
non aspira e non s’illude di
fare – come usa dire – “il
punto”. Né vuole tirare
bilanci.
Risponde
però
all’esigenza
di
un
ripensamento organico, che
valorizzi gli apporti piú
persuasividelnuovocorsodi
studi,eancheallanecessitàdi
un raccordo funzionale tra le
molteplici(spessoantitetiche)
sollecitazioni emerse dal
rinnovamento in atto. Mira
perciò a colmare quello
spazio vuoto che si è
spalancato tra l’informazione
divulgativa e le microanalisi
specialistiche. Di qui una
sintesi
panoramica,
augurabilmente aggiornata,
da usare come manuale di
servizio che intende rendere
conto della sorprendente
complessità di un autore
multiforme e asistematico,
senza però disgregarne
l’eccezionale fisionomia in
una
frammentazione
parcellizzata e pulviscolare.
Perciòattentacuraèdedicata
alle correlazioni tra i
differenti
versanti
di
un’attività avventurosamente
prismatica,ainessitraleparti
eiltutto:l’erudito,ilfilologo,
il traduttore, il poeta degli
idilli e delle canzoni e dei
canti primi e secondi, il
prosatore, il diarista, il
filosofo…Tenereinmanoil
filo comporta sacrifici,
impedisce scandagli preziosi
e scavi illuminanti, tuttavia
aiuta, non a trovare coerenza
dove c’è contraddizione, ma
almenoanonperderedivista
l’identità del cristallo da cui
s’irradianotantifascidiluce.
Firenze,23dicembre2000
G.T.
AVVERTENZA
Le citazioni dai testi di
Leopardisonotrattedinorma
da Tutte le opere (= TO), a
cura di W. BINNI, con la
collaborazione di E. GHIDETTI,
Firenze, Sansoni, 1969, 2
voll. In accordo con i criteri
seguíti nella mia ed. (I Canti
e le Operette morali, Roma,
Salerno Editrice, 1994), non
si adottano qui né il ricorso
sistematico alla maiuscola in
incipit di verso né l’impiego
esclusivo dell’accento grave,
propridell’usoleopardiano.
Per le Operette morali si
segue la paragrafatura fissata
da O. BESOMI nella sua ed.
critica (Milano, Fondazione
Mondadori, 1979), riproposta
anche nella cit. ed. a mia
cura.
Per lo Zibaldone (= Zib.)
si rimanda all’ed. critica e
annotata a cura di G. PACELLA
(Milano, Garzanti, 1991, 3
voll.),
con
riferimento
costanteallapaginae,quando
indicata,
alla
data
dell’autografo.
Con Epist. s’intende
l’Epistolario di Giacomo
Leopardi. Nuova edizione
ampliata con lettere dei
corrispondenti e con note
illustrative, a cura di F.
MORONCINI,
Firenze,
Le
Monnier, 1934-1941, 7 voll.
(l’ultimovolumeacuradiG.
FERRETTI, con indice analitico
generale di A. DURO); con
Epist.2
s’intende
l’Epistolario, a cura di F.
BRIOSCHI e P. LANDI, Torino,
Bollati Boringhieri, 1998, 2
voll.
Per gli Elenchi di letture,
compilatidaLeopardi,alcuni
senza data, altri relativi al 24
febbraio 1819, ai mesi
novembre 1822-maggio 1823
e al periodo 1° giugno 1823marzo 1830, il rinvio va a
Elenchi
di
letture
leopardiane, in Zibaldone,
cit.,IIIpp.1137-72.
Queste le sigle delle
principali stampe d’autore
chericorrononeltesto:
B24 = Canzoni del conte
Giacomo Leopardi, Bologna,
AnnesioNobili,1824.
B26 = Versi del conte
Giacomo Leopardi, Bologna,
StamperiadelleMuse,1826.
F = Canti del conte
Giacomo Leopardi, Firenze,
GuglielmoPiatti,1831.
N = Canti di Giacomo
Leopardi, Napoli, Saverio
Starita,1835.
I
UNBORGO
MARCHIGIANO
1.NASCEREARECANATINEL
1798
Nascere a Recanati nel
1798 significa nascere nel
silenziodellaprovincia,nella
Marca Anconitana, in uno
degli angoli piú depressi del
depresso Stato della Chiesa:1
dove giunge fioca e con
bagliori sinistri l’eco della
modernità
rivoluzionaria;
dove resistono le strutture di
una
società
arcaica,
ecclesiasticaenobiliare;dove
permangono quasi intatti gli
usi di un’economia agricola
parassitaria,insiemeaicanoni
di una cultura erudita e
accademica. I fermenti della
nuova civiltà borghese,
nell’assetto di questa ormai
anacronistica
monarchia
assoluta politica e religiosa,
che ha conosciuto con
l’Arcadia
e
con
il
melodramma metastasiano le
sue estreme stagioni di
egemonia
nazionale,
promuovono nel secondo
Settecento un riformismo
miope e guardingo, non
paragonabile al processo di
rinnovamento attuato in altre
zone della penisola. La
progettualità
“illuminata”,
che investe l’ordinamento
teocratico
del
potere
pontificio, si muove con
ottimismo ingenuo o con
calcolatacircospezione:come
nei Pensieri sulla pubblica
felicità
(1774)
dell’economista
romano
Claudio Todeschi; nel saggio
Della importanza e dei pregi
del nuovo sistema di finanza
dello Stato pontificio (1794)
del milanese Paolo Vergani,
dal
1781
funzionario
papalino; nelle Riflessioni
economiche politiche e
morali sopra il lusso,
l’agricoltura, la popolazione,
lemanifattureeilcommercio
dello Stato pontificio (1795)
del liberista Nicola Corona,
invano fautore di una legge
agraria a favore della piccola
proprietà, contro il latifondo
improduttivo dell’aristocrazia
terriera e del demanio
ecclesiastico.
Poiiltumultodeglieventi
diFranciametteatacereogni
velleità di riforma e apre la
strada a una dilagante
pubblicistica
controrivoluzionaria
che
trova proprio in Roma il
fronte della resistenza piú
agguerrita e nel poema La
Bassvilliana (1793) di Monti
il monumento nostrano piú
illustre
della
reazione
antifrancese in smaltati abiti
classicisti. Sta di fatto che
nella
movimentata
planimetria
del
neoclassicismo
di
area
romana,
sostenuto
dal
rinnovato interesse per gli
scavi archeologici e per il
collezionismo
antiquario,
nonostante la scienza di uno
studioso vigoroso come
Ennio Quirino Visconti e le
nostalgie visionarie di un ex
illuminista come Alessandro
Verri, la prospettiva europea
del ritorno all’antico resta in
buona parte confinata nel
recinto
angusto
della
vocazione estetizzante, della
retorica neoarcadica, del
municipalismo erudito. La
Roma di Benedetto XIV
(1740-1758) e di Pio VI
(1775-1799), all’insegna di
un singolare riformismo
senzailluminismochenonha
scalfito la clericalizzazione
delle istituzioni e il dominio
della nobiltà, si compiaceva
nell’esibireaitantivisitatorie
ai grandi ospiti stranieri il
fascinodellepropriememorie
lontane, isola fastosa e
monumentale nella squallida
desolazione della Maremma
lazialeedellePaludiPontine.
Ma nascere nel 1798 a
Recanati significa anche
nascere in «uno dei periodi
piú agitati e travagliati della
storia delle Marche».2 I moti
giacobini del 1796-’97, la
reazione sanfedista nel 1799
sostenuta dalle truppe austrorusse, quindi il ritorno dei
francesi e l’annessione nel
1808 delle Marche al regno
d’Italia, poi la sconfitta di
MurataTolentinonelmaggio
1815 e la restaurazione
pontificia: le scosse violente
si susseguirono quasi senza
sosta. Il padre di Leopardi, il
conte Monaldo, conservatore
schiettoe«cattolicissimo,ma
non misticheggiante, anzi
razionalista»,3 derivò da
questevicendetumultuoseun
odio
sincero
per
la
Rivoluzione e insieme un
desiderio di quieto vivere,
fuori da ogni aperto
coinvolgimento
politico.
«Molto piú che suddito
pontificio (a Roma si recò
molto di rado e di
malavoglia),
si
sentí
marchigiano e, piú ancora,
recanatese».4
Giacomo,
cresciuto in questo clima
controrivoluzionario
cosí
timoroso del nuovo e anche
cosí incline ai compromessi,
ebbe l’energia di maturare
scelte
autonome
e
radicalmente
coraggiose,
tanto da sentirsi cittadino del
mondo.
2.GEOGRAFIA,STORIA,
IDENTITÀCULTURALE
L’origine
biografica
talvolta non spiega molto
nella storia di un destino
individuale. Ma nel caso che
qui interessa, la nascita
recanatese rende ragione, in
via preliminare, di alcuni
aspetticostitutividelcarattere
leopardiano: anzitutto la
passione per lo studio
dell’antichità classica, tratto
distintivo del ceto nobiliare
romagnolo-marchigiano. Ne
sonoprovaalcuninomiallora
illustri: il bolognese Filippo
Schiassi, epigrafista, docente
di Archeologia all’Università
di Bologna, autore di Sul
dilettodeglistudîantiquarîe
singolarmente
della
Numismatica (1808); il
marchese
bolognese
Massimiliano
Angelelli,
docente di Lettere greche
all’Università di Bologna,
traduttore di tutto il teatro di
Sofocle(1823-1824);Dionigi
Strocchi, di Faenza, poeta,
traduttore di Callimaco e di
Virgilio;
Bartolomeo
Borghesi, di Savignano,
eruditoearcheologo,studioso
di epigrafia e numismatica,
«un tecnico dell’antiquaria
universalmente riverito in
Europa»;5 il conte Giulio
Perticari,
anch’egli
di
Savignano ma residente per
lopiúaPesaro,traifondatori
nel 1819 del romano
«Giornale
Arcadico»,
roccaforte
dell’antiromanticismo,
scrittore in versi e in prosa,
filologo e linguista, unito dal
1812 in infelice matrimonio
con la bellissima Costanza
Monti, figlia del poeta (le
nozze furono celebrate con
una raccolta collettiva di
epitalami, a cui presero parte
molti amici letterati, come
StrocchieBorghesi:Inniagli
DeiConsenti,Parma,Bodoni,
1812). Si ricordi che il
pesarese Francesco Cassi,
traduttore della Farsaglia di
Lucano (apparsa, dopo un
primosaggiodel1820,indue
tomiadispensetrail1826eil
1836),nonchécuginoeamico
carissimo di Perticari, era
anche cugino di Monaldo
Leopardi e che Giuseppe
Melchiorri,
cultore
di
antiquaria, era cugino di
Giacomo.
Siffatta
vocazione
classicista,
respirabile
nell’aria
di
famiglia,
comporta il distacco, che poi
diventa urto polemico, nei
confronti degli schieramenti
«modernisti» (i romantici
lombardi, poco piú tardi i
liberali toscani e i «nuovi
credenti»
napoletani),
impegnati nella pragmatica
battaglia del nuovo, per una
cultura di immediata attualità
e utilità. Non solo. Il
rinnovamento in atto nel
secondo
decennio
dell’Ottocentoriguarda,sisa,
anche il sistema dei generi
letterari e si spiega che la
Milano romantica possa
diventare l’officina di un
teatro nuovo e di un nuovo
romanzo (i due generi piú
esposti alle attese del
pubblico e alle sollecitazioni
diunasocietàinmovimento),
anzi il laboratorio del nostro
romanzo moderno, come
anche il centro di una nuova
poesia, realistica e sliricata,
da Porta a Manzoni. Si
capisceinvececheaRecanati
il terreno prediletto, per
quanto non esclusivo, resti la
poesialirica,autobiograficae
soggettiva, il genere principe
dellatradizioneaulicaitaliana
(è miracolo del pontificio
Belli dialettale far sí che a
Roma il sonetto si trasformi,
ma clandestinamente, in
perfetto ingranaggio di una
formidabile e corrosiva
«commediaumana»).
Si metta però anche
súbito in conto il rapporto
ancipite di amore e odio che
lega Giacomo alla sua terra:
fino alla rottura violenta
(psicologicaeideologica)con
la
plumbea
atmosfera
circostante, per un’ansia di
libertà che educa in lui un
temperamento
solitario
quantopugnace,urtanteenon
disposto al compromesso,
orgoglioso della propria
inattuale diversità. Tale moto
di aspra ribellione non arriva
a rinnegare le radici di
un’identità culturale, ma ne
spezza
il
conformismo
provinciale e i limiti
reazionari.
Quello
di
Leopardi è il caso raro, non
peròeccezionale,diunautore
cheharaggiuntolagrandezza
e la spregiudicata modernità
con la lenta fatica di chi va
controcorrente, attraverso lo
scavoassiduonelpassatoeil
rifiuto altrettanto assiduo
della contemporaneità, dei
falsi miti celebrati nel suo
tempo.
1. Per un ampio panorama storico
sulloStatodellaChiesa,vd.soprattutto
M. CARAVALE-A. CARACCIOLO, Lo
StatopontificiodaMartinoVaPioIX,
Torino, UTET, 1978. Per aspetti piú
specifici,vd.D.DEMARCO,Iltramonto
dello Stato pontificio. Il papato di
GregorioXVI,Torino,Einaudi,1949,e
V.E.GIUNTELLA,RomanelSettecento,
Bologna, Cappelli, 1971. Per una
prospettivadiperiodizzazioneletteraria,
vd.W.BINNI-N.SAPEGNO,Marche,in
Storia letteraria delle regioni d’Italia,
Firenze, Sansoni, 1968, pp. 431-50, e
piú analiticamente R. MEROLLA, Lo
StatodellaChiesa,nell’operacollettiva
Letteratura Italiana, dir. da A. ASOR
ROSA,Storia e geografia, II/2, Torino,
Einaudi, 1988, pp. 1019-109, senza
prescindere dalle indagini di C.
DIONISOTTI (Geografia e storia della
letteratura italiana, ivi, id., 1967;
Regioni e letteratura, nell’opera
collettiva Storia d’Italia, coordinata da
R. ROMANO e C. VIVANTI, V/2 [I
documenti],ivi,id.,1973,pp.1373-95;
Appunti sui moderni. Foscolo,
Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, Il
Mulino, 1988). Per il classicismo
ottocentesco italiano, si sottintende il
rinvioaglistudidiS.TIMPANARO (La
filologiadiG.Leopardi[1955],RomaBari, Laterza, 19973; Classicismo e
illuminismo nell’Ottocento italiano,
Pisa,Nistri-Lischi,1965,19692;Aspetti
e figure della cultura ottocentesca, ivi,
id.,
1980;
Antileopardiani
e
neomoderati nella sinistra italiana,
Pisa,ETS,1982;Nuovistudisulnostro
Ottocento,Pisa,Nistri-Lischi,1995),di
P. TREVES (Lo studio dell’antichità
classicanell’Ottocento, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1962; L’idea di Roma e la
culturaitalianadelsecoloXIX,ivi,id.,
1962)ediA.LAPENNA(Latradizione
classica nella cultura italiana,
nell’operacollettivaStoriad’Italia,V/2,
cit.,pp.1319-72;Glistudiclassicidalla
fondazione dell’Istituto di Studi
Superiori, nell’opera collettiva Storia
dell’Ateneo fiorentino. Contributi di
studio,Firenze,Parretti,1986,2voll., I
pp. 201-86; Tersite censurato e altri
studi di letteratura fra antico e
moderno,Pisa,Nistri-Lischi,1991).
2.S.TIMPANARO,Il Leopardi e la
Rivoluzione francese (1990), in ID.,
NuovistudisulnostroOttocento,cit.,p.
127.
3.Ivi,p.128.
4.Ibid.
5. P. TREVES, Bartolomeo
Borghesi, in ID., Lo studio
dell’antichità classica nell’Ottocento,
cit.,p.829.
II
LEOPEREEI
GIORNI,OVVERO
ILCORAGGIODI
UN’APPASSIONATA
DISPERAZIONE
1.LAFAMIGLIAEIL«NATIO
BORGOSELVAGGIO»
La vita di Leopardi, se
messaaconfrontoconquella
degli altri protagonisti della
nostra vicenda letteraria di
primo Ottocento, appare
singolarmente appartata e
spogliadieventi.Labiografia
foscoliana è percorsa da
spirito d’avventura e da
ardimentosa compromissione
politica.
All’esperienza
manzoniana presiedono le
relazioni con una società
dinamica,
lombarda
e
parigina, con una militante
cultura
d’avanguardia.
Leopardi,invece,vienedaun
climacivileeintellettualedel
tuttodiverso.L’isolamentodi
uno
sperduto
borgo
marchigiano, nel torpore
dello Stato pontificio; il
rigoreossessivodiunfervore
concettuale
affilatissimo,
coltivato in privato, nella
solitudinediunabiblioteca,e
intento al lirico trasalimento
dei «tristi e cari / moti del
cor»(Lericordanze,vv.17273);
l’estraneità,
per
convinzioneeticaeperscelta
ideologica, dalle tendenze
dominanti del Risorgimento
liberale: questi i dati piú
appariscenti che distinguono
la biografia leopardiana,
intessuta di intenso amore
alla vita e di eroica
disperazione.
Dal conte Monaldo
Leopardi (1776-1847) e da
Adelaide dei marchesi Antici
(1778-1857), andati sposi il
27 settembre 1797, Giacomo
nacqueaRecanatilaseradel
29 giugno 1798, primogenito
di dieci figli, in una famiglia
economicamente in declino
dell’aristocrazia
terriera.
Profondoeaffettuososaràpoi
il suo rapporto con il fratello
Carlo (1799-1878)1 e con la
sorella Paolina (1800-1869),
mentre contatti occasionali
manterrà con Luigi (18041828) e Pierfrancesco (18131851).Glialtricinquefratelli
(un altro Luigi, Francesco
Saverio,Raimondo,Giuseppe
e Ignazio) non sopravvissero
alla nascita o alla primissima
infanzia.
La giovanile inaccortezza
delpadre,gentiluomodivasta
culturaenonprivod’ingegno
ma conservatore accanito,
dogmatico e autoritario, con
ambizioni di storico e di
letterato, provocò dissesti al
bilancio della famiglia, tanto
che dal 1803 il governo
domestico passò nelle mani
dell’arcigna Adelaide e la
cura del patrimonio fu
legalmenteaffidata,pertutela
dei
creditori,
a
un
amministratore giudiziario
(l’interdizione di Monaldo
cessòsoltantonel1820).
Giacomo, prigioniero di
una «ostinata nera orrenda
barbara malinconia»2 ma
infiammato da «grandissimo,
forse smoderato e insolente
desideriodigloria»,3sitrovò
presto a soffrire, nella sua
«porca
bicoccaccia»,4
dell’incomprensione di un
ambientegelidamentegrettoe
conformista:
machecredeEllamai?ChelaMarcae
’lmezzogiornodelloStatoRomanosia
come la Romagna e ’l settentrione
d’Italia? Costí il nome di letteratura si
sente spessissimo: costí giornali
accademie conversazioni librai in
grandissimo numero. […] Qui,
amabilissimo Signore mio, tutto è
morte,tuttoèinsensataggineestupidità.
Si meravigliano i forestieri di questo
silenzio, di questo sonno universale.
Letteraturaèvocaboloinudito.5
Crebbeinunclimadiangusto
classicismo retorico, tipico
dell’educazione gesuitica, e
di
rigida
ortodossia
confessionale,
non
assimilabile al nuovo fervore
religioso
della
cultura
romantica. Ebbe modesti
insegnanti privati: fino al
1807,
don
Vincenzo
Diotallevi e il gesuita
messicano Giuseppe Torres
(già precettore di Monaldo);
poi, fino al 1812, don
Sebastiano Sanchini della
diocesi di Rimini. Piú si
avvalse dei consigli di un
amico del padre, il colto don
Giuseppe Antonio Vogel
(1756-1817), un alsaziano
esule in Svizzera durante la
Rivoluzione, quindi in Italia,
prima a Fermo, poi (almeno
dal 1806) a Recanati come
professore
di
Storia
ecclesiastica nel locale
Seminario e dal 1809
canonicodellaCattedrale(nel
1814 trasferito a Loreto). Ma
la sua vera formazione
avvenneautonomamente,con
prodigioso
e
frenetico
autodidattismo, nella ricca
biblioteca
(circa
quattordicimila
volumi)
teologico-storico-erudita,
piuttosto che letteraria,
costituita dal padre con le
liquidazioni dei fondi librari
ecclesiastici,svendutidurante
leoccupazioninapoleoniche.6
Qui il ragazzo si applicò a
letture febbrili, apprendendo
per proprio conto il greco e
l’ebraico.
«Giovanetto,
Recanati era per lui la stanza
della biblioteca paterna; vi
entrò recanatese, ne uscí
cittadinodelmondo.Chétale
è la scienza, la quale rende
l’uomo contemporaneo de’
passati
e
meditativo
dell’avvenire, e dà all’anima
un occhio che abbraccia
l’universo».7
L’implacabile contessa
Adelaide mantenne con il
figlio un distacco freddo e
cerimonioso:
sconcertante
personaggiomaternochesiè
guadagnato, nell’epistolario
leopardiano, un misero ruolo
di comparsa.8 Tenace e
drammatico fu invece il
legame con il padre. Orfano
all’età di quattro anni,
Monaldo aveva mitizzato il
ruolo della guida paterna che
a lui era mancata. E volle
verso i figli esercitare questo
ruolo con ferrea coerenza,
persuaso di agire per il loro
bene, specie nei riguardi del
primogenito
che
profondamente amava a suo
modo e orgogliosamente
ammirava. Recanati era la
nicchia a cui Monaldo si
sentiva avvinto da continuità
di sangue e di tradizione. Lí
nasceva e moriva la sua
geografia: fuori era il regno
della corruzione e del caos,
dell’intrigo e della perfidia,
dèmoni ch’egli esorcizzava
vigilando sulla quiete morale
ereligiosadellasuacasaedei
suoi cari. Il padre fu da
Giacomo prima venerato
come modello umano e
intellettuale, poi rifiutato
come esempio antitetico di
cultura, ideologia, sensibilità,
senza che s’infrangesse
tuttavia il vincolo d’affetto.
Nel figlio la docilità e la
tenerezza sentimentale si
coniugavano alla risolutezza
del carattere e dell’ingegno.
La volontà di compiacere il
padre e di assecondarne
l’etica
familiare
si
scontrarono con l’inevitabile
necessitàdelladisubbidienza,
con l’opposto dovere di
seguire
le
proprie
inclinazioni. Erano due forze
d’intensità equivalente che
aprironounaferitainsanabile:
un conflitto di rancore e di
amore che generò dubbi,
rimorsi,
perplessità
angosciose. La scoperta e
l’affermazione
di
sé
reclamavano un oltraggio
all’altare
domestico:
un’infrazione che la ragione
approvava e sosteneva, senza
riuscire a cancellare il peso
dellacolpa.
Nei lavori eruditi della
fanciullezza, insieme a
scolastiche ingenuità, già
s’intravede in Giacomo la
passioneprecocedelfilologo,
chedaràpoieccellenteprova
di sé. A fianco di numerosi
testipoetici«puerili»,acuisi
dedicò – undicenne – dal
1809, con traduzioni e
«dissertazioni filosofiche»,
compose anche due tragedie,
entrambe in tre atti: La virtú
indiananel1811ePompeoin
Egitto nel 1812. Nel 1813
compilò la Storia della
Astronomia dalla sua origine
fino all’anno MDCCCXI (edita
da Giuseppe Cugnoni nel
1880). Nel 1814 s’impegnò
nello studio di Esichio
Milesio,
di
Porfirio
(Porphyrii de vita Plotini et
ordine librorum eius), dei
Retori (Commentarii de vita
et
scriptis
rhetorum
quorundamqui IIp.Ch.saec.
vel
primo
declinante
vixerunt).9 Tra il 1814 e i
primi mesi del 1815 portò a
termine le indagini sui
frammenti dei Padri greci
(Fragmenta
Patrum
Graecorum) e sugli scrittori
di
storia
ecclesiastica
(Auctorum
Historiae
EcclesiasticaeFragmenta).
Nel 1815, oltre al Saggio
sopra gli errori popolari
degli antichi (pubblicato da
Prospero Viani nel 1846) e
allostudiosuGiulioAfricano
(Sexti Iulii Africani quae
supersunt omnia), compose
nel
maggio-giugno
Agl’Italiani. Orazione in
occasione della liberazione
del Piceno (edita nel 1878),
dopo la vittoria austriaca di
Tolentino,il3maggio,contro
Gioacchino Murat. Era la
medesima occasione che al
Manzonitrentennenell’aprile
1815(primadellasconfittadi
Murat: «Signor che la parola
haiproferita,/chetanteetadi
indarnoItaliaattese»,vv.2-3)
dettava i versi concitati della
canzone–lasciataincompiuta
dopoTolentino–Ilproclama
diRimini, entusiastico elogio
delrediNapolieinno«delle
imprese alla piú degna» (v.
1), vale a dire all’unità e
all’indipendenza nazionale (a
cui
il
poeta
faceva
«scientemente»10sacrificiodi
un brutto verso: «liberi non
sarem se non siam uni», v.
34).
Al
Leopardi
diciassettenne invece, ligio
all’ortodossia monaldesca,
l’epilogo fallimentare di
questa precipitosa avventura
militare giungeva come un
sollievo. Anzi gli ispirava
l’enfasi di una prosa
eloquente e declamatoria che
recuperava dalla classicità il
mito antitirannico in chiave
legittimista, con vibrati
accenti antifrancesi specie
all’indirizzo del «barbaro
carnefice»11
Murat,
in
accordo con il clima
dell’Europa
restaurata:
accordo però parziale, stante
l’auspicio dell’«indipendenza
italiana»,12 da Giacomo
desiderata
ma
ritenuta
impossibile,tantopiúsottola
guida di «un uomo straniero
di patria e d’interessi», un
«usurpatore» e un «tiranno»
che
finge
«sentimenti
liberali».13
Riguardo
all’effettivo
significato
dell’impresa
di
Murat,
politicamente ambigua e
velleitaria,l’asprogiudiziodi
Leopardi risulta piú aderente
alla realtà storica del
commosso entusiasmo di
Manzoni.
Nello
stesso
1815
approntò la traduzione degli
IdillidiMosco(astampa,con
il Discorso sopra Mosco, nel
milanese «Lo Spettatore», 31
luglio-15 novembre 1816) e
della Batracomiomachia, il
poemetto pseudomerico sulla
battagliadelleraneedeitopi
(a stampa, insieme al
Discorso
sopra
la
Batracomiomachia, su «Lo
Spettatore», 31 ottobre e 30
novembre 1816).14 Nel 1816
pubblicòleNotizieistorichee
geografiche sulla città e
chiesa arcivescovile di
Damiata (Loreto, Tip. Rossi,
giugno1816);ilPareresopra
ilSalterioebraico,versificato
da Giovambattista Gazola,
sulla
italianizzazione
dell’abate Giuseppe Venturi
contestoenote,Verona,Tip.
Mainardi,
1816
(«Lo
Spettatore», 31 ottobre e 15
novembre 1816); Della fama
di Orazio presso gli antichi
(«Lo
Spettatore»,
15
dicembre 1816). Sempre nel
1816 avviò (il 30 luglio) la
tragedia Maria Antonietta
(rimasta allo stadio di
abbozzo), ma soprattutto
tradusse
i
testi
del
grammatico latino Frontone
scoperti in un palinsesto
ambrosiano e pubblicati a
Milano nel 1815 da Angelo
Mai
(bibliotecario
dell’Ambrosiana dal 1811,
poidal1819prefettoaRoma
della Vaticana), le Iscrizioni
Triopèe di Marcello Sidete
(già trasposte in versi italiani
daEnnioQuirinoViscontinel
1794), il I libro dell’Odissea
(«LoSpettatore»,30giugnoe
15 luglio 1816), il II
dell’Eneide (Milano, Pirotta,
1817) e il poemetto
pseudovirgiliano Moretum,
con il titolo La Torta («Lo
Spettatore», 15 gennaio
1817). Nel 1817 era la volta
della Titanomachia esiodea
(«Lo Spettatore», 1o giugno
1817) e dei frammenti di
Dionigi
d’Alicarnasso
rinvenuti in due codici
ambrosiani e stampati a
Milano nel 1816 da Mai,
nonché della Lettera al Ch.
Pietro Giordani sopra il
DionigidelMai.
Il furore di una simile
forsennataapplicazionelasciò
anche il segno della rovina
nella salute dell’adolescente
(nel 1815 la scoliosi e una
pericolosa irritabilità della
vista):
insommaiomisonorovinatoconsette
anni di studio matto e disperatissimo
[1809-1816] in quel tempo che mi
s’andava formando e mi si doveva
assodare la complessione. E mi sono
rovinato infelicemente e senza rimedio
per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto
miserabile, e dispregevolissima tutta
quella gran parte dell’uomo, che è la
sola a cui guardino i piú; e coi piú
bisognaconversareinquestomondo.15
D’ora innanzi l’assillo della
malattiaacuílasuasensibilità
inquietaepiúdecisamentelo
orientò alla consapevolezza
della fragilità dell’individuo
come essere biologico,
all’amara coscienza di un
immedicabile
patimento
connesso alla deperibilità
dell’organismoumano.16
Risale circa al 1816
quella che il poeta piú tardi
chiamò la sua «conversione
letteraria», cioè il graduale
spostamento d’interesse dagli
studi eruditi (dalla «pura e
secca filologia»)17 alla
poesia,ilpassaggiodalsapere
come retorica al «bello»
come conoscenza interiore
chefa«ingigantirel’anima»:
Le circostanze mi avevan dato allo
studio delle lingue, e della filologia
antica. Ciò formava tutto il mio gusto:
io disprezzava quindi la poesia. Certo
nonmancavad’immaginazione,manon
credettid’esserpoeta,senondopoletti
parecchi poeti greci. […] Il mio
passaggio però dall’erudizione al bello
non fu subitaneo, ma gradato, cioè
cominciando a notar negli antichi e
negli studi miei qualche cosa piú di
prima.18
Da che ho cominciato a conoscere un
poco il bello, a me quel calore e quel
desiderio ardentissimo di tradurre e far
mioquellocheleggo,nonhandatoaltri
che i poeti, e quella smania
violentissimadicomporre,nonaltriche
lanaturaelepassioni,mainmodoforte
edelevato,facendomiquasiingigantire
l’anima in tutte le sue parti, e dire, fra
me: questa è poesia, e per esprimere
quello che io sento ci voglion versi e
nonprosa,edarmiafarversi.19
Iosonoandatounpezzointracciadella
erudizione piú pellegrina e recondita, e
dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a
questostudioprofondamente,tantoche
hoscrittodaseiosettetominonpiccoli
sopra cose erudite (la qual fatica
appunto è quella che mi ha rovinato)
[…]. È un anno e mezzo che io quasi
senza avvedermene mi son dato alle
letterebellecheprimanoncurava.20
Il che comportava una
diversa, non formalistica,
lettura dei classici e insieme
una piú adulta maturazione
intellettuale: la ricerca di un
contatto piú aperto con gli
altrieconlaculturanazionale
che tumultuava fuori e
lontanodallasuabiblioteca;il
bisogno di evadere dalla
strettezza del municipalismo
locale. Appunto nel 1816,
l’annod’esordiodellacontesa
classico-romantica, inviò il
18 luglio alla milanese
«Biblioteca Italiana» la
Lettera ai Sigg. compilatori
della «Biblioteca Italiana»
(nonpubblicatadallarivistae
rimasta inedita fino al 1906),
in risposta agli articoli di
Madame de Staël: il versante
dei classicisti era súbito
scelto da Leopardi come
l’interlocutorepiúcongeniale,
in antitesi con le posizioni
romantiche. Ma per lui di un
classicismo sui generis si
trattava, perché inteso non
come imitazione di modelli
antichi, ma come ritorno
(impossibile)
all’antichità,
allanatura,allaforzaaurorale
di una sensibilità potente e
incontaminata.
Non
importavano infine né le
ragioni dei romantici né lo
zelo
accademico
dei
classicisti, sí bene e soltanto
la rivitalizzazione d’una
primigeniaeschiettaumanità.
Ecco allora che nel 1816,
insieme agli studi eruditi e
alle traduzioni, s’inaugurava
l’iter sperimentale del poeta:
inprimaveral’idillioinsciolti
Le rimembranze (presto
«riprovate
assolutamente
dall’autore» nell’Indice dei
propri scritti il 16 novembre
1816);21poil’InnoaNettuno,
chefinsetradottodalgreco;22
le due anacreontiche Odae
adespotae(l’unoelealtresu
«Lo Spettatore», 1o maggio
1817); in estate la «burletta
anacreontica»23
La
dimenticanza (che ha per
protagonisti Giacomo, Carlo,
Paolina e il pedagogo
Diotallevi); in novembredicembre il primo «poema
originale», l’Appressamento
della morte (cinque canti in
terzine, inedito fino al 1880:
manesaràtrattonel1835per
l’edizione Starita dei Canti,
con varianti sostanziali, il
Frammento XXXVII). Quindi
nella
primavera
1817
compose i cinque Sonetti in
persona di ser Pecora
fiorentino beccaio24 e il 2729 novembre il sonetto Letta
la vita di Vittorio Alfieri
scritta da esso. Nel febbraio
dellostesso1817,inunasorta
direazioneacatenadopoche
s’era infranta la tutela
familiare,avviavailcarteggio
con un classicista di grande
autorità e dottrina e
intelligenza civile come
Pietro Giordani (cui ha
inviatoindonoil21febbraio
la traduzione del II libro
dell’Eneide), súbito divenuto
suo consigliere ed estimatore
entusiasta,
con
fervida
reciprocitàdiaffetti:
Oh, quante volte, carissimo e
desideratissimo Signor Giordani mio,
ho supplicato il cielo che mi facesse
trovareunuomodicuored’ingegnoedi
dottrina straordinario, il quale trovato
potessi pregare che si degnasse di
concedermil’amiciziasua.25
Con il luglio-agosto 1817
aveva inizio lo Zibaldone
(pubblicato nel 1898-1900) e
nel dicembre Giacomo
conosceva anche la prima
emozione d’amore (non
dichiarata)perlaventiseienne
cugina del padre, Geltrude
Cassi (1791-1853) di Pesaro,
sorella di Francesco Cassi e
sposa dal 1808 di Giovanni
Giuseppe Lazzari, venuta
ospite in casa Leopardi
dall’11 al 14 dicembre: ne è
rimasta
immediata
testimonianza
–
súbito
successivaallapartenzadilei
– nelle Memorie del primo
amore e nell’Elegia I (nei
Canti, con il titolo Il primo
amore). Nel marzo 1818 il
poetaventenneribadivailsuo
rigenerato, eccentrico quanto
originale classicismo nel
polemico Discorso di un
Italiano intorno alla poesia
romantica(invanodestinatoa
«Lo Spettatore», ma rimasto
inedito fino al 1906), in
rispostaalleOsservazioni del
Cavalier Lodovico di Breme
sulla
poesia
moderna,
apparsesu«LoSpettatore»il
1o e 15 gennaio 1818;26
quindi componeva l’Elegia II
(di cui sopravvive nei Canti
del 1835, con varianti, il
Frammento
XXXVI),
probabilmenteispiratadauna
nuova visita di Geltrude
Cassi. Nel settembre-ottobre
– dopo colloqui diretti con
Giordanichesièintrattenuto
a Recanati cinque giorni, dal
16 al 21 settembre – dava
voce
a
un’animosa
ispirazionepatriotticaecivile,
in antitesi con le idee di
Monaldo, nelle due canzoni
«eroiche»All’ItaliaeSoprail
monumento di Dante (Roma,
Bourlié, gennaio 1819, con
data 1818), accompagnate da
una lettera dedicatoria a
VincenzoMonti.
Poi, nel luglio 1819, il
maldestrotentativodifugada
casa, scoperto e impedito dal
padre. La lettera che a lui
Giacomo scrisse in questa
circostanza,mentrepreparava
i bagagli per andarsene di
nascosto – e che non arrivò
nelle mani del destinatario,
essendostatosúbitointerrotto
il progetto d’evasione –,
contiene le prime e ultime
parole esplicite di denuncia
contro il padre, contro la
«fermezza straordinaria del
suo carattere»27 che ha
condottoilprimogenitoauna
«risoluzione» imprevedibile,
contro l’arroganza di un
sistema educativo che esige
dai figli «il sacrificio, non di
roba né di cure, ma delle
nostre inclinazioni, della
gioventú, e di tutta la nostra
vita».28 Vibra l’eloquenza
acuminata che nasce da un
lungo silenzio: la chiarezza
senza sottintesi di chi si è
sentito in dovere di
sottomettersi, di chi ha
taciuto, sopportato, ubbidito,
finché si è trovato con le
spalle al muro, costretto a un
«passo» risolutivo per non
«morir […] di disperazione».
In nessun’altra delle sue
centotrentaseiletterealpadre,
come in questa non letta da
Monaldo,
Giacomo
ha
esposto con pari energia le
proprieragioni:
Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver
saputo quello ch’io avrò fatto, questo
foglio le possa parere indegno di esser
letto, a ogni modo spero nella sua
benignità che non vorrà ricusare di
sentirleprimeeultimevocidiunfiglio
che l’ha sempre amata e l’ama, e si
duole infinitamente di doverle
dispiacere.29
Le prime «voci» senza
reticenzasonodavveroanche
le«ultime»,perchéquieora,
tra le righe di questo «foglio
[…] indegno», è stato
simbolicamente consumato
l’atto del parricidio e
Giacomo non potrà piú
liberarsi dall’assedio della
colpa, dal rimorso della sua
sconfortata coscienza di
«malfattore».
Merita
attenzione
il
paragrafo
conclusivo:
L’ultimo favore ch’io le domando, è
chesemailesidesteràlaricordanzadi
questo figlio che l’ha sempre venerata
edamata,nonlarigetticomeodiosa,né
lamaledica;eselasortenonhavoluto
ch’Ellasipossalodaredilui,nonricusi
di concedergli quella compassione che
nonsineganeancheaimalfattori.30
Di qui occorre considerare
l’intera corrispondenza con il
padre, da questa lettera
anomala che si distingue per
la sua assoluta unicità
d’accento,percapirelo«stile
della dissimulazione»31 –
intessuto
di
reticenze,
allusioni, ambiguità – poi
costantemente adottato da
Giacomo con Monaldo: non
doppiezza, bensí dolente
bilanciamento tra dovere e
ribellione, tra fedeltà alla
pietasfamiliareefedeltàase
stesso.Questaletteraspiegail
meccanismo di censura e di
autocondizionamento che ha
condannato la scrittura
epistolare del figlio a una
cifra coatta, perché tenuta a
frenodaun’angosciadilutto.
L’eloquenza tesa, a fronte
alta, del luglio 1819 rimarrà
non altro che un ricordo: «il
mio carattere è di chiudere
nel profondo di me stesso
tutti gli affanni e le affezioni
vere», confiderà piú tardi a
Monaldo.32
Si avviava in questo
stesso
1819,
ma
si
approfondiva dal 1822-’23
finoal1825-’26,lacosiddetta
«conversione filosofica», con
il passaggio dalla letteratura
«alla ragione e al vero»,33
dallapoesiaallafilosofia,dal
confessionalismodevozionale
della fanciullezza a un
convincimento
ateo
e
materialistico, elaborato sulla
base dell’atomismo greco e
del sensismo settecentesco
(che è cosa ben diversa
dall’illuminismo ottimistico).
La rivelazione del «vero», e
dellavitacomenull’altroche
dolore,fuun’autenticacrisidi
disperazione (prossima al
suicidio),resapiúacutadaun
graveesaurimentofisiconella
primavera 1819, con forte
indebolimento della vista, e
poi dal fallito tentativo di
fugadacasa.34
Alle concitate canzoni
politiche del 1818 si
affiancavanoidueincompiuti
drammi pastorali, Erminia
(1818-’19),
liberamente
derivata dalla Liberata di
Tasso, e Telesilla (1819), da
un episodio del Girone il
cortese (1548) di Luigi
Alamanni; poi i materiali
degli Inni cristiani (1819),
quindi il dettato disteso,
pacato, contemplativo dei sei
idilli del 1819-’21 e l’irta
condensazione espressivoconcettualedelleottocanzoni
del 1820-’23: la prima delle
quali,AdAngeloMai,editaa
Bologna, da Marsigli, nel
luglio 1820, con dedica al
conte liberale vicentino
LeonardoTrissino.
Recluso nelle pareti della
sua biblioteca, il poeta
soffriva dell’ostilità che
avvertivaintornoasé,sentiva
lavitacomeunaguerrasenza
quartiere e reagiva con
dignitosa,
indomita,
drammaticamente
ilare
fierezza:
Tutti noi combattiamo l’uno contro
l’altro, e combatteremo fino all’ultimo
fiato, senza tregua, senza patto, senza
quartiere. Ciascuno è nemico di
ciascuno, e dalla sua parte non ha altri
che se stesso. […] Io sto qui, deriso,
sputacchiato, preso a calci da tutti,
menando l’intera vita in una stanza, in
maniera che, se vi penso, mi fa
raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a
ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà
dime,finchénonpotràspargermiperla
campagna, e divertirsi a far volare la
miacenereinaria.35
2.ROMA
L’uscita per la prima
volta dalla «tana»36 di
Recanati fu possibile dal 17
novembre 1822 al 3 maggio
1823, quando i genitori
permisero
a
Giacomo
venticinquenne
di
soggiornare a Roma, ospite
dello zio materno Carlo
Antici.L’uscita,peraltrosotto
scortaevigilatadalcontrollo
dello zio, era tardiva e anche
perciò
profondamente
deludente:
dellegrancosecheiovedo,nonprovo
ilmenomopiacere,perchéconoscoche
sono maravigliose, ma non le sento, e
t’accerto che la moltitudine e la
grandezzalorom’èvenutaanoiadopo
ilprimogiorno.37
L’isolamento, finora sofferto
nell’eremitaggio del paese,
era divenuto abito interiore e
l’incontro con il mondo di
fuori, tanto ansiosamente
desiderato, finí per essere
dolorosa
conferma
di
un’invincibile inadattabilità
alle
relazioni
sociali.
Confidava
a
Giordani,
proprio al termine del
soggiornoromano:
[il mio spirito] assuefatto per
lunghissimo tempo alla solitudine e al
silenzio,
è
pienamente
ed
ostinatissimamente nullo nella società
degliuomini,etalesaràineterno,come
mi sono accertato per molte anzi
continueesperienze.38
La grande città lo avvilisce e
lonausea:
Tutta la grandezza di Roma non serve
adaltrocheamoltiplicareledistanze,e
ilnumerode’gradinichebisognasalire
per trovare chiunque vogliate. Queste
fabbriche immense, e queste strade per
conseguenza interminabili, sono tanti
spazi gittati fra gli uomini, invece
d’essere spazi che contengano gli
uomini.39
L’inganno delle aspettative è
comunicato nella bellissima
letteraaCarlodel6dicembre
1822, dov’è acutamente
diagnosticata
l’angoscia
dell’anonimato, della perdita
d’identità, della «noia»
terribile che si può soffrire
nel vortice della vita
metropolitana. Il fratello,
rimasto al paese, immagina
l’ambiente cittadino come
luogo
di
delizie,
di
distrazioni, di gratificazioni
intellettuali, di piaceri anche
erotici. Giacomo lo dissuade.
In mezzo alla folla si sente
perdutamente solo e ne
soffre;
perciò
desidera
l’effettiva solitudine, perché
in questo modo può sentirsi
appagato
dalla
vera
compagnia che gli dà
sollievo, quella delle persone
che ama e quella del suo
«cuore»:
Veramente per me non v’è maggior
solitudine che la gran compagnia; e
perché questa solitudine mi rincresce,
però desidero d’essere effettivamente
solitario, per essere in effettiva
compagnia, cioè nella tua, ed in quella
delmiocuore.40
Giacomo rifiuta tuttavia di
essere
considerato
«misantropo»,
«codardo»,
«bigotto». Non di questo si
tratta e anzi spiega a Carlo
chelapropriaseveradiagnosi
dell’ambiente
cittadino
discende dall’«esperienza» e
dalla«cognizione»disé:
In una grande città l’uomo vive senza
nessunissimo rapporto a quello che lo
circonda,perchélasferaècosígrande,
che l’individuo non la può riempire,
nonlapuòsentireintornoasé,equindi
non v’ha nessun punto di contatto fra
essaelui.Daquestopotetecongetturare
quanto maggiore e piú terribile sia la
noiachesiprovainunagrandecittà,di
quella che si prova nelle città piccole:
giacché l’indifferenza, quell’orribile
passione,anzispassione,dell’uomo,ha
veramente e necessariamente la sua
principal sede nelle città grandi, cioè
nelle società molto estese. La facoltà
sensitivadell’uomo,inquestiluoghi,si
limita al solo vedere. Questa è l’unica
sensazione degl’individui, che non si
rifletteinverunmodonell’interno.41
L’ultimopuntoèrilevante.La
sensazione esclusiva del
«vedere» vuol dire che
l’individuoèspettatorediuno
spettacolo al quale non può
prendereparte:
L’attirare gli occhi degli altri in una
gran città è impresa disperata; e
veramentequestetalicittànonsonfatte
senonperimonarchi,operuominitali
che
possano
smisuratamente
soverchiarelamassimapartedelgenere
umanoinqualcheloropregioperlopiú
di fortuna, come ricchezza immensa,
dignità vicina a quella di principe, o
cosesimili.Fuoridiquesticasi,voinon
potete godere di Roma, e delle altre
città grandi, se non come puro
spettatore:elospettacolodelqualev’è
impossibile di far parte, v’annoia al
secondo momento, per bellissimo che
sia.42
Lostatusdelvoyeur,chepure
rende ragione di non pochi
comportamenticollettivinella
moderna
società
industrializzata,nonsiaddice
pernullaaGiacomo,allasua
risoluta ambizione di essere
attore, non spettatore. La
lettera a Carlo passa in
rassegna le attese deluse
anche in merito alla piú
riservata
cronaca
delle
faccendeamatorie:
mi ristringerò solamente alle donne, e
allafortunachevoiforsecredetechesia
faciledifarconessenellecittàgrandi.
V’assicuro che è propriamente tutto il
contrario. Al passeggio, in Chiesa,
andando per le strade, non trovate una
befana che vi guardi. Io ho fatto e fo
molti giri per Roma in compagnia di
giovani molto belli e ben vestiti. Sono
passato spesse volte, con loro,
vicinissimo a donne giovani: le quali
non hanno mai alzato gli occhi; e si
vedevamanifestamentecheciònonera
per modestia, ma per pienissima e
abituale indifferenza e noncuranza: e
tutteledonnechequis’incontranosono
cosí. Trattando, è cosí difficile il
fermare una donna in Roma come in
Recanati, anzi molto piú, a cagione
dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza
diquestebestiefemminine,cheoltredi
ciònonispiranouninteressealmondo,
sonopiened’ipocrisia,nonamanoaltro
cheilgirareedivertirsinonsisacome,
non la danno (credetemi) se non con
quelle infinite difficoltà che si provano
negli altri paesi. Il tutto si riduce alle
donnepubbliche,lequalitrovoorache
sono molto piú circospette d’una volta,
e in ogni modo sono cosí pericolose
comesapete.43
Le aspettative di Giacomo,
lontano da casa, erano
evidentemente di genere
vario. Dal piano della
riflessione esistenziale, il
colloquio a distanza con il
fratello è passato a toccare,
sul tema delle «donne» che
«non la danno», un tasto di
piú confidente complicità
cameratesca. Ma Carlo,
com’era facile prevedere,
nonostanteletanteproveche
gli sono state portate in
contrario,restadellasuaidea,
e lo dice senza peli sulla
lingua nella risposta del 12
dicembre:
Iononsocontraddireindettaglioatutti
i ragionamenti che tu mi fai, ma in
massa,miparecheabbitorto,egrande.
[…]Sicchéchiprovatroppononprova
uncazzo.44
Con le premesse di tale
disposizione psicologica, che
Carloliquidavaconsbrigativa
franchezza, Giacomo visse a
Roma isolato e in solitudine,
indifferenteallamagnificenza
della città, deluso dalla
mediocrissima
cultura
prelatiziaeantiquaria,45onde
frequentò per lo piú dotti
stranieri che giudicava «ben
altra cosa che i Romani»,46
come il grecista Friedrich
Wilhelm
Thiersch,47
professore a Monaco, ma
soprattutto
l’archeologo
prussiano Christian Bunsen e
lostoricoBartholdNiebuhr,48
ambasciatore di Prussia a
Roma dal 1816 al 1823.
Sconfortato dall’esperienza a
lungo desiderata della grande
città,atupertuconsestesso,
afflittodallalatitanzad’affetti
che ovunque lo inseguiva,
scrisse al fratello Carlo:
«Amami, per Dio. Ho
bisogno d’amore, amore,
amore, fuoco, entusiasmo,
vita: il mondo non mi par
fattoperme».49
L’unico «piacere» che
seppe provare in Roma
confermava la sua estraneità
al
lussuoso
clamore
dell’orizzonte cittadino e
dava invece prova del suo
bisogno
di
appartata
riservatezza e insieme di
sensazioni che gli toccassero
il «cuore». Rimase infatti
commosso fino alle lacrime,
ilvenerdí15febbraio1823–
segnata
come
data
memorabile –, dinanzi alla
tomba di Tasso, nella chiesa
diSant’Onofrio:
Venerdí15febbraio1823fuiavisitare
ilsepolcrodelTassoecipiansi.Questo
è il primo e unico piacere che ho
provatoinRoma.Lastradaperandarvi
èlunga,enonsivaaquelluogosenon
per vedere questo sepolcro; ma non si
potrebbeancheveniredall’Americaper
gustare il piacere delle lagrime lo
spazio di due minuti? È pur certissimo
cheleimmensespesechequivedofare
nonperaltrocheperproccurarsiunoo
un altro piacere, sono tutte quante
gettate all’aria, perché in luogo del
piacere non s’ottiene altro che noia.
Molti provano un sentimento
d’indignazione vedendo il cenere del
Tasso, coperto e indicato non da altro
chedaunapietralargaelungacircaun
palmo e mezzo, e posta in un
cantoncino d’una chiesuccia. Io non
vorrei in nessun modo trovar questo
cenere sotto un mausoleo. Tu
comprendi la gran folla di affetti che
nascedalconsiderareilcontrastofrala
grandezzadelTassoel’umiltàdellasua
sepoltura. Ma tu non puoi avere l’idea
d’un altro contrasto, cioè di quello che
prova un occhio avvezzo all’infinita
magnificenza e vastità de’ monumenti
romani,paragonandoliallapiccolezzae
nudità di questo sepolcro. Si sente una
trista e fremebonda consolazione
pensando che questa povertà è pur
sufficiente ad interessare e animar la
posterità, laddove i superbissimi
mausolei, che Roma racchiude, si
osservano con perfetta indifferenza per
la persona a cui furono innalzati, della
quale o non si domanda neppure il
nome, o si domanda non come nome
della persona ma del monumento. […]
Anche la strada che conduce a quel
luogopreparalospiritoalleimpressioni
del sentimento. È tutta costeggiata di
case destinate alle manifatture, e
risuona dello strepito de’ telai e d’altri
taliistrumenti,edelcantodelledonnee
degli operai occupati al lavoro. In una
città oziosa, dissipata, senza metodo,
come sono le capitali, è pur bello il
considerare l’immagine della vita
raccolta, ordinata e occupata in
professioni utili. Anche le fisionomie e
le maniere della gente che s’incontra
per quella via, hanno un non so che di
piúsempliceedipiúumanochequelle
degli altri; e dimostrano i costumi e il
caratteredipersone,lacuivitasifonda
sulveroenonsulfalso,cioèchevivono
ditravaglioenond’intrigo,d’impostura
e d’inganno, come la massima parte di
questapopolazione.50
Non solo, dunque, la
consolante commozione che
nasce dal contrasto tra la
«grandezza»
vacua
e
l’«umiltà» gloriosa, tra
l’«infinitamagnificenza»ela
«nudità», ma anche la forte
attrazione per la semplicità
ordinataeoperosa,perimodi
piú umani della gente che
vive di quotidiana fatica, di
contro al lusso scioperato,
all’«impostura»,
all’«inganno». Si oppongono
non soltanto antitetiche
immaginidicittàedivita,ma
anche modi diversi di essere:
fisionomie,
atteggiamenti,
maniere, costumi, caratteri.
Lo sguardo che osserva in
prospettiva panoramica la
strutturaurbana,indagaanche
ivoltieigestidellepersone.
A Roma Giacomo ultimò
il 1o dicembre 1822 la
traduzione del Martirio de’
Santi Padri, iniziata a
Recanati il precedente 29
ottobre (poi Milano, Stella,
1826),51eripresealacremente
l’attività filologica: pubblicò
la recensione al Filone del
monaco armeno Giovan
Battista Aucher (Venezia
1822), le Notae di critica
testuale al trattato De re
publica di Cicerone scoperto
nel1819daMaiinuncodice
vaticano e stampato a Roma
nel1822(l’unaelealtrenelle
«Effemeridi letterarie di
Roma», dicembre 1822) e il
contributo che Giordani
considerava «la maggior
gloria di Leopardi come
filologo sommo»,52 cioè le
AnnotazionisopralaCronica
d’Eusebio pubblicata l’anno
MDCCCXVIII in Milano dai
Dottori Angelo Mai, e
Giovanni Zohrab (nelle
«Effemeridi letterarie di
Roma», in sei puntate, 1823,
e in veste autonoma, Roma,
De Romanis, 1823 [ma
1825]).
Proprio l’editore delle
«Effemeridi
letterarie»,
FilippoDeRomanis,propose
a Leopardi, nel dicembre
1822, di firmare un contratto
per la traduzione di tutto
Platone.53 Era il «grandioso
[…] lavoro»54 che – insieme
alla versione dell’Odissea –
lo zio Carlo Antici già nel
1816 aveva vagheggiato a
onoreegloria(eperlasicura
carriera) del nipote. Lo zio
Carlo «era un reazionario
realisticoeattivo,edelnipote
avrebbe voluto fare non un
puro erudito, ma un uomo di
cultura militante per le idee
sanfediste».55 Nel clima
spiritualistico
della
Restaurazione, Platone –
«quellotraifilosofiGreciche
piú di ogni altro combatte il
vilematerialismo,edelquale
gli stessi SS. Padri si sono
prevalsi nelle loro opere
immortali»–56funzionavada
antidoto
contro
il
materialismo settecentesco, e
non per nulla la cultura
romantica europea ne stava
promuovendo
edizioni
ragguardevolissime:
la
traduzione
tedesca
di
Friedrich
Schleiermacher
(1804-’28), la stampa con
traduzione latina di Friedrich
Ast (1819-’32), la traduzione
francese di Victor Cousin
(1822-’40). La proposta
dell’editore De Romanis non
fuaccoltadaLeopardi,magli
forníl’occasioneperlalettura
sistematica dei dialoghi
platonici e per interventi
filologici.57
Con la mediazione di
Niebuhr, nel fermo proposito
di evadere da Recanati,
Giacomo inoltrò nel marzo
1823 al cardinale Ercole
Consalvi, Segretario di Stato,
domanda d’impiego come
«Cancelliere del Censo in
qualche importante Capoluogo di Delegazione».58 Ma
l’istanza – come altre
consimili: impiego alla
Biblioteca Vaticana59 e piú
tardi, con l’interessamento di
Bunsen,60 all’Accademia di
Belle Arti di Bologna – fu
resa vana dall’ateismo e dal
liberalismo del poeta, ben
noti al Governo pontificio,
dalla sua «avversione al
sacerdozio», nonché dal suo
rifiuto a «prender l’abito di
Corte».61Cosínescriveva,da
Roma, al fratello Carlo, il 22
marzo1823:
In somma è quasi certo che s’io avessi
volutofarmiprelato,tufrapocoavresti
sentitochetuofratelloinmantellettase
n’andava a governare una provincia.
[…]Iomidiediun’occhiatad’intorno,e
conchiusi di non volerne saper niente.
Leragioni,chetipotreidire,sonmolte:
io credo che tu convenga con me; in
caso diverso, assicurati almeno che io
non presi questa risoluzione per
irresoluzione e poco coraggio: ma
perchédamoltotempo,eprimadivenir
qua, e molto piú dopo venuto, io ho
fatto questa deliberazione che la mia
vita debba essere piú indipendente che
sia possibile, e che la mia felicità non
possa consistere in altro che nel fare il
miocomodo.Lamianaturaportacosí,
e me ne sono accertato per tante
esperienze che non ne posso piú
dubitare.62
Con il ritorno «al silenzio ed
all’oscurità»63 del «natio
borgo
selvaggio»
(Le
ricordanze, v. 30) svanirono
molte speranze. Ma non
cedeva allo sconforto della
«vanità»
del
«tutto».
Annotava in Zib. 3990 (17
dicembre 1823): «Tutto è
follia in questo mondo
fuorchéilfolleggiare.Tuttoè
degno di riso fuorché il
ridersiditutto.Tuttoèvanità
fuorché le belle illusioni e le
dilettevolifrivolezze».
La prima notevolissima
silloge poetica, dal titolo
Canzoni (le dieci del
1818-’23), con il supporto
eruditoeironicamentearguto
delle Annotazioni – contro il
purismo
angusto
della
Crusca, in nome di un
purismo modernamente piú
consapevole, come quello
della Proposta montiana –,
apparve a Bologna, presso
Nobili, nel 1824, a spese
dell’autore:
segnava
il
congedo (temporaneo) dalla
poesiaperlaconversionealla
prosa, quindi l’approdo alla
meditazione filosofica dopo
la fase delle liriche
«illusioni» e della protesta
eroica. Dal gennaio al
novembre,aRecanati,scrisse
le prime venti Operette
morali, poi in volume a
Milano, presso Stella, nel
giugno 1827 (lo stesso mese
della stampa del terzo tomo,
presso Ferrario, dei Promessi
sposi).64
3.MILANO,BOLOGNA,
FIRENZE,PISA
Sempre piú incalzava
l’ansiadiallontanarsidacasa.
Il 12 luglio 1825 partí per
Milano, invitato dall’editore
Antonio Fortunato Stella che
contava di averlo come
direttore per l’edizione di
tutte le opere ciceroniane.65
GiunseaBolognail18edalí
proseguí il 27 per Milano,
doverimasecircaduemesi–
in casa Stella –, fino al 26
settembre.66 Si illudeva,
nonostante
l’estrazione
nobiliare e a dispetto delle
deboli risorse fisiche, di
potersi guadagnare da vivere
con il proprio lavoro. Per
qualche tempo – dall’ottobre
1825allafinedel1828–poté
contare su un assegno
mensile di dieci scudi (venti
dal gennaio 1826) che
riceveva dall’editore Stella,
per il quale curò un’edizione
commentata delle Rime di
Petrarca (Milano, Stella,
giugno1826,2voll.)eallestí
una Crestomazia prosastica
(ivi, id., ottobre 1827),
composta tra l’autunno 1826
e l’estate 1827, recensita
senza favore da Francesco
Ambrosoli, in «Biblioteca
Italiana» (XLVIII, ottobredicembre 1827), seguíta da
una Crestomazia poetica
(Milano, Stella, novembre
1828), composta tra il
dicembre 1827 e il giugno
1828.
Il 26 settembre 1825
lasciòMilanoegiunseil29a
Bologna, ove si fermò oltre
un anno, fino al 3 novembre
1826, dimorando in strada
Santo
Stefano.
La
conversione alla prosa si
accompagnò
ai
volgarizzamenti – con altri
lasciati incompiuti o soltanto
progettati – specie di
moralisti greci: le Operette
morali di Isocrate (le prime
tre, dal 15 dicembre 1824 al
12 gennaio 1825; l’Orazione
areopagitica, dal 9 al 29
marzo 1825; il preambolo,
febbraio1826:astampanelle
Opere, a cura di Ranieri,
1845);
frammenti
dei
Caratterimorali di Teofrasto
(forseottobre1825,astampa
nel 1906); il Manuale di
Epitteto(trail22novembree
il 6 dicembre 1825, a stampa
nelle Opere del 1845);
Ercole, favola di Prodico
(novembre-dicembre 1825, a
stampa nelle Opere del
1845);
l’Orazione
del
bizantino Giorgio Gemisto
Pletone
in
morte
dell’imperatrice Elena (1826,
nel
milanese
«Nuovo
Ricoglitore», febbraio 1827,
con il Discorso introduttivo).
Il Manuale di Epitteto
avrebbe dovuto inaugurare,
presso lo Stella, la collana
(non realizzata) «Scelta di
Moralisti greci tradotti», per
la quale Leopardi aveva
redatto
l’Avviso
degli
Editori.67 Per l’elaborazione
delleOperetteeraimportante,
con i moralisti greci, nonché
le letture e riletture di
Luciano, anche lo studio –
specie nel febbraio 1825,
condotto sul vol. VII
dell’edizione fiorentina, a
cura di Giovanni Lami, delle
Opere dell’olandese Jan Van
Meurs, o Meursius (17411763, 12 voll.) – dei
taumasiografi
o
paradossografi alessandrini,
Antigono Caristio, Apollonio
e l’epigono d’età romana
Flegonte di Tralles: scrittori
eruditi, curiosi di fenomeni
naturali, di usi e costumi
bizzarri, con un gusto
spiccatoperilparadossaleeil
prodigioso.68
Mentre Giacomo si
trovavaaBologna,Vieusseux
gli scrisse, da Firenze, il 1o
marzo 1826, per inviargli il
fascicolo 61 (gennaio 1826)
dell’«Antologia», contenente
in anteprima, per volere di
Giordani, tre Operette: il
Dialogo di Timandro e di
Eleandro, il Dialogo di
Cristoforo Colombo e il
Dialogo di Torquato Tasso.
Ma
soprattutto
gli
comunicava il desiderio di
vedere il giornale «fregiato»
del suo nome e, «piú del
nome ancora», dei suoi
«eccellentiscritti».Glioffriva
pertanto una collaborazione
fissa
all’«Antologia»,
retribuita«untantoafogliodi
stampa», e chiudeva con un
appello patriottico: «Non ve
lo dimando per me, ma per
questa cara patria, che tanto
amate».69 Il poeta – al di là
delsinceroereciprocoaffetto
personale – respinse l’invito,
lusinghiero, a strettissimo
girodiposta,il4marzo,con
una lettera memorabile, dove
indugiavasullasua(presunta)
ignoranza in tema di
«filosofia sociale», ma per
chiarire la distanza polemica
che lo teneva lontano
dall’attivismoimprenditoriale
e dall’ottimistico utilitarismo
dellaculturacontemporanea:
La vostra idea dell’Hermite des
Apennins, è opportunissima in sé. Ma
perché questo buon Romito potesse
flagellare i nostri costumi e le nostre
istituzioni, converrebbe che prima di
ritirarsinelsuoromitorio,fossevissuto
nel mondo, e avesse avuto parte non
piccola e non accidentale nelle cose
della società. Ora questo non è il caso
mio.Lamiavita,primapernecessitàdi
circostanzeecontromiavoglia,poiper
inclinazione nata dall’abito convertito
in natura e divenuto indelebile, è stata
sempre, ed è, e sarà perpetuamente
solitaria, anche in mezzo alla
conversazione, nella quale, per dirlo
all’inglese, io sono piú absent di quel
che sarebbe un cieco e sordo. Questo
vizio dell’absence è in me
incorreggibile e disperato. […] Da
questa assuefazione e da questo
carattere nasce naturalmente che gli
uomini sono a’ miei occhi quello che
sono in natura, cioè una menomissima
partedell’universo,echeimieirapporti
con loro e i loro rapporti scambievoli
non m’interessano punto, e non
interessandomi, non gli osservo se non
superficialissimamente.Peròsiatecerto
che nella filosofia sociale io sono per
ogni parte un vero ignorante. Bensí
sonoassuefattoadosservardicontinuo
me stesso, cioè l’uomo in se, e
similmente i suoi rapporti col resto
della natura, dai quali, con tutta la mia
solitudine, io non mi posso liberare.
Tenete dunque per costante che la mia
filosofia (se volete onorarla con questo
nome) non è di quel genere che si
apprezzaedègraditoinquestosecolo;
è bensí utile a me stesso, perché mi fa
disprezzar la vita e considerar tutte le
cose come chimere, e cosí mi aiuta a
sopportarl’esistenza;manonsoquanto
possa esser utile alla società, e
convenire a chi debba scrivere per un
Giornale.70
A Bologna conobbe e
amò,
al
solito
non
corrisposto, la quarantunenne
contessa Teresa Carniani
Malvezzi
(1785-1859),
fiorentina, dilettante di belle
lettere(traduttricediCicerone
e di Pope), nonché amica e
corrispondente di Monti,
moglie dal 1801 del conte
bolognese
Francesco
Malvezzi. Riferí di lei (senza
nominarla)alfratelloCarloil
30 maggio 1826, parlandone
come di una donna-angelo,71
ma l’incantesimo sfumò in
fretta.72 Il 28 marzo 1826,
lunedí di Pasqua, lesse nella
sala dell’Accademia dei
Felsinei73 l’epistola in sciolti
dedicataalconteCarloPepoli
(1796-1881),
letterato
liberale,esuledopoimotidel
1831.74
Nel 1826, presso la
bolognese Stamperia delle
Muse, uscí, a spese
dell’autore, la raccolta dei
Versi, che include tutti i testi
approvati non compresi nelle
Canzoni del 1824: i sei idilli
del 1819-’21, le due elegie, i
cinque Sonetti in persona di
ser
Pecora
fiorentino
beccaio,l’epistolaaPepoli,il
volgarizzamento in tre canti
della
Batracomiomachia
(terza e ultima versione) e
dellaSatirasopraledonnedi
SemonidediAmorgo.75
Rientrato il 12 novembre
1826 nella sua «porca
città»,76ripartíperBolognail
23 febbraio 1827 e il 21
giugno,
invitato
da
Vieusseux,
giungeva
a
Firenze, dove si fermò oltre
quattro mesi, fino al 9
novembre. Qui compose il
Dialogo di Plotino e di
Porfirio ed ebbe modo di
frequentare il cenacolo
dell’«Antologia»: oltre a
Stendhal, incontrò Manzoni
(laseradilunedí3settembre,
in Palazzo Buondelmonti, al
ricevimento
offerto
da
Vieusseux
in
onore
dell’autore dei Promessi
sposi), Capponi, Montani,
Niccolini,
Colletta,
Tommaseo (che gli si
mantenne
sempre
malevolmente ostile, dopo
l’episodio
dell’edizione
ciceroniana nel 1825) e nel
giugno 1828, sempre a
Firenze, tramite Alessandro
Poerio, anche il giovane
intellettuale
napoletano
Antonio Ranieri (1806-1888)
– esule dall’autunno 1827
perchéinsospettodisimpatie
carbonare –, che fu, dal
settembre
1830,
suo
compagno inseparabile, ma
poi cronista maldestramente
autoapologetico nelle tarde
memorie dei Sette anni di
sodalizio con Giacomo
Leopardi(1880).77
Dal 9 novembre 1827 al
10 giugno 1828 si trasferí a
Pisa,78
dove
risorse
nell’aprile 1828 – dopo lo
Scherzo del 15 febbraio – la
voce per lungo tempo
silenziosa del poeta con Il
risorgimento e A Silvia.
Quindi, trascorsi di nuovo
alcuni mesi a Firenze, dal
giugnoalnovembre,ilrientro
a Recanati – il 20 novembre
1828, in compagnia di
Vincenzo
Gioberti,
conosciutonell’ottobre,chea
casaLeopardis’intrattenneun
sologiorno–,inunesilio«di
rabbia, di noia e di
malinconia»,79 coincise con
lagrandestagione(1829-’30)
ditalunideicantipiúcelebri:
Lericordanze,Laquietedopo
la tempesta, Il sabato del
villaggio,ilCantonotturno.
4.LAFUGADEFINITIVADA
CASAEILSECONDO
SOGGIORNOFIORENTINO
Dopo «sedici mesi di
notte orribile»,80 fuggí la
mattina del 30 aprile 1830,
questa volta per sempre, dal
«soggiorno orrendo»81 di
Recanati.
Monaldo
ha
annotato nel Memoriale
trasmesso nel 1837 ad
AntonioRanieri:«Ioloviddi,
quasi di trafugo e senza
abbracciarlo, la sera del 29,
perché il cuore non mi
reggeva e lo viddi per
l’ultimavolta».82
Dalla sua «orribile e
detestatadimora»,83Giacomo
non era mai partito, era
sempre scappato, con il
sentimento
però
di
inappartenenza dell’esiliato
che riascolta senza sosta
dentro di sé il richiamo del
«natio borgo selvaggio». La
difficile e spesso osteggiata
ricerca di un lavoro che gli
consentisse di vivere libero
fuoridicasa–dellasuaprima
e unica casa –84 si infrenava
con questo filo non spezzato
che lo inseguiva ovunque,
come un’attesa o una
promessa di ritorno. Ma il
ritorno
alla
«prigione»
riaccendeva ogni volta, dopo
una parentesi di taciturna
convivenza con il padre, un
nuovo bisogno di fuga, verso
un “altrove” irraggiungibile,
chesoloperoccasionepoteva
prendere nome di Roma,
Bologna, Milano, Firenze,
Pisa, Napoli: tali i confini
della limitatissima geografia
fisica leopardiana. Non
luoghidielezionemarifugio
nascondigli, dimore senza
riposo,provvisoriestazionidi
un viaggiatore inetto alla
felicità: tappe di un andare
senza mèta che aveva come
unico punto di arrivo
l’impossibile allontanamento
da Recanati. Dopo dieci anni
di peregrinazioni, quando la
pendolare circolarità di
quest’immobile corsa verso
l’ignoto stava per finire, il
figlio confidava a Monaldo:
«La vita in qualunque luogo
mi è abbominevole e
tormentosa».85
Lafugadefinitivadacasa,
nell’aprile 1830, segnava
nondimeno
una
data
importante.IlCantonotturno,
terminato il 9 aprile 1830,
chiudeva la stagione del
“risorgimento”
pisano-
recanatese e la chiudeva su
una prospettiva universale
che trascende l’orizzonte del
borgo dov’erano lievitati gli
altricanticoevi,daASilviaa
Le ricordanze a La quiete
dopo la tempesta a Il sabato
del villaggio. Il borgo,
trasceso liricamente, era ora
trasceso anche materialmente
eilpoetalasciavapersempre
Recanati,
per
andare
disperatoedecisoincontroal
mondo, per misurarsi con gli
altrieconsestesso.Segnodi
una risolutezza nuova, che
avrebbe dato nuovo accento
agli scritti degli anni
successivi.
L’ideadellapartenza,con
leincognitedeldoveandaree
del
come
mantenersi,
appariva
dapprima
impossibile:
vigiurocheiononveggonépossibilità
né speranza di lasciare questo esecrato
soggiorno:sebbeneoramail’orroreela
disperazione del mio stato mi
condurrebbero, per uscire di questo
Tartaro,adeporrel’anticaalterezza,ed
abbracciarequalunquepartito,accettare
qualunque offerta: ma, fuorché morire,
non veggo compenso possibile, non
essendobuonoafarnulla.86
Le gravi condizioni di salute
non consentivano a Giacomo
di fare assegnamento sul
proprio lavoro: «Lo stato
infelicedellamiatestanonmi
permettenédiscrivere,nédi
dettare,
se
non
con
grandissima fatica».87 Perciò
molto confidava nel sostegno
economico
che
poteva
venirgli da un premio
letterario. Con le Operette
morali
aveva
infatti
partecipato,
nell’ottobre
1828,
al
concorso
quinquennaledell’Accademia
dellaCruscaperunpremiodi
mille scudi da assegnarsi a
un’opera che all’«importanza
della materia» unisse «purità
edeleganzadistile».Tantoci
confidava, che l’8 gennaio
1830, facendo forza al
proprio geloso e orgoglioso
riserbo, chiese l’appoggio di
Vieusseux, non accademico
ma amico di accademici: «Si
avvicina il tempo della
decisionedellaCruscacircail
premio quinquennale. Vi
prego
molto
che
raccomandiate l’affar mio a
tutti quegli amici che
giudicherete potermi giovare.
Seiosperoalcunpoco,spero
solamenteinvoiedinloro.Io
ho perduto l’uso degli occhi,
ma non la memoria de’ miei
cari: vi rammento ogni
giorno, e v’amo piú che la
mia
vita».88
Però
nell’adunanza
dell’Accademia
del
9
febbraio 1830, su quindici
votanti, soltanto un voto –
molto probabilmente di Gino
Capponi – fu assegnato alle
Operette, uno alla Sacra
scrittura illustrata con
monumenti assiri ed egiziani
di Michelangelo Lanci e
trediciallaStoriad’Italiadal
1789al1814diCarloBotta.
Svanita la speranza del
premio, si rivolse di nuovo a
Vieusseux:
Sonrisoluto,conqueipochidanariche
mi avanzarono quando io potea
lavorare,dipormiinviaggiopercercar
salute o morire, e a Recanati non
ritornaremaipiú.Nonfaròdistinziondi
mestieri; ogni condizione conciliabile
colla mia salute mi converrà: non
guarderò ad umiliazioni; perché non si
dàumiliazioneoavvilimentomaggiore
diquelloch’iosoffrovivendoinquesto
centro dell’inciviltà e dell’ignoranza
europea. Io non ho piú che perdere, e
ponendo anche a rischio questa mia
vita, non rischio che di guadagnare.
Ditemi con tutta sincerità se credete
che costí potrei trovar da campare
dando lezioni o trattenimenti letterarii
in casa; e se troverei presto; perché
poco tempo mi basteranno i danari per
mantenermi del mio. Dico lezioni
letterarie di qualunque genere; anche
infimo; di lingua, di grammatica, e
simili. E vorrei che mi rispondeste
subito che potrete, perch’io partirò
presto, e secondo la vostra risposta
determinerò se debbo voltarmi a
Firenze, o cercare altri barlumi di
speranza in altri luoghi. […] Vi fo
questa domanda circa il dar lezioni,
perché comporre, scrivere, leggere, io
non posso. Potrei dar lezioni, o sia
tenere scuola, facendo leggere ad
altri.89
Non importava andare a
Firenze,urgevalanecessitàdi
lasciare Recanati, per «non
ritornare mai piú». Non era
una richiesta di aiuto ma
un’implorazione e rivolta
proprio a Vieusseux che nel
marzo 1826 gli aveva invano
offerta una collaborazione
fissa
e
retribuita
all’«Antologia». All’amico
Pietro
Colletta
aveva
espresso, il 22 novembre, la
volontà di «deporre l’antica
alterezza». Quell’ipotesi al
condizionaleeraoradiventata
realtà: «non guarderò ad
umiliazioni».
E
quindi
s’indusse
ad
accettare
l’offerta,
promossa
da
Colletta, degli «amici di
Toscana»cheglimettevanoa
disposizione un tributo
mensileperunanno(laprima
quota fu versata da Colletta
nel maggio 1830, l’ultima il
1oaprile1831).
Il 10 maggio 1830, dopo
una sosta a Bologna, era a
Firenze. Qui in ottobre
conobbe il giovane filologo
LouisDeSinner(1801-1860),
originariodiBernaelaureato
aTubinga,professoreaParigi
dal 1828 al 1848. La
conoscenza divenne calda
amicizia e a lui Leopardi
affidò tutti i suoi manoscritti
filologici, nella speranza che
riuscisse in qualche modo a
ordinarli e pubblicarli. Era la
definitiva
rinuncia
a
continuare gli amati studi di
filologia,
sostanzialmente
fermidal1828.90
In questo periodo si
manifestarono le piú risolute
opposizioni
alle
scelte
culturali del poeta, con
l’accusa di patriottismo
passivo, di apoliticità e di
disimpegno rivolta in specie
alleOperettemorali,daparte
di neoilluministi ottimisti,
laici progressisti, spiritualisti,
cattolici e dei piú eterogenei
fautori della modernità, che
nel materialismo e nel
pessimismo leopardiani non
riuscivano che a vedere la
negazione del cosiddetto
progresso, e non invece il
rifiuto di ogni superficiale o
interessatoostrumentalemito
consolatorio: un rifiuto
consapevole e severo, quanto
vitalissimo,propostoinnome
diuna«filosofiadolorosa,ma
vera» (Tristano, par. 8),
difesa con strenua e coerente
oltranza contestativa. Il
definitivo
distacco
da
Recanati, paese odiato e al
tempo stesso luogo di
struggentimemorie,contribuí
a determinare in Giacomo
l’atteggiamento
piú
combattivo dei suoi ultimi
anni, con rinnovati interessi
civili che accentuarono il
vigoredelsuoattaccosatirico
controilconformismospesso
miope degli intellettuali
fiduciosi nelle «magnifiche
sorti» (La ginestra, v. 51) di
unafelicesocietàdimassa.91
Durante i moti del 1831,
dal Comitato di Governo
ProvvisoriodiRecanati,nella
sedutadel20marzo,fueletto
deputato presso l’Assemblea
Nazionale
convocata
a
Bologna, dove tuttavia in
quello stesso giorno stavano
per entrare le truppe
austriache (la città fu
occupata il 21), con il
conseguente
crollo
del
governo rivoluzionario.92 Il
che permise al poeta,
scrivendo il 29 marzo al
Comitato recanatese, di
evitareledimissioniformalie
dichiarare «ineseguibili le
disposizioni»93
che
lo
riguardavano, nonché di
confidare lo stesso giorno al
padre – allegando la lettera
indirizzata al Comitato, del
quale Monaldo era membro
–: «Mio caro Papà. Spero
ch’Ella
sarà
contenta
dell’acclusa,
ch’Ella
suggellerà. Desidero però
sommamentechelacittàela
provincia si scordino ora
totalmente di me e de’ miei:
creda per certo che non
possono farci cosa piú
vantaggiosa».94
A Firenze uscí nell’aprile
1831, da Guglielmo Piatti, la
prima edizione dei Canti:95
ventitré
componimenti,
dislocati
nell’arco
cronologico 1817-1830, con
lettera
dedicatoria,
disperatamente
funeraria,
«Agli amici suoi di
Toscana».96
Fiorentina
è
anche
l’ultima e piú intensa
passione d’amore – ancora
una volta non ricambiata –:
per Fanny Ronchivecchi
(1805-1889), moglie del
medico e naturalista Antonio
Targioni-Tozzetti. Presentata
alpoetadaAlessandroPoerio
nella primavera 1830,97 la
venticinquenne bella e colta
Fanny ispirò i cinque canti
del cosiddetto ciclo di
Aspasia,iniziatoaFirenzema
conclusoaNapoli:Ilpensiero
dominante, Amore e Morte,
Consalvo, poi, dopo la
disillusione, A se stesso e
Aspasia. Nel 1832 compose
le ultime due operette –
Dialogo di un venditore
d’almanacchi e di un
passeggere e Dialogo di
Tristano e di un amico –,
incluse
nella
seconda
edizione delle Operette
morali (Firenze, Piatti,
giugno 1834).98 La consegna
dei testi all’editore era
avvenuta tra il luglio e
l’agosto
1833.
Per
quest’edizione
Giacomo
incassò da Piatti quindici
zecchiniemezzo.
Quandonelgennaio1832
apparvero anonimi a Pesaro,
presso Nobili, i Dialoghetti
sulle
materie
correnti
nell’anno1831 di Monaldo99
– che ebbero enorme
diffusione,conseiedizioniin
tre mesi –, Giacomo non
sopportò
di
vedersene
attribuita la paternità, per
errore o per malevolenza, e
provvide in maggio a
diramare pubbliche smentite:
il 12 sull’«Antologia» – nel
fascicolo che porta la data di
marzo 1832 – e il 23 sul
«DiariodiRoma».100
Nel maggio 1832 veniva
diffuso il manifesto del
settimanale «Lo Spettatore
Fiorentino»–manonebbeil
placet governativo e rimase
soltanto un progetto –, che
Leopardi intendeva dirigere
con Ranieri e che sarebbe
dovuto apparire, in fascicoli
di sedici pagine, il «sabato
d’ogni
settimana,
cominciando dal principio di
Giugno prossimo».101 Nel
Preambolo, che annunciava
unasortadianti-«Antologia»,
il poeta ribadiva la pervicace
inattualità del suo pensiero,
intento al perseguimento non
dell’«utile»
ma
del
«dilettevole».
5.NAPOLI
Lasciò definitivamente
Firenze il 2 settembre 1833,
dopo una parentesi romana,
dal 1o ottobre 1831 al 17
marzo 1832, e con il devoto
Ranieri prese dimora a
Napoli, dove redasse i
centoundici Pensierieultimò
la stesura del «libro
terribile»,102 i Paralipomeni
dellaBatracomiomachia.Nel
soggiorno
partenopeo
compose anche la citata
Aspasia, le due canzoni
sepolcrali, la Palinodia al
Marchese Gino Capponi e la
satira in terza rima I nuovi
credenti(ineditafinoal1906)
control’ambientedellarivista
«Il Progresso» (1832-1846),
fondata a Napoli nel marzo
1832 e diretta da Giuseppe
Ricciardi,
con
la
collaborazione di Francesco
Saverio
Baldacchini
e
Raffaele Liberatore. Proprio
su«IlProgresso»,chetentava
di continuare in area
meridionale
la
linea
programmatica
dell’«Antologia» soppressa
nel1833,RaffaeleLiberatore,
recensendo gli Inni sacri di
Terenzio Mamiani (Paris,
Éverat, 1832, poi Napoli,
Tramater, 1833), metteva a
confrontol’InnoaiPatriarchi
compreso in questo volume
con l’Inno ai Patriarchi
leopardiano e assegnava al
primolapalma:«sel’innodel
poetarecanateseparràamolti
piúriccodiprofondiconcetti,
meglio ideato nella sua
macchinae,comedicono,piú
filosofico,nessunodiràcheal
tutto piú poetico non sia
quellodelnobilerampollodei
Della
Rovere».103
La
recensione,uscitaneln.6del
settembre-ottobre 1833, non
offriva a Leopardi, giunto a
Napoliproprioil2ottobre,un
augurale benvenuto. Era anzi
prova della radicale distanza
che separava l’autore dei
Canti dal clima culturale
partenopeo, orientato su
posizioni
di
ottimismo
spiritualistico
e
provvidenzialistico. Qui «io
vivo
in
perfettissimo
isolamento
da
tutti»,
confidava
Giacomo
al
padre.104
La sorda ostilità dei
«nuovi credenti» risalta con
efficaciainunaletterainviata
da Alessandro Poerio –
rientrato a Napoli nel 1833 –
aTommaseo,cheeraperaltro
a sua volta un ben noto
professionista nell’esercizio
della
polemica
antileopardiana: «Qui, caro
Tommaseo, sono alcuni i
quali non dicono il vero, o
quel che lor sembra il vero,
con altezza di animo,
spassionatamente, senza odio
né timore, come fate voi; ma
gli
dànno
addosso
ferocemente, vilmente, senza
nominarlo, mostrandolo a
dito,mordendolosottomanto
di religione, accagionandolo
di voler capovolgere la
Società, toglier via la
distinzione tra il vizio e la
virtú, empire la terra di
sangue. (Sono citazioni di un
librettopocofapubblicato).E
voi sapete quanto sieno
candidi e mansueti i costumi
delLeopardi,com’eglinonsi
curi
di
far
proseliti
d’incredulità, quanto abborra
dalle risse letterarie, quanto
bene sopporti le altrui
opinioni, e come sia lontano
daogniipocrisia.Macostoro
gli rimproverano appunto la
sua schiettezza d’animo. E
che? Vorrebbero forse che
egli ostentasse la Fede, non
avendola in cuore?».105
Nell’orizzonte
cattolicoconfessionale dei «nuovi
credenti», piú chiuso e
intransigente
del
cattolicesimo
liberale
fiorentino, il materialismo
ateo di Leopardi veniva
inteso come miscredenza
blasfema che portava con sé,
al di là del piano religioso,
anche un temibile tasso di
pericolosità sociale, etica,
politica.
A Napoli, Giacomo entrò
in rapporto con Basilio Puoti
e una sua visita alla scuola
privatadelmarchesepuristaè
stata rievocata a distanza di
molti anni in una celebre
pagina di De Sanctis (La
giovinezza, cap. XI), allora
giovanissimoallievopresente
come testimoneattore a
quell’incontro:
Ecco entrare il Conte Giacomo
Leopardi. Tutti ci levammo in piè,
mentreilMarchesegliandavaincontro.
Il Conte ci ringraziò, ci pregò a voler
continuareinostristudi.Tuttigliocchi
erano sopra di lui. Quel colosso della
nostra immaginazione ci sembrò, a
primo sguardo, una meschinità. Non
soloparevaunuomocomeglialtri,ma
al disotto degli altri. In quella faccia
emaciata e senza espressione tutta la
vitas’eraconcentratanelladolcezzadel
suo sorriso. Uno degli Anziani prese a
leggere un suo lavoro. Il Marchese
interrogòparecchi,eciascunodicevala
sua.Poisivolseimprovvisoame:–E
voi cosa ne dite, De Sanctis? – […].
Parlavo adagio, spiccato, e parlando
pensavo, tenendo ben saldo il filo del
discorso,escegliendoqueimodididire
chemiparevanononipiúacconci,mai
piúeleganti.[…]Quandoebbifinito,il
Contemivolleasévicino,esirallegrò
meco, e disse ch’io aveva molta
disposizione alla critica. Notò che nel
parlare e nello scrivere si vuol porre
mente piú alla proprietà de’ vocaboli
che all’eleganza; una osservazione
acuta, che piú tardi mi venne alla
memoria.
L’invito a «porre mente piú
alla proprietà de’ vocaboli
che all’eleganza» ricalcava
l’aureo
precetto
di
Quintiliano («Prima est
eloquentiae
virtus
perspicuitas»: Inst. orat., II 3
8), ma anche ribadiva una
regola raccomandata al
«Contino» dal suo Giordani
nel lontano 1817 («La
principal cosa nello scrivere
mi pare la proprietà sí de’
concetti
e
sí
dell’espressioni»)106 e dal
«Contino» allora considerata
una«veritàtantoevidenteche
fu la prima di cui io
m’accorsiquandocominciaia
riflettere seriamente sulla
letteratura».107 Quella stessa
normache,dettadaGiacomo,
sembrava al giovane De
Sanctis «una osservazione
acuta», al giovane Giacomo
era sembrata, detta da
Giordani,
una
«verità
evidente».
Un’altra
notissima
istantanea del Leopardi
napoletano si deve al poeta
August von Platen (morto
trentanovenne, nel 1835, a
Siracusa),entratoinrelazione
d’amicizia con Giacomo
tramite lo storico e saggista
Heinrich Wilhelm Schulz,
tedesco di Dresda, autore di
un
notevole
profilo
monografico leopardiano.108
Lettore entusiasta delle
Canzoni bolognesi e dei
Canti fiorentini, Platen ha
annotato nel suo diario, in
data5settembre1834:
IlprimoaspettodelLeopardi,pressoil
quale il Ranieri mi condusse il giorno
stesso in cui ci conoscemmo, ha
qualche cosa di assolutamente orribile,
quando
uno
se
l’è
venuto
rappresentando secondo le sue poesie.
Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha
pallidoesofferente,edeglipeggiorale
sue cattive condizioni col suo modo di
vivere, poiché fa del giorno notte e
viceversa. Senza potersi muovere e
senzapotersiapplicare,perlostatodei
suoi nervi, egli conduce una delle piú
miserevoli vite che si possano
immaginare.Tuttavia,conoscendolopiú
da vicino, scompare quanto v’è di
disaggradevole nel suo esteriore, e la
finezza della sua educazione classica e
la cordialità del suo fare, dispongon
l’animo in suo favore. Io lo visitai
spesso.109
Il 15 giugno 1835 Leopardi
stipulò
con
l’editore
napoletano Saverio Starita il
contratto per la stampa
completa
delle
Opere,
previstainalmenoseivolumi,
duedimaterialiinediti:110ma
l’iniziativa fu presto troncata
dalla censura, appena usciti i
primi due (i Canti nel
settembre e metà delle
Operette nel gennaio 1836,
con data 1835), sequestrati
dalla polizia borbonica.111
Con questa seconda edizione
dei Canti, i componimenti
salivano da ventitré a
trentanove, distribuiti in un
arcocompresotrail1816eil
1835, sí che profondamente
mutava la fisionomia del
libro. Quanto alle Operette
(questaterzastampaerastata
limitata al primo dei due
previsti tomi, perciò non
completa ma compiutamente
predisposta dall’autore, come
informa la Notizia intorno a
queste Operette, premessa al
primo tomo), il numero dei
testi doveva passare a
ventiquattro (dai venti del
1827 e dai ventidue del
1834). Dopo l’interdizione
dellacensura,Giacomopensò
nel 1836 di pubblicare a
Parigi, presso Baudry, una
nuova e definitiva edizione
dei suoi scritti, Pensieri
inclusi.112 Per il progetto
francese, che la morte lasciò
incompiuto, approntò con
correzioni e varianti una
copia della stampa Starita
(Canti e metà Operette),
conservata nella Biblioteca
NazionalediNapoli.
Dall’aprile 1836, per
fuggire il pericolo del colera,
GiacomoriparòconRanieria
villa Ferrigni (proprietà di
Giuseppe Ferrigni, avvocato
partenopeo,maritodiPaolina
Ranieri, sorella di Antonio)
alle pendici del Vesuvio, fra
Torre del Greco e Torre
Annunziata. Qui scrisse La
ginestra e Il tramonto della
luna, i due componimenti
estremi, poi inclusi – per sua
volontà – nella postuma
edizione fiorentina dei Canti,
apparsa da Le Monnier il 10
marzo1845acuradiRanieri,
portandocosíaquarantunoil
numerodeitesti.
Lamortealungoinvocata
lo colse improvvisamente a
Napoli,il14giugno1837,per
l’aggravarsi dei mali fisici
che da anni lo tormentavano:
asma, oftalmia, idropisia.
All’amico De Sinner aveva
ribadito fino dal 1832:
«Avant de mourir, je vais
[…] prier mes lecteurs de
s’attacher à détruire mes
observations
et
mes
raisonnemens plutôt que
d’accuser mes maladies».113
L’ultimalettera,il27maggio
1837, era inviata al padre,
come lucidissimo e sereno
addioallavita:
I miei patimenti fisici giornalieri e
incurabili sono arrivati con l’età ad un
grado tale che non possono piú
crescere:sperochesuperatafinalmente
lapiccolaresistenzacheopponeloroil
moribondo mio corpo, mi condurranno
all’eternoriposocheinvococaldamente
ognigiornononpereroismo,maperil
rigoredellepenecheprovo.114
Fu sepolto fuori la chiesa
di San Vitale a Fuorigrotta.
Sulla tomba fu posta una
lapide dettata da Pietro
Giordani.115 Nel 1939 i resti
del poeta sono stati trasferiti
presso la cosiddetta tomba di
Virgilio, nel parco di
Piedigrotta.
1.«De’moltifratellinohounocon
cui sono stato allevato fin da bambino
(essendominoredimediunsoloanno)
ondeèunaltromestessoesaràsempre
insieme con voi la piú cara cosa che
m’abbia al mondo; e con un cuore
eccellentissimo; e ingegno e studio di
cui potrei dire molte cose se mi stesse
bene, è il mio confidente universale, e
partecipe tanto o quanto degli studi e
delle letture mie; dico tanto o quanto,
perché discordiamo molto non per
l’inclinazioneamandoluiglistessistudi
che io, ma per le opinioni. Questi vi
ama come è naturale, solo che altri vi
conosca in qualche modo, e questi è il
solo solissimo con cui apro bocca per
parlaredeglistudi;ilchespessosifae
piúspessosifarebbesesipotessesenza
disputa, le quali sono fratellevoli ma
calde» (G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,26settembre1817,inTO,Ip.
1039).
2. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,30aprile1817,ivi,p.1025.
3. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,21marzo1817,ivi,p.1020.
4. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 22 dicembre 1817, ivi, p.
1047.
5. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,30aprile1817,ivi,p.1024.
6.Cfr.M.G.MANSI,Lalibreriadel
conte Monaldo, nell’opera collettiva I
libridiLeopardi,Napoli,EliodeRosa,
2000,pp.25-63.
7. F. DE SANCTIS, ‘Epistolario’ di
G. Leopardi (1849), in ID., Saggi
critici, a cura di L. RUSSO, Bari,
Laterza,1952,19654,3voll.,Ip.2.
8. Ma sulla feroce spietatezza della
sua alienazione religiosa, la dice lunga
Zib. 353-56 (25 novembre 1820): «Io
ho conosciuto intimamente una madre
di famiglia che non era punto
superstiziosa, ma saldissima ed
esattissima nella credenza cristiana, e
negli esercizi della religione. Questa
non solamente non compiangeva quei
genitori che perdevano i loro figli
bambini,magl’invidiavaintimamentee
sinceramente, perché questi eran volati
al paradiso senza pericoli, e avean
liberato i genitori dall’incomodo di
mantenerli. Trovandosi piú volte in
pericolo di perdere i suoi figli nella
stessa età, non pregava Dio che li
facesse morire, perché la religione non
lo permette, ma gioiva cordialmente; e
vedendopiangereoaffliggersiilmarito,
si rannicchiava in se stessa, e provava
un vero e sensibile dispetto. Era
esattissima negli uffizi che rendeva a
quei poveri malati, ma nel fondo
dell’anima desiderava che fossero
inutili,edarrivòaconfessarecheilsolo
timore che provava nell’interrogare o
consultare i medici, era di sentirne
opinioni o ragguagli di miglioramento.
Vedendo ne’ malati qualche segno di
morte vicina, sentiva una gioia
profonda(chesisforzavadidissimulare
solamente con quelli che la
condannavano); e il giorno della loro
morte, se accadeva, era per lei un
giorno allegro ed ameno, né sapeva
comprendere come il marito fosse sí
pocosaviodaattristarsene.Considerava
la bellezza come una vera disgrazia, e
vedendoisuoifiglibruttiodeformi,ne
ringraziavaDio,nonpereroismo,madi
tutta voglia. Non proccurava in nessun
modo di aiutarli a nascondere i loro
difetti, anzi pretendeva che in vista di
essi,rinunziasserointieramenteallavita
nella loro prima gioventú: se
resistevano,secercavanoilcontrario,se
vi riuscivano in qualche minima parte,
n’era indispettita, scemava quanto
potevacolleparoleecoll’opinionsuai
loro successi (tanto de’ brutti quanto
de’ belli, perché n’ebbe molti) e non
lasciava passare anzi cercava
studiosamente l’occasione di rinfacciar
loro, e far loro ben conoscere i loro
difetti, e le conseguenze che ne
dovevano aspettare, e persuaderli della
loro inevitabile miseria, con una
veracità spietata e feroce. Sentiva i
cattivisuccesside’suoifigliinquestoo
simili
particolari,
con
vera
consolazione, e si tratteneva di
preferenzaconlorosopraciòcheaveva
sentito in loro disfavore. Tutto questo
per liberarli dai pericoli dell’anima, e
nello stesso modo si regolava in tutto
quello che spetta all’educazione dei
figli, al produrli nel mondo, al
collocarli, ai mezzi tutti di felicità
temporale.Sentivainfinitacompassione
per li peccatori, ma pochissima per le
sventure corporali o temporali, eccetto
se la natura talvolta la vinceva. Le
malattie,
le
morti
le
piú
compassionevoli de’ giovanetti estinti
nel fior dell’età, fra le piú belle
speranze, col maggior danno delle
famiglie o del pubblico ec. non la
toccavano in verun modo. Perché
diceva che non importa l’età della
morte, ma il modo: e perciò soleva
sempre informarsi curiosamente se
eranomortibenesecondolareligione,o
quando erano malati, se mostravano
rassegnazione ec. E parlava di queste
disgrazieconunafreddezzamarmorea.
Questadonnaavevasortitodallanatura
un carattere sensibilissimo, ed era stata
cosí ridotta dalla sola religione. Ora
questo che altro è se non barbarie? E
tuttavia non è altro che un calcolo
matematico, e una conseguenza
immediata e necessaria dei principii di
religione esattamente considerati; di
quella religione che a buon diritto si
vanta per la piú misericordiosa ec. Ma
laragioneècosíbarbarachedovunque
ella occupa il primo posto, e diventa
regolaassoluta,daqualunqueprincipio
ella parta, e sopra qualunque base ella
sia fondata, tutto diventa barbaro». Il
brano riportato è lungo eppure non è
completo. La riflessione, come si vede
da ultimo, verte sulla ragione piú che
sulla religione: sulla ragione che,
assolutizzata, conduce alla barbarie.
Non, dunque, uno sfogo del figliovittima,
ma
una
distaccata
considerazionefilosofica.Nondimenoil
lettore non può fare a meno di pensare
aglieffettidevastantidiunatal«madre
di famiglia» nella stessa semplice
quotidianitàdellavitadomestica.
9. All’interno del volume
manoscritto, legato in pergamena,
Monaldo annotò con orgoglio: «Oggi,
31agosto1814,questolavoromidonò
Giacomo mio primogenito figlio, che
non ha avuto maestro di lingua greca,
edèinetàdianni16,mesidue,giorni
due»(cfr.G.LEOPARDI,Lepoesieele
prose, a cura di F. FLORA, Milano,
Mondadori, 1940, 2 voll., I p. LX). Il
Porfirio ebbe pubblico riconoscimento
dall’erudito abate romano Francesco
Cancellieri (Intorno agli uomini dotati
di gran memoria […], Roma, Bourlié,
1815, p. 87), ringraziato da Giacomo
conletteradel15aprile1815(vd.TO, I
pp. 1006-7). Il manoscritto, inviato da
Monaldo a Cancellieri, fu da questi
sottoposto
anche
al
giudizio
dell’epigrafista e orientalista svedese
David Akerblad, residente allora a
Roma, che lodò la precocità
straordinaria dell’autore, ma anche lo
consigliò, prima di pensare a una
pubblicazione, di risalire ai «principali
codici» del testo di Porfirio per
controllare la lezione della vecchia e
scorretta stampa alla quale si era
attenuto (quella della Bibliotheca
GraecadelFABRICIUS,ed.diAmburgo
1711, IV pp. 91 sgg.). Cfr.
TIMPANARO, La filologia di G.
Leopardi, cit., pp. 10-15. Su
Cancellieri, «insopportabile per le
estreme lodi che colla maggiore
indifferenzadelmondodiceinfacciadi
chiunque lo va a trovare», vd. G.
Leopardi al padre, Roma, 9 dicembre
1822,inTO,Ip.1134.
10. C. CANTÚ, Alessandro
Manzoni. Reminiscenze,
Milano,
Treves, 1882, 2 voll., II p. 308 (cfr.
ancheIp.204).
11. Agl’Italiani. Orazione in
occasionedellaliberazionedelPiceno,
inTO,Ip.869.
12.Ivi,p.870.
13.Ivi,pp.871-72.
14.Questa(quattrocantiinsestine)
èlaprimadelletreversionileopardiane
della Batracomiomachia: la seconda
(tre canti in sestine) fu approntata nel
1821-’22 e apparve anonima sul
bolognese «Il Caffè di Petronio», il 7,
14, 21 maggio 1826; la terza (tre canti
in sestine) fu composta nel 1826 a
Bologna e inclusa nei Versi bolognesi
dellostessoanno.
15. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 2 marzo 1818, in TO, I p.
1050.
16. Cfr. S. TIMPANARO, Alcune
osservazioni sul pensiero del Leopardi
(1964), in ID., Classicismo e
illuminismonell’Ottocentoitaliano,cit.,
pp.157-58.
17.Zib.193(29luglio1820).
18.Ivi,1741(19settembre1821).
19. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 30 aprile 1817, in TO, I p.
1026.
20. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,30maggio1817,ivi,p.1029.
21.Cfr.Indicidelleoperecomposte
da Giacomo Leopardi compilati da lui
stesso, ivi, pp. 996-1001: sono tre
indici, il primo relativo agli anni
1809-’12; il secondo del 16 novembre
1816, con integrazioni fino al 1818; il
terzodel25febbraio1826.
22.Giacomohacorredatol’Innodi
una dedica all’immaginario scopritore
deltestooriginale,diunAvvertimentoe
di note erudite, allo scopo di
convalidare la finzione. «Ella vedrà, se
non l’ha già veduto, che quanto io
spaccio della scoperta dell’Inno, è una
novella.Innamoratodellapoesiagreca,
volli fare come Michel Angelo che
sotterrò il suo Cupido, e a chi
dissotterratolocredead’antico,portòil
bracciomancante.Emiscordavachese
egli era Michel Angelo io sono
Calandrino» (G. Leopardi a P.
Giordani, Recanati, 30 maggio 1817,
ivi,p.1029).
23.Cosínell’Indicedelpropriscritti
del16novembre1816,condata1816e
l’indicazione «in stato da stamparsi
quando si voglia» (ivi, p. 999), ma il
testo(editoperlaprimavoltanel1878)
forse ripropone una composizione
puerile (ne esiste infatti, tra le carte
napoletane, un apografo recanatese
datato1811).
24. Sull’esempio dei Mattaccini,
coronadisonettiindirizzatidaAnnibal
Caro contro Lodovico Castelvetro, i
cinque Sonetti leopardiani colpiscono
Guglielmo Manzi, bibliotecario della
Barberina di Roma. Questi, avendo
curato un’edizione di testi di lingua
censurata da un articolo della
«Biblioteca Italiana», aveva replicato
con
una
pubblica
«diceria»
risentitamente ostile a Giordani e a
Monti.DiquilasatiradiLeopardi,che
cosí informa nell’avvertenza premessa
aisonettineiVersibolognesidel1826:
«Come nei Mattaccini del Caro sotto
l’allegoria del gufo e del castello di
vetro dinotasi il Castelvetro, parimente
in questi Sonetti disegnasi il detto
scrittorello sotto l’allegoria del manzo.
Il nome del beccaio è tolto dalla
CronicadiDinoCompagni,laqualefa
menzione di un beccaio fiorentino di
quei tempi, detto per soprannome il
Pecora»(TO,Ip.318).
25. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,30aprile1817,ivi,p.1023.
26. Composte per l’uscita della
traduzione italiana del poemetto
byroniano The Giaour (1813), le
Osservazioni apparvero nello stesso
anno in opuscolo: L. DI BREME, ‘Il
Giaurro’, frammento di novella turca,
scritto da Lord Byron e recato
dall’inglese in versi italiani da
Pellegrino Rossi. Ginevra, 1818.
Osservazioni (Milano, Pirotta, 1818).
Cfr. Discussioni e polemiche sul
romanticismo(1816-1826),acuradiE.
BELLORINI, Bari, Laterza, 1943, 2
voll., rist. a cura di A.M. MUTTERLE,
ivi,id.,1975,Ipp.254-313.
27. G. Leopardi al padre, Recanati,
s.d. (ma fine luglio 1819), in TO, I p.
1082.
28.Ivi,p.1081.
29.Ivi,pp.1081-82.
30.Ivi,p.1083.
31. Tale il titolo di un mio saggio
dedicato a questa lettera leopardiana:
cfr. Lo stile della dissimulazione
(1988), in G. TELLINI, L’arte della
prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e
altri, Firenze, La Nuova Italia, 1995,
pp.145-54.
32. G. Leopardi al padre, Pisa, 2
giugno1828,inTO,Ip.1314.
33.Zib.144(1oluglio1820).
34.«[La]fortuna[…]daseimesiin
quamihalevatoogniusodegliocchie
della mente per una somma debolezza
de’nervioculari,chem’impediscenon
solamente qualunque lettura e studio,
ma ogni minima contenzione del
pensiero. E cosí spogliato del solo
conforto che mi restasse in una città
come questa, e nella mia condizione,
può pensare V. S. che vita sia questa
ch’io vo menando. Fui per cedere alla
fortuna,dandoeffettoaunarisoluzione
che m’avrebbe condotto in breve alla
fine comune di tutti i mali, ma fui
scopertoeimpedito,noncollaforzache
non valeva, ma colle preghiere» (G.
Leopardi a L. Trissino, Recanati, 27
settembre1819,inTO,Ip.1089).
35. G. Leopardi a P. Brighenti,
Recanati,22giugno1821,ivi,p.1122.
36. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,30aprile1817,ivi,p.1024.
37. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma,25novembre1822,ivi,p.1129.
38. G. Leopardi a P. Giordani,
Roma,26aprile1823,ivi,p.1163.
39.G.LeopardiallasorellaPaolina,
Roma,3dicembre1822,ivi,p.1131.
40. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma,6dicembre1822,ivi,p.1132.
41.Ibid.
42.Ivi,pp.1132-33.
43.Ivi,p.1133.
44.C.LeopardialfratelloGiacomo,
Recanati,12dicembre1822,inEpist.2,
Ip.588.
45. «Quanto ai letterati, de’ quali
Ella mi domanda, io n’ho veramente
conosciuto pochi, e questi pochi
m’hanno tolto la voglia di conoscerne
altri. Tutti pretendono d’arrivare
all’immortalità in carrozza, come i
cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo
loro, il sommo della sapienza umana,
anzi la sola e vera scienza dell’uomo è
l’Antiquaria. Non ho ancora potuto
conoscere un letterato Romano che
intendasottoilnomediletteraturaaltro
che l’Archeologia. Filosofia, morale,
politica, scienza del cuore umano,
eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è
stranieroinRoma,epareungiuocoda
fanciulli,aparagonedeltrovaresequel
pezzo di rame o di sasso appartenne a
MarcantoniooaMarcagrippa.Labella
è che non si trova un Romano il quale
realmente possieda il latino o il greco;
senza la perfetta cognizione delle quali
lingue, Ella ben vede che cosa mai
possa essere lo studio dell’antichità.
Tuttoilgiornociarlanoedisputano,esi
motteggiano ne’ giornali, e fanno
cabale e partiti, e cosí vive e fa
progressi la letteratura romana» (G.
Leopardi al padre, Roma, 9 dicembre
1822,inTO, Ipp.1133-34).Cfr.anche
G.LeopardialfratelloCarlo,Roma,16
dicembre 1822; a G. Melchiorri,
Recanati, 27 giugno 1823; a L. De
Sinner, Roma, 24 dicembre 1831, ivi,
risp.,pp.1135-36,1167,1370-71.
46. G. Leopardi al padre, Roma, 9
dicembre1822,ivi,p.1134.
47. Cfr. ibid.; anche G. Leopardi a
P.Giordani,Roma,10marzo1823,ivi,
p.1152.
48. Cfr. G. Leopardi al fratello
Carlo, Roma, 12 marzo 1823, e a P.
Giordani, Roma, 10 marzo 1823, ivi,
pp.1152-53.Vd.ancheladedicalatina
aNiebuhr,ivi,p.990.
49. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma,25novembre1822,ivi,p.1130.
50. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma, 20 febbraio 1823, ivi, p. 1150.
Cfr. W. BINNI, La lettera del 20
febbraio 1823 (1963), in ID., La
protestadiLeopardi, Firenze, Sansoni,
1973,pp.267-75,nonché,ancheperla
bibliografia relativa a questa lettera, L.
TRENTI, Leopardi e i poeti a
Sant’Onofrio(laletterasulsepolcrodel
Tasso), nell’opera collettiva «Effetto
Roma». Il mito, Roma, Bulzoni, 1995,
pp.9-23.
51. La traduzione è da un testo
greco compreso nella raccolta del
francese F. COMBEFIS, Illustrium
Christi martyrum lecti Triumphi
vetustis
Graecorum
monumentis
consignati, Parigi 1660 (presente nella
biblioteca di casa Leopardi), ma è
simulata come inedito volgarizzamento
trecentesco dal latino: un “falso”
perfetto(comeGiacomosicompiacedi
riconoscere) tanto «che Cesari, stimato
giudice supremo in queste materie,
leggendo il manoscritto a Milano in
presenza mia, lo giudicò per cosa del
Trecentobellaebuona,ecosíècreduto
ora in Milano e qui» (G. Leopardi al
fratello Carlo, Bologna, 24 febbraio
1826,inTO,Ip.1240).
52.P.GiordaniaF.LeMonnier,23
maggio 1844, in I primordi della
«Biblioteca Nazionale» di Felice Le
Monnier in LX lettere a lui di P.
Giordani, a cura di I. DEL LUNGO,
Firenze,LeMonnier,1916,p.23.Madi
GiordaniimportasoprattuttoilProemio
agli Studi filologici, a cura di P.
PELLEGRINI e P. GIORDANI, ivi, id.,
1845,pp.VII-XXIX.
53. Cfr. G. Leopardi al padre, 4
gennaio1823,inTO,Ip.1140.
54. C. Antici a M. Leopardi,
dicembre1816,inEpist.,Ip.37n.2.
55.TIMPANARO,LafilologiadiG.
Leopardi,cit.,p.102.
56.C.AnticiaG.Leopardi,Roma,
21luglio1825,inEpist.,IIIp.167.
57. Cfr. Scritti filologici (18171832), a cura di G. PACELLA e S.
TIMPANARO, Firenze, Le Monnier,
1969, pp. 475-542. Sono proposte di
critica testuale e d’interpretazione a
sette dialoghi (Protagora, Fedone,
Gorgia, Teeteto, Sofista, Convito e
Fedro), nate dalla lettura dei primi tre
volumi dell’ed. curata da Friedrich Ast
(Lipsia1819-1821),cheLeopardiaveva
ricevuto in dono dall’editore De
Romanis (cfr. G. Leopardi al padre,
Roma, 13 gennaio 1823, in TO, I p.
1142, e anche la nota di Moroncini a
questalettera,inEpist.,IIp.236).
58. G. Leopardi al cardinale E.
Consalvi,s.d.(marzo1823),inTO, Ip.
1154.
59. Cfr., per es., G. Leopardi a G.
Perticari, Recanati, 30 marzo 1821 e,
nella stessa data, ad A. Mai, ivi, pp.
1117-19.
60. Cfr. G. Leopardi a C. Bunsen,
Bologna, 21 ottobre, 24 ottobre, 5
dicembre1825,ivi,pp.1217,1218-19,
1226. Bunsen si adoperò anche perché
venisseassegnataalpoetalacattedradi
eloquenza greca e latina alla Sapienza
diRoma(cfr.G.LeopardiaC.Bunsen,
Bologna, 24 ottobre, 28 ottobre, 16
novembre1825,ivi,pp.1219-20,1222,
e anche al fratello Carlo, Bologna, 28
ottobre1825,ivi,p.1220),maGiacomo
declinò l’offerta: «ardisco di farle
osservarechedaunaparteilsoggiorno
di Roma, specialmente nell’estate, è
pocoadattoalmiotemperamento,ealla
miasaluteassaidebole;dall’altraparte,
che una cattedra non so quanto mi
potrebbe convenire per due ragioni,
l’una fisica, cioè la grandissima
debolezzadelmiopetto,l’altramorale,
cioèlamiapocaattitudineatrattarecon
unascolaresca,sempreinsolente,attesa
la timidità naturale del mio carattere.
Dubito ancora che gli emolumenti
annessi alle cattedre di cotesta
Università
possano
bastare
a
mantenermi in Roma, dove le spese
quotidiane sono assai maggiori che in
Bologna» (G. Leopardi a C. Bunsen,
Bologna,24ottobre1825,ivi,p.1219).
Bunsenavanzòanchelapropostadiuna
cattedraaBerlinooaBonn,mainvano:
«La idea che Ella mi propone di una
cattedra in Berlino o in Bonn, è tale,
che io l’assicuro che niun’altra mi
potrebberiuscirpiúgrataelusinghiera.
Ma sventuratamente ora la mia povera
salute è in uno stato cosí tristo, che io
non ardisco fermare il pensiero in una
proposizione che del resto mi sarebbe
giocondissima.CrederàEllacheappena
io posso sopportare l’inverno in
Bologna?[…]Orchesarebbeneiclimi
di Germania?» (G. Leopardi a C.
Bunsen,Bologna,1ofebbraio1826,ivi,
pp. 1235-36). Circa il rifiuto di
insegnare zoologia all’Università di
Parma, cfr. almeno G. Leopardi ad A.
Maestri,Recanati,31dicembre1828,a
G. Tommasini, Recanati, 30 gennaio
1829,aF.Maestri,Recanati,6febbraio
1829,ivi,pp.1332sgg.
61. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma,22marzo1823,ivi,p.1156.
62. Ibid. Cfr. anche G. Leopardi a
G. Vieusseux, Roma, 27 ottobre 1831,
ivi, p. 1367: «Questo amerei che
ripeteste a chi parla di prelature o di
cappelli,cosech’ioterreiperingiuriese
fosserodettesulserio.Masulserionon
possono esser dette se non per
volontaria menzogna, conoscendosi
benissimolamiamanieradipensare,e
sapendosi ch’io non ho mai tradito i
mieipensierieimieiprincipiicollemie
azioni».
63. G. Leopardi a B.G. Niebuhr,
Roma,9aprile1823,ivi,p.1160.
64. La stampa delle Canzoni fu
pagata dall’autore quaranta scudi e
tirata in cinquecento esemplari (cfr. G.
Leopardi a P. Brighenti, Recanati, 21
novembre 1823, e P. Brighenti a G.
Leopardi,Bologna,26novembre1823,
inEpist., IIIpp.45-48).PerleOperette
morali, nonostante le promesse
dell’editore (cfr. A.F. Stella a G.
Leopardi, Milano, 1o aprile 1826, ivi,
IV pp. 79-80 n. 1), Giacomo non ebbe
alcuncompenso.
65.Illavorodovevaessereeseguito
dall’abateFrancescoMariaBentivoglio
(bibliotecario dell’Ambrosiana), che
curò in effetti i 10 voll. delle Lettere
(Milano, Stella, 1826-1831, con la
traduzionediAntonioCesaricontinuata
da Pietro Marocco), poi l’impresa si
bloccò. Leopardi redasse i due
manifestidell’edizione,latinoeitaliano
(cfr. TO, I pp. 987 sgg.), e controllò
sulle bozze il primo volume, quindi si
liberò da ogni impegno (cfr. G.
LeopardiadA.Papadopoli,Milano,19
agosto1825,eBologna,6marzo1826,
ivi, pp. 1208 e 1243). L’editore Stella,
essendosi originariamente accordato
con Niccolò Tommaseo, ne aveva
ricevuto un Saggio di edizione che
pensò bene di sottoporre il 30 aprile
1825 al giudizio di Leopardi: questi
rispose, da Recanati, il 18 maggio con
argomentazioni tanto tecnicamente
inoppugnabili che del progetto di
Tommaseo
(retorico-estetico
e
filologicamente sprovveduto) non si
parlò piú. Quanto all’opinione di
TOMMASEO, cfr. le sue Memorie
poetiche,acuradiM.PECORARO,Bari,
Laterza,1964,p.162;diLeopardi,cfr.
le tarde e incompiute pagine Potenze
intellettuali: Niccolò Tommaseo (forse
dell’agosto 1836, inedite fino al 1931:
in TO, I pp. 994-95). Sull’intera
vicenda,cfr.TIMPANARO, La filologia
di G. Leopardi, cit., pp. 127-29; G.
BEZZOLA,Tommaseo a Milano (18241827), con appendice di lettere e testi
inediti o rari, Milano, Il Saggiatore,
1978, pp. 114-22 (alle pp. 250-70 il
Saggio di Tommaseo trasmesso a
Leopardi dall’editore Stella), e ID.,
LeopardiaMilano,MilanoeLeopardi,
in ID., Schede critiche, Milano,
Cisalpino-Goliardica,1989,pp.315-35.
66. «Io vivo qui poco volentieri e
per lo piú in casa, perché Milano è
veramente insociale, e non avendo
affari, e non volendo darsi alla pura
galanteria, non vi si può fare altra vita
chequelladelletteratosolitario.Partirò
subito che me lo permetterà la buona
creanzaversoloStella»(G.Leopardia
C. Antici, Milano, 20 agosto 1825, in
TO, I p. 1209). A Milano volle però
rendere l’omaggio di una visita a
Vincenzo Monti: «Qui non ho
conosciuto ancora se non pochissime
persone di merito, e tra queste niuna
che mi paia disposta a concedermi la
suaamicizia,eccettoilCav.Monti[…].
Mihatrattatomoltobenignamente,emi
ha dato licenza di vederlo spesso» (G.
Leopardi ad A. Papadopoli, Milano, 6
agosto 1825, ivi, p. 1207); «Appena
arrivato, vidi Monti, il quale mi
domandò subito di voi, e del vostro
Lucano.[…]Daquellavoltainquanon
l’ho mai veduto, e credo che non lo
vedrò, perché in quella prima visita
volli propriamente sputar sangue per
parlargli in modo che egli mi potesse
intendere; e in verità non ho forza di
petto che basti per conversare con lui
neancheunquartod’ora.Eccettoquesta
sordità spaventosa, che me lo rende
inutile, mi parve che stesse bene» (G.
Leopardi a F. Cassi, Milano, 17
settembre1825,ivi,p.1212).
67.Ilprimovolumeavrebbedovuto
contenere,conilManualediEpitteto,la
«favola»diProdicoelaComparazione
delle sentenze di Bruto minore e di
Teofrasto vicini a morte (marzo 1822,
già nelle Canzoni del 1824, come
premessa al Bruto minore). A un
volume successivo erano destinate le
Operette morali di Isocrate. Cosí
informa infatti il testo del leopardiano
AvvisodegliEditori(TO,Ip.1448):«In
un volume non diverso di forma, di
carta e di caratteri del presente,
pubblicheremo
fra
poco
il
Volgarizzamento delle operette morali
d’Isocratefattodall’autoremedesimodi
questiduecheoradivulghiamo:ilquale
oltracciò ha in animo di dar fuori in
breve altre sue versioni di altri libri
greci morali, che saranno pubblicate
medesimamemnte in questa forma e
carta, e con questi tipi. E cosí di tutti
questi Volgarizzamenti, raccogliendoli
insieme, si potrà fare un corpo di
Moralistigreciridottiinvolgare».
68. Cfr. TIMPANARO, La filologia
diG.Leopardi,cit.,pp.115sgg.
69. G.P. Vieusseux a G. Leopardi,
Firenze,1omarzo1826,inEpist., IVp.
51. Cosí il direttore dell’«Antologia»
precisava gli obiettivi dell’auspicata
collaborazione leopardiana: «Piú volte
hopensatoadaverepercorrispondente
unhermitedesapennins,chedalfondo
delsuoromitoriocriticherebbelastessa
Antologia,flagellerebbeinostripessimi
costumi,inostrimetodidieducazionee
di pubblica istruzione, tutto ciò in fine
che si può flagellare quando si scrive
sotto il peso di una doppia censura
civile ed ecclesiastica. Un altro romito
dell’Arno potrebbe rispondergli. Voi
sareste il romito degli Appennini.
Questa
forma
assai
piccante
ammetterebbe molta libertà, e
desterebbe un interesse universale»
(ibid.).
70. G. Leopardi a G. Vieusseux,
Bologna, 4 marzo 1826, in TO, I p.
1242.
71. G. Leopardi al fratello Carlo,
Bologna,30maggio1826,ivi,p.1254:
«Ci confidiamo tutti i nostri secreti, ci
riprendiamo, ci avvisiamo dei nostri
difetti. In somma questa conoscenza
forma e formerà un’epoca ben marcata
della mia vita, perché mi ha
disingannato del disinganno, mi ha
convinto che ci sono veramente al
mondo dei piaceri che io credeva
impossibili,echeiosonoancorcapace
d’illusioni stabili, malgrado la
cognizione e l’assuefazione contraria
cosí radicata, ed ha suscitato il mio
cuore, dopo un sonno anzi una morte
completa,duratapertantianni».
72. Cfr. G. Leopardi a T. Carniani
Malvezzi,s.d.(Bologna,ottobre1826),
e Recanati, 18 aprile 1827; ad A.
Papadopoli, Bologna, 21 maggio 1827
(«quella puttana della Malvezzi»), e
Firenze,3luglio1827(«quellastrega»),
ivi,pp.1272,1280,1283,1286.
73.Ilresocontodellaseratasilegge
nella lettera al fratello Carlo, Bologna,
4aprile1826,ivi,p.1248.
74.PerlarispostadelcontePepoli,
nella lunga epistola in versi L’Eremo
(dal nome di una sua villa fuori città),
edita a Bologna nel 1828, cfr. G.
LeopardiaC.Pepoli,Pisa,25febbraio
1828,ivi,p.1308.Cfr.C.DIONISOTTI,
LeopardieBologna,inID.,Appuntisui
moderni.Foscolo,Leopardi,Manzonie
altri,cit.,pp.139sgg.
75.LatraduzionedellaSatirasopra
le donne risale al 1823. Dello stesso
Semonide di Amorgo tradusse, nel
1823-’24, anche i due frammenti poi
inseriti nella stampa 1835 dei Canti
come Frammenti XXXVIII e XXXIX, con
iltitolo Dal greco di SimonideeDello
stesso. Semonide di Amorgo non va
confuso con il quasi omonimo
Simonide di Ceo, immortalato nella
canzoneAll’Italia(nelprimoOttocento
erano entrambi solitamente chiamati
Simonide). Su questi componimenti,
cfr. TIMPANARO, La filologia di G.
Leopardi,cit.,pp.108-9;E.PELLIZER,
Bergk,Leopardi,WintertoneSemonide,
fr. 29 Diehl: «Uno dei piú securi
resultati della ricerca filologica», in
«Quaderniurbinatidiculturaclassica»,
XXII 1976, pp. 15-21; F. D’INTINO,
Nota ai testi, in G. LEOPARDI, Poeti
grecielatini,asuacura,Roma,Salerno
Editrice,1999,pp.272-74.
76. G. Leopardi a F. Puccinotti,
Recanati, 21 aprile 1827, in TO, I p.
1281.
77. Ranieri afferma di avere
conosciuto Leopardi, presentatogli da
Alessandro Poerio, a Firenze il 29
giugno 1827 (cfr. A. Ranieri a L. De
Sinner,Napoli,2settembre1837,inG.
PIERGILI,Nuovidocumentiintornoalla
vita e agli scritti di G. Leopardi,
Firenze, Le Monnier, 1880, 18892,
18923, p. 274) e cosí ripetono tutti i
biografi.MaRanierihalasciatoNapoli
nell’autunno 1827 e il suo primo
incontro con Giacomo risale al 26
giugno 1828, come segnala anche
Moroncini(cfr.Epist.,Vp.157n.3).
78.«Pisaèunmistodicittàgrande
e di città piccola, di cittadino e di
villereccio, un misto cosí romantico,
che non ho mai veduto altrettanto» (G.
Leopardi alla sorella Paolina, Pisa, 12
novembre1827,inTO,Ip.1296).
79. G. Leopardi ad A. Maestri,
Recanati, 31 dicembre 1828, ivi, p.
1332.
80. G. Leopardi a P. Colletta,
Recanati,2aprile1830,ivi,p.1347.
81. G. Leopardi a F. Puccinotti,
Recanati,19maggio1829,ivi,p.1341.
82. La partenza avvenne molto
probabilmente non il 29 aprile (come
risulta da G. Leopardi ad A.
Tommasini, Recanati, 28 aprile 1830,
ivi, p. 1347: «Io parto domani») ma,
sullabaseanchedelcitatoMemorialedi
Monaldo, la mattina del 30, «per
evitare, come di solito si faceva, il
viaggionotturno»(Epist., VIp.3n.2).
Il Memoriale di Monaldo (Cenni
biograficiintornoaGiacomoLeopardi.
Memoriale autografo di Monaldo
LeopardiadAntonioRanieri,delluglio
1837) si legge in G. e R. BRESCIANO,
Carteggio inedito di varii con G.
Leopardi,conletterecheloriguardano,
Torino, Rosenberg & Sellier, 1932. La
richiestadiesatti«cennibiografici»era
venutaespressamentedaRanieri,súbito
dopo la morte dell’amico: «Ella deve
avere ancora la bontà di darmi una
notiziaesattadituttociòchepuòessere
importanteachidevescrivereunavita
compiutadiGiacomo;dellasuanascita,
chenonvorreiaveresbagliata,de’suoi
primi anni, de’ suoi primi studi, de’
maestri,delleinclinazioni,deglispassi,
delle gioie, de’ dolori, delle infermità,
delmododivita,dellevariepartenzee
ritorni,dituttoinfinequelloch’ellapuò
credere utile di farmi conoscere, e che
troppo sarebbe lungo ad annoverarle
capo per capo» (A. Ranieri a M.
Leopardi, Napoli, 18 luglio 1837, in
PIERGILI,Nuovidocumentiintornoalla
vita e agli scritti di G. Leopardi, cit.,
pp.254-55).Ranieriil5settembre1837
ringrazia Monaldo dell’invio «di tante
careeprezioseedesideratissimenotizie
intorno al mio non mai bastantemente
pianto e lacrimato Giacomo» (ivi, p.
257).
83. G. Leopardi a C. Bunsen,
Recanati,5settembre1829,inTO, Ip.
1344.
84.G.LeopardiallasorellaPaolina,
Bologna, 1o marzo 1826, ivi, p. 1241:
«tu sai che fuori di Recanati io non
sogno mai (cosa che mi fa meraviglia,
peròverissima)».
85.G.Leopardialpadre,Firenze,3
luglio1832,ivi,p.1386.
86. G. Leopardi a P. Colletta,
Recanati, 22 novembre 1829, ivi, p.
1345.
87. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Recanati,17febbraio1830,ivi,p.1346.
88. G. Leopardi a G. Vieusseux,
Recanati,8gennaio1830,ibid.
89. G. Leopardi a G. Vieusseux,
Recanati,21marzo1830,ivi,p.1347.
90. «Egli [De Sinner], se piacerà a
Dio, li redigerà e completerà, e li farà
pubblicare in Germania; e me ne
promette danari, e un gran nome. Non
potete credere quanto mi abbia
consolato quest’avvenimento, che per
piú giorni mi ha richiamato alle idee
della mia prima gioventú, e che,
piacendo a Dio, darà vita ed utilità a
lavori immensi, ch’io già da molt’anni
considerava come perduti affatto, per
l’impossibilità di perfezionare tali
lavoriinItalia,peldispregioincuisono
talistuditranoi,epeggiopelmiostato
fisico» (G. Leopardi alla sorella
Paolina, Firenze, 15 novembre 1830,
ivi,p.1353).SuitentatividiDeSinner
per la stampa dei manoscritti e per
l’esigua parte che riuscí, non bene, a
pubblicare (Excerpta e schedis criticis
Jacobi
Leopardi
comitis,
in
«Rheinisches Museum», Bonn 1835,
pp. 1-14, e Probe aus Giacomo
Leopardi’s Miscellaneis, in «Neue
Jahrbücher für Philologie und
Paedagogik»,VI1840,pp.278-86),cfr.
N. SERBAN, Leopardi et la France,
Paris, Champion, 1913, pp. 265 sgg.;
M. MICHELESI, L’opera di L. De
SinnerafavorediG.Leopardi,Firenze,
Olschki, 1938; TIMPANARO, La
filologia di G. Leopardi, cit., pp. 17181. Le carte consegnate a De Sinner
furonodaquesticedutenel1859(conla
propria biblioteca, per una pensione
mensile di cento lire) alla Palatina di
Firenze, quindi sono passate alla
BibliotecaNazionalefiorentina.
91.OltrealTristano,parr.14e22,
cfr. almeno G. Leopardi a F. TargioniTozzetti, Roma, 5 dicembre 1831, in
TO, I p. 1369: «abbomino la politica,
perchécredo,anzivedochegl’individui
sono infelici sotto ogni forma di
governo;colpadellanaturachehafatti
gli uomini all’infelicità; e rido della
felicità delle masse, perché il mio
piccolo cervello non concepisce una
massafelice,compostad’individuinon
felici».
92.Ilverbaleufficialedellasedutae
la lettera di nomina trasmessa a
Giacomo,indata21marzo,sileggono
in Scritti vari inediti di G. Leopardi
dalle carte napoletane, Firenze, Le
Monnier,1906,pp.421-23.
93. G. Leopardi al Comitato di
Governo Provvisorio di Recanati,
Firenze, 29 marzo 1831, in TO, I p.
1357.
94. G. Leopardi al padre, Firenze,
29marzo1831,ivi,p.1356.
95. «Ho venduto il ms. de’ miei
versi, con 700 associazioni, per 80
zecchini: nello stato attuale sí
problematico del commercio, non è
stato possibile ottenere di piú» (G.
Leopardialpadre,Firenze,23dicembre
1830, ivi, p. 1354). Degli ottanta
zecchini (per il valore dello zecchino,
cfr.cap. XVIn.12),ventifuronopagati
alla consegna del manoscritto (gennaio
1831),glialtrisessantaintrerate,trail
maggioeilgiugnodellostessoanno.
96. La «dedicatoria», che risponde
anche all’ufficio pratico di implicito
ringraziamento collettivo per l’aiuto
economico ricevuto dagli amici
residenti in Toscana, è «di troppo
inferiore alla poesia che in quel
momentoLeopardioffriva,echedilía
poco, e poi senza interruzione piú fino
all’ultimo anno di vita, ancora avrebbe
offerto»(C.DIONISOTTI,Preistoriadel
pastore errante, in ID., Appunti sui
moderni,cit.,p.157).
97.«LaTargioni,cuinonveggose
nonassaidirado,madallaqualefuiper
presentarle il nostro Leopardi, mi
commise salutarti» (A. Poerio ad A.
Ranieri, a Parigi, Firenze, 18 maggio
1830,inF.MORONCINI,Lettereinedite
diA.PoerioadA.Ranieri.1830-1837,
in «Nuova Antologia», 16 luglio e 1o
agosto 1930, pp. 137-56, 273-302, la
cit.ap.153).
98.Laconsegnadeitestiall’editore
deve essere avvenuta tra il luglio e
l’agosto 1833. Per quest’edizione
Giacomo incassò da Piatti quindici
zecchiniemezzo.
99. Piuttosto che anonimo, il
volume è firmato con un sibillino
pseudonimo(cfr.Epist.,VIp.143n.3),
perché il nome dell’autore figura
nascosto dietro la sigla 1150, che in
numeriromanidàMCL,cioèleiniziali
diMonaldoConteLeopardi.
100.Cfr.Dichiarazioniaproposito
discrittialuiattribuiti,inTO,Ip.993.
Giacomo dette diplomaticamente
notiziaalpadredelpropriocomunicato
stampail28maggio(ivi,pp.1383-84),
ma nella lettera al cugino Giuseppe
Melchiorri, da Firenze, del 15 maggio,
la smentita è denunciata con secca e
iratainsofferenza:«iononnepossopiú,
propriamente non ne posso piú. Non
voglio piú comparire con questa
macchia sul viso, d’aver fatto
quell’infame,
infamissimo,
scelleratissimo libro. Qui tutti lo
credono mio: perché Leopardi n’è
l’autore, mio padre è sconosciutissimo,
iosonoconosciuto,dunquel’autoreson
io. Fino il governo mi è divenuto poco
amico per causa di quei sozzi, fanatici
dialogacci»(ivi,p.1381).
101. Lo Spettatore Fiorentino.
Giornalediognisettimana.Preambolo,
inTO,Ip.993.
102. «Leopardi verso il fine della
sua vita scrisse un libro terribile, nel
quale deride i desideri, i sogni, i
tentativi politici degl’Italiani con
un’ironia amara, che squarcia il cuore,
macheègiustissima»(V.GIOBERTI,Il
Gesuita moderno, Losanna, Bonamici,
1846-1847, 5 voll., III p. 484). Il
«poemetto […] a me pare un lavoro
finissimo,perfetto,chedovrebbeessere
studiato
e
pregiato
altamente
dagl’Italiani» (L. SETTEMBRINI, Il
Leopardi, in Lezioni di letteratura
italiana, a cura di V. PICCOLI, Torino,
UTET,1927,3voll.,IIIp.336).
103.R.LIBERATORE,Innisacridel
conte Terenzio Mamiani Della Rovere,
in «Il Progresso delle Scienze, delle
LettereedelleArti»,II61833,p.147.
104. G. Leopardi al padre, Napoli,
27novembre1834,inTO, Ip.1405.Il
poeta aveva rinunciato nel 1832 a
recensiregliInnisacri di Mamiani per
l’«Antologia» (cfr. G. Vieusseux a G.
Leopardi [Firenze, settembre 1832], in
Epist., VI p. 210), ma ad essi, al loro
spirito ottimisticamente «progressivo»,
alla loro illusoria fiducia di riscatto
religioso dell’umanità farà sarcastico
riferimento nel v. 51 di La ginestra,
conclusivo della prima lassa («le
magnifiche sorti e progressive»), e
nell’ironicanotarelativa(«Parolediun
moderno,alqualeèdovutatuttalaloro
eleganza»). Quanto a Raffaele
Liberatore, è probabile che sia entrato
nellagalleriadeipersonaggiirrisinella
satira I nuovi credenti sotto le vesti di
Galerio, l’ottimista, il «buon garzon»
che«contentoepio,/lodairaggideldí,
loda la sorte / del gener nostro, e
benedice Iddio» (vv. 52-57). Sulla
mancata recensione agli Inni sacri di
Mamiani(cheeracuginodellamadredi
Giacomo), cfr. W. SPAGGIARI, La
mancata
collaborazione
all’«Antologia» (1998), in ID., L’
eremita degli Appennini. Leopardi e
altri studi di primo Ottocento, Milano,
Unicopli,2000,pp.39-66.
105. A. Poerio a N. Tommaseo,
Napoli,13luglio1836,inR.CIAMPINI,
AlessandroPoeriodifendeLeopardi,in
ID., Studi e ricerche su Niccolò
Tommaseo, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1944, p. 267. Difficile
identificare il «libretto poco fa
pubblicato», ma forse si tratta (cosí ha
proposto, come ricorda Ciampini, G.A.
LEVI,G.Leopardi,Messina,Principato,
1931,p.389,econcordaN.BELLUCCI,
G. Leopardi e i contemporanei.
Testimonianzedall’Italiaedall’Europa
in vita e in morte del poeta, Firenze,
Ponte alle Grazie, 1996, pp. 149-50)
dellanovellainversiClaudioVanninio
l’Artista, opera di Saverio Baldacchini,
apparsa a Napoli, presso De Stefano,
nel 1836. Anche Baldacchini si è
guadagnato un posto tra I nuovi
credenti, con ogni probabilità sotto le
sembianze di Elpidio, lo ‘speranzoso’,
«il valoroso Elpidio» che «con quel
fiato / soave, onde attoscar suole i
vicini,/incontroaldolormiodallabbro
armato / vibra d’alte sentenze acuti
strali»(vv.32-36).
106. P. Giordani a G. Leopardi,
Milano, 15 aprile 1817, in Epist., I p.
73.
107. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 30 aprile 1817, in TO, I p.
1026.
108. H.W. SCHULZ, Giacomo
Leopardi. Sein Leben und seine
Schriften,in«Italia»,annuarioacuradi
A. REUMONT, Berlino, II 1840, pp.
235-70 (alcuni estratti tradotti da B.
CROCE, Testimonianze su Leopardi, in
«LaCritica»,XXX1932,pp.65-71;altri
in BELLUCCI, G. Leopardi e i
contemporanei,cit.,pp.447-64,trad.di
L.BOCCI).
109. Dei Diari di Platen (Die
Tagebücher des Grafen August von
Platen,acuradiG.VONLAUBMANNe
L. VON SCHEFFLER, Stuttgart, Cotta,
1900) non esiste la traduzione italiana,
ma i passi relativi a Leopardi sono
tradottidaC.DELOLLIS, Augusto von
PlatenHallermunde.Gliultimiannidel
Platen, in «Nuova Antologia», 1o
novembre 1897, pp. 9 sgg. (da cui si
cita) e anche (trad. di L. BOCCI) in
BELLUCCI, G. Leopardi e i
contemporanei,cit.,pp.464-66.
110. Per l’autore era previsto un
compensodicinqueducatiperfogliodi
stampa.
111.«L’edizionedellemieOpereè
sospesa, e piú probabilmente abolita,
dal secondo volume in qua, il quale
ancoranonsièpotutovendereaNapoli
pubblicamente, non avendo ottenuto il
publicetur. La mia filosofia è
dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in
tuttoilmondo,sottounnomeosottoun
altro, possono ancora e potranno
eternamentetutto»(G.LeopardiaL.De
Sinner, Napoli, 22 dicembre 1836, in
TO,Ip.1415).
112. «Non gli restava piú che
l’illusionediParigi,difattol’appelloai
posteri, essendo impensabile che
l’autoredeiParalipomenis’illudessedi
poterstamparel’operasuainItalia.Nel
suo supremo isolamento, aveva
riconosciuto a Napoli la comicità
meschina dell’intiera scena italiana
contemporanea» (C. DIONISOTTI,
Fortuna di Leopardi [1975], in ID.,
Appuntisuimoderni,cit.,p.214).
113. G. Leopardi a L. De Sinner,
Firenze, 24 maggio 1832, in TO, I p.
1382.
114. G. Leopardi al padre, Napoli,
27maggio1837,ivi,p.1419.
115. «AL CONTE GIACOMO
LEOPARDI RECANATESE / FILOLOGO
AMMIRATO FUORI D’ITALIA /
SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE
ALTISSIMO / DA PARAGONARE
SOLAMENTE COI GRECI / CHE FINÍ DI
XXXIXANNILAVITA/ PERCONTINUE
MALATTIE MISERISSIMA / FECE
ANTONIO RANIERI / PER SETTE ANNI
FINO
ALLA
ESTREMA
ORA
CONGIUNTO / ALL’AMICO ADORATO.
MDCCCXXXVII».Ilconfrontoesclusivo
«coigreci»significavaperGiordaniun
elogiostoricamentemotivato:«Chinon
conoscaleideedelGiordaniinfattodi
stileediletteraturarischiadiscambiare
per una lode generica e meramente
enfaticaquellache,nelleintenzionidel
Giordani, era una valutazione ben
precisa: il Leopardi era, per lui, il
creatore del nuovo e perfetto stile
italiano» (S. TIMPANARO, Il Giordani
e la questione della lingua [1974], in
ID., Aspetti e figure della cultura
ottocentesca,cit.,p.189n.66).
III
TRAERUDIZIONEE
FILOLOGIA
1.ICOMPONIMENTI«PUERILI»
Non basta dire che nel
palazzo Leopardi, per merito
delconteMonaldo,ilibrielo
studioeranodicasa,néchevi
si applicavano nei riguardi
dei figli ancora bambini i
metodi d’una pedagogia
affabilmentecoercitiva.Resta
nondimeno portentosa la
vastità enciclopedica degli
interessi e stupefacente
l’ostinazione
con
cui
Giacomo ancora fanciullo –
assecondato per poco, finché
è stato possibile, da Carlo e
da Paolina – non solo
assimilaimodelliideologicoculturali
dell’ambiente
familiare, ma già lascia
antivedere di volare per
proprio conto e volare alto,
sotto gli occhi sbalorditi
d’ammirazionedelpadre,che
sogna per il suo primogenito
una
luminosa
carriera
ecclesiastica. In una letterina
in latino, indirizzata «A Sua
Eccellenza / Il Signor Conte
Monaldo Leopardi» il 16
ottobre 1807, il «Filius
Iacobus» (che ne è devoto
ammiratore) promette con
candore: «erit gratius mihi
studium, quam lusus» (‘lo
studiomisaràpiúgraditodel
gioco’).1 La promessa, non
formale, sarà mantenuta e
apreunospiraglioterribilesu
quella pratica educativa,
come sull’orgogliosa volontà
d’apprendimento,
sulla
smania di distinzione e di
affermazione
che
irrigidiscono il carattere del
ragazzo-prodigio.2
Gli
innumerevoli
componimenti «puerili» del
1809-1810,traesercitazionie
traduzioni (i primi due libri
delle Odi di Orazio), prose e
versi, in italiano e in latino,
testimoniano un’educazione
letteraria di ovvia marca
arcadica (Metastasio, Savioli,
Frugoni, Minzoni, Zappi):
un’Arcadia non elettiva né
selettiva, che risponda a
un’autonoma scelta di gusto,
bensí – com’è abbastanza
naturale – imitativa e
scolastica,
conforme
all’arretratezza circostante.
Anches’avvertono,piúlabili,
traccedialtreletture:Young,
Gessner,
l’Ossian
di
Cesarotti, le Notti romane di
Verri. Ai sonetti, alle
canzonetteanacreontiche,alle
favole pastorali, agli idilli, ai
distici martelliani burleschi,
alle epistole giocose, ai
poemetti di tema religioso e
classico, tengono dietro,
senza sosta, nel 1811 la
versione in ottave dell’Ars
poetica di Orazio; nel
1811-’12
le
ventitré
«dissertazioni filosofiche» di
soggetto logico, metafisico,
fisico e morale, saggi
compilativi in cui il ragazzo
esponelenozioniappresenel
corso dell’anno scolastico;3
nel 1812 la raccolta di
quaranta Epigrammi (poi nel
1814
gli
Scherzi
epigrammatici tradotti dal
greco), preceduta da un
Discorso preliminare sopra
l’epigramma (derivato in
buonapartedallaprimadelle
bettinellianeLettere a Lesbia
Cidonia
sopra
gli
epigrammi),mentreintantole
due tragedie del 1811 e del
1812 (memore La virtú
indiana del Serse di
Bettinelli,IlPompeoinEgitto
del Catone in Utica, nonché
dell’Attilio
Regolo
di
Metastasio) confermano una
prevalente matrice libresca
arcadico-melodrammatica.4
2.GLISTUDIDEGLIANNI18131815
Il fervore (o rabbia) del
settennale studio «matto e
disperatissimo» (1809-1816)
porta all’assimilazione di
generi e modi propri del
classicismo
settecentesco,
praticati con un’abilissima
attitudine
mimetica
e
combinatoria, ma non arriva
se non con fatica a spezzare
l’angustia di un umanesimo
provinciale,esibitoanchecon
una qualche dose di
baldanzosa ingenuità. Ne dà
provanel1813laStoriadella
Astronomia, che accumula in
cinque ampi capitoli –
attraverso Talete, Tolomeo,
Copernico, fino alla cometa
dell’anno 1811 – una messe
imponente
d’informazioni
erudite di seconda mano, per
lopiútrattedallaBibliotheca
GraecaeLatinadelFabricius
(ed. di Amburgo 1711),
assemblate sul filo di
un’intrepida
fiducia
nell’ordineprovvidenzialedel
creato5 e nei lumi del
progresso scientifico.6 Opera
compilatoria
e
anche
scolasticamente impaziente;
eppure il destino non sempre
cieco fa sí che il lettore
esperto del “dopo” rilevi non
senza trepidazione, in questa
montagna di pedanteria,
l’ansia di un occhio ancora
acerbo
suggestivamente
attratto dallo «spettacolo del
cielo» e «della notte», dallo
«splendore
delicato
ed
argenteo della luna»,7 dalle
«scintille […] dolci» e dai
«soavi […] raggi» delle
stelle, «moltitudine di globi»
che
«si
dispergono
negl’immensispazi».8
Un analogo disegno
enciclopedico, dettato dal
proposito razionalistico di
divulgazione della verità
contro l’errore delle antiche
credenze, in difesa beninteso
dellareligionecristiana,ispira
nel 1815 il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi,
impresa piú matura per
scioltezza di racconto e di
scrittura. Illustra, distribuita
in diciannove capitoli, una
galleria stipatissima di casi
anche
singolari
di
superstizione pagana, per
deriderli con ironia o con il
sorriso
sarcastico
di
Fontenelle e di Voltaire. Ma
ildiciassettennechefrugatra
imitielefavoleantiche,che
s’ingegna di annoverare
quelle
leggendarie
immaginazionitra«ifallidei
nostriantenati»,9chesisforza
di non credere «illusoria»
l’«idea
dei
progressi
quotidiani dello spirito
umano»,10 mostra a momenti
di maneggiare con la debita
cautela
una
materia
delicatissimachesarebbedilí
a poco – svanita l’ironia e
subentrato il rimpianto –
risorta nel suo orizzonte di
poeta(comenellecanzoniAd
AngeloMaieAllaPrimavera
o nella Storia del genere
umano) con potente intensità
rievocativa.
Dal1814intanto,accanto
al trattatista enciclopedico, si
rivela anche il filologo. I
Commentarii sulla vita e le
opere di Esichio Milesio, di
Porfirio,deiRetori,poi,trail
1814eil1815,deiPadrigreci
e degli scrittori di storia
ecclesiastica (d’intento anche
apologetico
contro
il
materialismo settecentesco e
giacobino)11
sono
in
prevalenza
lavori
biobibliografici di compilazione
erudita,magià,inalcunenote
«dedicate alla discussione di
variantiedicongetture»,ecco
che «dal compilatore e
dall’apologista
vediamo
sorgereilfilologo:ilfilologo
in senso stretto, l’interprete
ed emendatore di testi, quale
l’Italia “antiquaria” da molto
tempo non possedeva».12
Questa vocazione tecnica di
criticatestualesuautorigreci
e latini si sviluppa nel 1815
conil GiulioAfricano, poi si
dispiega soprattutto con i
discorsi preliminari e con le
notealletraduzioni(inspecie
della
Batracomiomachia),
con gli studi occasionati da
scoperte di Angelo Mai
(Frontone,
Dionigi
d’Alicarnasso, Eusebio, il De
re publica di Cicerone), con
le schede su Platone, sui
taumasiografi,suirètorigreci
(inprimoluogoLibanio),con
gli appunti del 1827 sui
Papiritorinesi(editinel1826
daAmedeoPeyron),elaborati
invistadiunarecensionemai
compiutaperl’«Antologia».
Come appare chiaro, la
passione – coltivata con
grande raffinatezza – del
filologo classico, emendatore
e interprete, non si esaurisce
con la fase erudita della
stagione
giovanile,
né
soccombe
con
la
«conversione letteraria» che
avvia
un
decisivo
orientamento artistico, bensí
accompagna e a lungo
convive, marginale ma
costante, con l’esperienza
adulta del pensatore e del
poeta.Sitrattadiuninteresse
che ha conseguito – come è
stato
dimostrato
da
Timpanaro
–
risultati
autonomi originali, ma al
tempostessohaeducatonello
scrittore
un
rigoroso,
pragmatico,razionale habitus
autocritico: lo ha abituato a
valutare con puntuale acribia
ilsignificatologicoestoricostilistico
della
parola,
soppesandone
l’intima
necessità;13 lo ha distolto dal
rischio della versificazione
esornativa che è malattia
endemica
del
nostro
umanesimoretorico.
1.Cfr.«Entrodipintagabbia».Tutti
gli scritti inediti, rari e editi. 18091810, a cura di M. CORTI, Milano,
Bompiani,1972,p.417.
2. Tanto che dopo dieci anni
Giacomo dirà: «Unico divertimento in
Recanatièlostudio:unicodivertimento
èquellochemiammazza»(G.Leopardi
aP.Giordani,Recanati,30aprile1817,
inTO,Ip.1025).
3. Sono un documento illuminante
per la formazione del giovanissimo
Giacomo e per il suo apprendistato di
scrittore. Nell’ovvio contesto delle
assimilazioni manualistiche (per le
fonti, si vd. l’esemplare commento di
Tatiana Crivelli, in G. LEOPARDI,
Dissertazioni filosofiche, a sua cura,
Padova,Antenore,1995),risaltanotemi
e motivi destinati a imprevedibili
sviluppi nella riflessione di Leopardi e
nella sua attività di poeta. Questo
l’indice delle cinque parti che
compongono
le
Dissertazioni
filosofiche:
PARTE
PRIMA.
Dissertazione logica: Sopra la logica
universalmente
considerata.
Dissertazioni
metafisiche:
Dissertazione sopra l’ente in generale;
Dissertazione
sopra
i
sogni;
Dissertazione sopra l’anima delle
bestie; Dissertazione sopra l’esistenza
di un ente supremo. PARTE SECONDA.
Dissertazioni fisiche: Dissertazione
sopra il moto; Dissertazione sopra
l’attrazione; Dissertazione sopra la
gravità; Dissertazione sopra l’urto dei
corpi;Dissertazionesopral’estensione.
PARTE TERZA. Dissertazioni fisiche:
Dissertazione sopra l’idrodinamica;
Dissertazione sopra i fluidi elastici;
Dissertazione
sopra
la
luce;
Dissertazione sopra l’astronomia;
Dissertazione sopra l’elettricismo.
PARTE QUARTA. Dissertazioni morali:
Dissertazione sopra la felicità;
Dissertazione sopra la virtú morale in
generale; Dissertazione sopra le virtú
morali in particolare; Dissertazione
sopra
le
virtú
intellettuali;
Dissertazione sopra alcune qualità
dell’animoumano,chenonsononévizj
névirtú.PARTE QUINTA. Dissertazioni
aggiunte. Logica: Dissertazione sopra
la percezione, il giudizio, e il
raziocinio; Metafisica: Dissertazioni
sopra le doti dell’anima umana;
Dissertazione sopra gli attributi, e la
provvidenzadell’esseresupremo.
4. Sulle due tragedie, si veda
l’ampiamenteargomentataIntroduzione
di I. INNAMORATI a G. LEOPARDI,
Teatro, ed. critica e commento, a sua
cura, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura,1999,pp.1-121.
5. «Tutto è provvidamente
distribuitonellanatura.Laconfusionee
il disordine non possono aver luogo
nelleoperediquellasapienzachedetta
leggi a tutto il creato» (Storia della
Astronomia dalla sua origine fino
all’annoMDCCCXI,inTO,Ip.735).
6.«L’uomopuòcertamentevantarsi
diaversuperatiimaggioriostacoli,che
la natura oppor potesse al prepotente
suo ingegno, e d’esser quasi giunto
all’apicedellasapienza»(ivi,p.585).
7.Ivi,p.730.
8.Ivi,p.735.
9.Saggio sopra gli errori popolari
degliantichi,X(Degliastri),ivi,p.816.
10.Ibid.
11. Cfr. C. MORESCHINI,Metodi e
risultati degli studi patristici di G.
Leopardi, in «Maia», XXIII 1971, pp.
303-20.
12.TIMPANARO,LafilologiadiG.
Leopardi,cit.,p.10.
13. Si pensi, per esempio, alla
distinzione tra «proprietà» e «nudità»
delle parole: «sono cose ben diverse la
proprietà delle parole e la nudità o
secchezza, e se quella dà efficacia ed
evidenza al discorso, questa non gli dà
altro che aridità» (Zib. 110, 30 aprile
1820). Si consideri anche (ibid.) la
distinzione piú generale – secondo la
nomenclatura derivata dal trattato
IntornoallanaturadellostilediCesare
Beccaria – tra «termini» e «parole»: i
primi, tipici del linguaggio scientifico,
presentano«lanudaecircoscrittaidea»
dell’«oggetto significato»; le seconde,
necessarie al linguaggio poetico e
letterario, evocano («quando piú
quandomeno»)«immaginiaccessorie»,
«idee concomitanti» (ivi, 1701, 15
settembre
1821),
associazioni
metaforiche: «tutto il bello di questo
mondo»consiste«nellaimmaginazione
chesipuòparagonarealleparoleealla
costruzione libera varia ardita e
figurata» (ivi, 111, 30 aprile 1820).
Sull’attività
piú
propriamente
lessicografica, cfr. G. NENCIONI, G.
Leopardi lessicologo e lessicografo
(1980), in ID., Tra grammatica e
retorica. Da Dante a Pirandello,
Torino,Einaudi,1983,pp.261-90.
IV
LA«CONVERSIONE
LETTERARIA»
1.DALL’«ERUDIZIONEAL
BELLO»
Il 1816 è un anno
importante,
perché
ora
s’incrina in Giacomo il
rapporto
di
devota
emulazione nei confronti del
padre: del suo modello
ideologico-culturale
di
cattolicesimo reazionario, di
enciclopedismo municipale e
di
provvidenzialismo
illuministico (che coniuga
fede
e
ragione),
di
legittimismo conservatore e
di
restaurazione
antinapoleonica (che hanno
ispiratoalfiglio,nelmaggiogiugno 1815, il primo
intervento d’impegno civile
con l’orazione Agl’Italiani).
Lo sguardo che Giacomo
rivolge alla realtà del
presente, storico e privato,
nazionale e recanatese,
comincia a non essere piú
interamente filtrato dalla
prospettiva monaldesca. Tale
èilsignificatoprofondodella
«conversioneletteraria»cheil
poeta ha piú tardi assegnato
proprio agli inizi del 1816,
ma che ha in effetti
svolgimentolentodal1815al
1819.
Il
passaggio
dall’«erudizionealbello»non
indica
un
semplice
spostamento
di
gusto:
comporta un investimento
senza
risparmio
nella
militanza della letteratura e
della poesia; il che significa
un bisogno violento – anzi
una «smania violentissima»
–1didarevoce,«mainmodo
forte ed elevato», all’urgere
di «passioni» altrimenti
incomunicabili:
«per
esprimerequellocheiosento
ci voglion versi e non
prosa».2
La
clausura
recanatese sta diventando un
carcere. Queste «passioni»
non sono innocenti né
inoffensive:
parlano
di
«patria», di «amore», di
«gloria», di «virtú» con
un’assolutezza di toni che le
converteininvettivatagliente
contro
l’Italia
della
Restaurazione, contro lo
squallido paesaggio della
contemporaneità.
L’uscita
dalla prigionia familiare
avvienepergradi,maècerto
che
il
trapasso
dall’«erudizione al bello»
apre la via anche al
patriottismo rivoluzionario
delle due canzoni politiche
del1818(nonostantel’attacco
antifrancese, che è di segno
liberale e non reazionario
come
nell’orazione
Agl’Italiani), che faranno a
buon diritto sobbalzare di
paura il sospettoso e
vigilissimoMonaldo.
2.TRADUZIONIDICLASSICI
L’avvicinamento
alla
poesia e la ricerca di un
linguaggio
personale
procedono attraverso le
traduzioni, corredate di
premesse teorico-critiche.3
Non sono piú un esercizio di
scuola come quelle oraziane
del 1809 e del 1811, ma
nascono
dal
bisogno
d’impossessarsi delle «divine
bellezze» che sono privilegio
dei classici:4 nel 1815 gli
Idilli di Mosco e la
Batracomiomachia; nel 1816
Frontone,
le
Iscrizioni
Triopèe,
il
I
libro
dell’Odissea,ilIIdell’Eneide,
il Moretum; nel 1817 la
Titanomachia di Esiodo e i
frammenti
di
Dionigi
d’Alicarnasso. Specie le piú
impegnative (Mosco, la
Batracomiomachia, Omero,
Virgilio, Esiodo) mostrano
sintomatiche
variazioni
sperimentali di differenti
registri espressivi: forme
idillico-elegiache (Mosco),
con echi arcadico-neoclassici
(derivati da Giuseppe Maria
Pagnini, traduttore di Mosco
nel 1780) e preromantici
(derivatidaFrancescoSoave,
traduttorenel1790degliIdillj
di Gessner); toni comici e
parodistici
(Batracomiomachia,
in
sestine sull’esempio degli
Animali parlanti [1802] di
Giambattista Casti); gusto
puristico e solennemente
antiquario (Odissea, con il
supporto
dell’articolo
foscoliano Sulla traduzione
dell’Odissea nei milanesi
«Annali di scienze e lettere»
dell’aprile 1810) inteso a
ricreare l’arcaicità dell’antico
dettato;
modi
intensi
eroicopatetici (Eneide, con il
supporto dell’articolo Caro e
Alfieri traduttori di Virgilio,
steso da Michele Leoni su
materiali foscoliani, negli
«Annali di scienze e lettere»
del settembre 1811) e epicoorrifici in Esiodo, per
renderne
la
«terribilità
semplicissima».5
Lasceltadegliautoriedei
testi presuppone un chiaro
orientamento di gusto e di
poetica. Eloquente, tra gli
altri, il caso di Mosco: «La
natura nelle poesie di Mosco
non è coperta dagli
ornamenti, non è offuscata
dalle frasi poetiche, non è
serva dell’arte. Questa viene
ad assidersi a fianco della
natura, e la lascia comparire
in tutto il suo splendore.
Moscoèunpoetacivilizzato,
manoncorrotto;èunpastore
che è sortito qualche volta
dallasuavilla,machenonha
contrattoivizideicittadini;è
il Virgilio dei Greci».6 Il
lavoro
sulla
Batracomiomachia
documenta
l’inclinazione
spontanea in Giacomo alla
burla e alla parodia, nel
convincimento (con rinvio
all’autorità di Pope) «che un
grande autore può qualche
volta ricrearsi col comporre
uno scritto giocoso, che
generalmente gli spiriti piú
sublimi non sono nemici
delloscherzo,echeiltalento
per la burla accompagna
d’ordinario
una
bella
immaginazione, ed è nei
grandi ingegni, come sono
spesso le vene di mercurio
nelleminiered’oro».7Siffatta
vena «di mercurio» lieviterà
nel tempo, dal 1815 ai tardi
Paralipomeni,
come
componente comico-satirica
inscindibile dall’«oro» della
minieraleopardiana.8
Quanto a Omero, il
giovane traduttore sceglie
l’Odissea – la versione di
Pindemonteuscirànel1822–
enonl’Iliade,perscansareil
confronto con Monti, che
sarebbe
«inutilissima
temerità»:9quinonsitrattadi
testi minori, ma del
coraggioso se non temerario
incontro, pressoché faccia a
faccia, con la stessa Natura,
giacché«egli[Omero]èquasi
un’altra natura»,10 ovvero il
vertice ineguagliato della
creazioneartistica(«Tuttosiè
perfezionatodaOmeroinpoi,
manonlapoesia»).11Virgilio
pone «infinite altissime
difficoltà», eppure tradurlo è
stato necessario – afferma
Giacomo – per il bisogno di
«far mie» quelle «divine
bellezze»: «né mai ebbi pace
infinché non ebbi patteggiato
con me medesimo, e non mi
fui avventato al secondo
Libro del sommo poema, il
quale piú degli altri mi avea
tocco, sí che in leggerlo,
senza avvedermene, lo
recitava, congiando tuono
quando si convenia, e
infocandomi e forse talvolta
mandando fuori alcuna
lagrima».12
L’impegno
maggiore è consistito nel
salvaguardare
l’aurea
medietas virgiliana: «non
intoppare nel gonfio e non
cascarenelbasso,matenermi
sempremai in quel divino
mezzocheèilluogodiverità
edinatura,edachemainon
si è dilungata un punto la
celesteanimadiVirgilio».13
Tradurre significa per
Leopardi identificarsi e
convivere con i classici,
“avventarsi” su di loro,
intrecciare la propria voce a
quelladegliantichi:
Ella dice da Maestro che il tradurre è
utilissimonellaetàmia,cosacertaeche
la pratica a me rende manifestissima.
Perché quando ho letto qualche
classico, la mia mente tumultua e si
confonde. Allora prendo a tradurre il
meglio, e quelle bellezze per necessità
esaminate e rimenate a una a una,
piglian posto nella mia mente, e
l’arricchisconoemilascianoinpace.14
Il poeta moderno nasce da
quest’immersionenelpassato,
specie nel mondo greco – il
regnodelladisinibitaintegrità
naturale –, dal “tumulto”
interiore che essa provoca,
comenutrimentoeconquista,
come appagamento di ansia
conoscitiva,comerivelazione
dell’io a se stesso, fuori dai
condizionamentidellacerchia
familiare,
nonché
del
circostanteambientesocialee
storico. Da qui la fedeltà del
traduttore,
rispettosissimo
degli
originali,
perché
l’accostamento
all’antica
naturalezzanonvatraditocon
mediazioniculturali,ma–per
quanto è possibile –
centellinato e gustato nel suo
intatto,originario«sapore».15
Però s’intende agevolmente
che soprattutto importa la
capacità di sentire e di
ricantare
quell’antica
naturalezza:conproprieforze
econautonomocanto.
3.PRIMEPROVEPOETICHE
SIGNIFICATIVE
La
stessa
variatio
sperimentale messa in atto
nelle traduzioni ritorna nello
scrittore in prima persona,
giovane artista alla ricerca di
se stesso: nel 1816 – con la
fondamentale Lettera del 18
luglio
alla
«Biblioteca
Italiana» – le esercitazioni
umanistiche dell’Inno a
Nettuno e delle due Odae
adespotae (non già esercizio
di virtuosismo retorico ma
tentativo
d’impadronirsi
dell’eleganza,
schiettezza,
semplicità arcaiche), l’idillio
Le rimembranze, la «burletta
anacreontica»
La
dimenticanza,laprovatragica
interrotta
della
Maria
Antonietta
(la
regina
ghigliottinata, eco della
pubblicistica
antirivoluzionaria)
e
l’impegnativa
cantica
Appressamento della morte;
nel 1817 – mentre s’avviano
lo Zibaldone e il carteggio
con Giordani – i cinque
sonetti satirici e il sonetto
alfieriano, le Memorie del
primo amore e l’Elegia I.
Stilizzazione idillico-arcadica
su sfondo pastorale, scherzo
comico e satirico, eloquenza
tragica in chiave pateticosentimentale (nonostante il
tema politico), scenografica
visionemontianainnestatasu
una situazione personale (la
scoliosigravechesommuove
il fantasma della morte
imminente),
diario
autobiografico in prosa e sua
lirica trasposizione nelle
terzinedell’elegiaamorosa.
La
mutevolezza
e
l’intercambiabilità
delle
forme letteratissime lasciano
filtrare due costanti: la
tensioneeroicacomeansiadi
grandezza, di vigore, di
gloria,
d’amore,
resa
incandescente dalla lettura
dellaVitadiAlfierinel1817,
e il senso acre del limite
connesso alla propria privata
condizionediprecarietàfisica
(non ancora alla miseria dei
tempi). Il contrasto provoca
già
tenui
scintille
drammatiche.
Le
rimembranze sono un idillio
funebre (come l’Idillio terzo
di Mosco), sul motivo
dell’intempestiva scomparsa
diFilino,rapitoallavitanella
primaveradellanaturaedella
giovinezza(vv.25-28):
[…]Leprimerose
spuntavano,com’or,suquella
fratta,
quando,isuoigiuochi
abbandonati,ilvidi
sederpallido,emuto.
La Maria Antonietta si
apre per la protagonista, con
la «memoria acerba» dei
«lieti dí», proprio in
prossimità della morte,
quando è vano ogni impulso
di resistenza («Resister
bramo, / ceder m’è forza e
lagrimare»).16 Il canto V
dell’Appressamento
della
morte mette in scena, con
calchi trasparenti, specie
danteschi e petrarcheschi, un
desideriodivita,diforzaedi
gloria che è smentito dal
presentimento della fine
immatura(«Poveracetramia,
già mi t’invola / la man
freddadimorte,etraledita/
lo suon mi tronca e ’n bocca
laparola»,vv.88-90),conlo
sconforto pacificato, ancora
per poco, dalla fede religiosa
(vv.94-99):
Orbianco’lviso,el’occhio
piendipianto,
atemivolgo,oPadreoRe
supremo
oCreatoreoServatoreoSanto.
Tuttosontuo.SolaSperanza,
iotremo
esento’lcorchebatteesento
ungelo
quandopensoch’appressail
puntoestremo.
Ma l’invocato soccorso
divino non pacifica il «gelo»
del
«punto
estremo»,
dell’«orrendo passo» (v.
111);nonplacal’offesadella
morte che cancella anzi
tempo una giovane vita e ne
soffoca la «speme» (vv. 32,
54) di affetto, di poesia, di
fama(vv.55-63):17
Ahimionomemorrà.Sícome
infante
cheparlatononabbiai’vedrò
sera,
emiamortealnatalsarà
sembiante.
Saròcom’undelavolgare
schiera,
emorròcomemainonfossi
nato,
nésaprà’lmondochenel
mondoiom’era.
Ohdurissimalegge,ohcrudo
fato!
Quipiangoevegnomen,che
sapreimorte,
obblivionnonsovedermi
allato.
La coscienza della malattia
diventainquietudinedimorte
e sigilla il «funereo canto»
(cosí,dopotredicianni,inLe
ricordanze,v.118)nelsegno
dellasperanzadelusa.
Il sonetto Letta la Vita
dell’Alfieririlancial’angoscia
della«nemica[…]sorte»(vv.
9-10) e della condanna,
questa volta senza lenimenti
ultraterreni, a una «tomba»
illacrimataesenzagloria(vv.
12-14):
Dimenonsuoneràl’eterna
tromba;
starommiignotoenonavròchi
dica,
Apiangerei’verròsulatua
tomba.
Al registro comicosatirico, nei Sonetti in
persona di ser Pecora
fiorentinobeccaio,18compete
invece la sponda della
polemica culturale non
dell’inchiesta autobiografica,
dove – a parte La
dimenticanza,
probabile
ripresa nel 1816 di spunti
puerili – preme piuttosto, su
tastivoltapervoltamutevoli,
l’attrito tra passione (di vita,
d’energia,d’amore,digloria)
eforzatasolitudine,sensodel
vuoto, ombra della malattia.
La
ferita
aperta
da
quest’attrito sollecita nel
1817 le acuminate pagine
autoanalitiche delle Memorie
del primo amore, lucida
cronaca diaristica di un
turbato innamoramento, e
insieme detta, piú aeree e
riflesse, le vibrazioni liriche
dell’Elegia Iepoinel1818–
dopo le canzoni civili –
dell’Elegia II, che associano,
in
correlazione
progressivamente piú stretta,
amore e dolore, moti del
cuoreesoffertosentimentodi
esclusione.
4.LACORRISPONDENZACON
PIETROGIORDANI
Ma l’attrito soprattutto si
chiarifica,
meglio
si
determinaetrovapiúschietto
modo d’esprimersi, al di là
dell’inventio artistica, nel
bellissimo carteggio con
Giordani, soprattutto intenso
tra il 1817 e il 1821.19 La
contrastata ansietà interiore
del diciannovenne Leopardi
reclama ora risarcimenti
principalmente
biografici:
non per nulla la sua prosa
acquista, nell’occasione, toni
stupendi di accesa sincerità,
schiettezza,
confidenza
inimmaginabili
nell’accademica
tessitura
dellecoevescrittureeruditee
saggistiche. Già nelle prime
lettere del 1817, Giacomo
tratteggiadiséunautoritratto
indimenticabile: gli studi, la
casa,ilpaese,lasolitudine,la
salute precaria, il bisogno di
amicizia e di affetto, la
passione di gloria, l’orgoglio
intellettuale, la sorprendente
versatilità di un ingegno
straordinario.
Questo
colloquio epistolare spalanca
per il giovane isolato un
varco – limitato ma prezioso
– nella reclusione recanatese
e consente il confronto con
l’attualitàpoliticaeculturale:
conferma nel giovane poeta
l’aristocraticaconsapevolezza
del proprio valore, rinsalda i
suoirapporticonlatradizione
classicistica e illuministica,
accelera
il
processo
d’affrancamento
dall’ideologia monaldesca,
verso un patriottismo laico e
liberalesostenutodalmodello
dell’antica «virtú», di contro
alla decadenza dell’Italia
presente.
Nel carteggio – nonché
nelle
conversazioni
intrattenute di persona tra i
due amici a Recanati nel
settembre1818–ilsensodel
limite, che urta in Giacomo
con le aspirazioni eroicoideali, da limite soltanto
privato
(la
malattia,
l’ambiente
familiare
e
paesano)diventalimiteanche
storico e nazionale. Che è
premessa decisiva per le due
canzoni civili dell’autunno
1818.
Da parte sua, l’illustre
Giordani(quarantatreennenel
1817),uomoausteroesevero,
né incline all’effusione, resta
folgorato dall’incontro a
distanza
con
questo
sconosciuto ragazzo di
provincia che rivela una
cultura e un temperamento
inconsuetianchetralacerchia
dei dotti piú apprezzati. E
súbito si convince che il suo
«Giacomino» o «Contino» –
come lo chiama con cordiale
affezione–faràmoltastrada.
Infatti gli confida, da
Piacenza, il 24 luglio 1817,
dopo cinque mesi dall’inizio
della loro corrispondenza:
«Mio adorato Contino […].
Io fermamente mi son posto
incuorechevoidoveteessere
(e voi solo, ch’io sappia,
potete essere) il perfetto
scrittore
italiano,
che
nell’animo
mio
avevo
disegnato da gran tempo».20
Poi incalza, con autentica
esultanza e non senza
apprensione, sempre da
Piacenza, il successivo 21
settembre:
Chevolete?èunpezzoch’iol’hodetto
a me stesso, e l’ho detto a molti; ora
non posso tenermi che nol gridi a voi
medesimo:Invenihominem.Appenalo
credo a me proprio; ma è vero. Che
ingegno!chebontà!Einungiovinetto!
e in un nobile e ricco! e nella Marca!
Perpietà,pertuttelecarecosediquesto
mondo e dell’altro, ponete, mio
carissimoContino,ognipossibilestudio
aconservarvilasalute.Lanaturaloha
creato, voi l’avete in grandissima parte
lavorato quel perfetto scrittore italiano
cheiohoinmente.Perdio,nonmelo
ammazzate.21
Meraviglia e incredulità
s’intrecciano al timore per la
salute vacillante del suo
interlocutore. Giordani lo
ammira come un bene
prezioso, raro e fragilissimo.
Egiàil12marzo,daMilano,
dopo avere da Giacomo
ricevuto soltanto la prima
lettera del 21 febbraio, gli ha
annunciato: «Mi diletta il
pensare che nel novecento il
ConteLeopardi(chegiàamo)
sarà numerato tra’ primi che
alla patria ricuperarono il
maleperdutoonore».22Cheè
frase netta e perentoria,
persuasa: pronunciata nel
1817, quando del «Contino»
potevano leggersi soltanto
pochi scritti apparsi sul
milanese«LoSpettatore»–di
là da venire ancora le
Operette e i Canti –, suona
come pronostico pressoché
geniale.
1. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 30 aprile 1817, in TO, I p.
1026.
2.Ibid.
3.Inaccordoconlesollecitazionidi
Giordani: «mi rallegra che VS., non
contenta di molto leggere i classici,
anche si eserciti a tradurne: esercizio
chemipareaffattonecessarioadivenir
grande scrittore, e proprio all’età
giovane:ondefapietàilpoveroAlfieri,
accortosene tardi, e postosi di
cinquant’anni a quell’opera che
sarebbegli stata utilissima trent’anni
innanzi» (P. Giordani a G. Leopardi,
Milano, 12 marzo 1817, in Epist., I p.
59). Sull’attività del traduttore, oltre a
E. BIGI, Il Leopardi traduttore dei
classici. 1814-1817 (1964), in ID., La
genesidel‘Cantonotturno’ealtristudi
sulLeopardi,Palermo,Manfredi,1967,
pp. 9-80, cfr. F. D’INTINO,
IntroduzioneaLEOPARDI,Poetigrecie
latini,cit.,pp.VII-LXIII.
4. Traduzione del libro secondo
dellaEneide,inTO,Ip.434.
5. Titanomachia di Esiodo, ivi, p.
447.
6. Discorso sopra Mosco, ivi, p.
409.
7.
Discorso
sopra
la
Batracomiomachia,ivi,p.384.
8. Sul «lungo travaglio correttivo»
sopralaBatracomiomachia(cfr.cap. II
par. 1 n. 14), «che non ha paragone
nella vicenda poetica di Leopardi» e
che risponde al bisogno di costruirsi
«un proprio linguaggio da operetta
morale in versi e, se vogliamo, poiché
l’esito sarà proverbialmente “terribile”,
da operetta immorale», cfr. E.
SANGUINETI, Per la storia di
un’imitazione(1988),inID.,Ilchierico
organico.Scrittureeintellettuali,acura
di E. RISSO, Milano, Feltrinelli, 2000,
pp.120-25.
9. Lettera ai compilatori della
«BibliotecaItaliana»,inTO,Ip.877.
10.Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,ivi,p.933.
11.Zib.58.
12. Traduzione del libro secondo
dellaEneide,inTO,Ip.434.
13.Ibid.
14. G. Leopardi a P. Giordani, 21
marzo1817,ivi,p.1020.
15. «Sa ogni buon letterato che a
tradurre Omero vuolsi piena fedeltà, e
che ogni parola del testo trascurata è
unagemmaperduta,poichéd’ordinario
basta togliere a un verso d’Omero le
parolechesembranodiniunrilievo,per
privarlo di tutto il sapore Omerico e
renderlo come un ramo senza foglie»
(Lettera
ai
compilatori
della
«BibliotecaItaliana»,ivi,p.877).
16. Maria Antonietta, I 1, ivi, p.
329.
17. Cfr. E. GHIDETTI, Alle origini
dellavocazionepoeticaleopardiana:la
cantica ‘Appressamento della morte’,
nel vol. collettivo Una giornata
leopardiana in ricordo di Walter Binni
(Firenze, 3 ottobre 1998), a cura di M.
MARTELLI, Roma, Bulzoni, 2000, pp.
15-38.
18. Sui Sonetti, cfr. M. ANDRIA,
Percorsidell’autografia.Lavicendadei
‘Sonetti di ser Pecora’, nell’opera
collettiva Autografi leopardiani e
carteggi ottocenteschi nella Biblioteca
Nazionale
di
Napoli,
Napoli,
Macchiaroli,1989,pp.29-38.
19.Cfr.inTO, Ipp.1018-124.Del
carteggio, in parte disperso, avviato da
Giacomo il 21 febbraio 1817, sono
conservate settantasei lettere di
Giacomo (l’ultima è del 6 settembre
1832) e centosei di Giordani (la prima
del5marzo1817,l’ultimadel5giugno
1837).
20. P. Giordani a G. Leopardi,
Piacenza,24luglio1817,inEpist., I p.
111.
21. P. Giordani a G. Leopardi,
Piacenza, 21 settembre 1817, ivi, pp.
123-24.
22. P. Giordani a G. Leopardi,
Milano,12marzo1817,ivi,p.59.
V
DEFINIZIONEDI
UNAPOETICA
CLASSICISTICA
1.LALETTERA(1816)ALLA
«BIBLIOTECAITALIANA»
Perproprioconto,intanto,
l’accanito frequentatore dei
greciedeilatinihacompiuto
tempestivamentelasuascelta
di campo, nel dibattito tra
classicisti e romantici, con la
Lettera del 18 luglio 1816
alla «Biblioteca Italiana» e
due anni dopo con il piú
impegnativo Discorso di un
Italiano intorno alla poesia
romantica, di cui invia «la
primaparte»all’editoreStella
il 27 marzo 1818, con
l’avvertenza
che
la
«continuazione» potrà essere
«speditasollecitamente».1
L’invito che Madame de
Staël ha rivolto ai letterati
italiani perché estendano le
loro conoscenze degli autori
stranieri è nella Lettera
rifiutato come «vanissino
consiglio».2 Il diciottenne
articolistaraccomandainvece
lo studio dei classici e della
tradizionenazionale,3cheèla
legittimaerededelpatrimonio
greco-latino: la «italiana
letteratura […] è di tutte le
letterature del mondo la piú
affineallagrecaelatina,cioè
a dire (parlo secondo la mia
opinione, ed altri segua pure
la sua) alla sola vera, perché
lasolanaturale,eintuttovota
d’affettazione».4
Questo
inequivocabile schieramento
su posizioni antiromantiche
significa difesa di un
classicismo antipedantesco e
antiretorico: non già inteso
come imitazione dei classici
in quanto perfetti modelli
formali, bensí come ritorno
all’antica purezza, come
nostalgia
e
rimpianto
dell’antichitàinquantoaurora
del mondo e del genere
umano, perciò età piú
prossimaallavivafontedella
«vera castissima santissima
leggiadrissima natura».5 Con
il che si dissolve lo stesso
canone
classicistico
dell’imitazione e si rivendica
il primato dell’originalità,
della schiettezza scevra da
artificio:
Scintilla celeste, e impulso soprumano
vuolsi a fare un sommo poeta, non
studio di autori, e disaminamento di
gusti stranieri. O noi sentiamo l’ardore
di quella divina scintilla, e la forza di
quel vivissimo impulso, o non lo
sentiamo. Se sí, un soverchio studio
delle letterature straniere non può
servire ad altro che ad impedirci di
pensare,edicrearedipernoistessi:se
no, tutti gli scrittori del mondo non ci
faranno poeti in dispetto della natura.
Ricordiamoci (e parmi dovessimo
pensarvi sempre) che il piú grande di
tuttiipoetièilpiúantico,ilqualenon
ha avuto modelli, che Dante sarà
sempre imitato, agguagliato non mai, e
che noi non abbiamo mai potuto
pareggiare gli antichi […] perché essi
quando voleano descrivere il cielo, il
mare, le campagne, si metteano ad
osservarle, e noi pigliamo in mano un
poeta, e quando voleano ritrarre una
passione s’immaginavano di sentirla, e
noi ci facciamo a leggere una tragedia,
e quando voleano parlare dell’universo
vi pensavano sopra, e noi pensiamo
sopra il modo in che essi ne hanno
parlato; e questo perché essi e
imprimamente i Greci non aveano
modelli, o non ne faceano uso, e noi
nonpureneabbiamo,ecenegioviamo,
manonsappiamofarnemaisenza,onde
quasituttigliscrittinostrisonocopiedi
altre copie, ed ecco perché sí pochi
sono gli scrittori originali, ed ecco
perché c’inonda una piena d’idee e di
frasi comuni, ed ecco perché il nostro
terrenoèfattosterileenonproducepiú
nulladinuovo.6
Non
«modelli»,
che
producono «copie di altre
copie»,
ma
«scintilla»,
«impulso», «ardore», «forza»
d’incontaminata ispirazione,
primigeniafacoltàd’intendere
e d’esprimere, come scoperta
perlaprimavolta,lavocedel
«cielo», del «mare», delle
«campagne», delle passioni,
dell’«universo». Da questa
tutela dell’originalità e della
soggettività, come dalla
venerazione del primitivo,
non è consentito ipotizzare
una particolare tipologia di
romanticismo leopardiano, se
soltanto si rammenta che
contro i canoni tipici della
scuola romantica – culto del
progresso, provvidenzialismo
storico, ideologia cattolica e
fede religiosa, rivalutazione
delMedioevo–Leopardisiè
dichiaratoostileesprezzante.
Un siffatto classicismo
eretico, o «primitivismo
classico»,7 che aspira a
richiamare in vita il mito
dell’antichità, non solo è
antiaccademico, ma anche si
annuncia pugnace e spoglio
di astrattezza teorica. Come
concetto estetico è tutt’altro
che nuovo: deriva – per
eredità vichiana – da una
vasta trattatistica di tardo
Settecento8 e dalle tesi piú
illuminate del purismo.9
Nell’adolescente Leopardi,
però, proviene da un bisogno
integrale di rifondazione
dell’esistenza – quindi anche
dioriginalitàespressiva–che
egli sente minacciata a ogni
passo nel mondo presente,
«sterile» e inondato da una
«piena» di conformismo.
Diversamentedalclassicismo
di Foscolo, saturo di cultura,
distillato di una plurisecolare
tradizione
storica,
il
classicismo di Leopardi è
strumento di cristallina
naturalità. Perciò la Lettera,
perquantoschieratacontroil
fronte piú avanzato dei
novatori, prelude nondimeno
a una poetica d’avanguardia,
solitaria e controcorrente,
destinata a sostenere l’opera
intera dello scrittore ma
insieme a toccare questioni
che vanno oltre la letteratura
(e il paradosso di una poesia
insieme nuova e primitiva
scaturita dal «ruminare» sui
classici), per riguardare le
strutture, gli obiettivi, l’idea
stessa della società moderna.
Si spiega allora la solidarietà
di Giacomo con un purista
dissidente e un classicista
giacobino come Giordani,
proprio anche sul terreno di
una laica contestazione
culturaleecivile.
2.DISCORSODIUNITALIANO
INTORNOALLAPOESIA
ROMANTICA(1818)
Le tesi sostenute nella
Lettera del 18 luglio 1816
sono
approfondite
con
asprezzapolemicanell’ampio
e complesso Discorso del
marzo 1818,10 fondato sul
contrasto tra stato di natura
(comeauroradelmondoedel
singolo individuo nell’età
della
fanciullezza)
e
«corruzione»
provocata
dall’«incivilimento».11
Al
giornod’oggi«tuttoèciviltà,
eragioneescienzaepraticae
artifizi»:12 di qui i connotati
della
poesia
romantica
riversata
sull’attualità,
sull’industria, sulla tecnica,
su effetti scenografici, quindi
intellettualistica
(«la
maraviglia è vergogna»),13
arida,14
astratta,15
ostentatamente psicologica,16
stravagante,17
solo
in
apparenza
«popolare»,18
platealmenteeinnaturalmente
sentimentale,19
incline
all’orrido («l’orridezza è
l’uno dei caratteri piú
cospicui del sentimentale
romantico»),20al«brutto»21e
al «vero» ritratto con
«imitazioni
facili
e
volgari».22 Al contrario, la
grande poesia, come la
primitiva – sull’esempio di
Omero, di Esiodo, di
Anacreonte, di Callimaco e
della
Scrittura
«massimamente nel libro
della Genesi» –,23 deve
ispirarsiallanatura:24
Ora che cosa faceano i poeti antichi?
Imitavano la natura, e l’imitavano in
modo ch’ella non pare già imitata ma
trasportata nei versi loro, in modo che
nessuno o quasi nessun altro poeta ha
saputopoiritrarlacosíalvivo,inmodo
chenoinelleggerlivediamoesentiamo
lecosechehannoimitate,insommain
quelmodocheèconosciutoeammirato
ecelebratointuttalaterra.25
Ispirarsi alla natura, «vergine
e intatta», «incorrotta» e
«immutabile»,significatrarre
da essa «la candida
semplicità»,26 il «simile al
vero»,27 gli affetti delicati e
spontanei, il «sentimentale
[…] verecondo semplice
ignaro di se medesimo»,28
espresso
con
«celeste
naturalezza»e«soavità».Con
talimezzisiottieneil«diletto
puro e sostanziale» che
proviene dalla fantasia, dalle
favole mitologiche, dalla
«maraviglia», dalla «libertà
d’imaginare»,29
dalle
«illusioni potentissime».30
Giacché compito del poeta
non è istruire ma «illudere, e
illudendo imitar la natura, e
imitando
la
natura
dilettare».31 Le «illusioni»,
che
pertengono
agli
«inganni»
dell’«immaginazione» e non
dell’«intelletto»,32 sono il
lievito che dà senso e sapore
allavita:«Alessandroecento
altri tali sono, secondo la
natura e la fama, grandi,
secondo la ragione, pazzi»,
ma sono «grandi» e hanno
fatto «cose grandi» perché
signoreggiati
dalle
«illusioni»: «quanto crescerà
l’imperiodellaragione,tanto,
snervate e diradate le
illusioni,
mancherà
la
grandezza degli uomini e dei
pensieriedeifatti».33
Alla difesa della natura
(contro la ragione), delle
illusioni (contro la scienza),
delle finalità edonistiche del
poeta («dilettare», contro la
sua missione educativa) si
affianca
una
forte
componente
sensistica,
radicata
alla
terrestrità
dell’esperienza fisica e
umana, che implica il rifiuto
di una poesia spiritualistica e
effusiva,misticaemetafisica:
Già è cosa manifesta e notissima che i
romanticisisforzanodisviareilpiúche
possono la poesia dal commercio coi
sensi, per li quali è nata e vivrà
finattantoché sarà poesia, e di farla
praticarecoll’intellettoestrascinarladal
visibile all’invisibile e dalle cose alle
idee, e trasmutarla di materiale e
fantastica e corporale che era, in
metafisicaeragionevoleespirituale.34
Atrarreunbilanciodelledue
contrastanti posizioni, si può
osservare che l’estetica
romantica – sostenuta da di
Breme – è funzionale alla
modernità vista come valore
positivo e propulsivo. Per
Leopardi, invece, il moderno
si definisce per via negativa,
cometradimentodellanatura,
e la sua estetica si sviluppa
dalla
coscienza
storicoantropologicadiquesta
fratturatrapassatoepresente.
Di qui l’aspetto inedito del
suo classicismo, funzionale a
una poesia che supplisce
l’assenza della natura in un
mondochel’harifiutata,sída
inaugurare il canto di una
soggettività lirica che intona
il dramma del proprio
smarrimento, della propria
inappartenenza alla civiltà
delle macchine e della
tecnica.
L’avvolgente eloquenza
del Discorso («effuso come
unsolipsisticomonologo»),35
chesichiudeconilpatriottico
appello ai «Giovani italiani»
perché tengano desta – nel
nomediAlfieriediCanova–
la«fiammacheacceseinostri
antenati»,36 contiene in
embrione, nel pathos civile
dell’epilogo
e
nelle
suggestioni
fantastiche
evocate
dalla
«libertà
d’imaginare»,l’energiaeroica
delle due canzoni del 1818
(come delle successive del
1820-’22) e la poesia degli
idilli
del
1819-’21.
L’acuminato
flusso
monologante di questa prosa,
arditamente ipotattica e al
contempoparlata,trasmettele
inquietudinidiunreclusoche
nell’affetto geloso della
natura «santissima» proietta
passioni
incontenibili,
repressedalla«corruzione»di
tempi avversi. Anche si
avverte con chiarezza che il
crollo di quest’idea luminosa
della natura non potrà che
avere come compagna la
disperazione.
1. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Recanati, 27 marzo 1818, in TO, I p.
1052.
2.LetteraaiSigg.compilatoridella
«Biblioteca Italiana» in risposta a
quella di Mad. la baronessa di Staël
Holsteinaimedesimi,ivi,p.881.
3. «Leggiamo e consideriamo e
ruminiamo lungamente e maturamente
gliscrittideiGrecimaestriedeiLatini
e degl’Italiani che han bellezze da
bastare ad alimentarci per lo spazio di
treviteseneavessimo»(ibid.).
4.Ivi,p.882.
5.Ibid.
6.Ivi,pp.880-81.
7. M. FUBINI, Giordani, Madame
de Staël, Leopardi (1952), in ID.,
Romanticismo italiano. Saggi di storia
della critica e della letteratura, Bari,
Laterza, 1953, 19714, p. 91. Circa
l’«inconsapevole affinità ideale» di
Leopardi «con alcune delle concezioni
tipiche del romanticismo europeo, in
particolare tedesco» (poesia non come
imitazione ma creazione soggettiva,
primato della lirica e sua funzione
gnoseologica,unitàdipensieroestile),
cfr. M.A. RIGONI, Romanticismo
leopardiano (1996), in ID., Il pensiero
di Leopardi, pref. di E.M. CIORAN,
Milano, Bompiani, 1997, pp. 115-31
(conrinviibibliografici).
8. Per riscontri diretti con
l’enciclopedica
compilazione
Dell’origine, progressi e stato attuale
d’ogni letteratura (7 voll., 1782-1799)
del gesuita Giovanni Andres, cfr.
FUBINI, Giordani, Madame de Staël,
Leopardi, cit., pp. 88-89; per
rispondenze con lo stesso articolo di
Madame de Staël (Sulla maniera e
l’utilitàdelletraduzioni,in«Biblioteca
Italiana», I, gennaio 1816, pp. 9-18) a
cui si richiama Leopardi, cfr. BIGI, Il
Leopardi traduttore dei classici. 18141817,cit.,pp.44-45.
9. Cfr. TIMPANARO, Alcune
osservazionisulpensierodelLeopardi,
cit.,p.144,eID.,Natura,dèiefatonel
Leopardi (1969), in ID., Classicismo e
illuminismonell’Ottocentoitaliano,cit.,
pp.381sgg.
10. Il Discorso va letto in stretto
rapporto con gli appunti, sulla stessa
materia, raccolti nello Zibaldone tra il
1817 e il 1820 (cfr. in specie Zib. 15
sgg.).
11.Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,inTO,Ip.918.
12.Ivi,p.920.
13.Ibid.
14. La «scienza dell’animo umano
già certa e quasi matematica e
risolutamente
analitica,
secondo
l’idioma scolastico de’ moderni, per
poconons’esponeconangoliecerchi,
e non si tratta per computi e formole
numerali»(ibid.).
15. «[I romantici] arrivano a
paragonareoggettivisibiliaquestooa
quell’arcano del cuore o della mente
nostra»(ivi,p.922).
16.Ivi,p.928.
17.Ibid.
18. «[Desiderano i romantici che il
volgo] debba essere effettivamente
uditore o lettore del poeta; e questo
mentreché si sforzano di rendere la
poesia quanto piú possano astrusa e
metafisica
e
sproporzionata
all’intelligenza del volgo. […] Queste
cose che ho dette del popolo, bisogna
intenderle dirittamente, il che avverto
perché quasi pare ch’io tenga contro i
romanticichelapoesianondebbaesser
popolare, quando e noi la vogliamo
popolarissima, e i romantici la
vorrebbero metafisica e ragionevole e
dottissima e proporzionata al sapere
dell’età nostra del quale il volgo
partecipapocooniente»(ivi,p.917).
19. «[Nei romantici] possiamo
vedere non so s’io dica senza pianto o
senzarisoosenzasdegno,scialacquarsi
il sentimentale cosí disperatamente
come s’usa ai tempi nostri, gittarsi a
manate,vendersiastaia;personeelibri
innumerevoli far professione aperta di
sensibilità; ridondare le botteghe di
Lettere sentimentali, e Drammi
sentimentali, e Romanzi sentimentali e
Biblioteche sentimentali intitolate cosí,
risplendere questi titoli nelle piazze;
tanta pudicizia strascinata a civettare
sulla stessa fronte de’ libri; fatta
verissima baldracca quella celeste e
divinavergine,bellezzadeglianimiche
l’albergano»(ivi,p.937).Sultemadel
«sentimentale» e della «sensibilità»
Leopardi intende chiarire bene, perché
ilpuntoglistaparticolarmenteacuore:
«Nonignorodunquecheincertomodo
quistailnerbodelleforzenemiche;so
che per giudizio d’alcuni, in questo
differiscono capitalmente i poeti
romanticieinostri,chequellimiranoal
cuore e questi alla fantasia» (ivi, p.
933).Masiproponedi«sgagliardire»il
«nerbo»degliavversari,osservandoche
anche nei classici si trova il
«sentimentale» (cita Omero, Virgilio e
Petrarca come «il sovrano poeta
sentimentale»), non «vanaglorioso e
sfacciato» come nei romantici, ma con
sembianza di spontaneità e «divina
sprezzatura»(ivi,p.936).
20.Ivi,p.939.
21.Ivi,p.930.
22.La«poesiaromantica[…]imita
il calpestio de’ cavalli col trap trap
trap, e il suono de’ campanelli col tin
tin tin […]. Che se l’evidenza sola va
cercata nelle imitazioni, perché non
dismettiamo del tutto questa materia
disadattissimadelleparoleedeiversi,e
non ci appigliamo a quella scrittura di
certi barbari ch’esprime i concetti
dell’animo con figure invece di
caratteri? anzi perché ciaschedun poeta
in cambio di scrivere non inventa
qualche bella macchina la quale
mediante certi ingegni metta fuori di
mano in mano vedute e figure di
qualsivogliaspecie,eimitiilsuonocol
suono, e in breve, rappresentando
ordinatamente quello che sarà piaciuto
all’inventore, non operi sol tanto
nell’immaginativa ma eziandio ne’
sensidelnonpiúlettoremaspettatoree
uditoreechesoio?»(ivi,p.945).
23.Ivi,p.919.
24.«Lanaturaègrande,laragioneè
piccola» (ivi, p. 921); cfr. Zib. 14:
«Gran verità, ma bisogna ponderarle
bene. La ragione è nemica d’ogni
grandezza: la ragione è nemica della
natura: la natura è grande, la ragione è
piccola.Vogliodirecheunuomotanto
meno o tanto piú difficilmente sarà
grande quanto piú sarà dominato dalla
ragione:chépochipossonoessergrandi
(e nelle arti e nella poesia forse
nessuno) se non sono dominati dalle
illusioni».
25.Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,cit.,p.933.
26. Ivi, p. 919. Cfr. anche Zib. 20:
«chi sente e vuol esprimere i moti del
suocuoreec.l’ultimacosaacuiarrivaè
la semplicità, e la naturalezza, e la
primacosaèl’artificioel’affettazione».
27.Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,cit.,p.944.
28.Ivi,p.936.
29.Ivi,p.920.
30. Ivi, p. 921. Sui pregi e piaceri
delle «illusioni» è necessario anche il
ricorsoalloZibaldone.Cfr.almeno:«Il
piú solido piacere di questa vita è il
piacervanodelleillusioni.Ioconsidero
le illusioni come cosa in certo modo
reale stante ch’elle sono ingredienti
essenziali del sistema della natura
umana,edatedallanascitaatuttiquanti
gliuomini,inmanierachenonèlecito
spregiarle come sogni di un solo, ma
propri veramente dell’uomo e voluti
dalla natura, e senza cui la vita nostra
sarebbe la piú misera e barbara cosa»
(Zib. 51, primavera 1819); «Cosí si
vede che appunto chi conosce e sente
piú profondamente e dolorosamente la
vanità delle illusioni, le onora e
desidera e predica piú di tutti gli altri,
comeRousseau,laStaëlec.»(ivi,318,
10 novembre 1820); «Si può applicare
all’uomo in generale avendo riguardo
alleillusioniealmodoinchelanatura
ha supplito coi felici errori ec. alla
felicità reale, anzi può applicarsi ad
ogni genere di viventi, quel verso del
Tasso(Gerus. I.3)E da l’inganno suo
vita riceve» (ivi, 3761, 23 ottobre
1823). Cfr. anche ivi, 99 (8 gennaio
1820),eG.LeopardiaP.Giordani,30
giugno1820,inTO,Ipp.1103-4.
31.Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,cit.,p.920.
32.Ivi,p.930.
33.Ivi,p.921.
34.Ivi,p.915.
35. G. CONTINI, Giacomo
Leopardi, in ID., Letteratura italiana
del Risorgimento. 1789-1861, to. I
(unico pubblicato), Firenze, Sansoni,
1986,p.281.
36.Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,cit.,p.947.
VI
LECANZONICIVILI
DEL1818,
UN’IPOTESI
NARRATIVAELE
DUECANZONI
FUNERARIE
RIFIUTATE
1.ALL’ITALIAESOPRAIL
MONUMENTODIDANTE
Con All’Italia (settembre
1818) e Sopra il monumento
di Dante (settembre-ottobre
1818),aridossodelDiscorso
eall’indomanideicolloquiin
Recanati con Giordani, il
vigore
delle
passioni
orgogliose e magnanime che
siscontranoconlasorditàdel
reales’incanalasulbinariodi
una conversione ideologico-
politica ormai esplicita,
accesa da impeti di riscatto e
di rinnovamento civile. La
patria celebrata non è una
figura retorica e non è piú
quella soddisfatta della Santa
Alleanza1 – come ancora
nell’orazione Agl’Italiani del
1815 –, bensí è l’umiliata
ItaliadellaRestaurazioneche
soffre«neglettaesconsolata»
(All’Italia, v. 15) l’offesa
delle «catene» (v. 13) e
«piange» la scomparsa della
«forza antica» (v. 28). Il che
non vuol dire militanza
politica in senso romanticorisorgimentale(comeincoevi
testi patriottici di Manzoni e
diBerchet),bensíprospettiva
metapolitica, nella quale
l’impulso di rigenerazione
giunge a toccare, piú in
profondo, la corda dolorosa
del compianto e del biasimo,
comecoscienzadell’infelicità
che
affligge
la
vita
contemporanea.
L’eroico
entusiasmo di rinnovamento
dà
soprattutto
risalto
all’amarezza per la vergogna
attuale, all’accertamento di
una perdita. Centrale nei due
componimentinonèlacarica
pedagogico-parenetica, bensí
il senso della divaricazione
tragloriapassataedecadenza
moderna, sí che risulta
prevalente,
nell’eloquio
concitato del solenne tessuto
classicistico
–
anche
affaticato dal maneggio
sapiente degli artifici retorici
–,nongiàiltonopropositivo
(chenonmanca)ecorale,ma
l’accento teso di un io lirico
angosciato.
In All’Italia la diversità
tra moderno e antico si
esprime nel contrasto tra gli
italiani morti nella campagna
napoleonica di Russia, senza
onore né fama, per interessi
stranieri
(«in
estranie
contrade / pugnano i tuoi
figliuoli / […] / pugnan per
altra terra itali acciari», VV.
43-53), e il valore (celebrato
nelcantodiSimonidediCeo)
dei caduti alle Termopili per
la libertà della loro terra (vv.
61-63):
Ohventuroseecareebenedette
l’anticheetà,cheamorte
perlapatriacorreanlegentia
squadre[…].
Il
rimpianto
significa
straziante nostalgia della
classicità e il canto che
s’intitola All’Italia diventa
emblematica
celebrazione
della Grecia,2 quando i
trecento di Leonida alle
Termopili, secondo le parole
di Simonide immaginato
presente sul luogo della
battaglia, correvano «ridenti»
incontro alla morte come a
unafesta(vv.91-100):
Comesílieta,ofigli,
l’oraestremaviparve,onde
ridenti
correstealpassolacrimosoe
duro?
Pareach’adanzaenonamorte
andasse
ciascunde’vostri,oasplendido
convito:
mav’attendealoscuro
Tartaro,el’ondamorta;
nélesposeviforooifigli
accanto
quandosul’asprolito
senzabacimoristeesenza
pianto.
Il poeta moderno non imita
Simonide: è Simonide. Nella
dedica a Monti delle due
canzonidel1818,riscrittaper
lastampadel1824,silegge:
riputando a molta disavventura che le
cose scritte da Simonide in quella
occorrenza fossero perdute, non ch’io
presumessi di riparare a questo danno,
ma come per ingannare il desiderio,
procuraidirappresentarmiallamentele
disposizioni dell’animo del poeta in
quel tempo, e con questo mezzo, salva
la disuguaglianza degl’ingegni, tornare
afarelasuacanzone.3
Il proposito è di «tornare a
fare» l’antica poesia, di
ricrearne
modernamente
l’energia e il vigore, «per
ingannareildesiderio»dichi
appassionatamente
vuole
vivere in quel mondo,
appropriarsi
di
quella
sensibilità e cultura. «Credea
– ha commentato De Sanctis
– di rifare Simonide, e gli è
uscitafattalacanzonesua,la
prima rivelazione della sua
poeticavirtú».4Sièrivelatoa
se
stesso
nell’immedesimazione con
l’antico.
La seconda canzone
continua e sviluppa la prima.
Riprende
quel
ritratto
negativodella«patria»(v.11)
là interrotto dall’apparizione
dellaGrecia.Oral’antitesitra
passato e presente oppone
alla «virtude» (v. 28) di
Dante, nuovo Omero e
preclaro esempio di «fama»
(v. 80) immortale, gli «amari
/ giorni» (vv. 38-39), lo
«scempio»(v.91),i«perversi
/ tempi» (v. 120) dell’«oggi»
(vv. 9, 95), che vedono la
«moribonda/Italia»(vv.13536) «ancella e schiava» (v.
124) di «stranieri ed empi»
(v. 123). Onde ritorna, con
una pittura piú mossa,
grandiosa e accorata, il
motivo degli «itali prodi» (v.
141) scomparsi in Russia
(«per quello di neve orrido
mare», v. 158), nel fiore
dell’età, sacrificati non alla
patriamaai«tirannisuoi»(v.
136), uccisi dal gelo, vittime
di una morte ignota e inutile
(vv.143-53):
Cadeanoasquadreasquadre
semivestiti,maceriecruenti,
ederalettoagliegricorpiil
gelo.
Allor,quandotraeanl’ultime
pene,
membrandoquestadesiata
madre,
diceano:ohnonlenubienoni
venti,
manespegnesseilferro,eper
tuobene,
opatrianostra.Eccodate
rimoti,
quandopiúbellaanoil’età
sorride,
atuttoilmondoignoti,
moriamperquellagenteche
t’uccide.
Nell’una e nell’altra lirica,
per
quanto
protese
nell’augurio di un sognato
riscatto, l’epilogo non lascia
campo alla speranza ma al
rimpianto e all’indignazione:
All’Italia si chiude con lo
sguardo rivolto al mito aureo
e per sempre svanito
dell’antica Grecia; Sopra il
monumento di Dante, sulla
notacupadellosdegnoperla
codardia presente, si chiude
con l’immagine atterrita di
un’Italia inerte, «vedova» e
spopolata(vv.197-200):
Nonsiconvieneasícorrotta
usanza
questad’animieccelsialtricee
scola:
sedicodardièstanza,
megliol’èrimanervedovae
sola.
L’ispirazione civile non è
corrusco
incitamento
all’azione ma fremente canto
di cordoglio, che dalla
contingenza politica vola al
pianoassolutodelladelusione
storica.5
Questo
stesso
smarrimento per generose
illusioni non piú praticate
trapassa–conunatransizione
cheaffondaleradicinellapiú
intima vicenda biografica del
poeta – dal tema pubblico
dellapatriaaquelloprivatoe
autobiografico dell’amore.
Cosí allo scadere del 1818
l’Elegia II condensa, in
terzine ora convulse ora
increspatedisopitofurore,gli
affanni
(l’«insania
/
angoscia», vv. 67-68) di una
passione
impossibile
(«spietato affetto», v. 72) e
«senzaconforto»(v.82),che
già annuncia il binomio poi
fondamentale di amore e
morte («[…] colei che in cor
m’ha posto / di morire un
asprissimo desio», vv. 14-15;
«[…]confortoaltrononvedo
/ al mio dolor, che l’ultima
partita»,vv.20-21).
2.RICORDID’INFANZIAEDI
ADOLESCENZA
I due piani distinti del
tema patriottico e amoroso
s’intrecciano,nellaprimavera
1819, in un progetto di
romanzo: genere di cui
l’Italia, «tra tutte l’altre
nazioni civili», è «la piú
povera», se non addirittura
«priva
affatto»,
come
Giacomo osserverà poco piú
tardi6 (d’accordo, a parte
l’assenza dell’ironia, con la
manzoniana
prima
Introduzione al Fermo e
Lucia del 1821). Risalgono
infattialmarzomaggio1819i
cosiddetti Ricordi d’infanzia
e di adolescenza, materiali
grezzi, riflessioni, pensieri,
note per un non compiuto
romanzo
autobiografico:
ipotesi narrativa che attinge
alle pagine diaristiche delle
Memoriedelprimoamoredel
1817 e che poi sarà a
intermittenza e variamente
ripresaconibreviframmenti
delSupplementoallaVitadel
Poggio (forse del 1820),7del
Supplemento
alla
Vita
abbozzata di Silvio Sarno
(forse del 1822-’23), della
Storia di un’anima scritta da
Giulio Rivalta (forse del
1825).8 Doveva trattarsi di
un’opera almeno in parte di
taglio epistolare,9 sulle orme
del Werther e dell’Ortis
(probabilmente
anche
attraverso
lo
Sterne
foscoliano), ma affrancata
dall’ossequio diretto a quei
modelli: un romanzo di tema
amoroso e politico, però
senza scansione avventurosa
e senza eventi drammatici,
senza soprattutto l’epilogo
tragicodelsuicidio,giacchéil
protagonista sarebbe dovuto
morire di morte naturale,
consumato dalla propria
disperazione. E in scena
sarebbe entrato non un
personaggio d’eccezione, ma
un non-eroe, un adolescente
precocemente disilluso, un
uomoafflittodalcontrastotra
ansia
d’eroismo
e
consapevolezza
di
una
situazione storica degradata.
Ilprogettoènotevolissimo,e
tale da distinguersi dalla
coeva narrativa di ambiente
contemporaneo,
perché
riprende
l’esempio
introspettivo dell’Ortis, e
quel nesso di amore e patria,
ma
da
un’angolatura
antieroica, garantita dalla
volontà di straniamento
prospettico dell’io narrante e
protagonista.
Infatti negli appunti dei
Ricordi d’infanzia e di
adolescenzal’usodellaprima
persona oscilla con quello
della terza: il racconto del
narratore esterno si alterna
alla voce del narratore
interno,
esplicitamente
autobiografico;laconfessione
si affianca allo studio
autoanalitico, nel tentativo
non riuscito di rinvenire un
mezzo espressivo capace di
rendere conto, con distacco
critico, della «storia di
un’anima». Il programma
resta tale, anche se per lungo
tempo ancora10 Giacomo
accarezza l’idea di un
romanzo che dovrebbe
combinare l’io e l’egli, sí da
connettere l’angoscia della
sua
privata
condizione
esistenziale alla realtà storica
deltempo.Ildupliceimpulso
della
soggettività
e
dell’oggettività, che non è
stato possibile saldare in un
autonomoenuovoorganismo
narrativo,
segue
poi,
nell’attivitàleopardiana,linee
distinte: quella della lirica,
con
la
trasfigurazione
autobiografica dei Canti, e
quella
della
ragione
investigativa, con la scrittura
insieme
arcaizzante
e
familiare, satirica e fiabesca,
delle Operette morali: un
librocoevoaiPromessisposi,
mapolemicoversoleragioni
stesse
del
romanzo
ottocentesco; un’opera di
prosa
umoristica
e
antiromanzesca,
rivolta
all’appassionata
contemplazione del negativo,
e perciò isolata e minoritaria
nel paesaggio della cultura
letterariadialloraedioggi.
Su un virtuale Leopardi
romanziere scrisse in passato
Giuseppe De Robertis, che
invitavaanonsopravvalutare
i frammenti superstiti e
consigliava
di
leggerli
soprattutto come illuminante
preistoria dei Canti, ma con
l’avvertenza che i Canti non
solo si lasciano alle spalle
ogni ipotesi di romanzo, ma
tanto se ne staccano e la
sorpassano.11 Il che è
metodologicamente
ineccepibile. Eppure merita
ricordare che la suggestione
di un Leopardi romanziere –
aldilàdeimaterialispecifici
qui considerati – è brillata
con vigore nella fantasia del
trentenneItaloCalvino:
Per me il padre ideale del nostro
romanzosarebbestatounocheparrebbe
lontanopiúd’ognialtrodallerisorsedi
quel genere: Giacomo Leopardi. In
Leopardi erano vive infatti le grandi
componenti del romanzo moderno,
quelle che mancavano a Manzoni: la
tensione avventurosa (quell’islandese
che se ne va solo per le foreste
dell’Africa,equellanottetraicadaveri
nello studio di Federico Ruysch, e
quell’altra sulla tolda di Colombo),
l’assidua
ricerca
psicologica
introspettiva, il bisogno di dare nomi e
volti di personaggi ai sentimenti e ai
pensieri suoi e del secolo. E poi la
lingua: la via ch’egli indicò fu quella
dei massimi effetti coi minimi mezzi,
cheèsemprestatoilgransegretodella
prosa narrativa. Ma è soprattutto di
Leopardi il racchiudere nel giro d’un
luogonoto,d’unpaese,d’unambiente,
il senso del mondo. E qui il suo seme
nontardòadarfrutto.Cosífuforsealle
voci, ai rumori, ai bisbigli dei giorni e
delle notti di Recanati che risposero
altre voci, altri rumori, altri bisbigli di
tragliortidiAciTrezza.12
Su Manzoni avrebbe avuto
modo e tempo Calvino di
cambiare parere; quanto a
Leopardiilfuturoautoredelle
Cosmicomiche
sarebbe
riuscito a rivitalizzarne la
disciplina di stile e di
fascinazionesurreale.
3.PERUNADONNAINFERMAE
NELLAMORTEDIUNADONNA
La delusione sempre piú
acuminata, dinanzi a un
presentespogliodivaloreedi
virtú, si sposta dal piano
politico-civileaquellomorale
e antropologico con le due
canzoni funerarie, composte
nel marzo-aprile 1819, dal
titolo Perunadonnainferma
dimalattialungaemortalee
Nella morte di una donna
fatta trucidare col suo
portato dal corruttore per
mano ed arte di un chirurgo
(su un fatto di cronaca nera
pesarese, del gennaio 1819,
che costò al «chirurgo» una
condanna a sette anni di
carcere).13
Non
solo
s’espande l’orizzonte del
pessimismo,maancheaffiora
il proposito nuovo di trarre
motivi di riflessione e
d’ispirazione dall’esperienza
di faits divers,14 con un
intervento realistico a presa
diretta
sull’immediata
attualità che avvicina specie
la seconda canzone a quel
crudo patetismo romantico
già condannato nel Discorso
del 1818. Tale versante si
rivela
inidoneo
e
improduttivo(nonpernullale
due liriche restano nel
cassetto), ma è nondimeno
sintomatico – a fianco della
deprecatio
politica
–
quest’intento
d’ingrandimento ravvicinato
dell’immoralità di costumi
corrotti, come testimonianza
di una denuncia estesa con
sdegnoatuttigliaspettidella
vitacontemporanea.
In Per una donna
inferma, il tema della morte
intempestiva, che rapisce
«beltà»e«giovanezza»(v.2)
e spenge la speranza in
«verde etade» (v. 15),
introduce, in modi ancora
germinali, motivi ricchi di
futuro:lostraziodeldistacco
dai
cari
rimasti
dolorosamente
in
vita;
l’impotenza dei «mortali» (v.
79) dinanzi «al fato» (v. 80);
l’impietosodestinocherende
la «nostra famiglia» un
«gioco»(v.117)inmanoalla
natura (evanescente presagio
del «gioco reo» della
Palinodia,v.166);ildilagare
della corruzione (il «puzzo»
del «mondo», v. 120); il
contrasto tra la «candida
gioventude» (v. 125) e la
«nefanda vecchiezza» (v.
127);
la
celebrazione
dell’innocenza(«Maquestoti
conforti / sopra ogni cosa,
ch’innocente mori», vv. 11819eanchev.151).Quianche
s’incontranoiprimisegnalidi
una natura non piú benefica
(«[…] natura / n’ha fatti a la
sciaura / tutti quanti siam
nati»,vv.97-99),maentroun
contesto consolatorio che ne
attenua fortemente il rilievo
ideologico.15 L’altro testo,
Nella morte di una donna, si
apre
con
un
rinvio
significativo alle canzoni
patriottiche(«Mentreidestini
io piango e i nostri danni, /
ecco nova di lutto / cagion
s’accresce a le cagioni
antiche», vv. 1-3),16 poi la
denuncia
dell’umana
nefandezza s’ingorga tra lo
sdegno e la pietà, per dare
voce
infine
alla
consapevolezza di un dolore
comunecherendeauspicabile
la morte. Si consoli la
giovane defunta, pensando
che piú triste della sua è la
sortedichirestainvita,elei
lo sa «per prova»: «E tu per
prova il sai, […] il sai che
mondo è questo» (vv. 11012). Tale è il mondo. Ma la
denunciaeilbiasimolasciano
indenne l’«amore» (v. 113),
che «non è reo» (v. 114) di
questa tragedia e anzi brilla
come«solo/raggiodelviver
mio diserto e bruno» (vv.
122-23). Amore e bellezza
(«santa beltà», v. 129) sono
l’unico sostegno nell’«empia
guerra» (v. 135). In «tanto
mardicolpeedisciaure»(v.
133), uno spiraglio di
salvezzavienedalleillusioni.
1. La polemica antifrancese e
antinapoleonicainSoprailmonumento
di Dante («Taccio gli altri nemici e
l’altredoglie;/manonlapiúrecentee
la piú fera», vv. 99-100, con quel che
segue,doveesplicitamentesileggevaal
v.100,nelledueedizionidel1818edel
1824: «ma non la Francia scellerata e
nera») non significa ossequio
all’ideologia reazionaria, ma anzi si
avvale di energia alfieriana e ortisiana.
Si veda anche la lettera di Leopardi a
Pietro Brighenti, Recanati, 21 aprile
1820 (in TO, I p. 1099): «Quelli che
presero in sinistro la mia Canzone sul
Dante,feceromale,secondome,perché
le dico espressamente ch’io non la
scrissi per dispiacere a queste tali
persone[ipatriotiliberali],maparteper
amor del puro e semplice vero, e odio
delle vane parzialità e prevenzioni;
parte perché non potendo nominar
quelli[gliaustriaci]chequestepersone
avrebbero voluto, io metteva in iscena
altriattoricomeperpretestoefigura».
2. «L’Italia è caduta tanto
miserabilmente,cheilpoeta,giuntoalla
metà del canto, se ne dimentica, e non
cipensapiú,eviveinGreciaerimane
inGrecia,dimodochel’Italiapareuna
semplice occasione e quasi una
introduzione all’inno di Simonide, e
Pietro Giordani poté con qualche
ragioneintitolarelapoesia:Canzonedi
Simonide. […] Vuol parlare d’Italia,
comincia a parlarne, e tutt’a un tratto
torce il viso da lei, quasi lo prenda
disdegnoodisgusto,ecantalaGrecia»
(F. DE SANCTIS, La prima canzone di
G. Leopardi [1869], in ID., Saggi
critici,cit.,IIp.390).
3.Dedicatoriedellecanzoni,inTO,
Ip.55.
4. DE SANCTIS, La prima canzone
diG.Leopardi,cit.,p.398.
5. Il celebre passo «L’armi, qua
l’armi: io solo / combatterò,
procomberò sol io» (All’Italia, vv. 3738), che è eco virgiliana (Aen., II 668)
passata per l’Ortis (lettera del 19-20
febbraio1799),echeeccitòlacaustica
malignità di Tommaseo («la bravata
appare non essere che rettorica
pedanteria»,nellavoceProcomberedel
Dizionariodellalinguaitaliana), andrà
letto come «allegorizzazione in
guerresco del proposito dello scrittore»
che vuole «ricongiungersi […] alla
visionenaturale,edunquedivina,diun
mondo iniziale e felice» (CONTINI,
GiacomoLeopardi,cit.,p.281).
6.Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl’Italiani, in TO, I p.
981.
7.Secondoladatazionepropostada
F.D’INTINO,inG.LEOPARDI,Scrittie
frammenti autobiografici, a sua cura,
Roma,SalernoEditrice,1995.
8. Si aggiunga anche la nota che si
legge nei Disegni letterari, XII (1828),
in TO, I p. 372: «Eugenio, romanzo
(Werther),frammenti».
9. Cfr. A. MONTEVERDI, Gli
‘Appunti e ricordi’ (1908), in ID.,
Frammenti critici leopardiani (1959),
Napoli,ESI,19672,p.15.
10. Sull’abbozzo della Storia di
un’animascrittadaGiulioRivalta,cfr.
G. Leopardi a P. Colletta, Recanati,
marzo1829,inTO,Ip.1337:«Storiadi
un’anima,Romanzocheavrebbepoche
avventure estrinseche e queste
sarebbero delle piú ordinarie: ma
racconterebbe le vicende interne di un
animo nato nobile e tenero, dal tempo
delle sue prime ricordanze, fino alla
morte».
11.Cfr.G.DEROBERTIS,Leopardi
romanziere (1939), in ID., Studi,
Firenze, Le Monnier, 1944, 19532, pp.
164-68: severa recensione del volume
di M. DAZZI, Leopardi e il romanzo,
Milano,Bocca,1939.
12. I. CALVINO, Mancata fortuna
del romanzo italiano (1953), in ID.,
Saggi 1945-1985, a cura di M.
BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995,
2 voll., I pp. 1508-9. Sul tema, con
riferimento particolare al Dialogo di
Federico Ruysch e al Frammento
XXXVIIdeiCanti,Calvinoèritornatoin
Il fantastico nella letteratura italiana
(1985),ivi,IIpp.1672-82.
13. Cfr. Epist., II p. 11 n. 3.
Giacomo avrebbe voluto che l’amico
Pietro Brighenti pubblicasse nel 1820,
con il titolo Canzoni, questi due testi
(cfr. G. Leopardi a P. Brighenti,
Recanati, 4 e 25 febbraio, 7, 21 e 28
aprile 1820, in TO, I pp. 1092 sgg.),
insieme alle due canzoni del 1818 e a
quellaAdAngeloMai,malastampafu
impedita da Monaldo, turbato
dall’arditezza dell’argomento (cfr. P.
Brighenti a G. Leopardi, Bologna, 22
aprile1820,inEpist., IIp.34).Ilpoeta
poi ha implicitamente rifiutato questi
componimenti lasciandoli inediti (non
ne fa parola negli Indici dei propri
scritti). La prima canzone è stata
pubblicata, a cura di Alessandro
D’Ancona, nel 1870 (da una copia
allestita da Paolina) e nel 1931 da
Moroncini (dall’autografo napoletano);
l’altraèstataeditanel1906.
14. Come avviene anche con il
disegno della Storia di una povera
Monaca, forse dello stesso 1819 (cfr.
Disegni letterari, I, in TO, I p. 367),
sulla tragica vicenda di una fanciulla
«nativa di Osimo che disperata
essendosimonacataperforza,siuccise
gettandosi da una finestra del suo
monastero di S. Stefano in Recanati».
Una materia in parte simile tratterà
Verga,adistanzadicinquant’anni,nella
Storiadiunacapinera(1869).
15. Cfr. V. DI BENEDETTO, G.
Leopardieifilosofiantichi,in«Critica
storica»,VI1967,p.303;TIMPANARO,
Natura,dèiefatonelLeopardi,cit.,p.
388.
16. Cfr. BINNI, La protesta di
Leopardi,cit.,p.40.
VII
LA«CONVERSIONE
FILOSOFICA»EGLI
SVILUPPIDEL
PENSIERO
LEOPARDIANO
1.DAL«BELLO»AL«VERO»E
LACRISIDELPESSIMISMO
«STORICO»
Dalla delusione dell’oggi
gridatanellecanzonidel1818
si sviluppa con gradualità un
pensiero
integralmente
negativo. Il cosiddetto (dal
desanctisiano Zumbini fino
dal
1902)
pessimismo
«storico»1 – databile dalla
«conversione letteraria» del
1816allasvoltadel1819-’23
–, palese nella Lettera alla
«Biblioteca Italiana» del
1816,nelDiscorsodel1818e
nei materiali coevi dello
Zibaldone,
viene
dalla
coscienza della frattura tra
antico e moderno, quindi dal
mito della natura benefica e
dall’ideadellaclassicitàcome
regno dell’immaginazione,
giovinezza del mondo e del
genere umano. La civiltà
moderna, con l’imperio della
«ragione», ha comportato
l’allontanamento dallo stato
originario, per cui le
sofferenze individuali e la
degradazione pubblica sono
considerate effetto storico di
questo divorzio. L’indignatio
delpoetamiraaun’ipotesidi
rigenerazione.
L’idea
della
natura
benigna comincia a mostrare
leprime,labilicrepeapartire
dal1819,l’annoperGiacomo
di un cupo sconforto (anche
per l’aggravarsi in primavera
della penosa oftalmia e nel
luglioperilfallitotentativodi
fuga)checoincideconlasua
«conversione
filosofica»,
ossia con il passaggio dal
«bello» al «vero», come
informa Zib. 143-44 (1o
luglio1829):
Nella carriera poetica il mio spirito ha
percorso lo stesso stadio che lo spirito
umanoingenerale.Daprincipioilmio
forteeralafantasia,eimieiversierano
pieni d’immagini, e delle mie letture
poeticheiocercavasemprediprofittare
riguardo alla immaginazione. […] In
sommailmiostatoeraalloraintuttoe
pertuttocomequellodegliantichi.[…]
La mutazione totale in me, e il
passaggiodallostatoanticoalmoderno,
seguí si può dire dentro un anno, cioè
nel 1819 dove privato dell’uso della
vista, e della continua distrazione della
lettura, cominciai a sentire la mia
infelicità in un modo assai piú
tenebroso, cominciai ad abbandonar la
speranza, a riflettere profondamente
sopralecose[…],adivenirfilosofodi
professione (di poeta ch’io era), a
sentire l’infelicità certa del mondo, in
luogodiconoscerla,equestoancheper
uno stato di languore corporale, che
tantopiúmiallontanavadagliantichie
miavvicinavaaimoderni.
A ventun anni, dunque,
Giacomo
entra
nella
modernità,maconl’animodi
un classico condannato
all’esilio in un paese
«barbaro» (Zib. 22), ed è un
ingresso traumatico che
equivale«asentirel’infelicità
certa
del
mondo».
L’appressamento
«alla
ragioneealvero»(Zib.144),
che procede con dolorosa
lentezza, smorza la fantasia,
glieroicientusiasmi,ilfurore
delle passioni. Il «mondo» si
disabbellisce e inaridisce. Il
modernosignificail«vero»e
il «vero» rivela la noia, il
vuoto,
il
nulla,
la
disperazione, la «vanità di
tutte le cose»,2 la «certezza
dellanullitàdellecose»:3
Questaèlaprimavoltachelanoianon
solamente mi opprime e stanca, ma mi
affanna e lacera come un dolor
gravissimo;esonocosíspaventatodella
vanità di tutte le cose, e della
condizione degli uomini, morte tutte le
passioni, come sono spente nell’animo
mio, che ne vo fuori di me,
considerando ch’è un niente anche la
miadisperazione.4
Orasonostecchitoeinariditocomeuna
canna secca, e nessuna passione trova
piúl’entratadiquestapoveraanima.5
Quandonell’aprilepisanodel
1828ilpoetatratteggiaconIl
risorgimento la propria
autobiografiasentimentale,la
strofa d’apertura (vv. 1-8) si
richiama proprio a questa
nuovacondizionechevedein
lui, già «sul fior degli anni»
(v. 2), venir meno «i teneri /
moti del cor profondo» (vv.
5-6):
Credeich’altuttofossero
inme,sulfiordeglianni,
mancatiidolciaffanni
dellamiaprimaetà:
idolciaffanni,iteneri
motidelcorprofondo,
qualunquecosaalmondo
gratoilsentircifa.
I settenari storicizzano, con
implicitaallusioneal1819,il
primo tempo di una
«conversione filosofica» via
via destinata a sopire, fino al
“risorgimento” del 1828, la
facoltà stessa di sentire, di
provare emozioni e trarne
piacere.
La felicità è stata
un’aspirazione che Giacomo
ha sempre rincorso invano,
ma ora sospetta di essere
abbandonato anche dalla
speranza
di
poterla
raggiungere.Lasestalassadi
A Silvia rievoca questo
precoce e intempestivo
disinganno; Silvia muore
nell’autunno 1818 e di lí a
poco («fra poco», v. 49), nel
1819, perisce in Giacomo la
«speranza»(vv.49-52):
Ancheperiafrapoco
lasperanzamiadolce:aglianni
miei
anchenegaroifati
lagiovanezza.
Con la svolta del 1819
s’interrompe la militanza
civile delle canzoni del 1818
e il poeta inizia – senza
ancora rinunciare al sogno di
unriscattomoraledellarealtà
contemporanea – una nuova
militanza, non storica ma
esistenziale, e s’avvia ad
essere il grande interprete
dell’umanainfelicità.
Questa nuova carriera si
regge almeno su tre
presupposti:
1)l’«incivilimento»rende
inattuabile
la
«poesia
immaginativa», riconosciuta
come patrimonio esclusivo
degliantichiedellorovigore
naturale (tentata però con la
magniloquenza eroica delle
due canzoni del 1818),
mentre propria «di questo
secolo» è la «poesia
sentimentale»,
ossia
ragionativa,che«sgorgadalla
filosofia,
dall’esperienza,
dalla cognizione dell’uomo e
delle cose, in somma dal
vero»:6 il che attesta la netta
separazione tra antico e
moderno;
2)
l’«incivilimento»
distrugge le illusioni, ma
esse, per un fertilissimo
paradosso7 che sfugge alla
logica della ragione, facendo
scattarelalogicadellapoesia,
permangono come unica
«sostanza»8 reale, sí da
mettere
in
moto
quell’energico contrappunto,
tra scoperta del «vero»
(inaugurata
dalla
«conversione filosofica») e
resistenza delle illusioni, che
aiuta a comprendere sia la
poetica degli idilli sia il
«risorgimento» del 1828 e la
ripresa post-1830; proprio
dalle illusioni scaturisce il
genere «lirico», che sarà
consacrato nell’inedito titolo
di Canti assunto dal 1831; il
genere «lirico» è «la cima il
colmo la sommità della
poesia»,9 «prodotto della
naturavergineepura»:10
primogenito di tutti; proprio di ogni
nazione anche selvaggia; piú nobile e
piú poetico d’ogni altro; vera e pura
poesiaintuttalasuaestensione;proprio
d’ogniuomoancheincolto,checercadi
ricrearsi o di consolarsi col canto, o
colle parole misurate in qualunque
modo, e coll’armonia; espressione
libera e schietta di qualunque affetto
vivoebensentitodell’uomo.11
3) la cognizione della
«vanità delle cose» (Zib. 78)
è conquista conoscitiva e
insieme fonte di poesia.
Proprio la poesia della
«vanitàdellecose»,inquanto
assoluta contemplazione del
negativo, che non è mai
esaltato né assolutizzato, può
avere (per altro fertile
paradosso) il duplice effetto
di recare «conforto» – in
senso terreno, non il
metafisico «conforto stolto»
diAmoreeMorte(v.119)–e
di sprigionare un’eccezionale
energia conoscitiva, un
accrescimento di vitalità:
infatti non solo porta con sé
«il piacer del dolore»,12 il
qualedonaun’«amaraedolce
tenerezza»,
come
«rassegnazione dolce alle
sventure […] conosciute
inevitabili»,mapiúancora,se
affidataa«operedigenio»,in
«un’anima grande» riesce ad
accendere l’«entusiasmo», ad
aprire e vivificare «il
cuore»;13perché«conosciuto,
ancor che tristo, / ha suoi
diletti il vero» (Al Conte
Carlo Pepoli, vv. 151-52),
l’«acerbovero»(v.140).14
La polemica contro la
«ragione»,chehainariditola
vita dissipando le illusioni
(nelDiscorsodel1818),resta
attiva anche dopo la
«conversione
filosofica»,
finchédurailrimpiantodella
natura «santissima», ma non
assume
mai
connotati
irrazionalistici.
Poi
gradualmente la ragione è
riabilitata, perché serve ad
aprire gli occhi sull’effettiva
realtà dell’esistenza, sulle
persecuzioni della natura,
sulla cognizione del nulla. Si
approfondisce la differenza,
già introdotta nel Discorso
del 1818, tra gli «inganni»
dell’«intelletto» (che sono
pregiudizi e false credenze,
come l’antropocentrismo) e
gli
«inganni»
dell’«immaginazione» (che
sono «cari inganni»,15 nobili
illusioni, passioni, ideali
morali, fantastiche «larve»
che recano diletto):16 tale
distinzione
rimane
fondamentale e non muta. I
primi sono combattuti dalla
ragione;isecondisonocreati
dallapoesia.Macompetealla
poesia «il penetrare addentro
ne’grandimisteridellavita»,
là dove non giunge la
«ragione
esatta
e
geometrica»:
siccome alla sola immaginazione ed al
cuore spetta il sentire e quindi
conoscere17 ciò ch’è poetico, però ad
essi soli è possibile ed appartiene
l’entrare e il penetrare addentro ne’
grandi misteri della vita, dei destini,
delle intenzioni sí generali, sí anche
particolari, della natura. Essi soli
possono
meno
imperfettamente
contemplare, conoscere, abbracciare,
comprendereiltuttodellanatura,ilsuo
modo di essere, di operare, di vivere, i
suoi generali e grandi effetti, i suoi
fini.18
Tuttavia tra la ragione
filosofica, che combatte gli
«inganni» dell’«intelletto», e
la poesia, che crea gli
«inganni»
dell’«immaginazione», può
esserci alleanza e si
comprende perché – ferma
restando la netta separazione
tra i due «inganni» – via via
siriducalapolemicacontrola
ragione ed emergano invece
tratticomunitralapoesiaela
filosofia:
È tanto mirabile quanto vero, che la
poesia la quale cerca per sua natura e
proprietà il bello, e la filosofia
ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè
la cosa piú contraria al bello; sieno le
facoltàlepiúaffinitraloro[…].19
Lasorgentecheunisceledue
«facoltà» è l’immaginazione,
alla quale è attribuita una
potente funzione conoscitiva:
al poeta permette di trovare
«metafore arditissime», di
cogliere le similitudini, le
«somiglianze tra le cose», le
analogietra«glioggettidelle
specie le piú distinte»; al
filosofoconsente«discoprire
e conoscere i rapporti, di
legare insieme i particolari, e
digeneralizzare».20La«forza
dell’immaginazione» fa il
vero poeta come il vero
filosofo,e«nél’unonél’altro
non può esser nel gener suo
né perfetto né grande, s’ei
non partecipa piú che
mediocremente
dell’altro
genere».21 Linguaggio del
«bello» e linguaggio del
«vero» si danno la mano. Di
qui muove la ricerca unitaria
bipartita tra poesia e prosa
riflessiva, tra i Canti e le
Operette.
Dall’antitesi
«ragione»-«passione»
si
giunge dunque a un loro
particolare connubio, a una
sorta di reciproca solidarietà
in nome non dell’arido
raziocinio geometrizzante ma
dell’«entusiasmo
della
ragione».22
L’idea
della
natura
beneficaemisericordiosa,pur
tra incrinature, resiste fino
circa al 1822-’23 (e con essa
resisteanchel’ipotesiutopica
diunarigenerazionemorale):
infrangere
questo
mito
salvifico, suscitatore di
passioni eroiche e di
magnanime illusioni, costa
sacrificioepena,tantochela
sua dissoluzione induce al
silenzio nel 1823 la voce del
poeta e apre la stagione
prosastico-riflessiva,
rassegnata e ironica, delle
Operette morali. Ma importa
osservare che la cognizione
del
«vero»,
con
la
conseguente
denuncia
dell’immoralità dei corrotti
costumi contemporanei –
come avviene nelle due poi
rifiutate canzoni del marzoaprile1819–,inaspriscenello
scrittoreilgiudizioesacerbato
contro la società e «la
scelleraggine
degli
uomini»,23 con punte di
risentimento
misantropico
(specie
nelle
«prosette
satiriche» del 1820-’22),
ancora allo scopo di
«scuotere la mia povera
patria».24
Con la «conversione
filosofica»siamoaunasvolta
e non stupisce che nel 1819
l’officina leopardiana sia
sollecitata da molteplici
ipotesi
operative,
nel
tentativo di sondare generi
differenti
che
diano
espressione adeguata a
differenti
esigenze
conoscitive e stilistiche: nel
marzo-aprile il realismo
polemico delle due canzoni
rifiutate
(provvisorio
accostamento alla sponda
romantica); nel marzomaggio
i Ricordi d’infanzia e di
adolescenza, che valgono da
antefatto degli idilli (avviati
inquestomedesimoanno)ma
sono anzitutto, s’è visto,
materiali di un progettato e
mai compiuto romanzo
autobiografico,generecaroai
novatori
romantici;
nell’estate-autunno
gli
appunti degli Inni cristiani
(quattro anni dopo la stampa
dei manzoniani Inni sacri) e
del Discorso intorno agl’inni
e alla poes. crist. («la relig.
nostra ha moltiss. di quello
che somigliando all’illusione
è ottimo alla poesia»),25
testimonianzadiunafedeche
chiede soccorso per i «nostri
Immensi
affanni»;26
nell’estate-autunno
anche
l’incompiuto
dramma
pastoraleTelesilla(suunavia
già tentata nel 1818-’19 con
Erminia), che si propone
«Forzaeveritàmodernadella
passione, unita per la prima
volta alla semplicità e agli
altri pregi antichi».27 Ma la
fase sperimentale si blocca
con l’approfondimento del
«vero» e il radicalizzarsi del
pessimismo.
2.LA«TEORIADELPIACERE»
La sofferta conversione
alla negatività integrale ruota
intorno all’idea della natura.
Il mito della natura benefica
subisce una consistente
incrinatura dalla riflessione
speculativa dello Zibaldone,
soprattutto
nel
periodo
1820-’21, detta «teoria del
piacere». L’innato «amor
proprio», come smisurato
«amordisé»,accendeinogni
individuo
un
illimitato
bisogno di autogratificazione
che non potrà mai essere
interamente appagato, onde
ancheimomentidigioiasono
turbati dal rovello di una
tensione
edonistica
insoddisfatta. Si veda Zib.
646-48(12febbraio1821):
La somma della teoria del piacere, e si
può dir anche, della natura dell’animo
nostroediqualunquevivente,èquesta.
Ilviventesiamasenzalimitenessuno,e
non cessa mai di amarsi. Dunque non
cessa mai di desiderarsi il bene, e si
desidera il bene senza limiti. Questo
bene in sostanza non è altro che il
piacere. Qualunque piacere ancorché
grande, ancorché reale, ha limiti.
Dunque nessun piacere possibile è
proporzionato ed uguale alla misura
dell’amore che il vivente porta a se
stesso. Quindi nessun piacere può
soddisfare il vivente. Se non lo può
soddisfare, nessun piacere, ancorché
reale astrattamente e assolutamente, è
reale relativamente a chi lo prova.
Perché questi desidera sempre di piú,
giacché per essenza si ama, e quindi
senzalimiti.Ottenutoanchedipiú,quel
dipiúsimilmentenonglibasta.Dunque
nell’atto del piacere, o nella felicità,
non sentendosi soddisfatto, non
sentendo pago il desiderio, il vivente
non può provar pieno piacere; dunque
non vero piacere, perché inferiore al
desiderio, e perché il desiderio
soprabbonda. Ed eccoti la tendenza
naturale e necessaria dell’animale
all’indefinito,aunpiaceresenzalimiti.
Quindi il piacere che deriva
dall’indefinito,
piacere
sommo
possibile, ma non pieno, perché
l’indefinitononsipossiede,anzinonè.
Ebisognerebbepossederlopienamente,
e al tempo stesso indefinitamente,
perchél’animalefossepago,cioèfelice,
cioè l’amor proprio suo che non ha
limiti, fosse definitamente soddisfatto:
cosa contraddittoria e impossibile.
Dunquelafelicitàèimpossibileachila
desidera,perchéildesiderio,sícomeè
desiderio assoluto di felicità, e non di
una tal felicità, è senza limiti
necessariamente, perché la felicità
assoluta è indefinita, e non ha limiti.
Dunque questo desiderio stesso è
cagione a se medesimo di non poter
essersoddisfatto.Oraquestodesiderioè
conseguenzanecessaria,anzisipuòdir
tutt’uno coll’amor proprio. E questo
amore è conseguenza necessaria della
vita,inquell’ordinedicosecheesiste,e
che noi concepiamo, e altro non
possiamo concepire, ancorché possa
essere, ancorché fosse realmente.
Dunqueognivivente,perciòstessoche
vive(equindisiama,equindidesidera
assolutamentelafelicità,valeadireuna
felicità senza limiti, e questa è
impossibile, e quindi il desiderio suo
non può esser soddisfatto), per ciò
stesso, dico, che vive, non può essere
attualmente felice. E la felicità ed il
piacere è sempre futuro, cioè non
esistendo, né potendo esistere
realmente, esiste solo nel desiderio del
vivente, e nella speranza, o aspettativa
chenesegue.
Al di là dei motivi che
riguardano direttamente il
sistema della poesia («il
piacere
che
deriva
dall’indefinito,
piacere
sommopossibile»;«lafelicità
ed il piacere è sempre
futuro»), interessa il nesso
vincolantestabilitotralavita,
l’amorproprio,ildesideriodi
piacere senza limiti e la
conseguente infelicità. Non
piúsolo,dunque,pessimismo
storico-sociale-politico, ma
anche
sensisticopsicologicoesistenziale,28
connaturato
alla
conformazione
psichica
dell’io. Il fatto stesso di
esistere
comporta
necessariamentelasofferenza
che discende da un intenso
desiderio destinato a restare
inappagato. Su questa strada
si aggredisce anche la
nozione della natura, perché
proprio lei è additata (ma il
processo è molto graduale)
come la responsabile prima
dell’innatasetedipiacereche
affanna«qualunquevivente».
Eloquente il passo di Zib.
4517(27maggio1829):
La natura non ci ha solam. dato il
desiderio della felicità, ma il bisogno;
vero bisogno, come quel di cibarsi.
Perché chi non possiede la felicità, è
infelice,comechinonhadichecibarsi,
patiscedifame.Orquestobisognoella
ci ha dato senza la possibilità di
soddisfarlo,senzanemmenoaverposto
lafelicitànelmondo.
Il
pessimismo
psicologico-esistenziale, non
dipendente da motivazioni di
ordine storico e politico,
allenta il contrasto antichimodernieaprelastradaauna
diversa valutazione anche
della civiltà antica, finora
ritenutaindenne,nelsuostato
di natura, dalla coscienza
dellavanitàdelvivere.
3.CLASSICITÀFELICE?
Larevisionecheinvesteil
concetto della natura, fino a
giungere a un autentico
ribaltamento della posizione
originaria, si attua anche
attraverso la scoperta del
pessimismo degli antichi. Un
testo al riguardo significativo
è la Comparazione delle
sentenzediBrutominoreedi
Teofrasto vicini a morte, del
marzo 1822.29 L’apostasia
della virtú, pronunciata da
Bruto in punto di morte, è
effetto di una circostanza
particolare e si situa in un
particolare momento storico:
dopo una calamità come la
sconfittadiFilippi(42a.C.)e
in un tempo che segna
«l’ultima
età
dell’immaginazione»,30
quindinellafasedidecadenza
della civiltà classica. Ma
l’apostasia della gloria, da
partediTeofrastoinpuntodi
morte, ha altro peso. Questo
pessimismo non insorge in
un’occasione luttuosa ma è
maturatonelcorsodiunavita
lungamente operosa, serena,
rispettataeinpiúsimanifesta
non in un periodo di
decadenza ma nel fulgore
dell’epoca classica, quando
signoreggiano le illusioni, in
tempi «non ripugnanti a quei
sogni e a quei fantasmi che
governarono i pensieri e gli
attidegliantichi»:31
Questi tali rinnegamenti, o vogliamo
dire, apostasie da quegli errori
magnanimi che abbelliscono o piú
veramente compongono la nostra vita,
cioè tutto quello che ha della vita
piuttosto che della morte, riescono
ordinarissimi e giornalieri dopo che
l’intellettoumanocoll’andaredeisecoli
hascoperto,nondicolanudità,mafino
agli scheletri delle cose, e dopo che la
sapienza, tenuta dagli antichi per
consolazioneerimedioprincipaledella
nostra infelicità, s’è ridotta a
denunziarla
e
quasi
entrarne
mallevadrice a quei medesimi che, non
conoscendola, o non l’avrebbero
sentita, o certo l’avrebbero medicata
colla speranza. Ma fra gli antichi,
assuefatticom’eranoacredere,secondo
l’insegnamentodellanatura,chelecose
fossero cose e non ombre, e la vita
umana destinata ad altro che alla
miseria, queste sí fatte apostasie
cagionate, non da passioni o vizi, ma
dal senso e discernimento della verità,
nonsitrovacheintervenisserosenondi
rado;eperò,quandositrova,èragione
che il filosofo le consideri
attentamente.32
Si sa che nel 1822 le
conoscenze leopardiane sul
pessimismo antico sono
lacunoseechel’orientamento
riferitoaTeofrastoètutt’altro
che isolato.33 Sta di fatto
tuttaviachel’accertamentodi
simili sentenze pessimistiche
nella Grecia felix – non
dettate da un impulso
passionale né da moti di
rivolta ma scaturite da una
pacata riflessione – è per
Giacomo un motivo inedito
che
scalza
uno
dei
presupposti del pessimismo
storico,valeadirelaserenità
degli
antichi.
Tale
costatazione incrina, non
abolisce però, l’immagine
dellaclassicitàfelice34eporta
piú
tardi
all’ironica
affermazionechela«filosofia
dolorosa» è tanto nuova
«quanto Salomone e quanto
Omero»
(Tristano,
9):
l’infelicitànonèconseguente
al distacco dalla natura, e
frutto del nuovo dominio
della «ragione», ma attributo
insito
da
sempre
nell’esistenzastessa.
4.ILPESSIMISMO
MATERIALISTICO
La concezione della
natura
malefica,
compiutamente
elaborata
nelle Operette (esemplare il
DialogodellaNaturaediun
Islandese,maggio1824),èla
chiavedivoltadelcosiddetto
(dal medesimo Zumbini fino
dal
1902)
pessimismo
«cosmico»,35 da intendersi
come pessimismo ateo e
materialistico.
Muta adesso di segno la
stessa nozione di infelicità.
Nella
prospettiva
del
pessimismo storico essa
significa disagio e difficoltà
nella convivenza sociale,
nelle relazioni pubbliche, nei
rapporti
umani.
Nella
prospettiva della «teoria del
piacere»essasignificadolore
per un desiderio inesaudito.
Nella
prospettiva
del
pessimismo
materialistico
essa significa necessaria
sofferenza fisica. L’infelicità
ora, non già – e non solo –
causata dall’«incivilimento»
che ha cancellato l’integra
naturalezza delle epoche
antiche, è intrinseca al fatto
stessodiesistere,perchétutto
ciò che esiste non è che un
misero ingranaggio entro un
ciecoprocessomeccanicistico
diproduzione-distruzioneche
salvaguarda la sopravvivenza
della specie e dell’universo a
prezzo
dell’inevitabile
patimento
–
precarietà
materiali,
malattia,
invecchiamento, morte – di
ogniesserevivente.
L’Islandese, a colloquio
con la Natura, si definisce
(par. 6) alieno dalle relazioni
sociali e «disperato dei
piaceri, come di cosa negata
alla nostra specie». A suo
modo, è corso ai ripari sia
dall’infelicità connessa al
pessimismo storico sia
dall’infelicità connessa alla
«teoria del piacere». Non gli
resta che un’unica, superstite
aspirazione: «non mi proposi
altra cura che di tenermi
lontanodaipatimenti»(ivi).E
proprio anche su questo
fronte si scopre indifeso e
vulnerabilissimo. Le parole
che da ultimo la Natura gli
rivolge suonano limpide e
chiare, nella loro impassibile
freddezza sillogistica (par.
25):
Tu mostri non aver posto mente che la
vita di quest’universo è un perpetuo
circuito di produzione e distruzione,
collegate ambedue tra se di maniera,
che ciascheduna serve continuamente
all’altra, ed alla conservazione del
mondo; il quale sempre che cessasse o
l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimente in dissoluzione. Per tanto
risulterebbeinsuodannosefosseinlui
cosaalcunaliberadapatimento.
Cambiano radicalmente ora
molte cose. Il risentimento
misantropico di Leopardi,
provocato dalla degradazione
dei costumi umani e sociali,
cede
il
campo
alla
commiserazione e all’«odio»
controlanatura,«originevera
de’ mali de’ viventi», come
risulta da Zib. 4428 (2
gennaio1829):
La mia filosofia, non solo non è
conducente alla misantropia, come può
parereachilaguardasuperficialmente,
e come molti l’accusano; ma di sua
natura esclude la misantropia, di sua
natura tende a sanare, a spegnere quel
malumore,quell’odio,nonsistematico,
ma pur vero odio, che tanti e tanti, i
quali non sono filosofi, e non
vorrebbono esser chiamati né creduti
misantropi, portano però cordialmente
a’ loro simili, sia abitualmente, sia in
occasioni particolari, a causa del male
che, giustamente o ingiustamente, essi,
come tutti gli altri, ricevono dagli altri
uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni
cosalanatura,ediscolpandogliuomini
totalmente,rivolgel’odio,osenonaltro
il lamento, a principio piú alto,
all’origineverade’malide’viventi.
Il laborioso approdo al
pessimismo
integrale
presupponelaconoscenzadei
filosofi sensisti e illuministi
settecenteschi (Montesquieu,
Diderot,LaMettrie,Voltaire,
Condillac,
Helvétius,
D’Alembert,
D’Holbach),
avvenuta sia per via indiretta
attraverso la pubblicistica
confessionale settecentesca,
sia per mediazione della
contemporanea
cultura
classicistica, sia per lettura
diretta
dal
1820
(D’Holbach)36 e piú in
particolare dal 1825.37 Tali
frequentazioni intellettuali
orientano
il
pensiero
leopardiano
in
senso
materialisticomeccanicistico,
per giungere all’estrema
conclusione che «la materia
pensa e sente», non «lo
spirito» che è propriamente
(come il nulla) «una non
idea».38
Quandosussistevailmito
della natura benefica, il
«male» appariva come un
«inconveniente»
o
un
«errore»
nel
sistema
universaledellecose:
lo stato presente dell’uomo, e le
assurdità sue, dovranno esser
considerate come una particolarità
indipendente dall’ordine e dal sistema
generale e destinato, e costante, e
primordiale. Che se anche non c’è piú
rimedioperl’uomo,nemmenoperchisi
tagli una gamba, o sia schiacciato da
unapietra,c’èpiúrimedio.Bastacheil
male non sia colpa della natura, non
derivinecessariamentedall’ordinedelle
cose, non sia inerente al sistema
universale; ma sia come un’eccezione,
uninconveniente,unerroreaccidentale
nelcorsoenell’usodeldettosistema.39
Caduto il mito della natura
benefica, il «male» non
appare piú accidentale ma
regolare,diventa«essenziale»
e rientra «nell’ordine» delle
cose:
Noi concepiamo piú facilm. de’ mali
accidentali, che regolari e ordinarii. Se
nel mondo vi fossero disordini, i mali
sarebberostraordinarii,accidentali;noi
diremmo: l’opera della natura è
imperfetta,comesonquelledell’uomo;
non diremmo: è cattiva. L’autrice del
mondociapparirebbeunaragioneeuna
potenza limitata: niente maraviglia;
poiché il mondo stesso (dal qual solo,
che è l’effetto, noi argomentiamo
l’esistenza della causa) è limitato in
ognisenso.Macheepitetodareaquella
ragione e potenza che include il male
nell’ordine, che fonda l’ordine nel
male? Il disordine varrebbe assai
meglio: esso è vario, mutabile; se oggi
v’èdelmale,domanivipotràesserdel
bene, esser tutto bene. Ma che sperare
quandoilmaleèordinario?dico,inun
ordineoveilmaleèessenziale?40
Il
pessimismo
materialistico
arriva
a
demolire il mito del
progresso, come ideologia e
legge della storia, ma non
rinuncia – secondo tutta la
tradizione del materialismo –
all’idea di una conoscenza
scientificacapacediavanzare
e progredire. La persuasione
dell’infelicità inevitabile non
spinge a cercare rifugio nella
trascendenzaoinrisarcimenti
mistici e spirituali; fino circa
al 1822 permane in Leopardi
il tormentato tentativo di
conciliare
il
proprio
pessimismo
con
il
pessimismocristiano;41poisi
afferma il suo ateismo
agonistico, con il rifiuto di
ogni
credo
finalistico,
teleologico, antropocentrico,
per arrivare all’agghiacciante
rovesciamento
del
provvidenzialismo cristiano
nella terribile figurazione
lirica di Arimane («te con
diversi nomi il volgo appella
Fato,naturaeDio»),empiae
persecutoriadivinitàdelmale
(«ben mille volte dal mio
labbro il tuo nome maledetto
sarà»)42 che come «somma
intelligenza»
demoniaca
sorpassa
in
«arcana
malvagità» la natura, che è
cieco
e
inconsapevole
meccanismo di produzionedistruzione.
1. B. ZUMBINI, Attraverso lo
‘Zibaldone’,inID.,Studi sul Leopardi,
Firenze, Barbèra, 1902-1904, 2 voll., I
1902,p.173.
2. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 19 novembre 1819, in TO, I
pp.1089-90.
3. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 6 marzo 1820, ivi, pp. 109495.
4. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati, 19 novembre 1819, ivi, pp.
1089-90.
5. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,6marzo1820,ivi,p.1094.
6.Zib.734-35(8marzo1821).
7.Il«sistemadelparadosso»,come
processo interno del pensiero
leopardiano,
è
stato
molto
efficacemente
indagato
da
L.
BALDACCI, Il sistema del paradosso
(1984), in ID., Il male nell’ordine.
Scritti leopardiani, Milano, Rizzoli,
1997,pp.77-105:«larealemodernitàdi
Leopardi sta non già nell’avere intuito,
comesuperamentodelprincipiodinon
contraddizione, la necessità di una
nuovadialettica,manell’averrifiutatoa
priorilasuaradiceottimisticaequindi
giustificatricedellarealtàqualè.Molte
sonoleaporiediLeopardi,maunodei
punti non contraddicibili del suo
pensiero è che la realtà è
ingiustificabile: e come avrebbe potuto
allora cercare un accordo, sia pure
occultamenteeinconsapevolmente,con
quelle filosofie che, mirando a
dominaretuttoilreale,tendevanoanche
a giustificarlo?» (p. 86); «proprio nel
paradossoLeopardiformalizzalalogica
del relativismo medesimo: una logica
chenonsiconclude,bensíesplode»(p.
102).
8. «Pare un assurdo, e pure è
esattamente vero, che, tutto il reale
essendounnulla,nonv’èaltrodireale
né altro di sostanza al mondo che le
illusioni»(Zib.99,8gennaio1820).
9.Ivi,245(18settembre1820).
10.Ivi,4236(15dicembre1826).
11.Ivi,4234(15dicembre1826).
12.Ivi,77e105(26marzo1820).
13. Il «sentimento del nulla, è il
sentimento di una cosa morta e
mortifera. Ma se questo sentimento è
vivo, come nel caso ch’io dico, la sua
vivacità prevale nell’animo del lettore
alla nullità della cosa che fa sentire, e
l’anima riceve vita (se non altro
passeggiera) dalla stessa forza con cui
sentelamorteperpetuadellecose,esua
propria» (ivi, 259-61, 4 ottobre 1820,
ma questo passo formidabile andrebbe
citatoperintero).
14.Il«Leopardiècomeuncristallo
di roccia purissimo […]. Nel Leopardi
io vedo la bellezza del dolore. Ma il
dolore è bello? […] la bellezza non è
dal dolore ma da quella luce
intellettuale
che
lo
illumina»
(SETTEMBRINI, Il Leopardi, cit., pp.
329,334-35).
15.Asestesso,v.4.
16. Cfr. Zib. 421-23 (dicembre
1820); Dialogo di Timandro e di
Eleandro,par.39;Tristano,par.7.
17. Si osservi la consequenzialità
del«quindi».Lapoesianonèeffusione
emotiva, ma conoscenza, cognizione
intuitiva e aurorale che consente di
conoscerecosealtrimentiinconoscibili:
«Perocchétuttociòch’èpoeticosisente
piuttosto che si conosca e s’intenda, o
vogliamo anzi dire, sentendolo si
conosce e s’intende, né altrimenti può
esser conosciuto, scoperto ed inteso,
checolsentirlo.Malapuraragioneela
matematicanonhannosensorioalcuno»
(Zib. 3242, 22 agosto 1823). Il nesso
«sentire e quindi conoscere» ritorna,
invertito, nelle parole del pastore nel
Canto notturno, vv. 100-4: «Questo io
conoscoesento,/chedeglieternigiri,/
chedell’essermiofrale,/qualchebene
ocontento/avràfors’altri;amelavita
èmale».
18.Zib.3242-43(22agosto1823).
19.Ivi,3382-83(8settembre1823).
20. Ivi, 1650 (7 settembre 1821).
Cfr. anche ivi, 2132-34 (20 novembre
1821).
21.Ivi,3383(8settembre1823).
22.Ibid.
23.Ivi,2473(13giugno1822).
24.Ivi,1393(27luglio1821).
25.Discorsointornoagl’inniealla
poes.crist.,inTO,Ip.337.
26.InnoalRedentore,ibid.
27.Perun’avvertenzaallaTelesilla,
ivi,p.349.
28.Cfr.L.BLASUCCI,Laposizione
ideologica delle ‘Operette morali’
(1970), in ID., Leopardi e i segnali
dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985,
pp.165-226.
29.
Pubblicata
nell’edizione
bolognese (1824) delle Canzoni, come
premessa al Bruto minore, poi (non
inclusaneiCanti)nelleOperedel1845,
acuradiA.RANIERI,inappendicealle
Operette morali. La Comparazione si
trova, anche in edizioni moderne,
spesso riprodotta in appendice alle
Operette, ma, essendo stata redatta
comepremessaalBrutominore, la sua
collocazione piú idonea risulta in
appendice ai Canti. Su Teofrasto, cfr.
giàZib.316-18(11novembre1820).p.
209.
30.Comparazionedellesentenzedi
Bruto minore e di Teofrasto vicini a
morte,inTO,Ip.209.
31.Ibid.
32.Ivi,p.207.
33. Cfr. S. TIMPANARO, Il
Leopardi e i filosofi antichi, in ID.,
Classicismo
e
illuminismo
nell’Ottocento italiano, cit., pp. 199205.
34. E lascia anche intatto il culto
«dell’aureaantichità»(Paralipomeni,III
13 4). Cfr. anche nei Disegni letterari,
XI (1829), il Parallelo della civiltà
degliantichi(cioèGrecieRomani)edi
quella dei moderni (con le relative
considerazioni),inTO,Ip.372.
35. ZUMBINI, Attraverso lo
‘Zibaldone’,cit.,p.173.
36.Cfr.Zib.183(23luglio1820).
37.Cfr.Elenchidiletture,pp.1153
sgg. (nel marzo 1824 è registrata la
lettura del Candide di Voltaire). Nella
biblioteca paterna Giacomo disponeva,
tra le opere di Montesquieu, delle
Considérations sur les Causes de la
Grandeur des Romains et de leur
Décadence, del Dialogue de Sylla et
d’Eucrate, del Temple de Gnide,
dell’Essaisurlegoût(testituttinell’ed.
di Amsterdam 1781), delle Lettres
persanes (ed. di Colonia 1730), di
L’espritdeslois(ed.diGinevra1731).
Cfr. A. FRATTINI, Leopardi e gli
ideologi francesi del Settecento,
nell’opera collettiva Leopardi e il
Settecento. Atti del I Convegno
internazionale di studi leopardiani
(Recanati, 13-16 settembre 1962),
Firenze, Olschki, 1964, pp. 253-82.
Sugli Elenchi di letture, cfr. M.
ANDRIA, Le tracce della lettura. Un
elenco inedito dalle carte napoletane,
nell’operacollettivaIlibridiLeopardi,
cit.,pp.9-23.
38.Zib.4251-53(9marzo1827).
39.Ivi,365-66(1odicembre1820).
40.Ivi,4511(17maggio1829).
41.Cfr.inspecieivi,393-420(9-15
dicembre1820).
42. Ad Arimane (databile 1833), in
TO,Ip.350.
VIII
LOZIBALDONE
1.LASTORIAESTERNA
Il diagramma del sistema
concettuale leopardiano, nei
suoi intrecciati sviluppi, è
ricomponibile in massima
parte con l’ausilio dello
Zibaldone
di
pensieri,
lasciato dall’autore nel
cassetto e pubblicato per la
prima volta tra il 1898 e il
1900, a cura di una
commissione di studiosi,
nominata il 14 ottobre 1897
dal
ministro
Giovanni
Codronchi e presieduta da
Giosue
Carducci.1
Abbastanza fortunose le
vicissitudini toccate in sorte
al manoscritto. Rimasto, con
le altre carte di Leopardi,
nelle
mani
dell’amico
Ranieri, questi «si adoperò
per sottrarlo alle ricerche
avviatedall’autoritàpontificia
a due anni di distanza dalla
scomparsa del poeta».2 Ma
alla sua morte, nel 1888,
Ranieri lo lasciò in eredità a
due donne di servizio,
analfabete, in qualità di
usufruttuarie.Passaronodieci
anni, ci volle un processo e
l’intervento decisivo del
ministero della Pubblica
Istruzione, prima che la
proprietà
dell’inedito
manoscritto fosse assicurata
alloStato.
L’opera, avviata nel
luglio-agosto 1817, è poi
quotidianamente
cresciuta
negli anni – in particolare
però, per circa tre quarti, dal
1821 al 1823 – fino allo
scadere del 1832 (l’ultimo
pensiero è datato «Firenze 4.
Dic. 1832»), tanto da
raggiungere
una
mole
imponente.
L’autografo,
conservato nella Biblioteca
Nazionale di Napoli, è
costituito da sei volumi
rilegati in pergamena, con
ognifoglioscrittosulrectoe
sul verso, per un totale di
4526 pagine manoscritte.
Cosí ne parla Carducci nella
premessaallaprimaedizione:
Èunamolediben4526faccelunghee
larghe mezzanamente, tutte vergate di
man dell’autore, d’una scrittura spesso
fitta,semprecompatta,eguale,accurata,
corretta. Contengono un numero
grandissimo di pensieri, appunti,
ricordi,
osservazioni,
note,
conversazioni e discussioni, per cosí
dire, del giovine illustre con sé stesso,
su l’animo suo, la sua vita, le
circostanze;apropositodellesueletture
ecognizioni;difilosofia,diletteratura,
dipolitica;sul’uomo,sulenazioni,su
l’universo; materia di considerazione
piú larga e variata che non sia la
solenne tristezza delle operette morali;
considerazioni poi liberissime e senza
preoccupazione, come di tale che
scriveva di giorno in giorno per sé
stessoenonperglialtri,intento,senon
a perfezionarsi, ad ammaestrarsi, a
compiangersi,aistoriarsi.Perséstesso
notavaericordavailLeopardi,nonper
ilpubblico:ciònonpertantogranconto
eidovevafarediquestosuoponderoso
manoscritto, se vi lavorò attorno a un
indice amplissimo e minutissimo, anzi
piú indici, a simiglianza di quelli che i
commentatori olandesi e tedeschi
apponevanoaiclassici.3
Le novantanove pagine
inizialisonosenzadata(salvo
la prima: «Luglio o Agosto
1817»),cheèinveceindicata
con regolarità a partire da p.
100(8gennaio1820).Ladata
segnatasullapaginad’esordio
è stata apposta nel gennaio
1820, quando Giacomo
avvertel’esigenzadi«dareun
certo ordine al materiale che
si viene estendendo e una
specie di punto d’appoggio
alla memoria».4 Ora precisa
meglioasestessolafunzione
chespettaalsuoZibaldone:
L’infittirsi graduale dei rinvii a pagine
precedenti viene a costituire come una
rete di riferimento che serve all’autore
perorientarsi,perrecuperarealdiscorso
dati già acquisiti, per coordinare le
proprieriflessioni,peraggiungerenuovi
contributichemodificanounpensieroo
nemostranoimplicazioniesviluppinon
maturati in precedenza; quest’ultimo è
anche lo scopo che costituisce per noi
uno dei principali motivi d’interesse,
direi quasi di continua e avvincente
scoperta alla quale Leopardi ci guida.
Spessissimovediamochedaunapagina
all’altra, ed anche nella stessa pagina,
gli argomenti dei pensieri cambiano
continuamente e improvvisamente.
Nello stesso giorno può capitare, per
esempio, che Leopardi riprenda
argomentimoraliefilosofici,giàtrattati
in precedenza per aggiungere nuove
considerazioni e che, subito dopo,
scriva un appunto di carattere
linguisticoocitiperscopivari(espesso
non dichiarati esplicitamente) un brano
diqualcheclassicoantico.Tuttoquesto
dimostraconlamassimaevidenzaquale
fosse il suo modo di procedere, che
consisteva nel fissare sulla carta tutto
quellochepotevaesseresuggeritolíper
lí da un ripensamento, da una lettura
recente, da un controllo effettuato sui
lessici e cosí via. Nell’autografo le
aggiunte interlineari e marginali sono
piúfrequentidellemodifichestilistiche.
Inlineadimassimapossiamoaffermare
che Leopardi interviene sul testo con
aggiunteecorrezioniosubito,nelcorso
della stesura, o immediatamente dopo,
rileggendo il pensiero appena scritto e
apportandovi quelle modifiche che
ritiene necessarie per la chiarezza e la
completezza del contenuto. Alcune
aggiuntenonsonocoeveaipensiericui
si riferiscono, ma sono posteriori di
qualche mese o addirittura di qualche
anno.5
Giacomo provvide in
momenti diversi, per avere
unabussolad’orientamentoin
siffattaselvadimaterialiein
vista di una sua possibile
utilizzazione editoriale, a
stilare degli indici, che
comportavano naturalmente
la
rilettura
generale
dell’insieme. I primi due
(Indici parziali), di data
incerta,
sono
piú
propriamente degli spogli:
uno,portailtitoloPensieridi
varia filosofia e di bella
letteratura e riguarda le pp.
1-100;l’altro,moltosuccinto,
senzatitoloespecieattentoai
passi
filosofico-morali,
riguardalepp.101-4118.Poi
nel 1827 a Firenze, dall’11
luglio al 14 ottobre, redasse
l’IndicedelmioZibaldonedi
pensieri, che riguarda le pp.
1-4295,analitico,sistematico,
funzionante, «condotto con
un’agilità,conunaconcisione
econunasaggiaflessibilitàdi
criteri che nulla sottraggono
alla chiarezza, e costituisce
perquestounesempioancora
valido, oltre che un sussidio
agevolmente
fruibile».6
Giacomo ha approntato
l’Indice del 1827 con
l’intenzione di trarre dallo
Zibaldone un Dizionario
filosofico che molto gli stava
a cuore e che l’editore Stella
avrebbevolentieripubblicato,
ma che è rimasto allo stadio
di progetto,7 al pari di altre
analoghe iniziative.8 Si noti
d’altronde che dopo la
compilazione dell’Indice la
carica propulsiva del “diario
enciclopedico”
si
va
smorzando:terrannodietroal
già scritto soltanto circa
duecentotrenta pagine nuove,
nell’arcodicinqueanni.
2.UNPENSIEROINMOVIMENTO
Il significato di questo
autentico capolavoro va ben
oltre la sua funzione
documentaria, peraltro di
sussidiopreziosoperscandire
le fasi della carriera
leopardiana. Lo Zibaldone è,
sí, un eccezionale registro di
riflessionifilosofiche,appunti
filologici,linguistici,letterari,
sociologici, etnologici, e
come tale insostituibile
officina
di
idee
e
autobiografiaintellettuale,ma
insieme è archivio di
memorie private, diario e
laboratoriodiscrittura,spesso
dotato di autosufficiente
valore
artistico.
Sono
memorabili non pochi brani
che possono certo rendersi
utili per spiegare altri testi
(daiCantialleOperette)oper
chiarire molte altre cose, ma
che sono anzitutto splendide
pagine
perfettamente
compiute. Cosí, tra i tanti
casi,9 il passo sul «giardino»
diZib.4174-77(Bologna,1922 aprile 1826), qui
considerato nel cap. XIII par.
1. Oppure il passo seguente
(Zib. 4310-11, Firenze, 30
giugno1828):
veramente una giovane dai sedici ai
diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi
moti,nellesuevoci,saltiec.unnonso
che di divino, che niente può
agguagliare. Qualunque sia il suo
carattere, il suo gusto; allegra o
malinconica, capricciosa o grave,
vivaceomodesta;quelfiorepurissimo,
intatto,freschissimodigioventú,quella
speranza vergine, incolume che gli si
leggenelvisoenegliatti,ochevoinel
guardarla concepite in lei e per lei;
quell’aria d’innocenza, d’ignoranza
completa del male, delle sventure, de’
patimenti; quel fiore insomma, quel
primissimo fior della vita; tutte queste
cose, anche senza innamorarvi, anche
senza interessarvi, fanno in voi
un’impressione cosí viva, cosí
profonda,cosíineffabile,chevoinonvi
saziate di guardar quel viso, ed io non
conosco cosa che piú di questa sia
capace di elevarci l’anima, di
trasportarci in un altro mondo, di darci
un’idea d’angeli, di paradiso, di
divinità,difelicità.Tuttoquesto,ripeto,
senzainnamorarci,cioèsenzamuoverci
desideriodipossederequell’oggetto.La
stessadivinitàchenoiviscorgiamo,ce
ne rende in certo modo alieni, ce la fa
riguardar come di una sfera diversa e
superiore alla nostra, a cui non
possiamo aspirare. […] Del resto se a
quel che ho detto, nel vedere e
contemplare una giovane di sedici o
diciottoanni,siaggiungailpensierodei
patimentichel’aspettano,dellesventure
che vanno ad oscurare e a spegner ben
tosto quella pura gioia, della vanità di
quelle care speranze, della indicibile
fugacitàdiquelfiore,diquellostato,di
quelle bellezze; si aggiunga il ritorno
sopra noi medesimi; e quindi un
sentimento di compassione per
quell’angelo di felicità, per noi
medesimi, per la sorte umana, per la
vita(tuttecosechenonpossonomancar
divenireallamente)nesegueunaffetto
il piú vago e il piú sublime che possa
immaginarsi.
Non inganni quell’«ec.»
mentalmente espungibile, né
la sintassi in apparenza
affannata e slegata. Questa
prosa è un eccellente
commento del canto A Silvia
(scritto due mesi prima), ma
altempostessooffre,dasola,
il ritratto di un «viso» che
non si dimentica, come
stupefacentefigurazionedella
«pura gioia» e della sua
«indicibilefugacità».
Va da sé tuttavia che la
latitudine dello Zibaldone è
tale
da
non
potersi
circoscrivere a un uso
soltanto
strumentale
o
documentario, né a una
valorizzazione antologica di
brani
letterariamente
esemplari.Questainesauribile
miniera non solo contiene
pagine “utili” e pagine
“belle”: è un organismo
complesso dotato di vita
propria. Il lettore si trova di
fronte a un pensiero in
movimento, dispiegato nella
suagenesienelsuodivenire:
menoconfessionepsicologica
da journal intime, e piú
inveceriflessioneconcettuale,
onde anche l’autoanalisi non
diventa inchiesta interiore o
esame di coscienza (come
invece avviene, per esempio,
nel Diario intimo di
Tommaseo), ma studio
filosofico
e
«scienza
dell’animoumano»(Zib.53).
Diquilasaldaturatralaforza
argomentativa e l’esperienza
vissuta,
nella
solida
convinzione dell’ardua ma
possibile conoscibilità del
«cuore» e del mondo.10
Perciò il rapporto con i testi
creativi (Canti, Operette,
Pensieri,
Paralipomeni),
spesso
abusato
dai
commentatori su un piano di
sovrapposizionecronachistica
e dunque pleonastica, esige
invece di essere volta per
volta sottoposto a un
confronto
funzionale,
comparativo alla pari, che
misuri analogie e scarti di
significazione – connessi al
variare dei generi e della
cronologia – entro un
itinerariodinamico.
L’enciclopedica vastità
dei filoni tematici – che
rendonoiltestodifficilissimo
da indicizzare – consente
specifiche letture settoriali
(dallafilologiaallalinguistica
alla
teoria
e
critica
letteraria),11 ma l’opera
merita
anche
specifico
riguardoautonomo.Nonsolo
per la qualità della prosa,
fermentante,
ellittica,
spontanea,mapiúancoraper
la tecnica particolare degli
intrecciedelleintersezioni,in
un circuito polivalente di
riletture e autocommenti: che
èriflessodiun’originalissima
attitudine argomentativa. La
«filosofia» di Leopardi è
antiistituzionale,
antiprofessionale,
antisistematica: non segue
sistemi precostituiti, né
ambisce a crearne di nuovi,
mamuovedall’interrogazione
dell’esperienza
per
convergere – come la poesia
– verso l’obiettivo primo ed
essenziale di capire il senso
del vivere e dell’esistere,
indagando
i
rapporti
dell’individuo con la società,
con la storia, con la natura,
con
l’universo,
sul
fondamento
di
una
lucidissima,
puntigliosa,
avvolgente cognizione del
reale. La folta materia dello
Zibaldone, la sua strategia
della mobilità e la sua
ramificata polifonia, sono
quotidiana
testimonianza
dell’insoddisfatta inchiesta
conoscitiva di un «pensatore
solitario,
alle
prese
unicamente con se stesso»,12
che sposta senza sosta il
puntod’osservazioneemaisi
placa nella quiete di risultati
acquisiti.
1. Pensieri di varia filosofia e di
bella letteratura di Giacomo Leopardi,
Firenze,LeMonnier,1898-1900,7voll.
I volumi primo e secondo uscirono nel
1898, il terzo e il quarto nel 1899, il
quinto,ilsestoeilsettimonel1900.Il
titolo di questa prima edizione è tratto
dall’indice parziale delle prime cento
pagineallestitodall’autore,ilqualepoi
lo modificò in Zibaldone di pensieri
nell’indice analitico compilato a
Firenzenel1827.
2. E. GHIDETTI, Introduzione a G.
LEOPARDI,Dizionariodelleidee,asua
cura,Roma,EditoriRiuniti,1998,p.IX.
Sulla questione, cfr. in partic. A.
GIULIANO, G. Leopardi e la
Restaurazione, Napoli, Accademia di
Archeologia,LettereeBelleArti,1994.
3. Pensieri di varia filosofia e di
bellaletteratura,cit.,Ipp.X-XI.
4. G. PACELLA, Introduzione a G.
LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, ed.
critica e annotata a sua cura, Milano,
Garzanti, 1991, 3 voll., I p. xv. La
stesuradelleprimenovantanovepagine
èstatastabilitadaPacella,sullabasedi
riscontri interni: «si può affermare
senza alcun dubbio che Leopardi
compose nel ’17 le pp. 1-5, nel ’18 le
pp.16-42enel’19lepp.43-99.[…]In
questeprime99pagine,piúspontaneee
piúricchedisuggestioniediimmagini
poetiche,sonogiàenunciatialcunitemi
principali
che
formano
quasi
l’intelaiatura dello Zibaldone, come la
relatività dei giudizi morali ed estetici,
il conflitto tra natura e ragione, l’amor
proprio, l’egoismo, il piacere, la noia,
l’assuefazione. La formulazione di
questimotividerivaingranpartedalle
letture eseguite; esse vanno dagli
articoli degli “Annali di Scienze e
Lettere”, dello “Spettatore” e della
“Biblioteca italiana”, fino a opere
fondamentalicomeilWertherel’Ortis,
il
Discorso
sull’origine
dell’ineguaglianza di Rousseau, le
Études de la nature di Bernardin de
Saint-Pierre, la Corinne di Mme de
StaëlealcuneoperedelMontesquieue
del Verri. Queste letture offrirono a
Leopardi occasioni molteplici di
riflessioneefuronoilpuntodipartenza
dimeditazionicheegliapprofondínegli
anni successivi con un apporto
personale sempre maggiore di
esperienza e di sensibilità critica» (pp.
XIV-XV).
5.Ivi,p.XV.L’edizionediPacellaè
la prima che renda conto della
stratigrafia compositiva del testo,
distinguendo la stesura originaria dalle
aggiunte piú tarde. Il che è essenziale
per stabilire la dinamica del pensiero
leopardiano, come aveva per tempo
raccomandatoS.TIMPANARO,Appunti
perilfuturoeditoredello‘Zibaldone’e
dell’epistolario
leopardiano,
in
«Giornale storico della letteratura
italiana», CXXXV 1958, pp. 607-8: «In
un’edizionecriticabisognerà,anzitutto,
distinguere la stesura primitiva dalle
aggiunte posteriori (interlineari o
marginali): queste andranno, per
esempio, incluse in parentesi quadre o
angolari;einunveroeproprioapparato
critico a piè di pagina andranno
registrate, se non tutte le correzioni
apportate da Leopardi al proprio
manoscritto, almeno quelle che hanno
unacertaimportanzaperilpensieroelo
stile. Senza queste indicazioni, lo
studioso rischia continuamente di
attribuire a una certa data – e quindi a
unacertafasedisvolgimento–ciòche
ilLeopardiscrissemagarimoltodopo».
6. PACELLA, Introduzione, cit., p.
XVI.
7. Cfr. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Bologna, 26 agosto 1826, in TO, I p.
1263; poi G. Leopardi allo stesso,
Bologna, 13 settembre 1826, ivi, p.
1267:«QuantoalDizionariofilosofico,
lescrissicheioavevaprontiimateriali,
com’èvero;malostilech’èlacosapiú
faticosa,cimancaaffatto,giacchésono
gittati sulla carta con parole e frasi
appenaintellegibili,senonamesolo.E
di piú sono sparsi in piú migliaia di
pagine,contenentiimieipensieri;eper
poterne
estrarre
quelli
che
appartenessero a un dato articolo,
bisognerebbe che io rileggessi tutte
quelle migliaia di pagine, segnassi i
pensieri che farebbero al caso, li
disponessi, gli ordinassi ec.». Di qui la
necessitàdiallestire,nel1827,l’Indice
delmioZibaldonedipensieri.
8. Di cui restano taluni titoli:
Galateo morale; Memorie della mia
vita;ManualediFilosofiapratica.
9. Come, per es., lo spunto di Zib.
50-51, poi svolto in La sera del dí di
festa, citato da L. BLASUCCI, Quattro
modi di approccio allo ‘Zibaldone’, in
ID., I tempi dei ‘Canti’. Nuovi studi
leopardiani,Torino,Einaudi,1996,pp.
229-42.
10. Cfr. A. DOLFI, Le strutture
cognitive dello ‘Zibaldone’ (1987), in
EAD.,Ragione e passione. Fondamenti
e forme del pensare leopardiano,
Roma,Bulzoni,2000,pp.99-122.
11. «Quando un uomo come
Leopardi lascia, in alcune migliaia di
pagine, tutto quello che ha pensato in
alcunemigliaiadigiorni,ènaturaleche
inquelmucchiodifoglisitrovinomolti
libri. Si tratta di districarli l’uno
dall’altro,senzaromperetroppifili»(V.
BRANCATI,PrefazioneaG.LEOPARDI,
Società, lingua e letteratura d’Italia, a
sua cura, Milano, Bompiani, 1941, p.
7).
12.S.SOLMI,La vita e il pensiero
di Leopardi (1966), in ID., Scritti
leopardiani, Milano, All’Insegna del
Pesced’Oro,1969,p.67.
IX
GLIIDILLI
1.IPIACERIDELLA«FACOLTÀ
IMMAGINATIVA»
Dinanzi alla traumatica
rivelazione del «vero», che
assidera gli impulsi vitali,
scatta l’infrazione prodigiosa
delle illusioni che accendono
d’inattesa luce i sei idilli (in
endecasillabi sciolti) del
1819-’21, distesi in ritmi
placati dopo il tumulto delle
prime canzoni, in parole,
suoni, accordi già definitivi.1
Dal mondo della storia, alla
privata esistenza dell’io:
«situazioni,
affezioni,
avventure storiche del mio
animo».2 Nell’assedio della
«seccaragione»(Zib.15)che
incalza, gli idilli danno
ascolto
alla
«facoltà
immaginativa, la quale può
concepire le cose che non
sono, e in un modo in cui le
cose reali non sono».3 Cosí
riescono a regalare i piaceri
dell’evocazione fantastica,
come miracolo laico della
«facoltà immaginativa», che
riesce per un istante a
ristabilire un rapporto diretto
con la natura, al modo degli
antichi. Proprio dall’intensità
di
questo
rapporto
illusoriamente
ristabilito
scattano gli “idillici” piaceri
dell’immaginazione: limpidi
trasalimenti o repentine
visitazioni interiori che non
valgono da evasiva fuga
nell’irrazionale,madafugace
risarcimento di fronte alla
persistente coscienza del
«vero». Essa affina il gusto
raro,prezioso,trasgressivodi
un
edonismo
pertinace
appena per un momento
appagato.
Ungioielloditrasparenza
ingannevolmente semplice,
L’infinito:
Semprecaromifuquest’ermo
colle,
equestasiepe,chedatanta
parte
dell’ultimoorizzonteilguardo
esclude.
Masedendoemirando,
interminati
spazidilàdaquella,e
sovrumani
silenzi,eprofondissimaquiete
ionelpensiermifingo;oveper
poco
ilcornonsispaura.Ecomeil
vento
odostormirtraquestepiante,io
quello
infinitosilenzioaquestavoce
vocomparando:emisovvien
l’eterno,
elemortestagioni,elacon
versistraordinaripresente
eviva,eilsuondilei.Cosítra4
questa
immensitàs’annegailpensier
mio:
eilnaufragarm’èdolcein
questomare.
Ecco
il
piacere
dell’annullamento dell’io in
un’«immensità»(v.14)cheè
finzione del pensiero (cfr. v.
7),5 dunque creatura mentale
che acquieta l’angoscia, pur
al cospetto della stagione
«presente / e viva» (vv. 1213). La lirica, in virtú di una
stupefacente astrazione nel
tempo e nello spazio che dal
familiare piú quotidiano
(questo «colle», questa
«siepe», queste «piante»,
questa«voce»,vv.1-2,9-10)
giungeatoccareilsublimedi
unsovrumano«mare»(v.15)
senza
limiti,
può
perfettamente bilanciarsi in
una cornice di dolcezza
(«caro»,v.1;«dolce»,v.15).
Sono piaceri d’incantata
suggestione
emotiva,
sensistica non mistica, come
«laricordanza»(v.11)inAlla
luna, che ristora e giunge
gradita, anche quando ridesta
un passato doloroso e un
«affanno» (v. 16) non
placato. Il ricordo addolcisce
la vita al pari di un balsamo,
perché allevia il peso del
presente e lo proietta su uno
schermo dove l’io può
guardare se stesso come un
osservatore impartecipe. Ma
allatardaaggiuntadeivv.1314 compete la rilettura
dell’autore maturo che rifiuta
di assolutizzare il conforto
dato dal ricordo, e lo
circoscrive alla stagione
giovanile,quandolasperanza
ha ancora lungo il corso e
breve è invece quello della
memoria.
La
pace
interiore
comunicata da un sereno
notturno di luna apre con
versi straordinari La sera del
dídifesta(vv.1-4):
Dolceechiaraèlanotteesenza
vento,
equetasovraitettieinmezzo
agliorti
posalaluna,edilontanrivela
serenaognimontagna.
La
contemplazione
di
un’intatta notte lunare, in
un’estasi luminosa e tersa
comeilcristallo,ealparidel
cristallofragilissima:stupisce
la suggestione emotiva
trasmessa
con
tanta
parsimonia di parole, con
tanta naturalezza. Viene in
mente6 il Discorso di un
Italiano intorno alla poesia
romantica, dove si dice che
gli antichi (Omero in
particolare)7 imitavano la
natura «in modo ch’ella non
pare imitata ma trasportata
nei versi loro», ritratta «cosí
alvivo»che«noinelleggerli
vediamo e sentiamo le cose
che
hanno
imitate»,
avvertiamo «negli animi
nostri» gli «effetti» che «le
cose della natura» producono
«quando sono reali». Queste
anzi, «in specie quando sono
comuni»,«fannoalpensieroe
alla fantasia nostra molto piú
forza imitate che reali»,
perché la nostra attenzione
nella realtà ordinaria «spesso
è poca o nessuna», mentre
invece «è molta e gagliarda»
dinanzi
all’imitazione,
«quando la cosa si vede o si
senteinmanierastraordinaria
e
maravigliosa».8
La
scommessa consiste nel
suscitare
«impressioni
sentimentali»9 al modo degli
antichi:trasportandoneiversi
le «cose […] comuni» della
natura (come una placida
nottediluna),sícheagiscano
nella fantasia con piú forza
delle«cose»reali.Uncontoè
però l’antefatto teoricoculturale che presiede a
quest’incipit celeberrimo, e
ne illustra la genesi, un altro
conto è la sua inimitabile,
trasparentelevitàchedàvoce
aunostatodigraziadell’io,a
un repentino smemoramento
di sé dinanzi a una chiara
nottediluna.
Piú
contingente
e
languidamente febbrile, nel
patetico Il sogno, il piacere
procuratodaibaciimpressiin
sogno sulla mano della
fanciulla amata e «nel fior
deglianniestinta»(v.26).Si
legganoivv.79-86:
[…]concedi,ocara,
chelatuadestraiotocchi.Ed
ella,inatto
soaveetristo,laporgeva.Or
mentre
dibacilaricopro,ed’affannosa
dolcezzapalpitandoall’anelante
senolastringo,disudoreil
volto
fervevaeilpetto,nellefauci
stava
lavoce,alguardotraballavail
giorno.
Il «diletto» (Zib. 75) della
solitudine agreste domina la
terza lassa di La vita
solitaria,
nell’«altissima
quiete» (v. 33) di un
incontaminato
paesaggio
senza orma umana, in un
meriggio onirico e surreale
(vv.23-38):
Talorm’assidoinsolitaria
parte,
sovraunrialto,almargined’un
lago
ditaciturnepianteincoronato.
Ivi,quandoilmeriggioincielsi
volve,
lasuatranquillaimagoilSol
dipinge,
ederbaofoglianonsicrollaal
vento,
enonondaincresparsi,enon
cicala
strider,nébatterpennaaugello
inramo,
néfarfallaronzar,névoceo
moto
dapressonédalungeodiné
vedi.
Tienquellerivealtissima
quiete;
ond’ioquasimestessoeil
mondoobblio
sedendoimmoto;egiàmipar
chesciolte
giaccianlemembramie,né
spirtoosenso
piúlecommova,elorquiete
antica
co’silenzidellocosiconfonda.
Il«Talor»iniziale,seguítoda
tre successive precisazioni
locative («in … sovra … al
margine …», vv. 23-24),
incalzate da un’ulteriore
precisazione
cronologica
(«quando…»,v.26),sortisce
l’effettodicreareuntempoe
uno spazio irreali. La
determinazione è apparente,
perché l’insistita puntualità
dei dettagli dissolve la
concretezza e la storicità
dell’evento e lo iscrive in un
orizzonte indeterminato, dai
contorni fluttuanti e sfumati,
comeinunsogno.Poiilv.28
(«ed erba o foglia non si
crolla al vento») sembra
concludere la frase e insieme
il quadro, con la luce
meridiana che si riflette sulle
acque tranquille del lago, nel
silenzio circostante, mentre
non stormiscono al vento né
l’erbanélefoglie.Inveceilv.
28, che pare terminale, ha
funzione propulsiva, perché
inizia la serie interminabile
delle altre negative che
stanno per sopraggiungere,
per di piú scandite dal forte
risalto dato dallo scarto
sintattico:nonpiú,comealv.
28, la negativa all’indicativo
presente(«nonsicrolla»),ma
all’infinito
(«non
onda
incresparsi», v. 29; «non
cicala / strider», vv. 29-30;
«né batter penna augello», v.
30; «né farfalla ronzar», v.
31),indipendenzadi«odi»e
«vedi» del v. 32. La lunga
sequenza di «non» e «né»
(otto in cinque versi) azzera
la colonna sonora e blocca
l’animazione della scena,
evoca una realtà immobile,
muta, sospesa, un mondo
inabitato. La sequenza degli
infiniti, quasi sospesi nel
nulla, anticipati e distanziati
come sono dai verbi reggenti
in clausola del v. 32, annulla
la
soggettività
della
percezione (se ne ricorderà
Montale in Meriggiare
pallido e assorto) e porta in
primo piano la condizione
oggettiva
dell’essere,
dell’esistere di questo mondo
incolume e primigenio, non
sfiorato da alcunché che
possa inquinarlo. Risultato
finale è il miracolo
dell’«altissima quiete» (v.
33),10 non detta né descritta
mastupendamenteresavivae
presente su queste «rive» (v.
33): simile ma non uguale
alla «profondissima quiete»
di L’infinito (v. 6). Là è
prodotto dell’immaginazione,
qui attributo di un paesaggio
surreale.
Nell’«altissima
quiete» l’io dimentica il
mondo, i suoi affanni11 e
anche in parte («quasi», v.
34) se stesso: sopita
l’autocoscienza che porta
dolore, percepisce la propria
corporeitàcomedistaccatada
sé, libera e sciolta dal peso
della vita, non scossa da
impulsi o sensazioni esterne,
compenetrata e fusa «co’
silenzi del loco» (v. 38),
placatainuna«quieteantica»
(v. 37) che sembra durare da
sempre,qualedovevaregnare
nell’universo prima della
creazionedelgenereumano.
2.IDILLIOEANTIIDILLIO
Le illusioni recano doni
preziosi ma fragilissimi. La
«facoltà
immaginativa»
ristabilisceilperdutocontatto
con la natura, ma il «vero»
non arretra e l’idillio
s’intreccia
allora
con
l’antiidillio. Le figurazioni
fantastiche brillano per un
istante,
assediate
dalla
coscienza
della
loro
fuggevolezza. Nel «mare»
dell’«immensità»,
miracolosamente tratto dal
«contrasto efficacissimo e
sublimissimo»stabilito«trail
finitoel’indefinito»,12affiora
non piú che l’ombra di uno
sgomento, per l’improvviso
timore di un naufragio nel
nulla (L’infinito, vv. 7-8:
«ove per poco / il cor non si
spaura»).13 Il piacere della
rimembranza attenua non
cancella l’«angoscia» (Alla
luna,
v.
3),
perché
«travagliosa/eramiavita:ed
è, né cangia stile, / o mia
diletta luna» (vv. 8-10).
L’incantesimo della chiarità
notturna (La sera del dí di
festa)
svanisce
come
apparenza ingannevole e
l’«io» (v. 11) avverte
impietosa l’ostilità della
natura(vv.11-16):
[…]ioquestociel,chesí
benigno
appareinvista,asalutar
m’affaccio,
el’anticanaturaonnipossente,
chemifeceall’affanno.Atela
speme
nego,midisse,anchelaspeme;
ed’altro
nonbrillingliocchituoisenon
dipianto.
Onde lo sconforto ha un
soprassalto violento («e qui
perterra/migetto,egrido,e
fremo. Oh giorni orrendi / in
cosí verde etate!», vv. 2224)14eil«solitariocanto»(v.
25) dell’artigiano che ritorna
atardanotteallasuaabituale
condizione di pover’uomo,
sfumati nel nulla i «sollazzi»
(v. 27) della festa, stringe il
cuore, perché rende palese la
fuga rapinosa del tempo:
«pensar come tutto al mondo
passa, / e quasi orma non
lascia»
(vv.
29-30).
L’associazione tra il presente
e l’infinità dei secoli è
vertiginosa,cosínella«pacee
silenzio» (v. 38) attuali s’è
spenta anche l’eco del
«suono» (v. 33), del «grido»
(v.34),del«fragorio»(v.36)
d’antichi popoli per sempre
scomparsi. La dolcezza che
s’accompagna ai baci (Il
sogno) diventa «affannosa»
(v.
82)
e
annuncia
l’«angoscia» (v. 95), perché
l’«infelicissima fanciulla» (v.
75) non è che un fantasma:
«[…] già scordi, o caro, /
disse, che di beltà son fatta
ignuda?» (vv. 88-89). Lo
smemoramento
nell’«altissima quiete» (La
vita solitaria, v. 33) di un
meriggio senza tempo dura
un istante e non annulla gli
oltraggi della natura, «un
giorno oh quanto / verso me
piúcortese!»(vv.16-17).Siè
messo in moto il processo
conoscitivo
che
dalla
coscienza del dolore fa
scaturire «le cose che non
sono» e in qualche caso
(come
L’infinito)
con
supreme
modulazioni
d’accento («e in un modo in
cuilecoserealinonsono»).
Ma il dolore appartiene
allaprivataesperienzadell’io.
La natura è apostrofata con
accenti polemici perché poco
benignaepoco«cortese»(La
vita solitaria, v. 17),
ingenerosa e sorda con il
poeta che si sente escluso,
come individuo, da un
rapporto vitale e salutifero
che potrebbe salvarlo. La
sofferenza ha connotati
autobiografici e personali,
non deriva da un inevitabile
destinocheaccomunalasorte
dituttiiviventi.
Gli
idilli-antiidilli
irradianoluminescenzevivide
quanto momentanee, mentre
duraturi
e
dissonanti
chiaroscuri provengono dalle
canzoni: non i piaceri
dell’immaginazione risolti in
fluidestruttureliriche,inuno
«stile ch’essendo classico e
antico, paia moderno e sia
facileaintendereedilettevole
cosí al volgo come ai
letterati»,15 ma il graduale
disvelamento del «vero»
consegnato a uno stile
espressamente
moderno
(nelle intenzioni), alle ardue
campiture
della
poesia
«sentimentale»,
ovvero
riflessiva e ragionativa. Agli
idilli Leopardi assegna un
ruolo se non subalterno certo
piú
privato
e
meno
ufficialmente rilevante (e
infatti restano nel cassetto
finoal1825,quindiappaiono
inrivistaeapuntate);mentre
alle canzoni, sulla linea della
grande tradizione dantesca (e
montiana), consegna la sua
prima identità pubblica di
poeta con la stampa in
volume del 1824. Poeta etico
ecivile.
1.
Nell’autografo
napoletano
(BibliotecaNazionalediNapoli,Fondo
Leopardiano)
l’ordine
dei
componimenti è il seguente: La
ricordanza(1819,daFiltitolodiventa
Allaluna;ivv.13-14,manoscrittisuun
esemplare di N, sono stati aggiunti
nell’ed. postuma 1845); L’infinito
(primavera-autunno1819);Lospavento
notturno(1819,mainorigineIlsogno,
da N tra i Frammenti); La sera del
giorno festivo (primavera o estateautunno 1820, da N La sera del dí di
festa); Il sogno (fine 1820-inizi 1821);
Lavitasolitaria(estate-autunno1821).
Nell’autografo vissano (Archivio del
ComunediVisso[Macerata]),derivato
dall’autografo napoletano, l’ordine è
sensibilmente mutato: L’infinito; La
sera del giorno festivo; La ricordanza
(= Alla luna); Il sogno; Lo spavento
notturno; La vita solitaria. Si noti che
L’infinitoèpostoinaperturaconruolo
programmatico, seguíto dal terzetto La
sera del giorno festivo, La ricordanza
(in posizione centrale) e Il sogno, cui
tengono dietro Lo spavento notturno e
La vita solitaria: a parte Lo spavento
notturno (penalizzato in F, poi
recuperato tra i Frammenti in N), si
tratta dell’ordine già definitivo. Infatti
tutti i testi appaiono a stampa in due
fascicoli del «Nuovo Ricognitore» di
Milano: il n. 12 (dicembre 1825)
contiene L’infinito. Idillio I e La sera
del giorno festivo. Idillio II; il n. 13
(gennaio1826)contieneLaricordanza.
Idillio III, Il sogno. Idillio IV (era già
apparso anonimo in «Notizie teatrali,
bibliograficheeurbane,ossiaIlCaffèdi
Petronio», rivista redatta da Pietro
Brighenti, Bologna, n. 33, 13 agosto
1825,coniltitoloIlsogno.Elegia), Lo
spavento notturno. Idillio V e La vita
solitaria. Idillio VI. Poi confluiscono,
nellostessoordine,neiVersi bolognesi
del 1826, quindi in F, senza però Lo
spavento notturno, che è salvato tra i
FrammentifinaliinN.
2.
Disegni
letterari,
XII
(probabilmente1828),inTO,Ip.372.
3.Zib.167(12-23luglio1820).
4. Questo «tra», in luogo del piú
normale “in”, ha dato molto daffare ai
commentatori. Ma la sua funzione è
statabenespiegatadaA.TILGHER, La
filosofia di Leopardi, Roma, Ed. di
«Religio», 1940, pp. 152-53: «Il Poeta
haoscillatotraduefantasticherie(iltra
èrivelatore)separatedaunapercezione
di realtà (lo stormire del vento): dalla
fantasticheria dello spazio infinito […]
è passato alla fantasticheria del tempo
infinito. Tra questa immensità (spaziotemporale) il suo pensiero (che era
vigile,alacre,agile,perchéeraessoche
glifingevalospazioinfinitoeiltempo
infinito, era esso che gli andava
comparando lo stormire del vento al
silenzioinfinitodeglispaziimmaginari)
si annega in un dolce naufragio».
L’interpretazioneèripresa(conulteriori
rinvii bibliografici) e avvalorata con
nuovi attestati da L. BLASUCCI,
Paragrafisull’‘Infinito’(1980),inID.,
Leopardi e i segnali dell’infinito, cit.,
pp.97-122.
5. «Nessuna esperienza può dare
l’ideadell’infinito.L’infinitoappartiene
soltanto al pensiero» (G. MACCHIA,
Leopardi e il viaggiatore immobile
[1980], in ID., Saggi italiani, Milano,
Mondadori,1983,p.258).
6. Cfr. G. LEOPARDI, Canti, con
l’interpretazione di G. DE ROBERTIS,
Firenze,LeMonnier,1927,p.125.
7. «Ora leggete questa similitudine
diOmero:“Sícomequandograziosiin
cielo / rifulgon gli astri intorno della
luna, / e l’aere è senza vento, e si
discopre/ognicimade’montiedogni
selva / ed ogni torre; allor che su
nell’alto/tuttoquantol’immensoetrasi
schiude, / e vedesi ogni stella, e ne
gioisce / il pastor dentro all’alma
[Iliade, VIII 555-59]”» (Discorso di un
Italiano intorno alla poesia romantica,
inTO, Ipp.933-34).La«similitudine»
è scolpita nella mente di Giacomo,
comerisultanelmarzomaggio1819dai
Ricordid’infanziaediadolescenza(ivi,
p. 361): «veduta notturna colla luna a
ciel sereno dall’alto della mia casa tal
qualeallasimilitudinediOmero».
8. Discorso di un Italiano intorno
allapoesiaromantica,ivi,p.933.
9.Ibid.
10.
Lungamente
sognata:
«profondissima quiete» (L’infinito, v.
6); «profondissima quiete» e «quiete
altissima»(Canticodelgallosilvestre»,
parr.7e19).
11.Cfr.E.MONTALE,Ilimoni,vv.
18-20: «Qui delle divertite passioni /
per miracolo tace la guerra, / qui tocca
anche a noi poveri la nostra parte di
ricchezza». Per i «silenzi» montaliani
(vv.22e34),cfr.i«silenzi»leopardiani
delv.38.
12.Zib.1431(1oagosto1821).
13.Cfr.anchelarelativamisceladi
«diletto» e di scontento prodotta
dall’impressione dell’«indefinito», ivi,
472-73(4gennaio1821).
14.Cfr.G.LeopardiaP.Giordani,
Recanati, 6 marzo 1820, in TO, I p.
1094: «poche sere addietro, prima di
coricarmi, aperta la finestra della mia
stanza,evedendouncielopuroeunbel
raggiodiluna,esentendoun’ariatepida
ecerticanicheabbaiavanodalontano,
mi si svegliarono alcune immagini
antiche, e mi parve di sentire un moto
nelcuore,ondemiposiagridarecome
un
forsennato,
domandando
misericordiaallanatura,lacuivocemi
pareva di udire dopo tanto tempo. E in
quel momento dando uno sguardo alla
mia condizione passata, alla quale era
certo di ritornare subito dopo, com’è
seguito, m’agghiacciai dallo spavento,
non arrivando a comprendere come si
possa tollerare la vita senza illusioni e
affetti vivi, e senza immaginazione ed
entusiasmo, delle quali cose un anno
addietro si componeva tutto il mio
tempo, e mi faceano cosí beato non
ostante i miei travagli». La natura, che
dispensa «illusioni e affetti vivi»,
potrebbe dare speranza e sollievo, ma
per Giacomo la «voce» di lei è
diventatamuta.
15. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,20marzo1820,ivi,p.1097.
X
LECANZONI
1.L’IRRECUPERABILITÀ
DELL’ANTICO
Dopo le due canzoni
gemelle del 1818, la terza,
che è Ad Angelo Mai
(gennaio1820),nons’intende
senza la crisi del 1819 ed è
componimentodinuovaepiú
profonda intensità: non piú il
volontaristico
progetto
storico-politicodiattualizzare
l’anticovalore(lasciatoanche
allespallelosperimentalismo
del 1819), ma il sentimento
esistenziale di una frattura
(«o caro immaginar; da te
s’apparta / nostra mente in
eterno», vv. 102-3) che
dissolve i «sogni leggiadri»
(v.91)econdannailpresente
(«secol morto», v. 4; «secol
di fango», v. 179) al «tedio»
(v. 5), all’«ozio turpe» (v.
60), al «nulla» (v. 75), al
«vero» (v. 101), al calcolo
mercantile («il computar», v.
149) che tolgono il conforto
«de’ nostri affanni» (v. 105),
che al «grande» e al «raro»
danno «nome di follia» (vv.
145-46) e lasciano «solo /
veder che tutto è vano altro
cheilduolo»(vv.119-20).La
pace della Santa Alleanza –
difesa
nell’orazione
Agl’Italiani del 1815 – è
diventata
asfissia,
soffocamento, noia: la noia
che, accanto al dolore, è la
massima fonte di sofferenza;
lanoia«amicadellaverità»,1
«morte
nella
vita»,2
«contrario della vita vitale»,3
sentimento
dell’«infelicità
nativa dell’uomo».4 Per la
primavoltainAdAngeloMai
il «nulla» (vv. 75, 100, 131)
s’accampa come «Ombra
reale e salda» (v. 130), nel
convincimento
che
la
rivelazione del vero non
arricchisce
ma
svuota
l’esistenza
(«[…]
e
discoprendo, / solo il nulla
s’accresce», vv. 99-100), che
il sapere e il conoscere –
intesi
come
paralisi
dell’immaginazione – non
sono compatibili con la
felicità.
Il nucleo successivo delle
seicanzonidell’ottobre1821luglio 1822 approfondisce la
fratturatrapassatoepresente,
indaga gli effetti di questa
privazione
(del
«caro
immaginar»,
lungamente
rimpianto),5 ma anche dilata
lo spettacolo dei tristi frutti
del «vero»: il quadro già
civile-politico, ora anche
morale-esistenziale, s’estende
dalla contemporaneità alle
epoche lontane, dal degrado
dell’oggi alla condizione
stessa del vivere. Il che
significa che il pessimismo
storico–appuntofondatosul
contrasto tra passato e
presente
–
si
viene
gradualmente incrinando con
la riflessione sull’infelicità
degliantichi(attestatadaidue
eroi suicidi, Bruto e Saffo,
poi dalla Comparazione
premessa al Bruto minore),
con l’esito che l’età dell’oro,
vivificatadall’immaginazione
a diretto contatto con la
natura, finisce con l’arretrare
inunalontananzasemprepiú
vaga,remota,mitica.
Nelle nozze della sorella
Paolina (ottobre-novembre
1821, matrimonio che non si
celebrò mai) mette in scena
un’Italiacorrotta(«ilcorrotto
costume», v. 19) che non
permette fausti pronostici a
unagiovanesposa:«Omiseri
o codardi / figliuoli avrai»
(vv. 16-17), o infelici perché
virtuosi, o fortunati perché
vili e conformisti; di qui
l’evocazione di memorandi
modelli antichi, come i
giovani spartani, educati tra i
ricordi di gesta gloriose, e
Virginia, la fanciulla romana
sacrificatasi per la libertà.6A
un vincitore nel pallone
(novembre 1821) celebra la
«sudata virtude» (v. 4) del
«campion» (v. 5) che nello
sport può dare esempio di
«fattiillustri»(v.10),mentre
imperversano tempi di «ozi
oscuri e nudi» (v. 38); al
tempostessoesaltalegaredi
Olimpia – che erano palestra
di impulsi vitali, di
magnanimità, di eroismo – e
insieme
valorizza
l’entusiasmo
naturale
suscitato dal gioco, perché
nella vita tutto è «gioco» (v.
32)7epiúessaacquistasenso,
pregio, valore se s’ispira alle
«passate imprese» (v. 52), se
«ne’ perigli avvolta» (v. 61)
riesceadimenticaresestessa:
tantopiúcaraachièstatosul
punto di perderla («beata
allor che il piede / spinto al
varco leteo, piú grata riede»,
vv.64-65).NelBrutominore
(dicembre 1821) l’antico
eroe, sul punto di uccidersi,
inveisce contro la virtú
(«Stolta virtú», v. 16), valore
inconsistente,
fantasma
rovinoso di menti illuse,
perché chi l’ha praticata non
si è meritato che «ludibrio e
scherno» (v. 21): il suicidio
(tema già alfieriano e
foscoliano) non ne riceve
legittimazione,macampeggia
in una luce sinistra come
protesta
disperata
del
guerriero «virtuoso» che non
si rassegna alla propria
sconfitta dinanzi all’«empio
costume»(v.56)dellastoria;8
la morte di Bruto, dopo
Filippi, segna la fine della
romanità aurea, repubblicana
e
insieme
la
fine
dell’«antichità» come gioiosa
giovinezzadelgenereumano.
Alla Primavera o delle
favoleantiche(gennaio1822)
replica
all’antimitologia
romantica con il rimpianto
delle
«favole
antiche»
(consuntedall’«atra/facedel
ver», vv. 12-13), con la
straziata nostalgia di quella
ridenteprimaveradelmondo,
collocata fuori della storia,
quando la natura palpitava
comecreaturaviva,animatae
incantata da presenze arcane,
dadivinitàboschive,daninfe
e fauni, in accordo armonico
e pietoso con l’«umana
gente»(v.42),síche«l’altee
rotte / nostre querele» (vv.
67-68) trovavano ascolto in
cielo; poi, morte le antiche
illusioni, la terra, ridotta a
uno spettacolo di dolore, non
hageneratochefigliinfelici.9
Dopo la Comparazione
del marzo 1822, nell’Ultimo
cantodiSaffo(13-19maggio
1822)ritornainaltrachiaveil
tema del suicidio: la morte
volontaria della poetessa
greca,amantenoncorrisposta
da Faone, emblematizza il
condizionamento dell’aspetto
fisico (in un mondo che non
dà
valore
ai
meriti
dell’intelligenza e del cuore),
quindi
il
dramma
dell’esclusione dalla bellezza
esteriore, la sventura di chi è
condannato a un «disadorno
ammanto» (v. 54). La
ribellionediBrutoèdisegno
etico-storico; questa di Saffo
si delinea come conflitto
psicologico-esistenziale,
come protesta contro la
natura:versolaqualel’eroina
greca stabilisce però un
rapportodiinnamoratatradita
(vv.23-27):
[…]A’tuoisuperbiregni
vile,onatura,egraveospite
addetta,
edispregiataamante,alle
vezzose
tueformeilcoreelepupille
invano
supplichevoleintendo.[…]
Il tormento della deformità
fisica connota Saffo di
scoperti
riflessi
autobiografici:dal«disadorno
ammanto» non deriva, com’è
noto,ilpessimismodelpoeta,
ma egli ne ha saputo trarre
nondimeno
un
lucido
spiraglio sulla tragicità del
reale.Nell’InnoaiPatriarchi
o de’ principii del genere
umano(luglio1822)–l’unico
compiuto degli Inni cristiani
progettati nell’estate-autunno
1819 – l’ispirazione religiosa
si risolve ormai in un
repertorio di miti e simboli
antichi,
come
vagheggiamentodiunafelice
età naturale10 (sempre piú a
ritroso nel tempo, fino ai
«principii
del
genere
umano»), quando fu amica
«alsanguenostroedilettosae
cara / questa misera piaggia»
(vv.90-91)e«votad’affanno
/ visse l’umana stirpe» (vv.
98-99):taleoggi«fralevaste
californie selve / nasce beata
prole» (vv. 104-5), ma è
violata e profanata dal
«nostroscelleratoardimento»
(v. 111) di colonizzatori,
dallanostrafollia(«furor»,v.
114) di civilizzazione che
porta «affanno» e desideri
prima«ignorati»(v.115).11
Si profila un viaggio non
solo dentro la negatività del
moderno,
ma
dentro
l’orizzonte tragico-sublime
dell’infelicità nella storia
come perdita di illusioni e
dominio del «vero». Il
pessimismo
sensisticopsicologico-esistenziale,
connesso alla «teoria del
piacere», allenta il contrasto
antichi-moderni, centrale nel
sistema delle canzoni, e
comportanonpernulla,dopo
l’Inno ai Patriarchi, una
lunga pausa di sospensione.
Resiste nondimeno – ancora
perpoco–lanozionepositiva
dellanatura(«saggianatura»:
Patriarchi, v. 112), sognata
qualesalvezzavivaegodibile
in un mitico tempo lontano:
di qui il perdurare della
protesta non rassegnata alla
perdita patita, dell’irata
denuncia per l’assenza di un
benechenonc’èmapotrebbe
o avrebbe potuto esserci
(onde, al fondo, anche
l’ipotetica prospettiva di un
riscatto: cfr. almeno Ad
Angelo Mai, vv. 175-80;
Nellenozze,vv.31sgg.;Alla
Primavera,vv.88-91).
La
modernità
«sentimentale»dellinguaggio
si sostanzia di quest’aspra
risolutezza protestataria, ma
insieme dell’alta eloquenza
che conviene alla dolorosa
pronuncia e alla densità
ragionativa
di
verità
filosofiche eretiche, che
costano pena e coraggio.
L’arditezza concettuale si
dispiega in impalcature
vertiginosamente ipotattiche,
in ellissi repentine, iperbati,
arcaismi, allusioni erudite e
dotte.LeAnnotazioniannesse
alla stampa del 1824
mostrano,ancheconironia,la
filigrana antipedantesca di
uno stile, al contempo
rigorosissimo e libero, che è
risvolto tecnico di un
tormentato
e
perplesso
itinerarioconoscitivo.Lettura
non facile, anzi impervia,
come disagevoli sono le
successive
stazioni
dell’appressamentoal«vero».
La serie si chiude, dopo
circa quattordici mesi di
silenzio – e trascorsa la
parentesi deludente del
soggiorno romano –, nel
settembre 1823 con Alla sua
donna,12 ormai alle soglie
delle Operette morali, in
prossimitàdellanuovamisura
ironicamente
disincantata
(svanito il mito della natura
benefica) del pessimismo
leopardiano.Lafelicitànonè
piú inseguita come un bene
perduto ma possibile, bensí
contemplata come un bene
irreale, irraggiungibile («non
è cosa in terra / che ti
somigli»,
vv.
19-20),
nondimeno
intensamente
desiderato: «e teco la mortal
vitasaria/simileaquellache
nel cielo india» (vv. 31-33).
Non la protesta eroica né la
denuncia, ma un tono
sommesso e antieloquente di
distaccata saggezza riflessiva
percorreAllasuadonna:
Carabeltàcheamore
lungem’inspiri[…].
Salutonostalgicoe«inno»(v.
55) a un ipotetico ideale di
bellezza che si sa «omai» (v.
12),13 dopo il «giovanile
error» (v. 37), inesistente e
intangibile,
celeste
e
incantevole creazione del
«pensier» (v. 25): «Cara
beltà» (v. 1), «Non donna.
Parla infatti d’un’immagine
astratta, non d’una realtà»,14
eppure «lei» traspare anche
nelle sue umane fattezze («al
volto, agli atti, alla favella»,
v. 21), umanamente amata e
accarezzata («Viva», v. 12;
«vera», v. 25; «l’amor tuo»,
v. 30; «palpitar», v. 41;
«sensibil forma», v. 46).
L’eco di ritmi e stilemi
stilnovistici evoca un clima
rarefatto di remota allegoria,
maintrisodellascienzaamara
di un moderno che ne sente
l’inquietaillusorietà.15
2.L’EDIZIONEDEL1824
L’edizione delle Canzoni
esce a Bologna, presso
Annesio Nobili, nell’ottobre
1824,16perlecuredell’amico
Pietro Brighenti. Si tratta del
primo grande libro di
Leopardi, che lascia per il
momento nel cassetto gli
idilli e mira a presentarsi in
veste di poeta etico e civile.
L’opera aduna i dieci
componimenti del 1818-’23
rispettando
l’ordine
cronologicodicomposizione,
sí da documentare in presa
diretta il lungometraggio di
questa graduale caduta delle
illusioni.
Canzoni: indice della I ed.
(Bologna,AnnesioNobili,1824)
Achilegge
All’Italia - canzone prima [con
dedicatoriaaVincenzoMonti]
SoprailmonumentodiDantechesi
prepara [F: preparava] in Firenze canzone
seconda
AdAngeloMaiquand’ebbetrovato
i libri di Cicerone della Repubblica canzone
terza [con dedicatoria a Leonardo
Trissino]
Nelle nozze della sorella Paolina canzonequarta
Aunvincitorenelpallone-canzone
quinta
Bruto minore - canzone sesta
[preceduta dalla Comparazione delle
sentenzedi
Bruto minore e di Teofrasto vicini a
morte]
Alla Primavera o delle favole
antiche-canzonesettima
Ultimo canto di Saffo - canzone
ottava
Inno ai Patriarchi o de’ principii
delgenereumano-canzonenona
Allasuadonna-canzonedecima
Annotazioni
Di
un’autobiografia
intellettuale si tratta, o
«romanzo ideologico»17 o
cronistoria lirica di un
disinganno, che nella serrata
traiettoria in negativo di
sequenze
strettamente
correlate rende conto del
paradossale–matemporaneo
– approdo al silenzio (nel
1823), da parte di un poeta
che cinque anni prima (nel
1818) ha pubblicamente
esordito in veste di vate
civile,
appassionato
e
tumultuoso. Il crollo delle
illusionihavariatodiregistro
e poi disinnescato la molla
della poesia. Non per nulla il
bellissimo (e sorprendente)
Annuncio
delle
dieci
‘Canzoni’,18 nel 1825, già
immerso nel timbro nuovo
delle Operette, trova la forza
di ripercorrere l’intero film
con il sorriso amabile (ma
corrosivo) di uno spettatore
dolorosamenteautoironico:
Sono dieci Canzoni, e piú di dieci
stravaganze.Primo:didieciCanzoniné
pur una amorosa. Secondo: non tutte e
non in tutto sono di stile petrarchesco.
Terzo:nonsonodistilenéarcadiconé
frugoniano; non hanno né quello del
Chiabrera, né quello del Testi o del
Filicaia o del Guidi o del Manfredi, né
quello delle poesie liriche del Parini o
del Monti; in somma non si
rassomigliano a nessuna poesia lirica
italiana. Quarto: nessun potrebbe
indovinare i soggetti delle Canzoni dai
titoli; anzi per lo piú il poeta fino dal
primo verso entra in materie
differentissimedaquellocheillettoresi
sarebbe aspettato. Per esempio, una
Canzone per nozze, non parla né di
talamo né di zona [= cintura] né di
Venerenéd’Imene.UnaadAngeloMai
parla di tutt’altro che di codici. Una a
unvincitorenelgiuocodelpallonenon
è un’imitazione di Pindaro.19 Un’altra
allaPrimaveranondescrivenépratiné
arboscelli né fiori né erbe né foglie.
Quinto:gliassuntidelleCanzoniperse
medesimi non sono meno stravaganti.
Una, ch’è intitolata Ultimo canto di
Saffo, intende di rappresentare la
infelicità di un animo delicato, tenero,
sensitivo, nobile e caldo, posto in un
corpo brutto e giovane: soggetto cosí
difficile, che io non mi so ricordare né
tragliantichinétraimoderninessuno
scrittor famoso che abbia ardito di
trattarlo,eccettosolamentelasignoradi
Staël, che lo tratta in una lettera in
principiodellaDelfina, ma in tutt’altro
modo.Un’altraCanzoneintitolataInno
aiPatriarchiode’principiidelgenere
umano, contiene in sostanza un
panegiricodeicostumidellaCalifornia,
e dice che il secol d’oro non è una
favola. Sesto: sono tutte piene di
lamenti e di malinconia, come se il
mondo e gli uomini fossero una trista
cosa, e come se la vita umana fosse
infelice. Settimo: se non si leggono
attentamente,nons’intendono;comese
gl’Italiani leggessero attentamente.
Ottavo: pare che il poeta si abbia
proposto di dar materia ai lettori di
pensare, come se a chi legge un libro
italiano dovesse restar qualche cosa in
testa, o come se già fosse tempo di
raccoglier qualche pensiero in mente
prima di mettersi a scrivere. Nono:
quasi tante stranezze quante sentenze.
Verbigrazia: che dopo scoperta
l’America, la terra ci par piú piccola
che non ci pareva prima;20 che la
Naturaparlòagliantichi,cioègl’ispirò,
masenzasvelarsi;21chepiúscopertesi
fanno nelle cose naturali, e piú si
accresce alla nostra immaginazione la
nullitàdell’Universo;22chetuttoèvano
al mondo fuorché il dolore;23 che il
dolore è meglio che la noia;24 che la
nostra vita non è buona ad altro che a
disprezzarla essa medesima;25 che la
necessità di un male consola di quel
male le anime volgari, ma non le
grandi;26 che tutto è mistero
nell’Universo, fuorché la nostra
infelicità.27 Decimo, undicesimo,
duodecimo:andatecosídiscorrendo.
Recheremo qui, per saggio delle
altre,laCanzoneches’intitolaAllasua
donna,laqualeèlapiúbreveditutte,e
forse la meno stravagante, eccettuato il
soggetto. [Qui seguiva il testo della
canzone Alla sua donna]. La donna,
cioè l’innamorata, dell’autore, è una di
quelle immagini, uno di quei fantasmi
di bellezza e virtú celeste e ineffabile,
che ci occorrono spesso alla fantasia,
nelsonnoenellaveglia,quandosiamo
poco piú che fanciulli, e poi qualche
rara volta nel sonno, o in una quasi
alienazione di mente, quando siamo
giovani. Infine è la donna che non si
trova. L’autore non sa se la sua donna
(e cosí chiamandola, mostra di non
amare altra che questa) sia mai nata
finora,odebbamainascere;sacheora
non vive in terra, e che noi non siamo
suoicontemporanei;lacercatraleidee
di Platone, la cerca nella luna, nei
pianeti del sistema solare, in quei de’
sistemi delle stelle. Se questa Canzone
si vorrà chiamare amorosa, sarà pur
certochequestotaleamorenonpuòné
dare né patir gelosia, perché fuor
dell’autore,nessunamanteterrenovorrà
fareall’amorecoltelescopio.28
Ironia e autoironia
compenetrano
si
in
quest’autorecensione
scherzosa quanto sagace e
tecnicamentepertinente.Parla
di «stravaganze» per dire –
senzafaretroppoaffidamento
sulla loro accoglienza – le
qualitàoriginali(esonotante:
«Decimo, undicesimo …»)
che distinguono la raccolta:
nella scelta dei temi; nello
stile che per moderna
classicità si differenzia dalla
tradizionealtaeprossima(ma
che piú si allinea, non già
all’intramontabile versante
petrarchesco,
bensí
al
modelloinsignedellecanzoni
di Dante, recuperato da
Monti); nel trattamento degli
argomenti, anticonvenzionali
e spiazzanti rispetto alla
promessa del titolo e alle
attese del lettore;29 nella
sostanza
del
pensiero,
antitetica
all’opinione
corrente e dominante, tanto
da sembrare paradossale
(«comeselavitaumanafosse
infelice», assunta quale
ipotesi dell’irrealtà dal punto
di vista dell’utente comune);
nella complessa tessitura
erudita, linguistico-retorica e
argomentativa,
che
presuppone un pubblico piú
virtuale che effettivo («come
se gl’Italiani leggessero
attentamente», che è altra
ipotesi dell’irrealtà, ma dal
punto di vista questa volta
dell’autore);
nella
sollecitudine
concettuale
richiestaallettore,comeseal
lettore di un libro italiano
«dovesse restar qualche cosa
intesta»ose«fossetempodi
raccoglierqualchepensieroin
mente prima di mettersi a
scrivere»
(altre
ipotesi
dell’irrealtàdalpuntodivista
dell’autore); nella brevitas
assertiva e aforistica che
punteggia il dettato lirico
(«tante stranezze quante
sentenze»), con massime
naturalmente
eccentriche.
Infine,
l’autocommento
esilaranteallacanzoneultima
(Alla sua donna) riesce a
trarrescintillecomichedauna
materia e da una condizione
amaramente
sofferte
e
dolenti. Dinanzi a tante
«stravaganze» che sono poi
originalità, viene in mente la
lettera di Giacomo a
Giordani,dov’èaccarezzatoil
proposito «di mostrare
all’Italia qualche cosa ch’ella
presentemente non si sappia
neanchesognare».30
1.Zib.1691(13settembre1821).
2.Ivi,2220(3dicembre1821).
3.Ivi,2433(8maggio1822).
4.Ivi,4498(4maggio1829).
5. Di tale assenza e vuoto di valori
nellarealtàcontemporanearendeconto,
sul piano espressivo, l’insistenza –
ricorrentenelcorpusdellecanzoni–sui
terminisemanticamentenegativi,«ossia
inclusivi di negazione», per cui cfr. D.
DE ROBERTIS, Le Canzoni o
l’«inganno del desiderio», in ID.,
Leopardi. La poesia, Bologna-Roma,
Cosmopoli,1996,pp.27-85.
6.Cfr.E.SANGUINETI,Nellenozze
della sorella Paolina (1998), in ID., Il
chierico organico. Scritture e
intellettuali, cit., p. 130: «a dirla
schietta e breve, questa canzone […]
rimane comunque un esempio di
rovesciamento,e,siadettonaturalmente
in maniera neutralmente etimologica,
un esempio di parodia tragica, di
parodia eroica, di parodia morale, di
quel genere poetico perfettamente
costituito, e tradizionalmente irrigidito,
enormativamentecristallizzato,cheèla
canzone, o la canzonetta, per nozze o
nellenozze».
7. Per «il riconoscimento del gioco
come essenza stessa del mondo», cfr.
M.A.RIGONI,Commentoenote, in G.
LEOPARDI,Poesieeprose,acuradiR.
DAMIANI e M.A. RIGONI, con un
saggio di C. GALIMBERTI, 2 voll., I.
Poesie, Milano, Mondadori, 1987, p.
928.
8. «Finora Leopardi nelle canzoni
aveva pianto sulla scomparsa virtú,
aveva rimpianto la virtú antica, aveva
esortato alla virtú per l’avvenire. […]
Ora per la prima volta la virtú è
rinnegata» (G. GETTO, Storia della
poesia leopardiana, in ID., Saggi
leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966,
p.51).
9. Da questa canzone trarrà, nel
1825, rinnovato impulso, l’anziano
Monti, con gli sciolti del «sermone»
Sullamitologia.
10. Leopardi legge ora con la
medesimapassionelaBibbiaeipoemi
di Omero: «Non per altro se non
perch’essendoipiúantichilibri,sonoi
piú vicini alla natura, sola fonte del
bello, del grande, della vita, della
varietà»(Zib.1028,11maggio1821).
11. Sul «senso segreto delle
Canzoni», cfr. RIGONI, Commento e
note,cit.,p.936:«eroidelleTermopili,
grandi italiani del passato, vergini
spartane e romane, vincitori nel gioco
del pallone, favole greche, patriarchi
non sono, in un poeta come Leopardi,
reliquie di un semplice classicismo o
primitivismo; sono proiezioni e
travestimenti di una fuga dalla
condanna della Storia, gesti di
esorcismocontrol’incubodelTempoe
lamaledizionedelDivenire».
12. L’analogo intervallo di
quattordici mesi, che separa le due
canzoni del 1818 da AdAngeloMai, è
colmatodaiprimissimiidilliedalledue
canzonirifiutatedel1819;ladistanzadi
circa venti mesi, che intercorre tra Ad
Angelo Mai e Nelle nozze, è occupata
dagli altri idilli e dalle prime «prosette
satiriche».
13. «Quanto strazio in quell’omai,
che ti fa trasparire nel passato
successive illusioni distrutte e
rinascenti,oramancatepersempre»(F.
DESANCTIS,‘Alla sua donna’. Poesia
di Giacomo Leopardi [1855], in ID.,
Saggicritici,cit.,Ip.281).
14. LEOPARDI, Canti, ed. G. DE
ROBERTIS,cit.,p.168.
15. Sul motivo di questa lirica, cfr.
G.LeopardiadA.Jacopssen,Recanati,
23giugno1823,inTO, I p. 1166: «En
effet il n’appartient qu’à l’imagination
de procurer à l’homme la seule espèce
de bonheur positif dont il soit capable.
[…] Ma vie est plus uniforme que le
mouvementdesastres,plusfadeetplus
insipidequelesparoledenotreOpéra».
16.Cfr.G.LeopardiaP.Brighenti,
Recanati, 3 settembre 1824, ivi, p.
1186,ecfr.inEpist., IIIp.95n.3.Per
lastoriaeditorialedellestampediversi
leopardiani, cfr. D. DE ROBERTIS,
Introduzione all’ed. critica dei Canti, a
sua cura, Milano, Il Polifilo, 1984, 2
voll.
17. Cfr. L. BLASUCCI, Morfologia
delle canzoni, nell’opera collettiva Le
canzoni di Giacomo Leopardi. Studi e
testi, a cura di M. SANTAGATA, Pisa,
La Libreria del Lungarno, 1993, pp. 9-
41, e M. SANTAGATA, Le canzoni
come «romanzo ideologico», in ID.,
Quella celeste naturalezza. Le canzoni
e gli idilli di Leopardi, Bologna, Il
Mulino,1994,pp.15-44.
18.
Apparso
nel
«Nuovo
Ricognitore», Milano, n. 9, settembre
1825, come premessa alla ristampa
delleAnnotazioni.
19.Edunquesidistaccaanchedalla
maniera di Chiabrera, autore di tre odi
sui giochi del pallone organizzati a
Firenze da Cosimo II nel 1618 e nel
1619.
20.AdAngeloMai,vv.87-88.
21.Ivi,vv.53-54.
22.Ivi,vv.99-100.
23.Ivi,v.120.
24.Ivi,vv.70-72.
25.Aunvincitorenelpallone,v.60.
26.Brutominore,vv.31-45.
27. Ultimo canto di Saffo, vv. 4647.
28. Annuncio delle dieci ‘Canzoni’
(1825),inTO,Ipp.56-57.
29.Cfr.G.LeopardiaP.Brighenti,
Recanati,28aprile1820,ivi,p.1100,a
proposito di Ad Angelo Mai: «mio
padre non s’immagina che vi sia
qualcunochedatuttiisoggettisatrarre
occasione di parlar di quello che piú
gl’importa».
30. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,20marzo1820,ivi,p.1097.
XI
IL«MIOCERVELLO
ÈFUORIDIMODA».
LEOPERETTE
MORALIDEL1824E
L’EDIZIONEDEL
1827
1.DALDISEGNODI«CERTE
PROSETTESATIRICHE»ALLE
OPERETTEMORALI
L’antefatto determinante
delle Operette morali è il
tramonto della speranza: di
riscattopolitico,dopoifalliti
motidel1820-’21;diriscatto
personale, dopo il soggiorno
romano del 1822-’23; di
rigenerazionedel«primitivo»
comeintegritàvitale,dopola
scopertadelpessimismodegli
antichi e dopo la «teoria del
piacere».
Da
siffatte
disillusioni, nel corso stesso
della stesura del libro, si
sviluppa la mutata idea della
natura, non piú positiva ma
negativa,nonmadrebenefica
(e perduta) ma matrigna
indifferente
e
involontariamente malvagia,
responsabile
prima
dell’umana infelicità. Ciò
vuol dire che non hanno piú
ragione d’essere né la
protesta(fiduciosadiincidere
sulpresente)perlaprivazione
dell’originario eden naturale,
néladenuncia(comestimolo
di renovatio etica) del
malcostume
provocato
dall’«incivilimento».
La
caduta della speranza fa
tacere la voce del poeta, che
s’alimentava
di
vigore
agonistico
o
d’intensa
nostalgia
(canzoni)
o
s’animava,piúprivatamentee
per intermittenti barlumi,
nell’illusione di un ristabilito
contattoconlanatura(idilli).
Il disincanto trova la propria
cifra espressiva nella prosa,
che meglio si addice a una
placata saggezza ragionativa,
a una spassionata riflessione
sulla nullità delle cose. Le
Operette sono la stazione
d’arrivo
della
lenta
«conversione
filosofica»
iniziata nel 1819. Svaniti gli
impulsi, gli entusiasmi, i
desideri, restano l’ironia e il
sarcasmo, la consapevolezza
persuasa
d’un
dolore
inevitabile, di una sofferenza
che non è piú soltanto
attributo di personaggi-eroi
(Bruto e Saffo), ma
quotidiano e insopprimibile
bagaglio anche dell’uomo
qualunque nella vita di tutti i
giorni: come l’innominato
Islandese
dell’omonimo
dialogo.
Appartengono
alla
preistoria del nuovo libro
quelle
«certe
prosette
satiriche» di cui dà notizia
una lettera a Giordani del 4
settembre 1820: «In questi
giorni, quasi per vendicarmi
del mondo, e quasi anche
della virtú, ho immaginato e
abbozzato certe prosette
satiriche».1 In esse non si è
ancoraprecisatoperòilclima
vero
delle
Operette.
All’indomani
della
«conversione filosofica», la
prosa serve qui come
strumentodisatirapunitivae
vendicativa contro la corrotta
società contemporanea (lo
strappotrapassatoepresente
presuppone Ad Angelo Maie
l’apostasia della «virtú»2
precorrel’invettivadiBruto),
con toni di risentito
coinvolgimento
autobiografico3 – anche nel
bisogno di fuggire dalla
prigionia recanatese –, di
irritata misantropia, di odio
sincero contro gli uomini
«diavoli in carne».4 Tra la
scrittura lirica e la scrittura
prosasticaèistituitounnesso
non
alternativo
ma
complementare,
con
l’analogo
proposito
di
«scuotere la mia povera
patria»:lacontestazionedella
liricausa«learmidell’affetto
e
dell’entusiasmo
e
dell’eloquenza
e
dell’immaginazione», quella
delle «prosette» impiega «le
armidelridicolo»,sumateria
attuale,
«seria»
e
«importante», sociale e
politica.5
Quando
quest’ira
bruciante
s’è
attenuata
(dissolta anche la sua
funzione pedagogica) e
quando,coniltramontodella
speranza, si sono chiarite le
ragioni piú profonde di un
pessimismo
non
solo
«storico» ma «cosmico»,
allora le «prosette satiriche»
rimangono nel cassetto e
fioriscono altre prose, quelle
delle
Operette:
aeree,
ironiche,
luminosamente
rassegnate, non aggressive
macomprensivediundolore
che è stato ed è di tutti.6
Nascono già organiche e
compiute, venti nella prima
stesura, con un’applicazione
intensissima nel memorabile
1824, dentro il buio silenzio
di Recanati, tra il 19 gennaio
e il 16 novembre:7 «in quel
ms. consiste, si può dire, il
frutto della mia vita finora
passata,eiol’hopiúcarode’
miei occhi».8 Diluito il
veleno dell’ira, la prospettiva
si apre rispetto alle «prosette
satiriche», i toni variano, si
diversificano e s’intrecciano,
ma quel fuoco d’origine, non
che spengersi, arde al fondo
di calore piú intenso. Ora lo
scrittore ha accordato gli
strumenti necessari che gli
consentono di mettere su
carta un proposito già
accarezzato da anni, riguardo
alla «necessità» di «creare»
una «vera prosa bella
italiana», ch’egli definisce,
nello
slancio
della
progettazione, addirittura con
otto attributi: «inaffettata,
fluida, armoniosa, propria,
ricca, efficace, evidente,
pura».9 Neanche uno è
stonato, non conveniente al
risultatoraggiunto.
Al genere nuovo e
socialmente impegnato del
romanzo storico, che i
contemporanei
salutavano
con clamore, ma anche con
un entusiasmo spesso incline
alla
divulgazione
piú
disinvolta, Leopardi risponde
andando
(al
solito)
controcorrente,
non
schierandosi dalla parte dei
novatori, dei cosiddetti
progressisti. Risponde con la
moderna riproposta di un
genereanticocomel’apologo
morale,rivisitatoallalucedel
settecentesco
conte
philosophique.
Brani
saggistici, racconti stilizzati,
sequenze
riflessive
e
descrittive,
sceneggiature
dialogate: il tutto consegnato
a una miscela espressiva,
insieme
dissonante
e
melodica, di linguaggio ora
arcaizzante e peregrino, ora
comicoefamiliare.Risponde
con un testo antitetico ai
Promessi
sposi,
anzi
polemico verso gli stessi
intendimenti costruttivi del
romanzoottocentesco:conun
distillato di prosa umoristica,
digressiva e antiromanzesca,
rivolta alla contemplazione
della follia e della pena
(senza riscatto) del nostro
starealmondo.
Il superstite manoscritto
autografo (conservato nella
Biblioteca Nazionale di
Napoli, Pacco IX) – non
stesura di prima mano ma
trascrizione da materiali
precedenti
probabilmente
allestita nel 1825 –,
documenta
l’originaria
struttura del libro: struttura
genetica,cherispettal’ordine
di elaborazione dei singoli
testi.
Operette morali: struttura del ms.
autografo (tra parentesi le date di
stesuradiognicomponimento)
I.Storiadelgenereumano(19gennaio-
7febbraio1824)
II.Dialogo di Ercole e di Atlante (10-
13febbraio1824)
III.Dialogo della Moda e della Morte
(15-18febbraio1824)
IV.Proposta
di
premi
fatta
dall’Accademia dei Sillografi
(22-25febbraio1824)
V.Dialogodiunlettorediumanitàedi
Sallustio(26-27febbraio1824)
VI.Dialogo di un Folletto e di uno
Gnomo(2-6marzo1824)
VII.Dialogo di Malambruno e di
Farfarello(1-3aprile1824)
VIII.Dialogo della Natura e di
un’Anima(9-14aprile1824)
IX.Dialogo della Terra e della Luna
(24-28aprile1824)
X.La scommessa di Prometeo (30
aprile-8maggio1824)
XI.Dialogo di un Fisico e di un
Metafisico(14-19maggio1824)
XII.Dialogo della Natura e di un
Islandese (21, 27-30 maggio
1824)
XIII.Dialogo di Torquato Tasso e del
suo Genio familiare (1-10
giugno1824)
XIV.Dialogo di Timandro e di
Eleandro(14-24giugno1824)
XV.Il Parini, o vero della gloria (6
luglio-13agosto1824)
XVI.Dialogo di Federico Ruysch e
dellesuemummie(16-23agosto
1824)
XVII.Detti memorabili di Filippo
Ottonieri
(29
agosto-26
settembre1824)
XVIII.DialogodiCristoforoColomboe
Pietro Gutierrez (19-25 ottobre
1824)
XIX.Elogio degli uccelli (29 ottobre-5
novembre1824)
XX.Cantico del gallo silvestre (10-16
novembre1824)
Nel
passaggio
dal
manoscritto alla stampa non
intervengono mutamenti di
grande rilievo. La prima
edizione delle Operette
morali comprende infatti i
venti pezzi scritti nel 1824,
con due sole – nondimeno
significative
–
varianti
rispetto all’ordine della
cronologiacompositiva.10
Operette morali: indice della I ed.
(Milano, Antonio Fortunato Stella,
1827)
I.Storiadelgenereumano
II.Dialogod’ErcoleediAtlante
III.DialogodellaModaedellaMorte
IV.Proposta
di
premi
fatta
dall’AccademiadeiSillografi
V.Dialogodiunlettorediumanitàedi
Sallustio
VI.Dialogo di un Folletto e di uno
Gnomo
VII.Dialogo di Malambruno e di
Farfarello
VIII.Dialogo della Natura e di
un’Anima
IX.DialogodellaTerraedellaLuna
X.LascommessadiPrometeo
XI.Dialogo di un Fisico e di un
Metafisico
XII.Dialogo di Torquato Tasso e del
suoGeniofamiliare
XIII.Dialogo della Natura e di un
Islandese
XIV.IlParini,ovverodellagloria
XV.DialogodiFedericoRuyschedelle
suemummie
XVI.Detti memorabili di Filippo
Ottonieri
XVII.DialogodiCristoforoColomboe
diPietroGutierrez
XVIII.Elogiodegliuccelli
XIX.Canticodelgallosilvestre
XX.DialogodiTimandroediEleandro
Nella stampa 1827 il
Tasso (XII) anziché seguire
precede l’Islandese (cioè
passa dalla tredicesima alla
dodicesima posizione) e il
Timandro (XX) è spostato in
ultima
sede
(dalla
quattordicesima passa alla
ventesima posizione). Nella
struttura
originaria
del
manoscritto, il Tasso (che
offrenelsognounrifugiodal
dolore)
attenua
la
drammaticitàdell’Islandese;a
suavoltailTimandroassolve
unafunzioneditransitotrala
prima parte del libro (piú
sarcastica e combattiva,
criticaeirridente,conmoduli
stilistici derivati da Luciano)
e la seconda (che passa in
rassegna con riflessivo
distacco ipotesi, ancorché
vane, di felicità); infatti il
Timandro
è
operetta
bilanciata tra satira e
sentimento della vita, tra
«verità dure e triste» e
«illusioni
naturali
dell’animo» (par. 39); infine
l’intera serie è chiusa dal
Cantico che vale da
sublimazioneliricadeldolore
e da annuncio di conforto,
con la duplice prefigurazione
(«Verrà tempo» e «Tempo
verrà»: parr. 11 e 19) della
«quiete» recata dalla morte,
degli esseri umani e
dell’universo.
I
due
spostamenti introdotti nella
stampa1827ottengonoquesti
effetti: il Tasso non
ammorbidisce la negatività
dell’Islandese,
anzi
è
l’Islandese che cancella la
consolazione del sogno e
acquistapiúaccentuatorisalto
drammatico; il Timandro,
spostato in fondo, smorza
fortementel’epilogoliricodel
Cantico e il nuovo epilogo
serveda«apologiadell’opera
contro i filosofi moderni»,11
ossia la nuova collocazione
del Timandro ne privilegia –
anziché la funzione di
cerniera–ilversantedisilluso
e contestativo. Si potrebbe
dire che cambiando l’ordine
degli addendi la somma non
cambia. Invece no. Nella
struttura del manoscritto
prevale un disegno liricofantastico proteso verso le
illusioni («benché false»:
Timandro, par. 39), fino al
culminedel«silenzionudo»e
della «quiete altissima»
annunciati nel Cantico del
gallosilvestre(par.19);nella
struttura della princeps si
rinforzainveceepiúrisaltala
carica
negativa
della
prospettiva ideologica e
filosofica.
L’esito delle Operette
morali non è una divagante
raccolta di prose d’arte, ma
un organismo dal disegno
affilatissimo, un’opera di
rigore concettuale e di
fantasie
surreali,
argomentativa e fiabesca,
sorridente e disperata, che
mescola in un ordito
complesso «panorami dei
sogni» e visioni «di terre
inesplorate»,12 «l’angoscia e
la gioia, una lucida gioia
teoretica».13
Un
libro
aristocratico, affascinante e
difficile,nondestinatoalargo
successo:
dapprima
osteggiato, nella sua libera
circolazione tra il pubblico,
per l’interdetto della censura
civile (che blocca l’edizione
napoletana del 1835) ed
ecclesiastica (che lo confina
all’indice nel 1850); poi, se
non
dimenticato,
certo
rimosso dalla coscienza delle
lettere nazionali e bandito
dallecomuniconsuetudinidei
lettori.
Il fatto è che nelle
Operette si elabora la
filosofia
negativa
di
Leopardi,
quindi
lo
smontaggio dei falsi miti
dell’ottimismo spiritualistico
e della superbia tecnologica,
contro
ogni
pretesa
perfettibilità dell’individuo e
del consorzio sociale, contro
ogni certezza di progresso
morale, ogni risorgente
orgoglio antropocentrico e
qualsivoglia
finalismo
provvidenzialistico.
L’approdo ultimo nella
stampa 1827 risiede – in un
testo
di
riflessione
metaletteraria
come
il
Timandro – nel «concetto
della vanità delle cose
umane»
(par.
17),
nell’accertamento
dell’«infelicità necessaria di
tutti i viventi» (par. 25), con
la«disperazionemagnanima»
di chi ha la forza di «ridere
dei mali comuni», senza
dimenticare
le
«immaginazionibelleefelici,
ancorché vane, che danno
pregio alla vita» (par. 39).
Diverso e piú tragico suono
avrà
l’altro
testo
metaletterario, il Tristano
(1832), definitivo epilogo
dell’opera dalla seconda
edizionedel1834.
2.IMPIANTODINAMICOE
CONTRAPPUNTISTICO
Nel libro si dipana
gradualmente il filo di un
impianto
dinamico14
e
contrappuntistico
che
comporta passo dopo passo
uno spostamento di visuale,
un acquisto di conoscenza. Il
sipariosiapreconunafavola
mitologica arcaizzante, come
si addice al suo carattere di
remota leggenda, che funge
da preludio. La Storia del
genere umano, favoloso
viaggio
nel
tempo
all’inseguimento
della
felicità, racconta le vicende
del misero destino umano
logorato dalla caduta delle
illusioni, le «maravigliose
larve»,
che
accendono
l’animo «per cagioni belle e
gloriose» (par. 30); ma la
pietà di Giove induce infine
Amore, «figliuolo di Venere
Celeste» (par. 58), a
discendere in terra per recare
conforto «alla nostra somma
infelicità»(parr.57,60-61):
Quando viene in sulla terra, sceglie i
cuori piú teneri e piú gentili delle
persone piú generose e magnanime; e
quivi siede per breve spazio;
diffondendovi sí pellegrina e mirabile
soavità, ed empiendoli di affetti sí
nobili, e di tanta virtú e fortezza, che
eglino allora provano, cosa al tutto
nuova nel genere umano, piuttosto
verità
che
rassomiglianza
di
beatitudine.15
Rarissimamente
congiunge due cuori insieme,
abbracciando l’uno e l’altro a un
medesimo tempo, e inducendo
scambievole ardore e desiderio in
ambedue; benché pregatone con
grandissimainstanzadatutticoloroche
eglioccupa:maGiovenongliconsente
di compiacerli, trattone alcuni pochi;
perché la felicità che nasce da tale
beneficio, è di troppo breve intervallo
superatadalladivina.
Si direbbe un finale
rasserenato, luminosamente
catartico, che celebra la
potenza
vivificante
dell’Amore; una sorta di
miracololaicochespezzaper
incanto la consequenzialità
logica del pensiero negativo,
perrivelareacuori«teneri»e
«gentili» una straordinaria
(«pellegrina») e «mirabile
soavità»: non metafora ma
«verità»di«beatitudine»,che
è sintagma violentemente
eterodosso
nell’orizzonte
leopardiano.Laluceirradiata
dall’explicit della Storia del
genere umano vale come
ipotesi, come campo di
possibilità che il libro delle
Operette
s’incarica
di
verificare:16 deve maturare
via via dentro l’opera,
diacronicamente, la radicalità
del pessimismo. Ora Giove
giunge in soccorso, ma piú
avanti
quest’intervento
pietosoverràmenoeapparirà
incombente la presenza di
una Natura che è impassibile
e impietosa fonte di
sofferenza. Quell’ipotesi è
destinata a risultare falsa, ma
occorre leggere il libro per
accertarsene: le cose non
sono chiare fino dagli
antefatti,preliminarmente,ma
sichiarisconostradafacendo,
ondel’operasiconfiguranon
comepanoramaillustrativodi
un sistema concettuale, ma
come storia interiore, come
graduale
itinerario
conoscitivo.
Quell’ipotesi
sarà smentita, ma non si
cancella il suo effetto di
antitesi nei confronti della
sistematicità negativa: resta
indelebile
la
tensione
chiaroscurale
di
una
«beatitudine» radiata dalla
terra, ma drammaticamente
vivaeintensaneldesiderio.
Seguono cinque testi
(Dialogo d’Ercole e di
Atlante; Dialogo della Moda
e della Morte; Proposta di
premi; Dialogo di un lettore
di umanità e di Sallustio;
Dialogo di un Folletto e di
uno Gnomo) dedicati al
decadimento del mondo
contemporaneo – il «secol
morto» di Ad Angelo Mai,v.
4 –, quindi altri tre (Dialogo
di Malambruno e di
Farfarello; Dialogo della
Natura e di un’Anima;
Dialogo della Terra e della
Luna) centrati sul tema
dell’impossibile
conquista
dellafelicità.DallaStoriadel
genere umano al Dialogo
d’ErcoleediAtlanteilsaltoè
notevolissimo: da un’arcaica
solennità di lessico e di
sintassi, a un linguaggio
basso, comico e gergale; da
un taglio narrativo miticofavoloso a un’irridente
sceneggiatura dialogata; da
Platone a Luciano. Dopo la
sinfonia
d’apertura,
la
macchina si mette in moto
con toni d’ironica leggerezza
da opera buffa, per irridere –
dall’altitudine di un Olimpo
farsesco–l’ignaviael’inerzia
dellasocietàattuale.Laverve
polemica della Proposta di
premi investe l’assurda
pretesa di identificare la
civiltà delle macchine con il
miglioramento morale. Il
Sallustio lamenta la frattura
tra il mondo antico e il
moderno, che ha ribaltato la
gerarchia dei valori a
esclusivo
vantaggio
dell’interesse
economico.
Nella solitudine surreale di
una terra spopolata per
estinzione del genere umano,
i due fantastici interlocutori
del Dialogo di un Folletto e
di uno Gnomo si burlano di
ogni antropocentrismo e
provvidenzialismo.
Ma
soprattutto indimenticabile è
il colloquio tra la Moda e la
Morte.
La
Moda,
«vezzosissima
dea»
dedicataria del Mattino di
Parini, non è ritratta con il
sorriso arguto del moralista
cheperognimalehaprontoil
rimedio, ma con l’amarezza
diagnostica di un osservatore
disperatamente disincantato.
Veradominatricediunsecolo
vacuo, economicistico e
mercantile, la Moda –
presentata come sorella della
Morte, l’una e l’altra figlie
della Caducità che consuma
senza requie «le cose di
quaggiú» (par. 4) – diventa
emblema di una collettività
senza ideali e senza valori,
senza memoria storica e
senza coscienza di sé, quindi
manipolabile e mutevole,
prontaacorrerelàdovetirail
vento, «ancorché sia con suo
danno»(par.8).L’ossequioal
variare delle mode è davvero
un abbraccio con la morte e
non stupisce che Eleandro,
dialogando con Timandro,
affermi: «il mio cervello è
fuoridimoda»(par.3).
Il Dialogo della Terra e
della Luna, terza sequenza
della trilogia sulla felicità
irraggiungibile,
segna
l’epilogo della prima parte.
Dallo
«sconforto»
dell’individuo (Dialogo di
Malambruno e di Farfarello)
edell’umanità(Dialogodella
Naturaediun’Anima),siamo
allo spettacolo del «male»
che coinvolge la pluralità dei
mondi:
vizi,
misfatti,
infortuni,
dolori
sono
patrimonio non soltanto delle
creature terrestri ma del
cosmointero,«perchéilmale
ècosacomuneatuttiipianeti
dell’universo, o almeno di
questo mondo solare» (par.
22). Cosí parla la Luna,
«amica del silenzio» (par. 3;
cfr. Canto notturno, v. 2:
«silenziosaluna»),eproprioa
lei spetta rivelare questa
verità: è una Luna prosaica e
in abiti da casa, pronta a
discorrereconlaTerraalpari
diuna«fantesca»(par.9)che
s’intrattiene «in ciance» (par.
15)conlasuasignora;nonè
l’assorta, candida, muta
interlocutrice di un io
affannato dalla noia e dal
dolore, però sa che la Terra,
nella
sua
orgogliosa
persuasione geocentrica, è
«peggio che vanerella» (par.
9) e sa che il «male»
accomuna «tutti i pianeti
dell’universo». A questo
punto si può lasciare
l’ambientazione planetaria,
peravvicinarsial«quaggiú»e
agliesserichelopopolano.
La
scommessa
di
Prometeo, in posizione
centrale, con la discesa del
protagonistadalcieloversola
terra, segna il transito fra la
prima e la seconda parte del
libro. Nella prima, sullo
sfondo di una spazialità
cosmicapopolatadapresenze
extraumane,prevaleunpunto
divistaaereo,esternorispetto
alle vicende terrene: la
prospettiva del telescopio e
dello straniamento satirico.
L’otticadelladistanzaedella
lontananza, lo spazio nudo e
fuori del tempo, l’universo
senza la presenza dell’uomo
consentono di irridere, con
ironia, sarcasmo e comica
animazione gestuale, la
piccolezza (vista da lassú)
delle cose di questo mondo,
insieme
all’orgoglio
sconsiderato e alla boria di
chi lo abita. Gli esseri umani
e le loro faccende risultano
distanti e lontani, ma si
avverte che sono loro
l’oggetto dell’attenzione e
loro saranno il soggetto della
parte seconda. Dalla deserta
solitudinedelcosmo,edaun
Olimpo
parodisticamente
smitizzato e diseroicizzato
(congedo dal multiforme
teatrodelle«favoleantiche»),
sientranelpalcoscenicodella
storia non a caso con
Prometeo,
il
mitico
plasmatoredelgenereumano.
Nellasecondaparteprevalela
prospettiva
del
microscopio:17
ci
si
trasferisce nel vivo delle
relazioni terrene, entro il
significato
stesso
dell’esistere,
entro
i
meccanismi
di
comportamento
che
conferiscono senso (o nonsenso) all’agire privato e
collettivo, tra personaggi o
storici o emblematicamente
storicizzati. Non sono figure
da romanzo, fortemente
caratterizzate, ma figure
sottoposte a un processo
d’astrazione
concettuale,
figureemblema. Non importa
la storia dell’individuo,
regista e interprete della
propria vita, ma importano i
rapportiindividuo-esistenzae
le differenti capacità di
reazionedinanziallacertezza
diundestinochenonmuta.
Giunti in terra, súbito si
pone la questione del
significato della «vita»
(DialogodiunFisicoediun
Metafisico).PerilMetafisico,
piúimportail“vivere”chel’
“esistere”,18 inteso come
mero«durare»(par.22);vale
a dire che è preferibile una
vitabrevema«vera»,intensa
disensazioniediaffezioni,a
una vita comunque lunga ma
vuota, inerte e tediosa, come
talenondissimiledallamorte,
perché «la buona o la cattiva
sorte di chicchessia non si
misura dal numero dei
giorni» (par. 17). Ma il
Fisico, che non bada a
«sottigliezze» (par. 7) e
guarda «alla grossa» (par.
19),nonèpersuaso,convinto
che «la vita è bene da se
medesima, e ciascuno la
desidera
e
l’ama
naturalmente»(par.4).L’urto
concettuale,
fino
al
paradosso, è necessario e
vitale per le Operette, per il
serrato scontro dialogico che
in esse si dispiega tra i
protagonisti e i loro
antagonisti: da un lato,
l’ardita oltranza-passione di
un
pensiero
solitario;
dall’altro lato, la resistenza
duraeopaca,madisinvoltae
baldanzosa
delle
idee
condivise dai piú, in un
tempo
di
ottimismo
progressista e di euforia
tecnologica.
Dopo
il
confrontoantiteticotra“vita”
ed “esistenza”, l’indagine si
spostasugliaspettidiversidel
male di vivere (Dialogo di
Torquato Tasso e del suo
Geniofamiliare):iltarlodella
«noia»,
l’insoddisfatta
illusione del «piacere», il
balsamo del «sogno». Il
dolente poeta della Liberata,
condannato all’inazione nella
clausura tra i pazzi di
Sant’Anna
e
quindi
all’angoscia della «noia»,
mentre vanamente aspira al
«piacere», non può che
giovarsi
dell’illusoria
medicina
del
«sogno».
Peccato che «Freud abbia
ignoratoLeopardi»,19 solo se
pensiamo
all’edonismo
materialisticoealla«pulsione
libidica»20 che formano la
sostanza
dell’arte
leopardiana. La «teoria del
piacere»ritornaincompendio
nel Tasso, tanto piú
drammatizzata dall’intreccio
autobiografico
tra
il
protagonista e l’autore,
nonché
dal
contesto
carcerario e claustrofobico in
cuiildialogoèambientato.
Uno dei vertici è toccato
con l’Islandese (cfr. cap. VII
par. 4): alla consapevolezza
della felicità impossibile –
presente in tutta la prima
parte – e del dolore che
deriva
dal
desiderio
insoddisfatto – ribadito nel
Tasso – si aggiunge, a
chiudere il cerchio sullo
strazio
dell’umana
condizione,
la
consapevolezza di patimenti
inevitabili.
Il
fulcro
ideologico del pensiero
materialistico è consegnato a
un testo di sorprendente
invenzione narrativa, che
amalgama insieme racconto
d’avventura,
iperboli
fiabesche, connotati esotici,
suspense fantastica, per
precipitareversoundialogato
lucido e terso, sillogistico e
sconcertante, sospeso su un
«mistero» (Zib. 4099, 2
giugno 1824) che resta senza
risposta, come la domanda
formulata
in
ultimo
dell’Islandese: «a chi piace o
a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo,
conservata con danno e con
morte di tutte le cose che lo
compongono?» (par. 26).
L’uomo qualunque che è
protagonista del Dialogo –
nella sua vulnerabile fisicità
dicreaturacorporeaenelsuo
vano peregrinare in cerca di
un “altrove” piú benigno –
presuppone la crisi del
personaggio-eroe che si è
consumata nelle canzoni,
quindi il passaggio dalla
protesta agonistica alla
cognizione persuasa della
nullità delle cose di
«quaggiú». La Natura, da
enteastrattoqualeapparenel
Dialogo della Natura e di
un’Anima,
si
è
antropomorfizzata in «forma
smisurata di donna» (par. 2);
esiste in carne e ossa come
concretizzazione figurale di
un male invincibile. Nella
prospettiva
aerea
ed
extraterrenadellaprimaparte
del libro, nel Dialogo della
Natura e di un’Anima, la
Natura si presenta affettuosa,
ma impotente a contrastare il
volere perverso del «fato»;
l’Anima
l’accusa
di
dispensare infelicità e lei
ragionevolmente si discolpa.
Ora – dopo poco piú di un
mese, secondo la cronologia
compositiva – di quel volere
maligno è additata come la
responsabile prima. Il fatto è
che la vertenza sulla
responsabilità della Natura
resta, nella prima parte del
libro,apertaeinconclusa:non
si risolve, non può risolversi,
nel colloquio di un’Anima
che non ha ancora vivificato
«un corpo umano» (par. 1),
bensí è rinviata sulla terra,
all’incontro risolutivo tra la
Natura personificata e un
uomoreale,appuntouncorpo
umano,espertoeconsapevole
dell’avventura del vivere. Le
diverseesuccessivesequenze
comportano, per l’interna
dinamica strutturale delle
Operette, un acquisto di
conoscenza. L’idea nuova
dellaNaturanonèilfruttodi
un’autonoma folgorazione
intuitiva, ma si precisa con
dolorosa gradualità come
momento interno al divenire
dell’opera.
Il genere umano, cosí
ripetutamente
bersagliato
nella sua vana presunzione e
malvagità e stoltezza, si
profila ora anche nella sua
fondamentale condizione di
vittima.Diquiinnanzi,ilbrio
dellasatirasiattenua.Lareità
della natura fa scattare un
moto di compartecipazione
affettiva nei confronti della
sorte comune. Anche la vis
comica s’intride di una piú
acuta pensosità, con un
sorriso misto di disperato
sconforto. Toccato il vertice
del dramma conoscitivo, si
assiste, nelle operette della
seconda parte, all’antinomica
bipolarità tra il vero e le
illusioni, tra pessimismo
concettualeesentimentodella
vita. Perciò risaltano, proprio
dal presupposto di un
irrimediabile male di vivere,
le vibrazioni estatiche e
visionarie
di
un
appassionamento
interiore
che filtra la luce di
meravigliosi fantasmi, di
«immaginazioni belle e
felici»(Timandro,par.39).
Il Parini si applica sul
tema della gloria – il mito
cantato da Foscolo come
spiraglio di salvezza dalla
rapina della morte (Dei
Sepolcri, vv. 24-25) –,
ritenuta un labile fantasma,
vano come un’«ombra» (XII
1): cosí argomenta l’operetta
che al tempo stesso si
raccomanda come originale
trattato di sociologia del
mestiere di scrittore e della
ricezioneletteraria.Perbocca
di Parini, che si rivolge a un
giovane aspirante autore, si
delinea
un’acutissima
diagnosi sulla sorte della
letteratura nella moderna
civiltà di massa, che con i
suoi meccanismi produttivi
manipola e sovverte i valori
piú autentici. Nondimeno il
fantasma della gloria, cosí
sconsolatamente
ritenuto
illusorio, acquista – con
palese
proiezione
autobiografica – risalto e
consistenza
di
valore
assoluto,quantopiúarduoda
raggiungere,
tanto
piú
desiderato e vagheggiato
pressolaposterità.
Dopo
l’accertamento,
nell’Islandese,
dell’inevitabile condanna alla
sofferenza e dopo la
negazione, nel Parini, della
gloria come riscatto dalla
nullitàdell’esistere,ilRuysch
considera
il
tumulto
dell’avventura
umana
dall’altra riva, dalla quiete
gelidadelregnodelleombre,
per sostenere il non-dolore
della morte, anzi il piacere
che accompagna il momento
del
trapasso,
come
progressiva languidezza che
definitivamente e per sempre
libera dal patire. La stagione
della prosa – da Alla sua
donna del settembre 1823
fino agli sciolti Al Conte
CarloPepolidelmarzo1826
–registrailsilenziodelpoeta,
con la sublime eccezione
tuttavia della lassa libera di
endecasillabi e settenari che
costituisceilCorodimorti,in
apertura dell’operetta. Sono
versi di potente suggestione
che esprimono l’assenza di
vita, il vuoto, l’oblio,
l’annullamento di ogni
sensazioneediogni«fiamma
vitale», la siderale quiete del
non-ricordo, del non-affanno.
Poesiacomenegazione,come
voce
del
non-essere,
dell’annientamento
della
coscienza:
Solanelmondoeterna,acuisi
volve
ognicreatacosa,
inte,morte,siposa
nostraignudanatura;
lietano,masicura
dall’anticodolor.Profonda
notte
nellaconfusamente
ilpensiergraveoscura;
allaspeme,aldesio,l’arido
spirto
lenamancarsisente:
cosíd’affannoeditemenzaè
sciolto
el’etàvoteelente
senzatedioconsuma.
[…]
Chefuquelpuntoacerbo
chedivitaebbenome?
Cosaarcanaestupenda
oggièlavitaalpensiernostro,
etale
qualde’vivialpensiero
l’ignotamorteappar.Comeda
morte
vivendorifuggia,cosírifugge
dallafiammavitale
nostraignudanatura;
lietanomasicura;
peròch’esserbeato
negaaimortalienegaa’morti
ilfato.
La vita («punto acerbo»)
appare lontana, sedata, muta,
finalmente depurata da
superbia,
da
umana
presunzione: è la vita, in
quanto sede dell’«antico
dolor», che incute paura agli
abitanti
dell’aldilà.
Dall’oltretombasilevaquesto
canto alla morte – «eterna»
signora del riposo perenne –
da parte dei defunti, non
«lieti», non «beati», ma
«sicuri», affrancati dal male
di vivere. Però questo sereno
regnodeimorti,spogliodelle
paure terrene, suscita piú
sgomento che attrazione.
Leopardinoninnalzauninno
alla «profonda notte» delle
ombre,maesorcizzailterrore
dell’ignoto dopo la vita e
insieme
pronuncia
un
tragicamente disilluso elogio
della luce e della «fiamma
vitale».
L’Ottonieri presenta un
arguto e ironico autoritratto,
in forma di memorabili
sentenze attribuite a un
personaggio immaginario e
rivolte a indagare le
ambiguità dell’agire umano.
Dopo il Ruysch, la placata
saggezza
dell’Ottonieri
acquistailtimbrodiunavoce
rasserenata
che
giunge
dall’aldilà.Manonèintonata
alla
morte,
bensí
è
curiosissima della vita: si
protende con pertinace
scrutinio
analitico,
impartecipe e sorridente,
entro i congegni piú sottili,
minuti, interiorizzati dei
comportamenti individuali e
sociali. Una siffatta figura
non poteva che affacciarsi
nella parte ultima del libro,
dopo che il pensiero
leopardiano si è chiarito nei
punti essenziali, sí da potersi
strutturare in autonomo
personaggio, in vivente e
icastico punto di vista calato
sullecosedelmondo.
IlColombosisvolgenella
«solitudine incognita» (par.
12) dell’oceano, nel corso
stesso della traversata del
grande navigatore verso
l’ignotoeintendedifendereil
rischio e l’azzardo che
tengono lontano l’assedio
della noia. Importante non è
lamètadaraggiungere,mail
viaggio, l’andare. Il primato
della vita intensa e attiva,
rispetto
all’inerzia
di
un’esistenzatediosa,èmotivo
che proviene dal Dialogo di
un Fisico e di un Metafisico:
oraquelmotivosiconvertein
autentica valorizzazione del
piacere di esistere, in
commossa riscoperta della
semplice
condizione
creaturale,attraversoleparole
diunnavigantechesasempre
imminenteladisperazionedel
naufragio. Questa difesa del
valore di essere al mondo,
prodotta dalla minaccia del
pericolo,questoattaccamento
alla vita traguardata con gli
occhi di chi è sul punto di
perderla, si espandono in
tripudiodivitalitànell’Elogio
degli uccelli: una prosa
evocativa e visionaria che
esalta
nelle
«creature
dell’aria»,«vocaliemusiche»
(par. 10) e agilissime, una
mirabileesegretasuggestione
di
«gioia»,
«letizia»,
«soavità»,
«allegrezza»,
irraggiungibileperlecreature
umane.Dalfondamentodella
negatività filosofica, fiorisce
la nostalgia di una vita
diversa, l’incantata virtú di
dare voce a una disperata e
aerea“allegriadinaufragi”.
Nel Cantico del gallo
silvestre – l’ultimo testo
composto nel 1824 – ritorna
circolarmente il tema della
felicità impossibile, già
annunciato nel preludio della
Storia del genere umano e
ripreso nella trilogia VII-IX.
Ora tuttavia quel tema è
energicamente
contrappuntato, nelle parole
di una mitica creatura
dell’aria, da una duplice
prefigurazione di «quiete
altissima», concessa dalla
mortesiaalgenereumanosia
all’intero universo: «Mortali,
destatevi. Non siete ancora
liberidallavita.Verràtempo,
che niuna forza di fuori,
niuno intrinseco movimento,
vi riscoterà dalla quiete del
sonno» (par. 11); «Tempo
verrà, che esso universo, e la
natura medesima, sarà spenta
[…],edelleinfinitevicendee
calamità delle cose create,
nonrimarràpureunvestigio;
ma un silenzio nudo, e una
quiete
altissima,21
empieranno
lo
spazio
immenso» (par. 19). La
«sollecitudine» di morte che
vibra nell’operetta (par. 17:
«Ogni parte dell’universo si
affretta infaticabilmente alla
morte, con sollecitudine e
celerità mirabile») non si
dissocia dall’idea che la
«morte» è lenimento e pace,
al pari del sonno che, «quasi
una particella di morte» (par.
12), ristora dalle fatiche del
vivere.
L’accentuata
scansione lirica che distingue
questo «carme in prosa
poetica»22
vale
da
sublimazione del suo stesso
presuppostopessimisticoedè
funzionale
all’attesa
liberatoria del riposo infine
promesso. Posto in chiusura
del libro – come nel
manoscritto autografo – il
Cantico
comporta
una
conclusionetantoapocalittica
(nellaprospettivadiuntotale
spegnimento della vita)
quantoconsolante.
Nellaprincepsl’epilogoè
consegnato al Timandro, un
testo nato – s’è visto – come
cerniera tra la prima e la
seconda parte del libro,
quindi bilanciato tra il
mordente della satira e la
forza delle illusioni. Posto in
ultimasede,conladichiarata
intenzione che debba servire
da «apologia dell’opera
contro i filosofi moderni», è
da leggere come sintesi
ideologica delle Operette. E
la chiave di lettura risalta
proprio dalle battute iniziali,
quando Eleandro, alter ego
dell’autore,èrimproveratoda
Timandro: «Quel continuo
biasimareederiderchefatela
specie umana, primieramente
è fuori di moda» (par. 2). Al
cheEleandroreplica:«Anche
il mio cervello è fuori di
moda» (par. 3). Tutto il libro
è «fuori di moda», perché
rifiuta e contesta lo
storicismo utilitaristico, il
pedagogismo ottimistico dei
«filosofi»
contemporanei:
«nonmisodilettareepascere
di certe buone aspettative,
come veggo fare a molti
filosofi in questo secolo; e la
mia disperazione, per essere
intera, e continua, e fondata
inungiudiziofermoeinuna
certezza, non mi lascia luogo
asognieimmaginazioniliete
circa il futuro» (par. 27).
«Disperazione» come ferma,
razionale «certezza», onde
sono banditi i «sogni» e le
«immaginazioni» riguardo
alla «perfezione dell’uomo»
(par.34)eallasuaconquista,
presente o futura, della
felicità; non già però i
«sogni»ele«immaginazioni»
che scaturiscono dal fondo
duro
di
questa
«disperazione»: «lodo ed
esaltoquelleopinioni,benché
false, che generano atti e
pensieri
nobili,
forti,
magnanimi, virtuosi, ed utili
al ben comune o privato;
quelle immaginazioni belle e
felici, ancorché vane, che
danno pregio alla vita; le
illusioni naturali dell’animo»
(par.39).
Ecco che le Operette
morali, al pari poi dei Canti,
e su un piano equivalente di
autonomia artistica, sono
percorsedaunafondamentale
tensione conoscitiva, tra lo
sgomento «della vanità delle
coseumane»(Timandro, par.
17) e l’entusiasmo teoretico
dichinonripiegadifronteal
disvelamento del vero. Non
ripiega, ma ne riceve una
capacitàdisguardolimpidoe
maturo per antica saggezza
(comenell’Ottonieri),oppure
una vitalità di soprassalti
fantastici, di consolanti,
ancorché vane, illusioni: il
confortodelsognonelTasso;
il puro piacere di esistere nel
Colombo;
la
mirabile
allegrezza e festosa levità
delle «creature dell’aria»
nell’Elogio degli uccelli.
Proprio la cognizione della
precarietà dell’essere «ci fa
cara la vita, ci fa pregevoli
moltecosechealtrimentinon
avremmo in considerazione»:
«Chiposemainelnumerodei
beniumanil’avereunpocodi
terra che ti sostenga?»
(Colombo, parr. 13 e 17).23
Di qui una tormentata
bipolarità – cui si affida il
fascino segreto del libro –,
che sortisce effetti di
stupefacente chiaroscuro, tra
il radicalismo pessimistico
semprepiúcupoeildesiderio
struggentediunavitadiversa,
l’esorcismo contro il terrore
della morte (Ruysch), la
nostalgia di «soli splendidi»,
di«ariecristallineedolci»,di
«verzure liete», di «vallette
fertili», di «acque pure e
lucenti»(Elogiodegliuccelli,
parr. 3 e 6): serie di plurali,
adattestareladurataelanon
casualità di questo spettacolo
interiore.
Nonèilripiegoimpotente
dell’autocommiserazione, ma
la virtú energica e rara di
riscoprirelavitacongliocchi
di un naufrago. Dall’oltranza
delpessimismosisprigionano
l’invenzioneimmaginativa,la
forza evocativa, il teatro
visionario dell’Elogio degli
uccelli.24 L’autore conosceva
bene le risonanze segrete di
questo disperato bifrontismo,
eppure si limitava a scrivere
all’editoreStella:«Cheimiei
principii sieno tutti negativi,
iononmeneavveggo».25
1. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,4settembre1820,inTO, Ip.
1109. Queste «prosette», incompiute e
inedite (fino al 1906), sono quattro:
Dialogo … Filosofo greco, Murco
senatore romano, Popolo romano,
Congiurati (forse dell’agosto 1820);
Dialoghi tra due bestie (di cui restano
cinque abbozzi, probabilmente del
1819-’21); Dialogo Galantuomo e
Mondo(dueabbozzi,probabilmentedel
giugno 1821); Novella Senofonte e
NiccolòMachiavello(treabbozzi,idue
primiforsedel1820-’21,ilterzodatato
13 giugno 1822). Che questi testi
rispondano al proposito di «dare
all’Italia» un «vero linguaggio comico
[…]chebisognaassolutamentecreare»
(intrecciando, sul modello di Luciano,
«Dialogo»e«Commedia»),èdichiarato
inun«disegnoletterario»del1819-’20:
«Dialoghi Satirici alla maniera di
Luciano, ma tolti i personaggi e il
ridicolodaicostumipresentiomoderni,
e non tanto tra morti, giacché di
Dialoghi de’ morti c’è già molta
abbondanza»(Disegniletterari, III3,in
TO, I p. 368). Quanto ai «Dialoghi de’
morti» l’allusione va almeno a
Bernardo Bellini e ai suoi Dialoghi,
ossia la conversazione degli antichi
letterati negli Elisi (Milano 1816), già
daLeopardibiasimati(comedaBorsieri
nelle Avventure letterarie) nella lettera
a Giuseppe Acerbi, Recanati, 17
novembre 1816 («trattandosi di morti,
puzzano tanto di sepolcro e d’obblio»,
ivi, p. 1012). Lo stesso passo del
«disegno letterario» si richiama, per
dialoghi su materia contemporanea, a
Monti imitatore di Luciano, con
esplicito rinvio al Dialogo. Matteo
giornalista, Taddeo suo compare,
Pasquale servitore e ser Magrino
pedante(intrepuntatedella«Biblioteca
Italiana»,luglio-agosto1816)eaquelli
daMontiinseriti«nellasuaoperadella
lingua»(ovverolaProposta,apparsain
seitomitrail1817eil1824,ancorain
corso di pubblicazione, e da Leopardi
posseduta non prima del marzo 1821,
quando la ordina a un libraio romano:
cfr. N. Fucili a G. Leopardi, Roma, 3
marzo, 28 marzo e 23 ottobre 1821, in
Epist., II pp. 114, 118, 146). Ma poi
anche il riferimento montiano, dopo la
lettura diretta dei dialoghi inclusi nella
Proposta, si chiarisce in termini
polemici: occorre che l’impegno
prosastico «alla maniera di Luciano
[…] [sia] rivolto a soggetti molto piú
gravi che non sono le bazzecole
grammaticali a cui lo adatta il Monti»
(G.LeopardiaP.Giordani,Recanati,6
agosto 1821, in TO, I p. 1123); «A
volere che il ridicolo primieramente
giovi,
secondariamente
piaccia
vivamente, e durevolmente, cioè la sua
continuazione non annoi, deve cadere
sopraqualcosadiserio,ed’importante.
Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e
sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo,
oltre che nulla giova, poco diletta, e
prestoannoia.[…]Ne’mieidialoghiio
cercheròdiportarlacommediaaquello
chefinoraèstatopropriodellatragedia
[…]» (Zib. 1393, 27 luglio 1821).
Risaleal1819lostudiodiLuciano(vd.
Elenchi di letture, pp. 1139-40) e
probabilmente
coevi
sono
il
VolgarizzamentodaLuciano(sucuicfr.
G. Leopardi a G. Sonzogno, Recanati,
27luglio1818,inTO, Ipp.1054-55)e
ilframmentoditraduzionediCarontee
Menippo(ivi,pp.455-56).
2. Cfr. Dialogo Galantuomo e
Mondo,ivi,p.205.
3. Cfr. G. Leopardi a P. Brighenti,
Recanati,22giugno1821,ivi,p.1122:
«Ciascunoènemicodiciascuno,edalla
suapartenonhaaltrichesestesso.[…]
Del resto o vinto o vincitore, non
bisogna stancarsi mai di combattere, e
lottare,einsultareecalpestarechiunque
vi ceda anche per un momento. Il
mondo è fatto cosí, e non come ce lo
dipingevano a noi poveri fanciulli. Io
sto qui, deriso, sputacchiato, preso a
calci da tutti, menando l’intera vita in
unastanza,inmanierache,sevipenso,
mi fa raccapricciare. E tuttavia
m’avvezzo a ridere, e ci riesco. […]
Amami, caro Brighenti, e ridiamo
insieme alle spalle di questi coglioni
che possiedono l’orbe terraqueo. Il
mondo è fatto al rovescio come quei
dannati di Dante [gli indovini, in Inf.,
XX] che avevano il culo dinanzi ed il
pettodidietro;elelagrimestrisciavano
giú per lo fesso [Inf., XX 24]. E ben
sarebbe piú ridicolo il volerlo
raddrizzare,cheilcontentarsidistarea
guardarlo e fischiarlo». L’intera lettera
rinviaalDialogoGalantuomoeMondo
(ivi, pp. 199-205), con precisi nessi
interni (il virtuoso «sputacchiato», p.
1122ep.205,oltreallostessorichiamo
dantesco).
4. Novella Senofonte e Niccolò
Machiavello,ivi,p.192.
5.Zib.1393-94(27luglio1821).
6. Emblematico e istruttivo il fatto
che nel Dialogo di Timandro e di
Eleandro (14-24 giugno 1824) i due
immaginari personaggi avrebbero
dovuto
in
origine
chiamarsi
diversamente: non Timandro (secondo
l’etimogreco‘coluichestimal’uomo’)
ma Filènore (‘colui che ama l’uomo’),
non Eleandro (‘colui che commisera
l’uomo’) ma Misènore (‘colui che odia
l’uomo’). Già nel titolo autografo
dell’operetta (Dialogo di Filènore e
Misènore)unanotamarginalesegnalail
definitivo mutamento dei nomi. Merita
attenzione la variante onomastica
dell’autobiografico interlocutore di
Timandro, da Misènore a Eleandro, e
quindi il passaggio dall’odio alla pietà
nellasuaconsiderazionedegliuomini:a
un intento misantropico-satirico è
subentrato un rapporto piú distaccato e
comprensivo. Avendo l’autore mutata
idea intorno alla natura, anche ha
cambiato il suo giudizio verso i propri
simili:noncreaturecorrotteecolpevoli
della loro corruzione, ma oppresse e
fragilivittimediunentemalignochele
trascende.
7.Lenoteaitestisonoaggiuntetra
il7eil13dicembre.
8. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Bologna, 12 marzo 1826, in TO, I p.
1244. Cfr. anche G. Leopardi allo
stesso,Bologna,26aprilee31maggio
1826,ivi,pp.1251-55.
9.Disegniletterari,III4(1819-’20),
ivi,p.369.
10. Tali varianti sono già stabilite
nell’Indice allegato al ms. autografo.
Anteriormente alla prima edizione del
volume, hanno visto la luce a Firenze
tre operette nell’«Antologia» di
Vieusseux(n.61,gennaio1826,pp.2543):ilTimandro,il Colombo, il Tasso,
secondo una scelta voluta da Giordani;
il «Nuovo Ricoglitore» di Milano
ristampòitretestineinn.15(marzo)e
16 (aprile) del 1826. Quanto
all’anticipazionesull’«Antologia»–che
dovevaservireasondaregliumoridella
censura–,Leopardiconfidavaall’amico
Francesco Puccinotti, Bologna, 5
giugno1826,inTO, I p. 1255: «I miei
Dialoghi stampati nell’Antologia non
avevano ad essere altro che un Saggio,
e però furono cosí pochi e brevi. La
scelta fu fatta da Giordani, che senza
miasaputamisel’ultimoperprimo».
11. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Bologna,16giugno1826,ivi,p.1257:
«il qual Dialogo [di Timandro ed
Eleandro]èneltempostessounaspecie
diprefazione,edun’apologiadell’opera
contro i filosofi moderni. Però l’ho
collocatonelfine».
12. A. SAVINIO, Drammaticità di
Leopardi,nell’operacollettivaGiacomo
Leopardi, a cura di J. DE BLASI,
Firenze,Sansoni,1938,pp.124-25.
13. G. MANGANELLI, Giacomo
Leopardi: Operette morali (1984), in
ID.,Laborioseinezie,Milano,Garzanti,
1986,p.200.
14. Cfr. M. MARTI, Cronologia
dinamica delle ‘Operette morali’ di G.
Leopardi, in «Giornale storico della
letteraturaitaliana»,CLVI1979,494pp.
203-28.
15. Si pensi all’assolutezza
dell’amore come tema-cardine che
percorre i Canti: specie nel Pensiero
dominante, in Amore e Morte, nel
Consalvo (vv. 123-25: «Lice, lice al
mortal, non è già sogno / come stimai
gran tempo, ahi lice in terra / provar
felicità»).
16. Cfr. R. REGNI, Ragione
architettonica delle ‘Operette morali’,
in «La Rassegna della letteratura
italiana»,VII1981,3pp.501-10.
17.IlmicroscopiodelMetafisico.Si
veda infatti quanto afferma il Fisico,
passivamente appagato dai luoghi
comuni delle credenze correnti: «se tu
ami la metafisica, io m’attengo alla
fisica: voglio dire che se tu guardi pel
sottile, io guardo alla grossa, e me ne
contento […] senza metter mano al
microscopio»(DialogodiunFisicoedi
unMetafisico,par.19).
18. Analogamente (almeno) a Zib.
626-27 (8 febbraio 1821) e 4043 (8
marzo1824).
19. E. SANGUINETI, Il nulla in
Leopardi (1988), in ID., Il chierico
organico. Scritture e intellettuali, cit.,
p.105.
20.Ibid.
21. Una sorta di piacere
dell’immaginazione, che richiama altri
celebri passi: «profondissima quiete»
(L’infinito, v. 6) e «altissima quiete»
(Lavitasolitaria,v.33).
22. CONTINI, Giacomo Leopardi,
cit.,p.396.
23.Cfr.ancheZib.82.
24. «E per vero nell’Elogio degli
uccelli […] sembra che il Leopardi si
siacompiaciuto[…]quasidiconcedersi
uno svago» (M. FUBINI, in G.
LEOPARDI,Operettemorali,asuacura,
Torino, Loescher, 1966, p. 216). In
realtà, non svago, ma nesso necessario
tra riflessione e libertà fantastica. Il
disperato bifrontismo è cosa molto
diversa dall’antitesi desanctisiana
«intelletto/cuore» (che implica il
discredito
dell’«intelletto»
come
pericoloso «scetticismo», onde la
svalutazione delle Operette: cfr. F. DE
SANCTIS, La letteratura italiana nel
secolo XIX, III. Giacomo Leopardi, a
cura di W. BINNI, Bari, Laterza, 1953,
pp.208sgg.);comeèanchecosamolto
diversa dalla dialettica idealistica di
«negazione»e«ricostruzione»proposta
convigoredaGentilenell’analisi–che
egli ha il merito di avere avviata per
primo – dell’impianto strutturale delle
Operette (cfr. G. GENTILE, Le
‘Operette morali’ [1916], in ID.,
Manzoni e Leopardi. Saggi critici,
Milano,Treves,1928,pp.155sgg.).
25. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Firenze, 23 agosto 1827, in TO, I p.
1291.
XII
LONTANODA
RECANATI.
IMPEGNO
CULTURALEE
DISIMPEGNO
POLITICO
1.ILCOMMENTATOREE
L’ANTOLOGISTA
L’allontanamento
da
Recanatitrailluglio1825eil
novembre1828(interrottodal
rientro a casa nell’inverno
1826) comporta il contatto
conl’ambienteintellettualedi
Milano, Bologna, Firenze,
Pisa. Soprattutto conta il
rapporto con l’editore Stella,
perché–perquantosfumatii
progetti
dell’edizione
ciceronianaedella«Sceltadi
Moralisti greci tradotti» –
sollecitaGiacomoadallestire
trevolumidigrandeimpegno
(il commento alle Rime di
Petrarca nel 1826, la
Crestomazia italiana dei
prosatori nel 1827 e la
Crestomazia italiana poetica
nel 1828), non solo
ragguardevoli per il loro
significato critico-letterario,
ma anche per la loro
destinazione
non
specialistica. Con questi libri
(necessitati da esigenze
pratiche)1 il conte recanatese
allarga la cerchia ristretta dei
suoi lettori e affronta, in
termini moderni, il problema
del
pubblico,
della
circolazione
e
della
committenza del lavoro
culturale.
Ilcommentopetrarchesco
(Canzoniere e Trionfi)2 è
un’interpretazionemeramente
esplicativa, nel rispetto del
testo e del lettore,3 basata
sull’assunto che «Nessuno
oggi in Italia, fuori dei
letterati(iovolevadirfuoridi
pochissimi letterati), conosce
né può intendere facilmente
lalinguaitalianaantica».4Un
Petrarca dunque (non senza
autoironia) «fatto per tutti,
anche per le donne, e,
occorrendo, per li bambini, e
finalmenteperglistranieri»:5
umile
esegesi,
metodologicamente
fondamentale, antipedantesca
e spoglia (anche troppo) di
divagazioni erudite come di
giudizi estetici, che dimostra
l’esigenza di estendere alle
nostre lettere la prassi
dell’analisi testuale già
egregiamente da Leopardi
applicata nello studio dei
classicigrecielatini.6
Le due crestomazie –
quella
dei
prosatori7
impostata retoricamente per
generi, quella dei poeti8
secondo
cronologia
–
provengono dal medesimo
intento
divulgativo
del
Petrarca,maquil’operazione
è
piú
delicata
e
compromettente,
giacché
implica il confronto con
l’interatradizionedellanostra
civiltà letteraria e dunque
anche
il
confronto
conseguente con i canoni del
gusto contemporaneo. Le
scelte leopardiane vanno,
ancora
una
volta,
controcorrente.
Non
assecondano la pedagogia
allorainuso:nonsiattengono
al criterio dello storicismo
militante, né rispondono al
credo del progresso morale,
della provvidenzialità, degli
entusiasmipolitici(funzionali
alla
formazione
del
«cittadino» borghese). Bensí
difendono una pedagogia
liberatoriaenonomologante,
funzionale
all’autonomo
valoredellapersonaeallasua
gratificazione:
attenta
all’integrità
etica
e
psicologica dell’individuo,
quindi pronta a promuovere
la coscienza del male di
vivereeinsiemelaricercadel
«dilettevole» (intrecciando
stile e pensiero),9 in senso
estetico,ideale,fantastico.Le
due antologie non solo
documentano un’agilissima
curiosità investigativa verso
testi e territori spesso
inesplorati; non solo tengono
per noi oggi in serbo un
prezioso repertorio di fonti
variamente
utilizzate
nell’opera leopardiana; ma
sono anzitutto libri d’autore,
specchio di una filosofia, di
una ideologia letteraria e
civile. Leopardi li definisce
libri «utili»,10 ma in base a
unanozionedi«utilità»cheè
sua,
ed
è
antitetica
all’utilitarismo della cultura
ufficiale, come conferma
l’impegno, sempre con
l’editoreStella,11perunanon
realizzata Enciclopedia delle
cognizioni
inutili
(«m’ingegno di renderla
un’operapiúpopolarechesia
possibile,
anche
nello
stile»),12ecomepoiribadisce
ilpiútardoPreambolo(1832)
a«LoSpettatoreFiorentino».
Ilfattoèche,sopitaormai
da tempo con l’ironia delle
Operette la morale eroica
delle canzoni, l’adesione al
materialismo meccanicistico
(approfonditanel1825conil
Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco) si
unisce ora a una convinta
apoliticità e a una morale
dell’astensione di tipo stoico,
che prescrive di sopportare i
dolori e di rinunciare ai beni
che non si possono ottenere.
Questa fase del pensiero
leopardiano trova un punto
d’appoggio nel Manuale di
Epitteto (tradotto nel 1825)13
e si manifesta nella già
ricordata lettera a Vieusseux
del 4 marzo 1826, con cui è
rifiutato
l’invito
di
collaborare all’«Antologia»
(il «vizio dell’absence è in
me
incorreggibile
e
disperato»). Il bisogno di
«solitudine», ivi dichiarato, e
la proclamata ignoranza in
tema di «filosofia sociale»
sono da intendersi come
inequivocabile scelta di non
integrazione nel sistema
operativo (con conseguente
pedagogiastrumentale)caroa
Vieusseux.
2.DISCORSOSOPRALOSTATO
PRESENTEDEICOSTUMI
DEGL’ITALIANI
Dalla sua sponda di
solitarioeversivo,Leopardisi
è però già misurato con la
questione della «filosofia
sociale», come risulta dal
Discorso sopra lo stato
presente
dei
costumi
degl’Italiani (probabilmente
elaborato tra la primavera e
l’estate 1824,14 incompiuto e
inedito fino al 1906). La
guardatura
fredda
dell’etnologo vi tratteggia un
quadro spietato, storico e
antropologico, dei nostri
costumi «al tempo presente»,
una radiografia severa (e
senza soluzioni che servano
da terapia) dell’inconsistente
«spiritonazionale»italiano,15
quello che si dice senso
civico. Da noi manca la
«società stretta»16 (che si
regge sul «bon ton», sulle
buone maniere, sull’«onore»,
sui riguardi, sulle formali
convenienze e convenzioni
del vivere civile), mentre
invece
spadroneggiano
l’individualismo, l’egoismo,
il cinismo, la derisione
reciproca. Una condizione di
anarchia in cui ognuno «fa
tuono e maniera da se».17Di
qui l’invito a riflettere sui
costi altissimi imposti dallo
sviluppo
della
«civiltà
moderna», la quale con la
conquistadella«verità»ciha
liberati dalla violenta e
fanatica «barbarie» del
Medioevo, ma ha provocato
la «strage delle illusioni»18
(la virtú, la giustizia, la
gloria,l’amore,lapatria)che
erano la base dell’antica
morale. I paesi piú progrediti
(come
la
Francia,
l’Inghilterra, la Germania)
hanno rimediato a questa
perdita con la «società
stretta»,conun’artificialevita
di relazione che ha ridotto
l’etica a galateo. Nei paesi
meno evoluti (come la
Spagna e la Russia)
l’ignoranza consente ancora
la
sopravvivenza
dei
fondamenti morali che sono
stati distrutti dal progresso
«dei lumi». L’Italia è meno
civile dei primi e piú civile
dei secondi: non può
avvalersi degli anticorpi
prodotti dalla civilizzazione
avanzata, né godere dei
benefici
dell’arretratezza.
Cosíquellacheuntempoera
«la piú vivace di tutte le
nazioni colte», è divenuta la
piúimmorale,«lapiúmorta»,
«la piú ragionatrice», «la piú
difficile ad esser mossa da
cose illusorie», la piú
insensibile alla poesia e alle
«opered’immaginazione».19
L’«utile» che Leopardi
difende non si confronta con
la «società stretta», ma con
quelle passioni e con quei
valori vitali ch’egli chiama
illusioni: perciò si appella a
un edonismo sensistico,
estetico e affettivo (non però
estetizzante
né
misticheggiante
né
spiritualistico), che è altra
cosa dall’«utile» pragmatico-
economico perseguito da
Vieusseux e dalla cultura
liberale
borghese.
Lo
chiarisce senza veli la lettera
aGiordani,daFirenze,del29
luglio1828:
In fine mi comincia a stomacare il
superbodisprezzochequisiprofessadi
ogni bello e di ogni letteratura:
massimamentechenonmientrapoinel
cervello che la sommità del sapere
umano stia nel saper la politica e la
statistica. […] [Gli individui] sono
condannatiallainfelicitàdallanatura,e
non dagli uomini né dal caso: e per
conforto di questa infelicità inevitabile
miparechevaglianosopraognicosagli
studi del bello, gli affetti, le
immaginazioni, le illusioni. Cosí
avviene che il dilettevole mi pare utile
sopratuttigliutili,elaletteraturautile
piú veramente e certamente di tutte
queste discipline secchissime; le quali
anche ottenendo i loro fini,
gioverebbero pochissimo alla felicità
veradegliuomini[…].Inognimodo,il
privare gli uomini del dilettevole negli
studi,miparechesiaunveromalefizio
algenereumano.20
Il «dilettevole» è «utile
sopra tutti gli utili» e la
«letteratura»
è
potente
antidoto
all’«infelicità
inevitabile», perché fervida
alunna delle illusioni in un
mondo che ha assistito alla
loroecatombe.
3.IVERSIDEL1826
A Bologna Giacomo
pubblica,apropriespese,nel
1826 la sua seconda e
rilevante silloge poetica (a
parte le anticipazioni romane
delletreprimecanzoni),peri
tipi della Stamperia delle
Muse, di cui era titolare
l’amicoPietroBrighenti.21La
raccolta comprende tutti i
testi approvati non inclusi
nelleCanzonidel1824.
Versi: indice della I ed. (Bologna,
StamperiadelleMuse,1826)
GliEditoriachilegge
Idilli-MDCCCXIX
L’infinito.IdillioI
Laseradelgiornofestivo.IdillioII
Laricordanza.IdillioIII[inF:Alla
luna]
Ilsogno.IdillioIV
Lospaventonotturno.IdillioV[in
N:FrammentoXXXV]
Lavitasolitaria.IdillioVI
Elegie-MDCCCXVII
ElegiaI[inF:Ilprimoamore]
ElegiaII[inN:FrammentoXXXVI]
Sonetti in persona di ser Pecora
fiorentinobeccaio-MDCCCXVII
SonettoI
SonettoII
SonettoIII
SonettoIV
SonettoV
Epistola-MDCCCXXVI
EpistolaalConteCarloPepoli
Guerra dei topi e delle rane MDCCCXV
CantoI
CantoII
CantoIII
Volgarizzamento della Satira di
Simonidesopraledonne-MDCCCXXIII
Cosí informa la
editorialed’apertura:
nota
Abbiamo creduto far cosa grata al
Pubblico italiano, raccogliendo e
pubblicando in carta e forma uguali a
quelledelleCanzonidelconteLeopardi
giàstampateinquestacittà,tuttelealtre
poesie originali dello stesso autore, tra
lequalialcuneinedite,dicuisiamostati
favoriti dalla sua cortesia. Si è
compresa tra le poesie originali la
Guerra dei topi e delle rane, perché
piuttosto imitazione che traduzione dal
greco. In ultimo abbiamo aggiunto il
Volgarizzamento della Satira di
Simonide sopra le donne; della qual
poesia, molto antica e molto elegante,
manotaquasisoltantoaglieruditi,non
sappiamo che v’abbia finora altra
traduzioneitaliana.22
L’indice merita attenzione,
perché – diversamente dalle
Canzoni del 1824 – ci mette
dinanzi a un libro d’autore
che è destinato, nel suo
impianto strutturale, a essere
scompaginato e in buona
parte annullato dai Canti,dal
loro filtro di autoselezione e
dalla loro diversa sintassi
organizzativa.
Conesclusionedegliidilli
già apparsi in rivista nel
1825-’26
e
del
volgarizzamento della satira
di Semonide di Amorgo (già
nel «Nuovo Ricoglitore» di
Milano, n. 11, novembre
1825), gli altri testi sono
inediti – o in veste inedita,
come la Guerra dei topi e
delle rane, terza e ultima
versione, in sestine –. Molti
nonsarebberosopravvissutia
questa stampa: cosí i cinque
esercizi in chiave comicorealistica dei Sonetti in
persona di ser Pecora
fiorentinobeccaio;cosíidue
volgarizzamenti
comicosatirici.Altriavrebberoavuto
sorte varia: Lo spavento
notturno,sacrificatoneiCanti
del 1831, è recuperato come
Frammento XXXV nei Canti
del 1835; l’Elegia I entra nei
Cantidel1831comeIlprimo
amore, ma l’Elegia II sarà
salvata,peròinpiccolaparte,
soltanto nei Canti del 1835
nel
Frammento
XXXVI
(quindici versi, di contro agli
ottantadue
qui
documentati).23 Il disegno si
perde e con il disegno anche
nonpochimateriali.
Illibrohaunafisionomia
eterogenea (e pluristilistica)
ma non casuale: termina con
laSatirasopraledonnecheè
richiamo, o ammiccamento,
propriamente antifrastico alla
canzone Alla sua donna,
conclusiva
del
volume
bolognesedel1824.Concede
ampio spazio a una
componente satirica che i
primi
Canti
avrebbero
cancellato e i secondi
ammesso(aparteloScherzo)
con un unico, piú tardo
campione (la Palinodia), ma
di taglio arduo e severo, non
comico-giocoso.
Attesta,
come già le Canzoni, una
rigida specificazione retorica
di genere poetico (Idilli,
Elegie, Sonetti, Epistola) che
sarà esemplarmente azzerata
nei Canti, con il ricorso a un
titolo nuovo di unificante
sublimazione lirica. Segnala
puntualmente la datazione –
spessononpiúcheorientativa
–24 delle singole parti, sí da
tracciare, ma in modo un po’
estrinseco e meccanico, quel
diagrammastoricodell’ioche
iCantiaffidanoagliequilibri
e alle antinomie di una
studiatissima
architettura
interna. La strada da
percorrere è ancora lunga,
non meno che incerta, e il
libro del 1826 non è che un
passo in avanti, una tappa
intermedia verso l’ancora
imprevedibile stazione dei
Canti.
1. Forse proprio l’ingrata fatica del
commentoalleRime spiega, almeno in
parte, il negativo giudizio sulla poesia
di Petrarca espresso da Giacomo ad
A.F. Stella, Bologna, 13 settembre
1826, in TO, I pp. 1266-67 (cfr. anche
la nota di Moroncini, in Epist., IV p.
175).Ma,perunopportunoelimitativo
bilancio del petrarchismo di Leopardi,
vd. R. TISSONI, L’archetipo del
commento
divulgativo:
l’
‘Interpretazione’ petrarchesca di
Leopardi (Milano 1826), in ID., Il
commentoaiclassiciitalianinelSettee
nell’Ottocento (Dante e Petrarca),
Padova, Antenore, 1993, pp. 175-203.
Piúingenerale,sullavoroeditorialedi
Giacomo a Milano, cfr. U. CASARI,
L’esperienza editoriale milanese del
Leopardi, in ID., Alla ricerca del
lettore. Saggio su Leopardi, Verona,
Fiorini,1990,pp.77-122.
2. Sul Petrarca leopardiano, anche
per la dovizia dell’informazione
bibliografica, cfr. R. BESSI, Leopardi
commenta
Petrarca,
nell’opera
collettiva Una giornata leopardiana in
ricordo di Walter Binni, cit., pp. 95120; utili indicazioni anche in M.
MANOTTA, Leopardi. La retorica e lo
stile, Firenze, Accademia della Crusca,
1998,pp.149-57.
3. «Non è passata in silenzio
nessuna difficoltà della quale io mi sia
accorto; e dovunque io non ho inteso,
ho confessato espressamente di non
intendere, acciocché il lettore, non
intendendo, non si credesse né piú
ignorantenémenoacutodell’interprete,
cometuttiglialtricomentatorivogliono
che egli si tenga in tali occasioni»
(Prefazionedell’interprete,allaseconda
edizione, quella fiorentina del 1839, in
TO,Ip.984).
4. L’autore dell’interpretazione a
chilegge(premessaallaprimaedizione
del 1826, ivi, p. 985). Riguardo al
carattereparafrasticodelcommento,G.
CARDUCCI (Prefazione a ‘Le Rime’ di
FrancescoPetrarca,commentatedaG.
CARDUCCI e S. FERRARI, Firenze,
Sansoni, 1899, p. LIII), peraltro non
tenero verso questo Leopardi
«scoliaste», osservava: «nella comune
interpretazione è sempre e senza
paragoni piú degli altri conciso ed
elegante».
5.Prefazionedell’interprete,cit.,p.
984.
6.Cfr.TIMPANARO,Lafilologiadi
G.Leopardi,cit.,p.131.
7. Questo l’indice delle tredici
sezioni (79 gli autori e 299 i brani):
Narrazioni; Descrizioni e immagini;
Apologhi; Allegorie, comparazioni e
similitudini; Definizioni e distinzioni;
Lettere;
Discorsi
dimostrativi;
Eloquenza; Filosofia speculativa;
Filosofiapratica;Relazioni di costumi,
caratterieritratti;Paralleli; Filologia.
La scelta è ardita, perché il Trecento,
caro ai puristi, ai classicisti e ai
romantici (appassionati cultori del
Medioevo politico e religioso), è quasi
ignorato, il Quattrocento abbastanza
svalutato, mentre signoreggia il
Cinquecento,elargospaziohannopoiil
Seicento (Galileo è l’autore piú
rappresentato)eilSettecento(senzagli
scrittori viventi e con una striminzita
presenza di Alfieri che si affaccia da
una mezza pagina della Vita).
«Soprattutto è notevole la scelta dei
luoghi nelle opere di Galilei, e il suo
studio non solo del ben dire, ma anche
delbenpensare;ciòchelodistingueda
quei puristi che credevano non potersi
imparare la lingua altrimenti che
“spensando”,comedicevaAlfieri»(DE
SANCTIS, Giacomo Leopardi, cit., p.
189). Per i rapporti con le Leçons de
littérature di Jean-François Noël e
François-Marie-JosephDelaplace(Paris
1804, ma l’ed. usata da Leopardi è la
IV, 1810), cfr. G. BOLLATI,
Introduzione alla Crestomazia italiana.
La prosa, Torino, Einaudi, 1968, pp.
XXXVIII sgg. Utili indicazioni, dal
confronto con l’antologia prosastica
pubblicata a Londra nel 1828 da
Antonio Panizzi, in C. DIONISOTTI,
Panizzi professore (1980), in ID.,
Ricordi della scuola italiana, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1998,
pp.219-21.
8. Premesso (cfr. Prefazione alla
crestomaziaitalianade’poeti,in TO, I
p. 992) che Dante e Petrarca, l’Ariosto
delFuriosoedelleSatire,ilTassodella
Liberata e dell’Aminta, il Pastor Fido
di Guarini e Il Giorno di Parini vanno
lettiperintero,l’antologia(81gliautori
e 279 i brani) espunge del tutto il
Trecento, è molto avara con il
Quattrocento, si dilata con il
CinquecentoeilSeicento,finoaessere
generosissima con il Settecento e il
primo Ottocento (esclusi i viventi, ma
incluso in extremis Monti, deceduto il
13ottobre1828).
9. «Il quale intento non si poteva
otteneresenonconunacondizione:che
neipassichesiscegliessero,labellezza
del dire non fosse scompagnata dalla
importanza dei pensieri e delle cose»
(Prefazione alla crestomazia italiana
de’prosatori,ivi,p.991).
10.Ibid.
11. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Firenze,13luglio1827,ivi,p.1288.
12. G. Leopardi ad A.F. Stella,
Firenze,23agosto1827,ivi,pp.129192.L’idearitornanei Disegniletterari,
XI (1829): «Enciclopedia delle
cognizioni inutili, e delle cose che non
si sanno; o Supplemento di tutte le
enciclopedie»(ivi,p.372).
13.«Oralanoncuranzadellecosedi
fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri
Stoici,vieneadirquestoappunto,cioè
noncurarsidiesserebeatonéfuggiredi
essere infelice» (Manuale di Epitteto.
Preambolo del volgarizzatore, ivi, p.
493).
14. Assegnato per solito al marzo
1824(accettandolatesidiGinoScarpa,
cfr.G.LEOPARDI,Opere, a cura di R.
BACCHELLI e G. SCARPA, Milano,
Officina Tip. Gregoriana, 1935, pp.
1294-95), se ne è proposta una
cronologiacompositivaprotrattafinoal
1826-’27 (cfr. G. SAVARESE, Il
‘Discorso’ di Leopardi sui costumi
degl’Italiani: preliminari filologici
[1988], in ID., L’eremita osservatore.
Saggio sui ‘Paralipomeni’ e altri studi
suLeopardi,Roma,Bulzoni,1995,pp.
209-32), ma l’editore piú recente (M.
DONDERO, Nota al testo, in G.
LEOPARDI, Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’Italiani, intr.
di M.A. RIGONI, testo critico di M.
DONDERO,
commento
di
R.
MELCHIORI, Milano, Rizzoli, 1998, p.
31),sullabasedell’esamecodicologico
dell’autografo (Biblioteca Nazionale di
Napoli, Carte Leopardi) ipotizza «una
datazione compresa tra la primavera e
l’estate del 1824». Si veda anche, per
ulteriore e analitica conferma, M.
DONDERO,I problemi della datazione,
inID.,LeopardiegliItaliani.Ricerche
sul ‘Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl’Italiani’, Napoli,
Liguori,2000,pp.13-36.
15. Cfr. anche Zib. 865 (24 marzo
1821):«[senzalo]spiritonazionale[…]
non v’è stata mai grandezza a questo
mondo, non solo grandezza nazionale,
maappenagrandezzaindividuale».
16.Discorsosopralostatopresente
dei costumi degl’Italiani, in TO, I p.
968.
17.Ivi,p.971.
18.Ivi,p.969.
19.Ivi,p.981.
20. G. Leopardi a P. Giordani, 24
luglio 1828, ivi, p. 1321 (la data va
corretta,non24ma29,cfr.Epist.,vp.
120,epureG.LEOPARDI, Lettere agli
amici di Toscana, a cura di W.
SPAGGIARI, Milano, Mursia, 1990, p.
29). Questo stesso motivo dell’«utile»
ritornainunpassocapitale:Il pensiero
dominante,vv.59-65.
21.Illibro(cfr.Epist., IVp.214n.
4)erastampatofinodalsettembre1826
(cfr., oltre all’annuncio in inglese nella
lettera al fratello Carlo, Bologna, 20
settembre 1826, ivi, p. 183 e n. 6, la
lettera della sorella Paolina, Recanati,
24 settembre 1826, ivi, p. 185 e n. 1,
nonché la lettera a C. Pepoli, Bologna,
s.d.[ottobre1826],ivi,pp.195-96en.
3), ma non ancora messo in
circolazione. Giacomo infatti ne
chiedeva notizia a P. Brighenti, da
Recanati,il27dicembre1826:«Haitu
mai pubblicato il libretto de’ miei
Versi?L’Antologianehamaiparlato?»
(in TO, I p. 1275). Brighenti
rispondeva, da Bologna, il 3 gennaio
1827: «Oggi appunto ho dato le
disposizioni per la pubblicazione del
tuolibro,giacchéorapossofarlosenza
violare le precauzioni prefissemi» (in
Epist., IV p. 217; annota MORONCINI,
ivi, p. 218 n. 3: «Non saprei dire che
specie di “precauzioni” il Brighenti si
fosse prefisse. Certo è che dovevano
essere d’un qualche peso, se lo
costrinsero a differire di circa tre mesi
la pubblicazione del volumetto. Del
quale però qualche copia era già in
privata circolazione»). L’«Antologia»
ne parlò con favore, per iniziativa di
Giuseppe Montani (già recensore delle
Canzoni nel dicembre 1824 come lo
sarà poi delle Operette nel febbraio
1828), nel vol. XXVIII, nn. 82-83,
novembre-dicembre 1827, pp. 273-75
(orainG.MONTANI,Scrittiletterari,a
cura di A. FERRARIS, Torino, Einaudi,
1980,pp.195-96).
22.GliEditoriachilegge,inTO, I
p.72.
23.Cfr.,inproposito,P.GIBELLINI,
Notturno con tempesta: il frammento
leopardiano ‘Io qui vagando’,
nell’operacollettivaStudidifilologiae
letteraturaitalianainonorediGianvito
Resta, a cura di V. MASIELLO, Roma,
Salerno Editrice, 2000, 2 voll., II pp.
857-78.
24.Siveda,traglialtricasi,ladata
1815 assegnata alla Guerra dei topi e
delle rane, con riferimento alla prima
versione del testo greco, mentre la
redazionequipubblicata(laterza)risale
al1826.
XIII
ILDISGELO
1.DALLA«COGNIZIONE»AL
«SENTIMENTO»DELNULLA
LoZibaldone permette di
vedere al rallentatore il
graduale disgelo del cuore,1
lospostamentod’interessedal
piano cosmico-filosofico al
terreno personale, dal mondo
all’io, dalla «cognizione» al
«sentimento» del nulla, con
un riaccendersi dell’istinto
vitale («l’ardor natio»: Il
risorgimento,
v.
150)
suscitato
dalla
stessa
radicalità
del
processo
meccanicistico. Sono celebri
alcunipassi,almenoquattro.
Uno
riguarda
l’infondatezza del “principio
di non contraddizione”,
secondo il quale «Non può
unacosainsiemeessereenon
essere» (Zib. 4099, 3 giugno
1824),«nonpotestidemsimul
esse et non esse» (ivi, 4129,
5-6 aprile 1825). Principio
supremo eppure infondato,
perché il «fine naturale
dell’uomo e di ogni vivente,
in ogni momento della sua
esistenza sentita, non è né
può essere altro che la
felicità, e quindi il piacere
suo proprio», ma «il fine
dell’esistenza generale […]
non è certamente in niun
modo la felicità né il piacere
deiviventi»(ivi,4128),bensí
la loro infelicità; nondimeno
«ciò non toglie che ogni
animale abbia di sua natura
per necessario, perpetuo e
solosuofineilsuopiacere,e
lasuafelicità»:
Contraddizione evidente e innegabile
nell’ordinedellecoseenelmododella
esistenza, contraddizione spaventevole;
ma non perciò men vera: misterio
grande,danonpotersimaispiegare,se
non negando (giusta il mio sistema)
ogni verità o falsità assoluta, e
rinunziando in certo modo anche al
principiodicognizione,nonpotestidem
simul esse et non esse (ivi, 4129, 5-6
aprile1825).
Nell’anno di composizione
del Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco, la
teoria del piacere è ripensata
alla luce del sistema
meccanicistico comunicato
dalla Natura all’Islandese.
Tale «contraddizione […]
innegabile»
prelude
al
passaggiodallastagionedella
prosa al «risorgimento».
Dinanzi a questo «misterio
grande» si arrende l’indagine
concettuale
e
la
«contraddizione
spaventevole», insanabile per
via di conoscenza logica,
lascia il posto a una diversa
forma di conoscenza propria
della poesia, che si addentra
nelle ombre del «misterio» e
lascia
conflittualmente
convivere i contrari, sí da
dare
voce
intensissima
all’edonismo dell’io nel
momento stesso che ne
certifica
l’impossibile
appagamento.
Un altro brano ha per
temail«giardino»(Zib.417577, Bologna, 19-22 aprile
1826):
Entrateinungiardinodipiante,d’erbe,
di fiori. Sia pur quanto volete ridente.
Sia nella piú mite stagione dell’anno.
Voi non potete volger lo sguardo in
nessunapartechevoinonvitroviatedel
patimento. Tutta quella famiglia di
vegetali è in istato di souffrance, qual
individuo piú, qual meno. Là quella
rosaèoffesadalsole,cheglihadatola
vita; si corruga, langue, appassisce. Là
quel giglio è succhiato crudelmente da
un’ape,nellesuepartipiúsensibili,piú
vitali. Il dolce mele non si fabbrica
dalle industriose, pazienti, buone,
virtuoseapisenzaindicibilitormentidi
quelle fibre delicatissime, senza strage
spietataditenerifiorellini.Quell’albero
è infestato da un formicaio, quell’altro
da bruchi, da mosche, da lumache, da
zanzare; questo è ferito nella scorza e
cruciatodall’ariaodalsolechepenetra
nellapiaga;quelloèoffesoneltronco,o
nelle radici; quell’altro ha piú foglie
secche;quest’altroèroso,morsicatonei
fiori; quello trafitto, punzecchiato nei
frutti. Quella pianta ha troppo caldo,
questa troppo fresco; troppa luce,
troppa ombra; troppo umido, troppo
secco. L’una patisce incomodo e trova
ostacoloeingombronelcrescere,nello
stendersi; l’altra non trova dove
appoggiarsi, o si affatica e stenta per
arrivarvi. In tutto il giardino tu non
trovi una pianticella sola in istato di
sanitàperfetta.Quaunramicelloèrotto
odalventoodalsuopropriopeso;làun
zeffiretto va stracciando un fiore, vola
conunbrano,unfilamento,unafoglia,
unapartevivadiquestaoquellapianta,
staccataestrappatavia.Intantotustrazi
le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le
ammacchi, ne spremi il sangue, le
rompi, le uccidi. Quella donzelletta
sensibile e gentile, va dolcemente
sterpando e infrangendo steli. Il
giardiniere va saggiamente troncando,
tagliando membra sensibili, colle
unghie, col ferro. Certamente queste
piante vivono; alcune perché le loro
infermitànonsonomortali,altreperché
ancoraconmalattiemortali,lepiante,e
gli animali altresí, possono durare a
vivere qualche poco di tempo. Lo
spettacolo di tanta copia di vita
nell’entrare in questo giradino ci
rallegral’anima,ediquièchequestoci
pareessereunsoggiornodigioia.Main
veritàquestavitaètristaeinfelice,ogni
giardino è quasi un vasto ospitale
(luogo ben piú deplorabile che un
cemeterio),esequestiesserisentono,o
vogliamodire,sentissero,certoècheil
nonesseresarebbeperloroassaimeglio
chel’essere.
Questa formidabile pagina –
di
poco
successiva
all’epistola Al Conte Carlo
Pepoli – è preceduta nello
Zibaldone dal passo che
inizia con l’affermazione
categorica «Tutto è male» e
che prosegue con un unico
periodo sintattico dove
ossessivamente la parola
«male» è ripetuta nove volte.
Non sussistono dubbi sul
significato logico dell’intero
brano dedicato al «giardino»,
nel periodo del cupo
pessimismo degli sciolti a
Pepoli: la morte è preferibile
alla vita, soltanto il non
essere libera dal male,
dall’infelicità necessaria. Ma
latecnicaespressivadiquesta
prosa comunica un altro
significato: la descrizione,
mentreaffermarazionalmente
il concetto del patimento
inevitabile,
esprime
emozionalmente, per virtú di
stile,un’appassionataenuova
sensibilitàperla«souffrance»
universale (il termine dei
grandi moralisti francesi
indica l’alone affettivo della
compartecipazione
sentimentale al dolore).2 Si
toccano con mano le
vibrazioni emotive scaturite
dal persuaso convincimento
che «Tutto è male» e dolore.
La scrittura ha deposto il
rigore
sillogistico
dell’argomentazione
razionale (già nell’ossessiva
iterazione d’apertura sulla
parola «male») e si avvale
invecedisostanzametaforica,
di insistite, tese, coinvolgenti
inarcature
sintattiche
e
lessicali.
Si
consideri
l’amplificazione semantica
ottenuta con le serie
sinonimiche, a tre membri
(«di piante, d’erbe, di fiori»;
«si
corruga,
langue,
appassisce»), a quattro
(«industriose,pazienti,buone,
virtuose api»; «da bruchi, da
mosche, da lumache, da
zanzare»), a cinque («le
stritoli, le ammacchi, ne
spremiilsangue,lerompi,le
uccidi»), a sei, organizzati in
triplice
sequenza
di
opposizioni binarie («troppo
caldo, […] troppo fresco;
troppa luce, troppa ombra;
troppoumido,tropposecco»).
Si vedano i nessi antinomici
tra gli artefici innocenti del
male (un «male» naturale,
non il «male» di Manzoni,
fruttodiumanascelleratezza)
e gli effetti dolorosi del loro
agire incolpevole: cosí le
«api» che sono, con
gradazione
d’intensità
crescente,
«industriose,
pazienti, buone, virtuose», e
cheproducono«dolcemele»,
recano «indicibili tormenti»
in «fibre delicatissime» e
fanno «strage spietata di
teneri fiorellini»; cosí la
«donzelletta sensibile e
gentile,
va
dolcemente
sterpando e infrangendo
steli»; cosí il giardiniere «va
saggiamente
troncando,
tagliando membra sensibili,
colle unghie, col ferro».
Antinomico, su un piano piú
generale,ancheilrapportotra
la situazione e il quadro ove
essasisvolge:daunaparte,la
«strage» che si consuma con
spargimento di sangue («ne
spremi il sangue»), con
assassinii («le uccidi»),
piaghe, ferite, trafitture,
membra rattrappite, morsi
nella carne viva; dall’altra
parte, l’arcadica levità dei
contorni
paesistici,
dell’ambiente,
dei
personaggi:ilgiardinofiorito,
nella piú mite stagione
dell’anno, la rosa, il giglio,
con l’aerea delicatezza dei
vezzeggiativi
affettivi
(«fiorellini», «pianticella»,
«ramicello»,
«zeffiretto»,
«donzelletta»).
Un mondo ridente e una
realtà straziata, con effetti di
spettacolarizzazione
della
sofferenza, attraverso interne
didascaliecheorganizzanolo
spazio scenico («Là … Là
…»;
«Quell’albero
…
quell’altro…;questo…quello
… quell’altro …»). La
manzoniana
«vigna
di
Renzo»(Promessisposi,cap.
XXXIII) è metafora della
volontà di razionalizzare il
caos prodotto da colpa
umana;
il
«giardino»
leopardiano è metafora del
male che affanna, senza
responsabilità
individuale,
l’intero creato. Non si tratta
di cognizione del dolore, ma
di
emozione
per
la
«souffrance» naturale. Le
antinomie multiple su cui il
testo si regge diventano
antitesi tra idea e parola, tra
significato e significante.
Proprio dalla certezza che la
mortesiapreferibileallavita,
scatta l’angoscia per questo
beneprofanatoeperduto:per
la vita gustata come valore
incantevole e prezioso,
riscopertacongliocchidichi
ha visto in volto la
disperazione.
2.IMORTICOME«STATIVIVI»
EILPOTEREVISIONARIO
DELL’«IMMAGINAZIONE»
Un altro passo è dedicato
ai «morti» (Zib. 4277-78,
Recanati, 9 aprile 1827).
Perchésipiangonoidefunti?
Noi c’inteneriamo veramente sopra gli
estinti. Noi naturalmente, e senza
ragionare;avantiilragionamento,emal
grado della ragione; gli stimiamo
infelici,
gli
abbiamo
per
compassionevoli,tenghiamopermisero
illorocaso,elamorteperunasciagura.
Cosí gli antichi; […] cosí i moderni;
cosí tutti gli uomini: cosí sempre fu e
sempre sarà. Ma perché aver
compassione ai morti, perché stimarli
infelici, se gli animi sono immortali?
Chi piange un morto non è mosso già
dalpensierochequestisitroviinluogo
einistatodipunizione:intalcasonon
potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perché
lo stimerebbe reo. […] Da che vien
dunque la compassione che abbiamo
agliestintisenondalcredere,seguendo
un sentimento intimo, e senza
ragionare, che essi abbiano perduto la
vita e l’essere; le quali cose, pur senza
ragionare,eindispettodellaragione,da
noi si tengono naturalmente per un
bene; e la qual perdita, per un male?
Dunquenoinoncrediamonaturalmente
all’immortalità
dell’animo;
anzi
crediamo che i morti sieno morti
veramente e non vivi; e che colui ch’è
morto,nonsiapiú.
Ma se crediamo questo, perché lo
piangiamo? che compassione può
caderesopraunochenonèpiú?–Noi
piangiamoimorti,noncomemorti,ma
come stati vivi; piangiamo quella
persona che fu viva, che vivendo ci fu
cara, e la piangiamo perché ha cessato
divivere,perchéoranonviveenonè.
Ci duole, non che egli soffra ora cosa
alcuna, ma che egli abbia sofferta
quest’ultima e irreparabile disgrazia
(secondonoi)diesserprivatodellavita
e dell’essere. Questa disgrazia
accadutagli è la causa e il soggetto
della nostra compassione e del nostro
pianto. Quanto è al presente, noi
piangiamolasuamemoria,nonlui.
In verità se noi vorremo
accuratamenteesaminarequellochenoi
proviamo, quel che passa nell’animo
nostro, in occasion della morte di
qualche nostro caro; troveremo che il
pensiero che principalmente ci
commuove, è questo: egli è stato, egli
non è piú, io non lo vedrò piú. E qui
ricorriamo colla mente le cose, le
azioni,leabitudini,chesonopassatetra
il morto e noi; e il dir tra noi stessi:
queste cose sono passate; non saranno
maipiú;cifapiangere.Nelqualpianto,
e nei quali pensieri, ha luogo ancora e
parte non piccola, un ritorno sopra noi
medesimi, e un sentimento della nostra
caducità (non però egoistico), che ci
attristadolcementeec’intenerisce.
Il pensiero – annotato
nell’anno stesso del Dialogo
di Plotino e di Porfirio –
contesta
la
fede
nell’immortalità dell’anima,
ma non è questo lo scopo
primario. Certo chi possiede
il dono della fede religiosa
non dovrebbe piangere i
morti. Ma non è il caso di
Leopardi. La sua certezza
della nullità delle cose è
fermamente acquisita, salda,
irremovibile e dice che
l’animaèmortale,chelavita
è male e patimento, che
soltantolamorterecariposoe
quiete (l’eterna «quiete del
sonno»: Cantico del gallo
silvestre,par.11).Anchetale
credo laico e materialistico
dovrebbe escludere, a rigore,
la commozione per i defunti.
Perché allora si piangono,
perché il poeta li piange? La
sua filosofia della negatività
integrale non s’incrina, ma
proprio
da
questo
fondamento, dalla ferma
convinzione della mortalità
assoluta di ogni vivente,
discende l’angoscia d’una
frattura
irrimediabile
e
insieme
scaturisce
un
sentimento
nuovo
di
valorizzazione della vita
come«bene»(«rifassiilgusto
allavita»:DialogodiPlotino
ediPorfirio,par.58),nonsul
piano razionale («senza
ragionare;
avanti
il
ragionamento, e mal grado
della ragione»; «seguendo un
sentimento intimo, e senza
ragionare»; «pur senza
ragionare, e in dispetto della
ragione»), ma affettivo. I
moti del cuore stanno per
ridestarsi dal loro «duro […]
sopor» (Il risorgimento, v.
64).
La
consapevolezza
materialistica della morte,
comedefinitivacancellazione
dell’essere, riscatta l’essere e
lavita,realtàluminosa,labile,
fuggitiva: non piú la vita
guardata dalla sponda dei
trapassati, dal versante del
non-ricordo, come nel Coro
di morti che apre il Dialogo
di Federico Ruysch e delle
sue mummie («Che fu quel
punto acerbo / che di vita
ebbenome?»,vv.21-22),ma
la vita vivente e vissuta.
Anche in Pascoli ritornano i
morti (da La tovaglia a La
tessitrice a Casa mia), ma
irradiano nell’aldiqua una
smarrita e funebre ansia di
lutto. In Leopardi ritornano e
non sono piú morti ma «stati
vivi» (se ne ricorderà
Pirandello con I pensionati
della memoria), in una sorta
quasi di rivincita della vita
sulla morte. Di qui la
riattualizzazione nel ricordo
(avverrà in ASilvia) del loro
esistere
quotidiano,
il
ricorrere con la mente alle
«cose», alle «azioni», alle
«abitudini» di un tempo
passato e sapere che «non
saranno mai piú». Da una
simile condizione interiore il
«risorgimento» del 1828 trae
la poetica della rimembranza
e la coscienza della «nostra
caducità».
Infine, il quarto passo,
che potremmo definire della
“duplicità del mondo” (Zib.
4418,30novembre1828):
All’uomo sensibile e immaginoso, che
viva,comeiosonovissutograntempo,
sentendo di continuo ed immaginando,
il mondo e gli oggetti sono in certo
modo doppi. Egli vedrà con gli occhi
una torre, una campagna; udrà cogli
orecchiunsuonod’unacampana;enel
tempostessocoll’immaginazionevedrà
un’altra torre, un’altra campagna, udrà
un altro suono. In questo secondo
genere di obbietti sta tutto il bello e il
piacevole delle cose. Trista quella vita
(edèpurtalelavitacomunemente)che
nonvede,nonode,nonsentesenonche
oggetti semplici, quelli soli di cui gli
occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti
ricevonolasensazione.
L’aspetto
immaginativomemoriale-fantasticovisionario, che si sovrappone
all’aspetto
fenomenicocronachistico, ha la virtú di
conferireagli«oggetti»ealle
figure umane (come Silvia e
Nerina)
un
significato
emblematiconuovoeintenso,
perché
evoca
valori
fantasticati, lontani e perduti.
L’immaginazione ricrea le
«cose», riesce a “cangiare” il
mondo: «e come al guardo
mio / cangiato il mondo
appar?» (Il risorgimento, vv.
103-4).
Dalla
realtà
fenomenica del presente,
drammaticamente
segnata
dalla coscienza del dolore, si
libera
un’altra
realtà
immaginata,
capace
di
comunicare«tuttoilbelloeil
piacevole delle cose». Si
acuiscelacapacitàdiscoprire
edicreareun“altrove”felice,
fatto esistere per pura forza
visionario-evocativa.Tuttavia
il peso del presente doloroso
non
si
annulla.
L’immaginazione ricrea il
mondo, ma al tempo stesso
mette in moto il sentimento
del tempo, la consapevolezza
della caduta delle illusioni:
l’esito è un incanto intriso di
pathos e di strazio. Il passo
citato
dello
Zibaldone
illumina non solo l’energia
immaginativa e memoriale
che distingue i canti pisanorecanatesi, ma anche rende
conto della tensione che ne
movimental’internadinamica
strutturale.
1. E. MONTALE, Ossi di seppia, I
limoni, v. 46: «e il gelo del cuore si
sfa». Bisogna avere visto in faccia la
nullità delle cose anche per apprezzare
ilgiallodeilimoni.
2. Cfr. E. BIGI, Dalle ‘Operette
morali’ai«grandiidilli»(1963),inID.,
La genesi del ‘Canto notturno’ e altri
studi sul Leopardi, Palermo, Manfredi,
1967,pp.81-112.
XIV
IL
«RISORGIMENTO»
EICANTIDEL1831
1.LARIPRESAPOETICA
La
ripresa
poetica
nell’aprile pisano del 1828 –
appena
conclusa
l’immersione con relativo
«assaporamento»1
nella
galleria lirica della seconda
Crestomazia–segnaunadata
capitale. Il tempo delle
Operette, annunciato nel
settembre1823dallararefatta
stilizzazione immaginativa di
Alla sua donna, è stato
scandito nell’agosto 1824
dall’eccezionale Coro di
morti, siderale poesia del
nulla e insieme annullamento
dellapoesia,pois’èproiettato
nel marzo 1826 nella densità
ragionativa dell’epistola Al
Conte Carlo Pepoli: due
intermittenti bagliori del
verso entro il sistema della
prosa, entro il circuito
dell’analitica investigazione
delvero.
Ora,
nell’invernoprimavera del 1828, qualche
anello di quel sistema si è
spezzato:
La privazione di ogni speranza,
succeduta al mio primo ingresso nel
mondo, appoco appoco fu causa di
spegnere in me quasi ogni desiderio.
Ora,perlecircostanzemutate,risortala
speranza, io mi trovo nella strana
situazione di aver molta piú speranza
che desiderio, e piú speranze che
desiderii[…].2
Uno de’ maggiori frutti che io mi
propongo e spero da’ miei versi, è che
essi riscaldino la mia vecchiezza col
calore della mia gioventú; è di
assaporarli in quella età, e provar
qualche reliquia de’ miei sentimenti
passati, messa quivi entro, per
conservarla e darle durata, quasi in
deposito; […] oltre la rimembranza, il
riflettere sopra quello ch’io fui, e
paragonarmimecomedesimo;einfine
il piacere che si prova in gustare e
apprezzare i propri lavori, e
contemplaredasecompiacendosene,le
bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione,
che di aver fatta una cosa bella al
mondo; sia essa o non sia conosciuta
pertaledaaltrui[…].3
hoquiinPisaunacertastradadeliziosa,
che io chiamo Via delle rimembranze:
là vo a passeggiare quando voglio
sognare a occhi aperti. Vi assicuro che
inmateriad’immaginazioni,miparedi
essertornatoalmiobuontempoantico
[…].4
ho finita ormai la Crestomazia poetica:
e dopo due anni, ho fatto dei versi
quest’Aprile; ma versi veramente
all’antica, e con quel mio cuore d’una
volta.5
Il materialismo rimane saldo,
come l’ossessione del nulla:
cambia però quell’assetto
degli
equilibri
tra
consapevolezza del vero e
illusioni che ha generato
scintille anche nella prosa
delle Operette. La negatività
pessimistica, filosofica e
civile, resta tale e quale. Ma
proprio la sua avvenuta
decantazione, il suo transito
da conoscenza a persuasione
interiorizzata,aiutanoacapire
il «risorgimento» del 1828.
Ora quella cognizione critica
(che nelle Operette sprigiona
soprassalti fantastici) non
occupa piú il primo piano
della ribalta; è un dato
acquisito che non chiede di
essere dimostrato. Giace al
fondo, inamovibile. Quel
disperato bifrontismo delle
Operette sussiste inalterato,
ribaltato però di segno,
perché dinanzi all’arido vero
non solo si ridestano i moti
del cuore, ma invadono la
scena.
Una significativa tappa
d’avvicinamento al disgelo
del1828trasparedalleparole
di Plotino nel Dialogo di
Plotino e di Porfirio (parr.
58-59)del1827:
E credi a me, che non è fastidio della
vita, non disperazione, non senso della
nullità delle cose, della vanità delle
cure, della solitudine dell’uomo; non
odio del mondo e di se medesimo; che
possa durare assai: benché queste
disposizioni
dell’animo
sieno
ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato
un poco di tempo; mutata leggermente
ladisposiziondelcorpo;apocoapoco;
espessevolteinunsubito,percagioni
menomissime e appena possibili a
notare;rifassiilgustoallavita,nasceor
questa or quella speranza nuova, e le
cose umane ripigliano quella loro
apparenza, e mostransi non indegne di
qualche
cura;
non
veramente
all’intelletto;masí,permododidire,al
sensodell’animo.Eciòbastaall’effetto
di fare che la persona, quantunque ben
conoscente e persuasa della verità,
nondimenoamalgradodellaragione,e
perseveri nella vita, e proceda in essa
come fanno gli altri: perché quel tal
senso(sipuòdire),enonl’intelletto,è
quellochecigoverna.
La«disperazione»,la«nullità
delle cose», la «vanità delle
cure» sono riconosciute
«ragionevolissime».
Nondimeno, spesse volte
d’un tratto e per cause quasi
impercettibili (si noti il
superlativo di un superlativo:
«menomissime»), rinasce «il
gusto alla vita» e le cose
umanesimostranomeritevoli
diattenzione:«nonveramente
all’intelletto»,chelesavane,
«ma sí, per modo di dire, al
senso dell’animo». Il «per
modo di dire» suggerisce la
difficoltà di definire questa
facoltà intuitiva («senso
dell’animo») che è interiore
persuasione6 e intreccia
memoria,
pensiero,
immaginazione, affetti. Non
si tratta di antitesi tra
intelletto e sentimento.
Soltanto al cospetto di quella
«nullità delle cose» indagata
nelle Operette, e soltanto
dopoquelviaggionelnulla,il
cuoreconquistalacapacitàdi
creare, esilissimi e duraturi, i
propri miti. Il deserto della
negatività rende ora piú
prezioso, piú acuto e dolce il
sapore raro (concretissimo e
labile) delle illusioni, piú
vivida la loro luminosa
parvenza. La lingua della
prosa, capace di svelare il
voltovanodellecose,cedeil
campo a un’altra lingua,
capaced’intonarelavocedel
sogno:7 la poesia è tanto piú
liricamente assoluta e libera
(dalla tradizione propria e
altrui), limpida, melodica e
senza scorie, quanto piú
l’ascolto attentissimo delle
«immaginazioni belle e
felici» (Timandro, par. 39) è
consapevole
della
loro
fugacità.
Siamo alla splendida
stagione dei canti pisanorecanatesi del 1828-’30.
Dopo il tenue preludio dello
Scherzo8 (Pisa, 15 febbraio
1828) e dopo l’esultanza
piena di stupore – omaggio
neoarcadico, ma insieme
dolenteelucidaautobiografia
–
consegnata
a
Il
risorgimento (Pisa, 7-13
aprile 1828), ecco A Silvia
(Pisa,19-20aprile1828),che
inaugura non per nulla la
struttura metrica inedita della
“canzone
libera”
–
variamente intrecciata di
endecasillabi e settenari in
lasse mutevoli di numero e
misura –, esito ultimo di un
laborioso
processo
sperimentale,9
poi
Le
ricordanze (Recanati, 26
agosto-12 settembre 1829),
La quiete dopo la tempesta
(ivi,17-20settembre1829),Il
sabato del villaggio (ivi,
terminato il 29 settembre
1829), Canto notturno di un
pastoreerrantedell’Asia(ivi,
22 ottobre 1829-9 aprile
1830).
Non rinasce la speranza
(«Ahidellaspemeilviso/io
non vedrò mai piú»: Il
risorgimento, vv. 107-8): la
«risorta […] speranza», nel
passo sopra citato dallo
Zibaldone(comela«speranza
nuova» del Plotino), è la
«virtú nova» (v. 83) di
sentire, immaginare, vivere,
amare, «sognare a occhi
aperti». Quel «mio buon
tempo antico», quel «mio
cuore d’una volta» (nelle
lettereaPaolina)rinvianoagli
idilli del 1819-’21. Non
soltanto sono lontani (com’è
ovvio)iltumultoconcettuale,
l’impeto storico-civile, il
bagaglio mitologico-erudito,
il classicismo ardimentoso
delle canzoni, bensí anche è
trascesa la misura degli idilli
giovanili: l’io lirico racconta
(come
allora)
private
«avventure» interiori, ma
iscritteneldiagrammadiuna
condizione collettiva (allora
sconosciuta) e modulate con
l’accorata solidarietà che
spetta a una sofferenza
comune; soprattutto s’è
approfonditoilsentimentodel
tempo,loscartotrailpassato
della «verde etade» (La sera
del dí di festa, v. 24) e l’età
adulta, quindi cittadinanza
onoraria
spetta
alla
memoria,10 alla rivisitazione
evocativa delle antiche
illusioni.
Gliattestatisoprariferiti–
dalloZibaldoneedallelettere
alla sorella – dicono almeno
tre cose importanti: che la
nuova lirica recupera e
sviluppa la poetica della
«rimembranza»,
assunta
come
distanziamento
prospettico nel ricordo dei
«dolcisogni»diuntempo(Le
ricordanze, v. 20); che le
successive sequenze («il
riflettere sopra quello ch’io
fui») s’intrecciano come
tappe e capitoli di una
«storia»
autobiografica,
primo annuncio del prossimo
ordinamento nel 1831 dei
Canti (straordinaria variante
lirica del romanzo Storia di
un’anima, rimasto nel limbo
dei «castelli in aria»);11
infine, che l’assoluto della
perfezioneformalecustodisce
gelosamente in sé il valore
della propria autosufficienza,
come
«piacere»
e
compiacimento
e
«soddisfazione» per «aver
fatta una cosa bella al
mondo»: «sia essa o non sia
conosciutapertaledaaltrui».
2.ILRISORGIMENTO,ASILVIA,
LERICORDANZE
Sispiegadunqueperchéil
«risorgimento»
sia
annunciato, il 15 febbraio
1828,
dalla
polemica
denuncia,
in
modi
epigrammaticamente
scherzosi, contro il lassismo
formale della letteratura
moderna. Tale è appunto lo
Scherzo,
che
lamenta
l’abbandono
dell’oraziano
labor limae e perciò attesta
l’inattualità rivoluzionaria di
quellaperfezioneespressiva12
cheilpoetadeiCanti,alpari
degli antichi, persegue come
valore assoluto, dinanzi a un
costume contemporaneo che
vedemancare«nonpossodir
l’uso, ma la memoria delle
virtú dello stile» (Pensieri,
LIX).13
La materia autobiografica
scandisce,
con
linea
ascendente, un tracciato di
progressiva intensificazione
memoriale, attraverso Il
risorgimento, A Silvia, Le
ricordanze.Ilprimoèiltesto
che, dopo un lungo silenzio,
annuncia con commossa
stupefazionelarisortafacoltà
di canto, il «risorgimento»
ovvero la rinascita del
«cuore». E il senso di
meravigliata sorpresa súbito
trapela dall’intonazione della
voce, dal metro melodico e
fortemente cadenzato della
canzonetta settecentesca, un
unicumnell’interacompagine
dei Canti (esempio prossimo
Il brindisi di Parini, incluso
nellaCrestomaziapoeticacon
il titolo L’età provetta).14
Sono venti strofette di otto
settenari (doppie quartine),
sdruccioliilprimoeilquinto
(a inizio di quartina), tronchi
inrimailquartoel’ottavo(a
conclusione di quartina),
pianiarimabaciatanelledue
coppie mediane, secondo lo
schema:abbc / deec, dove la
rimacservedalegamentotra
i due periodi ritmici: una
musica “allegra” che, prima
di
essere
mezzo
d’espressione, è essa stessa
sostanza espressiva. Ha
pesatoepesasuquestocanto
il giudizio limitativo di
Giuseppe De Robertis:
«Leopardiebbefrettaqui,col
rinascergli dell’affetto, di
attuar musica prima d’averla
trovata».15 Ma non si tratta
d’istituire confronti di valore
con componimenti che
sarebbero stati scritti in
séguito; piú importa invece
rilevare l’eccezionalità di
questa lirica che ha sí timbro
e taglio programmatici, ma
che in pari tempo ha trovato
la sua «musica» e anzi l’ha
perfettamente bilanciata su
due piani: la storia interiore
dell’io e la radiografia del
«cuore», da una parte;
dall’altra, la resa stupefatta
(«si maraviglia il sen», v.
148) della «virtú nova» (v.
83)
che
l’io
sente
rigermogliata. Autobiografia
intima
e
riflessione
interrogativa sulla genesi e
sui modi della rinascita;
poesia e insieme metapoesia:
non solo Il risorgimento
segna una svolta capitale
nellacarrieraleopardiana,ma
a questa svolta dà il sigillo
sicuro
dell’autonomia
creativa.
Le venti strofette si
dividono in due parti
equivalenti, di ottanta versi
ciascuna. La prima, nella
sezione iniziale (vv. 1-40),
ricostruisce le tappe del
gradualeinaridirsidei«teneri
/motidelcorprofondo»(vv.
5-6),dallacrisidel1819(«sul
fior degli anni», v. 2)
all’incupimento pessimistico
attestato dalle Operette («Fra
poco in me quest’ultimo /
dolore anco fu spento», vv.
33-34).Ilcuore,interlocutore
privilegiato e protagonista
della“resurrezione”,èparolachiave che ritorna dieci volte
(vv.6,11,28,40,48,78,88,
99, 106, 149) e tocca via via
il culmine negativo al v. 11
(«cor gelato») e ai vv. 39-40
(«quasi perduto e morto, / il
cor s’abbandonò»). Al gelo
interiorefaeco,nellasezione
secondadellaprimaparte(vv.
41-80), la serie delle
occasioni perdute, degli
oggettipoetabilirimastiinerti
dinanziall’impassibilearidità
sentimentale(la«rondinella»,
v. 45; le voci e le luci del
vespero; i dolci sguardi
d’amore e il contatto con
«candida ignuda mano», v.
62):imodulideltradizionale
repertorio arcadico sono
funzionalizzati in negativo
nella tensione di un
autoritratto
storico-critico,
sono reinvestiti come motivi
poetici virtuali lasciati spogli
disignificato.
La situazione nuova della
seconda parte sopraggiunge
improvvisa con lo scatto,
quasi il tumulto, di cinque
interrogative (vv. 81-92), poi
incalzate, dopo una breve
pausa, da altre due (vv. 1014). Il gelo e lo stato di
sonnambulismo
emotivo
(«grave,immemore/quiete»,
vv. 81-82) si sono dissolti,
dinanzi a «Moti soavi» (v.
85), «palpiti» (v. 86),
«affetti» (v. 91) da cui
s’irradia quell’«unica / luce»
(vv. 89-90), quella rinata
capacità di commozione, che
rende vivibile la vita. Le
interrogative non significano
soltanto meraviglia ma
esaltano anche il potere di
questa «virtú nova» (v. 83)
che riesce a trasformare il
mondo, a dipingerlo di nuovi
colori:«ecomealguardomio
/ cangiato il mondo appar?»
(vv.
103-4,
che
è
l’interrogativa saliente, la
settima). Eppure, nel sistema
concettuale del pessimismo
materialistico,
nulla
è
cambiato. L’interrogativa dei
vv.105-6(«Forselaspeme,o
povero / mio cor, ti volse un
riso?») è diversa dalle sette
che precedono e introduce
invece l’ampia sezione (vv.
105-44) che ribadisce con
perentoria fermezza l’intatta
solidità
della
filosofia
negativa: il crollo della
speranza (cfr. vv. 107-8) che
harivelato«l’infaustaverità»
(v. 116); la concezione della
natura tale e quale s’è
palesataall’Islandese(cfr.vv.
121-24); la ferocia dei
rapporti sociali (cfr. vv. 12528);ladegradazioneculturale
delpresente(cfr.vv.129-32);
l’impossibilità
dell’amore
(vv. 133-44). Nulla è
cambiato. Nondimeno: «Pur
sento in me rivivere /
gl’inganni aperti e noti; / e
de’ suoi proprii moti / si
maraviglia il sen» (vv. 14548). L’io prende atto che,
nonostantetutto(«Pur…»),la
rinascitaèavvenutaeneresta
sorpreso. Il fatto è che non
basta appellarsi all’antitesi
cuoreragione.
Il
«risorgimento» presuppone
«l’infausta verità» (v. 116),
non per nulla distesamente
confermata nei vv. 105-44: i
«Moti soavi», i «palpiti», gli
«affetti»dellanuovastagione
leopardiana hanno come
condizione
e
antefatto
inevitabili la certezza della
nullità di tutte le cose. E la
non-rassegnazione del «cor»
dinanziatalecertezza.
Se Il risorgimento ha
timbro
e
piglio
programmatici, il canto A
Silvia, nato in due giorni a
distanza di una settimana,
offre di questa rinascita uno
dei frutti piú insigni. Si
articola in sei lasse di varia
misura (6, 8, 13, 12, 9, 15
vv.), ciascuna aperta da un
verso irrelato, normalmente
settenario (salvo che nella
quinta, introdotta da tre
endecasillabi), e chiusa
sempre da un settenario non
irrelato:allarimasiinterpone
un verso nelle lasse prima,
quarta e sesta; se ne
interpongono cinque nella
seconda; tre nella terza e
quinta. Le rime baciate,
ammesse soltanto all’interno
dilassa,sonosette:duenella
seconda (vv. 10-11, 12-13),
una nella terza (vv. 20-21),
tre nella quarta (vv. 29-30,
32-33, 35-36), una nella
quinta
(vv.
46-47).
Tematicamente
rilevante
l’ultima della quarta lassa
(«sventura»:
«natura»),
nonché la parola-chiave
«speme», l’unica che sia
replicata in rima entro lasse
diverse, nella quarta (vv. 3233)enellasesta(vv.55,58).
Lastrutturadeltestosiregge
su ben bilanciate simmetrie
interne.Assegnandoallelasse
prima e quarta – per numero
di versi una multipla
dell’altra
–
funzione,
rispettivamente,introduttivae
dicerniera,sidistinguonodue
parti, entrambe bipartite in
modo parallelo: la prima
dedicata
all’età
della
speranza, in Silvia (lassa
seconda) e nell’io del poeta
(lassa terza); la seconda
dedicataaldisinganno,conla
morte di Silvia (lassa quinta)
econlamortedellasperanza
nel poeta (lassa sesta). La
quarta, lassa-cerniera tra le
dueparti,constaditresezioni
tetrastiche: la prima (vv. 2831) condensa, con due
esclamative, l’incanto della
speranza; la seconda (vv. 3235) prende atto che l’incanto
sièspezzato;laterza(vv.3639) si rivolge, con due
interrogative, alla natura. La
chiave di volta, in un
meccanismo siffatto, sono i
vv. 32-35 – la sezione
centraledellalassa-cerniera–,
che scandiscono i due tempi
fondamentali del canto: l’età
favolosa e l’«apparir del
vero»(v.60),isognielaloro
smentita.
Due momenti antitetici.
La tensione tra il prima e il
dopo si fonda su uno dei
punti cardinali del pensiero
leopardiano: il desiderio di
felicità in ogni vivente,
ineliminabile per natura, e
l’altrettanto
per
natura
ineliminabile insoddisfazione
di questo desiderio, onde la
«contraddizione
spaventevole»16 da cui
muovono le drammatiche
interrogative dei vv. 36-39.
Concettualmente l’antitesi si
compendia
nella
rima
«sventura»: «natura». Non
altre cause di dolore
affliggono l’io (diversa cosa
sarà il Canto notturno): lo
tormentano la smentita della
speranza e dell’attesa, la
promessanonmantenuta(cfr.
vv. 37-38), l’inganno (cfr. v.
39). L’antitesi (o la
«contraddizione») non è
occasionale ma ubbidisce a
una legge ferrea. Di qui la
distanza dagli idilli giovanili,
dove il dolore è patito come
accidente
privato
e
rimediabile, non sofferto e
disperatamente contemplato
come inevitabile destino («la
sorte dell’umane genti», v.
39), senza effusività e senza
invettive. Proprio questo
nesso
inscindibile
tra
speranza e inganno, per cui
l’«apparir del vero» (v. 60) è
presupposto
fino
dall’antefatto,
conferisce
connotatiparticolarialritratto
di Silvia, evocata da una
memoria attualizzante che ha
il potere di renderla presente
e viva, nei tempi verbali
all’imperfetto durativo della
sua «vita mortale» (v. 2),17
insieme persona fisica e
creatura mitica, personaggio
terreno
e
intangibile
emblema, vagheggiato come
immagine simbolica per la
cruda
coscienza
della
repentina fugacità della sua
celeste apparizione (cfr. vv.
26-27)sullaterra.
La memoria attualizzante
–
messa
in
moto
dall’improvviso
vocativo
iniziale e dall’interrogazione
confidente che occupa per
intero la prima lassa, avviata
nelnomediSilviaeconclusa
conilsuoanagramma–vince
il tempo cronologico e crea
un tempo interiore, nel quale
la fanciulla defunta da dieci
anni18
risuscita
nella
concretezza
del
suo
quotidianoesistere.
Figura
umana
e
simbolica. Ridestata alla vita
dall’intensità di un ricordo
mai interrotto, splende ora
come allora nella bellezza e
nella gioia della sua
meravigliosa aspettativa di
felicità. Non bellezza ma
«beltà» (v. 3), come in Alla
sua donna (v. 1), senza
articolo che la determini,
assoluta,
da
autentico
attributo divino. Se ne
conoscono i tratti fisici e
tangibili, ma sono riferiti in
modo
cifrato,
emblematicamente allusivo:
gli«occhi»(v.4)ela«voce»
(v. 20), gli aspetti somatici
piú espressivi19 e incorporei,
che parlano il linguaggio
dell’interiorità.20 Canta e
tesse, intenta alle faccende
domestiche, ma ai vv. 5-6 il
suo passo ha una solennità
non terrena, «sí che par
descriverel’ascesaallasoglia
di un tempio».21 Il poeta
lascialepropriecarteeporge
realisticamente «gli orecchi»
(v.20)alsuonodellavocedi
lei, ma in un clima di
sospensione onirica, come
suggerisce
l’arcaica
e
indefinita
e
rallentata
stilizzazione del v. 19 («d’in
su i veroni del paterno
ostello»).Lafanciullacantae
non
parla;
la
sua
comunicazione avviene per
via
melodica,
come
unicamente si addice non a
ciò che lei è, ma a ciò che
significa: «un’idea d’angeli,
di paradiso, di divinità, di
felicità» (Zib. 4310, Firenze,
30 giugno 1828).22 La rende
straordinaria il fatto di non
essere la donna amata: «La
stessa divinità che noi vi
scorgiamo, ce ne rende in
certo modo alieni», ce la «fa
riguardar come da una sfera
diversa e superiore alla
nostra, a cui non possiamo
aspirare» (ibid.). E se ne va
prima che fiorisca la sua
giovinezza, in una vigilia di
festa(cfr.vv.42-48),nongià
prima
dell’esperienza
d’amore, ma prima delle
confidenze d’amore con le
amiche.
La storicità biografica è
implicita:il«maggio»(v.13)
e il «verno» (v. 40) sono il
maggio e l’inverno del 1818,
comeilsuccessivo«frapoco»
(v. 50) rinvia alla crisi del
1819. Ma anche il calendario
si converte in età favolosa,
come
si
smaterializza
l’ambiente circostante, «le
quiete / stanze (vv. 7-8), «le
vie dintorno» (v. 8), «il ciel
sereno»(v.23),«leviedorate
e gli orti» (v. 24), «il mar»,
«il monte» (v. 25): interni ed
esterni recanatesi, eppure
luoghi di una mitica infanzia
dell’umanità. La dosatissima
miscela di «usuale» e
«pellegrino» (Zib. 1324, 14
luglio 1821) disegna oggetti,
figure, situazioni determinate
che hanno l’incanto di un
mondo mitico e intatto, tanto
piú aereo quanto piú
consapevolmente labile e
fragilissimo, al pari di Silvia
(«tenerella», v. 42), e
fuggitivo come i suoi occhi:
schivi e assorti, ma insieme
aperti su una realtà che sta
per dileguarsi, insidiata da
un’incrinatura sottile che ne
rivela la precarietà (tale il
«mortale» del v. 2 e il
«pensosa»
nell’endiadiossimorodelv.5).
La particolare fattura
della prima parte presuppone
laseconda–unitecomesono
da un nesso di necessaria
complementarietà
che
ritroveremoinLaquietedopo
la tempesta e Il sabato del
villaggio –, dove continua
(vv. 52 sgg.) il colloquiomonologodell’ioconun«tu»
femminile – oggetto della
medesima
affabile
naturalezza dei versi che
precedono –, con una «cara
compagna»(v.54)chenonè
piúSilviamal’essenzadilei,
la speranza giovanile. Non
allegorismo o astrazione, ma
graduale sviluppo della
componente simbolica di
Silvia, con il risultato però
che anche la «lacrimata
speme» (v. 55) s’intreccia a
sua volta alla componente
terrena
della
fanciulla
bifronte,
onde
può
concretizzarsi, umanizzarsi
nella «cara compagna» e
nellasuafisicagestualità(«la
mano», v. 61). Il crollo della
speranza toglie alla vita il
velo illusorio delle belle
apparenze e mostra il volto
funereo della realtà, una
tomba spoglia e una morte
non consolatrice. Tanto
l’incipit è luminoso quanto
cereo l’epilogo, in un testo a
struttura chiusa, scandito da
trapassi rapidi, stringenti,
«quasi
uno
schizzo
lampeggiato lí per lí alla
menteegittatosullacarta».23
Struttura
chiusa
ma
virtualmente ciclica, perché
daultimonullaimpedisceche
di nuovo scatti la memoria
attualizzante e riprenda il
colloquio-monologo iniziale.
La forma impersonale di
«sovviemmi»
(v.
32:
«Quando sovviemmi di
cotantaspeme»)chenell’ioil
processo del ricordo, capace
di riportare in vita i miti
perduti, è spontaneo e
improvviso, connaturato al
suoessere,tantoforteèinfatti
nel poeta l’intrepida nonrassegnazione di fronte
all’«apparir del vero» (v.
60).24
Le ricordanze, il primo
dei canti nati nell’ultimo
soggiorno di Recanati, dopo
unintervallodisedicimesida
A Silvia, sono composte in
pocopiúdiquindicigiorni.Il
testo, in endecasillabi sciolti
come gli idilli, si snoda in
settelassenontuttedisuguali
(27, 22, 27, 27, 15, 17, 38
vv.): pressoché costante è la
misura delle prime quattro,
poilaridottaestensionedella
quintaedellasestapreparalo
slancio dell’ultima (con la
figura di Nerina). Nelle lasse
dispariprevaleilricordodella
giovinezza, nelle lasse pari
(con eccezione però della
sesta) «la tristezza della vita
presente,dopoildisingannoe
la morte delle speranze».25Il
titolo
rilancia
quello
originario (La ricordanza)26
di Allaluna e il passaggio al
plurale dice che i ricordi si
affollano,
non
durano
l’emozione di un istante ma
s’intrecciano in una sorta di
«enciclopedia»27memoriale.
Il confronto con l’idillio
giovanileaiutaacapireilpiú
complessoimpiantodelcanto
einsiemeladiversafunzione
lirico-drammaticadelricordo,
in
componimenti
che
prendono l’avvio entrambi
con
un’invocazionecontemplazione del cielo
notturno («O graziosa luna
…»; «Vaghe stelle dell’Orsa
…»).Nell’idilliodidiecianni
prima il ricordo ha funzione
edonistica e consolante, in
quantoallontanamentodauna
realtà di sofferenza; convive
con il «dolore» (v. 12) e
«l’affanno» (v. 16), ma
giunge nondimeno gradito e
dàconforto,perchésmorzala
consapevolezza del presente,
implica fiducia nell’avvenire
elascialuogoallasperanza–
come
provvede
poi
retrospettivamente
a
precisare,
con
effetto
storicizzante, il tardo inserto
deivv.13-14–.Orailricordo
non giunge gradito ma
crudele
(«rimembranza
acerba», v. 173), perché non
si separa dalla disperata
coscienza dell’oggi, senza
luce di speranza, e proprio il
radicamento
ineludibile
all’infelicità attuale colora
d’inedita suggestione la
rievocazionedelpassatoene
acuisceilrimpianto.28Daqui
la brevità di Alla luna, flash
di un’emozione repentina, e
viceversa il ritmo poematico
di Le ricordanze, autentico
“romanzo”
autobiografico
oscillante tra ora e allora, sí
che il flusso dei ricordi
procedemovimentato,ampio,
ininterrotto.
Anche in A Silvia la
rivisitazione del passato
sottintende
il
dramma
dell’oggi, ma la memoria
attualizzante rigenera in un
istante mentale l’incanto dei
sogni
svaniti,
e
a
quell’incanto
conferisce
l’intattaefavolosalucentezza
del mito, tanto che nella
prima parte il presente pare
dimenticato, svanito: la
facoltà rigeneratrice ha
respirointensoeveloce,onde
il passo rapido del testo a
struttura chiusa. Invece la
«ricordanza» funziona da
memoria dinamica, mai
staccata
dal
presente,
costantemente bilanciata tra
oraeallora,sempreimpastata
di acerbità e di dolcezza, di
affannoedielegia,inuntesto
a struttura aperta che conta
centosettantatréendecasillabi,
ma che è in effetti la «storia
di un’anima». Le due parti
distinte di A Silvia qui si
intersecano in un amalgama,
intriso di screziature e
trasalimenti,
che
ha
l’andamento di un racconto.
Nella casa di Recanati lo
sguardo cade su cose,
immagini,situazionichesono
abituali e ognuna ridesta con
trapassi
improvvisi
il
significato di una volta,
fantasticato
alla
luce
dell’oggi; ma il tempo
lontano non si ricrea in una
limpida sospensione di fiaba,
bensí riverbera il suo fascino
sempreunitoaunanotaacuta
di
angoscia.
L’io
autobiografico, che consegna
l’autoanalisi a una trama
tanto esile di fatti quanto
vibrante di moti affettivi, si
apparenta all’io protagonista
dellaStoriadiun’anima:
nonintendonarraresenonseicasidel
mio spirito, e anche non ho al mio
racconto altra materia, perocché nella
miavitaniunrivolgimentodifortunaho
sperimentato fin qui, e niuno accidente
estrinseco diverso dall’ordinario né
degno per se di menzione. Né pure i
casi che narrerò del mio spirito, credo
già che sieno né debbano parere
straordinari; ma pure con tutto questo
mipersuadocheagliuomininondebba
essere discara né forse anche inutile
questamiastoria,nonessendonésenza
piacere né senza frutto l’intendere […]
le intime vicende di un qualsivoglia
animoumano.29
Che il progetto narrativo,
avviato nel 1825, sia sempre
presente alla mente di
Giacomo, lo mostra la lettera
a Colletta del marzo 1829:
«Storia
di
un’anima,
Romanzo che avrebbe poche
avventure estrinseche e
queste sarebbero delle piú
ordinarie: ma racconterebbe
le vicende interne di un
animo nobile e tenero, dal
tempo delle sue prime
ricordanze,
fino
alla
morte».30 La caduta delle
illusioni e delle speranze, di
fronte
alla
vanità
dell’esistere:talelasummadi
«questa mia storia» –
intessuta dei «casi» non
straordinari del «mio spirito»
e delle sue «intime vicende»
– che Le ricordanze
s’incaricano di raccontare
liricamente con i modi di un
diffusomonologointeriore,di
un pacato ragionare dell’io
consestesso.
La prima lassa ricrea
l’incantodi«allora»(v.9),la
stupefacente
suggestione
immaginativa dell’«arcana /
felicità»
(vv.
23-24)
vagheggiata
nella
fanciullezza: e quei «pensieri
immensi» (v. 19), come quei
«dolci sogni» (v. 20), sono
incorniciati dalla coscienza
amara dell’oggi (vv. 6, 2527), dal contrappunto di una
«vitadolorosaenuda»(v.26)
quale Giacomo – nel periodo
stesso di composizione del
canto
–
descrive
in
confidenze
epistolari:
«Condannato per mancanza
di mezzi a quest’orribile e
detestata dimora, e già morto
ad ogni godimento e ad ogni
speranza, non vivo che per
patire, e non invoco che il
riposo del sepolcro».31 La
seconda lassa introduce un
forte scarto tonale rispetto ai
sognidi«untempo»(v.7)ed
è lassa fondamentale perché
illustra la condizione del
presente,lostatodisolitudine
desolata su cui s’innesta la
memoria e da cui quindi
fiorisce per antitesi, con
istantaneevividechesoltanto
la disperazione sa dettare, la
magica
e
illusoria
trepidazione del passato.
Ritorna con la terza lassa
l’estasiata musica iniziale ed
èquichesichiarisce(vv.5560)
la
tipologia
–
virtualmente narrativa – del
«rimembrar»(v.57)messoin
atto nel canto: non piú il
ricordo«Dolceperse»(v.58)
di Alla luna, né la memoria
attualizzante di A Silvia, ma
un«dolcerimembrar»(v.57)
sempre commisto «con
dolor»(v.58)al«pensierdel
presente» (v. 59): dolci
ricordi
dolorosi,
dolci
memorie di un passato
irrevocabile rivissuto con
strazio.
Il crollo delle speranze,
tema sotteso fino dai primi
versi, si palesa in apertura
della lassa centrale, la quarta
(«O speranze, speranze …»,
v. 77), che è la sezione
cardine perché mette a punto
il presupposto concettuale
della lirica (vv. 81-87),32
ovveroquellacoscienzadella
vita come «inutile miseria»
(v. 84) che rende conto della
disperazione presente. Ora
non per nulla si precisa un
altro e determinante attributo
di
questo
meccanismo
memoriale:
la
sua
inevitabilità; l’oblio infatti
porterebbe quiete interiore,
tuttaviale«speranze»perdute
sonoridestatedalricordoper
intima e autonoma necessità,
nonperscelta(«obbliarvinon
so», v. 81, e si veda anche il
nesso sintattico dei vv. 5557). L’inevitabilità della
memoria–cheespandeinun
continuum potenzialmente
senza fine la durata del
componimento – significa
energica non-rassegnazione
alla «vita dolorosa e nuda»
(v. 26) e alla negatività del
pessimismo
integrale
(«consolarmi non so del mio
destino», v. 94): un’energia
che alimenta, anche oltre Le
ricordanze, buona parte della
poesia
leopardiana.
La
lucidità diagnostica della vita
come«inutilemiseria»(v.84)
fa sí che per la prima volta,
entro il sistema dei Canti, la
morte appaia in accezione
risolutamente
positiva,
«invocata» (v. 95) come
estremo rifugio. La quarta
lassa si lega alla quinta
proprio sul motivo della
morte,«invocata»anchenella
fanciullezza,nell’etàlietadei
sogni, ma (il che resta
implicito) in una situazione
ben diversa dall’attuale:
allora, vivi ancora il «desio»
(v. 105) e «la speme» (v.
109), il desiderio della fine
aveva funzione terapeutica,
serviva a ridestare l’«affetto»
alla vita (cfr. Zib. 82, a cui
rinvianoivv.106-9),oraquel
desiderio discende dalla
disincantata cognizione del
vero; un’analoga, radicale
differenza separa il «funereo
canto» (v. 118) di allora
dall’«invocata morte» di
oggi.
Nonostante le «angosce»
(v. 105) degli anni giovanili,
ecco dunque riproposto e
rinnovato nella lassa sesta il
rimpianto del «primo entrar
di giovinezza» (v. 120), che
prelude alla sezione ultima e
culminantededicataaNerina,
non fanciulla-simbolo al pari
di Silvia, ma fanciulla amata
(«miodolceamor»,v.149)e
perciò piú tangibilmente
terrena. Se Silvia torna viva
come creazione istantanea di
un mito, Nerina torna come
stata viva (cfr. Zib. 4277-78,
9aprile1827)esuscitaacuto
lo strazio della sua assenza,
delsuononesserepiú.Silvia
appare in un tempo onirico
che attualizza il passato,
Nerina è rievocata in un
presente segnato per sempre
dal vuoto, dall’irrevocabilità
diquelpassato.Tuttoparladi
lei nel paese – e il «natio
borgo selvaggio», v. 30 si
ingentilisce e nobilita in
«Terranatal»,v.141–,dilei
assente, e «la ricordanza» (v.
139) del poeta le restituisce
fisionomia
e
carattere,
luminosità («lume / di
gioventú», vv. 155-56) e
leggerezza e gioia di esistere
(«Ivi danzando», v. 153), ma
è un lampo tanto piú
suggestivo quanto fugace,
come scandisce il funebre
«Passasti» quattro volte
ripetuto (vv. 149, 152, 169,
170):«unsimultaneoapparire
e sparire».33 Il ricordo non
cancella la frattura della
morte, anzi il martellare
ossessivo delle negative
(«non ti vede», v. 140; «non
odo», v. 144; «tu non ti
acconci piú, tu piú non
movi», v. 161; «per te non
torna / primavera giammai,
non torna amore», vv. 16465;«orpiúnongode;icampi
/ l’aria non mira», vv. 16869) certifica l’angoscia
irrimediabiledeldistaccoela
durata senza fine della
«rimembranza acerba» (v.
173).
3.LAQUIETEDOPOLA
TEMPESTA,ILSABATODEL
VILLAGGIO,CANTO
NOTTURNO
Dopo i primi tre
componimenti, il motivo
autobiografico gradualmente
si allenta, con linea
discendente, da La quiete
dopo la tempesta al Canto
notturno. Con La quiete,
avviata súbito dopo Le
ricordanze e rapidamente
compostainquattrogiorni,si
assiste – al pari del
successivo Il sabato del
villaggio–aunmutamentodi
rotta. Diversamente da Il
risorgimento, A Silvia e Le
ricordanze, il testo non si
articola
sul
rapporto
strutturale tra presente e
passato, bensí tra cronaca e
destino, tra due diversi e
antitetici aspetti del presente:
quello particolare, fugace,
illusorio di una giornata
recanatese
e
quello
universale,
duraturo,
permanente
dell’effettiva
condizione umana. L’uno
trova espressione in modi
figurativi, l’altro in modi
ragionativi. Nel contempo,
l’io del poeta, agente
protagonista fin qui del
processo memoriale tra ora e
allora, esce dalla ribalta e si
oggettivizza in un nitido
quadro di paese, in uno
spazio
storico-geografico
puntuale e circoscritto legato
alla personale esperienza del
soggetto poetante. Non per
nulla i titoli (La quiete e Il
sabato) sintetizzano un
momento determinato e
storicizzato
di
vita
borghigiana. L’io affiora
esplicito soltanto nella prima
persona verbale all’inizio del
v.2:«odo»(Laquiete)ealv.
50: «Altro dirti non vo’» (Il
sabato).
La
spersonalizzazione
è
funzionaleallapitturanettae
parlante
del
ritratto
ambientaledelvillaggio.
Nell’impianto strofico di
La quiete, scandito in tre
lasse di misura decrescente
(24, 17 e 13 vv.), si
distinguono due parti di
estensione
pressoché
equivalente: la prima – di
carattere
figurativo
–,
costituita dalla lassa iniziale
(vv. 1-24), si lega con un
nesso
di
stretta
complementarietà
alla
seconda – di carattere
ragionativo –, comprendente
le restanti due lasse (vv. 25-
54), tra loro congiunte dalla
rimadeivv.40-42.Essendoil
tema la vanità del piacere (v.
33: «gioia vana»), e piú in
generalel’ostilitàdellanatura
versolecreaturedaleistessa
generate, ne deriva che
propriolacognizionedelvero
illustrata nella seconda parte
serve a rendere piú vibranti
gli accenti di quella «gioia»
luminosa e illusoria – tanto
piú luminosa in quanto
illusoria – offerti in apertura.
La parte seconda aiuta a
leggere correttamente la
prima, la quale dà l’incanto
della vita risorta, ma
quest’incanto non esisterebbe
senzalapersuasionedellasua
eccezionalità.
IlpassodiZib.2601-2(7
agosto1822)èdisolitocitato
come antecedente diretto del
componimento:
leconvulsionideglielementiealtretali
cose che cagionano l’affanno e il male
deltimoreall’uomonaturaleocivile,e
parimente agli animali ec. le infermità,
e cent’altri mali inevitabili ai viventi,
anchenellostatoprimitivo,(iqualimali
benchéaccidentaliunoperuno,forseil
genere e l’università loro non è
accidentale) si riconoscono per
conducenti, e in certo modo necessarii
alla felicità dei viventi, e quindi con
ragione contenuti e collocati e ricevuti
nell’ordinenaturale,ilqualmiraintutti
i modi alla predetta felicità. E ciò non
solo perch’essi mali danno risalto ai
beni, e perché piú si gusta la sanità
dopo la malattia, e la calma dopo la
tempesta: ma perché senza essi mali, i
beninonsarebberoneppurbeniapoco
andare, venendo a noia, e non essendo
gustati,nésentiticomebeniepiaceri,e
non potendo la sensazione del piacere,
in quanto realmente piacevole, durar
lungotempo.
Ma qui ancora resiste il mito
della natura positiva, onde i
«mali» risultano necessari
allafelicità,siaperchédanno
risalto ai «beni» sia perché
distolgono
dai
«beni»
continui che produrrebbero
noia. Tutt’altro è invece il
senso della poesia. Non solo
quelmitoèsvanito,bensíora
l’«ordine naturale» mira «in
tutti i modi» e stabilire una
norma fondata sul dolore:
eccezione prodigiosa è la
«quiete».
Ilcherenderagionedella
particolare tessitura formale
della prima lassa, costruita
con un caratteristico impasto
di prosaicità realistica e di
stilizzazione
aulica
(procedimento analogo ma
nonequivalenteaquellodella
prima parte di A Silvia),
súbito
annunciato
dall’asimmetria sintattica34
delle
due
proposizioni
dipendenti rette da «odo» (v.
2): una all’infinito con
soggetto in accezione nobile
(«augelli»)
senza
la
determinazione dell’articolo;
l’altraespressaconsostantivo
fortemente colloquiale («la
gallina», unicum nei Canti,
con «la gallinella» in Lavita
solitaria, v. 3) seguíto da
frase relativa. Ma il nobile
«augelli» è bilanciato dal
discorsivo e metaforico «far
festa», cosí come il
colloquiale «gallina» è
attenuato, reso piú aereo,
dall’elegante e indeterminato
«insulavia».
Tra le occorrenze piú
vistose sul versante familiare
–
oltre
alla
lineare
scorrevolezza del ritmo
sintattico, punteggiato da un
duplice«Ecco»(vv.4e19)–
si includano almeno anche
l’«artigiano»(v.11,chehaun
suogemello,matronco,inLa
sera del dí di festa, v. 26),
l’«uscio» (v. 13, unicum nei
Canti), il «vien fuor» (v. 14,
maconduplicetroncamento).
Afiancosiregistrinoalmeno,
sul piano nobile degli
«augelli», il sintagma «a
prova» (v. 13), il singolare
categoriale «la femminetta»
(v. 14) uscita «a còr» (v. 14)
dell’acqua,nonchéla«piova»
(v. 15, unicum nei Canti di
controa«pioggia»di Lavita
solitaria,v.1,delFrammento
XXXVIII, v. 2, del Frammento
XXXIX,vv.47e63).Unsimile
impasto ottiene l’effetto d’un
quadro insieme realistico e
irreale, d’una pittura che ha
l’evanescente concretezza di
un sogno, di un miraggio.35
Taleèinfatti–lontanodaun
innocente descrittivismo –
questo rasserenamento del
dopotempesta che s’espande
per incanto nel paesaggio e
tra i personaggi del borgo,
fino a investire l’intero
creato: un ridente inno alla
vita, un prodigio miracoloso
(v. 49: «per mostro e
miracolo»). La tecnica della
sceneggiatura ottiene una
progressiva
dilatazione
spaziale e una progressiva
rifrazione luminosa che
assecondanol’effettosurreale
del miracolo: dapprima la
percezione
acustica
ravvicinata introdotta da
«odo» (v. 2); poi la
percezione visiva-coloristica
(«Ecco il sereno», v. 4) in
prospettiva aerea dall’alto al
basso («montagna», v. 5;
«campagna»,v.6;«valle»,v.
7);36 infine il Sole, che si
lascia attendere e appare
soltanto al v. 19 e porta
un’esplosionediluce.
Unmiracolofuggitivo.Si
osservi che al v. 1 la doppia
inversione (del predicato e
del
soggetto
rispetto
all’ordine grammaticale: “la
tempesta
è
passata”)
comporta una pausa ritmica
prima del soggetto e dà
pertanto emblematico rilievo
alla parola «tempesta»;
accentua la livida immagine,
ilpeso,lafataleincombenza,
l’inevitabilepermanenzadella
tempestanellavita;seguonoi
duepuntichealzanoilsipario
su un altro mondo rispetto
all’usuale, su uno spettacolo
d’aria e di luce, limpido e
terso, incantato. Ma quella
«tempesta»,inchiusuradelv.
1, non si dimentica e non
perdona.
La lassa seconda non
giunge inattesa, già implicita
nella filigrana espressiva
della prima. Infatti il v. 25 si
richiama con inversione al v.
8, a stabilire con quanto
precede un nesso di
continuità logico-esplicativa.
Dopoilraccordo,ivv.26-31
introducono una serie di
cinque interrogative che
valgono da lunga pausa
riflessiva, come eco del
“rallegrarsi”, per ridire e
soppesare la festa di quella
gioia, di quella lieta
trepidazione,perrifletteresul
senso (intenso e fugace) di
quelserenoediquelSole.
L’incipit della lassa (vv.
25-30) è legato in rima
incatenata e baciata, secondo
lo schema abbacC: anche
ritmicamente s’annuncia la
dissolvenza del miraggio.
L’enfasi delle interrogative,
stipate di iterazioni, esalta il
«Sirallegraognicore»(v.25)
e insieme, gradualmente, ne
rivela
l’inconsistenza:
dapprima la vita è definita
«dolce» e «gradita» (v. 26) e
da ultimo questa dolcezza
non in altro risiede che nella
dimenticanza dei «mali» (v.
31). Poi, dopo la dissonanza
delv.31chesegueirrelatola
serie in rima, il miraggio
sfuma con «Piacer figlio
d’affanno» (v. 32), settenario
appositivo e riepilogativo,
epigrafico e lapidario che
suona come risposta secca al
lungo indugio riflessivo dei
vv.26-31.Diquiinnanzi(vv.
34-41) la scena è dominata
dal turbine di quella
«tempesta»
rimasta
minacciosa in clausola del v.
1; a quel «Passata» rinvia il
«passato» del v. 34, ma è un
rapido passare e súbito la
norma riprende il suo statuto
usuale, naturale. Tale è la
realtà del vivere, tale la
regola.Lalassainizialenonè
stata che una sospensione
della pena (cfr. vv. 45-50) e
perciò è stata capace di
trasformare un semplice
episodio paesistico in evento
miracoloso,surreale.
Nello sconvolgimento di
cielo e terra dei vv. 34-41 si
mostra in azione la natura
dell’Islandese e l’umanità si
scopresgomenta,terrorizzata:
«le genti» (v. 39), appunto,
non i singoli individui ma la
collettività,
perché
il
«tormento» (v. 37) è di tutti.
La «gioia vana» si può
gustare individualmente, da
singolepersonenominateuna
a una (l’artigiano, la
femminetta, l’erbaiuol, il
passeggier). L’eccezione ha
unvolto,lanormaèanonima
egeneralizzata.Laterzalassa
si apre nel nome della
«natura»,giàvistainservizio
attivo, e l’ironia è pacata
(«cortese»,
v.
42),
amaramente asseverativa. Il
motivo dell’irrealtà del
piacere,della«gioiavana»,è
scandito in parole ferme che
rendono conto della fragilità
diquel«miracolo»cheperun
istante è fiorito nella prima
parte:
un
«miracolo»
incorniciatotrala«tempesta»
(v. 1) e la «morte» (v. 54, la
stessa «invocata» in Le
ricordanze, v. 95), qui
introdotta con funzione di
congedo come unica e vera
quietedopolatempesta.
Il sabato del villaggio,
composto dopo La quiete a
distanza di pochi giorni,
presenta un analogo respiro
compositivo, ma con una
diversa distribuzione della
materia, organizzata in
quattro lasse di varia misura
(30, 7, 5, 9 vv.). La parte
figurativa comprende le due
lasseiniziali(vv.1-30,31-37)
eperciò–aconfrontoconLa
quiete costituita da un
pressoché
equivalente
numerodiversi–questaparte
risulta piú ampia, mentre si
assottiglia quella ragionativa,
affidata alle due lasse finali
(vv. 38-51), che risultano
insieme
quantitativamente
parialdoppiodellasecondae
breve lassa che chiude la
primaparte.Neconsegueche
diventa piú scorciato e piú
ellittico
il
momento
riflessivo, fino alla reticenza
esplicita di «Altro dirti non
vo’»(v.50).
Il tema, tipicamente
leopardiano, è la vanità della
speranza, già presente in A
SilviaeLericordanze,maqui
la
speranza
non
è
appannaggio esclusivo della
giovinezza,
bensí
una
disposizioneinteriorecomune
aognietà,unmododiessere
«cosí inerente e inseparabile
dalsentimentodellavita,cioè
dalla vita propriamente detta,
come il pensiero, e come
l’amor di se stesso, e il
desiderio del proprio bene»
(Zib. 4145, 19 ottobre 1825):
un desiderio che si nutre
d’illusione,
appunto
l’«illusione della speranza»
(Zib. 4284, 1o luglio 1827).
Mentre però nelle note dello
Zibaldone
piú
importa
l’aspetto
negativo
del
disinganno, nella lirica
importa l’aspetto positivo
dell’illusione,
della
commossacompartecipazione
affettiva alla dolcezza della
speranza e del desiderio,
nell’attesa lieta della «festa»,
che non verrà (parola-chiave
cinque volte replicata: vv. 7,
12, 21; poi, con dissimulata
ombra di amarezza, 47, 50).
Perciò
il
momento
figurativoidillico si dilata
rispetto al piú conciso e
pacatodisvelamentodelvero,
che avviene senza scatti
esclamativi (diversamente da
A Silvia, vv. 52-55; Le
ricordanze, vv. 77-78; La
quiete, vv. 50-51), in modi
meno risentiti, piú distesi e
sereni. Il che comporta la
caratteristica unità ritmica e
melodica che distingue
l’intero canto, la sua tenuta
armonica, non chiaroscurata
da asprezze o dissonanze
tonali.
Il testo s’avvia con un
ritmo di danza, grazie alla
rima interna dei vv. 6-7
(«appresta»: «festa») che
rompe l’endecasillabo (v. 7)
inunsettenarioeunquinario,
per cui i vv. 5-7 «suonano
come un agile tetrastico di
canzonetta popolare a ballo,
che aiuta mirabilmente a
rappresentarciinimmaginela
frescaesnellafanciulla»;37la
tessitura fitta delle rime (due
triple nella lassa iniziale: vv.
2, 4, 5; vv. 9, 13, 15; ma
rimano anche i vv. 7-8, 16 e
19, 24 e 26, 27 e 29, nonché
conrimainternaivv.28e30;
poi in rima baciata i vv. 3132,conrimainternaivv.33e
35, 36 e 37) scandisce la
fluiditàsintatticachetrapassa
concontinuitàmelodicadalla
prima alla seconda parte,
come prova la struttura
metricadelleduelassefinali,
dove è occultata la presenza
di tre quartine a rime
incrociate(aivv.38-51,sesi
espungono i vv. 41 e 43,
irrelati, si ha lo schema:
AbbA.aBbACdDC).38
AncheIlsabatoripropone
l’impasto aulico/prosaico del
canto precedente, tra la
stilizzazione vistosa del
«mazzolindiroseediviole»
(v. 4), rilevata brillantemente
daPascoli,39elaquotidianità
del «fascio dell’erba» (v. 3),
ma non sta qui la chiave
distintiva del testo, bensí nel
gioco dei parallelismi e delle
antitesi che connota le
situazionieipersonaggidella
prima parte, sullo sfondo di
una
strepitosa
resa
ambientale-atmosferica del
tempo che lentamente scorre.
Situazioni e personaggi (la
donzelletta, la vecchierella, i
fanciulli, il bracciante, il
falegname) mostrano, alla
vigilia della festa, i differenti
volti
della
speranza
rappresentati nelle differenti
età della vita (giovinezza,
vecchiaia,
fanciullezza,
maturità),
in
differenti
momenti del sabato, tra il
tardopomeriggioelanotte.Il
variare infatti dei profili
umani è inciso nel graduale
trascolorare della luce nel
villaggio:daltramonto(vv.2
e 10) all’imbrunire della sera
primadicena(v.16),quando
la luminosità del giorno s’è
spenta e le ombre, diradate
duranteilcrepuscolo,tornano
al chiarore della luna appena
sorta (vv. 17-19),40 quasi in
uno
stupefatto,
«indescrivibile
mattutino
delle
tenebre»;41
poi
sopraggiungono la notte e la
silenziosa(v.33)oscuritàdel
dopocena.
Nell’estatica scansione
delle ore che passano
(tramonto, sera, notte), si
direbbe che venga celebrata,
nei suoi diversi aspetti, la
trepidazionedellasperanza.E
in effetti ciò accade, ma in
modo particolare. Si osservi
infatti che la sostanza
concettuale del canto (la
vanità della speranza e del
desiderio, l’inconsistenza del
piacere se non come
immaginazione)
è
già
implicitamente espressa nella
parte figurativa, intrecciata
alla gioia ariosa e sorridente
dell’attesa.
La «donzelletta» e la
«vecchierella» occupano le
primeduesceneesonofigure
opposte: una rivolta al
«dimani» (v. 7), l’altra al
passato; una dinamica, posta
a inizio di verso súbito
accompagnatadaunverbodi
moto, l’altra statica, in
clausola di verso, distanziata
dal verbo di stasi che le
compete («Siede», v. 8).
Figure emblematiche, come
rivelanoiparallelismiinterni:
«vien»(v.1)e«vien»(v.11);
«siccome suole» (v. 5) e
«solea» (v. 14); «ornare» (v.
6) e «ornava» (v. 12); «al dí
di festa» (v. 7) e «ai dí della
festa» (v. 12). Emblematiche
e antitetiche. Una impersona
la felicità della speranza,
nell’età
favolosa
della
speranza; l’altra il conforto
dei ricordi, mitizzati nella
memoria: la domenica è lieta
non nella realtà (cfr. vv. 4041), ma nell’aspettativa della
«donzelletta» e nel ricordo
della «vecchierella» che
abbellisce le cose lontane.
Personaggioserenoecordiale
anche la «vecchierella»,
perché illuminato dal ricordo
(con una lieve incrinatura
però al v. 10, quasi presagio
di morte),42 ma personaggio
che ha cancellato il desiderio
elasperanzaeogniillusione
di felicità, che non pensa al
domani né al presente e vive
nel passato. Il disinganno
della festa futura è già
annunciato:unabellafesta,se
mitizzatadalricordo.
Le prime due figure sono
separate dalle due successive
(ifanciullieilbracciante)da
unostaccopaesistico(vv.1623)
che,
esattamente
bilanciato su effetti cromatici
(vv. 16-19) e sonori (vv. 2023), da un lato avverte che il
soleètramontatoechecalail
sipariosullesceneprecedenti,
dall’altro anticipa il «lieto
romore» (v. 27) dei fanciulli,
la loro istintiva allegrezza.
Maquest’impulsogiocosodei
ragazzi che vivono nel
presente la letizia della
fanciullezza è smorzato dallo
«zappatore»(v.29),nonlieto
per la festa imminente, non
felice, ma tranquillo all’idea
del «riposo» (v. 30); non
canta come l’artigiano (La
quiete,v.12),fischia,mentre
senza espansione, tra sé e sé,
pensaaunintervallodellasua
fatica. La strofa, aperta con
ritmodidanza,sispengecon
un passo stanco e assorto, su
unanotadidisillusatristezza.
Il«Poi»(v.31)d’apertura
della
seconda
strofa
sottintende una lunga pausa
trailv.30eilv.31,durante
la quale cala la notte, la
piazzetta si spopola e nel
borgoinvasodalbuioscende
il silenzio: una lunga pausa
che prolunga come un’eco la
nota dolente del bracciante.
Ma ecco il falegname a
rincarare
la
dose
dell’antiidillio.
Un’altra
figura adulta (l’età senza
illusioni), affannata questa
volta nella fretta di «fornir
l’opra» (v. 36). Per il
«legnaiuol» non vale l’idea
del riposo, nel momento già
che spetta al riposo, ma
l’urgenza dell’«opra» che va
finita, perché nel nuovo
giorno non è consentito
lavorare. Domani non per
tuttièlostessogiorno:perla
«donzelletta» è una «festa»,
perilbraccianteun«riposo»,
per il falegname sono ore
inoperose. Il silenzio del
villaggio
spopolato
è
contrappuntato
da
una
colonna sonora ossessiva
(«odi … odi», v. 33), altro
che «lieto romore» (v. 27):
dal«picchiare»delmartelloe
dallostrideredella«sega»,al
lume di una lucerna, in una
bottega chiusa. La domenica
si annuncia con questa
musica
sgraziata
e
disarmonica.
La
compartecipazione emotiva
alla gioia dell’attesa è intrisa
di disincanto e l’illusione
della speranza, cosí ariosa e
ansiosa
nell’agile
«donzelletta» che per prima
torna dai campi, via via si è
attenutagiàneldisegnodella
primaparte.L’iononhafatto
sentirefinoralapropriavoce,
ma i modi della sua
figurazione pittorica, mentre
esprimonoilsentimentoaereo
e fiabesco della speranza,
comunicano anche, per via
allusiva, il sentimento della
sua labilità.43 Perciò la
seconda parte, di tono
riflessivo-esplicativo,
può
giungere quasi in sordina,
ellittica e scorciata, come
accorato commiato detto con
mite e familiare confidenza
proprio a uno di quei
«fanciulli»cheprimadicena
gridano e saltano nella
«piazzuola»delvillaggio.
Il Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia, di
elaborazioneeccezionalmente
lunga a confronto dei testi
coevi, in particolare Le
ricordanze,chiudenell’aprile
1830aRecanatiilbienniodel
“risorgimento”avviatoaPisa
nell’aprile1828.44 Segna una
svolta, ma non senza nessi
strettidicontinuitàconicanti
limitrofi.L’ioautobiografico,
giàcon Laquiete e Il sabato
oggettivato in figure e
situazioni di domestica realtà
borghigiana, scompare dalla
ribalta, trasposto nell’alter
ego del «pastore errante».
Anche
scompare
quell’ambiente geografico e
storico
della
giornata
recanatese e si apre uno
spazio senza confini, in un
tempo remoto e indefinito.45
Viene
meno
l’antitesi
cronaca-destino,
presente
contingente-presente
universale
e
diventa
dominante
il
presente
universale. Di conseguenza
non sussiste piú il duplice
registro
figurativo-idillico
(cuicompetelaserenapittura
dell’illusione) e riflessivoragionativo (che smentisce o
commenta quella pittura),
come avviene in ASilvia, La
quiete, Il sabato; la
riflessione invade il campo e
sisublimain«canto»,ondeil
titolodeltestoedellibroche
loospiteràdal1831.
Dire che il Canto
notturno chiude la stagione
pisano-recanatese significa
che con esso ha termine la
splendida facoltà di creare
quelle limpide e luminose
infrazioni alla norma che
s’incontrano in A Silvia, La
quiete, Il sabato. La serie si
chiudeconuncomponimento
cheesaltalanorma,lanorma
dell’infelicità,
e
che,
interrogandosi sul misterioso
perché del «patir nostro» (v.
64), converte il momento
meditativo in poesia di
intensità
biblica.46
La
lontananza
spaziale
e
temporale, di là dal ricordo
privato, dal villaggio e dal
presente storico, risulta
condizione necessaria per la
verità di un dolore che
riguarda ogni vivente. Spetta
aquestocantoconclusivouna
scoperta rivoluzionaria: la
conquista di uno spazio
assoluto e di un tempo
assoluto, tali da coinvolgere
l’«innumerabile famiglia» (v.
92) che abita l’intero creato.
Dalla radiografia del proprio
«cuore»(Ilrisorgimento),l’io
lirico è giunto, sotto
sembianza del «pastore
errante», all’elegia della
sofferenzauniversale.
Il Canto notturno è
l’epilogodiunlungoviaggio
e sigilla la fase pisanorecanateseinperfettasintonia
con gli sviluppi della
riflessione
materialistica
leopardiana, dalla «teoria del
piacere» (sceneggiata con La
quiete e Il sabato) alla
diagnosi del patimento
inevitabile («è funesto a chi
nasce il dí natale», v. 143)
sancita con il dialogo
dell’Islandese, ma continuata
e
approfondita
nello
Zibaldone proprio nel corso
del1829:«Lamiafilosofiafa
rea d’ogni cosa la natura, e
discolpando gli uomini
totalmente, rivolge l’odio, o
se non altro il lamento, a
principio piú alto, all’origine
vera de’ mali de’ viventi»
(4428, 2 gennaio 1829); «La
natura […] è essenzialmente
regolarmenteeperpetuamente
persecutriceenemicamortale
di tutti gl’individui d’ogni
genere e specie, ch’ella dà in
luce;
e
comincia
a
perseguitarli
dal
punto
medesimo in cui gli ha
prodotti» (4485-86, 11 aprile
1829); «che epiteto dare a
quella ragione e potenza che
include il male nell’ordine,
chefondal’ordinenelmale?»
(4511, 17 maggio 1829). Il
canto del pastore esprime,
constupefacentepacatezza,il
«lamento»rivolto«all’origine
vera de’ mali de’ viventi», al
sistema «che include il male
nell’ordine».
L’occasione esterna è
indicata dall’autore in Zib.
4400 (3 ottobre 1828),
nell’autografo
del
componimento e quindi nelle
NoteaiCanti.SeaFirenze,al
Gabinetto
Vieusseux,
nell’ottobre 1828, Leopardi
registra
un
particolare
dettaglio47dellarecensioneal
Voyage d’Orenbourg à
Boukhara,faiten1820(Paris,
1826) del barone russo
Aleksandr
Kasimirovič
Meyendorff,dal«Journaldes
Savans» del settembre 1826
(p. 518), significa che quel
dettaglio funziona per lui da
sollecitazionediunamemoria
privata. Cadono quelle brevi
parole su un terreno ben
predisposto ad accoglierle.
Infatti da tempo Giacomo è
attratto dal carattere e dalla
condizione di popoli o
individui preculturali. In
passato, li ha considerati
felici («io dico che la felicità
consiste nell’ignoranza del
vero»:Zib.326,14novembre
1820). Caduto il mito della
natura benefica, li ha
considerati non felici ma
«savi» (ivi, 4208, 26
settembre 1826), capaci di
sentire in modo schietto e
vivo i valori essenziali
dell’esistere, perché «la
ragione semplice, vergine e
incolta, giudica spessissime
volte piú rettamente che la
sapienza, cioè la ragione
coltivata e addottrinata» (ivi,
4478, 31 marzo 1829). Tali
riflessioni aprono la strada
allavocedel«pastore»,chesi
lascia alle spalle l’evasione
decorativa della tradizione
bucolicaarcadico-edificantee
si presenta invece come
«ragione
semplice»
e
«vergine»:«semplice»èdetto
appunto il «pastore» (v. 78,
unicum nei Canti), non già
perché sia esponente di un
aggraziato melos campestre,
bensí «depositario di una
saggezza antica»48 che
equivaleadacutaintuizionee
dolente sentimento del male
divivere.
Ma da tempo Leopardi è
anche
attento,
come
sappiamo, al primato della
lirica,genere«primogenitodi
tutti; proprio di ogni nazione
anche selvaggia […]; proprio
d’ogni uomo anche incolto,
che cerca di ricrearsi o di
consolarsi col canto» (Zib.
4234,15dicembre1826);«in
questacircostanzadinonaver
poesia se non lirica, l’età
nostra si riavvicina alla
primitiva» (ivi, 4477, 30
marzo 1829). Quest’ultimo
passo è contiguo all’altro del
31 marzo sulla ragione
«semplice» e «vergine»:
l’ipotesi verte su una lirica
moderna-primitiva formulata
da una voce «semplice»,
intuitivamente sensibile ai
fondamentali perché della
vita.SiaggiungainGiacomo
l’interesse costante per la
Bibbia, da cui rifulge
un’«immaginazione
antichissima», tipica «di un
popoloquasiprimitivoaffatto
ne’ costumi», tanto che
nessuno può meravigliarsi
«della straordinaria forza»
poetica della Scrittura (ivi,
3543, 28 settembre 1823).
Quelle brevi parole lette al
Gabinetto Vieusseux nel
«JournaldesSavans»valgono
da spia luminosa che
richiamaecombinaglisparsi
pezzidiunmosaico.
Il canto è intonato per
intero dal pastore, al pari
dell’Ultimo canto di Saffo,
dove parla la poetessa greca,
e in parte del Bruto minore
(dal v. 16 in avanti), ma
determinante,
nel
travestimento dell’io, è il
passaggio
da
illustri
personaggi storici a un
«semplice» (v. 78) e ignoto
pastore nomade, anonimo
come l’Islandese. Il testo si
suddivideinseilassedivaria
estensione(20,18,22,44,28,
11 vv.): la quarta e la sesta,
eccentriche per eccesso e per
difetto alla misura pressoché
equivalente delle altre, sono
le due lasse che si chiudono
sultemacardinedell’infelicità
delvivere(laquartainchiave
individuale:«[…]amelavita
è male», v. 104; la sesta in
chiave universale e non solo
umana:«èfunestoachinasce
ildínatale»,v.143).Larima
«male»:
«natale»
è
emblematica,
perché
stabilisce
un’equivalenza
ferrea tra vita e sofferenza, e
si espande come rima-chiave
che vale da connettivo
melodico-semantico
dell’intera lirica. Cosí ogni
lassa termina in -ale (in
parole dense di significato
anche nelle lasse prima e
quarta:
«immortale»:
«mortale»), con un verso via
via di misura crescente (nei
primi due casi un settenario,
poi
costantemente
un
endecasillabo), sempre in
rimaancheentrolarispettiva
lassa(baciatanellasecondae
nella
quinta)
e
con
incatenamento tra la quinta e
la sesta (in rima i vv. 131-
132-133 e 141, 143), come
epilogo di funebre rintocco.
Questoamalgamacompattoè
rinforzato dall’intreccio di
assonanze e di altre rime
(anche interne), frequenti le
triple(trenellaterzalassa:vv.
44, 49-50; vv. 47, 51-52; vv.
57-58, 60; una nella quarta:
vv. 70, 97, 99; una nella
quinta:vv.108,110,115;due
nellasesta:vv.133,141,143;
vv. 135, 138, 142). L’effetto
mira a un’andatura uniforme,
senza sussulti, severamente
malinconica e accorata, sí da
suggerire il ritmo di antica e
remotaedolentemelodia.
Il pastore, la luna, la
greggia, su uno sfondo di
sconfinata solitudine: un
mondo nudo che si dilata
verso l’immensità planetaria
(vv.84sgg.),versol’universo
assorto in un perpetuo moto
di cui sfugge il senso, non
l’effetto(vv.100-4).Lontano,
ormai,ilpiaceredell’infinito,
dell’immensitàimmaginatadi
là da una siepe. Qui «l’aria
infinita»(v.87),il«profondo
/ infinito seren» (vv. 87-88),
la «solitudine immensa» (v.
89)comunicanoturbamentoe
angoscia, per la gratuità «di
tanti moti / d’ogni celeste,
ogni terrena cosa» (vv. 9394),fuorchélasofferenzadel
vivere,
e
insieme
comunicano, con tangibile
evidenza, l’inerme fragilità
dell’io(«ediochesono?»,v.
98;«essermiofrale»,v.102)
e di ogni vivente. In questo
soliloquio esistenziale sul
«perché delle cose» (v. 70),
all’indeterminatezza
geograficaestorica,risponde
un
linguaggio
tanto
letterariamente levigato da
risultare povero e spoglio,
elementare,
sovranamente
colloquiale(«Chefaitu,luna,
in ciel? dimmi, che fai, /
silenziosa luna?», vv. 1-2),
calato
sull’essenzialità
dell’esistere,sulle«cose»che
sono per ognuno prime e
capitali: la nascita, l’«andar
del tempo» (v. 72),
l’affaccendarsi
(«tanto
adoprar», v. 93), il ciclo dei
giorni e delle stagioni, la
morte.Parolepovere,eperciò
suggestive, come in Zib.
3564-65 (1o ottobre 1823) si
dice della lingua ebraica,
«poetica ancor nella prosa»
proprio per la «sua estrema
povertà», perché riesce in
«ciascuna
parola»
a
condensare
«cento
significati», come se ogni
parola «formicolasse di
significazioni» e risvegliasse
una «molteplicità» di idee.
Questa
casta
(ma
intensissima) sobrietà di
dettato è modulata con
andamento iterativo, con
richiami interstrofici, ritorni,
riprese, parallelismi, repliche
a distanza, come variazioni
senza fine sullo stesso tema,
sí da produrre effetti multipli
d’ecotralassaelassa.Diqui
l’unitarietà
melodicoconcettuale del testo, la sua
uniforme tristezza, la sua
tenue scansione concettuale,
ilsuobiblicosapored’antico.
Laprimalassa,conlesei
domande che il pastore
rivolge alla luna intorno al
significato del vivere umano
e dei moti celesti, stabilisce
tra i due interlocutori un
rapporto di somiglianza (vv.
9-10), sul motivo della
ripetitività e obbligatorietà
del loro andare, e insieme di
antitesi,tracaducitàedurata,
tra il «vagar mio breve» (v.
19) e «il tuo corso
immortale» (v. 20): lassa di
apprensiva
interrogazione
rivolta a una compagna
insieme vicina e distante,
familiare e lontana nella sua
siderale intangibilità. A che
valga e ove tenda la propria
vita(cfr.vv.16-17,18-19),il
pastore lo sa per istintiva
esperienza e lo dice nella
lassa seconda, in veste di
drammatica metafora tenuta
su un unico, estenuato,
logoranteperiodosintatticodi
sedici versi (vv. 21-36), cui
segue,
come
clausola
epigrafica, un distico di
settenari a rima baciata (vv.
37-38).
La
citazione
petrarchesca(Canzoniere, XVI
eL)intensificalatragicitàdel
quadro, perché sia il
«vecchierel»(XVI,v.1)siala
«vecchiarella» (L, v. 5)
s’affrettano verso una mèta
serena, non verso l’«abisso
orrido» (v. 35) che qui da
ultimo si spalanca dopo
un’attesa
interminabile
protrattaperquattordiciversi.
Che la morte sia figurata
come «abisso orrido», e non
sia «invocata» come porto di
pace(Lericordanze,v.95),è
naturale,perchéchiparlanon
concettualizza la vanità
dell’esisteresídadesiderarne
lafine,madichiarailproprio
patimento e nell’epilogo
dell’ora estrema vede non
altro che l’esito vano di una
lunga corsa, di una lunga
attesadelusa.49
La terza lassa continua e
amplia il tema della seconda
(alla quale si lega con il
distico-ritornello dei vv. 5758,chereplicaconvariazioni
i vv. 37-38): dalla metafora
negativa della vita alla
riflessione sulle sue fatiche,
pene, tormenti; là il
«Vecchierel bianco» (v. 21),
ritratto
nell’inesorabile
precipitare, ora l’infante al
momento del «nascimento»
(v. 40), ritratto dalla
prospettiva dei mali che lo
aspettano, tanto inevitabili
che ai genitori non è
consentito proteggerlo ma
consolarlo (parola tre volte
ripetuta:vv.44,49,54).
Tale la vita per il pastore
e tale il peso della sua
angoscia, di fronte alla
«silenziosa» (v. 2) e «muta»
(v. 80) indifferenza della
luna, «Vergine» (v. 37),
«Intatta»(v.57),«eterna»(v.
61),«giovinettaimmortal»(v.
99)nonsfiorata,nelsuopuro
e algido candore, dalle
tribolazionidiquaggiú.Maal
pastore, come all’Islandese,
importa lo scopo del proprio
soffrire.Diquitraeoriginela
quarta lassa, il vertice del
Canto, dove risuonano le
domande
supreme
sul
«perché delle cose» (v. 70).
Le domande s’inseguono
incalzanti, prima indirette
(vv. 62-76), sul senso della
vita terrena, poi dirette (vv.
86-89),sulsensodellospazio
infinito, e quest’insoddisfatta
ansia conoscitiva – nel
martellare delle interrogative
che
sgomentano
l’interrogante – fa sí che
acquisti espressione tangibile
il sentimento dell’ignoto e
dell’inconoscibile.
La
consapevolezza nel pastore
del proprio turbativo nonsapere dà fisica consistenza
allaliricadelmisterocosmico
e dell’umana caducità (si
veda l’attrito violento iouniversoalv.89eaivv.6368 il «viver terreno»
traguardato
sub
specie
aeternitatis).Quisitoccacon
manoilpotereimmaginativointuitivo della «ragione
semplice» e «vergine». In
Zib. 3237-43 (22 agosto
1823)sileggechela«ragione
esatta e geometrica» non
riesceapercepire«ilperché»
delle
«cose»,
che
è
insondabileecometalerende
«poetico» il processo degli
eventi di «natura»: lo si può
cogliere soltanto per via
immaginativa. La saggezza
«semplice» del pastore,
mentre esprime il lato
«poetico» degli eventi di
«natura»,
verbalizza
l’inaccessibilità del «perché
delle cose»50 e di un simile
mistero
comunica
la
vertigine.
Con la lassa quinta sale
alla
ribalta
il
terzo
personaggio di questa scena
deserta, l’unica compagna
terrena della voce recitante.
Ma compagna che non reca
conforto, perché il confronto
con la greggia aggrava la
condizione del pastore,
essendo solo lui cosciente
della propria «miseria» (v.
106) e in piú afflitto dal
taedium vitae, dalla noia che
«è manifestamente un male»
(Zib. 4043, 8 marzo 1824),
come
«sentimento»
dell’«infelicità
nativa
dell’uomo» (ivi, 4498, 4
maggio1829).Chelagreggia
sia in parte affrancata dalla
sofferenza
–
donde
l’«invidia» del v. 107 e il
modulo
celebrativofoscolianodell’attacco:«ohte
beata» – è supposizione
(come segnala il «credo» del
v. 106) che discende
dall’ipotetico «fors’altri» del
v.104(cuipoirinvial’«altrui
sorte», v. 140). Ma il fatto è
contraddettodalcelebrepasso
diZib.4175(19aprile1826):
«Non gli uomini solamente,
mailgenereumanofuesarà
sempre infelice di necessità.
Non il genere umano
solamente ma tutti gli
animali». Provvede tuttavia
l’ultima lassa ad attenuare
con energia, anzi a smentire,
quella supposizione, come
anche il sospetto che il volo
possa dare al pastore la
felicità. Il duplice «forse»
(vv.139,141),dopoilprimo
cheintroduceilsognodeivv.
133-36, è tanto poco
dubitativo che «sembra quasi
mutarsi in certo».51 Non per
nulla la greggia è divenuta
infine «dolce» (v. 137),
perchéassimilataallacomune
sorte di tutti i viventi. Resta,
«candida»(v.138)eimmune
da patimento, unicamente la
luna,eternasignoradeltempo
edellospazio.
4.LAPRIMAEDIZIONEDEI
CANTI
Con la prima stampa dei
Canti (Firenze, Piatti, 1831),
dopoleCanzonidel1824ei
Versi del 1826, Leopardi
adotta un titolo sciolto da
determinazioni di categorie
retoriche, ma funzionale a
una raccolta selettivamente
«lirica», in accordo con i
coeviappuntidelloZibaldone
intesiaproclamareilprimato
e la modernità del genere
«lirico».52 Il libro si
configura come registrazione
storica
della
vicenda
ideologico-sentimentale
e
tecnico-espressiva
del
personaggio
protagonista.
Perciò l’ordinamento dei
ventitré
componimenti
rispetta–conpocheeccezioni
– la cronologia compositiva,
lungo un arco di tredici anni,
dal1817al1830:daIlprimo
amore al Canto notturno.
Alleprimenovecanzoniedite
nel 1824 – ma prive dei
corrediprosasticieconl’Inno
ai Patriarchi del luglio 1822
antepostoall’Ultimo canto di
Saffo del maggio 1822 –,
seguono Il primo amore (già
nei Versi del 1826 come
Elegia I),cinquedeiseiidilli
giovanili (secondo l’ordine
della stampa 1825 sul
«Nuovo Ricoglitore» e dei
Versi del 1826: è omesso il
quinto,
Lo
spavento
notturno),poiAllasuadonna
e Al Conte Carlo Pepoli,
quindi Il risorgimento e il
gruppopisano-recanatese,ma
con l’arretramento del Canto
notturno, che segue Le
ricordanze e precede il
binomio finale costituito da
LaquieteeIlsabato.
Canti: indice della I ed. (Firenze,
GuglielmoPiatti,1831)
AgliamicisuoidiToscana
I.All’Italia
II.SoprailmonumentodiDantechesi
preparava [B24: prepara] in
Firenze
III.AdAngeloMai,quand’ebbetrovato
i libri di Cicerone della
Repubblica
IV.NellenozzedellasorellaPaolina
V.Aunvincitorenelpallone
VI.Brutominore
VII.Alla Primavera, o delle favole
antiche
VIII.InnoaiPatriarchi,ode’principii
delgenereumano
IX.Ultimo canto di Saffo [canzone
ottavainB24]
X.Ilprimoamore[B26:ElegiaI]
XI.L’infinito
XII.Laseradelgiornofestivo
XIII.Allaluna[B26:Laricordanza]
XIV.Ilsogno
XV.Lavitasolitaria
XVI.Alla sua donna [canzone decima
inB24]
XVII.AlConteCarloPepoli
XVIII.Ilrisorgimento
XIX.ASilvia
XX.Lericordanze
XXI.Canto notturno di un pastore
vagantedell’Asia
XXII.Laquietedopolatempesta
XXIII.Ilsabatodelvillaggio
Opera multiforme e
cangiante, che trapassa da
momenti di irta sintesi
concettuale a momenti di
affabile
trasparenza
comunicativa,
i
Canti
trasmettono al lettore –
paradossalmente
–
l’entusiasmo vitale della
disperazione:incrementanola
conoscenza dell’io e del
mondo attraverso la vivida
intensità del nulla. Alla loro
fisionomia
poliedrica
risponde
un’interna
dinamicità, tanto che il libro
cresce e si sviluppa nei suoi
stadi diversi o successivi
scompigliando le carte in
tavola,conscartiesvolteche
rimettono via via in
discussione i dati già
acquisiti.
La struttura è tripartita
(canzoni, idilli, canti pisanorecanatesi), con tre cerniere
disposte nei due risolutivi
punti di svolta: Il primo
amore, tra le canzoni e gli
idilli; Alla sua donna e Al
Conte Carlo Pepoli, tra gli
idilli e i canti pisanorecanatesi. Entro il nucleo
compatto delle canzoni
s’incunea
l’altrettanto
compatto e pressoché coevo
nucleo degli idilli, con Il
primoamore a fare da ponte
tra la solennità della storia e
la tessitura intima del
coinvolgimento
autobiografico. L’immediata,
stridentecontiguitàtraquesto
giovanilerefertodeimotidel
«cuore» e l’Ultimo canto di
Saffo–lacanzoneditemapiú
individuale e interiorizzato,
ora posposta all’Inno ai
Patriarchi in modo da
formare con l’Inno e Alla
Primavera un binomio
sull’età dell’oro – stabilisce
un
nesso
stretto
(«ultimo»-«primo»)traantico
e moderno, tra la tragedia di
un amore impossibile e il
miraggio di un amore
inappagato.Lalineabinariae
antitetica
canzoni-idilli
converge verso Alla sua
donna (separata, in posizione
strategica, dalla sua serie di
appartenenza):
stazione
emblematica,allesogliedelle
Operettedel1824,chechiude
lefasigiovanilideltumultoe
delle illusioni con la pacata
persuasione di un’infelicità
immedicabile. Poi incalza
l’epistola Al Conte Carlo
Pepoli (con alle spalle le
Operette) e qui, sui
fondamenti
materialistici
dell’«acerbo vero» (v. 140),
pare spegnersi ogni virtuale
incanto
di
suggestione
emotiva.
Ma la smentita è
immediata e clamorosa con i
canti
pisano-recanatesi
introdotti da Il risorgimento.
Al loro interno, contro la
cronologia compositiva, Le
ricordanze e il Canto
notturnosonoaffiancatiinun
dittico
esemplarmente
antinomico: il romanzo
dell’io e della memoria
privata, sullo sfondo della
domestica
geografia
marchigiana, si trova accanto
all’impersonale assolutezza
del «pastore» e alla sua
universalizzante
distanza
spazio-temporale.
Le
sequenze conclusive (La
quiete
e
Il
sabato)
consegnano a due cristallini
quadri di vita borghigiana il
significato
figurativoriflessivodiuninterosistema
concettuale. Si direbbe un
epilogo definitivo, e tale è
infatti nei primi Canti del
1831. Ma ancora una volta,
con il ciclo di Aspasia, sono
alleporteunanuovasorpresa
eunanuovasmentita.
1.G.LeopardiadA.F.Stella,Pisa,
23novembre1827,inTO,Ip.1299.
2. Zib. 4301 (Pisa, 19 gennaio
1828).
3. Ivi, 4302 (Pisa, 15 febbraio
1828).
4. G. Leopardi alla sorella Paolina,
Pisa,25febbraio1828,inTO,Ip.1308.
5. G. Leopardi alla sorella Paolina,
Pisa,2maggio1828,ivi,p.1311.
6. La sinonimia tra «senso» e
«persuasione» è attestata da Zib. 348
(22 novembre 1820): «Non basta
intendereunaproposizionvera,bisogna
sentirne la verità. C’è un senso della
verità, come delle passioni, de’
sentimenti,bellezze,ec.:delvero,come
del bello. Chi la intende, ma non la
sente, intende ciò che significa quella
verità, ma non intende che sia verità,
perché non ne prova il senso, cioè la
persuasione».
7. Anche per Leopardi, come per
Shakespeare, «Noi siamo la stessa
sostanza di cui sono fatti i sogni» (La
tempesta, IV). «Le pays des chimeres
est en ce monde le seul digne d’être
habité»: la frase di Rousseau (dalla
Nouvelle Héloïse) è trascritta in Zib.
4500(7maggio1829).
8. Le date di séguito indicate tra
parentesi figurano, caso per caso,
nell’unico
autografo
superstite
(Biblioteca Nazionale di Napoli,
Autografi Leopardiani), ma si tenga
conto che in ogni caso l’autografo
documentaunaredazioneprossimaalla
definitiva, ma ancora in parte non
assestata.
9. La «mescolanza di endecasillabi
e settenarii, a rima libera, […] gli
concedeognivarietàditinteedieffetti.
La gravità dell’endecasillabo è
temperatanellasveltezzadelsettenario,
e la rima, ove cade, compie l’effetto
musicale» (DE SANCTIS, Giacomo
Leopardi,
cit.,
pp.
275-76);
«Nonostante si tratti di una forma
“libera”, la canzone leopardiana non è
priva, in genere, di una sua, sia pur
sotterranea,soliditàstrutturale,ottenuta
tramitelacalibratadisposizionediversi
e rime nei punti “nodali” del
componimento»
(F.
BAUSI-M.
MARTELLI,Lametricaitaliana.Teoria
e storia, Firenze, Le Lettere, 1993, p.
240).
10.
Sugli
effetti
della
«rimembranza», dell’«indefinito», del
«vago», che conferiscono alla realtà
echi antidescrittivi, segreti e allusivi,
cfr. almeno Zib. 4415 (Firenze, 22
ottobre 1828), 4426 (Recanati, 14
dicembre 1828), 4513 (21 maggio
1829).
11. G. Leopardi a P. Colletta,
Recanati,marzo1829,inTO,Ip.1337.
12. G. Leopardi a P. Giordani,
Recanati,4agosto1823,ivi,pp.116970: «ti confesso che l’aver mirato da
vicino la falsità, l’inettitudine, la
stoltezza dei giudizi letterarii, e
l’universalissima
incapacità
di
conoscere quello che è veramente
buono ed ottimo e studiato, e
distinguerlo dal cattivo, dal mediocre,
da quello che niente costa, mi fa tener
quasi per inutile quella sudatissima e
minutissima perfezione nello scrivere
allaqualeiosolevariguardare,senzala
quale non mi curo di comporre, e la
quale veggo apertissimamente che da
niuno, fuorché da due o tre persone in
tutto, sarebbe mai sentita né goduta».
Nonostante il dichiarato sospetto di
«quasi» inutilità, la «perfezione nello
scrivere»rimaneobiettivocostante,non
come ricerca di eleganza o di
ornamento decorativo o di qualsivoglia
altraqualitàaccessoria,macomescopo
stessochedàsensoelegittimitàall’atto
dellascrittura.
13. Il tema, che ricorre frequente
nello Zibaldone, ritorna anche nel
Parini(capp.IIeV)enelTristano,oltre
cheneiPensieri(LIX).
14. Sappiamo (cfr. Elenchi di
letture,p.1161)checomeunicalettura
di Giacomo nell’aprile 1828 sono
registratigli Innisacri di Manzoni e Il
CinqueMaggio(Pisa1826).Speciesul
pianometrico,accantoallerivisitazioni
settecentesche legate alla Crestomazia,
nonèdasottovalutarel’incontroconil
Manzoni poeta. Cfr., in proposito, M.
SANTAGATA,
‘Il
risorgimento’,
nell’operacollettivaLeopardiaPisa, a
cura di F. CERAGIOLI, Milano, Electa,
1997 (Catalogo della mostra, Pisa,
PalazzoLanfranchi,14dicembre199714giugno1998),pp.126-42.
15. LEOPARDI, Canti, ed. G. DE
ROBERTIS,cit.,p.188.
16.Zib.4129(5-6aprile1825).
17.Se«qualcunomichiedessequal
è il piú bel verso di Leopardi
risponderei senza esitazione: “quel
tempo della tua vita mortale”: cosí
disarticolato, cosí disaccentato, senza
nessuna resistenza o difesa» (L.
BALDACCI, Distanza da Leopardi.
Temi per un’Introduzione, in ID., Il
male nell’ordine. Scritti leopardiani,
cit.,p.24).
18. Teresa Fattorini, figlia del
cocchiere di casa Leopardi, morta
ventunenneditisiil30settembre1818.
19. «L’occhio è la parte piú
espressiva del volto e della persona;
l’animo si dipinge sempre nell’occhio;
[…] l’occhio ch’è la parte piú
significativa della forma umana, è
anchelaparteprincipaledellabellezza.
[…]Unpaiod’occhiviviedesprimenti
penetrano fino all’anima, e destano un
sentimento che non si può esprimere»
(Zib.1576-77,28agosto1821).
20. Al v. 45 anche le «negre
chiome», ma dal punto di vista non
dell’iopoetantemadiquantiavrebbero
potuto ammirarla, se non fosse morta
primadelfioriredellagiovinezza.
21. G. LEOPARDI, Canti, a cura di
M. FUBINI, ed. rifatta con la
collaborazione di E. BIGI, Torino,
Loescher,1964,p.167.
22. Per questo passo dello
Zibaldone,cfr.quicap.VIIIpar.2.
23.F.DESANCTIS,LaNerinadiG.
Leopardi (1877), in ID., Saggi critici,
cit.,IIIp.247.
24. Il confronto con l’abbozzo Il
canto della fanciulla, probabilmente
composto a Pisa nell’aprile 1828
(lasciato inedito e pubblicato dapprima
nel 1906), è istruttivo, a parte
l’incommensurabile disparità dei
risultati, per meglio precisare i
meccanismi genetici costitutivi del
canto A Silvia, del quale può
considerarsi una sorta di antefatto
esplicativo.Questoiltestodell’abbozzo
(inTO, I p. 350): «Canto di verginella,
assiduo canto, / che da chiuso ricetto
errandovieni/perlequietevie;comesí
tristo / suoni agli orecchi miei? perché
mistringi/síforteilcor,chealagrimar
m’induci? / E pur lieto sei tu; voce
festiva/delasperanza:ognituanotail
tempo/aspettatorisuona.Or,cosílieto,
/ al pensier mio sembri un lamento, e
l’alma / mi pungi di pietà. Cagion
d’affanno / torna il pensier de la
speranza istessa / a chi per prova la
conobbe». Il canto di quest’anonima
fanciullainvadelestradetranquilleedè
un tripudio di gioia, in cui risuona
festosal’attesafiduciosadelfuturo.Ma
al poeta comunica angoscia e pare un
lamento. La spiegazione è nel periodo
finale: il pensiero stesso della speranza
addolora chi per esperienza ha
conosciuto la disillusione a cui vanno
incontroisognidellagiovinezza.Siamo
concettualmente vicini a Silvia, in
effetti molto lontani. L’impianto
dell’abbozzoricordagliidilligiovanili:
l’emozionedell’io,dinanziaunevento
immediato e concreto, è indagata nelle
causeeneimeccanismipsicologiciche
l’hanno suscitata. Dominano le
impressioni dell’io e la «verginella»
resta senza nome, senza profilo, senza
carattere. Non vi troviamo la creazione
mitica della speranza viva, in atto. Il
frammentorestaunicamenteancoratoal
presente e si risolve nella riflessione
finale che smorza e soffoca la gioia
dell’attesa. Manca la dimensione del
passato dove quell’illusione è fiorita,
manca lo stacco passato-presente,
manca il nesso di antitesi tra i due
tempi, manca la memoria attualizzante
che in A Silvia rende vivente quel
passatoegiungeperciòadareunvolto,
umano e simbolico, al candore della
speranza, rivissuto nell’oggi come un
bene per sempre perduto e perciò piú
intenso.
25. LEOPARDI, Canti, ed. G. DE
ROBERTIS,cit.,p.225.
26. Il titolo La ricordanza (in
origine La luna o la ricordanza) è
rimasto fino ai Canti del 1831, dove è
stato mutato in Alla luna, per la
presenzanellostessovolumedelnuovo
cantoLericordanze.
27. CONTINI, Giacomo Leopardi,
cit.,p.323.
28. Il «poeta si sente abbandonato
anche dalla dolcezza del rimembrare,
motivo ispiratore del componimento, e
confessa, in quell’aggettivo acerba,
l’imminentesqualloredellasuamiseria
umana: anche la rimembranza diventa
ormai una pena» (R. BACCHELLI,
Leopardi e Manzoni. Commenti
letterari,Milano,Mondadori,1960,pp.
240-41).
29. Storia di un’anima scritta da
GiulioRivalta,inTO,Ipp.365-66.
30. G. Leopardi a P. Colletta,
Recanati,marzo1829,ivi,p.1337.
31. G. Leopardi a C. Bunsen,
Recanati, 5 settembre 1829, ivi, p.
1344.
32.Sullemultipleirradiazionidelv.
89 («[…] quel caro immaginar mio
primo»),cfr.E.GHIDETTI, «Quel caro
immaginar mio primo», in «Revue des
études italiennes», 46 2000, 1-2 pp.
115-23.
33. DE SANCTIS, La Nerina di G.
Leopardi,cit.,p.249.
34. Cfr. CONTINI, Giacomo
Leopardi,cit.,p.335.
35. La «realtà» rappresentata nella
prima lassa è interpretata da L.
BLASUCCI (I tre momenti della
‘Quiete’, in ID., I tempi dei ‘Canti’.
Nuovi studi leopardiani, cit., pp. 12930)come«realtàfamiliarealpoeta»ma
«filtratadallamemoria[…].Piúchedi
una realtà che si disvela per la prima
volta al poeta […], si tratta di
un’esperienza recuperata da una
memoriaremotaeattivatadallospunto
d’uneventopresente».
36. «È utile, a spiegar l’immagine,
ricordare ciò ch’essa di per sé
suggerisce, ossia che la campagna è
vista
dall’altura
di
Recanati»
(BACCHELLI, Leopardi e Manzoni.
Commentiletterari,cit.,p.253).
37. G. LEOPARDI, Canti, a cura di
A.STRACCALI,Firenze,Sansoni,1892,
p.199.
38. Cfr. LEOPARDI, Canti, ed. M.
FUBINI, cit., p. 192. Cfr. anche M.
FUBINI, Metrica e poesia, Milano,
Feltrinelli,1962,pp.304-6.
39.G.PASCOLI,Ilsabato(1896),in
ID.,Saggidicriticaediestetica,acura
di P.L. CERISOLA, Milano, Vita e
Pensiero,1980,pp.59-85.
40. La lezione «al biancheggiar
della recente luna» (v. 19) è introdotta
neiCantidel1835,mentrel’autografoe
i Canti del 1831 hanno «a la luce del
vesproedelaluna».Gliinterpretisono
concordi nel valutare la redazione
ultima un acquisto decisivo, meno C.
BRANDI,Celso o della Poesia,Torino,
Einaudi, 1957, pp. 110-11, che dedica,
da grande intendente di valori pittorici,
osservazioni suggestive e molto
penetranti,perquantononpersuasive,a
difesa della lezione originaria (in
merito, cfr. B. BIRAL, Noterelle
leopardiane[1971],inID.,Laposizione
storicadiG.Leopardi,Torino,Einaudi,
1974,pp.192-95).Rilevatal’assonanza
tra «vespro» ed Espero, la stella della
sera, Brandi è affascinato dalle «due
luci, cosí sottilmente divise l’una
dall’altra,inmodotantoperspicuo»che
brillano nella redazione originaria;
inveceneltestodefinitivo,asuoparere,
il poeta veniva «ad abbandonare la
preziosarispondenza,[…]cosísottilee
percettibile, che contrapponeva la luce
nelvesproaquelladellaluna,comegià
venivaasuddividersiilcoloredelcielo
inazzurroesereno,conunaprecisione
cromatica tale, che mai forse si era
riusciti a distinguere cosí bene e a
rendere indelebili due gradazioni della
stessatinta,tantocheinprosasaremmo
costretti a rafforzare in celeste e blu:
mentre, nel verso, quel sereno
dell’ultima ora di luce alita cosí
leggero, alto e limpido sui colli e sui
tetti,cheècomeunfirmamentonuovo,
scoperchiato, quello che presenta ai
nostri occhi davvero miracolati». Ma il
«biancheggiar», che abolisce la
distinzione tra le due luci, non
semplifica il quadro, come afferma
Brandi, bensí consegue almeno due
risultati importanti: chiaroscura con
maggiore intensità il contrasto con
«imbruna» (v. 16) e unifica
l’endecasillabo, prima frammentato in
modopiúcronachistico,tantochesuona
piú perentorio con forte accento sulla
quarta sillaba. Cosí la luce non viene
enunciata, ma rappresentata con un
verbo che è colore in atto, coloreazione, giusta l’aurea regola degli
antichi,ricordatanel1818nelDiscorso
di un Italiano intorno alla poesia
romantica, in TO, I p. 933: «Ora che
cosafaceanoipoetiantichi?Imitavano
lanatura,el’imitavanoinmodoch’ella
non pare già imitata ma trasportata nei
versiloro,inmodochenessunooquasi
nessunaltropoetahasaputopoiritrarla
cosí al vivo, in modo che noi nel
leggerlivediamoesentiamolecoseche
hanno imitate, in somma in quel modo
cheèconosciutoeammiratoecelebrato
in tutta la terra». Un terzo effetto
ottenuto dalla redazione ultima è
segnalato da BIRAL, Noterelle
leopardiane,cit.,p.195:«Laluna,che
in virtú di quel verbo tronco e sonoro
(biancheggiar) acquista la massima
evidenza, si tinge di un lieve colore
simbolico: le speranze si trasferiscono
anche nel cielo e la luna abbellendo il
paesaggio partecipa anch’essa con il
suo volto splendente alla festa del
borgo». Una sorta di inganno della
natura. Quanto al «recente»: non direi
che sia epiteto esornativo di «fredda
eleganza neoclassica», come vuole
Brandi; non ha soltanto funzione
cronologica, ma allude anche a una
sfumatura di cristallina fragilità e
fugacità che rende il «biancheggiar»
miracolosamente
improvviso
e
fuggitivo.
41. BRANDI, Celso o della Poesia,
cit.,p.111.
42. Piú diretto il presagio nella
probabile fonte (cfr. Canti, ed. M.
FUBINI, cit., p. 193): «Volta colà dove
simuoreilgiorno»(N.FORTEGUERRI,
Ricciardetto,XIV1095).
43. Si pensi anche alla nota di
dubbio e di perplessa meraviglia
implicitanel«diresti»delv.22.
44.
Nell’autografo
superstite
(Biblioteca Nazionale di Napoli,
Autografi Leopardiani, Pacco XIII 25),
dove sono apposte le date «1829. 22
Ottob.-1830. 9 Aprile», la successione
delleseilassenoncorrispondeaquella
delle stampe (infatti l’attuale lassa
quinta risulta collocata in terza
posizione, quindi seguono le attuali
terza, quarta e sesta), ma l’ordine
definitivo è indicato dall’autore con
cifre
arabe
(non
aggiunte
successivamente
ma
coeve
all’autografo) segnate in capo a
ciascuna lassa (1, 2, 5, 3, 4, 6). La
differenzadiscritturaed’inchiostroche
distingue la sesta rinvia con ogni
probabilità a una stesura piú tarda.
L’assetto del manoscritto, che presenta
una situazione testuale ancora fluida,
suscettibile di alternative e di varianti,
rende conto di un processo elaborativo
complesso, protratto in un tempo piú
lungo del solito. Sulla dibattuta
questionedellastrutturadelcanto,sulla
genesi e sull’ordine di composizione
delle singole lasse, cfr. A.
MONTEVERDI, La composizione del
‘Canto notturno’ (1960), in ID.,
Frammenti critici leopardiani, cit., pp.
105-21; D. DE ROBERTIS-M.
MARTELLI, La composizione del
‘Canto notturno’ (1972), in DE
ROBERTIS, Leopardi. La poesia, cit.,
pp. 213-47; F. GRAZZINI, Connessioni
interstrofiche nel ‘Canto notturno’, in
«Filologia e Critica», XII 1987, 1 pp.
91-113; M. DE LAS NIEVES MUÑIZ
MUÑIZ, Sulla struttura del ‘Canto
notturno’, in «Giornale storico della
letteratura italiana», CLXIX 1992, 547
pp.
373-83;
G.
SAVOCA,
Dall’autografo (e dal Meyendorff) al
finale del ‘Canto notturno’,in«Critica
letteraria»,931996,4pp.53-83.
45. «Importava una evasione dal
presente,dallaciviltàeuropeaclassicae
cristiana, verso un passato anteriore a
ogni documento figurato o scritto»
(DIONISOTTI, Preistoria del pastore
errante,cit.,p.159).
46. «La poesia pare un poema
biblico, una pagina del Giobbe» (DE
SANCTIS, Giacomo Leopardi, cit., p.
277).
47. «Plusieurs d’entre eux (parla di
una delle nazioni erranti dell’Asia)
passent la nuit assis sur une pierre à
regarder la lune, et à improviser des
paroles assez tristes sur des airs qui ne
le sont pas moins. Il Barone di
Meyendorff, Voyage d’Orenbourg à
Boukhara, fait en 1820, appresso il
giornale des Savans, 1826, septembre,
p.518»:cosínelleNoteaiCanti.
48. D. DE ROBERTIS, in Canti, a
curadiG.eD.DEROBERTIS,Milano,
Mondadori,1978,p.312.
49. La metafora sulla negatività
dellavita,comeviaggiofaticosoecorsa
versounprecipizio,vienedaZib.416263 (17 gennaio 1826): «Che cosa è la
vita? Il viaggio di un zoppo e infermo
che con un gravissimo carico in sul
dosso per montagne ertissime e luoghi
sommamente aspri, faticosi e difficili,
allaneve,algelo,allapioggia,alvento,
all’ardore del sole, cammina senza mai
riposarsidíenotteunospaziodimolte
giornate per arrivare a un cotal
precipizio o un fosso, e quivi
inevitabilmente cadere». Nel passaggio
dal brano in prosa alla poesia (in
entrambi i casi si tratta di un unico
periodo sintattico), possiamo notare
alcuni transiti diretti: «infermo» «infermo» (v. 21); «gravissimo» «gravissimo»(v.23);«permontagne»«per montagna» (v. 24); «al gelo» «quandopoigela»(v.27);«alvento»«al vento» (v. 26); «per arrivare» «infinch’arriva»(v.32);«precipizio»«precipitando» (v. 36); il «gravissimo
carico» di Zib. lascia il segno in una
variante del v. 23: «carco di soma».
Quanto al procedimento adottato, si
nota che alla esplicitazione discorsiva
dellaprosasubentralarappresentazione
per immagini dei versi: il termine
«viaggio» di Zib. è espunto, risolto
figurativamente con il distanziamento
del soggetto («Vecchierel», v. 21) dai
predicatideivv.28-30,inserendonello
spazio intermedio i luoghi e le
condizioni del viaggio; in Zib.iluoghi
sono descritti («luoghi sommamente
aspri, faticosi e difficili»), nei versi
sononominati(«persassiacuti,/edalta
rena, e fratte», v. 25, poi al v. 29
«torrenti e stagni», mentre le varianti
del v. 29 attestano anche «fossi [su un
precedente fosse], gorghi, frane,
chiane»); in Zib. è descritta anche la
fatica del cammino («cammina senza
mai riposarsi dí e notte uno spazio di
molte giornate»), che viene poi
rappresentata in azione con il ricorso a
setteverbiintreversi(«correvia,corre,
anela, / varca torrenti e stagni, / cade,
risorge, e piú e piú s’affretta», vv. 2830). Dalla frammentata segmentazione
della prosa si passa a simmetrie e
parallelismi: dove Zib. reca «per
montagne ertissime e luoghi…», viene
introdotto il parallelismo «per
montagna e per valle» (v. 24), con
effettodidilatazionespaziale;Zib.reca
«alla neve, al gelo, alla pioggia, al
vento, all’ardore del sole», cinque
elementi in serie elencativa per
asindeto:diventanoquattro,conduplice
parallelismo,dueunitiperasindeto(«al
vento, alla tempesta», v. 26, prima di
«tempesta»,
che
sostituisce
sintetizzando «neve» e «pioggia»,
aveva scritto «procella», ma poi ha
optatoperlaparolaemblematicadelv.
1, e del titolo, di La quiete), due
trasposti(«gelo»e«ardoredelsole»)in
formeverbali(«avvampa»e«gela»,vv.
26-27) simmetricamente riferite allo
stesso soggetto («l’ora», v. 27);
l’«ardore» di Zib., qui omesso, ritorna
al v. 75. Si consideri inoltre che nella
prosa la mèta del viaggio è espressa
direttamente, con lineare successione;
nei versi invece è indicata dopo una
perifrasi (vv. 33-34) che rallenta
l’epilogo e lo drammatizza, quasi per
visualizzarlo al rallentatore, dopo il
precipitosoaffannodellalungacorsa.
50.Ilpastoresadisoffrire(cfr.vv.
100-4), ignora il «perché». La luna
conosce questo «perché». Si osservi la
progressioneinterna:«tuforseintendi»
(v. 62); «tu certo comprendi» (v. 69);
«Tu sai, tu certo» (v. 73); «Mille cose
sai tu, mille discopri» (v. 77); «tu per
certo, / […] conosci il tutto» (vv. 9899).Malalunaè«muta»(v.80).
51. Cfr. MONTEVERDI, La
composizionedel‘Cantonotturno’,cit.,
p.118.
52.Cfr.Zib.4476-77(29-30marzo
1829).
XV
LEALTRE
OPERETTEMORALI
1.LECINQUE«OPERETTE»DEL
1825-1832
Alla serie delle venti
«operette»del1824,astampa
nellibrodel1827,senesono
aggiunte via via altre cinque,
tra il 1825 e il 1832, rimaste
per il momento inedite: il
Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco, del
1825; il Copernico e il
Dialogo di Plotino e di
Porfirio, entrambe del 1827;
il Dialogo di un venditore
d’almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di
Tristano e di un amico,
entrambedel1832.
Il Frammento apocrifo,
che enuclea in termini
inesorabili una concezione
materialistica, si pone in
rapportodicomplementarietà,
ambivalente e dilemmatico,
con il Cantico del gallo
silvestre: nel Cantico, come
informaunanotad’autore,1la
«conclusione
poetica»
comporta infine il sollievo di
una
cosmica
«quiete
altissima» (par. 19); ora
invece
la
conclusione
«filosofica»
nega
quel
sollievo lirico e afferma la
«durazione eterna della
materia»
(par.
10),
perpetuando
nell’universo
l’incessante
affanno
dell’esistere.
Il
testo,
composto nell’autunno 1825,
resta nel cassetto, ma la sua
esplicita professione di
materialismo lascia il segno
in
quegli
spostamenti,
introdotti proprio nel 1825
nell’indice del manoscritto
autografo delle Operette(cfr.
cap. XIpar.1),cheintendono
attenuare il disegno liricofantastico della stesura
originaria, dando piú risalto
alla prospettiva ideologica e
filosofica.
Il Copernico, «sopra la
nullità del genere umano»,2
teatralizza in abiti comici e
domestici un evento storico
memorabile – la teoria
eliocentrica –, che Leopardi
rimedita
come
necessariamente
attuale,
specie per il «grandissimo
rivolgimento» che porta
«anche nella metafisica».
Fare sí che la Terra e gli
uomini(«suamaestàterrestre,
e le loro maestà umane»)
debbano «sgomberare il
trono, e lasciar l’impero»
(par.30)–perrestarsene«co’
loro cenci, e colle loro
miserie,chenonsonopoche»
–, non è «fatto», afferma
Copernico, di poco conto
(par.31):
voglio dire in sostanza, che il fatto
nostro non sarà cosí semplicemente
materiale, come pare a prima vista che
debba essere; e che gli effetti suoi non
apparterranno alla fisica solamente:
perché esso sconvolgerà i gradi della
dignitàdellecose,el’ordinedeglienti;
scambierà i fini delle creature; e per
tanto farà un grandissimo rivolgimento
anche nella metafisica, anzi in tutto
quello che tocca alla parte speculativa
delsapere.Enerisulteràchegliuomini,
se pur sapranno o vorranno discorrere
sanamente, si troveranno essere
tutt’altra roba da quello che sono stati
fin qui, o che si hanno immaginato di
essere.
Questi «effetti», di cui si
rivendical’attualità,chiedono
diesseretrattatinoncomeun
dato ormai culturalmente
acquisito e codificato, ma
come l’esito di una
coraggiosa rivoluzione che
deve
considerarsi
permanente, contro ogni
sempre rinnovata superbia
antropocentrica.3
IlDialogodiPlotinoedi
Porfirio (cfr. anche cap. XIV
par.1),sultemadelsuicidio,4
è
testo
emblematico
dell’antitetica bipolarità delle
Operette morali tra «vero» e
«illusioni», ma al tempo
stesso anticipa il disgelo del
1828,perchédallacognizione
razionale della «nullità delle
cose» risale al conforto
dell’amicizia e al «senso
dell’animo» (par. 58), che è
disperata voglia di esistere
(come l’«ardor natio»: Il
risorgimento, v. 150).5 La
serrata
sistematicità
concettuale
dell’allievo
Porfirio, deciso a suicidarsi,
riesceaconvinceremanona
persuadereilmaestroPlotino,
che non si arrende, perché
avverte in quella sottile
fermezza sillogistica un
anello che non tiene. La
giustificazione del suicidio si
arresta cosí non dinanzi alle
ragioni dell’intelletto – che
contestano la trascendenza
platonica e cristiana in nome
diunamoralelaicarettadalle
«buone leggi» e dai buoni
«costumi» (par. 16) –, ma
dinanzialleragionidelcuore,
a causa di un risorgente,
nonostante tutto, «gusto alla
vita»(par.58).
Nel Dialogo di un
venditore d’almanacchi e di
un passeggere ritorna il
desideriodivivere,nell’aerea
levità di una sceneggiatura
ironica e sorridente (cfr.
anche cap. XVI par. 2). Il
«Passeggere» sa che la
fiducia nel domani è
irragionevole,
nondimeno
l’asseconda,perchédiessasi
alimenta anche il suo, per
quanto desolato, sentimento
della vita. La certezza del
verononestinguel’«illusione
dellasperanza».6
IlDialogodiTristanoedi
un amico, di carattere
metanarrativo al pari del
Timandro, risuona – con
riferimento all’accoglienza
delle Operette edite nel 1827
– come irrisione del «secolo
decimonono» (par. 10), che
ha inventato la felicità, la
«profonda filosofia de’
giornali», la «perfettibilità
indefinita dell’uomo», della
«specie umana» e del
«sapere»
diffuso
nelle
«masse»(par.27):
Mavivalastatistica!vivanolescienze
economiche, morali e politiche, le
enciclopedie portatili, i manuali, e le
tantebellecreazionidelnostrosecolo!e
viva sempre il secolo decimonono!
forse povero di cose, ma ricchissimo e
larghissimo di parole: che sempre fu
segnoottimo,comesapete.
Tra sorriso e tragedia, il
Tristano sancisce la chiara
coscienza in Leopardi sia
della propria irrimediabile
sconfittadifronteallacultura
egemone,
sia
dell’impossibilità
di
continuareanutrireilproprio
illusorio «gusto alla vita»
(Porfirio, par. 58): onde la
vibrante invocazione alla
morte. Ma la luce livida che
questo estremo dialogo
proietta a ritroso sull’intero
percorso delle Operette non
annulla
l’energico
contrappunto tra il «vero» e
gli
«inganni
dell’immaginazione»(par.7).
Qui il «vero» include, con
secca
determinatezza
polemica, anche l’orgoglioso
coraggiodirinunciareaciòin
cui conviene credere, di
calpestare la meschinità, gli
opportunismi,
la
«vigliaccheria degli uomini»,
per «mirare intrepidamente il
deserto della vita» e
«accettare
tutte
le
conseguenze di una filosofia
dolorosa, ma vera» (par. 8).
La disfatta delle illusioni
lascia però intatta la
contemplazione estatica del
sogno.
Nella
finale,
michelangiolesca
implorazione alla morte,7
come nel coevo Amore e
Morte,
risalta
una
stupefacenteansiadiaffettoe
didesiderio.Unincontenibile
ardore di vita altrimenti
negato. La «bella Morte» dal
«virgineo seno», sola al
mondo pietosa dei «terreni
affanni»(AmoreeMorte,vv.
98-99, 124), appare come
l’ultimo
inganno
dell’immaginazione: non è la
quiete del nulla che cancella
il dolore, ma un tripudio di
desiderio, un oggetto di
soddisfazione, una creatura
daamare.
2.LEEDIZIONIDEL1834EDEL
1835
Nella seconda edizione
delle
Operette
morali
(Firenze, Guglielmo Piatti,
1834)itestidaventisalgono
a ventidue, con l’inserimento
nelle due posizioni finali del
Venditored’almanacchiedel
Tristano, che va a porsi cosí,
e ci resta per sempre, come
epilogo
ironico-tragico
dell’opera.
Restano fuori gli altri tre
pezzi, scritti da anni ma
ancora inediti per il fondato
timorediunvetocensorio.8Il
loro tentato recupero, nel
1835,convalidaqueltimoree
non arriva in porto. Infatti la
terza edizione, a Napoli
presso Saverio Starita, è
bloccata dalla censura,9 ma
avrebbe dovuto, per espressa
volontà
dell’autore,10
includere anche i tre
componimenti rimasti esclusi
dalla stampa fiorentina del
1834.
Operette morali: progettato indice
della III ed. (Napoli, Saverio Starita,
1835)
I.Storiadelgenereumano
II.Dialogod’ErcoleediAtlante
III.DialogodellaModaedellaMorte
IV.Proposta
di
premi
fatta
dall’AccademiadeiSillografi
V.Dialogo di un Folletto e di uno
Gnomo
VI.Dialogo di Malambruno e di
Farfarello
VII.Dialogo della Natura e di
un’Anima
VIII.DialogodellaTerraedellaLuna
IX.LascommessadiPrometeo
X.Dialogo di un Fisico e di un
Metafisico
XI.Dialogo di Torquato Tasso e del
suoGeniofamiliare
XII.Dialogo della Natura e di un
Islandese
XIII.IlParini,ovverodellagloria
XIV.Dialogo di Federico Ruysch e
dellesuemummie
XV.Detti memorabili di Filippo
Ottonieri
XVI.Dialogo di Cristoforo Colombo e
diPietroGutierrez
XVII.Elogiodegliuccelli
XVIII.Canticodelgallosilvestre
XIX.Frammento apocrifo di Stratone
daLampsaco
XX.DialogodiTimandroediEleandro
XXI.IlCopernico.Dialogo
XXII.DialogodiPlotinoediPorfirio
XXIII.Dialogo di un venditore
d’almanacchiediunpasseggere
XXIV.DialogodiTristanoediunamico
I testi sono incrementati
da ventidue a ventiquattro,
conl’espunzionedelSallustio
(presenteinquintasedenella
princepsdel1827comenella
stampadel1834)el’aggiunta
del Frammento apocrifo
(súbitodopoilGallosilvestre
a cui antiteticamente si
collega),
nonché
del
Copernico e del Plotino,
inseriti in quest’ordine tra il
Timandro e il Venditore
d’almanacchi.Cheèl’assetto
definitivo, messo però in
pratica soltanto dopo un
decennio, nelle postume
Opere a cura di Ranieri
(Firenze, Le Monnier, 1845):
ultimo atto che chiude le
tribolateperipeziediunlibro
audacissimoeimpopolare.
1.Lanota,riferitaalperiodofinale
del Cantico («Cosí questo arcano
mirabile e spaventoso dell’esistenza
universale, innanzi di essere dichiarato
né inteso, si dileguerà e perderassi»),
introduce la seguente precisazione:
«Questa è conclusione poetica, non
filosofica. Parlando filosoficamente,
l’esistenza, che mai non è cominciata,
nonavràmaifine».
2. G. Leopardi a L. De Sinner,
Firenze, 21 giugno 1832, in TO, I p.
1385.
3. Il capitale rilievo ideologico del
testo leopardiano è ricordato da
Pirandello nel saggio L’umorismo
(1908):«Unodeigrandiumoristi,senza
saperlo, fu Copernico, che smontò non
propriamente
la
macchina
dell’universo,
ma
l’orgogliosa
immagine che ce n’eravamo fatta. Si
legga quel dialogo del Leopardi che
s’intitola appunto dal canonico
polacco»
(L.
PIRANDELLO,
L’umorismo e altri saggi, a cura di E.
GHIDETTI, Firenze, Giunti, 1994, pp.
143-44). Sul piano narrativo, l’effettoCopernico, è reso esplicito nella
Premessaseconda(filosofica)amo’di
scusaaIlfuMattiaPascal(IlfuMattia
Pascal,inID.,Tuttiiromanzi,acuradi
G.MACCHIA, con la collaborazione di
M. COSTANZO, Milano, Mondadori,
1973,2voll.,Ip.324).
4.Sull’argomento,oltreallecanzoni
diBrutoediSaffo,eroisuicidiacausa
di gravissime sventure patite, occorre
vedereancheilFrammentosulsuicidio
(in TO, I pp. 198-99), assegnabile al
1820, e La scommessa di Prometeo,
testi entrambi che presentano casi di
antieroiche morti volontarie, provocate
non altro che da «tedio della vita» (La
scommessa,par.36).
5. Cfr. G. GUGLIELMI, Al di là
dellafilosofia,inID.,L’infinitoterreno.
Saggio su Leopardi, Lecce, Manni,
2000, p. 87: il «senso dell’animo» è
«sentimento che si fonda su se stesso.
[…] Tutto è in sostanza contro la vita,
tranne la vita stessa. Contro
l’assolutismo dell’intelletto, Plotino
[…]coniugafilosofiaesentimento.Efa
della vita l’ironia nascosta della
ragione».
6.Zib.4284(1oluglio1827).
7.Cfr.MICHELANGELO,Rime,Per
qual mordace lima, v. 12: «porto
invidia a’ morti», e Tristano, par. 35:
«Invidioimorti».Suipossibilirapporti
di Leopardi con le Rime di
Michelangelo, cfr. A. PARRONCHI,
Michelangelo e Leopardi, in ID., La
nascita dell’ ‘Infinito’ e altri studi
leopardiani, Montebelluna, Amadeus,
1989,pp.35-52.
8.Cfr.G.LeopardiaL.DeSinner,
Firenze, 21 giugno 1832, in TO, I p.
1385:«Hobensíduedialoghidaessere
aggiuntialleoperette,l’unodiPlotinoe
Porfirio sopra il suicidio, l’altro il
Copernico sopra la nullità del genere
umano.Diquestedueprosevoisieteil
padrone di disporre a vostro piacere:
solo bisogna ch’io abbia il tempo di
farle copiare, e di rivedere la copia.
Esse non potrebbero facilmente
pubblicarsiinItalia».
9. L’edizione napoletana era
prevista in due tomi, ma è stampato
soltantoilprimo,nelgennaio1836con
data 1835, comprendente tredici testi,
dallaStoriadelgenereumanoalParini
incluso.L’interventodellacensuravieta
la distribuzione del tomo edito e
impediscelastampadelsecondo.
10. Come risulta dalla Notizia
intorno a queste Operette, premessa al
primo tomo napoletano (in TO, I p.
189): «Queste Operette, composte nel
1824, pubblicate la prima volta in
Milano nel 1827, ristampate in Firenze
nel 1834 coll’aggiunta del Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un
passeggere,ediquellodiTristanoedi
un amico, composti nel 1832; tornano
ora alla luce ricorrette dall’autore
notabilmente, ed accresciute del
Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, scritto nel 1825, del
Copernico,edelDialogodiPlotinoedi
Porfirio, composti nel 1827. Il Dialogo
di un lettore di umanità e di Sallustio,
che si trova nelle altre edizioni, in
questamancapervolontàdell’autore».
XVI
«LOSPETTATORE
FIORENTINO»,
GIORNALEDI
«NESSUNA
UTILITÀ»
1.CRONACADIUNGIORNALE
MAIUSCITO
Su
«Lo
Spettatore
Fiorentino»,1 progettato da
Leoparditral’autunno1831e
la primavera 1832, non si sa
molto.Sisa,comeinformail
Preambolo leopardiano, che
doveva uscire a Firenze il
«sabato d’ogni settimana»,
iniziando da sabato 2 giugno
1832, nel formato «di 16
pagine, in ottavo, in carta
reale»echeleassociazionisi
ricevevano «all’uffizio dello
Spettatore
fiorentino,
lung’Arno,n.4194».2
Ilcontratto3fustipulatoin
Firenze, nel «Maggio 1832»,
tra il livornese Giovanni
Freppa, editore-finanziatore,4
il conte Leopardi e Antonio
Ranieri. I tre contraenti
costituivano «una società»,
nella quale «il Signor Freppa
impiegheràilcapitaleditutte
le spese necessarie» alla
pubblicazione «ed i Signori
Leopardi
e
Ranieri
impiegheranno
rispettivamente il capitale
dellefatichedicompilazione,
e tutt’altro che riguarda la
redazione e la stampa».5 «Il
valoreintrinsecodellefatiche
dicompilazione»erastabilito
nella «ragione di Lire ottanta
fiorentine» per ogni numero.
L’editore
assicurava
a
Leopardi e Ranieri, per un
trimestre,
«l’anticipazione
mensile di lire trecentotrenta
da pagarsi loro con un mese
sempreanticipato»;tratteneva
persé«lirecento»mensiliper
le spese amministrative e
doveva «presentare in ogni
trimestreilcontodicassaagli
altri due socj».6 Se la prima
scadenza
trimestrale
si
chiudeva in attivo, l’impresa
sarebbe continuata «almeno
perlospaziod’unanno».«In
fine d’ogni anno, l’utile
netto» sarebbe stato «diviso
fra i tre socj in tre parti
uguali». Se alla prima
scadenza
trimestrale
si
registrava una «perdita»,
l’impresa sarebbe cessata e
«detta perdita» sarebbe stata
«divisa ugualmente in tre
partiuguali».7
Tanto
puntiglioso
scrupolo legale-finanziario,
registrato su carta bollata, si
sachefuresovanodalrifiuto
governativo.
Giovanni
Freppa, il 5 maggio 1832,
inoltravaistanzaalPresidente
del Buon Governo, Torello
Ciantelli, per il permesso di
pubblicazione, allegando, in
copia di suo pugno, il testo
del Preambolo8 con in
chiusura
il
nome
dell’estensore
Giacomo
Leopardi.9 Il Presidente del
Buon Governo non ebbe
indugi
nel
rifiutare
l’autorizzazione e incaricava,
in data 8 maggio, il
CommissariodelQuartieredi
Santa Maria Novella di
notificarelarispostanegativa
all’interessato.
Cosí su «Lo Spettatore
Fiorentino», mai nato, calò
per sempre il silenzio.
Giacomo ne dette privata
notizia alla sorella Paolina il
successivo26giugno:
De’mieiaffari,cometudici,chedovrei
scriverti?Riempirtiilnasodifumo,non
mi dà piú l’animo, e mi fa nausea. Di
arrosto,delqualeancora,nelmiostato
presente, m’importerebbe poco, non
possoparlarti,perchénullasiconclude.
Il 25 Luglio 1830 ha rovinata
coll’Europa la letteratura per un buon
secolo. Un mese e mezzo fa, io aveva
ripreso un progetto formato già prima
dellamiapartenzaperRoma[avvenuta
il 1o ottobre 1831], di un Giornale
settimanale. Prendendo a mio carico
tutta la compilazione, io riceveva 50
francesconi il mese. Di questa somma
(assai larga) pagando i compilatori,
forse un terzo sarebbe potuto
rimanermi. Di piú, avrei ricevuto il
terzo dell’utile netto dell’impresa, il
quale si calcolava che dovesse essere
molto grosso. Stesi e sottoscrissi il
manifesto: fu steso il contratto in carta
bollata. Il governo, per motivi che ho
poicapiti,echetunonpuoiindovinare,
decise nel consiglio de’ Ministri di
rigettare il manifesto.10 Non fu gran
disgraziaperme,chesapevogiàchela
mia salute mi avrebbe lasciato andare
pochissimoavanti;lamiaintenzioneera
difardelbeneadalcuniamiciavviando
il Giornale; il che fatto, e fondato
questo
stabilimento
che
tutti
predicevanoassailucroso,avreilasciata
ognicosaaloro.11
Per le drammatiche angustie
economiche di Leopardi, i
«50 francesconi» mensili
indicati alla sorella – che
puntualmente traducono le
«trecentotrenta lire» del
contratto –12 sono davvero
cifra «assai larga», ma il
«terzo»cheGiacomocontava
«forse» di trattenere per sé
s’accosta (un po’ per difetto)
aquei«18francesconi»cheè
la somma mensile da lui
indicata a Pietro Colletta
come bastante alla sua
sopravvivenza in Firenze13 e
infatti poi per un anno
regolarmente ricevuta dalla
liberalità degli «amici di
Toscana», dal maggio 1830
all’aprile1831.
Perché il rifiuto del
governo a questa iniziativa?
Secondo il piú recente
biografo,
«Giacomo
si
persuase che gli venisse
imputata la paternità dei
Dialoghetti»14 del padre,
apparsi a Pesaro nel gennaio
1832 (con data 1831) e dal
figlio pubblicamente ricusati
proprioinquelmaggio1832:
il 12 sull’«Antologia» – nel
fascicolo che reca tuttavia la
data di marzo – e il 23 sul
«Diario di Roma». L’ipotesi
potrebbe trovare conferma
anche nelle parole da
Giacomo inviate al cugino
Giuseppe Melchiorri il 15
maggio: «Fino il governo mi
è divenuto poco amico per
causa di quei sozzi, fanatici
dialogacci».15 Ma con ogni
probabilità la ragione del
divieto governativo era
diversa, di carattere meno
diplomatico
e
piú
direttamente
politico.
Dipendeva dal fatto che il
conte Giacomo Leopardi
risultavaiscrittonellalistadei
“sospetti” tenuti d’occhio
dalla polizia granducale,
messaall’ertadopoglieventi
del luglio francese (come
attestano
anche
i
provvedimentidiesiliocontro
GiuseppeeAlessandroPoerio
e contro Giordani nel
novembre1830),eancorapiú
allarmata dopo i moti del
1831. Dai quali, com’è noto,
Leopardi
si
tenne
convenientemente discosto,
peramaroconvincimento(già
nella
prospettiva
dei
Paralipomeni) della loro
dolorosa impotenza, per
quanto
i
concittadini
recanatesiavesseroconfidato,
eleggendolo deputato il 20
marzo 1831 per l’Assemblea
Nazionale
di
Bologna,
nell’acceso patriottismo delle
canzoniall’ItaliaeaDante.
Stadifattochenellalista
dei “sospetti” figurava per
certo il suo nome, insieme a
quello di altri frequentatori
del Gabinetto Vieusseux,16
dopo i rapporti segreti alla
polizia inviati dall’amico
avvocato Pietro Brighenti,
insospettabile spia al servizio
dell’Austria.17 È da credere
tuttavia che Leopardi fosse
consapevole della ragione
verachehaindottoilgoverno
toscanoabloccarel’iniziativa
del settimanale. Non per
nulla, nella lettera a Paolina,
il resoconto sull’«impresa»
fallita è preceduto da una
fraserivelatrice:«Il25Luglio
1830 ha rovinata coll’Europa
la letteratura per un buon
secolo». Quei «motivi» che
Giacomo afferma di avere
«poi capiti», e che la sorella
non
può
«indovinare»,
dovevano essere, anche per
lui, di carattere propriamente
politico.Lapresuntapaternità
dei Dialoghetti,18 con la loro
intransigente
coerenza
reazionaria,puòaverereso«il
governo […] poco amico» al
poeta, ma è il timore di un
liberalismo cospirativo, agli
occhi inquisitori della polizia
leopoldina
celato
sotto
l’apparente
leggerezza
divagante del Preambolo
leopardiano, che ha troncato
sul nascere il progetto del
nuovogiornale,inquelclima
teso
d’intolleranza
che
porterà di lí a dieci mesi, nel
marzo
1833,
alla
soppressione
dell’«Antologia».19
CheinLeopardienelsuo
sodale Ranieri l’idea di
quest’«impresa» giornalistica
sianatadaurgentebisognodi
danaro, è fuori dubbio.
Nell’aprile 1831 (mentre
uscivanoiCanti) era scaduta
l’ultima rata versata a
Giacomo per interessamento
diPietroCollettaenelluglio
dello stesso anno Ranieri era
privato dell’assegno paterno.
L’incertezza del domani
tormentavaentrambigliesuli,
proprio quando s’erano
ripromessidivivereinsiemee
diessere«unacosasola».20Il
«progetto» del settimanale, è
detto nella lettera a Paolina,
era «formato già prima della
miapartenzaperRoma»,vale
a dire prima dell’ottobre
1831: era dunque maturato
proprio in quell’estate nella
quale per i due amici ogni
concretosussidioeravenutoa
mancare. Le «angustie» si
erano fatte, come Giacomo
confessava a Carlo Troya, da
Roma, il 29 dicembre 1831,
«veramente orribili», anche
«perlenecessitàurgentissime
della giornata».21 In siffatta
precarietà, che toccava
davvero il limite della
sussistenza, il progetto del
periodico s’era presentato
come uno spiraglio per «non
perire di stento»:22 spiraglio
illusorio, perché il poeta
sapevacheinognicasolasua
salute lo «avrebbe lasciato
andare pochissimo avanti»
(come scrive alla sorella) e
ancheperchébeneconosceva,
per
triste
esperienza
personale, la condizione di
crisidelmercatolibrario:«La
letteratura–sisfogavaconil
padre, da Firenze, il 21
giugno 1831 – è in istato
d’asfissia dappertutto, e i
poveriletteratisonoinmezzo
alla strada. […] L’Europa è
piena di fallimenti di
librai».23
2.LA«INUTILITÀ»DEL
«FLÂNEUR»
La genesi coatta del
settimanale, che tenta di far
fronte a pressanti urgenze
economiche pur con la
consapevolezza
di
impedimenti e di rischi
oggettivi, ha persuaso non
pochiinterpretiasorvolaresu
quest’episodiodellabiografia
leopardiana,
considerato
eccentricoemarginale.Ilche
ha portato a sottovalutare il
giusto rilievo che invece
compete a «Lo Spettatore
Fiorentino»,
che
è
significativa
«iniziativa
pubblica»24 di carattere
giornalistico promossa da
Leopardi, a conferma in lui,
nel periodo del secondo
soggiorno fiorentino come
poi negli anni napoletani, di
un sorprendente bisogno di
confronto diretto con le
ragioni (o irragioni) della
cultura contemporanea. La
circostanzacontingente,cheè
l’occasione del progetto
fallito,comportatutt’altroche
occasionalità o marginalità
d’intervento da parte del
poeta, che non smentisce se
stesso e anzi mette in moto,
nel delineare il programma
del giornale, i presupposti
stessi di quel radicale
dissenso
intellettuale
e
conoscitivo che distingue la
sua ultima stagione. Con ciò
siamo al significato del
Preambolo, che conviene
rileggere almeno nei passi
essenziali:
[…]èmoltodifficileadefinirechecosa
debba essere […] [questo] Giornale.
[…] Non si trova altro che idee
negative: Giornale non letterario, non
filosofico, non politico, non istorico,
nondimode,nondiartiemestieri,non
d’invenzioni e scoperte, e via
discorrendo.Maun’ideapositiva,euna
parola che dica tutto, non viene. E di
qui un gran farneticare e un sudar
freddo per dare un titolo a questo
bellissimo Giornale. Se in italiano si
avesse una parola che significasse
quello che in francese si direbbe le
flâneur, quella parola appunto sarebbe
stata il titolo sospirato […]. Ma nella
linguaitaliana,benchéricchissima,non
si trova mai una parola di questo
genere. Per disperazione, abbiamo
lasciatodiaspirareallanovitàdeltitolo;
ecominciandodaunattodiumiltà,che
nonèlanostravirtúprincipale,cisiamo
appigliatialnomediSpettatore,chefu
nuovounsecoloemezzoaddietro[…].
Se la natura del nostro Giornale è
difficileadefinire,noncosíloscopo.In
questo non v’è misteri. Noi non
miriamo né all’aumento dell’industria,
néalmiglioramentodegliordinisociali,
né al perfezionamento dell’uomo. […]
Confessiamo schiettamente che il
nostro Giornale non avrà nessuna
utilità. E crediamo ragionevole che in
unsecoloincuituttiilibri,tuttiipezzi
di carta stampata, tutti i fogliolini di
visitasonoutili,vengafuorifinalmente
un Giornale che faccia professione
d’essereinutile[…].
Il nostro scopo dunque non è
giovare al mondo, ma dilettare quei
pochi che leggeranno. Lasciamo stare
che lo scopo finale d’ogni cosa utile
essendo il piacere, il quale poi
all’ultimo si ottiene rarissime volte, la
nostra privata opinione è che il
dilettevole sia piú utile che l’utile. Noi
abbiamo torto certamente, poiché il
secolo crede il contrario. Ma in fine se
nelgravissimosecolodecimonono,che
finquinonèilpiúfelicedicuis’abbia
memoria, v’è ancora di quelli che
voglionoleggereperdiletto,eperavere
dalla
lettura
qualche
piccola
consolazione a grandi calamità, questi
tali sottoscrivano alla nostra impresa.
[…] Benché proponghiamo di ridere
molto,ciserbiamoperòinteralafacoltà
di parlar sul serio: il che faremo forse
altrettanto spesso, ma sempre ad
oggettoeinmanieradidoverdilettare,
anco se si desse il caso di far
piangere.25
I modi dell’ironia ricordano
l’Annuncio
delle
dieci
‘Canzoni’ del settembre
1825. Ma là era il disincanto
di un autore che ripercorre a
ritroso il diagramma delle
proprie illusioni cadute e si
ritraedallascenadellastoria,
immerso nel timbro nuovo
delle Operette morali, dal
punto di vista impartecipe e
straniato di Filippo Ottonieri,
di quella sua saggezza
imperturbata e dolente,
spoglia di coinvolgimento
emotivo. Ora, nel maggio
1832, l’Ottonieri ha ceduto il
passo a Tristano, allo
«sdegno» e alla «fiera
compiacenza» (par. 8) di chi
nonsiritraedallascenadella
storia ma si scontra con gli
idolidell’oggi,conle«grandi
scoperte
del
secolo
decimonono» (par. 10). Il
quadro è profondamente
mutato, come è mutato il
poeta («cangiato molto nel
morale»)26 per effetto di
quella «grande esperienza di
se»27 che significa anche
impulso a operare dentro e
«in mezzo» alla vita, non la
vita
«immaginata»
ma
«reale»28 (vd. cap. XVII par.
1).Perciòècambiataanchela
musicadeisuoiversi:nonpiú
la
poesia
della
«rimembranza»,
dell’evocazione memoriale,
ma la poesia del presente,
riversata
sui
“pensieri
dominanti” nel presente, piú
tesa e franta. Se pensiamo
alla complessità dei motivi
etici, sociali, ideologici tra
loro
interconnessi
nell’unitario
motivo
dell’«amore» che sostiene il
ciclo di Aspasia, si direbbe
risortalatensionepropositiva
e parenetica delle canzoni
giovanili, pre-Operette, e
difatti anche nei testi di
Aspasia risuona acuminata la
polemica contro il «mondo
sciocco»econtro«questaetà
superba»
(Il
pensiero
dominante, vv. 38 e 59), con
accenti che saldano insieme
passioneemorale,autoanalisi
ecoscienzacivile.
Ma la protesta delle
canzoni giovanili presuppone
l’idea ancora positiva della
natura, quindi non esclude
l’ipotesidiunriscatto,perché
esprime il rimpianto di una
felicità perduta ma non
irraggiungibile e non irreale,
sídalasciarevarchisocchiusi
alla speranza. La scrittura
assolvealloralasuafunzione
propulsiva e il poeta affila le
armi, come risulta da Zib.
1393 (27 luglio 1821), per
«scuotere la mia povera
patria,esecolo»:scuoterlida
un corrotto e degradato
torpore. Questo impegno
militante è tenace e ancora
nel 1826, il 5 giugno,
Giacomo, attratto nell’orbita
della prosa morale-filosofica
delle Operette tuttora inedite
involume,scriveaFrancesco
Puccinotti: «Andando dietro
ai versi e alle frivolezze (io
parlo qui generalmente), noi
facciamo espresso servizio ai
nostri
tiranni,
perché
riduciamoaungiocoeadun
passatempo la letteratura,
dallaqualesolapotrebbeaver
sodo
principio
la
rigenerazione della nostra
patria».29 Non è consentito
indulgerealle«frivolezze»né
ai passatempi e conviene
guardare al «sodo». Siamo
lontani, come si vede – e il
termine «passatempo» è un
rilevatoresintomatico–,dalla
«inutilità» del «flâneur»
esibita a chiare lettere nel
Preambolo a «Lo Spettatore
Fiorentino». Anzi, per la
strategia della deprecatio
attivatanellecanzonicomein
parte anche nel Discorso
sopra lo stato presente dei
costumi degl’Italiani, uno
degli
obiettivi
consiste
proprio nel «giovare al
mondo»: che è per l’appunto
lo «scopo» espressamente
rifiutato nel Preambolo del
1832. I due piani della
militanza costruttiva e della
«professioned’essereinutile»
appaiono
separati,
inconciliabili:
tale
il
paradossale itinerario d’un
autore che dall’esordio
pubblico in veste di vate
civile,appassionatocultoredi
rinnovamento morale, è
giunto, strada facendo,
all’apologiadell’«inutilità».Il
tragitto è stato lungo,
sofferto, non rettilineo.
Infranto il mito della natura
benefica e tramontata la
speranza, esaurita la fase
dell’astensione “stoica” tra il
1825-’26 e poi trascorsa la
stagione del “risorgimento”
pisanorecanatese, il rinato
fervore etico-civile intorno al
Trenta ha trasformato la
protesta in denuncia, ha
convertito l’irta indignatio
delle canzoni giovanili in
trasgressivo
dissenso
ideologico che demolisce la
chiavedivoltadellamoderna
cultura borghese. Vale a dire
che il rifiuto colpisce l’etica
dell’utile
e
il
suo
funzionalismo sistematico,
tanto inteso al profitto e al
correlato mito del progresso
da non accordare credito né
valore a quanto esula dalla
categoria
dell’«utilità»
quantitativamente,
statisticamentemisurabile.
L’attacco esplicito contro
l’egemonia dell’utile (dopo
talune sparse riflessioni dello
Zibaldone) risale almeno al
primo soggiorno fiorentino,
quando Leopardi lavora a
quella
non
compiuta
Enciclopediadellecognizioni
inutili di cui riferisce
all’editore Stella il 13 luglio
1827: «Ora son dietro ad
ordinare i materiali della
Enciclopedia. Spero che sarà
un’Opera che si farà leggere
per forza da ogni sorta di
persone»;30 e poi il
successivo 23 agosto: «Sono
sempre
occupato
dell’Enciclopedia,
e
m’ingegno
di
renderla
un’operapiúpopolarechesia
possibile,anchenellostile».31
Ilprogettononandràinporto,
ma l’idea ritorna nei Disegni
letterari,
XI
(1829):
«Enciclopedia
delle
cognizioniinutili,edellecose
che non si sanno; o
Supplemento di tutte le
Enciclopedie».32
In
precedenza, nei Disegni
letterari, X (forse del 1826),
aveva
annotato:
«Enciclopediadiciance(odi
passatempo ec.)».33 I termini
«ciance» e «passatempo»
rilanciano,maquiinpositivo,
le
«frivolezze»
e
il
«passatempo»
denunciati
nella coeva lettera a
Puccinotti.
Cosa
l’Enciclopedia
potesse
contenere è difficile dire, ma
certo soccorre in proposito,
sulnesso«utile»-«inutile»,la
celebre lettera bolognese a
Vieusseux,del4marzo1826,
laddove Giacomo, rifiutando
l’offerta di collaborazione
all’«Antologia»
con
corrispondenze “eremitiche”,
affermachelasua«filosofia»
non risponde al canone
dell’«utilità» apprezzato «in
questosecolo»:«èbensíutile
a me stesso, perché mi fa
disprezzarlavitaeconsiderar
tuttelecosecomechimere,e
cosí mi aiuta a sopportar
l’esistenza;manonsoquanto
possa esser utile alla società,
e convenire a chi debba
scrivereperunGiornale».34E
piú
ancora
soccorre
l’altrettanto celebre lettera a
Giordani, da Firenze, del 29
luglio 1828 (vd. cap. XII par.
2).
La progressione tra il
1826 e il 1828 è stringente.
Non manca che un passo per
arrivare a Il pensiero
dominante e all’apostrofe
decisiva (vv. 59-65) contro
«questa età superba, / […] /
stolta, che l’util chiede, e
inutile la vita / quindi piú
sempre divenir non vede». Il
valore dell’inutilità diviene
unica garanzia per dare
«Pregio»(v.80)allavita,per
liberarla dai lacci d’una
prigione,
dal
dominio
dell’economia
e
della
statistica,
dalle
parole
d’ordinedei«nuovicredenti»
e dei nuovi tecnocrati:
«perché,quandotuttoèutile,
resta che uno prometta
l’inutileperispeculare».35Gli
aforismi dei Pensieri hanno
punte taglienti contro la
monetizzazione della vita,
contro «negozianti ed altri
uomini dediti a far danari»,
«eroi
vili»36
del
mercantilismo
contemporaneo, contro il
primato della «roba»37 e la
mercificazione
dell’arte.38
L’«utile» divinizzato porta a
divinizzare la «moneta», a
identificare l’«uomo» con i
«danari»chepossiede:
Quasi che gli uomini, discordando in
tutte l’altre opinioni, non convengano
che nella stima della moneta: o quasi
cheidanariinsostanzasienol’uomo;e
non altro che i danari: cosa che
veramenteparepermilleindizichesia
tenuta dal genere umano per assioma
costante, massime ai tempi nostri. Al
qual proposito diceva un filosofo
francese del secolo passato:39ipolitici
antichi parlavano sempre di costumi e
di virtú; i moderni non parlano d’altro
che di commercio e di moneta. Ed è
gran ragione, soggiunge qualche
studentedieconomiapolitica,oallievo
delle gazzette in filosofia: perché le
virtú e i buoni costumi non possono
stare in piedi senza il fondamento
dell’industria; la quale provvedendo
alle necessità giornaliere, e rendendo
agiatoesicuroilvivereatuttigliordini
di persone, renderà stabili le virtú, e
proprie dell’universale. Molto bene.
Intanto, in compagnia dell’industria, la
bassezza dell’animo, la freddezza,
l’egoismo, l’avarizia, la falsità e la
perfidia mercantile, tutte le qualità e le
passioni piú depravatrici e piú indegne
dell’uomo incivilito, sono in vigore, e
moltiplicano senza fine; ma le virtú si
aspettano.40
Non solo il termine
«industria» ha deposto il
significato di ‘operosità’ e
‘laboriosità’ (che ritroviamo
nelle Operette morali), per
designare invece la moderna
organizzazione produttiva di
beni di consumo, ma questa
nuova accezione è introdotta
perboccadiuno«studentedi
economia politica», «o
allievo delle gazzette in
filosofia», con rinvio dunque
all’ironico “evviva” del
Tristano verso le «scienze
economiche» (par. 27) e al
mordente satirico della
Palinodia contro i «severi /
economici studi» di «questa
virile età» (vv. 233-34) e
contro «le gazzette, anima e
vita / dell’universo, e di
savere a questa / ed alle età
venture unica fonte!» (vv.
151-53).Laclausolalapidaria
(«malevirtúsiaspettano»)è
da collegarsi, con analoga
funzione
di
desolato
rimpianto, a «Valor vero e
virtú, modestia e fede / e di
giustizia amor», evocati con
drammatico pudore nella
Palinodia (vv. 69-70), e poi
alla«Bellavirtú»salutatanei
Paralipomeni(V47-48)dopo
l’epicamortediRubatocchi.
Se nel marzo 1826, nella
lettera a Vieusseux, la
«filosofia»
dell’inutilità
sembra non «convenire a chi
debba scrivere per un
Giornale», ecco che nel
maggio 1832 proprio su
questa «filosofia» negativa si
fonda l’impresa d’un nuovo
giornale.41 All’aristocratico e
disperato
«vizio
dell’absence»
e
della
«solitudine»42èsubentratoun
propositooperativo:nonneè
protagonista però il Romito
degli Appennini che, da
intellettuale liberale, flagella
«i nostri costumi e le nostre
istituzioni» per la riforma
della società, ma ne è
protagonista
l’uomo
antipolitico o apolitico della
«grande esperienza di se»43
che
difende
l’eversiva
«filosofia»
dell’inutile,
perché non s’illude sulla
«perfezione
degli
stati
civili»44 né sul rinnovamento
politico e sociale né sulla
«felicità dei popoli»,45 ma
intende spalancare gli occhi
suoiedituttisulla«infelicità
inevitabile»46
di
ogni
individuo e da tale disillusa
consapevolezza
trarre
l’energia per «sopportar
l’esistenza».47
Non si tratta piú, come
nel 1826, di rifiutare
l’adesione all’«intrapresa» di
Vieusseux,madipromuovere
una «intrapresa» antitetica
all’«Antologia»,
legittimamente considerata
l’espressione piú alta e piú
agguerrita di una militanza
intellettuale fiduciosa nelle
«magnifiche
sorti
e
progressive».48
Antitetica
all’«Antologia»,
come
antiteticaa«IlProgresso»che
si stampava allora a Napoli;
anzi
il
Preambolo
leopardianoribaltaallalettera
il Proemio apparso due mesi
prima (anonimo ma forse di
Giuseppe
Ricciardi)
in
aperturaalnumeroinaugurale
del foglio napoletano, il 5
marzo1832,dovesilegge:
ciascunopuòvederepersémedesimoi
termini di quest’opera, nella quale
studiosamente accorremo ogni cosa,
purché in sé chiuda alcun utile, purché
sia rivolta a giovare il progresso
dell’umano sapere. […] Non tanto alle
lettere ed alle arti avremo riguardo,
quanto alle scienze, in queste
principalmente
il
grand’utile
consistendo,
queste
giovando
potentemente quel caro progresso che
favellammo.49
Chi ha scritto il
Preambolo a «Lo Spettatore
Fiorentino» sa bene che «il
secolo crede il contrario» di
quanto lui sostiene e sa bene
di essere solo. La sua
appassionata
apologia
dell’«inutile»
e
del
«dilettevole» viene da un
processo distruttivo che sta
per aprire la strada ai veleni
della
satira,
con
i
Paralipomeni e la Palinodia.
Ilpuntodivistadel«flâneur»
che si propone «di ridere
molto», serbandosi «però
intera la facoltà di parlar sul
serio», prelude alla crudezza
aforistica dei Pensieri, ai
giudizi del «mal pensante»
neiParalipomeni(V24,v.3)
e alla sua filosofia «amara e
trista» (IV 16, v. 6), come
prelude
all’ironica
dissimulazione, beffarda e
drammatica, della Palinodia.
Ma al tempo stesso la difesa
dell’«inutile»
e
del
«dilettevole» sottintende un
valoreconoscitivo,storicoed
esistenziale: è l’«inutile»
della bellezza, degli affetti,
dell’amore,èl’«inutile»della
poesia e delle illusioni che
unicamente può dare senso e
respiro alla fragile tragicità
dell’esistere.«Dellaletturadi
un pezzo di […] vera poesia
[…], si può, e forse meglio,
(anche in questi sí prosaici
tempi) dir quello che di un
sorriso diceva lo Sterne; che
essaaggiungeunfiloallatela
brevissima della nostra vita»
(Zib.4450,1ofebbraio1829).
Importa osservare che il
Preambolo
leopardiano
s’indirizza «massimamente»
alle «donne» – già chiamate
in causa nella premessa al
commento petrarchesco del
1826 –, non per ridicola
«galanteria», bensí «perché è
verisimilecheledonne,come
meno severe, usino piú
degnazione
alla
nostra
inutilità»:50 interessa un
pubblico virtualmente non
omologato e non asservito
alle parole d’ordine del
funzionalismo
produttivo.
Proprio su questo significato
dell’«inutile», fiorito nel
«desertodellavita»(Tristano,
par. 8) e prodigiosamente
libero dai condizionamenti
delleideecorrenti,sigiocala
modernità di Leopardi, con
suggestiva prefigurazione del
flâneur
di
Baudelaire.
«Inutile» vuol dire passione
della conoscenza per la
conoscenza come valore in
sé; vuol dire ricerca di una
dignità
dell’essere
e
dell’esistere che non si può
vendere né comprare. Il
Preambolo nel maggio 1832
vadiparipassoconlosdegno
chevibranellafamosalettera
a De Sinner, del 24 dello
stesso mese, e l’uno e l’altra
vanno insieme con il
Tristano:segnocheilprimato
dell’inutilità è un atto
dissacrante nei confronti del
modello di sviluppo della
moderna società borghese e
insieme un atto di fierezza
che comporta (con le parole
di Tristano) «il coraggio di
sostenere la privazione di
ogni speranza, […] ed
accettaretutteleconseguenze
di una filosofia dolorosa, ma
vera»(par.8).Il«dilettevole»
del «flâneur» non è
distrazionedal«vero»,perché
«glistudidelbello,gliaffetti,
le
immaginazioni,
le
illusioni» (di cui discorre la
lettera a Giordani del luglio
1828) indissolubilmente si
legano alla contemplazione
del negativo e acquistano
intensità proprio dall’acuta
coscienza del nulla. Come il
profumo
dell’odorata
ginestra. Ogni navigazione
perigliosa (dice Colombo a
Gutierrez) «ci fa cara la vita,
cifapregevolimoltecoseche
altrimenti non avremmo in
considerazione» (par. 13): la
vita, «cosa arcana e
stupenda» (Coro di morti, v.
23).«Chiposemai–continua
Colombo – nel numero dei
beniumanil’avereunpocodi
terra che ti sostenga?» (par.
17).
Il fatto nuovo nel 1832 è
il proposito di rendere
«popolare»
con
«Lo
Spettatore Fiorentino» la
«filosofiadolorosa,mavera»,
secondo il disegno già
vagheggiato
con
l’Enciclopedia
delle
cognizioniinutili(«Speroche
sarà un’Opera che si farà
leggere per forza da ogni
sorta
di
persone»;
«m’ingegno di renderla
un’operapiúpopolarechesia
possibile, anche nello stile»).
Fattonuovoenonirrilevante,
se il motivo della diffusione
del «vero» diventa centrale
nella terza lassa di La
ginestra(vv.145-57).
Rendere «popolare» una
filosofia disperata non vuol
dire ridurla in pillole dorate,
ma affabilmente comunicarla
in forme piane, ironiche,
sorridenti, tanto che dalla
drammatica consapevolezza
del dolore scatti la molla del
«dilettevole», si produca la
condizione necessaria per
assaporare questo prodigioso
efuggitivo«figliod’affanno»
(La quiete dopo la tempesta,
v.
32):
non
come
occultamentodel«vero»,non
come inganno dell’intelletto
(Tristano,par.7)mainganno
dell’immaginazione,
“dilettoso inganno” (cfr. Il
tramonto della luna, v. 24).
Ha allora ottime probabilità
di cogliere nel segno
l’ipotesi51 che a «Lo
Spettatore Fiorentino» fosse
destinato il Dialogo di un
venditore d’almanacchi e di
un passeggere. L’operetta si
richiama, fino dal titolo, a
quellaproduzionedivulgativa
dialmanacchi,strenne,lunari
che
molto
era
cara
all’ambiente
dell’«Antologia»,
del
«Giornale agrario toscano»,
come poi della «Guida
dell’Educatore» e delle sue
annesse «Letture per i
Fanciulli» e «Letture per la
Gioventú».52 Ma l’«utile»
professato dai responsabili di
questi periodici comporta,
com’è noto, una letteratura
edificante,
filantropica,
paternalistica, intonata a
guardinghi
programmi
riformistici
di
ammodernamento
dell’apparato
produttivo,
quindi incline al patetico
della benevolenza, alla
necessità del sacrificio, al
rispetto
dell’autorità,
all’idillico interclassismo dei
benefattori e dei subalterni
beneficati.
L’«inutile»
professato da Leopardi si
traduce in una sceneggiatura
dialogata di domestica levità
che ricorre alla tecnica
maieutica dell’interrogazione
e per questa via illumina la
sostanzaconcettualedelmale
di vivere, abilitando in senso
attivo e partecipe il ruolo di
spalla del «Venditore», poi
circolarmente si chiude
lasciando intatta l’«illusione
dellasperanza»(Zib.4284,1o
luglio1827).
Non una pedagogia
strumentaleeomologante,ma
un «dialogo» liberatorio,
funzionale
all’autonoma
libertà
di
giudizio
dell’interlocutore, alla sua
integrità etica e psicologica.
L’ironicaleggerezzadeltesto
smorza ma non cancella
l’amarezza speculativa. Il
divagante
e
scherzoso
«flâneur» (al pari del
«Passeggere») può trovarsi,
come si avverte nel
Preambolo, nel «caso di far
piangere», ma non accetta di
rinunciare al sorriso, al
«dilettevole», al “dilettoso
inganno” dell’illusione che
«aggiunge un filo alla tela
brevissima della nostra vita».
«Coll’anno nuovo, il caso
incominceràatrattarbenevoi
e me e tutti gli altri, e si
principieràlavitafelice.Non
è vero?». La vita felice …
conl’annonuovo.
1. In questo capitolo mi avvalgo in
parte del mio studio «Lo Spettatore
Fiorentino», giornale di «nessuna
utilità», in «La Rassegna della
letteratura italiana», s. IX 1999, 1 pp.
210-22,quindinell’operacollettivaUna
giornata leopardiana in ricordo di
WalterBinni,cit.,pp.75-93.
2. Lo Spettatore Fiorentino.
Giornalediognisettimana.Preambolo,
in TO, I p. 993. Su «Lo Spettatore
Fiorentino» si segnala lo studio
pregevole di I. DEL LUNGO, Un
periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi, in «Nuova Antologia», 16
agosto 1920, pp. 297-310, che osserva
come il Preambolo «non sia stato
rilevatoperquelsingolareeimportante
documento ch’esso è del pensiero
leopardiano, anzi documento di vita e
d’anima non meno rilevante che gli
Scritti [di Leopardi] divulgati nella
comunedeilettori».Adistanzadicirca
ottant’annil’affermazionerestaattuale.
3. Il testo del contratto si legge in
BRESCIANO,Carteggioineditodivarii
con G. Leopardi, con lettere che lo
riguardano,cit.,pp.475-77.
4. Su questo non propriamente
raccomandabile personaggio, nato a
Livornonel1794emortoaFirenzenel
luglio 1870, faccendiere di pochi
scrupoli, cfr. DEL LUNGO, Un
periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi, cit., pp. 306 sgg., con le
relativesegnalazionibibliografiche.
5.BRESCIANO,Carteggioineditodi
variiconG.Leopardi,cit.,p.476.
6.Ibid.
7.Ibid.
8. L’istanza di Giovanni Freppa,
con allegata la copia apografa del
Preambolo leopardiano, e la relativa
risposta negativa del Presidente
Ciantelli, si conservano all’Archivio di
Stato, Firenze, Presidenza Buon
Governo Affari comuni (1814-1848),
Parte I, 2217, Filza 19, n. 33. Questi
documenti sono editi in DEL LUNGO,
Un periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi, cit., p. 307, che riproduce
anche il testo del Preambolo dalla
primaedizionenota,valeadirequellaa
cura di Giordani e Pietro Pellegrini
(Studi filologici, Firenze, Le Monnier,
1845,pp.280-83),registrandoinnotale
varianti della copia annessa alla
domanda di Giovanni Freppa. Si noti
che secondo DEL LUNGO (p. 307), la
suddettadomandarisultaprivadidata.
9. Altra copia manoscritta del
Preambolo, per mano di Ranieri, si
trova nella Biblioteca Riccardiana di
Firenze, Raccolta Frullani, ms. 1057, 2
(cfr.P.G.CONTI,L’autoreintenzionale.
Ideazioni e abbozzi di G. Leopardi,
Losone, Alla Motta, 1966, p. 48).
L’autografo leopardiano è tra le carte
napoletane(B.XI9).GiovanniMestica
(ScrittiletteraridiG.Leopardiordinati
erivedutisugliautografiesullestampe
corrette dall’autore, Firenze, Le
Monnier, 1899, 2 voll., II pp. 379-82),
pur
conoscendo
naturalmente
l’autografo napoletano, ripropone il
testo Giordani-Pellegrini (dove non è
indicatalafonte),ritenendoloesemplato
sull’«edizione originale» del manifesto
apparsa a Firenze nel 1832: «Questo
Preambolo fu stampato a Firenze nel
maggio o giugno del 1832 […]. Non
avendo io potuto trovare l’edizione
originale, mi attenni alla ristampa
fattane dal Giordani» (ivi, II p. 430).
FrancescoFlora(LEOPARDI, Le poesie
eleprose,cit.,IIpp.715-18)pubblicail
Preambolo dall’autografo napoletano e
segnalanell’apparatolevariantidell’ed.
Giordani-Pellegrini del 1845, che
anch’egli ritiene fondata sulla stampa
fiorentina del 1832 (ivi, p. 1136).
Invece è certo che Giordani-Pellegrini
hanno riprodotto la copia Ranieri della
Biblioteca Riccardiana. Quanto alla
stampa del manifesto (a Firenze, nel
1832) data per sicura da Mestica (in
maggio o giugno) e da Flora (in
maggio),quindinominatadasuccessivi
editori, è molto probabile che non sia
mai esistita. Convincente in proposito
DEL LUNGO, Un periodico-parodia
disegnatodaG.Leopardi,cit.,p.308n.
1: «il cercare, come il Mestica fece,
“l’edizione originale” era vano, e
malfondato il suo credere che il
Preambolo fosse “stampato”, poiché
ben s’intende come, presentato
manoscritto al Buon Governo, non fu,
dopolanegativadiquesto,piúilcasodi
stamparlo né sarebbe stato permesso».
EDELLUNGOipotizzadiconseguenza
(ma erroneamente) che GiordaniPellegrini debbano essersi avvalsi
dell’autografo. L’edizione dunque del
Preambolo non può che attenersi
all’autografo napoletano (edito da
Flora), corredato in apparato dalle
varianti delle copie apografe che sono
note.
10. Leopardi afferma che il rifiuto
del «manifesto» fu deciso nel
«consiglio de’ Ministri», ma ne fa
dubitare (osserva DEL LUNGO, Un
periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi, cit., p. 307) «la forma della
comunicazione»trasmessaaFreppadal
Presidente del Buon Governo, «e
nessundocumentoarchivistico,nédagli
atti del Ministero né da quelli della
Censura sulla stampa, suffraga tale
affermazione», né è plausibile «il
supporre comunicazioni verbali che
siano passate fra “Ministero” e
“Dipartimento del Buon Governo”, o
fraCensuraeDipartimento».
11.G.LeopardiallasorellaPaolina,
Firenze, 26 giugno 1832, in TO, I p.
1386.
12.Unfrancesconeequivalevacirca
a lire toscane 6,6. Per comodità di chi
legge l’epistolario leopardiano, dov’è
quasi costante il riferimento a monete
diverse, può essere utile rammentare
(prendendocomebaseilpaolotoscano)
che: 1 zecchino vale 22 paoli; 1 scudo
toscano 17 paoli; 1 francescone 10
paoli;1lira1,5paoli.
13. «Mi diceste una volta che 18
francesconialmesebastavanoalvostro
vivere» (P. Colletta a G. Leopardi,
Firenze,23marzo1830,inEpist., V p.
272).
14.R.DAMIANI, Vita di Leopardi,
Milano, Mondadori, 1992, p. 471. Di
analogo parere già Moroncini, cfr.
Epist.,VIp.193n.1.
15. G. Leopardi a G. Melchiorri,
Firenze, 15 maggio 1832, in TO, I p.
1381.
16. Come Pietro Colletta, che si
vide nel maggio 1831 intimato l’esilio,
«al quale fu sottratto dalla malattia, e
ben presto dalla morte» (LEVI, G.
Leopardi, cit., p. 385), sopraggiunta a
Firenzeil10novembrediquell’anno.
17.Inproposito,cfr.oralapreziosa
documentazione fornita da W.
SPAGGIARI, Leopardi, Giordani,
Brighenti(1996),inID.,L’eremitadegli
Appennini. Leopardi e altri studi di
primoOttocento,cit.,pp.67-116.
18. Un rapporto di Brighenti,
redatto il 23 aprile 1832, svelava al
governo austriaco il vero autore dei
Dialoghetti.Cfr.SPAGGIARI,Leopardi,
Giordani,Brighenti,cit.,p.83.
19. Di altro avviso è DEL LUNGO,
Un periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi, cit., p. 307, che ritiene
indecifrabili i «motivi» che Giacomo
dice alla sorella di avere «poi capiti»;
quindi, p. 301 n. 2, dopo avere citato
G.A.CESAREO,LavitadiG.Leopardi,
Palermo,Sandron,1902,p.140(«Stese
e sottoscrisse il manifesto; ma il
Governo, conoscendo i suoi polli e
spaventato da’ moti dell’anno
antecedente, negò il permesso della
pubblicazione»), postilla: «Io temo che
ciò sia un far troppo onore a quel
Governo, e che quel Governo non ne
facesse tanto a Giacomo Leopardi».
Credo che quest’«onore» spetti a quel
governo, ch’era meno distratto di
quantoritengaDelLungo.
20.G.LeopardiaC.Troya,Roma,
29dicembre1831,inTO,Ip.1372.
21.Ibid.
22.Ibid.
23. Ivi, p. 1361. Questo stato di
estrema necessità economica indusse
Giacomo, svanito il progetto del
settimanale,alladisperatarisoluzionedi
chiedere soccorso al padre, da Firenze,
il 3 luglio 1832, con una lunga lettera
dignitosamente accorata e drammatica:
«Mitrovo[…]senzaimezzidiandare
innanzi. / Se mai persona desiderò la
morte cosí sinceramente e vivamente
come la desidero io da gran tempo,
certamente nessuna in ciò mi fu
superiore.[…]Nonsoselecircostanze
della famiglia permetteranno a Lei di
farmi un piccolo assegnamento di
dodici scudi il mese. Con dodici scudi
non si vive umanamente neppure in
Firenze, che è la città d’Italia dove il
vivere è piú economico. Ma io non
cerco di vivere umanamente: farò tali
privazioni, che a calcolo fatto, dodici
scudimibasteranno.Megliovarrebbela
morte, ma la morte bisogna aspettarla
da Dio. In caso che Ella potesse e
volessequesto,nonavrebbecheaporre
didueinduemesiamiadisposizionela
somma di 24 scudi presso qualche suo
corrispondente in Roma, avvisandomi
la persona; sopra la quale io trarrei di
qualadettasommapercambiale.Avrei
caro che il suo ordine fosse per 24
francesconi,ilcheaLeinonporterebbe
grande aumento di spesa, e a me
farebbe gran divario, essendoci ora
grandissima perdita nel cambio degli
scudi romani o colonnati con
francesconi. Ed Ella sa che i
francesconisispendonoquicomecostà
i colonnati» (ivi, pp. 1386-87). Non
avendoricevutarisposta,Giacomoil24
luglio scrisse di nuovo con ansia
(«perché la cosa di cui le parlavo, è
urgentissima», ivi, p. 1388) e
finalmente il 4 agosto Monaldo gli
comunicò di concedere la somma
richiesta di «24 francesconi» ogni due
mesi (cfr. la lettera di Giacomo al
padre,14agosto1832,ivi,p.1389).
24. D. DE ROBERTIS, Leopardi e
Firenze (1987), in ID., Leopardi. La
poesia,cit.,p.274.
25. Lo Spettatore Fiorentino.
Giornalediognisettimana.Preambolo,
inTO,Ipp.992-93.
26.G.LeopardiallasorellaPaolina,
Firenze,26giugno1832,ivi,p.1386.
27.Pensieri,LXXXII,ivi,p.238.
28.Ibid.
29. G. Leopardi a F. Puccinotti,
Bologna, 5 giugno 1826, in TO, I p.
1255.
30.Ivi,p.1288.
31.Ivi,pp.1291-92.
32.Ivi,p.372.
33.Ibid.
34.Ivi,p.1243.
35. Lo Spettatore Fiorentino.
Giornalediognisettimana.Preambolo,
ivi,p.992.
36.Pensieri,VII,ivi,p.218.
37.Pensieri,XCIV,ivi,p.241.
38.Cfr. Pensieri, III e LIX, ivi, pp.
217e233.
39.Ilpassooriginaleèregistratoin
Zib. 4500 (8 maggio 1829): «Les
anciens politiques parloient sans cesse
de moeurs et de vertus; les nôtres ne
parlent que de commerce et d’argent.
Rousseau, Pensées, II, 230». Leopardi
lesse le Pensées di Rousseau
(Amsterdam 1786, 2 voll.) nel 1829
(cfr. Elenchi di letture, p. 1164) e ne
trascrisse numerosi brani in Zib. 4474511(28marzo-17maggio1829).
40.Pensieri,xLIV,inTO,Ip.229.
41. Quanto al titolo «Lo Spettatore
Fiorentino», si rammenti il progetto
annotato nei Disegni letterari, XII
(1828),inTO, Ip.372:«Articolidiun
Giornale settimanale, Osservatore o
Spettatore ec.». DEL LUNGO, Un
periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi, cit., p. 306, ricorda (con
rinvio a P. PRUNAS, L’«Antologia» di
G.P.
Vieusseux,
Roma-Milano,
Albrighi-Segati, 1906, p. 104) che
«quelle corrispondenze “eremitiche”»,
richieste a Leopardi da Vieusseux nel
1826, «dovevano, intrecciate con altre
corrispondenze “cittadine” di altri,
formare una rubrica trimestrale da
intitolarsiloSpettatoreitaliano».
42. G. Leopardi a G. Vieusseux,
Bologna, 4 marzo 1826, in TO, I pp.
1242-43.
43.Pensieri,LXXXII,ivi,p.238.
44. G. Leopardi a P. Giordani,
Firenze,29luglio1828,ivi,p.1321.
45.Ibid.
46.Ibid.
47. G. Leopardi a G. Vieusseux,
Bologna,4marzo1826,ivi,p.1243.
48. Curioso (in DEL LUNGO, Un
periodico-parodia disegnato da G.
Leopardi,cit.,pp.303-4)lostuporeper
il fatto che Leopardi non si sia
consigliato in merito a «Lo Spettatore
Fiorentino» con l’amico Vieusseux:
«Parrà strano che del disegno di un
periodico, sulla cui pubblicazione il
povero Leopardi faceva tanto
assegnamento, egli non si consigliasse
con l’uomo che a consigliarlo e
praticamente avviarlo era, non che in
Firenze ma in tutta Italia, il piú atto, e
che gli aveva dimostrato non meno
affetto che stima, Giampietro
Vieusseux», proprio il direttore
dell’impresa giornalistica che il
giornale
leopardiano
intendeva
contestare.
49. «Il Progresso delle Scienze,
delle Lettere e delle Arti», I, Napoli,
Porcelli,1832.
50. Lo Spettatore Fiorentino.
Giornalediognisettimana.Preambolo,
inTO,Ip.993.
51. Cfr. LEVI, G. Leopardi, cit., p.
359. Cfr. anche Operette morali, ed.
FUBINI, cit., pp. 274-76, e A.
FERRARIS,L’ultimoLeopardi.Pensiero
e poetica 1830-1837, Torino, Einaudi,
1987,pp.26-27.
52. Sull’argomento, cfr. G.
TELLINI, Manzoni 1827: Milano e
Firenze (1985), in ID., Letteratura e
storia. Da Manzoni a Pasolini, Roma,
Bulzoni, 1988, pp. 11-37; ID., Il
romanzo italiano dell’Ottocento e
Novecento, Milano, Bruno Mondadori,
1998,pp.65sgg.
XVII
ILCICLODI
ASPASIAELEDUE
SEPOLCRALI
1.LA«VITA»NON
«IMMAGINATA»MA
«REALE»
La lettera dedicatoria
«AgliamicisuoidiToscana»,
in data 15 dicembre 1830,
premessa ai primi Canti
(1831), ha il rintocco
funebrepatetico del congedo
testamentario:
«prendo
commiatodallelettereedagli
studi. […] Ho perduto tutto:
sono un tronco che sente e
pena». Eppure la smentita è
imminente
e
subito
s’annuncia con il ciclo di
Aspasia:1
Il
pensiero
dominante (Firenze, forse
primaveraestate1831),Amore
eMorte(ivi,forseprimaveraestate 1832), Consalvo (ivi,
forse autunno 1832), A se
stesso (ivi, forse primavera
1833),Aspasia(Napoli,vd.il
«mar» al v. 112, forse
primavera1834).
Gli eventi biografici
rendono conto, in buona
parte,diquestasvolta.Del30
aprile 1830 è l’addio per
sempre a Recanati. Il borgo
trasceso liricamente nel
Canto notturno (terminato il
9aprile)èoratrascesoanche
fisicamente: che è strappo
quasi temerario per il poeta,
per le sue devastate
condizioni di salute e per le
sue misere finanze, quindi
avventurosa quanto disperata
sceltadivincereaognicosto
la solitudine e l’isolamento,
per confrontarsi, fuori della
«notteorribile»2delvillaggio,
con la realtà del mondo di
fuori.Ilconfrontosisacheè
stato uno scontro, come
dichiara nel 1832 – con il
Preambolo a «Lo Spettatore
Fiorentino» – la risolutezza
ironicotragica del Tristano.
Maisegnidellasconfittanon
placanoi«desideriiintensi»,3
l’energia, le «facoltà» e le
«forze» interiori che hanno
indotto lo scrittore al passo
risolutivo della fuga senza
ritorno, spinto dalla necessità
di «una grande esperienza di
se»:
Nessuno diventa uomo innanzi di aver
fatto una grande esperienza di se, la
quale rivelando lui a lui medesimo, e
determinando l’opinione sua intorno a
sestesso,determinainqualchemodola
fortunaelostatosuonellavita.[…]In
fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto
nuovo, già mutata per lui di cosa udita
in veduta, e d’immaginata in reale; ed
eglisisenteinmezzoadessa,forsenon
piú felice, ma per dir cosí, piú potente
diprima.4
Piú potente: «in mezzo» alla
vita, non «immaginata» ma
«reale». La fuga da casa non
colma
il
vuoto
dell’isolamento e della
solitudine – che hanno radici
profonde e vengono dal
didentro –, ma è risolutiva
autochiarificazione
(«rivelando lui a lui
medesimo»),premessadiuna
stagione
nuova,
di
un’indomita
protesta
ideologica. Si direbbe il
ritornoallafasedellecanzoni
giovanili, pre-Operette: ma
gli anni non sono passati
invano e quella carica
combattivanehafattotesoro.
L’incontro fiorentino con
Fanny è l’occasione esterna,
il combustibile necessario
all’ardore di questa «grande
esperienza di se» che ridesta
le illusioni, prima e suprema
quella dell’amore. Un nuovo
«risorgimento», ma con altri
attributi. L’autoanalisi del
soggetto poetico integra il
nesso tra l’io e la condizione
esistenziale con un rianimato
interesse–piúconsapevolee
disperato a confronto delle
canzoni giovanili – rivolto
alla realtà storica, al «mondo
sciocco»
(Il
pensiero
dominante, v. 38), a «questa
età superba» (v. 59).
L’«esperienza di se» fa
sentire i suoi effetti. Rispetto
alla stagione lontana delle
canzoni – scomparsa la
centralità del contrasto
antichi-modernicheneerala
molla propulsiva e venuta
meno da tempo la nozione
salvifica della natura –, s’è
dissolto quell’accento di
animosa protesta che ancora
implicava la possibilità di un
riscatto, di una rigeneratio
dei costumi. Ora la denuncia
è condanna senza appello,
pronunciata con tono alto e
risoluto, anche acre, da un io
che è protagonista della
scena, acceso dall’intensità
delleproprieillusioni,intento
a celebrare le ragioni che
rendono per lui la vita degna
di essere vissuta, di contro
alle«votesperanze»dell’«età
superba».
Il
pensiero
dominante risuona perentorio
(vv.59-68):
Diquestaetàsuperba,
chedivotesperanzesinutrica,
vagadiciance,edivirtú
nemica;
stolta,chel’utilchiede,
einutilelavita
quindipiúsempredivenirnon
vede;
maggiormisento.Ascherno
hogliumanigiudizi;eilvario
volgo
a’beipensieriinfesto,
edegnotuodisprezzator,
calpesto.
Il giro sintattico tiene
energicamente distanti i due
attori in conflitto, l’«età
superba» e l’io, sí da
accentuare
la
tensione
dell’urto. La posta in gioco
non è di poco conto: si tratta
di dare un senso alla «vita»
(v.63),chesoltantogliaffetti
e i sentimenti disinteressati
possono
non
rendere
«inutile».
Anche rispetto ai canti
pisano-recanatesi, la voce ha
mutato tono e flessione. Non
piú
la
poesia
della
«rimembranza», l’evocazione
memoriale del passato, la
cristallinapitturadelborgo,il
duplice registro figurativo e
ragionativo, l’alta riflessione
elegiaco-melodica; ma la
poesia
del
presente
(dell’amore
disvelato
nell’oggi), piú tesa, franta,
segmentata,
scabra,
esclamativa, antimelodica,
anche aperta a echi di
rimatori
antichi
prepetrarcheschi (Guittone, i
Siciliani, gli Stilnovisti,
Dante incluso).5 L’umano
desiderio, che nella canzone
Alla sua donna vibra in
absentia per «la donna che
non si trova»; l’umana
affezione che altrove – come
per Nerina nella lassa ultima
di Le ricordanze – ricade su
se stessa e rende straziante il
ricordo, si espandono in
presenza di un’«Angelica
beltade»
(Il
pensiero
dominante, v. 130) che abita
miracolosamente sulla terra,
non in un tempo ipotetico o
remoto, ma qui e ora. La
fusione dei registri figurativo
eragionativocomportal’esito
inedito di una lirica che
intreccia passione e morale,
confessione e ideologia
(come
nel
Tristano),
interrogazione interiore e
coscienzacivile:raffigural’io
innamoratoeargomentasulla
natura dell’amore, come
eroica virtú che insegna a
contrastare le «voglie» non
nobili6 e insieme spinge allo
scontro agonistico contro gli
idoli
della
cultura
contemporanea(cheèaspetto
ripreso nei versi satirici, poi
sviluppato con La ginestra).
L’indignatio delle canzoni
giovanili ritorna temprata da
una lunga meditazione,
illimpidita e acuminata dal
filtro delle Operette e dei
canti pisano-recanatesi, sí da
mettereinmotoinquest’idea
dell’«amore»
(«l’inganno
estremo»: A se stesso, v. 2)
una sorprendente complessità
di motivi affettivi, etici,
sociali,ideologici,civili.
2.LESEQUENZE
DELL’«INGANNOESTREMO»
Il ciclo di Aspasia
scandisce le sequenze di una
vicenda amorosa a epilogo
(prevedibilmente) infausto,
dal
tumultuoso
appassionamento (Il pensiero
dominante, che su diverso
piano ridice la stupefazione
cantata con Il risorgimento)7
fino al disinganno (A se
stessoeAspasia).Il pensiero
dominante rifiuta il ricorso
alla parola «amore» e
impiega«affetto»(vv.70,71,
76), soprattutto «pensiero»
(vv.6,88,110,117,147),per
non impoverire con un
termine logorato dall’uso la
sovrana potenza di questo
«dominator di mia profonda
mente» (v. 2): dominatore
«possente» (v. 1), insieme
«Dolcissimo»e«terribile»(v.
2). Non già l’amore come
reciprocità, relazione inter
pares,
conoscenza
intersoggettiva, ma l’amore
cheesaltaetrasfigura,sentito
e cantato come valore
assoluto,
esclusivo,
totalizzante,dapartedichiha
interiorizzato la nullità del
vivere e dell’esistere. Di qui
il particolare stilnovismo
della lirica, che oppone
gentilezza («gentili inganni»,
v. 123) a «viltà» (v. 58): la
prodigiosa
nobilitazione
interiore congiunta a «tanto
bene» (v. 99) e la miseria
morale, l’utilitarismo del
«mondosciocco»(v.38),del
«mondo inetto», dell’«età
superba» (v. 59), del «vario
volgo» (v. 66), della «gente
stolta»
che
non
ne
riconoscono la sovranità.
Arcanaforzachepadroneggia
la «profonda mente» (v. 2),
quest’amore è una «gioia
celeste» (v. 28) intrisa di
sbigottimento che dissolve la
morte come «un gioco» (v.
47),peròrende«piúgentile»,
piú godibile, piú prezioso il
dono della «vita» (v. 87),
come mai era accaduto nella
poesia leopardiana. Il climax
ascendentetoccailculmineai
vv.100-16:
Chemondomai,chenova
immensità,cheparadisoè
quello
làdovespessoiltuostupendo
incanto
parmiinnalzar!dov’io,
sott’altralucechel’usata
errando,
ilmioterrenostato
etuttoquantoilverpongoin
obblio!
Talison,credo,isogni
degl’immortali.Ahifinalmente
unsogno
inmoltaparteondes’abbellail
vero
seitu,dolcepensiero;
sognoepaleseerror.Madi
natura,
infraileggiadrierrori,
divinasei;perchésívivae
forte,
cheincontroalvertenacemente
dura,
espessoalvers’adegua,
nésidileguapria,chein
gremboamorte.
Il trapasso è istantaneo:
«mondo»
(v.
100),
«immensità»
(v.
101),
«paradiso» (ivi). Soltanto il
poeta del dolore universale
può conoscere e comunicare
l’estatico trasalimento del
«diletto» (v. 128) vissuto
come un «delirio» (v. 129).
Paradisiaco
incanto
e,
insieme, certezza della sua
illusorietà.
Anche
nel
momento
di
massima
tensione
emotiva,
il
sentimento del nulla e del
vero resta vigile, sebbene
talmente «forte» (v. 113) sia
il vigore del sogno da
trasformare il «palese error»
(v. 111) in realtà. Già
tuttavia, da sola, la stessa
definizione di «pensiero
dominante»
lasciava
sospettare
l’antitetica
compresenza di estasi e di
riflessione, che si riversa
nell’impasto dicotomico del
linguaggio, tra «obblio» (v.
106) e «vero» (vv. 106, 109,
114). Tanto piú struggente e
inquieta risulta la voce
dissonante di quest’inno
esclamativamente
eccitato
che esalta l’assolutezza
dell’amore, con la coscienza
dellasualabilità.
Lo«stupendoincanto»(v.
103) è fuggitivo e presto
svanisce. In Amore e Morte
infatti qualcosa si è spezzato
elaconflittualitàlatentenelle
antitesi
del
«pensiero
dominante»,
insieme
«Dolcissimo» (v. 1) e
«terribile»(v.3),simanifesta
come scontro aperto. Il
fragilissimo dosaggio di
illusioneerealtà,cherendeva
il sogno autentico e vero, ha
smarrito quel suo miracoloso
equilibrio. È accaduto che il
desiderio
si
riconosce
inappagatoeinappagabile:un
«fier disio» (v. 43) che,
ruggendo («rugghiando», v.
44)alparideltuono,oscurail
cielo, nell’imminenza della
tempesta,
tanto
che
l’«Amore»,da«gioiaceleste»
che era, si mostra come
tormento, «procella» (v. 40),
forza devastante che scatena
l’uragano nel cuore (cfr. vv.
45-47). La vita, prima
fervidamente goduta, si
convertein«deserto»(v.35),
il sogno s’incrina nel
presentimentodelrisveglio,e
la «Morte» – trascorsa
l’irripetibile estasi dello
«stupendo incanto» – torna a
profilarsi, per l’io lirico che
conosce la vanità del tutto,
come «quiete» (v. 40), come
«porto» (v. 42) di pace, lei
sola «pietosa» (v. 98) dei
terreni affanni.8 Anzi ora
appare (come nel coevo
Tristano) non solo creatura
benefica ma sensualmente
agognata in veste di
«Bellissimafanciulla»(v.10)
dal «virgineo seno» (v. 124).
Perciò, fino dall’apertura,
«Amore e Morte» sono
congiunti,inundisticoarime
baciate, da un rapporto di
fratellanza(vv.1-9):
Fratelli,auntempostesso,
AmoreeMorte
ingeneròlasorte.
Cosequaggiúsíbelle
altreilmondononha,nonhan
lestelle.
Nascedall’unoilbene,
nasceilpiacermaggiore
cheperlomardell’esseresi
trova;
l’altraognigrandolore,
ognigranmaleannulla.
Il«piacermaggiore»coincide
(richiamatoanchedallarima)
con l’annullamento di «ogni
gran dolore».9 Non piú
sorella della Moda, come
nelleOperette,magemelladi
Eros, al pari di lui giovane,
alata («sorvolano insiem la
via mortale», v. 15) e
bellissima, la morte si
metamorfizza nella donna
amata. L’ardore suscitato da
Eros,erimastopersuanatura
inappagato,
diventa
appassionata e agonistica
invocazione di Thanatos,
«dell’età reina» (v. 107),
regina dell’eterno (vv. 10824):
Mecertotroverai,qualsisia
l’ora
chetulepennealmiopregar
dispieghi,
ertalafronte,armato,
erenitentealfato,
lamancheflagellandosicolora
nelmiosangueinnocente
nonricolmardilode,
nonbenedir,com’usa
peranticaviltàl’umanagente;
ognivanasperanzaonde
consola
secoifanciulliilmondo,
ogniconfortostolto
gittardame;null’altroinalcun
tempo
sperar,senontesola;
soloaspettarsereno
queldích’iopieghi
addormentatoilvolto
neltuovirgineoseno.
Non solo è reinventata
l’iconografia
tradizionale
della morte («Bellissima
fanciulla,/dolceaveder,non
quale / la si dipinge la
codarda gente», vv. 10-12),10
ma le personificazioni del
mito classico si sono
trasformate
in
sofferta
materia autobiografica, onde
è esaltata – di fronte
all’«anticaviltà»dell’«umana
gente» (v. 116) – anche
l’intrepida risolutezza dell’io
cheaspettalamorteindomito
e a fronte alta, la desidera
comeunadolceamantechelo
accompagna verso il regno
del non-essere: «null’altro
[…]/sperar,senontesola»,
senza alcuna speranza di vita
futura,
senza
alcuna
consolazione di «conforto
stolto».Ilpathosaffettivoela
componente
edonistica
s’intrecciano al coraggio
stoico,inunasintesielegiacotragica, sorretta da saldi
presuppostimaterialistici,che
nonhaequivalentinellavaria
tipologia del binomio amoremorte caro alla poesia
romantica europea. Da Il
pensiero
dominante,
tumultuoso inno all’amore
come illusione della mente,
siamo
pervenuti
alla
consapevolezza del suo
impossibileappagamento,che
ègiàpresagiodeldisinganno.
IlConsalvo11èvariantedi
differente
fattura,
che
ripropone il gemellaggio
amore-morte
in
chiave
narrativo-melodrammatica,
come trasposizione della
densità concettuale di Amore
e Morte in un idillio
romanzescochefacoincidere
sogno e realtà, ideale ed
esperienza. Cosí l’amata
Elvira può imprimere baci
veri sulle «convulse labbra»
del morente Consalvo (vv.
67-74):
Equelvoltoceleste,equella
bocca,
giàtantodesiata,eper
molt’anni
argomentodisognoedi
sospiro,
dolcementeappressandoal
voltoafflitto
escoloratodalmortaleaffanno,
piúbaciepiú,tuttabenignaein
vista
d’altapietà,suleconvulse
labbra
deltrepido,rapitoamante
impresse.
La «felicità» (v. 125)
lungamente agognata, infine
conquistata e goduta da
Consalvo prima di spirare,
grazie
alla
facile
compensazione dei baci di
Elvira, tinge il quadro di
enfasi patetica ed è tutt’altra
cosa dall’affannosa tempesta
del cuore che in Amore e
Morte si placa soltanto
nell’amorosa dolcezza del
non-essere.
La disillusione attesa e
inevitabile,conladissolvenza
dello «stupendo incanto» (Il
pensiero dominante, v. 103),
sopraggiunge lapidaria nella
frammentazione sintattica di
Asestesso(laliricapiúbreve
dei Canti),disperatodialogosoliloquio con il proprio
cuoreperchécessiunabuona
volta di vagheggiare altre
chimere.12 Sdegnosamente
perentori,
scanditi
con
rintocchilenti,punteggiatida
pause di silenzio, martellati
da inarcature che dicono la
tenacia
dell’autocontrollo
emotivo,questiversihannola
spoglia asciuttezza di un
epitaffio.13 Scarsi sono gli
aggettivi, perché importa la
sostanza delle cose piuttosto
che i loro attributi, e il
diagramma aggettivale (da
«stanco» del v. 2, riferito al
cuore,all’«infinita»delv.16,
che si lega alla «vanità del
tutto») mette in luce un
processo interno che dalla
privata condizione dell’io si
estende all’universo intero.
La materia semantica si
coagula in sostantivi che
designano la fondamentale
condizione
dell’esistere:
«terra» (v. 9); «noia» (ivi);
«vita» (v. 10); «fango» (ivi);
«mondo»(ivi);«fato»(v.12);
“morte” («il morire», v. 13);
«natura»(v.14);«vanità»(v.
16).14Lasostanzaconcettuale
è resa inesorabile da termini
di significato categorico:
«sempre» (vv. 1 e 6);
«estremo»(v.2);«eterno»(v.
3);«nessuna»(v.7);«mai»e
«nulla» (v. 10); «omai» (vv.
11 e 13); «ultima volta» (v.
12); «tutto» (v. 16). La
tessitura verbale varia dal
perfetto,alpresente,alfuturo,
perché la prospettiva è alta,
tanto da dominare la
dinamicadeltempo.
Ma
l’epitaffio
è
apparente. A se stesso
esprimeinveceilpropositodi
una pedagogia risentita ma
vana. Il cuore vi è introdotto
come alter ego che occorre
istruire sulla negatività
dell’esistere, per ricondurlo
allo stato di quiete. Infatti il
testo è stipato di imperativi
(quattro in sedici versi:
«Posa»,v.6;«T’acqueta»,v.
11;«Dispera/l’ultimavolta»,
vv. 11-12; «disprezza», v.
13), che nel loro concitato
accumulo lasciano però
intravedere
la
vitale
indisciplina
dell’interlocutore, di questo
«cor» (v. 2), stanco ma non
vinto suscitatore di «cari
inganni» (v. 4). La saggezza
dell’esperienza
e
la
cognizione del vero non
hanno la forza persuasiva di
fare tacere l’inestinguibile
sorgente di una conoscenza
intuitiva, aurorale. Il sistema
dei Canti vibra senza riposo
sulla corda dissonante di
questoattritotralaveritàeil
candoreilluso,tralanormae
l’infrazione, tra la certezza
del vuoto e la resistenza
eroicadichinonsirassegnaa
vedere nello spettacolo del
vivere non altro che un
deserto.
Se A se stesso è l’aspro
controcanto di Il pensiero
dominante e il disinganno vi
bruciacomeunaferitaaperta,
inAspasia–ilcapitoloultimo
chesigillalaserie–iltempo
ha lenito il trauma, sí da
consentire una sorta di
retrospettivo bilancio della
disillusionepatita.15Ilricordo
dello scacco lacerante si è
tramutatonelripensamentodi
un’autoanalisidistaccata,fino
al sorriso, e capace di
articolarsi in un organismo
strutturale,
di
taglio
evocativo-dialogico-
riflessivo,chevaleinsiemeda
canto liberatorio e da
protettiva conquista di una
desolata
condizione
di
atarassiasentimentale.
Solo ora l’innominata
«colei» di Il pensiero
dominante (v. 126) acquista
un nome ed è quello poco
lusinghiero di Aspasia, una
professionista dell’eros nella
Grecia classica, nativa di
Mileto,caraaPericleenona
lui soltanto. Il testo è
singolare e complesso, per la
rilettura critica (fino dal
titolo)cheproponedell’intero
“romanzo”
dell’amore
fiorentino. L’io lirico intende
riconquistare
piena
autonomia e padronanza di
sé, dopo il tumulto della
passata
esperienza:
riappropriarsi del proprio
controllo razionale, in nome
di quella ragione che in A se
stessohaparlatoalcuorecon
accenti epigrafici e sincopati;
riappropriarsi della propria
libertà,
superata
la
sconvolgente frenesia di «un
lungo vaneggiar» (v. 105).
Ecco che la tavola dei valori
in campo muta di segno:
l’amore, che in Il pensiero
dominante era radiosa e
paradisiaca
energia
rigeneratrice, ora è ripensato
come servitú, come «giogo»
(v. 103) che ammanetta
l’anima; la «vita», che allora
appariva «intollerabil noia»
se spoglia della «gioia
celeste»
generata
dal
«delirio»
amoroso
(Il
pensiero dominante, vv. 2324, 28, 129), ora non
s’illumina di nuova luce («è
notte senza stelle a mezzo il
verno», v. 108), ma è
nondimeno sopportabile, per
chi – sopito in sé ogni
desiderio nell’immobilità del
cuore – sa contemplare la
spettacolo dell’universo e
sorridere della sua infinita
vacuità(vv.109-12):
giàdelfatomortaleame
bastante
econfortoevendettaèchesu
l’erba
quineghittosoimmobile
giacendo,
ilmarlaterraeilcielmiroe
sorrido.16
L’autoanalisi procede con
rigore verso l’autocoscienza
intellettuale. L’io indaga
l’ingannosoffertoeneaddita
la causa nell’«errore» (v. 46)
in cui è incorso, scambiando
la donna con l’«idea» (v. 39)
sublime che di lei si era
creato, confondendo una
creatura reale con «la figlia»
della propria «mente» (vv.
38-39). Si attualizza l’intero
percorso che da Alla sua
donna giunge a Il pensiero
dominante:
dalla
consapevolezza dell’idealità
inattingibile
all’euforia
dell’incontro in terra con un
«sogno» tanto «forte» e
intenso da sembrare vero.
L’io storicizza con lucido
distacco la vicenda della
disillusione e non ne incolpa
Aspasia(cfr.vv.46-48).Però
la materia autobiografica di
cui parla è cosí scottante che
lacalmariflessivanonbastaa
frenare
il
risentimento
dell’«uomo ingannato» (v.
55),17 onde prende voce un
inusitato e crudo attacco
antifemminile (cfr. vv. 4860), solo in parte bilanciato
dal credito riconosciuto
all’eccezionale forza di
suggestione estetica ed
emotiva che spetta alla
bellezza
muliebre.
Autoanalisi,
dunque,
e
inchiestaragionativa,daparte
dichi,«contento»(v.105),ha
recuperato
«senno
con
libertà»(v.106)econquistato
il coraggio di amaramente
sorridere delle umane cose.
Eppure nel testo c’è anche
altro. La razionalizzazione
dell’«errore» (v. 46) non
annullagli«indicibilimoti»e
i «deliri» (v. 65) del sogno,
ora riconosciuto come tale.
LapedagogiarisentitadiAse
stesso non tiene a bada la
vitale indisciplina dei «cari
inganni» (v. 4) e anche di
fronte alla propria tenace
autocastigazione quel «cor»
non si acquieta, come mostra
ilbellissimoavviodiAspasia
(vv.1-8):
Tornadinanzialmiopensier
talora
iltuosembiante,Aspasia.O
fuggitivo
perabitatilochiamelampeggia
inaltrivolti;operdeserti
campi,
aldísereno,alletacentistelle,
dasoavearmoniaquasiridesta,
nell’almaasgomentarsiancor
vicina,
quellasuperbavisionrisorge.
Canto liberatorio, ma con
l’«alma a sgomentarsi ancor
vicina», per l’intermittenza
(«talora», v. 1) di un ricordo
pieno
di
fascino,
lampeggiante, radicato nella
profondità
dell’io
e
improvvisamente ridestato o
dallafisionomiadiunvoltoo
da una musicale armonia. La
memoria ritorna al giorno
dell’appassionata
scintilla
d’amore, rievoca il luogo,
l’ambiente, il profumo, i
colori,
gli
arredi,
l’abbigliamento,lafiguraela
sua«forma»(v.18),igesti,la
«voluttà»(v.20):nonunfilm
proiettato con freddezza
investigativa,
ma
la
visualizzazionealrallentatore
diunascenachehaladensità
e il sapore dell’evento
vissuto,turbativoalloracome
ora. Poi, dopo la lassa
d’apertura, si dispiega con
gradualità
l’inchiesta
autoanalitica che approda
all’amaro sorriso finale.
Nondimeno quel «Torna» (v.
1) non si cancella, rimane
imprevedibile e inatteso,
suscitato da una memoria
involontaria
che
non
dimentica e mantiene anzi
vivalanostalgiaperi«gentili
errori» (v. 107). E si spiega
che alla vita spoglia
dell’illusione
d’amore
Leopardi faccia dono di uno
dei suoi endecasillabi piú
belli: «è notte senza stelle a
mezzoilverno»(v.108).
3.LAMORTEDISABBELLITA
«Due cose belle ha il
mondo: / amore e morte»
(Consalvo, vv. 99-100). Il
ciclo di Aspasia ha rivelato
l’inganno dell’amore –
lasciandone
intatta
la
nostalgia – e l’abbozzo Ad
Arimane («Perché, dio del
male, hai tu posto nella vita
qualcheapparenzadipiacere?
l’amore?»)18 ha ribaltato Il
pensiero dominante, per cui
l’amore, da «sola discolpa al
fato» (v. 82), è diventato
motivo d’accusa contro la
divinità persecutrice. Spetta
invece alle due bellissime
canzoni sepolcrali (Sopra un
basso
rilievo
antico
sepolcrale, dove una giovane
mortaèrappresentatainatto
di partire, accommiatandosi
dai suoi, Napoli, 1834-’35;
Sopra il ritratto di una bella
donna
scolpito
nel
monumento sepolcrale della
medesima, ivi, 1834-’35)
l’incarico di disabbellire la
morte, di convertirne la
seduzione in dolore. Se la
dipartita avviene in giovane
età, scompare anche il
conforto dell’epigrafe – da
Menandro – in Amore e
Morte: «Muor giovane colui
ch’al cielo è caro». Le «Due
cose
belle»
mostrano
entrambe il loro volto
straziato. La cognizione del
veroormaidatempohanella
morte, nell’«invocata morte»
(Le ricordanze, v. 95),
l’«unico schermo» (Sopra il
basso rilievo, v. 61), ma ora
anche questo «solo conforto»
(v.70)èvistonelsuoaspetto
dolente. Come la musica
arcadico-metastasiana
che
intona Il risorgimento si
smorza nella sconsolata
spersonalizzazione del Canto
notturno e nella pacatezza
figurativa del dittico La
quieteeIlsabato,cosílafiera
esultanza
autobiografica
celebrata con Il pensiero
dominante defluisce, venuto
menoilprotagonismodell’io,
nel timbro oggettivato e
universalizzante
delle
sepolcrali, che spengono
anche il gelido sorriso di
Aspasia (v. 112). La morte
non è piú fulgido oggetto di
desiderio, bensí epilogo
crudele.
Non stupisce che i due
testi19 nascano a Napoli,
centro principe della cultura
barocca controriformista, che
ruotasull’ossessionedeltema
funebre-sepolcrale,
sui
rintocchi della morte in
agguato, sulla labilità della
vita,sullafugaprecipitosadel
tempo, su lugubri immagini
ditombe,discheletrieteschi,
di ossa ridotte in cenere:
motivi
che
variamente
celebrano, di fronte al
volatilizzarsi delle cose
terrene, la fede religiosa e la
fiducia nella salvezza eterna
dell’aldilà. Va da sé che il
recuperodeltemadapartedi
Leopardi – anche i lunghi
titoli esplicativi assecondano
latitolisticaparafrasticadella
letteratura barocca – è quale
siaddicealsuopensierolaico
e
materialistico,
senza
prospettiva
alcuna
di
compensoultraterreno.
L’una e l’altra sepolcrale
si reggono su antitesi
concettuali, a loro volta
dipendenti dalla differente
tipologia delle due figure
caratterizzate fino dal titolo,
la«giovanemorta»ela«bella
donna»: la giovinezza estinta
nel fiore degli anni, che
richiama in specie Silvia e
Nerina; lo splendore della
bellezza femminile, dissolta
in polvere, che evoca il
fascino
seducente
del
sembiante di Aspasia. Il
primo
e
piú
ampio
componimento (Sopra un
basso
rilievo
antico
sepolcrale) s’interroga sul
significato
della
morte
intempestiva: la «donzella»
(v. 3) scomparsa in verde età
deve ritenersi «misera» o
«fortunata» (v. 17)? La
risposta
è
antitetica,
dilemmatica: «questo se
all’intelletto / appar felice,
invade / d’alta pietade ai piú
costantiilpetto»(vv.41-43).
La «Bellissima fanciulla» di
AmoreeMorte,intensamente
desiderataanchenelTristano,
ha perduto la sua assoluta,
univoca forza d’attrazione.
Solo l’«intelletto» (v. 41) la
riconosce per amica, non piú
il «petto» (v. 43), che invece
sente ora acutissimo, nella
morte, lo strazio della
separazione che rende la
«dipartita»
(v.
54)
inconsolabile, sia «a chi si
parte» sia «a chi rimane in
vita» (v. 53). La lirica tocca
unodeisuoiverticiproprioin
questa ulteriore metamorfosi
dell’«ultimo istante» (v. 19),
in questo disincanto che
spenge anche la gioia del
«solo conforto» (v. 70)
riservato alle fatiche, ai
travagli, ai «danni» (v. 69)
del vivere: «meta» (v. 65)
non piú lieta, ma resa amara
dall’ombra del lutto. Ritorna
la prospettiva del Plotino (il
«grandoloreagliamici»,par.
64)
e
dell’«amante
compagnia»(v.68)delCanto
notturno,maoralosconforto
spettaanche«achisiparte»e
nulla
sopravvive
della
consolazioneche,nelPlotino,
è data dal ricordo superstite
degliamici(par.65):
E quando la morte verrà, allora non ci
dorremo:eancheinquell’ultimotempo
gliamicieicompagniciconforteranno:
e ci rallegrerà il pensiero che, poi che
saremo spenti, essi molte volte ci
ricorderanno,eciamerannoancora.
Piú risalta però il dolore di
«coluichelamorte/sentede’
carisuoi»(vv.80-81),ovvero
la pena di chi resta (vv. 8192):
[…]Chesenelvero,
com’ioperfermoestimo,
ilvivereèsventura,
graziailmorir,chiperòmai
potrebbe,
quelchepursidovrebbe,
desiarde’suoicariilgiorno
estremo,
perdoveregliscemo
rimanerdisestesso,
vederd’insulasoglialevarvia
ladilettapersona
conchipassatoavràmolt’anni
insieme,
edireaquellaaddiosenz’altra
speme
diriscontrarlaancora
perlamondanavia;
poisolitarioabbandonatoin
terra,
guardandoattorno,all’oreai
lochiusati
rimemorarlascorsa
compagnia?
L’antitesi–fattavibraredalla
rima–tra«intelletto»(v.41)
e «petto» (v. 43) mette in
contrastostridentelafilosofia
negativa con l’angoscia del
lutto e recupera il motivo
fondamentale dei defunti
come «stati vivi» (Zib.427778, Recanati, 9 aprile 1827).
Il comune sentimento della
morte,tragico«addio»(v.92)
alla«dilettapersona»(v.90),
sigilla con desolato epilogo
un monologo lucidissimo
eppure apprensivo, tenuto su
unregistrodiargomentazione
riflessiva invasa però d’«alta
pietade» (v. 43). Un fatto va
osservato: il topos antico
dell’addio trova accenti
paradossalmente
inediti,
proprio perché espresso da
chihacelebratolamortecon
l’affetto di un amante.
L’intellettononsipentedelle
proprie certezze ma neppure
si quieta in esse, che non
spiegano tutto e non portano
pace. Il ricordo degli «stati
vivi» non si anima nella
rivisitazionedelpassatoenon
è piú premessa, come nel
1827, del «risorgimento»
della memoria. Qui, fino
dall’incipit
cosí
stupendamente affabile e
cordiale
e
drammatico
(«Dove vai? chi ti chiama /
lunge dai cari tuoi, /
bellissima donzella», vv. 13), si sente lo strappo
(«strappar», v. 99) dell’ora
estrema «al cominciar del
giorno» (v. 18), si patisce lo
smarrimento dell’addio, del
distaccodefinitivodal«nido»
(v. 19), della partenza senza
ritorno, lontano dai «dolci
parenti» (v. 21), per un
viaggioinsolitudine(«Sola»,
v. 4), per un andare
(«peregrinando», v. 4) che
porta non altrove che
«sotterra»(v.23).
Lasecondasepolcrale20si
apreconilcontrastoviolento
tra la bellezza fisica della
donna viva, voluttuosamente
evocata
con
trepida
emozione,eirestimortalidel
suo corpo distrutto, nascosto
allavistadallapietratombale
che, inerte e muta, raffigura
«invano» (v. 3) una «beltà»
(v. 7) per sempre trascorsa.
Ma la lirica è ben altro che
un’elegia sulla caducità della
bellezza corporea: all’orrore
per il disfacimento organico
dell’essere si unisce lo
sgomento per il dileguarsi
anche
delle
sublimi
sensazioni destate da quella
bellezza che «fra noi parve
piúviva/immaginedelciel»
(vv. 21-22), che sembrò
offrireinterraindizioesicura
speranza, come dono celeste,
«di sovrumani fati, / di
fortunati regni e d’aurei
mondi» (vv. 28-29). Con il
dissolvimento dell’«angelico
aspetto» (v. 35) si dissolve
d’untratto–richiamatoanche
dalla rima – l’«ammirabil
concetto» (v. 38) che «da lui
moveva» (v. 37). Gli effetti
paradisiaci
dell’umana
«sembianza» (v. 21) sono
paragonati alle «visioni» (v.
40) esaltanti create dalla
musica, del pari fragilissime
(vv.39-49):
Desideriiinfiniti
evisionialtere
creanelvagopensiere,
pernaturalvirtú,dotto
concento;
ondepermardelizioso,arcano
erralospirtoumano,
quasicomeadiporto
arditonotatorperl’Oceano:
maseundiscordeaccento
ferel’orecchio,innulla
tornaquelparadisoinun
momento.
Il«paradiso»(v.49)rinviaal
«paradiso» (v. 101) di Il
pensierodominante, solo che
là l’estasi è svanita per lo
scompenso tra donna reale e
«amorosa idea» (Aspasia, v.
39),quiinveces’èspentacon
la morte della creatura che
miracolosamente
l’ha
suscitata. Basta un minimo
accidente, una «lieve forza»
(v. 32) come un «discorde
accento» (v. 47), per
cancellare il «paradiso» dalla
terra. Come può accadere?
Perché
la
scomparsa
dell’«angelico aspetto» (v.
35) fa dileguare all’istante
dalla mente anche gli
«eccelsi, immensi / pensieri»
(vv. 23-24) da lui ispirati?
Questoèil«Misterioeterno/
dell’essernostro»(vv.22-23),
che costituisce il fulcro
concettuale sul quale in
ultimo
la
lirica
drammaticamente s’interroga
(vv.50-57):
Naturaumana,orcome,
sefraleintuttoevile,
sepolveedombrasei,tant’alto
senti?
Seinparteancogentile,
comeipiúdegnituoimotie
pensieri
soncosídileggeri
dasíbassecagioniedestie
spenti?
Il tema funebre approda a un
dramma non affettivo né
sentimentale
(quale
il
compianto per la donna
defunta), ma conoscitivo. I
«se»dellalassafinale(vv.51,
52,53)nonsonoipotetici.Per
il sensismo leopardiano la
«Natura umana» è «in tutto»
materia«vile»(v.51),eppure
può concepire emozioni
sublimi; e insieme è «in
parte» materia «gentile» (v.
53), nobile, pensante,21
eppure i suoi «moti» (v. 54)
piú degni sono facilmente
esposti a cause tanto
contingenti, come il fiorire e
il deperire della «frale» (v.
51) sostanza fisica, della
bellezza
corporea.
La
domanda capitale e irrisolta
riguardalamortedel«mirabil
concetto»: la sua precarietà,
la sua inquietante fugacità.22
La poesia del sepolcro, tema
principe del barocco e del
neoclassicismo
europei,
ritorna materialisticamente
priva di ogni appello
ultraterreno,maanchediogni
consolante
(foscoliana)
funzione eternatrice. Non c’è
scampo al «nostro male»
(Sopra un basso rilievo, v.
109).
1. La datazione di questi
componimenti, come delle due
sepolcrali, nonché degli altri canti
dell’ultimo Leopardi, in assenza di
esplicite indicazioni d’autore (e degli
autografi, eccettuati il Consalvo e Il
tramonto della luna), è congetturale e
controversa.Perlapropostaquiindicata
tra parentesi, che notevolmente
differisce da quella avanzata a suo
tempo da U. BOSCO, Ricostruzione
d’un episodio biografico: Aspasia, in
ID.,TitanismoepietàinG.Leopardie
altri studi leopardiani, Firenze, Le
Monnier, 1957, poi Roma, Bonacci,
1980,pp.65-83,cfr.leargomentazioni
di M. MARTI, Leopardi e i tempi di
Aspasia, in ID., I tempi dell’ultimo
Leopardi,Galatina,Congedo,1988,pp.
7-45.
2. G. Leopardi a P. Colletta,
Recanati, 2 aprile 1830, in TO, I p.
1347.
3.Pensieri,LXXXII,ivi,p.238.
4.Ivi,pp.238-39.
5. Cfr. D. DE ROBERTIS, G.
Leopardi e i rimatori antichi, in «Il
Tempo»,Roma,16settembre1976;ID.,
Leopardi.Lapoesia,cit.,pp.279sgg.
6. «Avarizia, superbia, odio,
disdegno, / studio d’onor, di regno, /
chesonaltrochevoglie/alparagondi
lui?» (Il pensiero dominante, vv. 7376).
7. Ma Il risorgimento celebra il
risveglio dell’«ardor natio» (v. 150), la
rinascitadiuna«virtúnova»(v.83)edi
una nuova sensibilità che non
scaturiscono dall’illusione dell’amore,
anzi
fioriscono
pur
nella
consapevolezzachel’amoreèunsogno
impossibile: «E voi, pupille tremule, /
voi, raggio sovrumano, / so che
splendeteinvano,/cheinvoinonbrilla
amor. // Nessuno ignoto ed intimo /
affetto in voi non brilla: / non chiude
una favilla / quel bianco petto in se. /
Anzid’altruiletenere/curesuolporre
in gioco; / e d’un celeste foco /
disprezzoèlamercè»(vv.133-44).
8. Lo stesso termine «gentile»,
riferito alla vita in Il pensiero
dominante («la vita della morte è piú
gentile», v. 87), ora è applicato alla
morte («la gentilezza del morir
comprende»,v.73).
9. Cfr., come testimonianza
epistolareutileancheperladatazionedi
Amore e Morte e del Consalvo, G.
Leopardi a F. Targioni-Tozzetti,
Firenze, 16 agosto 1832, in TO, I p.
1389: «certamente l’amore e la morte
sonolesolecosebellechehailmondo,
e le sole solissime degne di essere
desiderate». Lo stesso motivo ricorre,
semprenel1832,nell’Iscrizione dettata
da Giacomo per il busto di Raffaello,
nel giardino Puccini presso Pistoia,
dove il pittore è definito «felice per la
gloria in che visse / piú felice per
l’amore fortunato in che arse /
felicissimo per la morte ottenuta / nel
fioredeglianni»(ivi,p.994).
10. Sull’argomento, cfr. le ampie
indaginidiF.FEDI,Mausoleidisabbia.
Sulla cultura figurativa di Leopardi,
Lucca,PaciniFazzi,1997.
11. La proposta di datare il
componimento al 1832 è avvalorata
dalla lezione base (nell’autografo
napoletano) dei vv. 3-4: «innanzi / al
mezzodisuavita»,cioèatrentaquattro
anni (vale a dire nel 1832); la
correzione in «a mezzo / il quarto
lustro», cioè a ventidue anni e mezzo
(valeadirenel1820-’21),èintervenuta
(in N) con l’idea di retrocollocare il
testo al termine degli idilli, ai quali si
apparenta anche per la scelta metrica
degli endecasillabi sciolti. Questo
spostamento all’indietro forse vuole
alludere alla giovanile fantasia di una
situazioneanalogaaquelladescrittanel
Consalvo (e già presente nell’idillio Il
sogno), certo tenta di occultare
l’occasione
risentitamente
autobiograficadelcantoeneevidenzia
la diversità di taglio compositivo a
confronto delle altre quattro sequenze
delciclodiAspasia.
12. Un’attenta analisi sintatticostrutturale si deve a A. MONTEVERDI,
Scomposizione del canto ‘A se stesso’
(1965), in ID., Frammenti critici
leopardiani,cit.,pp.123-36.
13. Tre le rime: «sento»: «spento»
(vv.3e5);«Dispera»:«impera»(vv.11
e15);«brutto»:«tutto»(vv.14-16).Le
parole messe in evidenza dalla rima
(«spento»,«impera»e«brutto»,riferito
al potere malefico soggetto di
«impera») condensano il senso acuto
delcrollodell’illusione.
14.Aivv.12-13silegge:«Algener
nostroilfato/nondonòcheilmorire».
Delle due cose «belle» di Amore e
Morte (vv. 3-4), non è rimasta che la
morte, non piú però in veste di
«Bellissimafanciulla»,bensídiastratto
«morire», sentito nient’altro che come
terminediunlungoaffanno.Svanitoil
sogno dell’amore, svanisce anche la
pulsioneeroticaversolamorte.
15. «Cantare il disinganno è piú
difficile che cantare l’ebbrezza del
sentimento. Ed è in questo canto del
disingannocheLeopardièilpiúgrande
maestro» (L. SPITZER, L’ ‘Aspasia’ di
Leopardi,in«CulturaNeolatina», XXIII
1963,2-3p.119).
16.«Terribileedawfulèlapotenza
del riso; chi ha il coraggio di ridere, è
padrone degli altri, come chi ha il
coraggio di morire» (Zib. 4391, 23
settembre1828).
17. L’apparente contraddizione tra
«l’uomoingannato»(v.55),nellalassa
seconda,e«ingannatonongià»(v.86),
nella lassa terza, è stata rilevata e
spiegata da SPITZER, L’ ‘Aspasia’ di
Leopardi,cit.,p.130n.26:«Credoche
nella seconda lassa, dove è descritta la
fenomenologia dell’amore dell’uomo
per la donna in generale, Leopardi
voglia indicare la possibilità d’inganno
nell’uomo […], ma lui, Leopardi, non
era vittima di tale inganno: il suo
drammainterioreeral’ugualmenteforte
coscienza della bellezza della donna e
della sua inferiorità morale». Il che è
giustissimo, ma Spitzer mostra tuttavia
di intendere i vv. 82-83 («già dal
principio conoscente e chiaro /
dell’essertuo,dell’artiedellefrodi»)in
modo limitativo: il «già da principio»
rinvia, sí, alla «scena della lassa I in
poi», come scrive Spitzer (p. 122), ma
rinvia anche all’inizio vero della
passioneperAspasia,cioèaIlpensiero
dominante, vv. 108 sgg., dov’è detto
che l’«incanto» non è che un’illusione.
Il «conoscente e chiaro dell’esser tuo»
significaconsapevolezzachesitrattadi
un sogno. Il «dramma interiore» di
Leopardi non consiste soltanto nel
conflittotrala«bellezzadelladonna»e
la sua «inferiorità morale», ma anche
nella coscienza (preliminare) della
illusorietàdiquest’amore.
18.AdArimane,inTO,Ip.350.
19. Per le fonti iconografiche delle
due canzoni, cfr. A. GIULIANO,
Giacomo Leopardi, Carlotta Lenzoni,
Pietro Tenerani, in «Paragone-Arte»,
XVII 1966, 193 pp. 87-94; G.
CARSANIGA, Su una probabile fonte
iconografica di Leopardi: ‘Amore e
Morte’ e le due canzoni sepolcrali, in
«Annali della Scuola Normale
Superiore»,ClassediLettere, VII1977,
3pp.1183-200;A.VERGELLI,Genesie
linguaggiodellesepolcralileopardiane,
Roma, Bulzoni, 1977; FEDI, Mausolei
di sabbia. Sulla cultura figurativa di
Leopardi,cit.,pp.103sgg.
20. Tradotta in inglese dal giovane
EzraPound,nel1911,coniltitoloHer
monument,theimagecutthereon.
21.Cfr. Zib. 4253 (9 marzo 1827):
«la materia pensa e sente; perché tu
vedi al mondo cose che pensano e
sentono,etunonconoscicosechenon
sieno materia; non conosci al mondo,
anzi per qualunque sforzo non puoi
concepire,altrochemateria»;ivi,4288
(Firenze, 18 settembre 1827): «Che la
materia pensi, è un fatto. Un fatto,
perché noi pensiamo; e noi non
sappiamo, non conosciamo di essere,
non possiamo conoscere, concepire,
altrochemateria».
22. Lascia perplessi la lettura di F.
FORTINI,‘Soprailritrattodiunabella
donna’, in ID., Nuovi saggi italiani,
Milano, Garzanti, 1987, 2 voll., II pp.
56-85: «Il canto può dunque venir
inteso anche come un itinerario di
riconciliazione e remissione dopo una
messa in scena sadica. Si è convitati a
due dissoluzioni: la carnale Dama che
imputridisce e il dissolvimento di
un’armonia. Ma se la prima è
irrecuperabile,
la
seconda
è
perpetuamente
recuperata
nel
“paradiso” del testo» (p. 64). La
poeticità del testo risiede nella sua
dilemmatica tensione conoscitiva, che
non è compensata né placata da alcun
risarcimento melodico. Cfr., in
proposito, i persuasivi rilievi di L.
BLASUCCI, ‘Sopra il ritratto di una
bella donna’ (1987), in ID., I titoli dei
‘Canti’ealtristudileopardiani,Napoli,
Morano,1989,pp.129-52.
XVIII
GINOCAPPONIE
LAPALINODIA
1.LEOPARDIECAPPONI
La lettera del 21
novembre
1835,
da
Varramista, con cui il
marchese Gino Capponi
esprimeaLeopardilapropria
«gratitudine»1perladedicae
i «nobili versi» della
Palinodia,compostiaNapoli
nel 1835, deve essere al
«candido Gino» costata non
pocafatica:laquale,credo,è
stata ripagata, perché n’è
uscito, nel genere letterario
delle responsive sottilmente
dissimulate,
un
testo
notevolissimo.
Il
grado
della
dissimulazione salta agli
occhi, com’è noto, se si
mettono a confronto il tono
della missiva inviata a
Leopardi e il registro diverso
adottato, in quello stesso
torno di tempo, nella
corrispondenza
con
Tommaseo e con Vieusseux,
doveilmarchesedimenticala
sua abituale signorilità, come
diradogliaccade.Sononote
leparolerivolteaTommaseo:
«Il Leopardi m’ha scaricato
addosso certi suoi sciolti,
dovegentilmentemicogliona
come credente a’ giornali, a’
baffi, a’ sigari, alla sapienza
edallabeatitudinedelsecolo.
E poi prova al solito, come
quattro e quattr’otto, che la
naturaciattanaglia,echil’ha
fatta è un boja. Io gli ho
rispostoinprosa,gentilmente,
ringraziandolo».2 Altrettanto
note (e costantemente citate)
sonoancheleparolerivoltea
Vieusseux: «Ora bisogna che
io scriva a quel maledetto
gobbo,ches’èmessoincapo
di coglionarmi, e per quella
volta almeno, Dio sa s’io me
lo meritavo, che è proprio
un’idea storta. Ma vo’
ringraziarlo, perché egli se la
piglia meco, come anche con
Domeneddio».3 Con gli
intimi,Capponidàsfogoagli
umori dell’irritazione astiosa,
ma la replica pensata e
ponderata è nella lettera
spedita a Giacomo. Certo è
che il marchese s’è sentito
inaspettatamente ferito: «Dio
sas’iomelomeritavo,cheè
proprio un’idea storta».
Nondimeno s’è anche súbito
accorto, con equilibrato
giudizio, che il suo
risentimentoèimpulsivo,non
giustificato
dalla
considerazione pacata dei
«nobili
versi»
della
Palinodia.
Nonaltrimentisispiegala
lettera lunga e cortese a
Leopardi, che non è mossa
strategica,
né
frutto
d’occasionale circostanza o
d’urbanaconvenzionalità,ma
un autoritratto meditato.
Eppureèdocumentochenon
gode buona reputazione
presso gli studiosi: per
Bonaventura Zumbini è
stilato «in maniera […] poco
perspicuaepersino[…]vaga
e indeterminata»;4 a Roberto
Ridolfi pare, per stile e
linguaggio, «una stonatura»
(anche per eccesso d’umiltà)
nell’intero epistolario di
Capponi;5piúrecentementeè
sembrata «lettera […] di rara
perfidia».6 Il fatto è
abbastanza curioso. I crucci
malevoli comunicati agli
amici ottengono il credito
della schiettezza senza veli,
invece
le
soppesate
argomentazioni rivolte al
poeta dei Canti paiono
sospette e suonano, si dice,
false. Lo stile basso del
parlatofamiliaresembrerebbe
doversi imporre sullo stile
alto dell’eloquio ufficiale.
Peròloscartoespressivosisa
che è risorsa canonica del
genere epistolare e dipende
dalvariaredeicorrispondenti,
ma non ha molto, o nulla, a
che fare con la sincerità. Né
dovrebbe essere il caso di
rammentare che il marchese
Capponi, per la rettitudine
dell’agireedelpensarecome
per l’indubitabile prestigio di
cui godeva, non era persona
da sentirsi in dovere di
compiacere o assecondare un
suo interlocutore (e fosse
pure Leopardi), se non era
convinto di doverlo fare
senza tradire le proprie idee.
Nessuno poteva spingerlo a
tanto.7 Ciò che confida a
Giacomo contrasta con ciò
che sbrigativamente – e di
scorcio–diceaTommaseoe
a Vieusseux, ma non si vede
perché avrebbe dovuto
mentire mentre scriveva, per
libera scelta, al poeta dei
Canti la lettera che gli ha
scritto.
Questa
lettera
è
dissimulata, dove professa
«gratitudine» sincera; è forse
anche ironica, specie nella
battuta di congedo («E poi
benedico il bel clima di
Napoli, che vi dà salute
quanta non poteva al certo
darvene l’aria mefitica di
Firenze»); però è veridica,
doveaffermadiconcordarein
buona parte con il tema del
canto leopardiano. Conviene
rileggerequestapagina,cheè
fondamentale
nella
controversa vicenda delle
relazioni tra Leopardi e
Capponi:
vorreichelemieparole,epiúdellemie
parole, la cognizione che avete
dell’animomioversodivoi,bastassero
a persuadervi la gratitudine che
sinceramente vi professo per avermi
intitolatoqueivostrinobiliversi.Epiú
vi ringrazio perché mi avete stuzzicato
sopra un argomento, il quale, non che
solleticarmi,micuoce,elamiapovera
testanoncessad’almanaccarvisopra.Io
mi conosco abbastanza da non
presumere di me troppo, e a molta
profondità non m’espongo, ma perché
non trovo altro da fare, penso, e le
generalità son vizio del secolo, facile
teatro de’ volgari, siccome campo de’
forti, ed io sono giunto a quegli anni,
ne’ quali per rendermi il pensiero
tollerabile, m’è divenuto necessità
formarmi quello che chiamano un
sistema,einessoostinarmiperalmeno
togliermi
dalla
bruttezza
de’
vacillamenti. Io non vuo’ dire che
questomiopoverosistemasiaconforme
aquellodavoicontantadottrinaetanta
autorità professato. Questo ammiro
come vostro, e perché nutrito di tanto
sapere,matengoilmio,comemio,cioè
partedime,eperchésmuovendoquella
base, ogni altra cosa da me pensata se
ne anderebbe a gambe all’aria, né ho
tempo a ricominciare. Ma in questo
punto capitale sono d’accordo con voi,
e ne vo superbo, e m’avete proprio
grattatoilsolletico,nelriderecioèdella
minaccia de’ peli e della fiamma de’
sigari, e della sapienza de’ giornali, e
(qui avrei voluto che la potente parola
vostra fosse venuta a difendermi le
spalle,mavoiprudentevisietetaciuto)
della virtú redentrice delle società
filantropiche, e d’altre cose simili.
Queste io le credo piú necessità del
secolo che felicità, perché la società
umana, come l’uomo, ha legge di
vivere, e quando un modo le manca,
quando un elemento di coesione si
discioglie, l’uomo, anche senza volerlo
o saperlo, ne fabbrica un altro. E il
credereallabeatitudinediquestanuova
composizione è stimolo all’operare, e
questa credulità della perfezione
immancabile e imminente dell’opera
sua,stoltezzaorganicad’ognunochefa.
Il mondo a un bel circa sarà lo stesso,
gli sbocchi del male non si potranno
mainétapparenérestringere,edibeni
materialidiffondendosi,nonperquesto
aggiugneranno,iocredo,pureunatomo
alla massa della felicità umana. E in
tutto il dimenarsi di questo secolo, se
v’è qualcosa di buono, la pedanteria8
de’nostriprofessoridicivilsapienza,la
rendeintollerabile.Lequaliteoricheda
me con voce esile, pur talvolta messe
fuori,digiàmiminaccianolebastonate
de’ perfettibili. Ma se vedrò il bastone
in aria, mostrerò i vostri be’ versi e
griderò: fermate; perché io non sia
calpestato come un povero cadavere in
mezzoaduncampodibattaglia.9
In questa lettera, rimasta
senza risposta, la sostanza
della vertenza è chiarita con
fermezzaesenzaequivoci.Si
oppongono due «sistemi» tra
loro
antitetici,
peraltro
entrambi
energicamente
asistematici:
quello
di
Leopardi, materialista, ateo,
sconsolato, proprio d’un
uomo negato alle relazioni
mondane; e quello di
Capponi,10 spiritualista a suo
modoecattolico,macredente
in una religione antigesuitica
e anticonfessionale, nonché
proprio
d’un
uomo
affaccendato in molteplici
viaggi e negozi, alacremente
operativonellapraticasociale
epolitica.Ilcontrastoètanto
evidente da non meritare
commenti.
Entrambi
i
dialogantilosanno.Conviene
tuttavia osservare che le
parole
del
marchese
fiorentino non sono, come
pure è stato autorevolmente
sostenuto,
di
«limitato
consenso»11 nei riguardi del
conte di Recanati, bensí
concordano su un aspetto
«capitale». Quei cosiddetti
«sistemi», fatti apposta per
essere lontani l’uno dall’altro
epernonintendersi,possono
invece trovare un punto
sostanzialediconvergenza.E
proprio su questo punto la
letteradiCapponiinsistecon
decisione: nel «ridere cioè
dellaminacciade’peliedella
fiamma de’ sigari, e della
sapienza de’ giornali, e […]
della virtú redentrice delle
societàfilantropiche,ed’altre
cose simili»; nel riconoscere
che è «stoltezza organica
d’ognunochefa»ilconfidare
nella
«perfezione
immancabile e imminente
dell’opera sua», giacché il
«mondo […] sarà lo stesso,
gli sbocchi del male non si
potranno mai né tappare né
restringere,edibenimateriali
diffondendosi,nonperquesto
aggiugneranno[…]unatomo
alla massa della felicità
umana».
Molti
passi
della
Palinodia sono puntualmente
rilanciati e confermati. Il che
non scalfisce l’antitetica
distanza
tra
i
due
interlocutori,tuttaviamettein
chiaro il fondamento critico,
disincantato,
pessimistico
dello spiritualista e cattolico
Capponi,uomodinegoziedi
faccende.Ilqualenonintende
giocare di contropiede, con
un’ironica (a sua volta)
«palinodia»delpropriocredo
e del proprio operato di
attivissimo promotore di
«giornali»,
di
«società
filantropiche» e «d’altre cose
simili».
Vuole
però
confermare
un
habitus
interiore, un costume di vita,
un’attitudine di pensiero che
gli sono abituali e lo
distinguono dall’orgoglioso
ottimismo che, nell’ambiente
fiorentino, s’accompagna al
mitodelprogressoliberale;lo
distinguono
dall’euforia
attivistico-tecnologica
dell’«età superba», che si
nutre«divotesperanze[…],/
vaga di ciance, e di virtú
nemica»
(Il
pensiero
dominante,vv.59-61).Poche,
in vero, le «speranze» nutrite
dal «candido Gino»: lui che
sulla sua lapide desidera sia
scritta
un’unica
frase:
«vissuto
inutilmente
infelice»;12 lui che nelle
confessionialsuoTommaseo
si congeda piú volte, senza
alcuna voglia di scherzare,
con un secco: «Pregate
davvero Dio che m’ammazzi
presto».13Vengonoinmente,
nella lettera di Leopardi al
padre del 3 luglio 1832, le
«ardentissime preghiere» di
Giacomo per ottenere la
«grazia»dellamorte.14
L’antiottimismo,
l’antieuforia, l’antiorgoglio
imprenditoriale s’incontrano
a ogni passo nelle pagine di
Capponi, del pedagogista e
dello storico. Il lettore dei
suoi carteggi conosce bene
l’amaro sentimento di tedio,
di vuoto, di sconforto che
turba la quotidiana esistenza
del
marchese,
benché
«marchese grasso» – come
dice con autoironia –.15 «Io
inoperoso,
disperato
e
imbecille», scrive di sé a
Tommaseo l’11 settembre
183316 e il successivo 23
settembreincalzasullostesso
motivo e parla della propria
«disperazione
ostinata»,
dell’«atmosfera» irrespirabile
cheloopprime,mentre«sente
a quarant’anni tutte le
illusioni della gioventú, né
soddisfatte
né
spente,
invadere una vecchiaia senza
pace»;17 e si riconosce
assediato dalla vacuità di
«pensieri» che «una volta
m’eranodilettosi»epoisono
stati
«dismessi
perché
disperatamente
inutili».18
Nonèsoltanto–comespesso
si afferma – lo stato d’animo
del solitario malinconico, ma
il «gelo» della sfiducia,
dell’inoperosità,
dell’impotenza
che
inquietano
un’intelligenza
generosaeversatile.
L’angoscia esistenziale si
uniscealgiudiziodisillusosia
sull’epoca presente sia sulla
cerchia culturale fiorentina.
Contro i guasti del «mal
secolo»–cosíaTommaseoil
10 luglio 1835 –, ha parole
senza speranza: «Non fate
ch’io sappia nulla mai del
mondo
presente:
notte
orribile, fredda, burrascosa,
che lampeggia».19 Vede
nell’oggiun«secolomatto»20
malato di miope utilitarismo,
come attesta il «frammento»
Sull’educazione.21 E «questa
povera età nostra»22 gli
appare il «secolo de’
bambini»,23 che echeggia il
«secolo di ragazzi» del
Tristano(par.24).Semprein
Sull’educazione si legge: «un
gran numero degli educatori
moderni[…],direbbesiquasi,
che si studino a mantenere
l’uomo
perpetuamente
fanciullo»,24 e poi: «l’uomo
nelnostrosecolo[…]paresi
voglia a bello studio
rannicchiaresulfanciullo,per
farsipiccolocomelui»,25che
sono immagini non lontane
dal«pargoleggiar»del«secol
superbo
e
sciocco»
dell’ancora
inedita
La
ginestra (vv. 59-63). Di
nuovo sul tema del «mal
secolo», il par. 53 del
«frammento» biasima il
livellamento
e
l’omologazione al basso,
«terra terra», della cultura e
della pratica pedagogica
moderne («Il secolo vuole
che s’insegni a zoppicare tra
le inegualità della vita; e a
raggirarsi continui nel tristo
cerchioincuiviviamo,nona
slanciarsi piú oltre»),26 tanto
che non sembra infondata
l’ipotesi27 di ravvisare in
Capponinoncertol’«Amico»
dialogante con Tristano,28
bensí l’«Amico» ricordato da
Tristano: «Mi diceva, pochi
giorni sono, un mio Amico,
uomo di maneggi e di
faccende, che anche la
mediocrità
è
divenuta
rarissima; quasi tutti sono
inetti, quasi tutti insufficienti
a quegli uffici o a quegli
esercizi a cui necessità o
fortuna o elezione gli ha
destinati» (par. 25). La
metafora usata dal marchese
(«Il secolo vuole che
s’insegni a zoppicare»)
richiama,
sempre
dal
Tristano, il «paese di zoppi»
(par. 24), dove chi cammina
diritto deve andare a
nascondersiperlavergogna.
Quanto alla sua città, il
giudizio di Capponi non è
menosconfortato:
Non ho piú una persona sola con cui
discorrere. Il vostro buon Vieusseux
vaneggia oltre ogni credere; e tutti, sí
tutti vaneggiano perché tutti dicono le
stesse cose, per uso, e per moda, e per
indolenzadipensare.Vaneggianocome
attossicatituttiaunmodo,inatmosfera
mefitica, senza originalità, senza
sentimento, senza verità. Non ne posso
piú,miocaro.29
L’«atmosfera
mefitica»
richiama l’«aria mefitica» in
chiusura della lettera a
Leopardi, con l’effetto di
fortemente attenuarne – sino
forse a cancellarlo – il piglio
sarcasticorilevatoebiasimato
daalcunistudiosi.Il«tutti,sí
tutti vaneggiano perché tutti
diconolestessecose,peruso,
epermoda,eperindolenzadi
pensare»favenireinmenteil
«Quanto estimar si dee, che
fedeinspira/delsecolchesi
volge, anzi dell’anno, / il
concorde
sentir!»,
amaramentesatireggiatonella
Palinodia (vv. 218-20), e
induce a riflettere se davvero
in questo «concorde sentir»
sia coinvolto il «candido
Gino». «A voi non piace la
vostra Firenze», conclude
Tommaseo, il 27 marzo
1835.30MadellasuaFirenze,
qualche settimana prima, l’8
marzo,inanticiposui«nobili
versi» della Palinodia,
Capponi ha anche deriso i
«giovani co’ baffi» che
affollano i «caffè sospetti»,
daiqualisonouscitiduranteil
carnevaleperandarea«urlare
suilungarni».31
Gli orientamenti di
Capponi
e
Leopardi
divergono profondamente: da
una
parte,
pessimismo
cattolico e impegno per
un’educazione religiosa ma
antigesuitica; dall’altra parte,
pessimismo materialistico,
ateismo,
impegno
per
un’educazione
laica
e
antispiritualistica. È però da
credere al «candido Gino»,
quandoscriveall’autoredella
Palinodiacheiloro«sistemi»
sono lontani, ma concordano
in un «punto capitale». E
Leopardi lo sa. Si sono
conosciuti nel 1827; si sono
frequentatiespessoincontrati
al Gabinetto Vieusseux, in
palazzo Buondelmonti, luogo
perentrambidivisiteassidue.
Né Giacomo s’è dimenticato
diquantoilmarchesehafatto
per lui, in merito al premio
quinquennale bandito dalla
Crusca – sebbene senza esito
– e nella sottoscrizione degli
«amici di Toscana». Ma piú
importalaconsuetudinedelle
conversazioni
private,
rivelatrici del carattere di
Capponi, della sua indole e
sensibilità,deiconnotatidella
sua cultura. I quali si sono
pubblicamente manifestati,
proprio in occasione del
premio della Crusca, nel
giudizio che ha voluto
formulare sulle Operette
morali,operacertoosticaalla
suaideologia,eppurevalutata
in termini acuti e pertinenti
che fanno propriamente
macchia nella palude dei
pareri espressi da altri
accademici terrorizzati da
quellibro.32
Riesce
difficile
immaginare che, con la
dedica della Palinodia,
Giacomoabbiavolutocolpire
in lui il campione di un
ottimismo
attivistico,
fiducioso nella «beata sorte»
(Palinodia, v. 133) e nella
«comun felicitade» (v. 202)
dell’umanità: in lui, uomo
«senza pace», che soffre di
vivere in «un’atmosfera
mefitica, senza originalità,
senza sentimento, senza
verità», dove «tutti, sí tutti
vaneggiano perché tutti
diconolestessecose,peruso,
epermoda,eperindolenzadi
pensare»; in lui che ha il
cuoreelamenteridottiauno
«strumentoscassinato»33 e si
rode l’anima in una
«disperazione ostinata», nel
«gelo» dello sconforto e
dell’«impotenza»; che a
quarant’annisisentevecchio,
«senza fiducia nell’avvenire,
senza speranza che ci
riscaldi».34 Riesce difficile
immaginare che a lui
Leopardi abbia ritenuto
opportuno rivolgersi con
epiteti che sono alla lettera
affabili («candido», v. 1;
«lodato», v. 227; «spirto
gentil», v. 182), ma che in
realtà dovrebbero celare il
veleno della corbellatura.
Invece si sa che la tradizione
dell’epistolasatirica(oraziana
e moderna) vuole che dalle
frecce polemiche vada esente
proprioildestinatario.
Nonsoloil«candido»del
v.1nonèirriverente,35come
non lo è il «lodato» del v.
227,néilpetrarchesco«spirto
gentil» del v. 182: ma anche
le altre due occorrenze
esplicite
di
Capponi,
designato con il semplice
nome, ai vv. 38 e 210 («o
Gino»),nellalorocolloquiale
speditezza, sono espressione
non di una solidarietà
d’intenti che tra i due
interlocutori, specie in tema
religioso e politico, non
poteva esserci, bensí di un
rispetto che la divergenza
delle idee non cancella.36 Si
osservi anche che il vocativo
«spirtogentil»,nelqualenon
so vedere quel «malizioso
equivoco petrarchesco» che
vi è stato notato,37 cade in
uno dei punti nevralgici del
testo, dove tace la satira
ideologica e risorge il tono
meditativo del Dialogo della
Natura e di un Islandese;
dove parla il poeta delle
«miserieestreme/dellostato
mortal» (vv. 182-83) e
scandisce le pause con
lentissimaandaturasintattica,
perfissarealungolosguardo
sui «mali immedicabili» e
sulle «pene» (v. 174) che
affaticano il «fragil mortale»
(v. 175). Qui e non altrove,
sultemadellamalattiaedella
morte, scatta l’appellativo
«spirto gentil», riferito a un
uomo come Capponi che
doveva intenderlo nel suo
valore di schietta confidenza
umana:
un
uomo
precocementevisitatodalutti
familiari e presto ferito da
una penosissima infermità
agli occhi (ne parla con
dignitosa accoratezza nel
carteggioconTommaseo)che
loavrebbeportatonelgirodi
pochiannialbuioassoluto.
LadedicadellaPalinodia
nasce da un rapporto di
stima38 e chiama in causa
Gino Capponi perché il
marchese,
intellettuale
europeo, è l’esponente di
punta della cultura cattolicoliberale
fiorentina
e
nazionale,mainparitempoè
uomo
«senza
pace»,
osservatore disincantato del
presente, e come tale,
all’internodelloschieramento
toscano,èdestinatariocapace
d’intendere – che non vuol
direcondividere–lamiraalta
e la contestazione non
contingentedei«nobiliversi»
delpoeta.Proprioquestanoncontingenza va rilevata,
perché da essa deriva la
grandezzaartisticadelcanto.
2.SATIRAIDEOLOGICA
Laquestionenonriguarda
soltanto l’affrancamento di
Capponi
dalla
satira
leopardiana – che può essere
cosa secondaria –, ma
riguarda il significato e la
portata di questo stesso
attacco satirico.39 Il quale
s’indirizzacontroFirenzenon
per motivi di politica o di
strategia
culturale,
né
d’occasione biografica, né
tanto meno di contrasto
personale,maperilfattoche
Firenze
rappresenta
l’avanguardia piú dinamica
dellanuovaculturaborghese.
La satira è il riconoscimento
d’un primato, è l’attestato
d’unamodernitàcheLeopardi
vuole smitizzare, con energia
parialcoraggio,bensapendo
di andare, disperatamente
solitario,
controcorrente.
Perciò nella Palinodia non è
dato trovare l’acrimonia
sprezzante e individualizzata
presente in I nuovi credenti,
componimento che non per
nulla
resta
fuori
dall’orchestrazionedei Canti,
dove non c’è posto per la
polemica ad personam, con
nomeecognomeesplicitatia
chiare lettere, bensí il
dissenso,anchedissacrante,è
sempretenutosulpianodella
riflessionestorica,ideologica,
filosofica. Nondimeno anche
I nuovi credenti, pure esclusi
dai Canti, non recano una
dedicaironicamentebeffarda,
ma sono dedicati all’amico
Ranieri.
Che l’obiettivo della
satira,
nella
Palinodia,
consista non in un paesaggio
fisico di luoghi e di persone
(come in I nuovi credenti),
ma in un paesaggio mentale
diidee,loprovailfattocheil
riferimentoaFirenzesiaffida
unicamente al nome del
dedicatario, ma poi nel testo,
senza appiglio alcuno alla
realtà
cittadina,
dopo
l’animata pittura dell’interno
d’un caffè, la geografia di
colpo si slarga e si dilata in
prospettiva sovranazionale:
«da Marrocco al Catai,
dall’Orse al Nilo, / e da
Boston a Goa» (vv. 29-30),
da«l’Europa»a«l’altrariva/
dell’atlantico mar» (vv. 6263), da «Parigi a Calais, di
quiviaLondra,/daLondraa
Liverpool» (vv. 121-22), dal
«Tago all’Ellesponto» (v.
269).40 L’obiettivo della
satira è la cultura del
secolo.41 Geografia e storia,
pungenteicasticitàdidisegno
e
tensione
concettuale
s’intrecciano
in
un’impalcatura teorica che
mirainalto,benaldilàdelle
sponde dell’Arno. Quando il
dissensoideologicosiavvale,
inununicocaso,d’unricordo
specifico e dunque implica il
richiamo puntuale a una
persona e tira in causa molto
probabilmente
Tommaseo
(«Un già de’ tuoi, lodato
Gino; un franco / di poetar
maestro […]», vv. 227-28),
allora il nome è taciuto,
sostituito da una perifrasi
tanto discretamente allusiva
da essere sfuggita – se di
Tommaseo si tratta – anche
all’occhio,certonondistratto,
deldirettointeressato.42
La Palinodia, introdotta
inchiusuraneisecondiCanti
come magistrale pezzo
satirico, a meglio marcare il
pluristilismo
del
libro,
riprende
dal
Tristano
(analogopezzoconclusivo)il
motivo
della
finta
ritrattazione. Sono due testi
palinodici che, nella stampa
Starita, hanno in comune il
privilegio dell’epilogo. Ma
mentre l’operetta alza da
ultimo il sipario sulla tragica
realtàdelprotagonista,conla
vibrante invocazione alla
morte che l’apparenta al
coevo Amore e Morte, l’io
che parla nell’epistola in
sciolti non si mostra
autobiograficamente
allo
scoperto e non depone le
«armi del ridicolo» (Zib.
1393,27luglio1821).
Dal
Tristano
alla
Palinodia:ilpassaggiomerita
di essere considerato. Il tono
funebre e dimissionario che
scandisce
la
lettera
dedicatoria «Agli amici suoi
di Toscana», premessa ai
primi Canti, è stato smentito
prima dalla risolutezza
ironico-tragicadelTristano(e
nel maggio dello stesso 1832
dal Preambolo a «Lo
Spettatore Fiorentino»), poi
dalla satira della Palinodia,
che rinvigorisce l’estremo
sorrisodi Aspasia(«ilmarla
terraeilcielmiroesorrido»,
v.112)eloconverteinnuova
forza
conoscitiva.
All’indirizzo degli amici di
Toscana, ossia all’indirizzo
della piú avanzata cultura
egemone, dopo la musica
flebile
della
lettera
dedicatoriaantepostaaiprimi
Canti («Ho perduto tutto:
sono un tronco che sente e
pena»), s’inviano sfide
acuminate
(Tristano
e
Palinodia), entrambe dettate
daunoscrittorechehachiara
consapevolezza della propria
irrimediabile sconfitta di
fronte all’orgoglio del «secol
superbo e sciocco». Ma il
pathos dello scatto finale del
Tristano («invidio i morti»)
non ha riscontro nella
Palinodia, né vi ha riscontro
quella prolungata vibrazione
d’una
soggettività
appassionata.
Loscartoèforte.Afferma
Tristano:«Deidisegniedelle
speranzediquestosecolonon
rido: desidero loro con tutta
l’animaognimigliorsuccesso
possibile, e lodo, ammiro ed
onoro
altamente
e
sincerissimamente il buon
volere» (par. 35). Invece l’io
della Palinodia ne ride. Il
fattoècheTristanovedenella
morte«ilsolobenefizio»che
può riconciliarlo «al destino»
(par. 37), ma questo estremo
«benefizio» ha perduto
attrattiva con le due canzoni
sepolcrali che, nella tessitura
deiCanti,súbitoprecedonola
Palinodia.Anchelamorteha
perduto la sua forza di
attrazione.
Perciò
il
protagonistadell’epistolanon
deponele«armidelridicolo»
e trasferisce il pathos liricoautobiografico del Tristano
nell’acuminata densità della
riflessione
e
della
contestazione
eticoideologica. Cosí la satira, al
dilàdellaprivatavicendadel
poeta e della contingente
polemica fiorentina, acquista
compattezza di stile e
profonditàfilosofica,tantoda
presentarsi, in anticipo
rispetto a La ginestra, come
summa
magistrale
del
pensiero
leopardiano.
L’impegno riversato dagli
interpreti nell’indagare i
procedimenti formali e le
modalità enunciative del
registro satirico ha spesso
distolto
l’attenzione
dall’organicaeoriginalissima
solidità costruttiva dell’intero
componimento.
3.STRUTTURADELLA
PALINODIA
La
vivacità
rappresentativa, l’impasto di
forme auliche e quotidiane,
l’alternanza di toni ora
affabiliediscorsivioraseveri
e sconsolati, la dissonanza
stridente tra moderno e
antico, tra moda effimera e
sentimento del tempo, tra
futilità e durata, tra
immaginazione surreale e
cronacarealistica,nonmirano
soltanto al divertimento della
caricaturaedellaparodia,ma
sono al servizio di una
dinamica strutturale, scandita
in nove lasse, che non
interrompe
la
finzione
palinodica, però la smorza,
condrammaticaserietà,43per
lasciare spazio a momenti di
denuncia
tragicamente
sofferta.
La finta ritrattazione
(«Errai …», v. 1) serve a
esaltare in modo iperbolico
gli aspetti piú appariscenti
degli attuali prodigi delle
macchine,sídaridicolizzarne
–dallaprospettiva,beninteso,
che qui importa – la vacuità;
al tempo stesso il sarcasmo
della simulata ritrattazione
dice che il poeta sa bene di
combattere una battaglia
perduta. Perché non si tratta
per lui di riforme o di
avanzamenti
o
di
miglioramenti
economici,
sociali, politici. La mira è
diversa e piú alta. Non
riguarda la sfera dell’«utile»
ma la sfera del «dilettevole»,
cheè«piúutilechel’utile».44
Si tratta propriamente di
«felicità», giusto l’appunto
dei Disegni letterari, XIV
(1833 o 1834): «Palinodia
sopra la felicità della vita».45
Si tratta di quell’«alma /
felicità» (ironicamente citata
ai vv. 30-31) che sola può
dare per Leopardi davvero
alimento e senso alla vita:
come ansia della gioia piú
vera, che nasce dall’intrepida
salvaguardia di intatti valori
morali («Valor vero e virtú
…»,v.69),dalcaloreintenso
degli «affetti» (v. 232) e
dell’amore,
dalla
contemplazionedellabellezza
del mondo. Tutto il resto ha
importanzarelativa.Nonèun
caso che il termine «felicità»
(o
«felicitade»)
ricorra
quattro volte nell’epistola al
«candidoGino»(vv.31,109,
202, 258), registrando la
frequenza piú alta nel
complessivo sistema dei
Canti.Quest’«alma/felicità»
è illusoria: un dilettoso
inganno
dell’«immaginazione»
(Tristano, par. 7), ma
l’immaginazione è creatrice,
quindi quel fantasma di
«felicità»acquistaperilpoeta
energia e slancio di passione
vitale, diventa fondamento
dell’esistere,comeilprofumo
dell’odorata ginestra che il
deserto consola. Perciò
l’«alma / felicità» non può
essere promessa invano, né
esaltata come conquista
tangibile, attuale, facile e a
portata di mano. Si noti
l’aspro ossimoro al v. 109:
«mortal
felicità».46
La
Palinodia non combatte il
progresso tecnologico della
rivoluzione industriale né le
speranze rivoluzionarie dei
liberali,
ma
duramente
combatte la pretesa di poter
identificare l’uno e le altre
con l’«alma / felicità». La
quale invece non si può
disgiungere dalla coscienza
del nulla. Il «dilettevole»,
«piú utile che l’utile», non è
distrazione dal «vero», ma
«figlio d’affanno» (La quiete
dopo la tempesta, v. 32), e
riceve luminosa intensità
proprio dall’acuta cognizione
del dolore. Scambiare e
confondere l’«utile» con il
«dilettevole»
ha
effetti
rovinosi, perché significa
occultare il «vero» («ha suoi
diletti il vero»: Al Conte
Carlo Pepoli, v. 152),
annullare il «dilettevole» e
rendere «inutile la vita» (Il
pensiero dominante, v. 63).
Proprio
contro
questo
scambio di valori, e le sue
conseguenze, s’innalza il
canto della Palinodia, che
segue la linea contestativa
della dissacrazione, per
lasciare
affiorare
il
«dilettevole» soltanto e
contrario,
a
sprazzi
intermittenti, come i miseri
residui d’un naufragio (cfr.
vv.69-70,232,235-37).
Si spiega cosí perché il
testo intrecci con ritmo
incalzante ironia e spietato
pessimismo.L’ironia,mistaa
sarcasmo, predomina in tutte
lenovelasse–menolaterza
elasesta–einvestelafallace
promessa d’una felicità
ottenuta con le conquiste del
progresso industriale e della
cospirazione politica; il
pessimismo scatta nelle lasse
terza
e
sesta
–
significativamente le due piú
lunghe – e chiarisce la
permanente
condizione
d’infelicità che tormenta il
vivere umano, sul piano
storico (lassa terza) e sul
piano biologico-esistenziale
(lassasesta,lapiúestesa).
L’ironiairridentecolpisce
anzitutto la voce concorde
delle «gazzette» (v. 20),
«animaevita/dell’universo,
e di savere a questa / ed alle
etàventureunicafonte!»(vv.
151-53),
formidabile
strumento non di conoscenza
madipersuasione;colpisceil
livellamento al basso della
cultura; la superbia delle
nuove
tecnologie
(«le
macchinealcieloemulatrici»,
v.50);laconclamatacertezza
d’una
fratellanza
sovranazionale («Universale
amore …», v. 42) sempre
smentita dai fatti; la rincorsa
ai consumi come fonte di
felicità (abbigliamento e
arredamento: vesti di lana,
seta,cotone,pellicce;tappeti,
coltri, seggiole, canapé,
sgabelli, tavole, letti e nuovi
paiuoli e nuove pentole),
nonché l’accelerazione dei
trasporti considerata come
riscatto dal male di vivere;
l’illuminazione a gas come
garanzia «nottetempo» (v.
130) di ordine pubblico e di
comune sicurezza; i grafici
statistici
sui
consumi
alimentari e sui decorsi
demografici, diffusi come
dati che renderanno la vita
piú serena e piú lieta; la
filosofia
dogmatica
e
spiritualistica del presente; la
moda delle idee correnti («il
concorde sentir», v. 220) che
nessuno per conformismo e
per
adulazione
osa
contrastare, eppure sono idee
labili che mutano con il
mutare delle stagioni; il
discredito verso lo studio
rivolto
all’esplorazione
dell’io e della coscienza,
ritenuto irrilevante e vano di
fronteai«severi/[…]studi»
(vv. 233-34) dell’economia e
della politica; la «matura
speme»
(v.
238)
di
un’umanità felice ormai
imminente, quindi «il pelo»
(v. 259) fluente dei
rivoluzionari che di quella
speranzaè«visibilpegno»(v.
256)concessodagliDei:anzi,
già inizio della «nova /
felicità» (vv. 257-58) che
deveinaugurareilregnodella
«gioia»(v.277).
L’ironiavienemenonelle
lasse terza e sesta. Sono le
due lasse portanti e si
richiamano una all’altra con
unnessostrettochesmentisce
l’esultanza derisa nelle parti
ironiche e non lascia scampo
almitodelprogresso-felicità.
Dal piano storico-sociale
(lassaterza)sipassaalpiano
materialistico-esistenziale
(lassa sesta) del «gioco reo»
(v.166)edeicapricciconcui
la «natura crudel» (v. 170) si
trastulla. Lo spettacolo
disumanodelleguerreedelle
«stragi» (v. 62), provocate
non altro che da avidità di
possesso e di rapina, si
associa allo spettacolo non
meno
desolante
delle
«miserie»(v.182)biologiche
(«vecchiezza e morte», v.
183) inflitte al «fragil
mortale»(v.175)dall’«empia
madre» (v. 181). Il primato
dell’avere sull’essere, l’oblio
dell’individuonell’anonimato
delle statistiche e della
massa,47 la presunzione
scientista
d’un
domani
radioso, la dimenticanza
dell’immedicabile pena di
vivere che è connaturata alla
fragilità della «prole mortal»
(v. 6) non destinata a
dimorare in un «Eden
odorato» (v. 8): tali i cardini
di un’argomentazione serrata
che mette in chiaro anche il
ribaltamento dei valori
indotto dalla civiltà dell’utile
e dei consumi, nel turbine –
intuítoconocchioprofetico–
di un villaggio globale
manipolato e monopolizzato
dalla«giornalieraluce/delle
gazzette» (vv. 19-20). I
massacri
perpetrati
da
«cagionqualsisiach’adauro
torni» (v. 68) altro non sono
che «lievi reliquie» (v. 97)
del passato, piccoli incomodi
accidentali, e non turbano
l’ascesa sicura del progresso,
perché altre sono ora le cose
che contano, «le cose / piú
gravi» (vv. 107-8) che
regalano la felicità: il
rinnovamento degli abiti e
delle
suppellettili,
gli
spostamenti rapidi, anzi i
voli,daunanazioneall’altra,
levieilluminatedailampioni
agas.
Le
cose
essenziali
diventano secondarie e le
secondarie essenziali. Il
primato dell’utile distorce e
vanifica
il
significato
dell’esistere. Ne risulta
ribadita la cancellazione di
«Valorveroevirtú,modestia
e fede / e di giustizia amor»
(vv. 69-70): parole afflitte e
vinte, davvero sillabate con
struggente pudore, quasi
richiamate in vita da una
lontananza
siderale
e
contemplate intatte nel loro
primigenio significato. Il
motivo ritorna ossessivo
nell’ultimo Leopardi: da «la
sincerità e la modestia» che
«resteranno
indietro»
nell’inno Ad Arimane48 alle
«virtú» invano attese nel
magistrale Pensiero XLIV,49
dalla «Bella virtú» salutata
con
rimpianto
nei
Paralipomeni(V47-48),dopo
l’epica morte di Rubatocchi,
al«veroamor»evocatoinLa
ginestra (v. 132) con austera
non rassegnazione dinanzi al
crollo della speranza –
davvero,nonostantetutto,per
quantosia«laspemeestinta»,
rimane
vitalissimo
e
«incolume il desio», come
vuole Il tramonto della luna
(v. 48) –. Di fronte al
dominio dell’utile, Leopardi
ha scelto l’ardua strada
dell’«inutile»,50
del
«dilettevole»,dell’umano.
Passo dopo passo, tra
satira
e
tragedia,
la
dissacrazione del moderno
raggiungenellaPalinodiauna
disperata radicalità, politica,
etica, filosofica, che ben
pochi tra i contemporanei, in
Italia e fuori, potevano
condividere. Tra questi non
poteva esserci il «candido
Gino»,
per
quanto
intellettuale
avverso
all’orgoglio del «mal secolo»
e «secolo matto», per quanto
uomo «senza pace», «senza
fiducia nell’avvenire, senza
speranza che ci riscaldi». Lo
«strumento scassinato» del
cuore
lo
promuove
interlocutore
plausibile,
assortoepartecipe,luilettore
sagace d’un libro difficile e
turbativo come le Operette
morali;
lo
promuove
destinatario pensoso e perciò
capace di meditare sulle
ragionialtedelpoeta(edifatti
riconosce:
«mi
avete
stuzzicato
sopra
un
argomento, il quale, non che
solleticarmi, mi cuoce»), ma
non lo promuove compagno
di viaggio. Nel suo viaggio
dentro il «deserto della vita»
(Timandro,par.8)esull’orlo
del
nulla,
dove
piú
«stupendo» brilla l’«incanto»
(Il pensiero dominante, v.
102) delle illusioni, Leopardi
erasolo.
1. G. Capponi a G. Leopardi,
Varramista, 21 novembre 1835, in
Epist., VI pp. 304-6. In questo capitolo
mi avvalgo in parte del mio studio
Leopardi, Capponi e la ‘Palinodia’,
presentato al Convegno Leopardi a
Firenze (Firenze, 3-6 giugno 1998), in
corso di stampa negli Atti relativi
(Firenze,Olschki,2001).
2. G. Capponi a N. Tommaseo,
[Firenze], 12[-16] nov[embre 1835], in
N.
TOMMASEO-G.
CAPPONI,
Carteggio inedito dal 1833 al 1874, a
cura di I. DEL LUNGO e P. PRUNAS,
Bologna,Zanichelli,1911-1932,4voll.,
I(1833-1837)1911,pp.330-31.
3. G. Capponi a G. P. Vieusseux,
[Varramista, 24 novembre 1835], in G.
CAPPONI-G.P. VIEUSSEUX, Carteggio,
a cura di A. PAOLETTI, Firenze, Le
Monnier, 1994-1996, 3 voll., II (18341850) 1995, p. 82. Sui rapporti
cronologici tra le lettere di Capponi a
Tommaseo, Vieusseux e Leopardi, cfr.
R. RIDOLFI, Candido Gino, nell’opera
collettiva Gino Capponi linguista,
storico, pensatore, Firenze, Olschki,
1977,pp.76-77n.34.
4. ZUMBINI, Studi sul Leopardi,
cit.,II1904,pp.274-75.
5. RIDOLFI, Candido Gino, cit., p.
76.
6. FERRARIS, L’ultimo Leopardi.
Pensiero e poetica 1830-1837, cit., p.
114: «lettera […] di rara perfidia, tutta
giocata sulla dissimulazione sottile di
un’irritazione profonda». Osservazioni
pertinenti sulla lettera di Capponi si
devono a LEVI, G. Leopardi, cit., pp.
382-83.
7. Ne è prova la lettera affettuosa
ma fiera e risoluta che Capponi ha
inviatoaPietroGiordaniil18dicembre
1833(editainA.D’ANCONA,Memorie
edocumentidistoriaitalianadeisecoli
XVIIIeXIX,Firenze,Sansoni,1914,pp.
536-40, poi anche in Carteggio
Giordani-Vieusseux.1825-1847, a cura
di L. MELOSI, pres. di G. LUTI,
Firenze, Olschki, 1997, pp. 183-84),
dopocheGiordaniavevaritenutogiusto
nel 1830 interrompere con lui ogni
rapporto, per «un malumore forse
ingiustificato»
(TIMPANARO,
Classicismo
e
illuminismo
nell’Ottocento italiano, cit., p. 122 n.
4).
8. Sulla «pedanteria», cfr. almeno
G.
CAPPONI,
Sull’educazione.
Frammento (1841), «Seconda edizione
riveduta e corretta», Firenze, Paggi,
1869,
pp.
76-78.
Il
testo
Sull’educazione, avviato nel 1835 e
compiuto nel 1841, uscí dapprima, con
il titolo Pensieri sull’educazione, in
stampaanonimaenonvenale,aLugano
nel 1845, presso la Tipografia della
Svizzera Italiana; il nome dell’autore
compare dalla seconda edizione del
1869 (cfr. ora Sull’educazione.
Frammento, a cura di R. RIDOLFI,
Firenze, Edizioni della Cassa di
Risparmio,1976).
9. G. Capponi a G. Leopardi,
Varramista, 21 novembre 1835, in
Epist.,VIpp.304-5.
10.Peril«sistema»diCapponi,cfr.
R. CIAMPINI, La ‘Palinodia’ di
Leopardi e il «sistema» di Gino
Capponi, in «Nuova Antologia»,
maggio-agosto1948,pp.136-42;perla
sua asistematicità, cfr. in partic. il
ritrattodel«candidoGino»disegnatoda
E. GARIN, Gino Capponi, nell’opera
collettiva Gino Capponi. Storia e
progresso nell’Italia dell’Ottocento.
Atti del Convegno di studio (Firenze,
PalazzoStrozzi,21-23gennaio1993),a
cura di P. BAGNOLI, Firenze, Olschki,
1994,pp.5-17.
11. CONTINI, Giacomo Leopardi,
cit.,p.353.
12. G. CAPPONI, Epigrafi, in ID.,
Scritti editi e inediti, a cura di M.
TABARRINI, Firenze, Barbèra, 1877, 2
voll.,IIp.472.
13. G. Capponi a N. Tommaseo,
[Firenze, aprile 1834], in TOMMASEO-
CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833
al1874,cit., Ip.21;cfr.ancheivi,pp.
107,126,143,169.
14.G.Leopardialpadre,Firenze,3
luglio1832,inTO,Ip.1386.
15. G. Capponi a N. Tommaseo,
[Firenze,
ottobre
1833],
in
TOMMASEO-CAPPONI,
Carteggio
ineditodal1833al1874,cit.,Ip.33.
16.Ivi,p.21.
17.Ivi,p.28.
18. G. Capponi a N. Tommaseo,
[Firenze, ottobre 1833], ivi, p. 34, per
cui cfr. almeno i «dilettosi inganni» in
Iltramontodellaluna,v.24.
19. G. Capponi a N. Tommaseo,
[Varramista, 21 ottobre 1833], ivi, p.
41.
20. CAPPONI, Sull’educazione, cit.,
p.19.
21.Cfr.ivi,p.30.
22.Ivi,p.19.
23.Ivi,p.36.
24.Ivi,p.64.
25.Ivi,p.36.
26.Ivi,p.62.
27. Cfr. G. LEOPARDI, Le prose
morali,acuradiI.DELLAGIOVANNA,
Firenze,Sansoni,1895,p.271n.18.
28. Per questa piú tradizionale
identificazione,
che
ritengo
inaccettabile, cfr. da ultimo F.
CERAGIOLI,La‘PalinodiaalMarchese
Gino Capponi’, nell’opera collettiva Il
riso leopardiano. Comico, satira,
parodia. Atti del IX Convegno
internazionale di studi leopardiani
(Recanati, 18-22 settembre 1995),
Firenze,Olschki,1998,pp.461-62.
29. G. Capponi a N. Tommaseo, 8
gennaio 1835, in TOMMASEOCAPPONI, Carteggio inedito dal 1833
al1874,cit.,Ip.206.
30.Ivi,p.246.
31.Ivi,p.232.
32.QuestialcunipassidelRapporto
sulle Operette morali redatto da
Capponi: «il Conte Leopardi ha dato
nelle sue Operette morali un bel
modellodellinguaggioches’appartiene
alla filosofia. Felicissime le invenzioni
e bene immaginati i personaggi tra’
quali suppone intervenuti i suoi
dialoghi.Moltalacopiadellesentenzee
la giustezza dei pensieri […]. Noi
tegnamo per fermo questa sua filosofia
esser frutto di lunga meditazione sui
casiveridellavita,equestaraccoltadi
Operette dottissime essere da anteporsi
a qualunque altra opera che in piú
grossi volumi e sotto piú severe
sembianze fosse dettata dal piú
accigliato dottore. […]. Il massimo
pregio è lo stile che può dirsi perfetto
[…]. Sarebbe grave danno invero
spogliarelescritturedelC.Leopardidel
suostilech’èproprio,ricco,elegantee
soprattutto chiarissimo; ma non per
questo io credo che parrebbero cose di
niunvalore,credoanzicheresterebbero
sempre cose piene di senno e di
dottrina, quelle ch’ei discorre ed
esamina in queste Operette morali».
Nello stilare il Rapporto, in qualità di
Presidente
della
commissione
giudicatrice,Capponihafattoproprioil
giudizio dell’accademico Lorenzo
Collini. Sulla questione del premio
della Crusca, cfr. G. FERRETTI,
Leopardi e la Crusca, in «Giornale
storico della letteratura italiana»,
XXXVI 1918, 211 pp. 49-70; ID.,
Leopardi, L’Aquila, Vecchioni, 1929,
pp. 215 sgg. (sono riportati i giudizi
espressidaivaricommissari);LEVI,G.
Leopardi, cit., pp. 322-32; S. PARODI,
Quattro secoli di Crusca. 1583-1983,
Firenze,AccademiadellaCrusca,1983,
pp.129-30;BELLUCCI,G.Leopardiei
contemporanei, cit., pp. 124-38.
Nell’adunanza dell’Accademia del 9
aprile 1830, su quindici votanti, come
sappiamo, un solo voto fu assegnato
alle Operette morali. A chi spetti il
merito di quell’unico voto, è
controverso:oltreaCollinieaCapponi,
anche Giovanni Battista Niccolini era
favorevole alle Operette morali, ma
molto
probabilmente
(anzi
«certamente», a detta di LEVI, G.
Leopardi,cit.,p.326)quelmeritovaa
Capponi;senz’altrononaCollini(come
inveceritieneBELLUCCI,G.Leopardie
i contemporanei, cit., p. 138) che era
deceduto nell’ottobre 1829 (cfr. il
necrologio Lorenzo Collini, in
CAPPONI, Scritti editi e inediti, cit., I
pp.468sgg.).
33. G. Capponi a N. Tommaseo,
[Firenze], 20 febbraio [1835], in
TOMMASEO-CAPPONI,
Carteggio
ineditodal1833al1874,cit.,Ip.224.
34. CAPPONI, Sull’educazione, cit.,
p.37.
35. Benissimo lo ha dimostrato S.
TIMPANARO, Leopardi e la sinistra
italiana degli anni settanta, in ID.,
Antileopardiani e neomoderati nella
sinistra italiana, cit., pp. 182-83, che
spiega«candido»come«capacediretto
e imparziale (e piuttosto benevolo che
malevolo) giudizio», sull’esempio
dell’oraziano (in analoga posizione
d’apertura)«candideiudex»(Epistole, I
41).
36.Ladivergenzadelleideesiacuí
con il passare del tempo, quando
Capponi non si mantenne all’«acme
della maturità intellettuale, nella
pienezza delle sue finalità incivilitrici
ed europeistiche» (P. TREVES,
Capponi, Gino, nell’opera collettiva
Dizionario Biografico degli Italiani,
Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana,
XIX 1976, p. 37). Cfr. anche GARIN,
Gino Capponi, cit., pp. 5-17, che
assegna agli anni Trenta la fase piú
significativa del magistero di Capponi.
Di tale successivo declino, di idee e di
affetti, è prova il tardo Pensiero su
Leopardi (compreso come XVIII nei
Pensieridiversi,inScrittieditieinediti,
cit.,IIpp.445-46).
37. Cfr. DIONISOTTI, Leopardi e
Bologna,cit.,p.137.
38.«Fuunmodoperlui[Leopardi]
di dire, all’unica persona che egli
ritenesse degna di ascoltarlo, il
“candidoGino”,tuttoquantoglirestava
da dire e prima, nei suoi versi, non
avevaancordetto»(A.PARRONCHI,«Il
computar», in ID., La nascita dell’
‘Infinito’ e altri studi leopardiani, cit.,
p.93).
39.LaPalinodia, nonostante la sua
centralità nella poesia dell’ultimo
Leopardi, non è tra i «canti» piú
studiati.
Per
interventi
critici
significativi, cfr. in partic.: V.G.
GUALTIERI, La ‘Palinodia’ e la sua
fonte inavvertita, in «Fanfulla della
Domenica», 27 gennaio 1918 (sulla IV
Ecloga virgiliana); CIAMPINI, La
‘Palinodia’ di Leopardi e il «sistema»
di Gino Capponi, cit., pp. 136-42; F.
MARIANI CIAMPICACIGLI,
Prepotenza dell’io. Modalità enunciative
nella‘Palinodia’diGiacomoLeopardi,
in «Strumenti critici», 47-48 1982, pp.
161-68;S.ROMAGNOLI,La‘Palinodia
al Marchese Gino Capponi’ di
GiacomoLeopardi,in«IlPonte», XLIII
1987, 2 pp. 89-108; S. CARRAI, Una
variazione sul tema del Della Casa: la
‘Palinodia’leopardiana, in «Rivista di
letteraturaitaliana»,VI1988,1pp.1016;PARRONCHI,«Ilcomputar»,cit.,pp.
77-95; L. BLASUCCI, Procedimenti
satiricinella‘Palinodia’(1992),inID.,
I tempi dei ‘Canti’. Nuovi studi
leopardiani,
cit.,
pp.
162-76;
CERAGIOLI,La‘PalinodiaalMarchese
Gino Capponi’, cit., pp. 461-71; D.
DELLATERZA,GinoCapponi,Antonio
Ranieri e lo stile della ‘Palinodia’
leopardiana,nell’operacollettivaIlriso
leopardiano. Comico, satira, parodia,
cit., pp. 473-89; A. SOLE, Note sulla
‘PalinodiaalMarcheseGinoCapponi’,
nell’operacollettivaStudidifilologiae
letteraturaitalianainonorediGianvito
Resta,cit.,IIpp.825-55.
40. Nei Paralipomeni invece, al di
làdellafinzionefavolisticaezoomorfa,
risulta piú puntuale il riferimento
all’ambientefiorentino,specienelconte
Leccafondi,«toporaroa’suoidí,chedi
profondi / pensieri e di dottrina era un
portento:/leggiestatisapead’entrambi
i mondi, / e giornali leggea piú di
dugento; / al cui studio in sua patria
avevaeretto,/siccom’oggidiciamo,un
gabinetto»(I343-8).Perirapportitrai
Paralipomeni VI 15 sgg. e il tentativo
insurrezionale fiorentino (testimoniato
daiRicordidiCapponi,inScrittieditie
inediti, cit., II pp. 39 sgg.), cfr. G.A.
LEVI, Capponi, Colletta e i
‘Paralipomeni
della
Batracomiomachia’, in «La Cultura»,
IX1930,7pp.597-607.
41. «Che il “confronto col proprio
secolo”siailverotemadellaPalinodia,
lo dimostra palesemente il fatto – una
voltatantoanch’iomivogliometterea
computerizzare–chelaparola“secolo”
ricorrebennovevoltenelcanto,esesi
aggiungono le espressioni concorrenti
“la lieta / Nonadecima età” e “l’età
ch’or si volge”, undici volte: un
numero, nella suprema economia
linguistica leopardiana, di per sé
significativo: a indicare l’obbiettivo
dell’accusa»
(PARRONCHI,
«Il
computar»,cit.,p.93).
42. L’identificazione del «franco /
di poetar maestro» con Tommaseo è
beneargomentatadaAlfredoStraccalie
quindi da Oreste Antognoni (G.
LEOPARDI, Canti, Firenze, Sansoni,
1892,19103,pp.280-82),conrinvioal
saggio tommaseano Dell’educazione.
Scrittivarii(Lugano,Ruggia,1834)eai
libri Dell’Italia (Parigi, Delaforest,
1835), poi da Luigi Russo (ID., Canti,
Firenze, Sansoni, 1945, p. 363), con
rinvio a Dell’educazione. Sul tema
ritornano
FERRARIS,
L’ultimo
Leopardi, cit., pp. 119 sgg. (con
riferimentoall’interventodiTommaseo
Dellaletteraturaconsideratacomeuna
professione sociale, nell’«Antologia»
delluglio1832),eL.CELLERINO,L’io
del topo. Pensieri e letture dell’ultimo
Leopardi, Roma, La Nuova Italia
Scientifica, 1997, pp. 15 e 39 (con
riferimento all’incompiuto scritto
leopardiano Potenze intellettuali:
Niccolò Tommaseo, di cui si
sottolineano eloquenti consonanze
lessicali con il passo della Palinodia).
Certamente insostenibile (già è stato
notato da STRACCALI-ANTOGNONI,
Canti,cit.,p.280;RUSSO,Canti,cit.,p.
363; TIMPANARO, Leopardi e la
sinistraitalianadegliannisettanta,cit.,
p. 183) è la congettura di ravvisare
Manzoni nel «franco / di poetar
maestro», come Capponi propose a
distanzadiquarant’anni,il9novembre
1875,interpellatodaFedeleLampertico
(cfr.LetterediGinoCapponiedialtri
alui,acuradiA.CARRARESI,Firenze,
Le Monnier, 1882-1890, 6 voll., e
Appendice, 2 voll., IV 1885, pp. 41618). Se di Tommaseo si tratta, come
sembra sicuro, va osservato che il
profilo del futuro autore di Fede e
bellezza delineato qui da Leopardi
coglie taluni aspetti significativi
dell’originale,manonrendecontodella
sua piú complessa e inquieta
fisionomia, sí che ne risulta un profilo
unilaterale. L’interrogativa «Il proprio
petto / esplorar che ti val?», con quel
che segue («Materia al canto / non
cercar dentro te»), mal si conviene a
uno scrittore che proprio in siffatta
esplorazione e in siffatta ricerca era
appassionatamenteintento:sirammenti
almeno che nel 1836 Tommaseo
intitolavaConfessioniilsuoprimolibro
di poesie e che fino dal 1831 con il
racconto Due baci aveva inteso
analiticamente «esplorare» non altro
che «i segreti del cuore» (N.
TOMMASEO, Due baci, in ID., Tutti i
racconti,acuradiG.TELLINI,Milano,
San Paolo, 1993, p. 140). La polemica
parzialità del ritratto può spiegare
perché Tommaseo non si sia in alcun
modo riconosciuto nell’innominato
personaggio celato dietro il velo
dell’allusioneleopardiana.
43. «Benché proponghiamo di
rideremolto,ciserbiamoperòinterala
facoltàdiparlarsulserio:ilchefaremo
forse altrettanto spesso, ma sempre ad
oggettoeinmanieradidoverdilettare,
ancosesidesseilcasodifarpiangere»
(Lo Spettatore Fiorentino. Giornale di
ognisettimana.Preambolo,in TO, I p.
993).
44.Ibid.
45.Ivi,p.373.
46. Sull’aggettivo «mortale», che
ritornaseivoltenellaPalinodia(vv.6,
due volte, 22, 109, 167, 183; al v. 175
comesostantivo),cfr.ROMAGNOLI,La
‘PalinodiaalMarcheseGinoCapponi’
diGiacomoLeopardi, cit., pp. 96-97 e
104.
47. «Ma novo e quasi / divin
consiglioritrovàrglieccelsi/spirtidel
secol mio: che, non potendo / felice in
terra far persona alcuna, / l’uomo
obbliando, a ricercar si diero / una
comun felicitade; e quella / trovata
agevolmente, essi di molti / tristi e
miseri tutti, un popol fanno / lieto e
felice: e tal portento, ancora / da
pamphlets,darivisteedagazzette/non
dichiarato, il civil gregge ammira»
(Palinodia,vv.197-207);«Sapetech’io
abbominolapolitica,perchécredo,anzi
vedochegl’individuisonoinfelicisotto
ogni forma di governo; colpa della
natura che ha fatti gli uomini
all’infelicità; e rido della felicità delle
masse, perché il mio piccolo cervello
non concepisce una massa felice,
composta d’individui non felici» (G.
LeopardiaF.Targioni-Tozzetti,Roma,
5 dicembre 1831, in TO, I p. 1369);
«Gl’individui sono spariti dinanzi alle
masse,diconoelegantementeipensatori
moderni. […] Lasci fare alle masse; le
quali che cosa sieno per fare senza
individui,
essendo
composte
d’individui,desideroesperochemelo
spieghino gl’intendenti d’individui e di
masse, che oggi illuminano il mondo»
(DialogodiTristanoediunamico,par.
22).
48.AdArimane,inTO,Ip.350.
49.Ivi,p.229.Cfr.cap.XVIpar.2.
50. Lo Spettatore Fiorentino.
Giornalediognisettimana.Preambolo,
ivi,p.992.
XIX
ICANTIDEL1835
1.ILPASSEROSOLITARIO
Tra le non poche novità
offerte nel 1835, con la
seconda edizione dei Canti,
troviamo anche Il passero
solitario,untestodialtissima
fattura, tanto piú notevole e
originale
in
quanto
singolarmente eccentrico nel
periodo post-1831, entro la
lineamaestrachedalciclodi
Aspasia
giunge
alla
Palinodia.Nellastampa1835
è collocato dopo Il primo
amore, con funzione di
premessa agli idilli giovanili,
ma premessa a posteriori,
compiuta in età avanzata,
comeattestanosenzadubbioi
procedimenti della tecnica
metrico-stilistica.1
L’ambientazione
puntualmenteriferitaal«loco
natio» (v. 25), al «nostro
borgo» (v. 28), e una fitta
tessitura di echi interni
richiamano i canti pisanorecanatesi del 1828-’29 (A
Silvia, Le ricordanze, La
quiete, Il sabato). Però,
diversamente da questi, Il
passero solitario mette in
scena un io autobiografico
non disingannato dal crollo
della speranza, bensí un io
giovane,
intento
a
contemplare la «Primavera»
(v. 5) stagionale che
«dintorno / brilla nell’aria, e
perlicampiesulta»(vv.5-6),
proprio mentre brilla anche
«la primavera» (v. 26) della
sua vita. Dapprima rivolge
l’attenzione al «passero
solitario»(v.2)che,difronte
ailietivolideglialtriuccelli,
siritrae«pensosoindisparte»
(v.12),lontanodaicompagni
eindifferenteailoro«spassi»
(v. 14), che canta in
solitudine e cosí consuma
«dell’anno» e di «sua vita il
piúbelfiore»(v.16).Quindi
considera se stesso, «romito»
(v.24)e«solitario»(v.36)al
pari del passero. L’io vive la
sua
«primavera»
con
speranza, giacché non cura
«Sollazzo e riso» (v. 18), né
«amore» (v. 20), ma «ogni
dilettoegioco»(v.38)rinvia
«in altro tempo» (v. 39), in
anni sperabilmente piú belli
di là da venire. Avverte
tuttavia, con angoscia, il
correredeigiorni,cometriste
presagio di una «gioventú»
che sta per tramontare (vv.
39-44):
[…]eintantoilguardo
stesonell’ariaaprica
mifereilSolchetralontani
monti,
dopoilgiornosereno,
cadendosidilegua,eparche
dica
chelabeatagioventúvien
meno.
Poi, da ultimo, i due destini,
del passero e dell’io, sono
messiaconfronto.Il«solingo
augellin» (v. 45), giunto alla
sera della vita, non si dorrà
del suo «costume» (v. 47),
perché risponde a un ordine
naturale. E l’io? Qui
intervieneunarepentinacorsa
in avanti e quel presagio non
lieto si materializza in una
prefigurazione del futuro.
L’iogiovanesivedevecchio,
svanita ormai la speranza,
quando il domani s’annuncia
«piú noioso e tetro» (v. 55)
dell’oggi. E immagina che
allora, da vecchio, tornerà
con la mente alla sua
giovanile «voglia» (v. 56) di
solitudine,
alla
sua
«primavera» sprecata e tirerà
un bilancio fallimentare della
propriaesistenza(vv.58-59):
Ahipentirommi,espesso,
masconsolato,volgerommi
indietro.
L’esperienza del disinganno,
già avvenuta al momento
della scrittura, è resa non in
atto, bensí prefigurata nel
futuro, ma espressa tuttavia
concategoricacertezza,come
indica il tono perentorio dei
vv. 58-59. L’io scrivente è
l’io «sconsolato» del v. 59 e
perluilamemoriadelpassato
è una memoria crudele, una
«rimembranza acerba», come
in Le ricordanze (v. 173), e
riguarda in questo caso un
«costume»,anziuna«voglia»
(v. 56), e come tale
biasimevole, che gli ha
rovinatolagiovinezza.2
Però Il passero solitario
non adotta il rapporto
cronologico presente-passato,
quale è istituito in ASilvia e
Le ricordanze, dove il
presenteèiltempodisillusoe
il passato il tempo illuso:
istituisce invece un rapporto
cronologico
diverso,
presente-futuro,
sí
da
rappresentare
l’età
dell’illusione al presente e
l’età della disillusione al
futuro. Un futuro, sappiamo,
già sperimentato: lo dice
anche il lugubre accento
vissuto con cui è definito
l’amore («sospiro acerbo de’
provetti giorni», v. 21) e
qualificata la vecchiezza
(«quando muti questi occhi
all’altruicore,/elorfiavòto
ilmondo,eildífuturo/deldí
presente piú noioso e tetro»,
vv. 53-55). Questo fa sí che
l’io giovane guardi se stesso
con la consapevolezza del
triste destino che lo aspetta,
perciònelproprioautoritratto
dà peso particolare a quel
«costume» che lo renderà
infelice. In A Silvia e Le
ricordanze l’età giovanile è
l’età degli «ameni inganni»
(Le ricordanze, v. 77),
dissolti all’apparire del vero;
qui invece è soprattutto l’età
nongodutacomesidovrebbe,
il che spiega il retrospettivo
«pentirommi» del v. 58 e
anche spiega perché la
responsabilità della «natura»
(cfr. A Silvia, vv. 36-39; Le
ricordanze, vv. 71-76) non
sia ora chiamata in causa. Le
responsabilità
sono
individuali.
In
un
meccanismosiffatto,ilcentro
lirico, che distingue il
componimentotraipiúaltidi
Leopardi, sta nell’incanto
trepido, esultante, luminoso
dellaprimavera(vv.5-11,2735), stagionale e biografica:
un tripudio prodigioso,
ricreato
attraverso
la
sensibilità e lo stato d’animo
di un giovane che appartiene
emotivamente
e
biologicamente a questa
stagione felice e festosa, ma
chenonneèpartecipeesela
lascia sfuggire. L’invenzione
dell’io giovane, che vive
come attuale quel lontano
tempo
perduto,
spiega
l’inserimento del canto nel
1835inlimineagliidilli,con
lo scopo di introdurre il
lettore alle immaginazioni
della «novella età» (v. 19),
ma con la coscienza disillusa
di chi ha chiara cognizione
delpropriofuturo.
2.LASECONDAEDIZIONEDEI
CANTI
Con la seconda edizione
(Napoli, Saverio Starita,
settembre 1835), il libro dei
Canti cambia identità. La
stampa del 1831, con testi
compostitrail1817eil1830,
è selettivamente lirica, a
struttura lineare e chiusa,
sigillata con Ilsabato su una
nota affabile e reticente
(«Altrodirtinonvo’»,v.50).
Siarticolasuitrenucleidelle
canzoni, degli idilli e dei
canti pisano-recanatesi, con
tre componimenti a fare da
cerniera(Ilprimoamoretrai
due blocchi iniziali, Alla sua
donna e Al Conte Carlo
Pepoli tra il secondo e il
terzo). Nel 1835 i testi
salgono da ventitré a
trentanove, dislocati in un
arco temporale che dal 1816
giunge al 1835. L’impianto è
piú frastagliato, a struttura
aperta, la panoramica dell’io
protagonista si è espansa in
senso meno selettivo, piú
articolato, prospettico e
pluristilistico–anchesatirico,
soprattutto con la Palinodia
–.Precedutidall’Imitazionee
dalloScherzo(cherisaleal15
febbraio 1828), entrano in
chiusura i cinque Frammenti
(degli anni 1816-’24, esclusi
nel 1831), allo scopo di
tracciare un autoritratto piú
mosso, come testimonianza
culturaleetecnico-stilisticain
prospettiva
storica
generosamentedocumentaria.
I Canti: indice della II ed. (Napoli,
SaverioStarita,1835)3
I.All’Italia
II.SoprailmonumentodiDantechesi
preparavainFirenze
III.AdAngeloMai,quand’ebbetrovato
i libri di Cicerone della
Repubblica
IV.NellenozzedellasorellaPaolina
V.Aunvincitorenelpallone
VI.Brutominore
VII.Alla Primavera, o delle favole
antiche
VIII.Inno ai Patriarchi, o de’ principii
delgenereumano
IX.UltimocantodiSaffo
X.Ilprimoamore
XI.Ilpasserosolitario
XII.L’infinito
XIII.Laseradeldídifesta[F:La sera
delgiornofestivo]
XIV.Allaluna
XV.Ilsogno
XVI.Lavitasolitaria
XVII.Consalvo
XVIII.Allasuadonna
XIX.AlConteCarloPepoli
XX.Ilrisorgimento
XXI.ASilvia
XXII.Lericordanze
XXIII.Canto notturno di un pastore
errante[F:vagante]dell’Asia
XXIV.Laquietedopolatempesta
XXV.Ilsabatodelvillaggio
XXVI.Ilpensierodominante
XXVII.AmoreeMorte
XXVIII.Asestesso
XXIX.Aspasia
XXX.Sopra un basso rilievo antico
sepolcrale, dove una giovane
morta è rappresentata in atto
di partire, accommiatandosi
daisuoi
XXXI.Sopra il ritratto di una bella
donnascolpitonelmonumento
sepolcraledellamedesima
XXXII.Palinodia al Marchese Gino
Capponi
XXXIII.Imitazione
XXXIV.Scherzo
Frammenti
XXXV.«Odi, Melisso … » [B26: Lo
spaventonotturno.IdillioV]
XXXVI.«Io qui vagando … » [B26:
ElegiaII]
XXXVII.«Spentoildiurnoraggio…»
XXXVIII.DalgrecodiSimonide
XXXIX.Dellostesso
Le aggiunte, come si
vede,oltreall’Imitazione,allo
Scherzo e ai cinque
Frammenti, riguardano altri
nove testi e sono incrementi
risolutivi:Ilpasserosolitario,
poi–secondocronologiaedi
séguito al nucleo dei canti
pisano-recanatesi–ilciclodi
Aspasia,leduesepolcraliela
Palinodia al Marchese Gino
Capponi. Il passero solitario
è collocato súbito dopo Il
primo amore: uniti in una
coppiachepreludeagliidilli,
ma Il passero, mentre
introduce alla illusa stagione
della giovinezza, denuncia
anche l’irrealtà di quelle
immaginazioni
con
l’esperienza sconsolata degli
anniavvenire.Estrapolatodai
coevi ma differenti canti di
AspasiaèilConsalvo,postoa
sigillo degli idilli – con i
quali intrattiene, a distanza
cronologica,
vincoli
di
familiarità, specie con Il
sogno – e prima di Alla sua
donna, alla quale si associa
per antifrasi: sí che le
situazioni
antitetiche
dell’amore
terrestre
e
dell’amorementalesitrovano
a coabitare l’una con l’altra.
Lafebbrilecantabilitàerotica
di Elvira e Consalvo risulta
frenata, quasi castigata, dalla
stilnovistica
stilizzazione
della «donna che non si
trova». I posti assegnati ai
nuoviarrivi“extravaganti”(Il
passero
e
Consalvo)
confermano la tecnica dello
scarto e dell’increspatura in
vigore già nell’ordinamento
del1831.Maperillettoredei
Cantidel1835questatecnica
risalta da tutte le piú
importanti sezioni aggiunte:
la voce dell’io che si è
gradualmenteaffievolitaentro
la sezione dei canti pisanorecanatesi risorge di colpo
potente nel ciclo di Aspasia,
persmorzarsinellesepolcrali,
epoiritorna,variatiiltimbro
e il tema, nella satira della
Palinodia, che rivitalizza il
sorriso di Aspasia (v. 112) e
ammicca (per altra via
rispettoadAmoreeMorte)al
Tristano, che risponde nelle
Operetteadanalogafunzione
ditestoepilogo.
I cinque Frammenti
rendono in ultimo giustizia
all’idillio
Lo
spavento
notturno (non accolto nel
1831), a un segmento con
varianti dell’Elegia II e del
giovanile
Appressamento
dellamorte (dai vv. 1-82 del
canto I), nonché a due libere
versioni in endacasillabi e
settenari da Semonide di
Amorgo, composte nel
1823-’24.4 Cosí il libro si
conclude con una rassegna
retrospettiva che arretra fino
al
lontano
1816
dell’Appressamento,
con
sintomatici
recuperi
di
salvataggio da esperienze e
stagioniormairemote,eppure
nondimeno
vive
nella
memoria dell’autore, nel
diagramma della sua storia
personale. Chiudere con le
versioni dal greco significa
ribadire la durata di quel
colloquio mai interrotto con
gli antichi, da cui il poeta
modernohatrattolalinfaela
forzadellapropriaoriginalità.
E si tratta di due splendide
versioni:5 la prima ha la
cadenza dolente e ferma del
pessimismoradicale,conechi
delCorodimorti;laseconda
esprime infine l’invito a
godere dei «presenti diletti»
(v. 23).6 L’opera termina –
nel 1835 e per sempre – con
la dilemmatica antitesi tra
filosofia
negativa
e
inappagatoedonismo.
Mancanogliestremiversi
del 1836 (Il tramonto della
luna e La ginestra, che
andranno a collocarsi di
séguito alla Palinodia),
nonché
le
correzioni
autografe apportate su un
esemplare della stampa
Starita, perché questi secondi
Canti abbiano l’imprimatur
definitivo (quello della
postuma edizione fiorentina
del1845,acuradiRanieri),il
sigillo ultimo della loro lenta
gestazione, stratificata nel
raggio di un ventennio, dal
1816al1836(standoalledate
dei pezzi inclusi). Opera
dunque in divenire, non solo
perl’incrementoneltempodi
componimenti nuovi ma
anche, volta per volta, per la
revisione dei componimenti
già editi: divenire del libro e
divenire dei singoli attori
dentro il libro. Ne deriva che
allacronologiacompositivasi
associa, per ogni canto, una
dinamica
cronologia
correttoria e che alla
intertestualità
genetica
(rapporti tra testi di genesi
coeva) si unisce una
intertestualità trasformativa
(rapporti tra le varianti
introdotte nel medesimo
periodo in testi diversi,
nonché tra queste e la prassi
scrittoria coeva).7 Da siffatta
laboriosissima officina è
sortitounlibroinsiemearduo
e trasparente, limpido ed
enigmatico, scritto da un
intenditore raro della gioia e
del piacere di vivere, un
viaggio intrepido e disperato
all’inseguimento
della
felicità: tanto piú cercata e
desiderata,
sognata
e
assaporatadachisacheèun
miraggio impossibile da
raggiungere.
1. L’idea del componimento risale
con probabilità al 1819 (cfr. l’appunto
«Passero solitario» negli Argomenti di
idilli,II,inTO,Ip.336),malastesura–
come reclama l’impianto metrico e
stilistico della “canzone libera” – deve
appartenere agli anni post-1828 (cfr.
almeno,tematicamente,Zib.4421-22,2
dicembre 1828). Controversa ogni
ulteriore precisazione: forse iniziato a
Recanati nella primavera 1829, ma
ultimato dopo l’aprile 1831 (per la sua
assenza nei primi Canti) ed entro il
settembre 1835. Sulla lungamente
dibattuta questione, vd. almeno, anche
perladoviziadirinviibibliografici,A.
MONTEVERDI, La data del ‘Passero
solitario’(1958,conPoscrittadel1965
e del 1966), in ID., Frammenti critici
leopardiani, cit., pp. 67-101: propone
Firenze, tarda primavera o estate 1831;
U. BOSCO, Sulla datazione di alcuni
canti leopardiani, nell’opera collettiva
Studi di varia umanità in onore di
Francesco Flora, Milano, Mondadori,
1963, pp. 618-23: propone Napoli, in
prossimità dell’edizione Starita; M.
CORTI, Passero solitario in Arcadia
(1966,conPoscrittadel1969),inEAD.,
Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli,
1969, 19772, pp. 193-207: propone
1819-’20, poi «solo la redazione
definitiva con l’attuale strutturazione
metrica» negli anni post-1828,
adducendo
«argomenti»
che
Monteverdi nella Poscritta del 1966
giudica non persuasivi; G. GETTO,
«D’insulavettadellatorreantica»,in
ID.,Saggileopardiani,cit.,pp.223-38:
proponeRecanati,«forsenell’intervallo
compreso fra il Sabato (fine di
settembre)el’iniziodellacomposizione
del Canto notturno (22 ottobre), che
avrebbe appunto, con la sua tanto
diversa ispirazione e tanto travagliata
gestazione,impeditoalpoetadiportare
a compimento l’idillio. […] Ma non è
neppure da escludersi che il poeta
avesse ritentato l’antico tema fin dalla
primavera del ’29 e se ne fosse poi
staccato prima di portarlo ad una
perfetta esecuzione, distratto dal
pensiero delle Ricordanze»; D. DE
ROBERTIS, La data dei ‘Canti’ (1968,
confuta la Corti nella Postilla I e nella
Postilla II del 1969 replica alla replica
di lei), nell’opera collettiva Leopardi e
l’Ottocento. Atti del II Convegno
internazionale di studi leopardiani
(Recanati, 1-4 ottobre 1967), Firenze,
Olschki, 1970, pp. 233-61: avvicina Il
passero a Il tramonto della luna; B.
BIRAL, Il passero solitario (1971), in
ID.,LaposizionestoriadiG.Leopardi,
cit.,pp.181-86:«Ilcanto[…]fuscritto,
in una prima stesura a Recanati nel
1829, […] ma non ritoccato e
perfezionato. Forse a Firenze l’ultima
strofa, dissonante dalle altre due,
acquistòquelsuotimbroluttuosoequel
finalefattodiparolechepaionocadere
cupamente nell’ombra»; D. DE
ROBERTIS, Una «contraffazione»
d’autore: il ‘Passero solitario’ (1976),
in ID., Leopardi. La poesia, cit., pp.
279-332: propone una data tarda,
prossimaal1835;M.MARTI,Leopardi,
due sepolcri e un passero, in ID., I
tempidell’ultimoLeopardi,cit.,pp.4769:identificaIlpasserosolitarioconil
«morceaudepoésiesuperbe»,dicuiDe
SinnerscriveaLeopardi,daParigi,il1o
giugno 1832 (Epist., VI p. 187), alla
quale «poésie» Giacomo lavorava
nell’ottobre1832(cfr.G.LeopardiaL.
DeSinner,Firenze,21giugno1832,in
TO,Ip.1385);proponeRecanati,prima
della partenza nell’aprile 1830, poi
stesura
compiuta
piú
tardi,
probabilmente
a
Napoli;
F.
GAVAZZENI, L’unità dei ‘Canti’:
varianti e strutture, premessa ai Canti,
a cura sua e di M.M. LOMBARDI,
Milano, Rizzoli, 1998, pp. 29-34:
indica, sulla base di ragioni sottili, «il
tempochesiestendedalConsalvoadA
sestesso».
2.Prezioso,inproposito,Zib.383742 (5 novembre 1823), sul tema dei
giovani inclini a rifuggire i piaceri e i
godimenti propri della loro età, nonché
sull’educazionealoropiúconveniente:
«Il giovane è in queste cose [nelle
privazionideigodimenti]cosícostante,
risoluto, forte, durevole, che gli
educatori e quelli che han cura di lui,
anche sommamente benevoli, assai
spesso e il piú delle volte stimano tali
risoluzioni e tali forme di vita essergli
naturali, nascere dalle sue inclinazioni,
esser conformi al suo vero carattere, e
peròdeterminanodinondistornelo,non
impedirnelo, di confermarvelo, di
secondarlo, e cosí fanno, anche talora
senz’alcun proprio interesse, per sola
premura ed affezione verso di lui. E
s’ingannanosommamente,eintalicasi
lalorpocacognizionedelcuoreumano
e de’ suoi mirabilissimi accidenti […]
nuoce grandemente a quei poveri
giovani, i quali ben potrebbero ancora,
ma non senza molta forza e molto
artifizio, essere strappati a quelle dure
risoluzioni, azioni e abitudini, e
riconciliati con se stessi e con la vita
[…]. Quindi e’ [questi poveri giovani]
vivono e muoiono disperati e infelici,
tanto piú quanto e’ credono felici gli
altri, e che la loro infelicità, il lor
soffrire,illoronongodere,oilnonaver
mai goduto e sempre sofferto, sia
provenutodaloro;laqualeopinioneeil
qual pentimento è la piú amara parte
chepossatrovarsiinqualunqueabituale
o attuale infelicità o sventura o
privazione
ec.
e
il
colmo
dell’infelicità». Si noti il finale
«pentimento»
come
«colmo
dell’infelicità»: «Ahi pentirommi, e
spesso»(v.58).
3. Il corsivo spaziato evidenzia i
componimenti ora inseriti per la prima
volta.
4.Sirammenticheal1823risaleil
Volgarizzamento della Satira sopra le
donnedellostessoSemonide,inclusoin
B26 e non piú riproposto (cfr. cap. XII
par.3).
5. «In nessuna traduzione, forse,
comeinquesta[DalgrecodiSimonide
e Dello stesso] trovò e lasciò
concordanza di ispirazione e lo stampo
suo; nessuna come questa riecheggiò
una nota della sua anima e della sua
tristezza; in nessuna, cercando modi e
parole,ascoltòprimadituttosestesso»
(LEOPARDI, Canti, ed. G. DE
ROBERTIS,cit.,p.372).
6. Si vedano le osservazioni di
D’INTINO,Introduzione,cit.,pp. LVIIILIX.
7.NellastampaStaritadel1835,per
esempio, in Ad Angelo Mai (v. 91)
NostrisognileggiadrisostituisceNostri
beati sogni, sull’onda non solo degli
studileggiadridiASilvia19).Ilcorso,
neiduecelebriversiinseritiinAllaluna
(vv. 13-14) con le varianti autografe
sull’esemplaredellastampaStarita,non
comparemaiprimadelCantonotturno
(v.15)maanchedeileggiadrierroridi
Ilpensierodominante(v.112);Ilsogno
(v. 33) muta cui la tomba estingue in
che sotterra è spenta, introducendo un
avverbio per la prima volta attestato (a
parte il «frammento» Dal greco di
Simonide)dalleduesepolcrali(epoida
La ginestra); Il sabato corregge a la
luce del vespro e de la luna con al
biancheggiar della recente luna, che
ricordailcontiguoEbiancheggiartrail
verde all’aria bruna dei Paralipomeni
(II 2 1); in Alla sua donna (v. 2)
m’insegni passa a m’inspiri, presente
due volte in Aspasia (vv. 50, 62); in Il
risorgimento(vv.115-16)nonladomò
ladura/tuaforza,overitàsitrasforma
in non con la vista impura / l’infausta
verità, che rilancia l’infausta vita di
Amore e Morte (v. (v. 20), poi ritorna
conIlpensierodominante(v.94),maè
presenza attiva nel periodo napoletano
(Sopra un basso rilievo, Palinodia, Il
tramontodellalunaeLaginestra).
XX
LASATIRAFUORI
DEICANTI
1.LALINEASATIRICAEINUOVI
CREDENTI
«Terribile ed awful è la
potenza del riso; chi ha il
coraggio di ridere, è padrone
degli altri, come chi ha il
coraggiodimorire».1Lavena
satirica ha una storia
movimentata nell’opera di
Leopardi, come controcanto
del
versante
lirico,
contrappunto inquieto e
mordente, piú privato e
segreto ma non occasionale.
Immagazzina umori pugnaci,
aspra
contestazione
ideologica, ma anche muove
dal proposito di rinnovare la
«ComicaItaliana»,bisognosa
soprattutto di un’efficace
terapia espressiva, di una
«lingua al tempo stesso
popolare
e
pura
e
conveniente».2 Le «armi del
ridicolo» sono sempre tenute
a portata di mano, da
valersene come strumento
conoscitivo, mezzo polemico
o liberatorio, «massime in
questo
ridicolissimo
e
freddissimo tempo».3 Dalle
«prosette
satiriche»
(1820-’22) alle Operette del
1824 il passo è piú lungo di
quanto la cronologia del
calendario
non
lasci
sospettare. Quella satira
sdegnosa, rovescio comicocaricaturale delle solenni
canzoni, scaricata la molla
dell’impegno
storico
e
sociale, si depura nella
saggezza delle Operette,
nell’ironia del disincanto.
Anche
quest’ironica
leggerezza può risentirsi e
sulla pagina allora scattano
striature satiriche, non piú
contro la corruzione dei
costumi, bensí contro la
superbia
dell’antropocentrismo e della
pretesa perfettibilità umana.
La «potenza del riso» non
aggredisce i comportamenti
deviatimalefalseideologie.
La
successiva
e
fondamentalefasedellasatira
leopardiana coincide, dopo il
1830, con il secondo
“risorgimento”,
quello
fiorentinonapoletano. Ora,
con il definitivo addio a
Recanati, il poeta supera
quella morale dell’astensione
maturata con le Operette,
quindi sublimata nel primo
“risorgimento” del 1828-’30,
e celebra con il ciclo di
Aspasia un’idea di «amore»
che congiunge passione e
coscienzacivile.Esceotenta
di uscire dalla sua isolata
riservatezza, come mostra il
Preambolo a «Lo Spettatore
Fiorentino», e attacca nel
Tristano l’euforia ottimistica
delle«opinioni»correnti(par.
21).Sentedidoversimisurare
conlaculturacontemporanea
e oppone il proprio
pessimismo
materialistico
alla fiducia progressista
dell’«Antologia», come allo
spiritualismo cattolico dei
«nuovi credenti» napoletani.
La coscienza dello scontro
senza
possibilità
di
mediazione suggerisce il
ricorso alle «armi del
ridicolo», che ritornano nel
Tristano, nei Pensieri, nella
Palinodia, nei Paralipomeni
dellaBatracomiomachia.
A
confronto
della
«potenza del riso» nella
Palinodia,lapitturagrottesca
dello zelo spiritualistico e
religioso degli intellettuali
partenopei, nel capitolo in
terza rima I nuovi credenti
(1835-’36)dedicatoall’amico
Ranieri, ha sprezzatura piú
acre,
nonché
piú
personalizzata – come vuole
ilcanonedelgenerebernesco
–, e perciò il componimento
non è entrato nei Canti.4
Obiettivo polemico diretto è
in particolare la cerchia dei
collaboratori e sostenitori del
periodico «Il Progresso»,
editoaNapolidal1832–per
iniziativa
di
Giuseppe
Ricciardi – e attivo fino al
1846. Vi occupava un ruolo
preminente
lo
scrittore
Saverio Baldacchini, che
«aveva le carte in regola per
impersonare
posizioni
d’equilibrio»,5
ma
che
nondimeno concludeva un
suosaggiodel1835,Delfine
immediato d’ogni poesia,
annoverando tra i «Grandi»
Manzoni, ma non Leopardi,
indirettamente
apostrofato
con perifrasi maligna: «Tra’
quali molto volentieri pongo
ilManzoni;manontaluniche
l’Alfieri
chiamerebbe
“Disinventori o inventor del
nulla”, che né poeti, né
versificatori sono, comunque
gridino forte; ma spero che i
buonigriderannoinfineanche
piú forte di loro».6 Il che
rende conto della pervicace
avversione degli ambienti
ufficiali napoletani verso
l’autore dei Canti e delle
Operette, non per nulla
costretto al silenzio dal veto
editoriale della censura
borbonica. Non stupisce
allora la replica adirata del
poeta che rileva, in apertura
del
componimento,
il
discredito delle sue idee in
ogni strada e sobborgo della
città(vv.11-18):
[…]einbreveaccesa
d’unconcordevolertuttainmio
danno
s’armaNapoliagaraalla
difesa
de’maccheronisuoi;ch’ai
maccheroni
antepostoilmorir,troppole
pesa.
Ecomprendernonsa,quando
sonbuoni,
comepervirtúlornonsien
felici
borghi,terre,provinciee
nazioni.
Poi gli strali s’indirizzano
verso
tipi
concreti,
allusivamentecaratterizzati:il
«valoroso» Elpidio (secondo
etimologia ‘l’uomo della
speranza’, forse lo stesso
Saverio Baldacchini), dal
«fiato» (v. 32) maleodorante,
che arde di «pietà» (v. 43)
religiosa
soltanto
per
conformismo; il giovane
Galerio
(‘il
sereno’,
l’ottimista, forse Emidio
Cappelli
o
Raffaele
Liberatore), dal muso di
capra,impotenteeambizioso;
e «un altro» (v. 66) che,
minato dalla sifilide, grida
tossendo: «Bella Italia, bel
mondo, età felice, / dolce
stato mortal!» (vv. 66-65). A
differenza della Palinodia, il
poeta ora non argomenta e
non s’indigna con questi
avversari, «credenti» anche
peropportunismoinossequio
alla moda, quanto soprattutto
meschiniedissoluti.Silimita
adisprezzarli(vv.76-78):
Racquetatevi,amici.Avoinon
tocca
delleumanemiseriealcuna
parte,
chemiseranonèlagente
sciocca.
Solo di scorcio, dalle linee
taglientidiritrattisfiguratida
una fantasia deformante,
affiorailnessotrainfelicitàe
virtú di «alme ben nate» (v.
92),
quindi
prendono
consistenza, su uno sfondo
partenopeo
di
ilare
sconsideratezza, l’antitetica
identità di un «io» che «il
vivere» chiama «arido e
tristo»(v.72),lasolitudinedi
un «cor» che non vuole
rinunciarealsognodiqualche
«gentilcosa»(v.98).
2.PARALIPOMENIDELLA
BATRACOMIOMACHIA
I differenti motivi satirici
degli ultimi anni, tra Firenze
e
Napoli,
convergono
nell’epicentro basilare dei
Paralipomeni
della
Batracomiomachia, composti
tra il 1831 e il 1837,7 editi
postumi a Parigi nel 1842,
presso Baudry, a cura di
Ranieri. Il poemetto (otto
canti per complessive 375
ottave) si presenta come
continuazione
(“paralipomeni”, cioè ‘cose
omesse’,dunque‘appendice’)
dellafavolapseudomericatre
volte tradotta da Leopardi ed
è
opera
assolutamente
originale, che trova una base
documentarianella Storiadel
Reame di Napoli di Pietro
Colletta(editanel1834mada
Giacomo
conosciuta
manoscritta) e un precedente
letterario negli Animali
parlanti di Giambattista
Casti.
La
scelta
di
protagonisti zoomorfi – tratti
da un bestiario non nobile,
ma infimo e degradato –
rende evidente la prospettiva
antieroica
dell’allegoria
politica, sottesa alla finzione
animalescaeriferitaalquadro
dell’Italia e dell’Europa
durantelaRestaurazione,con
riferimento ai moti del
1820-’21 e del 1831: i topi
(guidati
dal
valoroso
Rubatocchi, hanno eletto
come ambasciatore il conte
Leccafondi) alludono ai
liberali,leraneailegittimisti,
i granchi agli Austriaci (il
loro re è Senzacapo, un
despotasuperbo,eilgenerale
è Brancaforte). Il dileggio
colpisceduramenteigranchi,
efferati e ottusi («orrendo /
esercito di bruti ingordi e
strani», I135-6).Chihaloro
affidato il privilegio di
presiedere
all’universale
equilibrio politico, vigili e
pronti a punire chi si sia
azzardato a espandersi?,
domanda il conte Leccafondi
(II363-8):
maqualnumeordinòche
presedesse
all’equilibriogeneralde’mondi
lanazionde’granchie
ch’attendesse
aguardarsepiúlarghiosepiú
tondi
fosserchenondoveantopio
ranocchi
pertrarloroolepolpeoilnaso
ogliocchi?
Larispostavienedalgenerale
Brancaforte (ivi, 37 1-2):
«Noi, disse il General, siam
birri appunto / d’Europa e
boiaeprofessiamquest’arte».
Ma è risposta tautologica,
onde Leccafondi insiste (ivi,
39,1-6):
Chitalcarcovidiè?richieseil
conte:
Lacrosta,disse,dichesiam
vestiti,
el’essersenzanécervelné
fronte,
sicuri,invariabili,impietriti
quantoilcoralloedilcristaldi
monte
perdurezzafamosiintuttiiliti.
L’effetto comico scaturisce
dall’inconsapevole
autocaricaturadiBrancaforte,
tanto sicuro di sé da non
avvedersi
della
carica
derisoria e deformante del
proprioautoritratto.
Lapolemicasirivolgepiú
blanda verso i topi, generosi
nel loro patriottismo, quanto
velleitari,
astrattamente
verbosi
e
inclini
al
compromesso.
Tutt’altro,
dunque,
che
satira
antiliberale, bensí tempestiva
diagnosi dei limiti storici del
nostroRisorgimento.
Ma il dissenso profondo
trascende (ancora una volta)
il piano politico e si misura
sul
piano
filosoficoconoscitivo.
Il
gusto
umoristicamente digressivo
del racconto, lo scatto
inventivo,
la
comicità
fantasiosa,
l’estro
ammiccante, l’epos beffardo,
l’ironia livida e scarna, la
secchezza caricaturale, il
sarcasmo del «mal pensante»
(V 24 3) cooperano
all’irrisione asciutta e tragica
degli idoli contemporanei:
l’antropocentrismo,8
la
fiducia in un irreversibile
progresso, lo spiritualismo
cristiano,
come
nella
grandiosa e dissacrante
figurazione
parodica
dell’Avernotopesco,neicanti
VII-VIII, dove «il brivido
metafisico del Coro di morti
del Ruysch riaffiora fra il
sinistroeilgrottesco».9
Al dettato figurativo,
allusivo,
indiretto
del
racconto, si alterna la parola
esplicita e diretta del
narratore, che ribadisce i
cardini
della
propria
argomentazione concettuale,
come in IV 14-16, dove sono
poste a contrasto la
«filosofia» dominante nel
«secolnostro»ela«filosofia»
illuministica:
Nonèfilosofiasenonun’arte
laqualdiciòchel’uomoè
risoluto
dicredercircaaqualsivoglia
parte,
comemeglioallafinl’è
conceduto,
leragioniassegnandoempiele
carte
oleorecchietalorper
instituto,10
conpiúd’ingegnoomen,giusta
ilpotere11
cheilmaestrool’autorsitrova
avere.
Quellafilosofiadicoche
impera
nelsecolnostrosenzaguerra
alcuna,
echeconguerrapiúomen
leggera
ebbeneglialtrinonminor
fortuna,
fuornelprossimoaquesto,12
oveseintera
lamiamenteosodir,portò
ciascuna
facoltànostraaquellecimeil
passo
ondetostoinchinarl’èforzaal
basso.
Inquell’età,d’un’aspra
guerrainonta,13
altrafilosofiaregnarfuvista,
acuidinanzivalorosaepronta
l’etànostraarretrossiappena
avvista
diciòchepiúlespiaceeche
piúmonta,
esserquellainsostanzaamarae
trista;
noncheiprincipiiinleinéle
premesse
mostrarfalsedasébenben
sapesse.14
Davvero
comoda
una
«filosofia» che innalza a
sistema teorico ciò che fa
piacerecredere,quantoardua
e dolorosa l’«altra filosofia»,
che toglie la quiete e
comunicaunaverità«amarae
trista».Diquipromana,senza
indulgenza, il tono corrosivo
e
anche
acre
dei
Paralipomeni. La diagnosi
non prescrive ricette curative
e le «armi del ridicolo»
confermano
nel
«mal
pensante» la coscienza della
propriaemarginazione.Mala
verve comica e il liberatorio
«coraggiodiridere»nonsolo
tonificanoladisperazione,ma
ne
rivelano
anche
l’irriducibile
vitalità,
l’«entusiasmo» teoretico che
«ravviva»il«cuore».15
1.Zib.4391(23settembre1828).
2.Disegniletterari,III3(1819?),in
TO,Ip.368.
3.Zib.1393(27luglio1821).
4. Ranieri afferma di non avere
incluso I nuovi credenti nei Canti del
1845 per volontà dell’autore. Cfr. A.
Ranieri a L. De Sinner, Napoli, 11
agosto 1877 (ma 1844), in PIERGILI,
Nuovidocumentiintornoallavitaeagli
scritti di G. Leopardi, cit., p. 282: «mi
sono ardito di toglier di mezzo una
satiretta,
dove
erano
offesi
personalmente e terribilmente tre
viventi; e questo ho fatto dopo averne
ottenuto il permesso dell’autore, e per
una ragione troppo urgente, qual’era
un’offesapersonale».
5.M.MARTI,LeopardiaNapoli,in
ID.,Itempidell’ultimoLeopardi,cit.,p.
128.
6. S. BALDACCHINI, Del fine
immediato d’ogni poesia, in ID.,
Purismo e Romanticismo, a cura di E.
CIONE, Bari, Laterza, 1936, p. 57, cit.
ibid.
7. Si ritiene che l’opera sia stata
iniziataaFirenzenel1831,perchéinI4
si cita come avvenuta «dianzi» (v. 1),
ossia‘dapoco’,lasconfittadeiBelgia
Lovanio, da parte degli Olandesi, in
data12agosto1831.
8. Argutamente bersagliato nel
conte Leccafondi, facendo leva
sull’orgogliotopescodelpersonaggio(I
411-8):«Fudisuaspecieilconteassai
pensoso,/filosofomorale,efilotopo;/
enaturalodòcheilsuofamoso/poter
mostri quaggiú formando il topo; / di
cuil’opre,l’ingegnoeilglorioso/stato
ammirava; e predicea che dopo / non
molto lunga età, saria matura / l’alta
sortechealuidavanatura».
9.RIGONI,Commentoenote,cit.,p.
1007.
10. la qual … instituto: la quale,
escogitando le giustificazioni (le
ragioniassegnando), come meglio alla
fine le è consentito, di ciò che l’uomo
hadecisodicredereintornoaqualsiasi
argomento, talora per professione (per
instituto) riempie i libri o le orecchie
(degliallievi).
11.giustailpotere:inrapportoalle
capacità.
12. fuor… a questo: fuorché nel
secoloprecedente.
13. d’un’aspra … onta: malgrado
unaviolentaopposizione.
14. non che … sapesse: non già
perché(l’etànostra)riuscisseconlesue
forze (da sé ben ben sapesse) a
confutare i princípi e le premesse di
quellafilosofia(inlei).
15.Zib.260(4ottobre1820).
XXI
DALLOZIBALDONE
AIPENSIERI
1.LOSPETTACOLODEL
«MONDO»
I centoundici Pensieri
(editipostuminelleOperedel
1845 a cura di Ranieri) sono
probabilmente redatti tra il
1832, quando tace per
sempre,il4dicembre,lavoce
dello Zibaldone, e il 1836,
quando Leopardi parla a De
Sinner di «un libro del tutto
inedito»1 da pubblicare a
Parigi, dopo il veto della
censura partenopea alla
stampa Starita. Il progetto
non va in porto, ma che il
«libro» annunciato sia quello
dei Pensieri è confermato da
altra lettera, sempre a De
Sinner, di poco successiva:
«Je veux publier un volume
inédit de Pensées sur les
caractèresdeshommesetsur
leur conduite dans la
Société».2
Materia, dunque, etica e
sociale, sui caratteri, sui
costumi, sui comportamenti
umaninellavitadirelazione:
un tema di antico interesse,
discusso nelle «prosette
satiriche» (1820-’22), in
moltiappuntidelloZibaldone
(come mostra anche l’Indice
d’autore del 1827), nel
Discorso sopra lo stato
presente
dei
costumi
degl’Italiani (1824), nonché
registrato piú volte nei
Disegni letterari (XI-XII,
1828-’29). La novità dei
Pensieri–compiutieallestiti
per la stampa, diversamente
datuttiitestisopraricordati–
sta nel fatto che la materia è
ora trattata nella concisa
asciuttezza
di
aforismi
taglienti. Ma l’innovazione
non sta soltanto nel levigato
nitore dello stile, che è il
segno di una mutata lucidità
diagnostica.
La ricerca dell’utile
individuale, l’orgoglio e il
profitto, l’alterigia e la
mercificazionedituttiivalori
ideali, la frode e la
vanagloria,
l’incultura
oppressiva e l’«infame
accanimento»
contro
i
«virtuosi» (XVI): tale lo
spettacolo
che
l’io
osservatore
vede
rappresentato sulla scena del
«mondo», popolata da nuovi
eroi, ma «eroi vili», da
«uomini dediti a far danari»
(VII), devoti alla «roba»
(XCIV) e alla legge arrogante
della
forza.
Nella
«commedia»dellavita(XXIII),
un motivo ossessivamente
ricorrenteèlafinzione:verso
glialtricomedissimulazione,
per cui anche ogni piú
spontanea profferta d’aiuto
non è da considerarsi altro
che «un purissimo suono di
sillabe» (LII); verso se stessi
come autoinganno, tanto che
ciascuno considera vere
quelle credenze che gli sono
necessarie «alla tranquillità
dell’animo»
(LIV).
Il
meccanismo della finzione
produce la «discordia tra i
dettieifatti»,lascissionetra
le cose e i loro nomi («il
mondoparlacostantementein
una maniera, ed opera
costantemente in un’altra»,
XXIII),traildoppiogiocodelle
parole che accreditano come
attualivalorieticiscomparsie
la realtà dei fatti che di quei
valori è la smentita
quotidiana. Di qui il comune
dispiego
di
energie
nell’ostinazione dell’«odio
intenso di ciascuno contro
ciascuno»(XCIV), nella «lotta
di ciascuno contro tutti, e di
tutti contro ciascuno» (C); di
qui la cecità collettiva di
fronte a «mali» inevitabili:
«Gli uomini sono miseri per
necessità,erisolutidicredersi
miseriperaccidente»(XXXI).
In siffatta fenomenologia
della
violenza
e
dell’impostura, dell’etica e
della semantica capovolte,
nonsiassolutizza,irrigiditoe
astorico, il giudizio sulla
società da parte dell’autore
dei Pensieri. Questi aforismi
non
trasmettono
l’acre
concetrato di una metafisica
dei costumi, bensí esprimono
unavalutazionestorica.Sono
lontaniitempidelle«prosette
satiriche», della loro ira e
dellaloropedagogiafiduciosa
in un arduo eppure non
impossibile
rinnovamento
morale. Con la mutata idea
della natura – dalle Operette
ai canti pisano-recanatesi –,
all’odio contro l’umana
malvagità è subentrato,
sappiamo, un senso di
comprensiva
commiserazione:
La mia filosofia, non solo non è
conducente alla misantropia, come può
parereachilaguardasuperficialmente,
e come molti l’accusano; ma di sua
natura esclude la misantropia […]. La
mia filosofia fa rea d’ogni cosa la
natura, e discolpando gli uomini
totalmente,rivolgel’odio,osenonaltro
il lamento, a principio piú alto,
all’origineverade’malide’viventi.3
L’occhio si è spostato
dall’individuo-cittadino
all’individuo-uomo,
alla
pianta-uomo come vivente e
mortale. Ma dopo il 1830,
con il secondo soggiorno
fiorentino e poi il periodo
napoletano, il poeta si
confronta con le istituzioni
della cultura e della politica
contemporanee.
La
meditazione su se stesso e
sulla pianta-uomo torna a
intrecciarsi con la riflessione
sui propri rapporti con gli
altri e sull’individuo come
cittadino, come «animale»
sociale: da Il pensiero
dominante al Tristano, dalla
Palinodia a I nuovi credenti,
ai Paralipomeni, a La
ginestra.
I
Pensieri
appartengono
a
questa
famiglia e sono la risposta
all’utilitarismo
e
all’ottimismo
riformistico
propugnati dai fautori della
modernità. Dimenticata da
tempo
la
giovanile
misantropia,
ora
però
vengono meno anche il
disinteresse e la benevola
indulgenza nei riguardi
dell’agire sociale. Non piú
ira, come una volta, ma
sdegno, non invettiva ma
denuncia. Alla pietas per
l’inevitabile infelicità della
sorte comune, non si
accompagna la remissione
dellecolpeumane.I Pensieri
presuppongono il passo dello
Zibaldonesoprariportato,ma
anche presuppongono la
smentitadiunincisochepure
èdecisivoinquelmemorabile
brano: «discolpando gli
uominitotalmente».Allareità
della
natura
non
si
contrapponel’innocenzadelle
sue vittime, bensí si
assommano i loro misfatti.
Vittime
colpevoli.
Le
responsabilitàchespettano«a
principiopiúalto»,allanatura
come «madre di parto e di
volermatrigna»(Laginestra,
v.
125),
non
deresponsabilizzano i «figli»
enonservonodaalibi.
Tra la diagnosi dei
Pensieri e il solidarismo
invocato con La ginestra, in
quanto fratellanza di tutta
l’«umana compagnia» (v.
129), non c’è contraddizione,
nella logica paradossale del
contrappunto tra pessimismo
e illusione. Anzi i Pensieri
aiutano
a
meglio
comprendere non soltanto il
fondo
disperato
di
quell’appello solidaristico, in
vistadiuna«guerra»(v.135)
che schiera in campo forze
troppodiseguali,maanchela
genesi
critica,
antisentimentale
e
anticonsolatoria, di quella
consociazione ispirata da
«vero amor» (v. 132). Un
sentimento, questo, evocato
come un fantasma; con forte
tensione tragica, con austera
non-rassegnazionedapartedi
un poeta che nella impietosa
fermezza testimoniale dei
suoi aforismi si è dimostrato
benespertodellaevanescente
rarità del «vero amor», ben
intendentedel«mondo»come
«lega di birbanti contro gli
uomini da bene, e di vili
controigenerosi»(I).
2.UNCASOSINTOMATICODI
RISCRITTURA
I Pensieri derivano in
buona parte dallo Zibaldone.
Perciò alcuni interpreti vi
hanno lamentato l’assenza
dell’aspetto “creativo” e
hanno parlato di stanco
repêchage,
lasciando
intenderechelaraccoltanulla
o poco di nuovo avrebbe da
dire in senso stilistico e
concettuale.Anzi,addirittura,
il tardo recupero di appunti
scritti molti anni prima,
estrapolati come rami secchi
dalmagmainfermentodiuna
pulsante diacronia diaristica,
avrebbe conseguito l’effetto
dell’appiattimentosincronico.
Le cose non stanno cosí.
Bastino due soli esempi.4 Si
vedailpensieroXXVIII:
Ilgenereumanoe,dalsoloindividuoin
fuori, qualunque minima porzione di
esso,sidivideindueparti:gliuniusano
prepotenza, e gli altri la soffrono. Né
legge né forza alcuna, né progresso di
filosofia né di civiltà potendo impedire
che uomo nato o da nascere non sia o
degliuniodeglialtri,restachechipuò
eleggere, elegga. Vero è che non tutti
possono,nésempre.
Lo spunto si trova in Zib.
1721(17settembre1821):
Non si vive al mondo che di
prepotenza. Se tu non vuoi o non sai
adoperarla,glialtril’adoprerannosudi
te. Siate dunque prepotenti. Cosí dico
dell’impostura.
Dallo stesso tema della
«prepotenza»,
pianta
sempreverde nel paesaggio
del «mondo», discendono
deduzioni diverse. Sul piano
esternamente enunciativo, il
primoperiododelpassotratto
dalloZibaldoneeilprimodel
pensiero coincidono: o si
esercita la prepotenza o la si
subisce. Ne deriva nel 1821,
di fronte allo sconforto di
questa affermazione, una
sorta di polemica rivincita in
positivo («Siate dunque
prepotenti»): segno che
quellosconfortononnasceda
una sistematica riflessione
critica sulla debolezza e
precarietà
dell’umana
condizione; esso anzi può
consentire d’intravedere, se
nonunospiragliodisalvezza,
almeno
una
terapia
liberatoria, tanto da tradursi
inunconsigliopratico,inuna
regola
attiva
di
comportamento.
Anche nei Pensieri, in
altri casi, dinanzi alla
nefandezza del costume
sociale si reagisce con
consigli aggressivi. Non qui,
perché la «prepotenza» è un
dono, un’arte che non si
apprende, o appresa non si
può sempre manifestare. Una
labile spia è già nello
Zibaldone(«Setunonvuoio
non sai adoperarla»), ma lí
rimane premessa senza
sviluppo.
Invece
nell’aforisma, a rincalzo del
primo
periodo,
segue
l’appassionata quanto ferma
smentita di ogni pretesa idea
di progresso, allo scopo di
ratificare, senza possibilità di
dubbio, l’enunciato iniziale.
Poi, in luogo dell’antico
consiglio, non piú che una
disillusaconstatazione(«resta
che chi può eleggere,
elegga»), ma con la
fondamentaleconsapevolezza
che la scelta non è libera e
dipende dalle persone, dalle
circostanze,daitempi.Nonsi
trattapiúsoltantodi“volere”
o “sapere”, ma di “potere”
adoperare la «prepotenza».
Cosí il «mondo» non si
configura piú soltanto abitato
da prepotenti e da oppressi,
bensí anche da una nuova
categoria,
quella
degli
oppressori
potenziali
e
impotenti, che subiscono
perché impossibilitati a
opprimere.VieneinmenteLa
Rochefoucauld,
Maximes,
237: «Nul ne mérite d’être
loué de bonté, s’il n’a pas la
force
d’être
méchant»
(‘Nessuno merita di essere
lodato per la sua bontà, se
non ha la forza di essere
cattivo’). Non è questione di
sceltamadipossibilità,valea
dire di forza. Ai vari
meccanismi della violenza
sociale, studiati da Leopardi,
si aggiunge qui un ulteriore
ingranaggio,
sottilmente
perverso, non contemplato
nelpassodelloZibaldone.
SileggailpensieroLXVI:
Nel secolo presente i neri sono creduti
di razza e di origine totalmente diversi
da’ bianchi, e nondimeno totalmente
uguali a questi in quanto è a diritti
umani. Nel secolo decimosesto i neri,
credutiavereunaradicecoibianchi,ed
essereunastessafamiglia,fusostenuto,
massimamente da’ teologi spagnuoli,
che in quanto a diritti, fossero per
natura, e per volontà divina, di gran
lunga inferiori a noi. E nell’uno e
nell’altro secolo i neri furono e sono
venduti e comperati, e fatti lavorare in
catene sotto la sferza. Tale è l’etica; e
tanto le credenze in materia di morale
hannochefarecolleazioni.
Si confronti con Zib. 4300
(Pisa,14gennaio1828):
Cosa curiosa, e notabile per chi vuol
conoscere la storia, e dalla storia
inferire il valore delle opinioni degli
uominiintornoaidirittieaidoveri,siè
che ne’ secoli passati i negri erano
creduti d’una origine e quindi d’una
famiglia stessa co’ bianchi, e pur quei
medesimi che li tenevano per tali,
sostenevano la ineguaglianza naturale
di diritti tra i bianchi e loro, la
inferioritàdeinegri,elagiustiziadella
loro servitú, anzi schiavitú ed
oppressione: oggi i negri sono
conosciutidiorigine,eperòdifamiglia,
onninamente diversa dai bianchi, e
quellicheglihannopertali,sostengono
la loro uguaglianza sociale rispetto a
noi,elaparitàde’lorodiritti,elatotale
ingiustizia del farli schiavi, o
maltrattarli, o dominarli, e l’assurdità
dell’opinioneanticaintalproposito.
La distanza del pensiero
dall’equivalente luogo dello
Zibaldone è notevole, per
impianto retorico-formale e
concettuale.Nelparagrafodel
diario, dove si tratta di
«storia» («per chi vuol
conoscere
la
storia»),
l’esemplificazione procede
dai
«secoli
passati»
all’«oggi»erilevaunapalese
contraddizionetraetnologiae
morale.Nelpensierol’ordine
cronologicoèribaltatoesiva
all’indietro, dal «secolo
presente»
al
«secolo
decimosesto»: l’inversione
serve ad anticipare in primo
piano il presunto progresso
umanitario del presente –
l’«Aureo
secolo»
dell’«Universale
amore»
derisonellaPalinodia,vv.38
sgg.–,alloscopodidarepiú
risaltoallasmentitaintrodotta
nei due periodi conclusivi,
nuovirispettoalloZibaldone.
Si badi, nel penultimo
periodo,alrichiamochiastico
che le due forme verbali
«furono e sono» istituiscono
con il «secolo presente» e il
«secolo decimosesto», a
confermare
la
studiata
struttura del pensiero che
punta
all’evidenza
sconcertante di quel «sono».
Ora non è piú soltanto
questione di «storia» e di
relatività nella storia delle
credenze morali («il valore
delle opinioni degli uomini
intornoaidirittieaidoveri»:
motivogiàconsideratoinZib.
452, 22 dicembre 1820), ma
di conflitto tra «etica» e
«azioni»,
quindi
di
subordinazione della morale
all’utile, con i corollari della
violenza e del sopruso
istituzionalizzati.
Il
sistema
delle
derivazionidallo Zibaldone–
scelta e riscrittura – parla
chiaro. Indica una volontà di
originale rielaborazione che
meglio definisce la specifica
fisionomiadeiPensieri,come
operadaiconnotaticoerentie
nuovi,
anzitutto
intesa
all’indagine
spregiudicata
della «società», all’analisi
dell’individuo e dei suoi
rapporti con i propri simili,
giustoiltitoloprogrammatico
trasmesso il 2 marzo 1837 a
De Sinner: «Pensées sur les
caractèresdeshommesetsur
leur conduite dans la
Société».
Ogni selezione ubbidisce
a un orientamento di scelta e
dall’immenso serbatoio dello
Zibaldone possono defluire
innumerevoli fiumi. Non
soltanto
la
scelta
è
autonomamente
orientata,
quindi viva, ma è anche
attentamentecalibratanelsuo
disegno interno: coerente e
storicizzata, funzionale al
nuovo sistema ideologicoespressivo
dell’ultimo
Leopardi.
Un
caso
sintomatico di riscrittura,
tenuta sul registro di una
prosa tornita con effetti di
impersonalelucentezza:senza
iltumultoeglisfoghieanche
la vibrata gesticolazione
fantastica di talune celebrate
pagine dello Zibaldone. In
forme traslucide e disadorne,
che hanno reso invisibili i
segni del cesello, si distilla
uno stile di epigrafica,
cristallinadensità.
1. G. Leopardi a L. De Sinner,
Napoli, 22 dicembre 1836, in TO, I p.
1415.
2. G. Leopardi a L. De Sinner,
Napoli,2marzo1837,ivi,p.1416.
3.Zib.4428(2gennaio1829).
4. Per altri esempi, rinvio al mio
studioGli aforismi leopardiani (1994),
inTELLINI, L’arte della prosa. Alfieri,
Leopardi, Tommaseo e altri, cit., pp.
155-83. Sull’argomento, cfr. anche F.
MECATTI, «Per isvagamento del
lettore». Firenze e Napoli nei
‘Pensieri’, in «La Rassegna della
letteratura italiana», s. IX 1999, 1 pp.
274-301.
XXII
LAPROSA
EPISTOLARE
1.AUTOCONTROLLOE
CONFESSIONE
In un secolo come
l’Ottocento che esibisce
epistolografi
d’eccezione
(Foscolo, ma pure Manzoni,
poi Tommaseo e Nievo e
Carducci), a Leopardi spetta
con unanime consenso un
posto d’onore. Anche nella
sua scrittura epistolare, come
avvieneinFoscolo(nonperò
nel
razionalista
e
antiautobiografico e sliricato
Manzoni), parla la voce del
«cuore». Ma è un «cuore»
diverso da quello foscoliano:
ha accezione sensistica e
materialistica,nonromantico-
sentimentale.Nonèeffusione
odeliriodellepassioni,bensí
facoltà immaginativa, lucido
sogno a occhi aperti. Questo
«cuore», nutrito di forte
componente
intellettuale,
aiuta a intendere perché
Leopardi non sia un poeta
d’amore,maungrandepoeta
del disincanto amoroso: il
controllo
della
ragione
presiede costantemente ai
«moti del cor profondo» (Il
risorgimento, v. 6). La piú
intensa poesia d’amore dei
Canti s’intitola non per nulla
Il pensiero dominante e la
parola «amore» non vi è mai
nominata, soltanto due volte
la parola «core», di scorcio e
mai
riferita
all’io
protagonista:amore,appunto,
come
«pensiero»
che
padroneggia la «profonda
mente». Non solo Leopardi è
il poeta dell’amore non
goduto,
patito
come
disinganno,maancheilpoeta
delle illusioni vagheggiate e
sofferte nel momento della
smentita,
quando
ne
rimpiange la scomparsa o ne
avverte
la
reale
impraticabilità.
Questa consapevolezza
del
vero,
apertamente
conclamata
o
lasciata
implicita, frena gli stimoli
dell’espansività,
della
curiosità per gli accadimenti
pubblici, della socievolezza
mondana,delladimestichezza
affettiva. Ne deriva allo
statutoepistolarediLeopardi,
rispetto a quello di Foscolo,
una molto piú esile
disponibilità comunicativa e
diconseguenzaunamoltopiú
accentuata selezione nella
scelta degli interlocutori,
un’angolatura gelosamente
autoprotettiva. I fatti della
storianonentranoinscena,si
svolgono in lontananza,
distanti da queste pagine.
Onde il tono di pensosa stasi
contemplativaeautoanalitica,
anche di calibrato riserbo
confidenziale, che sono il
riflesso di una vita vissuta in
disparte,senzascosseesterne,
senza sobbalzi di eventi
memorabili:«Mavieestplus
uniforme que le mouvement
des astres».1 Il piacere del
dialogononsisocializza,non
si esterna come in Foscolo
nello scrivere lettere, ma si
consuma in solitudine, nel
solitario,
tortuoso
e
fermentante soliloquio dello
Zibaldone.
Lo stile della missiva
leopardiana
è
dunque
antinomico e conflittuale: la
disciplina dell’autocontrollo
tiene a bada gli impeti della
confessione,
i
lampeggiamenti
di
un’interiorità disperata, di un
insaziato bisogno d’affetto.
Di qui l’antiesornatività di
questa scrittura, spesso
spoglia e severa. I gradi
dell’intreccio
tra
autocontrollo e confessione,
tra volontà di dire e volontà
di tacere, variano con il
variare dei corrispondenti.
Nel carteggio con il padre,
che nell’intero epistolario
occupalazonapiúcospicuae
piú avvelenata, il conflitto
esistenziale
del
figlio
comporta,s’èvisto,ilricorso
agli accorgimenti difensivi
della reticenza e della
dissimulazione. Nelle lettere
alfratelloCarlooaPaolinail
freno si allenta verso il
disvelamento di sé, con una
schiettezza cordiale, ora
ridente e giocosa, ora tenuta
sul filo di una commozione
che
comunica
segrete
risonanze
etiche
e
sentimentali. Accade in due
mirabili missive a Carlo,
quellacelebredel20febbraio
1823, da Roma, per
descrivergli il «piacere delle
lagrime»2 dinanzi all’umile
sepolcro del Tasso; e l’altra
del 30 maggio 1826, da
Bologna, per confidargli
l’amore (sogno momentaneo
e malamente svanito) per la
nonnominatacontessaTeresa
Carniani Malvezzi, «donna
[…] di una grazia e di uno
spirito»
che
creano
«un’illusione maravigliosa»,
creatura salvifica, che pare
sopraggiunta da remote
lontananze come un angelo
celestecheridonalavita(«ha
risuscitatoilmiocuore,dopo
un sonno anzi una morte
completa, durata per tanti
anni»).3 E proprio a Carlo
grida da Roma, come
invocazione e supplica:
«Amami, per Dio. Ho
bisogno d’amore, amore,
amore, fuoco, entusiasmo,
vita».4 Accade anche, per
esempio,nellasolareletteraa
Paolina, da Pisa, del 12
novembre 1827, che disegna
un
ambiente
cittadino
contemplato con incantato
stupore: «Vi si passeggia poi
nell’invernocongranpiacere,
perché v’è quasi sempre
un’aria di primavera: sicché
in certe ore del giorno quella
contrada [il lung’Arno] è
piena di mondo, piena di
carrozze e di pedoni: vi si
sentono parlare dieci o venti
lingue, vi brilla un sole
bellissimo tra le dorature dei
caffè, delle botteghe piene di
galanterie, e nelle invetriate
dei palazzi e delle case, tutte
dibellaarchitettura».5Anche
si allenta, il freno, nelle
lettere a Giordani, come
sappiamo, dove vibra piú
acuto lo sdegno contro la
propriamalasortedireclusoe
insiemesipalesapiúscoperto
il
gusto
concitato
dell’autoritrattoeroico.Enon
di rado nelle lettere ai rari
amici, da Brighenti a De
Sinner, da Vieusseux al
cuginoMelchiorri,oallacara
AntoniettaTommasini.
2.L’«UOMOINSE»
Il dato piú rilevante che
affioracomechiavedilettura
perl’interoepistolario,6trale
maglieorapiúserrateorapiú
scioltedellarivelazionedisé,
è il fatto che l’occhio dello
scrivente non cura tanto il
rapportodell’ioconilmondo
esterno, quanto l’autoanalisi:
non (foscolianamente) per la
teatrale sceneggiatura del
personaggio-io,
né
per
inclinazione autoinquisitoria
(come in Tommaseo), bensí
per lo studio, anche
spassionato, dell’uomo in sé,
come individuo vivente,
considerato nei suoi rapporti
con la vita della natura e del
cosmo.7 Eloquente la lettera,
chegiàconosciamo,inviataa
Vieusseux, gentile e risoluta,
il4marzo1826,daBologna,
in cui il poeta si dichiara
disinteressato alle cose del
mondo e ai «rapporti
scambievoli» tra gli uomini,
perché la sua attenzione è
rivolta al didentro del
«cuore»edel«propriopetto»
(Palinodia,
v.
235),
all’osservazione di sé come
essere biologico, come
creatura mortale: «sono
assuefatto ad osservar di
continuo me stesso, cioè
l’uomo in se, e similmente i
suoi rapporti col resto della
natura». Si sa che questa
lettera confessa un distacco
dalle«cosedellasocietà»che
sarebbe poi scomparso negli
anni successivi. Nondimeno
essaponenellagiustalucelo
stile
dominante
nell’epistolario leopardiano:
lo stile nudo della solitudine,
di una sconsolata eppure
magnanima
condizione
interiore divenuta forza
conoscitiva, strumento di
riflessione e di analisi
introspettiva applicate alla
vivaesperienzadell’esistere.
Cheunapartenonpiccola
delle lettere sia occupata dal
temaossessivodellamalattia,
non si spiega soltanto per la
tragica circostanza delle
innumerevoli infermità che
hanno logorato una gracile
«complessionediragnatelo»,8
ma anche per l’attitudine
permanente,
divenuta
assuefazione,ameditaresulla
«civiltà […] del corpo»,9
sulla fragilità dell’organismo
umano, sui fili invisibili che
unisconoilfisicoallamentee
al carattere, come aspetto
determinante dell’indagine
sull’«uomo in se». Quando,
dopo l’indispozione causata
daunapiagachegliimpediva
di camminare, Giacomo
scrive a Carlo di essere «in
piedi, e posso dir guarito,
dopo duecent’ore giuste di
letto»,10 dice anche che
quelle«ore»lehacontateuna
a una, nell’assorta solitudine
della sua camera, a tu per tu
consestessoeisuoimalanni,
mentre agogna invano la
salute come «il principale,
anzil’unicobenecheiocerco
in questa vita».11 I bollettini
sanitari, per lo piú infausti,
che con turbativa fissità
punteggiano
la
corrispondenza, sono riflesso
anche di questa inchiesta
intorno alle misteriose leggi
che regolano la «costruzione
organica»12dell’individuo:
Tuttiimieiorgani,diconoimedici,son
sani; ma nessuno può essere adoperato
senzagranpena,acausadiunaestrema,
inaudita sensibilità, che da tre anni
ostinatissimamente cresce ogni giorno:
quasi ogni azione, e quasi ogni
sensazionemidàdolore.13
I referti dell’epistolario
testimoniano con spietata
progressione il tormentato
disfacimento di una «povera
macchina»14 in precario
equilibrio tra la vita e la
morte,15 fino al momento
dell’estrema “guarigione”,16
eppure la pena di una cosí
lunga sofferenza non diventa
lamentazione privata, né
provocascattidirisentimento
per la propria individuale
malasorte.L’iosièconvertito
nell’«uomo in se» ed ha
appreso la dignitosa virtú di
non contrastare il «fato»,
come insegna in ultimo il
Parini17 e come sa la «lenta
ginestra».18
1. G. Leopardi ad A. Jacopssen,
Recanati, 23 giugno 1823, in TO, I p.
1166.
2. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma,20febbraio1823,ivi,p.1150.
3. G. Leopardi al fratello Carlo,
Bologna,30maggio1826,ivi,p.1254.
Su questa lettera e sulla donna che vi
appare come «visitatrice dell’anima»,
cfr. A. MOMIGLIANO, Il carteggio di
Leopardi (1941), in ID., Cinque saggi,
Firenze,Sansoni,1945,pp.139-75.
4. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma, 25 novembre 1822, in TO, I p.
1130.SiconsideriancheG.Leopardia
G.Vieusseux,Pisa,16novembre1827,
ivi,p.1298:«oramaifomoltopiúconto
dell’affetto che della stima degli
uomini; e però avrei maggior concetto
di me stesso se mi credessi capace di
farmi amare, che di farmi stimare»; G.
Leopardi ad A. Tommasini, Firenze, 5
luglio 1828, ivi, p. 1318: «Io non ho
bisognodistima,nédigloria,néd’altre
cosesimili;mahobisognod’amore».
5. G. Leopardi alla sorella Paolina,
Pisa,12novembre1827,ivi,p.1296.
6. Il Leopardi epistolografo è stato
studiatoconattenzionedaL.DIAFANI,
La «stanza silenziosa». Studio
sull’epistolariodiLeopardi,Firenze,Le
Lettere,2000.
7. «Non cerco altro piú fuorché il
vero,chehogiàtantoodiatoedetestato.
Mi compiaccio di sempre meglio
scoprire e toccar con mano la miseria
degliuominiedellecose,ed’inorridire
freddamente, speculando questo arcano
infelice e terribile della vita
dell’universo» (G. Leopardi a P.
Giordani, Recanati, 6 maggio 1825, in
TO,Ip.1198).
8. G. Leopardi a L. Mazzanti,
Bologna, 30 dicembre 1825, ivi, p.
1231.
9.Zib. 4291 (Firenze, 20 settembre
1827).
10. G. Leopardi al fratello Carlo,
Roma, 22 gennaio 1823, in TO, I p.
1143.
11. G. Leopardi ad A. Papadopoli,
Bologna,3settembre1826,ivi,p.1263.
12.Zib.372(2dicembre1820).
13. G. Leopardi ad A. Tommasini,
Firenze, 19 giugno 1830, in TO, I p.
1349.
14.G.Leopardialpadre,Napoli,9
marzo1837,ivi,p.1417.
15. G. Leopardi ad A. Ranieri,
Firenze, 5 gennaio 1833, ivi, p. 1396:
«Madimenontemermainulla:ionon
corro pericoli, e se anche ammalassi,
nientesiconchiuderebbe,perchélavita
cheho,nonètanta,cheabbialaforzadi
ammazzarmi»; alla sorella Paolina,
Firenze, 6 maggio 1833, ivi, p. 1401:
«ma siate tranquillissimi: io non posso
morire: la mia macchina (cosí dice
ancheilmioeccellentemedico)nonha
vita bastante a concepire una malattia
mortale».
16.G.Leopardialpadre,Napoli,27
maggio 1837, ivi, p. 1419: «prego loro
tutti a raccomandarmi a Dio acciocché
dopoch’iogliavròrivedutiunabuonae
pronta morte ponga fine ai miei mali
fisici che non possono guarire
altrimenti».
17.«Mailnostrofato,dovecheegli
citragga,èdaseguireconanimofortee
grande;laqualcosaèrichiestamassime
alla tua virtú, e di quelli che ti
somigliano»(XIIpar.5).
18. «[…] E piegherai / sotto il
fasciomortalnonrenitente/iltuocapo
innocente»(vv.304-6).
XXIII
L’ESTREMO
CONGEDODEL
POETA
1.ILTRAMONTODELLALUNA
I
due
ultimi
componimentideiCantisono
composti dopo la stampa
napoletanadel1835,conogni
probabilità nella primavera
1836, prima La ginestra, o il
fiore del deserto, poi Il
tramonto della luna, ma
destinati dall’autore a una
nuova edizione (che sarà la
postuma
del
1845),
rispettivamente come XXXIII
(Il tramonto) e XXXIV (La
ginestra), dunque tra la
Palinodiaelafinalesequenza
(Imitazione e Scherzo) che
precedeiFrammenti.1
Súbito
successiva
nell’ordine del libro alla
Palinodia,
la
liricità
impersonale intonata con Il
tramontodellalunaintroduce
uno scarto stridente con l’io
energico e satirico che parla
al «candido Gino» (dove
nondimeno, al v. 278, il
binomio «vecchiezza e
gioventú del par contente»
prelude in chiave ironica al
nucleo concettuale che regge
Iltramonto).Oraquell’iosiè
eclissatodietrolequinteeha
lasciata libera la scena alle
ombre delle sepolcrali. Di
contro alla tradizionale
antitesi giorno-notte, come
metafora
del
rapporto
vitamorte,
è
geniale
invenzione l’antitesi notte
lunare-notte senza luna che
occupa le prime due strofe
(vv.1-33)legateunaall’altra
dalla«mestamelodia»(v.16)
di un lentissimo, sospeso e
singultato flusso sintattico.
Ritornano le forme e
l’evocativa
musicalità
dell’idillio nella splendida
inquadratura iniziale del
notturno lunare (vv. 1-12),
motivo
principe
dell’ispirazione leopardiana,
da Alla luna al Canto
notturno:
Qualeinnottesolinga,
sovracampagneinargentateed
acque,
là’vezefiroaleggia,
emillevaghiaspetti
eingannevoliobbietti
fingonl’ombrelontane
infral’ondetranquille
eramiesiepiecollinettee
ville;
giuntaalconfindelcielo,
dietroApenninoodAlpe,odel
Tirreno
nell’infinitoseno
scendelaluna;esiscolorail
mondo[…].
Svanisce la suggestione di
unarealtàbaluginantedivita,
di«millevaghiaspetti»(v.4),
di «ingannevoli obbietti» (v.
5) e il mondo rivela un volto
funebre e muto. Il verbo
«scolora» (v. 12) dice non
solo la fine della vita ma la
cancellazione delle cose che
fanno bella la vita, come nel
Cantonotturno, dove la luna
«forse»intendechecosasiail
morire: «questo supremo /
scolorar del sembiante, / e
perirdallaterra,evenirmeno
/ ad ogni usata, amante
compagnia»(vv.65-68).
Ma non si tratta
dell’incantato ritorno allo
stile di una volta: l’assenza
del
coinvolgimento
autobiografico – o di una
primapersonamonologante–
rendeilquadroassolutamente
oggettivato. Non gli accenti
dell’esperienzapersonale,ma
il pathos della certificazione
in atto di un destino
inevitabile. Tramontata la
luna, si spenge quella
miracolosa illusione di
fantastici miraggi creata dai
riflessi di luce nell’oscurità:
«e si scolora il mondo» (v.
12). Ma la notte senza luna
nonequivaleallamorte,bensí
allavitadopocheèfuggitala
giovinezza: il buio di
un’esistenzaancoralungama
smarrita,senzascopoesenza
«ragione»(vv.27-33):
Abbandonata,oscura
restalavita.Inleiporgendoil
guardo,
cercailconfusoviatoreinvano
delcamminlungocheavanzar
sisente
metaoragione;evede
cheasel’umanasede,
essoaleiveramenteèfatto
estrano.
Verrà a suo tempo la morte,
chenonèconsolazione,mala
«terribil morte» (v. 43) delle
sepolcrali, prima però ci
aspetta «la vecchiezza» (v.
47,epurevv.183e278della
Palinodia), assai piú dura
della morte, anzi il «male
sommo» (Pensieri, VI), che
accresce «le pene» (v. 49),
inaridisce i sensi, uccide la
speranza e lascia intatti gli
appetiti, «incolume il desio»
(v. 48). La tessitura idillica
delluminosonotturno,fissato
nel
momento
della
dissolvenza, s’intride della
disperazione materialistica e
antiprovvidenzialistica – la
forza innominata e malefica
di «lassú» (v. 36) –
dell’ultimo Leopardi, sí da
renderequestoestremoidillio
tagliente come La ginestra.
L’oppressionedellanatura(la
decadenza
fisica,
la
vecchiaia) e la perentoria
severità
concettuale
(suggellata dalla «sepoltura»
finale, in rima baciata con
«oscura») tanto piú esaltano
quel«desio»(v.48)incolume
che esplode nell’eccezionale
pienezza di «lucidi torrenti»
(vv. 56-62), che è dono
negato alla sorte umana,
eppure
bagliore
di
un’inappagata ansia di vita e
di luce (contro la «terribil
morte») che soltanto questa
filosofia della negatività
riesce a concepire e
comunicare.
2.LAGINESTRA
Laginestrachiudeillibro
inesauribile dei Canti con la
polifonia di una sintesi
magistrale. La condizione
dell’umana esistenza, che Il
tramontodellalunaripropone
da una prospettiva terrena, in
rapporto alla fugacità della
giovinezzaedellesperanze,è
oraconsideratadaunpuntodi
vista cosmico, in rapporto al
processo
meccanicistico
dell’universo che trascende e
ignora «questo oscuro /
granel di sabbia, il qual di
terra ha nome» (vv. 190-91).
Senso dello spazio e
sentimento del tempo si
compenetrano con effetti
finora inediti di dilatazione
pluriprospettica: dal «Qui»
(vv.1,42,52)delVesuvioal
remoto passato di Roma,
Ercolano e Pompei; da
«queste rive» al vertiginoso
notturno
siderale
delle
nebulosestellari(vv.158-85):
Soventeinquesterive,
che,desolate,abruno
vesteilfluttoindurato,epar
cheondeggi,
seggolanotte;esulamesta
landa
inpurissimoazzurro
veggodall’altofiammeggiarle
stelle,
cuidilontanfaspecchio
ilmare,etuttodiscintillein
giro
perlovòtoserenbrillareil
mondo.
Epoichegliocchiaquelleluci
appunto,
ch’alorsembranounpunto,
esonoimmense,inguisa
cheunpuntoapettoalorson
terraemare
veracemente;acui
l’uomononpur,maquesto
globoovel’uomoènulla,
sconosciutoèdeltutto;e
quandomiro
quegliancorpiúsenz’alcunfin
remoti
nodiquasidistelle,
ch’anoipaionqualnebbia,a
cuinonl’uomo
enonlaterrasol,matuttein
uno,
delnumeroinfiniteedella
mole,
conl’aureosoleinsiem,le
nostrestelle
osonoignote,ocosípaion
come
essiallaterra,unpunto
dilucenebulosa;alpensiermio
chesembriallora,oprole
dell’uomo?[…]
Di un infinito, si tratta, dove
non è dolce naufragare.
Anche nel Canto notturno si
spalanca la contemplazione
del cielo stellato («quando
miro in cielo arder le stelle»,
vv. 84 sgg.): là, tuttavia,
importail«perchédellecose»
(v. 70) e il passo è scandito
da domande incalzanti sul
senso della vita terrena e
dello spazio infinito, con
un’ansia di sapere che dà
espressione
alla
lirica
dell’incognito
e
dell’inconoscibile,
del
misterocosmicoedell’umana
caducità. Qui domina il
motivo
della
paurosa
limitatezza dell’uomo, della
terra, delle nostre stelle: la
poesia dell’ignoto acquista
un’intonazione inclemente e
una severità conoscitiva
assentinelCantonotturno.
Le
interrogazioni
riguardano non il senso della
vita terrena e celeste, ma il
giudizio che deve formularsi
sulmododiessere,diagiree
dipensaredella«mortalprole
infelice»(v.199);ungiudizio
che, implicito nell’intera
lassa, infine precipita e si
condensa nella clausola
perentoria:«Nonsoseilriso
o la pietà prevale» (v. 201).
La poesia del mistero astrale
e del dolore fa risuonare,
intensa, la nota acuta
dell’umana follia. Quel
cosmo
extraterrestre,
ironicamente
visitato
dall’interno nella prima parte
delle Operette morali, ora è
contemplato dal basso, da
«quaggiú», con un misto di
fascino e di sgomento. La
coscienza della limitatezza,2
della fragilità di esseri che
sono anche tanto protervi,
acuiscelafacoltàdicoglieree
godere l’incanto di un
«mondo» che può avere la
sognante
limpidezza
dell’illusione:
«veggo
dall’alto fiammeggiar le
stelle, / cui di lontan fa
specchio / il mare, e tutto di
scintille in giro / per lo vòto
seren brillare il mondo» (vv.
163-66).
La simultaneità della
corsa spazio-temporale fa
centro su un punto:
l’immutabile durata della
«natura» (v. 292), che è
quella dell’Islandese, resa
però non indifferente ma
feroce
dall’ombra
di
Arimane. La tradizione
“rovinistica”
setteottocentesca,
spogliata
dell’aura estetizzante delle
cose sfiorite e distrutte, non
serve, come invece avviene
nelle canzoni giovanili (vd.
almeno Sopra il monumento
di Dante, vv. 188-96), da
monito di delusione storica e
da sdegnosa rampogna nel
tentativo di ridestare antiche
virtú scomparse; serve bensí
daprovainconfutabilediuna
tortura sicura, di un male
certochegovernailmondo:e
già le immagini mortuarie
delle
sepolcrali,
materialisticamente esenti da
mistiche evasioni, preludono
a questo bruciato deserto
vesuviano.
Di fronte alla fragilità
dell’«uman seme» (v. 43),
scatta – dalla vicina
Palinodia
e
dai
Paralipomeni, come dal
Tristano–ilsarcasmocontro
l’ottimismo antropocentrico
del«secolsuperboesciocco»
(v.53),control’ingannodelle
«magnifiche
sorti
e
progressive»(v.51),controle
«superbe fole» (v. 154) delle
compensazioni ultraterrene.
La
ribadita
fermezza
materialistica comporta la
coraggiosa accettazione del
dolore e la coscienza di una
«guerra comune» (v. 135) a
difesa dalle «angosce» (v.
134) che la natura ci riserva:
questo il presupposto di una
morale laica fondata su
«l’onesto e retto / conversar
cittadino, / e giustizia e
pietade»(vv.151-52);nonché
anche
il
presupposto
dell’invito solidaristico – che
è aspetto tematicamente
nuovo – a una collettiva
confederazione
contro
l’«empianatura»(v.148,cfr.
Palinodia, v. 181).3 Non per
vincere, ma per alleviare
sofferenze
che
sono
inevitabili: onde l’appello al
«vero amor» (v. 132) di una
fratellanza sovranazionale,
estrema e generosa illusione
di cui i coevi Pensieri
mostrano
il
fondo
amaramente
disincantato.
Davvero «incolume» il
«desio» (Il tramonto della
luna, v. 48) acceso dalla
disperazione della nullità
delle cose. Germogliata da
questa landa della vita, in un
paesaggio brullo e infuocato
dove si tocca con mano il
male che affatica il mondo,
fiorisce lo splendido «fiore
del deserto», l’«odorata» (v.
6), «gentile» (v. 34), «lenta»
(v. 297), «innocente» (v.
306), «saggia» (v. 314) e
fragile (cfr. v. 315) ginestra,
che incornicia, presente nella
prima e ultima lassa, l’intera
partitura del componimento
(vv.1-7,297-306):
Quisul’aridaschiena
delformidabilmonte
sterminatorVesevo,
laqualnull’altroallegraarbor
néfiore,
tuoicespisolitariintorno
spargi,
odorataginestra,
contentadeideserti.[…]
Etu,lentaginestra,
chediselveodorate
questecampagnedispogliate
adorni,
anchetuprestoallacrudel
possanza
soccomberaidelsotterraneo
foco,
cheritornandoalloco
giànoto,stenderàl’avarolembo
sutuemolliforeste.Epiegherai
sottoilfasciomortalnon
renitente
iltuocapoinnocente[…].
Tangibile creatura, la
«ginestra» proclama una
nobilissima e fiera dignità
dell’esistere,
e
del
comunicare grazia, bellezza,
profumo, comprensiva pietà,
nella nuda coscienza del
nulla.4
Ineguagliabile
immagine di ardimento
intellettuale e di energia
morale, nella consapevolezza
della propria emarginazione,
come
annuncia
fino
dall’apertura
l’epigrafe
giovannea: «E gli uomini
vollero piuttosto le tenebre
che la luce». La dilatazione
spazio-temporale
salda
insieme gli inserti riflessivi e
l’evocatività lirica, i pannelli
descrittivi
(come
nell’inquietante
notturno
pompeiano dei vv. 280-88) e
l’invettiva della satira, sí che
le ampie campate delle sette
lasse – per complessivi 317
versi – orchestrano la
grandiosaorganicitàdelcanto
nella solidissima sintassi di
una musica ora aspra e
sferzante ora affabilmente
dolcissima: giusta l’antitesi
chiasticacheapreIlpensiero
dominante.
1.«Fucomeseilpoetadeldoloree
dellamorteparlassed’oltretomba»(G.
PASCOLI, La ginestra [1898], in ID.,
Saggi di critica e di estetica, cit., p.
167).
2.AncheinZib.3171-72(12agosto
1823) il tema verte sulla «piccolezza»
dell’uomo, ma in tutt’altra accezione:
«Quandoegli[l’uomo]considerandola
pluralità de’ mondi, si sente essere
infinitesima parte di un globo ch’è
minimaparted’unodegl’infinitisistemi
che compongono il mondo, e in questa
considerazione stupisce della sua
piccolezza,eprofondamentesentendola
e intentamente riguardandola, si
confondequasicolnulla,eperdequasi
se stesso nel pensiero della immensità
delle cose, e si trova come smarrito
nella
vastità
incomprensibile
dell’esistenza; allora con questo atto e
con questo pensiero egli dà la maggior
prova possibile della sua nobiltà, della
forzaedellaimmensacapacitàdellasua
mente,laquale,rinchiusainsípiccoloe
menomo essere, è potuta pervenire a
conoscere e intender cose tanto
superiori alla natura di lui, e può
abbracciare e contener col pensiero
questa immensità medesima della
esistenza e delle cose». La coscienza
della «piccolezza» qui non implica la
denuncia dell’umana superbia; anzi,
associandosi al «pensiero della
immensitàdellecose»,regalailpiacere
proprio dell’idillio L’infinito e in piú
comporta anche il gratificante tributo
alla «nobiltà», alla «forza» e alla
«capacità» della mente che «è potuta
pervenire a conoscere» cose tanto
superioriallasuanatura.Siamolontani
dall’orizzonte
lirico-ideologico
dell’ultimoLeopardi.
3. La «grande alleanza degli esseri
intelligenti contro alla natura» è
annotata in Zib. 4279-80 (Recanati, 13
aprile 1827), come tema che «può
servire»perlaLetteraaungiovanedel
20o secolo (già progettata nei Disegni
letterari,IX[1821],inTO,Ip.371).
4. Per i possibili rapporti tra il
«fiore» leopardiano e il «tacito fior»
dell’Ognissanti (1847) di Manzoni,
rinvio al mio Alessandro Manzoni,
nell’opera collettiva Storia generale
della letteratura italiana, VIII. L’Italia
Romantica.IlprimoOttocento,Milano,
Motta,1999,p.373.
XXIV
MODERNITÀE
TRADIZIONE
1.PRIMATODELL’IOE
MEMORIASTORICA
La
rivoluzionaria
modernità
di
Leopardi
consiste nel primato assoluto
riconosciutoallavocedell’io.
Con
due
corollari,
complementariedecisivi,che
riguardano
la
libertà
espressiva conquistata dal
soggetto protagonista (quindi
l’intonazione
della
sua
parola) e la duplice,
ambivalente energia che egli
vuole comunicare (quindi la
funzioneconoscitivadellasua
parola). Nella struttura della
“canzone libera”, come nella
prosa
umoristica
delle
Operette, l’io spezza i lacci
dei
canoni
retorici
tradizionali; l’intensità delle
illusioni, scaturita dalla
martellante disperazione del
pessimismo materialistico,
assegna all’io un ruolo che è
insieme
sistematicamente
distruttivo (come pensiero
negativo e annientamento
della
speranza)
e
inventivamente vitalissimo
(come instancabile, sempre
nuovosuscitatorediemozioni
e di sogni). In nessun altro
nostro autore ottocentesco è
dato trovare uniti gli
ingredienti di questa miscela
che produce – all’insegna
della contraddizione –1 un
effettosbalorditivodifissitàe
dimovimentoincessante.
La complessa apertura
verso la modernità trova per
paradosso la propria genesi
nel
radicale
rifiuto
(«disprezzo»: La ginestra, v.
65) del “modernismo”,
nell’appassionata nostalgia
del passato e dell’antico. Il
che significa tutt’altro che
spirito reazionario: significa
culto non pedantesco dei
classici,
risoluta
attualizzazione del loro
modello,nonperimitarloma
riviverlo
(umanizzarlo)
secondo gli impulsi di una
sensibilità
orgogliosa,
indocile e anticonformista,
insofferente di ogni idea
ricevuta e di ogni moda, di
ogni tirannia e di ogni
assolutismo, in politica come
nelle scelte culturali. La
musica
nuova
(senza
«ostentazione
rivoluzionaria»)2
della
“canzone libera” viene dallo
studio metrico calibratissimo
delle prime canzoni, come
l’inventio prosastica delle
Operette
viene
dalla
quotidiana familiarità con la
prosa greca e latina. Viaggio
lungo, ma l’insegnamento in
ogni caso che giunge
dall’antico non è valso che
come esercizio e tirocinio di
libertà. A questo coraggio
dell’inattualità,
a
quest’affrancamento non dal
passato, ma dai vincoli inerti
del passato, hanno aspirato
invano–aparteManzoni,su
altro e antitetico piano – i
cultori e i fautori del nuovo,
stilisticamenteimpigliatinella
riproposta di forme vecchie,
troppo
prossime
alla
tradizione che intendevano
ignorare, e ideologicamente
inefficaci,perchéchiusinella
rete delle idee correnti (il
«concorde sentir!» della
Palinodia,v.220),esposteal
fenomeno
della
rapida
obsolescenza. La rincorsa
delle mode è un abbraccio
con la morte. Proprio dalla
memoria
storica,
dal
sentimento lancinante della
corsa rapinosa dei secoli,
Leopardi ha tratto la forza di
quella distanza prospettica e
polemica dal presente che è
stata la garanzia della sua
modernità. «Perdóno dunque
se il poeta moderno segue le
cose antiche, se adopra il
linguaggio e lo stile e la
maniera antica […]. Perdóno
se il poeta, se la poesia
moderna non si mostrano,
non sono contemporanei a
questo secolo, poiché esser
contemporaneo a questo
secolo, è, o inchiude
essenzialmente, non esser
poeta,nonesserpoesia».3
Allafugadeltempoealla
furia di distruzione che porta
con sé, non ha opposto il
riparo di alcuna verità
positiva:nonlafedereligiosa
nel trascendente, non la fede
laica nell’agire umano e nel
progresso, non la fede
umanistica – cui approda il
materialismo foscoliano –
nella funzione eternatrice
della poesia che «vince di
mille secoli il silenzio» (Dei
sepolcri,v.234).Maneppure
hafesteggiatoconirrazionale
esultanza il trionfo del
nichilismo. Lo spettacolo
della rovina, indagato con
eroico ardire, si sa che
comporta
l’intrepida
risolutezza del disinganno, la
contemplazione dignitosa e
fiera del negativo, ma genera
sgomento («orror»: La
ginestra, v. 280), tanto piú
terribileperchésenzariscatto.
Suldesertodel«comunfato»
(v. 114), del «mal che ci fu
dato in sorte» (v. 116), il
cerchio si chiude. La parola
ritorna all’io e al primato del
soggetto lirico, alla sua voce
castaespietatachehaattinto
– dalla nostalgia dell’antico,
dallaconsapevolezzachequel
mondo
è
cancellato,
dall’audacia di guardare in
volto l’«arido vero» – il
suono di una suprema e
sconvolgentelibertà.Laquale
vuol dire anche suprema
altitudine,
non
come
allontanamento dalla terra
(verso il mistero o il
misticismo),
ma
come
distacco dal superfluo e
dall’inessenziale, da tutto ciò
chenontocca,quieora,nella
nostra indifesa fragilità di
individui
biologici,
la
condizione
prima
ed
elementare dell’esistere. La
voce dell’io allora diventa
capace di porsi domande
semplici e capitali, di
interrogarsi sul senso della
vita e della morte, sugli
affannideldolore,sullaforza
dell’amicizia e dell’amore. Il
poetachepiúdiognialtroha
sofferto
la
schiavitú
dell’individuo di fronte alle
leggi inesorabili della natura,
è anche il poeta che piú ha
sentito, con stupefacente
vertigine,lalibertàdell’io.
2.VERITÀEVITA
«A goder della vita, è
necessario uno stato di
disperazione».4 Il tenace
investigare sul significato
dell’esistere approda all’urto
dellacontraddizionetraverità
e vita. Dinanzi alla certezza
del nulla, l’io comunica la
propria ansia di piacere,
insopprimibile e vitale (che
non significa vitalistica);5
rivive ricordi, desideri,
passioni,
«immagini»,
«palpiti» (Il risorgimento, v.
86); ridice a se stesso con
intatto candore, contro i miti
delle ideologie vigenti, i
valori della bellezza, della
virtú, della civile concordia,
degli affetti, del dilettevole
(«utile sopra tutti gli utili»)6
che umanizzano la vita e la
fannodegnadiesserevissuta,
tanto che «cangiato il mondo
appar» (v. 104): vane
illusioni, eppure «non v’è
altro di reale né altro di
sostanza al mondo che le
illusioni».7L’evocativacarica
lirica («sí viva e forte»: Il
pensiero dominante, v. 114)
riescearenderlevere(«alver
s’adegua»,v.115)econcrete.
La poesia trasforma l’incanto
dell’immaginazione in atto
conoscitivo,perchéhaildono
di «convertir la ragione in
passione»,8anzidisuperareil
«principio di cognizione»9 e
dare intensissima tangibilità
ai fantasmi. Non sussiste
conflitto tra «cuore» e
«intelletto», perché soltanto
dinanzi all’«infausta verità»
(Il risorgimento, v. 116),
naturale e storica e sociale,
riesce a modularsi questo
canto dell’io: lucidissima
diagnosi critica del reale e
desiderio struggente di un
bene tanto piú luminoso (e
inattingibile) quanto piú
insidiato
dalla
consapevolezza della sua
friabilità. L’arte di essere
infelices’intitolaunodeitanti
«disegni letterari» che,
rimasti virtuali, non lasciano
in pace la fantasia del
lettore.10
1. «Contraddizioni innumerabili,
evidenti e continue si trovano nella
natura
considerata
non
solo
metafisicamente e razionalmente ma
anche materialmente» (Zib. 4204,
Bologna, 25 settembre 1826). Sul
«lacerante
sentimento
della
contraddizione», come «unica e piú
profonda logica di Leopardi», che
rifiuta «la logica antica senza peraltro
ammettere una logica diversa» che
spiani o riduca a unità i paradossi
dell’esistenza, cfr. BALDACCI, Il
sistema del paradosso, cit., pp. 80-83.
Lo stesso Baldacci ha acutamente
osservato – ed è un punto su cui
conviene riflettere –: «A Leopardi si
puòfardiretuttoeilcontrarioditutto.
In realtà bisognerebbe rinunciare a
cercare in lui un pensiero affermativo
per riconoscere invece un pensiero
doloroso che ha sí una sua linea, ma è
intimamente riluttante a concludere»
(ID.,Dueutopie [1982], in ID.,Il male
nell’ordine. Scritti leopardiani, cit., p.
187).
2. CONTINI, Giacomo Leopardi,
cit.,p.279.
3.Zib.2946(11luglio1823).
4.Ivi,2555(6luglio1822).
5. L’«impossibilità tanto dell’esser
felice, quanto del lasciar mai di
desiderarlo
sopra
tutto,
anzi
unicamente» (ivi, 4186, Bologna, 13
luglio1826).
6. G. Leopardi a P. Giordani,
Firenze,24(ma29)luglio1828,inTO,
Ip.1321.
7.Zib.99(8gennaio1820).
8.Ivi,293(22ottobre1820).
9.Ivi,4129(5-6aprile1825).
10.«L’artediessereinfelice.Quella
di essere felice, è cosa rancida;
insegnata da mille, conosciuta da tutti,
praticata da pochissimi, e da nessuno
poi con effetto» (Disegni letterari, XI
[1829],inTO,Ip.372).
XXV
LAFORTUNA
CRITICA
1.ILETTORIOTTOCENTESCHI
Nel
clima
delle
«magnifiche
sorti
e
progressive»,icontemporanei
hanno rifiutato il pensiero di
Leopardi e misconosciuta la
grandezza della sua poesia:
da Cantú a Tommaseo, da
Colletta a Mazzini. Nella
denuncia
dell’umana
infelicità spesso non hanno
visto – tra «maraviglia e
sdegno» (Palinodia, v. 7) –
che il lamento di disgrazie
personali,
l’immediato
riflesso di una lacrimevole
condizione
biografica.1
Pochissime le eccezioni,
come Giordani. In altri casi
(Montani,Gioberti,Tenca),il
tributo al valore umano,
morale e artistico dello
scrittore si arresta di fronte
all’aspra sostanza del suo
sconsolato
materialismo.
Siffatta difficoltà, inerente
alle speranze riformatrici
della cultura risorgimentale,
condiziona anche la tribolata
ammirazionediDeSanctis,al
qualesidevelaprima,solida
monografia organica (rimasta
incompiutanel1883)delsuo
amatissimo Leopardi: il
dilemmatico contrasto tra
«cuore» e «intelletto», tra gli
affetti appassionati e lo
«scetticismo»
negativo
(inassimilabile alla poetica
realistica del progressismo
laicodesanctisiano),inducea
rimuovere lo scoglio della
riflessioneconcettuale,dando
credito alle componenti
idilliche, con conseguente
incomprensione
delle
Operette. Poi, nel volgere di
pochianni,sisfaldal’edificio
laboriosamente messo in
piedi da De Sanctis.
Nell’epoca delle certezze
positive, talune sprovvedute
applicazioni del metodo di
Lombroso
intendono
dimostrare
l’origine
psicopatologica
del
pessimismo
leopardiano:
comenelfisiologorecanatese
Mariano
Luigi
Patrizi,
docente all’Università di
Modena,2 e nell’antropologo
siciliano Giuseppe Sergi,
docente all’Università di
Roma;3 invece dimostrano la
miopia
dell’orgoglio
scientista e l’improvvido
proposito – clinico in
apparenza e in realtà politico
–4diesorcizzarecomeeffetto
di nevrosi un sistema
filosoficoeretico.
Altra
importanza
compete, nel medesimo
àmbito positivista, alle
ricerche erudite della scuola
storica,
patrocinate
da
Carducci,conlastampadello
Zibaldone
(1898-1900),
nonché con gli studi, le
edizioni, i commenti, specie
di
Giuseppe
Cugnoni,
Alfredo Straccali, Giuseppe
Piergili, Giovanni Mestica,
Ildebrando Della Giovanna,
Giuseppe Chiarini. Ma già
nello stesso Carducci si vede
bene come le ragioni della
forma si vadano dissociando
dalle ragioni delle idee. Di lí
apoco,nel1904,ilfinissimo
saggio di Cesare De Lollis,
sul
Petrarchismo
leopardiano, avvalora un
Leopardi
elegiacopetrarchesco (dopo quello
dantesco e alfieriano caro a
DeSanctis)chepreludeaipiú
tardi riconoscimenti che
sarebbero sopraggiunti dai
cultori della liricità pura.
Resta dunque minoritaria la
linea interpretativa che a
fatica,beneomale,scavasul
terreno del pensatore (come
negli Studi sul Leopardi di
Bonaventura Zumbini, 19021904), giacché non tira un
ventopropizioascavisiffatti,
in un’Italia orgogliosamente
estetizzante, superomistica e
dannunziana: piú propensa,
nellacrisidivaloriculminata
nel dramma della Grande
Guerra, ad assecondare
irrazionali avventure dello
spirito, piuttosto che a
promuovere sondaggi sulla
tragicità della vita. Le
indagini di Gentile, protratte
per oltre un trentennio a
partire
dal
1907,
s’indirizzano, con notevole
profitto in merito al disegno
strutturale delle Operette, su
questa
strada
dell’accertamento ideologico,
la quale però si espone al
rischiodinonsaldareinsieme
(se
non
astrattamente)
pensieroepoesia.
Quanto alla presenza di
Leopardi nel panorama della
lirica italiana, l’Ottocento è
stato erede distratto, se non
insensibile. Quando non si
tratti di mera eco idillico-
campestre
o
eroicopatriottica, se non di
mitologie personali (come
nell’esordiente Paolo Buzzi
delle Rapsodie leopardiane,
1898), accanto ai rari fedeli
(inprimisAlessandroPoerio,
ma anche a suo modo
Giovanni Prati), si afferma
piuttosto
un’adesione
capovolta in senso religioso,
come in alcuni testi di
Tommaseo. Suggestiva del
resto l’ipotesi che nel tardo
ritorno alla poesia del
Manzoni sliricato, con il
«tacito fior» (v. 20) che
sboccia su «inospite piagge»
(v. 18) nel frammento di
Ognissanti (1847), non sia
passato invano il fascino
dell’«odorata ginestra» (a
stampa nel 1845). Orizzonti
antitetici,
eppure
non
contraddittorî: l’ostilità verso
l’utilitarismo del «secol […]
superbo»(Ognissanti, v. 5) e
l’acuta coscienza dell’umana
caducità fanno luce sul
tragicopessimismodellafede
manzoniana. Il quadro muta
allafinedelsecolo,quandosi
afferma la lezione del
simbolismo francese, da
Baudelaire a Mallarmé, e si
assiste a una retrospettiva –
quanto distorta in chiave
magico-allusiva – riscoperta
di Leopardi poeta della
«musica», del «vago» e
dell’«occulto» (Graf),5 poeta
dell’«Ignoto»6 e sacerdote
dell’«irreligione»(Pascoli).7
Differenteèl’accoglienza
fuori d’Italia: in Francia con
Sainte-Beuve (1844) e in
Germania con i filosofi del
pensiero negativo, come
Schopenhauerche,lettoregià
dal 1830 delle Operette,
sintetizza il suo giudizio
ammirativo nella III ed.
(1859) del Mondo come
volontà e rappresentazione
(1819, 18442): «Ma nessuno
hatrattatocosíafondoecosí
esaurientemente
questo
soggetto [del nulla e dei
dolori della vita] come, ai
giorni nostri, Leopardi. Egli
ne è tutto pervaso e
compenetrato. Il suo tema è
ovunquelabeffaelamiseria
di quest’esistenza, da lui
rappresentate, in ogni pagina
delle sue opere, con una tale
varietà di forme e di
espressioni, con una tale
ricchezza di immagini, che
essononvienemaianoia,ma
è invece sempre interessante
e commovente» (IV 46).8
Nietzsche a sua volta, negli
appuntidel1875perilsaggio
Wir Philologen, dimostra di
apprezzarecomepochialtriil
filologo,dicuiprobabilmente
conoscegliExcerpta editi da
De Sinner nel 1835, le note
apparse
sui
«Neue
Jahrbücher» nel 1840 e gli
Studi filologici del 1845; ma
anche in piú occasioni –
prima di cambiare idea
intorno al 1884 – rilascia
attestati di profonda stima al
pensatore-poeta
«sovrastorico»
e
allo
«stilista»: la seconda delle
Considerazioni
inattuali
(1874) è intessuta di echi
leopardiani (specie dal Canto
notturno), fino alla citazione
dei vv. 7-11 di A se stesso
(nella traduzione tedesca di
RobertHamerling),eLagaia
scienza (1882) riconosce allo
scrittore di Recanati «un
magistrale dominio nella
prosa»(II92).
2.ILPRIMONOVECENTO
Nel
quarantennio
che
intercorre tra l’incompiuta
monografia di De Sanctis
(1883) e il saggio di Croce
(1922)siirrigidiscelafrattura
tra ideologia e stile, con un
Leopardi
sempre
piú
liricamente
rarefatto
e
devitalizzato.Perunverso,il
tormentato avvicinamento al
poeta dei Canti proposto in
area vociana da Rebora,
Boine,
Sbarbaro,
Michelstaedter (e per proprio
conto da Thovez, come da
PirandelloedaTozzi)cededi
fronte alle piú quiete
rivisitazionidiarearondistae
poi ermetica. Per altro verso,
l’arduastoricizzazionetentata
daDeSanctisfanaufragionel
liquidatorio distinzionismo di
Croce, il quale cerca di
reagire
allo
stilismo
formalistico della «Ronda»,
ma porta infine acqua allo
stesso mulino, perché risolve
l’antitesi drammatica tra
«cuore» e «intelletto» con il
drastico intervento chirurgico
sulsecondodeidueterminiin
conflitto. Non può esserci
infatti antitesi alcuna nella
desolazione di una «vita
strozzata»:9 i «filosofemi» di
Leopardi non sarebbero (con
recupero del determinismo
antropologico di scuola
lombrosiana)
che
la
«proiezione raziocinante» del
suo«statoinfelice»,dellasua
«offesa base fisiologica», del
suo adirato «malumore»;
sarebbero i sintomi di una
«malattia»
che
«gli
avvelenava» il sangue;
l’unica alternativa possibile è
trapatologiaesalute,onde«il
Leopardi schietto e sano»
dovremmo cercarlo nei
fuggitivi momenti in cui,
dimenticata la propria «vita
strozzata», gli accade «di
risentirsi
vivere»,
di
riconoscersiin«armonia»con
il
mondo,
tanto
da
«accoglierlo
in
sé
simpaticamente».10 Che è la
piúseccadifesadiun’astorica
e idillica «armonia» estetica
da parte dell’idealismo
primonovecentesco.
Tra le due guerre non
mancanoalcunedeterminanti,
talvoltasostanziali,correzioni
di tiro rispetto alla lettura
fortemente limitativa di
Croce: Karl Vossler (1923,
trad. it. 1925), Giuseppe De
Robertis(ed.delloZibaldone,
1922, commento ai Canti,
1927,intr.alleOpere,1937e
poi il Saggio del 1944),
Mario Fubini (intr. all’ed.
commentata delle Operette,
1933), Attilio Momigliano
(Introduzione al Leopardi,
1938), Luigi Russo (La
«carriera poetica» di G.
Leopardi, premessa all’ed.
commentata dei Canti, 1945,
recaladata«ottobre1943-23
giugno
1944»).
Fondamentale,trail1927eil
1931, il contributo filologico
delle
edizioni
critiche,
corredate di tutte le varianti
manoscritte e a stampa, del
recanatese
Francesco
Moroncini: Canti (2 voll.,
1927), Operette morali (2
voll., 1928), Opere minori
approvate(2voll.,1931),cui
poisiaggiungono,trail1934
e il 1941, per iniziativa
sempre di Moroncini, gli
ancora indispensabili, per il
nonsuperatocommento,sette
volumi dell’Epistolario, con
le lettere dei corrispondenti.
Sullevariantileopardianesiè
proficuamente applicata la
«critica degli scartafacci»
d’autore (da Piero Bigongiari
a Giuseppe De Robertis a
Gianfranco
Contini),
dapprima
intrapresa
in
antitesi
alla
nozione
idealistico-crociana
dell’opera
d’arte
come
risultatostaticoeassoluto.
Negli stessi anni, nel
laboratorio della letteratura
coeva,
al
di
là
dell’espressionismovocianoe
dell’autoanalisi di Saba, a
distanza dal leopardismo
umanistico di Cardarelli e di
Bacchelli (interprete acuto,
specie dei Paralipomeni), la
prosa delle Operette attira
l’attenzione di Svevo nella
CoscienzadiZeno,poi,perlo
piú come stimolo fantasticosurreale,
accende
d’entusiasmo
Savinio,11
Delfini,Landolfi,12Sinisgalli.
Insieme al poeta dei
«prodigi» e del «mistero»
riletto da Bontempelli,13
esplodeconUngarettiilmito
di un Leopardi filtrato
attraverso Mallarmé, quindi
artefice
della
parola
innocente, «come una ferita
di luce nel buio»,14 favoloso
motore
di
miraggi,
vaticinanteeveggente.Spetta
invece a Montale, all’arsa
geografia dei suoi Ossi di
seppia e al suo laico male di
vivere, l’accostamento meno
avventuroso alla coscienza
dellanegatività.Sull’esempio
montaliano procede il Solmi
poeta (studioso di Leopardi
come di Montale) e nei versi
A
Giacomo
Leopardi
(1962-’66) s’intrattiene a
colloquio con la «cara […]
ombra»delcontediRecanati,
nel tentativo di catturare
almeno
un
«tremante
barlume» di quella «magia
suprema, che fermare / sa in
aeree di musica struggenti
architetture, […] / la piú
fonda / pena del nostro
esistere».15
3.ILSECONDONOVECENTO
Occorre aspettare la
svolta civile e culturale del
secondo dopoguerra, perché,
sul piano propriamente
critico, s’avvii un nuovo
corso:conlarivalutazionedel
pensiero
«progressivo»
(Cesare Luporini, 1947) e
della
poesia
eroica,
antiidillica,satiricapost-1830
(Walter Binni, 1947, 1973),
con originali indagini sulla
filologia di Leopardi, sulla
ideologia e le letture dei
filosofi antichi (Sebastiano
Timpanaro, 1955, 1965),
quindi su aspetti della
biografia, della personalità,
dello stile rimasti fino ad
allora in ombra (Emilio Bigi,
Luigi Blasucci, Umberto
Bosco, Carlo Dionisotti,
Cesare Galimberti, Giovanni
Getto, Mario Marti, Angelo
Monteverdi, Carlo Muscetta,
Natalino Sapegno, Sergio
Solmi, Leo Spitzer). Su
rigorosa base scientifica si
sviluppa l’incremento delle
conoscenze testuali: stampa
di concordanze e di inediti
(primi esercizi poetici,16
scritti filologici, dissertazioni
filosofiche);
nuove
o
rinnovateedizionicritiche,in
particolare dei Canti, con il
corredo fotografico dei
manoscritti (a cura di Emilio
Peruzzi, 1981; secondo
differenti criteri, a cura di
Domenico De Robertis, 2
voll., 1984), e dello
Zibaldone (a cura di
Giuseppe Pacella, 3 voll.,
1991);
nonché
anche
sofisticate ri-edizioni di testi
giàegregiamentepubblicati.
Sul versante artistico,
nonostante la contestazione
della Neoavanguardia che
coinvolge, almeno sul piano
programmatico, anche «il
linguaggio argomentante» di
Leopardi,17 la letteratura
nuova tiene viva la funzione
tecnico-gnoseologica
dei
CantiedelleOperettemorali,
da Fortini, Luzi, Zanzotto, a
Brancati,
Sciascia,
Manganelli,18
Calvino,19
Bufalino,20Ceronetti.
Le istanze «progressive»,
interpretate
come
prefigurazione
di
«un
moderno internazionalismo»,
come impegno per un
progresso piú radicale del
falso progresso borghese, su
«un’onda piú lunga»21 a
confronto del breve respiro
del liberalismo moderato di
primo Ottocento, sono state
polemicamentediscussenegli
anni Settanta da chi ha visto
nel rifiuto leopardiano di
integrazione
organica
nell’ambiente fiorentino una
forma
di
aristocratica
arretratezza
rispetto
al
processo
di
sviluppo
promosso
dal
gruppo
dell’«Antologia», una forma
limitativa di chiusura «e di
estraneità verso l’emergente
organizzazione
capitalistica».22 Quelle stesse
istanze «progressive» sono
andate incontro, dagli anni
Ottanta a correzioni sempre
piú decise, con l’annessione
di Leopardi nel circuito del
moderno pensiero negativo:
«Non
pessimismo
e
progressismo, ma nichilismo
eillusione».23
Se correzioni vanno fatte
–comeopportunamentesono
state fatte, specie sul senso
della partecipazione politica
implicita
nell’agonismo
leopardiano –, bisogna
tuttavia distinguere tra tanti
«nichilismi»disegnodiverso,
materialistico,
mistico,
esistenzialistico,trail«nulla»
che oscuramente sottintende
unaqualsivogliametafisica,e
il «nulla» che la esclude, che
non permette viaggi verso
altra realtà fuori dell’io. Per
limitarsi a Nietzsche: una
cosa è la celebrazione del
«nulla»
come
smascheramento di falsi
valori che prepara la strada
all’avventodel«superuomo»,
e altra cosa è lo strazio del
«nulla»
come
smascheramento di falsi
valori che pone l’io di fronte
allaconsapevoledignitàdella
propria limitatezza fisicobiologica.Necessarioèanche
guardarsidaantistoriciricorsi
all’attualità,
secondo
prospettive
di
tipica
ascendenza
novecentista.
«Leopardi,
poeta
musicalissimo, non ha mai
sacrificato il significato al
significante, non è stato mai
poeta di pure immagini o di
puri suoni, non ha mai
rinunciato a fare della sua
poesia o prosa d’arte uno
strumento conoscitivo: da
questo punto di vista, non è
un “contemporaneo”, e va
letto “storicamente”. Chi si
sente suo contemporaneo
(non solo ammiratore, ma
“seguace”) deve avere la
consapevolezza di trovarsi in
una posizione di minoranza,
nonostante il frastuono
ingannevole dei congressi
[…] e la plètora della
bibliografia».24
La «magia suprema» di
cui ha parlato Solmi, e che
ogni lettore sa bene cosa sia,
non deve far dimenticare il
nesso inscindibile pensieropoesia (la poesia di quel
pensiero, non l’evasione da
quel
pensiero):
senza
tentazioni misticheggianti o
estetizzanti, irrazionalistiche
o
formalistiche25
che
cancellano il fondamento
etico,lafunzionecognitiva,il
presupposto edonistico e
sensistico,
l’oltranza
materialistica della «filosofia
dolorosa,mavera»(Tristano,
8).
1.
L’indignata
protesta
dell’interessato si legge nel Tristano e
nella Palinodia, nonché nella lettera a
L.DeSinner,Firenze,24maggio1832,
inTO,Ip.1382.
2. M.L. PATRIZI, Saggio psicoantropologico su Giacomo Leopardi e
la sua famiglia, Torino, Bocca, 1896;
ID.,Fisiologiadell’arteleopardiana,in
ID., Nell’estetica e nella scienza.
Conferenze e polemiche, Palermo,
Sandron,1899,pp.195-229.
3.G.SERGI,Leoriginipsicologiche
delpessimismoleopardiano,in«Nuova
Antologia», 16 aprile 1898, pp. 577603; ID., Leopardi al lume della
scienza,Palermo,Sandron,1899.
4. Alla rimozione dell’ideologia
leopardiana appartiene anche la
controversa vicenda dei «falsi»
attribuitialpoetanel1898daGiuseppe
Cozza-Luzi: cfr. S. TIMPANARO, Di
alcune falsificazioni di scritti
leopardiani (1966), in ID., Aspetti e
figure della cultura ottocentesca, cit.,
pp.295-348.
5. A. GRAF, Estetica e arte di G.
Leopardi (1898), in ID., Foscolo,
Manzoni, Leopardi, Torino, Chiantore,
1945,p.265.
6.PASCOLI,Ilsabato,cit.,p.84.
7. PASCOLI, La ginestra, cit., p.
171.
8. A. SCHOPENHAUER, Il mondo
come volontà e rappresentazione, a
cura di A. VIGLIANI, intr. di G.
VATTIMO, Milano, Mondadori, 1989,
p.1507.
9. B. CROCE, Leopardi, in «La
Critica», XX, 20 luglio 1922, pp. 193204, poi in ID., Poesia e non poesia.
Note sulla letteratura europea del
secolo decimonono, Bari, Laterza,
1923,pp.103-19(lacit.ap.108).
10.Ivi,p.116.
11. «Leopardi – che nel Dialogo
della Natura e di un Islandese predice
Baudelaire; che nel Dialogo di
Torquato Tasso e del suo genio
familiare predice il Wagner del
Tristano; che nei suoi filologici giochi
predice Nietzsche; che nelle battute
finali del Dialogo della Terra e della
Lunapredicel’umorismodelmusic-hall
(dice la Terra: “Addio dunque; buon
giorno” e la Luna risponde: “Addio;
buona notte”) – Leopardi noi lo
possiamo trattare con la confidenza di
un
contemporaneo»
(SAVINIO,
DrammaticitàdiLeopardi,cit.,p.127).
12.Cfr.T.LANDOLFI,Varietà non
letterarie(1941),ripropostonelvolume
collettivo«Quellibrosenzauguali».Le
‘Operette morali’ e il Novecento
italiano, a cura di N. BELLUCCI e A.
CORTELLESSA, Roma, Bulzoni, 2000,
pp.417-26.
13. M. BONTEMPELLI, Leopardi
l’«uomo solo» (1937), in ID.,
Introduzioni e discorsi, Milano,
Bompiani,1945,19645,pp.33-65.
14. G. UNGARETTI, Immagini del
Leopardi e nostre (1943), in ID., Vita
d’unuomo.Saggieinterventi,acuradi
M. DIACONO e L. REBAY, Milano,
Mondadori,1974,p.450.
15.S.SOLMI,AGiacomoLeopardi,
in ID., Dal balcone (1968), quindi in
ID., Poesie complete, Milano, Adelphi,
1974, pp. 102-5. Su questo «“curioso”
componimento», vd. le indicazioni
preziose di L. CARETTI, Itinerario di
Solmi(1969),inID.,Antichiemoderni.
Studi di letteratura italiana, Torino,
Einaudi,1976,pp.450-51.
16. «Le indigeste compilazioni
giovanili vanno di pari passo con le
puerilia letterarie che la curiosità dei
posteri non ha lasciato nel naturale
riposo» (CONTINI, Giacomo Leopardi,
cit.,p.282).
17. A. GIULIANI, Introduzione a I
Novissimi.Poesiedeglianni’60(1961),
a sua cura, Torino, Einaudi, 19652, p.
19.
18. «Perché mai [Leopardi] questo
apologeta delle tenebre è condannato a
fare un inesauribile dono di luce?»
(MANGANELLI, Giacomo Leopardi:
Operettemorali,cit.,p.201).
19. Alcuni giudizi di Calvino su
Leopardipoetaeprosatore:«ilmiracolo
di Leopardi è stato di togliere al
linguaggio ogni peso fino a farlo
assomigliare alla luce lunare» (I.
CALVINO, Leggerezza, in ID., Lezioni
americane.Seiproposteperilprossimo
millennio [1988], in ID., Saggi 19451985, cit., I pp. 651-52); «Il poeta del
vago può essere solo il poeta della
precisione,chesacoglierelasensazione
piú sottile con occhio, orecchio, mano
pronti e sicuri […]; la ricerca
dell’indeterminato
diventa
l’osservazione del molteplice, del
formicolante, del pulviscolare …»
(Esattezza, ivi, p. 681); «E mi sono
soffermato soprattutto su Leopardi
perché in questo grande lirico e
prosatore, il piú nutrito di cultura
classica e forse per questo il piú
moderno allora e oggi, il Leopardi che
disprezzava tutti i romanzi tranne il
DonQuijote,esisteunnucleofantastico
che intravediamo in alcuni dei suoi
dialoghi, o in quel frammento poetico
[Frammento XXXVII: «Odi, Melisso
…»] che descrive un sogno in cui la
luna si stacca dal cielo e si posa su un
prato.[…]Èquelloilverosemedacui
poteva nascere il fantastico italiano.
Perché il fantastico, contrariamente a
quelchesipuòcredere,richiedemente
lucida, controllo della ragione
sull’ispirazione istintiva o inconscia,
disciplina stilistica; richiede di saper
nello stesso tempo distinguere e
mescolare finzione e verità, gioco e
spavento, fascinazione e distacco, cioè
leggereilmondosumolteplicilivellie
in
molteplici
linguaggi
simultaneamente» (Il fantastico nella
letteratura italiana [1985], ivi, II pp.
1675-76).Cfr.anchecap.VIpar.2.
20. Cfr. G. BUFALINO, I conti col
Leopardi (1987), in ID., Saldi
d’autunno, Milano, Bompiani, 1990,
pp.125-26.
21. C. LUPORINI, Leopardi
progressivo, in ID., Filosofi vecchi e
nuovi,Firenze,Sansoni,1947,pp.27274. Cfr. A. MARINOTTI, Luporini,
Leopardielafilosofiadel’900,in«La
Rassegna della letteratura italiana», s.
IX1999,1pp.331-65.
22.U.CARPI,Letteraturaesocietà
nella Toscana del Risorgimento. Gli
intellettuali dell’«Antologia», Bari, De
Donato, 1974, p. 119. La questione è
ampiamente dibattuta da TIMPANARO,
Leopardi e la sinistra italiana degli
annisettanta,cit.,pp.145-97.
23.M.A.RIGONI,Lavertiginedella
lucidità (1985), in ID., Il pensiero di
Leopardi, cit., p. 182. Non già un
Leopardi «“sombre amant de la mort”
(quale lo vorrebbe accreditare ancor
oggi certa critica pretestuosamente
revisionista),
ma
persuasore
ineguagliabiledicoraggiointellettualee
dignità morale, oltre i limiti del “secol
superbo e sciocco” che lo vide
antagonista irriducibile» (GHIDETTI,
Introduzione a LEOPARDI, Dizionario
delleidee,cit.,p.XVIII).
24. TIMPANARO, Prefazione a ID.,
NuovistudisulnostroOttocento,cit.,p.
XVII.
25. Come l’apologia astratta dello
«stile leopardiano», ridotto a categoria
metafisica, dimenticando l’aureo
precetto di Zib. 2907 (7 luglio 1823):
«rigorosamente parlando, l’idea dello
stileabbracciacosíquellochespettaai
sentimenti come ciò che appartiene ai
vocaboli».
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE
1.OPERE
Sono tre le edizioni complessive
delleopere:Tutteleopere,acuradiF.
FLORA, Milano, Mondadori, 19371949, 5 voll.; Tutte le opere, a cura di
W. BINNI, con la collaborazione di E.
GHIDETTI, Firenze, Sansoni, 1969, 2
voll.; Tutte le poesie e tutte le prose
(con taluni incrementi, specie delle
Dissertazionifilosofiche)eZibaldone,a
cura di L. FELICI e E. TREVI, Roma,
Newton & Compton, 1997, 2 voll.
Ancora meritevoli di molta attenzione
le edd. critiche a cura di F.
MORONCINI:Canti,Bologna,Cappelli,
1927, 2 voll.; Operette morali, ivi, id.,
1928, 2 voll.; Opereminoriapprovate,
ivi, id., 1931, 2 voll. Incompiuta è
rimasta l’edizione degli «Scrittori
d’Italia», a cura di A. Donati, Bari,
Laterza, 1917-1932: Canti (1917);
Versi, Paralipomeni (1921); Puerili e
abbozzi vari (1924); Operette morali
(1928); Pensieri, Moralisti greci,
Volgarizzamentiescrittivari(1932).
Storicamente importanti, per la
pubblicazione di inediti, i seguenti
volumi:OperediG.Leopardi.Edizione
accresciuta, ordinata e corretta,
secondo
l’ultimo
intendimento
dell’autore, a cura di A. Ranieri,
Firenze, Le Monnier, 1845, 2 voll. (su
questastampapostuma,cfr.F.P.LUISO,
Ranieri e Leopardi. Storia di una
edizione,Firenze,Sansoni,1899);Studi
filologici,acuradiP.PELLEGRINIeP.
GIORDANI,Firenze,LeMonnier,1845;
Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi, a cura di P. VIANI, ivi, id.,
1846; Opere inedite di G. Leopardi
pubblicatesugliautografirecanatesi,a
curadiG.CUGNONI,Halle,Niemeyer,
1878-1880,2voll.;ScrittiletteraridiG.
Leopardi ordinati e riveduti sugli
autografi e sulle stampe corrette
dall’autore, a cura di G. MESTICA,
Firenze, Le Monnier, 1899, 2 voll.;
ScrittivariineditidiG.Leopardidalle
cartenapoletane,ivi,id.,1906.
Le tre citate edizioni complessive
vanno almeno integrate con la
Crestomazia italiana. La prosa, a cura
diG.BOLLATI,Torino,Einaudi,1968,
ela Crestomazia italiana. La poesia, a
cura di G. SAVOCA, ivi, id., 1968. Si
aggiungano inoltre: Scritti filologici
(1817-1832),acuradiG.PACELLAeS.
TIMPANARO, Firenze, Le Monnier,
1969; Fragmenta Patrum Graecorum.
Auctorum Historiae Ecclesiasticae
Fragmenta (1814-1815), a cura di C.
MORESCHINI, ivi, id., 1976; Porphyrii
devitaPlotinietordinelibrorumeius,a
cura di C. MORESCHINI, Firenze,
Olschki, 1982; Giulio Africano, a cura
di C. MORESCHINI, Bologna, Il
Mulino,1997.PerleRimediFrancesco
Petrarca,
colla
interpretazione
compostadalconteGiacomoLeopardi,
Milano, Stella, 1826, 2 voll. (II ed.
Firenze, Passigli, 1839, in I quattro
poeti italiani, Parte II, con nuova
prefazione di Leopardi, composta a
Napoli e inviata a Passigli nell’aprile
1837), cfr. le ristampe moderne: F.
PETRARCA, Il Canzoniere, con le note
critiche di G. LEOPARDI, Napoli,
Marotta,1974;RimediF.Petrarca,con
l’interpretazione di G. LEOPARDI, a
curadiA.NOFERI,Milano,Longanesi,
1976 (anastatica dell’ed. Firenze,
Passigli, 1839); a cura di U. DOTTI,
Milano, Feltrinelli, 1979, 19922; con
intr. di G. NENCIONI, Firenze, Le
Monnier, 1989 (anastatica dell’ed.
Firenze,LeMonnier,1851).Glielenchi
delle proprie letture compilati da
Leopardi,alcunisenzadata,altrirelativi
al 24 febbraio 1819, ai mesi novembre
1822-maggio 1823 e al periodo 1o
giugno 1823-marzo 1830, dapprima
parzialmente editi da M. PORENA, in
«Rivista d’Italia», XXV 1922, pp. 68
sgg., e in «La Cultura», 15 dicembre
1926 (poi in ID., Scritti leopardiani,
Bologna, Zanichelli, 1959, pp. 419
sgg.), sono pubblicati da G. PACELLA,
Elenchi di letture leopardiane, in
«Giornale storico della letteratura
italiana»,CXLIII1966,pp.557-77.
Ragguardevoli edizioni moderne di
specificimomentioperativiodisingole
opere:«Entrodipintagabbia».Tuttigli
scrittiinediti,rarieediti.1809-1810,a
cura di M. CORTI, Milano, Bompiani,
1972; Appressamento della morte, ed.
critica a cura di L. POSFORTUNATO,
Firenze,AccademiadellaCrusca,1983;
Discorso di un Italiano intorno alla
poesia romantica, ed. critica a cura di
O. BESOMI, D. CONTINATI, P. DE
MARCHI, C. GIAMBONINI, R.
MARTINONI,
B.
MOSER,
P.
PARANCHINI, L. PEDROIA, G.
PEDROJETTA, Bellinzona, Casagrande,
1988;
Scritti
e
frammenti
autobiografici, a cura di F. D’INTINO,
Roma, Salerno Editrice, 1995;
Dissertazioni filosofiche, a cura di T.
CRIVELLI, Padova, Antenore, 1995;
Discorso di un Italiano intorno alla
poesiaromantica,acuradiR.COPIOLI,
Milano, Rizzoli, 1998; Discorso sopra
lo stato presente dei costumi
degl’Italiani, intr. di M.A. RIGONI,
testo critico di M. DONDERO,
commento di R. MELCHIORI, ivi, id.,
1998;Pensieri, ed. critica a cura di M.
DURANTE, Firenze, Accademia della
Crusca, 1998; Poeti greci e latini, a
cura di F. D’INTINO, Roma, Salerno
Editrice, 1999; Teatro, ed. critica e
commento a cura di I. INNAMORATI,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
1999 (contiene: La virtú indiana,
Pompeo in Egitto, Maria Antonietta,
Erminia,Telesilla);Appuntiericordi,a
curadiE.PASQUINIeP.ROTA,Roma,
Carocci,2000.
Ampie raccolte antologiche: R.
BACCHELLI e G. SCARPA (Milano,
OfficinaTip.Gregoriana,1935);G.DE
ROBERTIS (Milano, Rizzoli, 1937, 3
voll.); G. FERRETTI (Torino, UTET,
1948-1950, 2 voll.); S. e R. SOLMI
(Milano-Napoli, Ricciardi, 1956-1966,
2 voll.); G. GETTO e E. SANGUINETI
(Milano,Mursia,1966);C.MUSCETTA
e G. SAVOCA (Torino, Einaudi, 1968,
con le concordanze di tutta l’opera in
versi, divisa per Canti, Paralipomeni
dellaBatracomiomachia,Poesievariee
Traduzioni poetiche, a cura di L.
LOVERA e C. COLLI); M. FUBINI
(Torino, UTET, 1977); R. DAMIANI e
M.A. RIGONI, con un saggio di C.
GALIMBERTI (Milano, Mondadori,
1987-1988,2voll.).
Per i Canti: oltre all’ed. di L.
GINZBURG (Bari, Laterza, 1938), si
vedano le edd. critiche, di differente
impianto, entrambe con riproduzione
fotograficadegliautografi,acuradiE.
PERUZZI (Milano, Rizzoli, 1981) e a
cura di D. DE ROBERTIS (Milano, Il
Polifilo, 1984, 2 voll., su cui cfr. G.
TELLINI, Testo critico e autografi dei
‘Canti’ leopardiani, in «Paragone»,
416,ottobre1984,pp.71-78).Ristampe
anastatiche:Canti,Firenze,Piatti,1831
(Firenze, Le Lettere, 1987, 19972, con
il saggio di D. DE ROBERTIS, Identità
dell’opera);Canti,Napoli,Starita,1835
(Napoli, Marotta, 1967, 19762).
Principali commenti: G. CHIARINI
(Firenze, Sansoni, 1886); G. MESTICA
(Firenze, Barbèra, 1886); F. SESLER
(Firenze,
Sansoni,
1890);
A.
STRACCALI(ivi,id.,1892;poidal1910
con aggiunte di O. ANTOGNONI,
ristampato nel 1957 con intr. di E.
BIGI); M. PORENA (Messina,
Principato, 1916, 19242); G.A. LEVI
(Firenze,Battistelli,1921;poiVenezia,
La Nuova Italia, 1929); G. DE
ROBERTIS (Firenze, Le Monnier,
1927); A. MOMIGLIANO (Messina,
Principato, 1929); M. FUBINI (Torino,
UTET,1930;conlacollaborazionediE.
BIGI, Torino, Loescher, 1964); E.
CHIORBOLI (Bologna, Zanichelli,
1945); L. RUSSO (Firenze, Sansoni,
1945); N. GALLO e C. GARBOLI
(Roma, Colombo, 1959; poi Torino,
Einaudi, 1962), A. TARTARO (Napoli,
Glaux, 1964; poi Roma-Bari, Laterza,
1984); L. FELICI (Roma, Newton &
Compton,1974,poied.ampliata1996);
F. BANDINI (Milano, Garzanti, 1975);
G. e D. DE ROBERTIS (Milano,
Mondadori, 1978); E. GHIDETTI
(Firenze, Sansoni, 1988); U. DOTTI
(Milano, Feltrinelli, 1993); G. TELLINI
(Roma, Salerno Editrice, 1994); F.
GAVAZZENI e M.M. LOMBARDI
(Milano, Rizzoli, 1998); M. DE LAS
NIEVES MUÑIZ MUÑIZ (ed. bilingue,
italiana e spagnola, Madrid, Ediciones
Cátedra, 1998). Cfr. A. BUFANO,
Concordanze dei ‘Canti’ del Leopardi,
Firenze, Le Monnier, 1969; G.
SAVOCA, Concordanza dei ‘Canti’ di
G. Leopardi. Concordanza, liste di
frequenza, indici, Firenze, Olschki,
1994.
PerleOperette morali, alla cit. ed.
critica di MORONCINI si è affiancata
un’ulteriore ed. critica, a cura di O.
BESOMI
(Milano,
Fondazione
Mondadori,
1979).
Principali
commenti: I. DELLA GIOVANNA (Le
prose morali, Firenze, Sansoni, 1895;
ristampato nel 1957 con intr. di G. DE
ROBERTIS); N. ZINGARELLI (Napoli,
Pierro,1895);O.ANTOGNONI(Il libro
delle prose, Livorno, Giusti, 1911); G.
GENTILE (Bologna, Zanichelli, 1918,
19252); M. PORENA (Prose scelte,
Milano, Hoepli, 1921); M. FUBINI
(‘Operettemorali’seguitedaunascelta
dei‘Pensieri’,Firenze,Vallecchi,1933;
poi Torino, Loescher, 1966, quindi in
Opere,Torino,UTET,1977);A.PRETE
(Milano, Feltrinelli, 1976); S.
ORLANDO (Milano, Rizzoli, 1976); C.
GALIMBERTI(Napoli,Guida,1977);P.
RUFFILI (Milano, Garzanti, 1982); G.
TELLINI (Roma, Salerno Editrice,
1994).Cfr.leConcordanzediacroniche
delle ‘Operette morali’ di Giacomo
Leopardi, a cura di O. BESOMI, R.
DREWECK, M. ERNI, A. LOPEZBERNASOCCHI, Hildesheim, Olms,
1988.
Per lo Zibaldone: la prima stampa
apparve per il centenario della nascita
delpoeta,coniltitoloPensieridivaria
filosofia e di bella letteratura, Firenze,
LeMonnier,1898-1900,7voll.,acura
di una commissione di studiosi
presieduta da G. CARDUCCI.Oltrealle
citt. edd. di FLORA, di BINNIGHIDETTI e di FELICI-TREVI, si
vedano: Zibaldone di pensieri, ed.
fotograficadell’autografocongliindici
e lo schedario, a cura di E. PERUZZI,
Pisa, Scuola Normale Superiore, 19891994, 10 voll.; Zibaldone di pensieri,
ed. critica e annotata a cura di G.
PACELLA, Milano, Garzanti, 1991, 3
voll. (nel vol. III, pp. 1137-72, sono
riprodotti gli Elenchi di letture
leopardiane, cit., già editi da Pacella);
Zibaldone di pensieri, a cura di R.
DAMIANI,Milano,Mondadori,1997,3
voll.
Per i Pensieri: la prima stampa
apparve postuma nelle Opere, cit., a
curadiA.RANIERI, II.Prose,pp.11184. Per le edizioni commentate, oltre
alle raccolte complessive e alle sillogi
delleopere,sivedainpartic.:I.DELLA
GIOVANNA (in Le prose morali, cit.);
O.ANTOGNONI(inIllibrodelleprose,
cit.);M.PORENA(inProsescelte,cit.);
M.FUBINI(in‘Operettemorali’seguite
da una scelta dei ‘Pensieri’, cit., poi,
ed. integrale, in Opere, cit.; quindi
autonomamente,Pensieri,Milano,TEA,
1988); C. GALIMBERTI (Milano,
Adelphi, 1982); U. DOTTI (Milano,
Garzanti,1985);S.ORLANDO(Milano,
Rizzoli, 1988); A. PRETE (Milano,
Feltrinelli, 1994); G. TELLINI (Milano,
Mursia,1994).
Per
i
Paralipomeni
della
Batracomiomachia: la prima edizione
uscípostumaaParigi,pressoBaudry,in
cinquecento copie, nel 1842, per
iniziativa di Ranieri. Si segnalano i
seguenti commenti moderni: E.
ALLODOLI (Torino, UTET, 1921); E.
BOLDRINI (Torino, Loescher, 1970);
M.
FUBINI
e
E.
PERONA
ALESSANDRONE (in Opere, a cura di
M. FUBINI, cit.); G. CAVALLINI
(Galatina, Congedo, 1987); F. RUSSO
(Milano, Angeli, 1997). Cfr. G.
SAVOCA,
Concordanza
dei
‘Paralipomeni’ di G. Leopardi. Testo
con commento, concordanza, liste di
frequenza,Firenze,Olschki,1998.
Perlelettere:Epistolario,acuradi
P.VIANI,Firenze,LeMonnier,1849,2
voll. (poi 19257, 3 voll. con «nuove
aggiunte»
di
G.
PIERGILI);
fondamentale, per i testi dei
corrispondenti e il prezioso commento,
l’Epistolario di Giacomo Leopardi.
Nuovaedizioneampliataconletteredei
corrispondentieconnoteillustrative,a
cura di F. MORONCINI, Firenze, Le
Monnier, 1934-1941, 7 voll. (l’ultimo
volume a cura di G. FERRETTI, con
indice analitico generale di A. DURO);
Lettere, a cura di F. FLORA (vol. V
1949, di Tutte le opere, cit.);
Epistolario,acuradiBINNI-GHIDETTI,
inTutteleopere,cit., Ipp.1003-419(e
Appendici, pp. 1462-64); Epistolario,a
cura di E. TREVI, in Tutte le poesie e
tutteleprose, a cura di FELICI-TREVI,
cit., pp. 1123-445 (e Appendice, pp.
1445-48); Epistolario, a cura di F.
BRIOSCHI e P. LANDI, Torino, Bollati
Boringhieri,1998,2voll.(conlelettere
dei corrispondenti). Scelte antologiche
commentate:Storiadiun’anima.Scelta
dall’epistolario, a cura di U. Dotti,
Milano, Rizzoli, 1982; La vita e le
lettere,acuradiN.NALDINI,intr.diF.
BANDINI, Milano, Garzanti, 1983; Il
monarca delle Indie (carteggio tra
Giacomo e Monaldo Leopardi), a cura
diG.PULCE,intr.diG.MANGANELLI,
Milano, Adelphi, 1988; Lettere agli
amicidiToscana, a cura (e con ottimo
commento) di W. SPAGGIARI, Milano,
Mursia,1990.
2.STUDI
Repertori generali d’orientamento
nell’illimitata bibliografia critica su
Leopardi (la piú imponente e pletorica
delle nostre lettere, dopo quella
dantesca):
G.
MAZZATINTI-M.
MENGHINI-G. NATALI, Bibliografia
leopardiana, Parte I (fino al 1898) e
Parte II (1898-1930), Firenze, Olschki,
1931-1932, 2 voll.; G. NATALI-C.
MUSUMARRA,
Bibliografia
leopardiana,Parte III (1931-1951), ivi,
id.,1953;A.TORTORETO,Bibliografia
analiticaleopardiana(1952-1960), ivi,
id., 1963; A. TORTORETO-C.
ROTONDI, Bibliografia analitica
leopardiana(1961-1970),ivi,id.,1973;
E. CARINI, Bibliografia analitica
leopardiana(1971-1980),ivi,id.,1985;
E.GIORDANO,Illabirintoleopardiano.
Bibliografia1976-1983(conunabreve
appendice1984-85),Napoli,ESI,1986;
ID., Il labirinto leopardiano II.
Bibliografia 1984-1990 (con una
appendice1991-1995),Napoli,Liguori,
1997; E. CARINI-A. SBRICCOLI,
Bibliografia analitica leopardiana
(1981-1986),Firenze,Olschki,1998.
Per la biografia: A. RANIERI, Sette
anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi, Milano, Giannini, 1880 (a
curadiG.Cattaneo,conunanotadiA.
ARBASINO, Milano, Garzanti, 1979; a
cura di R. BERTAZZOLI, Milano,
Mursia, 1995); G. PIERGILI, Nuovi
documentiintornoallavitaeagliscritti
di G. Leopardi, Firenze, Le Monnier,
1882, 18892, 18923; ID., Vita di
Giacomo Leopardi scritta da esso,
Firenze, Sansoni, 1899 (a cura di F.
FOSCHI, Bologna, Transeuropa, 1992);
G. CHIARINI, Vita di Giacomo
Leopardi, Firenze, Barbèra, 1905; G.
FERRETTI, Vita di Giacomo Leopardi,
Bologna, Zanichelli, 1940; I. ORIGO,
Leopardi. A study in solitude, London,
Hamish Hamilton, 1953 (trad. it. di P.
OJETTI, Milano, Rizzoli, 1974); R.
WIS, Giacomo Leopardi. Studio
biografico, Firenze, Olschki, 1959; M.
PICCHI, Storie di casa Leopardi,
Milano, Camunia, 1986; R. DAMIANI,
Vita di Leopardi, Milano, Mondadori,
1992; U. LOMBARDI, Vite parallele.
Monaldo, Adelaide e Giacomo
Leopardi, presentazione di G.
PANELLA, Firenze, Polistampa, 1998.
Si vedano almeno anche MONALDO
LEOPARDI,
Autobiografia
e
Dialoghetti, a cura di A. BRIGANTI,
intr. di C. GRABHER, Bologna,
Cappelli, 1972; le Lettere inedite di
Paolina Leopardi, a cura di G.
FERRETTI,intr.diF.FORTINI,Milano,
Bompiani, 1979, e anche PAOLINA
LEOPARDI, Io voglio il biancospino.
Lettere (1829-1869), a cura di M.
RAGGHIANTI,Milano,Archinto,1990.
Di utile consultazione, in rapporto
alle letture compiute dal poeta nella
biblioteca paterna, il Catalogo della
Biblioteca Leopardi, in «Atti e
MemoriedellaR.DeputazionediStoria
patria per le province delle Marche»,
vol. IV 1899, pp. 1-447 (da usare
nondimeno con molta cautela per la
frequenza degli errori e delle
omissioni).
Fortuna e storia della critica: N.
SAPEGNO, De Sanctis e Leopardi
(1953), in ID., Ritratto di Manzoni e
altrisaggi, Bari, Laterza, 1961, 19663,
pp. 141-49; E. BIGI, Giacomo
Leopardi,nell’operacollettivaIclassici
italianinellastoriadellacritica,acura
diW.BINNI,Firenze,LaNuovaItalia,
1955,19673,2voll.(poi3voll.), IIpp.
351-407; C. GOFFIS, Leopardi,
Palermo, Palumbo, 1961, 19755; M.
MARTI, La fortuna del Leopardi nella
critica predesanctisiana, in ID., Dal
certo al vero, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1962, pp. 285-301; W.
BINNI, De Sanctis e Leopardi (19531956, con una Nota, 1971), in ID.,
Carducciealtrisaggi,Torino,Einaudi,
1972, pp. 195-240; C. STUFFERI
MALMIGNATI,
Leopardi
nella
coscienza
dell’Ottocento,
Roma,
Bonacci,1976;A.FRATTINI, Leopardi
nella critica dell’Otto e del Novecento,
Roma, Studium, 1989; B. STASI,
Apologiedellaletteratura.Leoparditra
De Roberto e Pirandello, Bologna, Il
Mulino, 1995; N. BELLUCCI, G.
Leopardi
e
i
contemporanei.
Testimonianzedall’Italiaedall’Europa
in vita e in morte del poeta, Firenze,
PontealleGrazie,1996.
Per la presenza di Leopardi nella
poesia italiana: R. NEGRI, Leopardi
nella poesia italiana, Firenze, Le
Monnier, 1970; G. LONARDI,
Leopardismo. Saggio sugli usi di
Leopardi dall’Otto al Novecento,
Firenze, Sansoni, 1974; A. DOLFI, La
doppiamemoria.SaggiosuLeopardie
il leopardismo, Roma, Bulzoni, 1986.
Sulla fortuna all’estero: N. SERBAN,
Leopardi et la France, Paris,
Champion,1913;G.SINGH,Leopardie
l’Inghilterra, Firenze, Le Monnier,
1966;
Leopardi
nella
critica
internazionale,acuradiM.SANTORO,
Napoli,Federico&Ardia,1989.
Tra i contributi della critica
ottocentesca,
si
segnalano
in
particolare: G. MONTANI, rec. alle
Canzoni,ai Versi, alle Operette morali
e ai Canti, in «Antologia», risp.,
dicembre 1824, novembre-dicembre
1827, febbraio 1828 e aprile 1831, ora
in ID., Scritti letterari, a cura di A.
FERRARIS, Torino, Einaudi, 1980, pp.
193-215; P. GIORDANI, Scritti editi e
postumi, a cura di A. GUSSALLI,
Milano, Borroni e Scotti, 1856-1858,
soprattuttotomiIVpp.118-31e151-78,
VIpp.122sgg.;V.GIOBERTI,Pensieri
e giudizi sulla letteratura italiana e
straniera, a cura di F. UGOLINI,
Firenze, Barbèra, 1856; C.A. SAINTEBEUVE,Leopardi, in «Revue des deux
mondes»,15settembre1844,poiinID.,
Portraits contemporains et divers, III,
Paris, Didier, 1847 (trad. it. Ritratto di
Leopardi,acuradiC.CARLINO,intr.di
A. PRETE, Roma, Donzelli, 1996); G.
GLADSTONE, G. Leopardi, in
«Quarterly Review», marzo 1850; C.
TENCA, Tradizioni del pensiero
italiano. Giacomo Leopardi, in «Il
Crepuscolo», II5(2febbraio1851)e9
(2marzo1851),orainID.,Saggicritici,
a cura di G. BERARDI, Firenze,
Sansoni, 1969, pp. 108-25; F. DE
SANCTIS,StudiosuGiacomoLeopardi,
Napoli, Morano, 1885 (vd. ID., La
letteratura italiana nel secolo XIX, III.
GiacomoLeopardi,acuradiW.BINNI,
Bari, Laterza, 1953, e a cura di E.
GHIDETTI,Roma,EditoriRiuniti,1983;
e pure Leopardi, a cura di C.
MUSCETTA e A. PERNA, Torino,
Einaudi, 1960; per gli altri saggi
leopardiani di De Sanctis, oltre alla
pagina
memorabile
contenuta
nell’ultimo capitolo della Storia della
letteratura italiana, cfr. ID., Saggi
critici, a cura di L. RUSSO, Bari,
Laterza, 1952, 19654, 3 voll.: I
[‘Epistolario’diG.Leopardi,del1849,
e ‘Alla sua donna’. Poesia di G.
Leopardi,del1855],II[Schopenhauere
Leopardi.DialogotraAeD,del1858,
eLaprimacanzonediG.Leopardi,del
1869]; III [La Nerina di G. Leopardi,
del 1877, e Le nuove canzoni di G.
Leopardi, del 1877]); F. NIETZSCHE,
Intorno a Leopardi, a cura di C.
GALIMBERTI (con testo originale a
fronte),includeancheilsaggiodiW.F.
OTTO, Leopardi e Nietzsche (1937,
editopostumo,1963),postfazionediG.
SCALIA, Genova, Il Melangolo, 1992
(il volume comprende passi e
frammenti di Nietzsche, dal 1874 al
1889); F. DE ROBERTO, Leopardi,
Milano, Treves, 1898 (a cura di N.
BORSELLINO, Roma, Lucarini, 1987);
G. PASCOLI, Il sabato (1896) e La
ginestra(1898),inID.,Prose,acuradi
A. VICINELLI, Milano, Mondadori,
1946, 2 voll., I pp. 57-106; G.
CARDUCCI, Sulle tre canzoni
patriottiche di Giacomo Leopardi
(1898) e Degli spiriti e delle forme
nella poesia di Giacomo Leopardi
(1898), poi in ID., Opere, Ed.
Nazionale, XX, Bologna, Zanichelli,
1944, pp. 3-231; A. GRAF, Estetica e
arte di G. Leopardi, in ID., Foscolo,
Manzoni, Leopardi, Torino, Loescher,
1898, pp. 165-397, poi Torino,
Chiantore,1945,pp.183-442.
Inambitonovecentesco,traglistudi
invariomodosignificativisullacultura,
sul pensiero e sull’attività artistica di
Leopardi, si vedano, con selezione
necessariamente drastica: B. ZUMBINI,
StudisulLeopardi, Firenze, Barbèra, 2
voll., 1902-1904; C. DE LOLLIS,
Petrarchismo leopardiano (1904), in
Scrittorid’Italia,acuradiG.CONTINI
e V. SANTOLI, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1968, pp. 193-219; G.
GENTILE, Studi leopardiani (19071917),IntroduzioneaLeopardi (1927),
Le ‘Operette morali’ (1916), Prosa e
poesia nel Leopardi (1919), La poesia
delLeopardi (1927), in ID.,Manzoni e
Leopardi.Saggicritici,Milano,Treves,
1928, pp. 31-217; C. REBORA, Per un
Leopardi mal noto (1910), poi
nell’opera collettiva Omaggio a
ClementeRebora,Bologna,Boni,1971
(autonomamente, a cura di L. BARILE,
Milano,Scheiwiller,1992);G.A.LEVI,
Storia del pensiero di G. Leopardi,
Torino, Bocca, 1911 (a cura di A. DI
BENEDETTO,Bologna,Boni,1987);V.
CARDARELLI, La favola breve di
Leopardi (1918), in ID., Viaggi nel
tempo, Firenze, Vallecchi, 1920; B.
CROCE,Leopardi(1922),inID.,Poesia
e non poesia. Note sulla letteratura
europea del secolo decimonono, Bari,
Laterza, 1923, 19352, pp. 103-19; K.
VOSSLER,
Leopardi,
München,
Musarion Verlag, 1923 (trad. it. di T.
GNOLI, Napoli, Ricciardi, 1925); A.
ZOTTOLI, Leopardi. Storia di
un’anima, Bari, Laterza, 1927; W.
BENJAMIN, rec. (1928) alla trad.
tedescadeiPensieri,orainID.,Critiche
erecensioni,Torino,Einaudi,1979,pp.
67-69; G.A. LEVI, G. Leopardi,
Messina, Principato, 1931; L.
SALVATORELLI, Il pensiero politico
italiano dal 1700 al 1870, Torino,
Einaudi, 1935; P. BIGONGIARI,
L’elaborazione
della
lirica
leopardiana, Firenze, Le Monnier,
1937; M. BONTEMPELLI, Leopardi,
l’«uomo solo» (1937), poi in ID.,
Introduzioni e discorsi, Milano,
Bompiani, 1945, 19645, pp. 35-65; A.
MOMIGLIANO,
Introduzione
al
Leopardi (1938), in Introduzione ai
poeti, Roma, Tumminelli, 1946, poi
Firenze,Sansoni,19793,pp.215-44;A.
SAVINIO, Drammaticità di Leopardi,
nell’operacollettivaGiacomoLeopardi,
acuradiJ.DEBLASI,Firenze,Sansoni,
1938, pp. 109-32; A. TILGHER, La
filosofia di Leopardi, Roma, Ed. di
«Religio», 1940, poi Bologna, Boni,
1979; F. FIGURELLI, Giacomo
Leopardi poeta dell’idillio, Bari,
Laterza, 1941; G. UNGARETTI,
ImmaginidelLeopardienostre(1943),
poi in ID., Vita d’un uomo. Saggi e
interventi, a cura di M. DIACONO e L.
REBAY, Milano, Mondadori, 1974, pp.
430-50 (qui anche Il pensiero di
Leopardi, del 1933-1934; Secondo
discorso su Leopardi, del 1950, e L’
‘Angelo Mai’ del Leopardi, del 1946);
M. MARTI, La formazione del primo
Leopardi, Firenze, Sansoni, 1944; G.
DE ROBERTIS, Saggio sul Leopardi,
Firenze, Vallecchi, 1944, poi ed.
accresciuta, ivi, id., 19735; C.
LUPORINI, Leopardi progressivo, in
ID., Filosofi vecchi e nuovi, Firenze,
Sansoni, 1947, pp. 183-279 (in vol.
autonomo, Roma, Editori Riuniti,
1980); W. BINNI, La nuova poetica
leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947,
poi ed. accresciuta, ivi, id., 19713; G.
DEROBERTIS,Sull’autografodelcanto
‘A Silvia’ (1947), in ID., Primi studi
manzoniani e altre cose, Firenze, Le
Monnier, 1949, pp. 150-68; G.
CONTINI, Implicazioni leopardiane
(1947), in ID., Varianti e altra
linguistica. Una raccolta di saggi
(1938-1968),Torino,Einaudi,1970,pp.
41-52; G. DE ROBERTIS, Biglietto per
G. Contini (1947), in ID., Primi studi
manzoniani e altre cose, cit., pp. 16972; E. BIGI, Tono e tecnica delle
‘Operettemorali’(1950),Linguaestile
dei“grandiIdilli”(1951)e‘Il passero
solitario’eiltemadellasolitudinenella
storiadellapoesialeopardiana(1952),
inID.,Dal Petrarca al Leopardi. Studi
di stilistica storica, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1954, pp. 111-42, 143-70,
171-81;S.TIMPANARO,Lafilologiadi
G. Leopardi, Firenze, Le Monnier,
1955, poi edd. accresciute, Roma-Bari,
Laterza, 19782, 19973; U. BOSCO,
TitanismoepietàinG.Leopardiealtri
studileopardiani,Firenze,LeMonnier,
1957, poi Roma, Bonacci, 1980; K.
MAURER,G.Leopardis‘Canti’unddie
Auflösung der lyrischen Genera,
Frankfurta.M.,Klostermann,1957;C.
GALIMBERTI, Linguaggio del vero in
Leopardi, Firenze, Olschki, 1959; A.
MONTEVERDI, Frammenti critici
leopardiani, Roma, Tip. del Senato,
1959, poi ed. accresciuta, Napoli, ESI,
19672; R. BACCHELLI, Leopardi e
Manzoni. Commenti letterari, Milano,
Mondadori, 1960; G. BERARDI,
Ragione e stile in Leopardi, in
«Belfagor»,XVIII1963,4pp.425-40,5
512-33, 6 666-78; L. SPITZER, L’
‘Aspasia’ di Leopardi, in «Cultura
Neolatina», XXIII1963,2-3pp.113-45
(poiinID., Saggi italiani, a cura di C.
SCARPATI, Milano, Vita e Pensiero,
1976); S. TIMPANARO, Classicismo e
illuminismo nell’Ottocento italiano,
Pisa,
Nistri-Lischi,
1965,
ed.
accresciuta, ivi, id., 19692; G. GETTO,
Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi,
1966, 19772; E. PERUZZI, L’ultimo
canto leopardiano, in «Lettere
Italiane», XVIII 1966, 1 pp. 28-68; G.
MARZOT, Storia del riso leopardiano,
Messina-Firenze, D’Anna, 1966; S.
TIMPANARO,Dialcunefalsificazionidi
scritti leopardiani (1966), in ID.,
Aspetti e figure della cultura
ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, 1980,
pp. 295-348; E. BIGI, La genesi del
‘Canto notturno’ e altri studi sul
Leopardi,Palermo,Manfredi,1967;G.
SAVARESE, Saggio sui ‘Paralipomeni’
di Giacomo Leopardi, Firenze, La
Nuova Italia, 1967, poi riproposto in
L’eremita osservatore. Saggio sui
‘Paralipomeni’ e altri studi su
Leopardi, Padova, Liviana, 1987; S.
BATTAGLIA, L’ideologia letteraria di
Giacomo Leopardi, Napoli, Liguori,
1968; N. SAPEGNO, Giacomo
Leopardi, nell’opera collettiva Storia
della letteratura italiana, dir. E.
CECCHI-N.
SAPEGNO,
VII.
L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1969,
pp. 815-958; S. SOLMI, Scritti
leopardiani, Milano, All’Insegna del
Pesce d’Oro, 1969, poi ID., Studi
leopardiani, a cura di G. PACCHIANO,
Milano, Adelphi, 1987; G. LONARDI,
Classicismo e utopia nella lirica
leopardiana,Firenze,Olschki,1969;G.
CERONETTI,Intattaluna,inID.,Difesa
della luna, Milano, Rusconi, 1971, pp.
66-81; G. LUTI, Le frontiere di
Recanati, Firenze, Vallecchi, 1972; W.
BINNI, La protesta di Leopardi,
Firenze, Sansoni, 1973; A. DOLFI,
Leopardi fra negazione e utopia,
Padova, Liviana, 1973; B. BIRAL, La
posizione storica di G. Leopardi,
Torino, Einaudi, 1974; U. CARPI,
Giordani, Leopardi e i liberali toscani
del gruppo Vieusseux, nell’opera
collettiva Pietro Giordani nel secondo
centenario della nascita, Piacenza,
Cassa di Risparmio, 1974, pp. 93-110;
W.MORETTI,Il ‘Tramonto della luna’
e l’ultimo Leopardi e Il discorso
leopardiano sull’epica antica e
moderna, in ID., Dalla negazione
all’attesa. Da Leopardi agli anni
Quaranta, Bologna, Pàtron, 1974, pp.
7-37 e pp. 39-56; L. LUGNANI, Il
tramonto di ‘Alla luna’, Padova,
Liviana,1976;M.MARTELLI,Leopardi
elaprosacinquecentesca,in«Filologia
e Critica», I 1976, 3 pp. 337-70; C.
MUSCETTA, Leopardi. Schizzi, studi e
letture, Roma, Bonacci, 1976; S.
CAMPAILLA,LavocazionediTristano.
Storiainterioredelle‘Operettemorali’,
Bologna, Pàtron, 1977; U. CARPI, Il
poeta e la politica. Belli, Leopardi,
Montale,Napoli,Liguori,1978,pp.83268; G. CECCHETTI, Sulle ‘Operette
morali’.Trestudiconilposcrittosulla
elaborazione de ‘I Canti’, Roma,
Bulzoni,1978;V.MELANI,Leopardie
la poesia del Cinquecento, con
un’appendice su G.B. Gelli, MessinaFirenze, D’Anna, 1978; A. TARTARO,
Leopardi,Roma-Bari,Laterza,1978;G.
CONTINI, Varianti leopardiane: ‘La
sera del dí di festa’ (1979) e
RadiografiadiLeopardi(1982),inID.,
Ultimi esercizî ed elzeviri, Torino,
Einaudi,1988,pp.285-98;E.PERUZZI,
Studi leopardiani, Firenze, Olschki,
1979-1987, 2 voll.; G. MACCHIA,
Leopardi e il viaggiatore immobile
(1980), in ID., Saggi italiani, Milano,
Mondadori, 1983, pp. 257-62; M.
MARTI, Studi su Leopardi e sulla
critica leopardiana, in ID., Dante,
Boccaccio, Leopardi, Napoli, Liguori,
1980, pp. 261-402; A. PRETE, Il
pensieropoetante.SaggiosuLeopardi,
Milano,Feltrinelli,1980;F.BRIOSCHI,
La poesia senza nome. Saggio su
Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980;
S. TIMPANARO, Note leopardiane, in
ID., Aspetti e figure della cultura
ottocentesca, cit., pp. 273-93; F.
CERAGIOLI, I canti fiorentini di
Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki,
1981; L. BALDACCI, Due utopie di
Leopardi: la società dei castori e il
mondo della ‘Ginestra’, in «Antologia
Vieusseux», XVIII 1982, 3 pp. 7-25, e
ID., Leopardi o del paradosso, ivi, XX
1984, 4 pp. 13-26; S. TIMPANARO,
Antileopardiani e neomoderati nella
sinistra italiana, Pisa, ETS, 1982; T.
BOLELLI, Leopardi linguista ed altri
saggi,Messina-Firenze,D’Anna,1982;
M.A. RIGONI, Saggi sul pensiero
leopardiano, Padova, CLEUP, 1982,
poi,conpref.diE.M.CIORAN,Napoli,
Liguori, 19852, quindi ed. accresciuta,
Milano, Bompiani, 1997; S. GENSINI,
Linguistica leopardiana, Bologna, Il
Mulino,1984;M.RICCIARDI,Giacomo
Leopardi:lalogicadei‘Canti’,Milano,
Angeli,1984;L.BLASUCCI,Leopardie
i segnali dell’infinito, Bologna, Il
Mulino,
1985;
P.
FASANO,
L’entusiasmo della ragione. Il
romantico e l’antico nell’esperienza
leopardiana, Roma, Bulzoni, 1985; U.
DOTTI,Il savio e il ribelle. Manzoni e
Leopardi, Roma, Editori Riuniti, 1986;
A. FERRARIS, L’ultimo Leopardi.
Pensiero e poetica 1830-1837, Torino,
Einaudi,1987;W.BINNI,Lettura delle
‘Operette morali’, Genova, Marietti,
1987;C.FERRUCCI,Leopardifilosofoe
le ragioni della poesia, Venezia,
Marsilio, 1987; N. BORSELLINO, Il
socialismo della ‘Ginestra’. Poesia e
poeticheleopardiane,Poggibonsi,Lalli,
s.d. (1988); M. MARTI, I tempi
dell’ultimo
Leopardi,
Galatina,
Congedo, 1988; C. DIONISOTTI,
Leopardi e Compagnoni (1970),
Leopardi e Bologna, Preistoria del
pastore errante, Leopardi e Ranieri,
Fortuna di Leopardi (1975), in ID.,
Appunti sui moderni. Foscolo,
Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, Il
Mulino,1988,pp.103-28,129-55,15777, 179-209, 211-2;7 S. TIMPANARO,
Epicuro, Lucrezio e Leopardi, in
«Criticastorica», XXV1988,4pp.359402, poi in ID., Nuovi studi sul nostro
Ottocento,Pisa,Nistri-Lischi,1995,pp.
143-97(quiancheisaggiIlLeopardie
la Rivoluzione francese [1989] e De
Amicis di fronte a Manzoni e a
Leopardi, pp. 127-41, 199-234); L.
BLASUCCI, I titoli dei ‘Canti’ e altri
studi leopardiani, Napoli, Morano,
1989;Leopardieilpensieromoderno,a
cura di C. FERRUCCI, Milano,
Feltrinelli, 1989; A. PARRONCHI, La
nascita dell’ ‘Infinito’ e altri studi
leopardiani, Montebelluna, Amadeus,
1989; Leopardi e la cultura europea.
Atti del Convegno internazionale
dell’Università di Lovanio (10-12
dicembre 1987), a cura di F.
MUSARRA, S. VANVOLSEM, R.
GUGLIELMONE LAMBERTI, Roma,
Bulzoni, 1989; G. Leopardi. Il
problemadelle«fonti»allaradicedella
sua opera, a cura di A. FRATTINI,
Roma,
Coletti,
1990;
La
corrispondenza imperfetta. Leopardi
tradotto e traduttore, a cura di A.
DOLFI e A. MITESCU, Roma, Bulzoni,
1990; U. CASARI, Alla ricerca del
lettore. Saggio su Leopardi, Verona,
Fiorini, 1990; E. SEVERINO, Il nulla e
la poesia alla fine dell’età della
tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli,
1990; N. BONIFAZI, Leopardi.
L’immagine antica, Torino, Einaudi,
1991;A.FERRARIS,Lavitaimperfetta.
Le ‘Operette morali’ di Giacomo
Leopardi, Genova, Marietti, 1991; A.
LA PENNA, Leopardi fra Virgilio e
Orazio, Albe tragiche (da Virgilio a
Leopardi) e L’ ‘Iliupersis’ virgiliana e
larovinadiRoma.Unanotasul‘Bruto
Minore’ di Leopardi, in Tersite
censuratoealtristudidiletteraturafra
antico e moderno, Pisa, Nistri-Lischi,
1991,pp.249-320,321-36,337-44;M.
VITALE, La lingua della prosa di G.
Leopardi:le‘Operettemorali’,Firenze,
La Nuova Italia, 1992; W. BINNI,
Lezioni leopardiane, a cura di N.
BELLUCCI,conlacollaborazionediM.
DONDERO, Firenze, La Nuova Italia,
1994; R. DAMIANI, L’impero della
ragione. Studi leopardiani, Ravenna,
Longo, 1994; A. GIULIANO, G.
Leopardi e la Restaurazione, Napoli,
Accademia di Archeologia, Lettere e
Belle Arti, 1994; M. MARTELLI,
Leopardielafavola,in«Studiitaliani»,
VI 1994, 2 pp. 95-112; M.
SANTAGATA,
Quella
celeste
naturalezza. Le canzoni e gli idilli di
Leopardi,Bologna,IlMulino,1994;N.
FABIO, L’«entusiasmo della ragione».
Studiosulle‘Operettemorali’,Firenze,
Le Lettere, 1995; E. GIOANOLA,
Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca
Book,
1995;
P.
GIROLAMI,
L’antiteodicea.Dio,dei,religionenello
‘Zibaldone’diG.Leopardi,premessadi
G. LUTI, saggio introduttivo (Sulla
religione in Leopardi) di M. BIONDI,
Firenze, Olschki, 1995; S. GIVONE,
Leopardi. Uno sguardo dal nulla, in
ID., Storia del nulla, Roma-Bari,
Laterza,1995,pp.135-54;G.TELLINI,
Lo stile della dissimulazione e Gli
aforismi leopardiani, in ID., L’arte
della prosa. Alfieri, Leopardi,
Tommaseo e altri, Firenze, La Nuova
Italia, 1995, pp. 145-54, 155-83; L.
BLASUCCI, I tempi dei ‘Canti’. Nuovi
studi leopardiani, Torino, Einaudi,
1996; D. DE ROBERTIS, Leopardi. La
poesia, Bologna-Roma, Cosmopoli,
1996 (raccoglie, con pagine nuove,
studi editi tra il 1972 e il 1993); L.
CELLERINO, L’io del topo. Pensieri e
letture dell’ultimo Leopardi, Roma, La
NuovaItaliaScientifica,1997;F.FEDI,
Mausolei di sabbia. Sulla cultura
figurativa di Leopardi, Lucca, Pacini
Fazzi, 1997; E. SEVERINO, Cosa
arcana e stupenda. L’Occidente e
Leopardi, Milano, Rizzoli, 1997; L.
BALDACCI, Il male nell’ordine. Scritti
leopardiani, ivi, id., 1998; R.
BONAVITA, Descrizione di una
battaglia. Leopardi e la querelle
classico-romantica, in «Antichi e
Moderni», I 1998, pp. 21-73; G.A.
CAMERINO, L’invenzione poetica in
Leopardi. Percorsi e forme, Napoli,
Liguori,1998;V.GUARRACINO,Guida
alla lettura di Leopardi, Milano,
Mondadori, 1998; M. MANOTTA,
Leopardi.Laretoricaelostile,Firenze,
Accademia della Crusca, 1998; P.
ROTA, Leopardi e la Bibbia. Sulla
soglia d’«alti Eldoradi», Bologna, Il
Mulino, 1998; ID., Leopardi e i
narratorinella«Crestomaziaitaliana»,
nell’opera collettiva Dal primato allo
scacco. I modelli narrativi italiani tra
Trecento e Seicento, a cura di G.M.
ANSELMI, saggio introduttivo di F.
RICO, Roma, Carocci, 1998, pp. 25163; G. TELLINI, Giacomo Leopardi,
nell’opera collettiva Storia della
letteratura italiana, dir. E. MALATO,
VII.IlprimoOttocento, Roma, Salerno
Editrice,1998,pp.727-830;U.DOTTI,
Lo sguardo sul mondo. Introduzione a
Leopardi,Roma-Bari,Laterza,1999;C.
LUPORINI,DecifrareLeopardi,Napoli,
Macchiaroli,1999;G.TELLINI,Vossler
lettorediLeopardi,nell’operacollettiva
ItalieninDeutschland-Deutschlandin
Italien. Die deutsch-italienischen
Wechselbeziehungen in der Belletristik
des 20. Jahrhunderts, herausgegeben
vonA.COMIundA.PONTZEN,Berlin,
Erich Schmidt, 1999, pp. 389-404;
Giacomo Leopardi. Poeta e filosofo.
Atti del Convegno dell’Istituto italiano
di Cultura (New York, 31 marzo-1o
aprile 1998), a cura di A. CARRERA,
Firenze, Cadmo, 1999; Giacomo
Leopardi. Viaggio nella memoria, a
cura di F. CACCIAPUOTI, Milano,
Electa,1999;LeopardieBologna. Atti
del Convegno di studi per il Secondo
Centenario Leopardiano (Bologna, 1819 maggio 1998), a cura di M.A.
BAZZOCCHI, Firenze, Olschki, 1999;
Leopardi e l’età romantica. Atti del
Convegno internazionale (Padova, 6-7
maggio e Venezia, 8 maggio 1998), a
cura di M.A. RIGONI, Venezia,
Marsilio, 1999; Studi leopardiani, a
cura di E. GHIDETTI (numero
monografico di «La Rassegna della
letteratura italiana», s. IX 1999, 1);
Giordani Leopardi 1998. Convegno
nazionale di studi (Piacenza, 2-4 aprile
1998), a cura di R. TISSONI, Piacenza,
Tip. Le. Co, 2000; I libri di Leopardi,
Napoli, Elio de Rosa, 2000; Una
giornata leopardiana in ricordo di
WalterBinni(Firenze,3ottobre1998),
a cura di M. MARTELLI, Roma,
Bulzoni, 2000; «Quel libro senza
uguali». Le ‘Operette morali’ e il
Novecento italiano, a cura di N.
BELLUCCIeA.CORTELLESSA,ivi,id.,
2000; A. BRILLI, In viaggio con
Leopardi,Bologna,IlMulino,2000;M.
DONDERO, Leopardi e gli Italiani.
Ricerche sul ‘Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’Italiani’,
Napoli, Liguori, 2000; G. GUGLIELMI,
L’infinito terreno. Saggio su Leopardi,
Lecce, Manni, 2000; L. DIAFANI, La
«stanza
silenziosa».
Studio
sull’epistolariodiLeopardi,Firenze,Le
Lettere, 2000; A. DOLFI, Ragione e
passione. Fondamenti e forme del
pensare leopardiano, Roma, Bulzoni,
2000; E. LANDONI, Questo deserto,
quell’infinitafelicità.Lalinguapoetica
leopardiana oltre materialismo e
nichilismo, Roma, Studium, 2000; E.
SANGUINETI, Il chierico organico.
Scritture e intellettuali, a cura di E.
RISSO, Milano, Feltrinelli, 2000
(comprendequattrosaggileopardiani:Il
nulla in Leopardi [1988], pp. 99-112;
Leopardi e la Rivoluzione [1996], pp.
113-19; Per la storia di un’imitazione
[1988], pp. 120-25; Nelle nozze della
sorellaPaolina[1998],pp.126-37);W.
SPAGGIARI,L’eremitadegliAppennini.
Leopardi e altri studi di primo
Ottocento, Milano, Unicopli, 2000; C.
VECCE, Tre letture leopardiane,
Recanati, Centro nazionale di studi
leopardiani,2000.
RilevantigliAtti(editiaFirenzeda
Olschki)deiConvegniinternazionalidi
studi che si svolgono a Recanati dal
1962, per iniziativa del Centro
nazionaledistudileopardiani:Leopardi
e il Settecento (I Convegno, 13-16
settembre 1962), 1964; Leopardi e
l’Ottocento (II Convegno, 1-4 ottobre
1967), 1970; Leopardi e il Novecento
(IIIConvegno,2-5ottobre1972),1974;
Leopardi e la letteratura italiana dal
Duecento al Seicento (IV Convegno,
13-16settembre1976),1978;Leopardi
e il mondo antico (V Convegno, 22-25
settembre 1980), 1982; Il pensiero
storicoepoliticodiGiacomoLeopardi
(VI Convegno, 9-11 settembre 1984),
1989; Le città di Giacomo Leopardi
(VIIConvegno,16-19novembre1987),
1991; Lingua e stile di Giacomo
Leopardi(VIIIConvegno,30settembre5 ottobre 1991), 1994; Il riso
leopardiano. Comico, satira, parodia
(IX Convegno, 18-22 settembre 1995),
1998.
Si raccomandano per l’interesse
documentario, anche iconografico:
Leopardi,VieusseuxeFirenze,acuradi
M. BOSSI e F. ZABAGLI, Firenze,
Vieusseux, 1987 (Catalogo della
mostra, Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana, 28 novembre 1987-30
gennaio 1988); G. Leopardi, a cura di
F.CACCIAPUOTI, Napoli, Macchiaroli,
1987 (Catalogo della mostra, Napoli,
Biblioteca Nazionale, 23 novembre
1987-2ottobre1988);Album Leopardi,
a cura di R. DAMIANI, ricerca
iconografica di E. ROMANO, Milano,
Mondadori, 1993; Casa Leopardi. Il
giovane Giacomo, a cura di F. Foschi,
Tolmezzo, Tip. A. Moro, 1995
(Catalogo della mostra, Recanati,
Palazzo Leopardi, 16 luglio-30 ottobre
1995); Leopardi a Pisa, a cura di F.
CERAGIOLI, Milano, Electa, 1997
(Catalogo della mostra, Pisa, Palazzo
Lanfranchi, 14 dicembre 1997-14
giugno1998);LeopardiaRoma,acura
diN.BELLUCCI e L. TRENTI, Milano,
Electa, 1998 (Catalogo della mostra,
Roma, Museo Napoleonico, 10
settembre-10dicembre1998).
INDICEDELLE
ILLUSTRAZIONI
1.A.
CECIONI,
Giacomo
Leopardi. Busto in gesso
(1879).Firenze,Biblioteca
Marucelliana.
2.Prima
facciata
del
manoscritto
autografo
della canzone Alla sua
donna, vv. 12-33, con a
fianco
varianti
e
annotazioni
(1823).
Napoli,
Biblioteca
Nazionale. La successione
delle strofe nell’autografo
è diversa da quella delle
stampe, ma ogni strofa è
distinta da un numero che
corrisponde
all’ordine
definitivo. Questa la
distribuzione delle strofe
nell’autografo: 2, 3, 5, 4,
1.
3.Prima
facciata
del
manoscritto
autografo
della Storia del genere
umano (1824). Napoli,
BibliotecaNazionale.
4.Recanati,PalazzoLeopardi.
INDICE
PREMESSA
AVVERTENZA
I.UNBORGOMARCHIGIANO
1.NascereaRecanatinel1798
2.Geografia,storia,identitàculturale
II.LEOPEREEIGIORNI,OVVEROIL
CORAGGIODI
UN’APPASSIONATA
DISPERAZIONE
1.Lafamigliaeil«natioborgo
selvaggio»
2.Roma
3.Milano,Bologna,Firenze,Pisa
4.Lafugadefinitivadacasaeil
secondosoggiorno
fiorentino
5.Napoli
III.TRAERUDIZIONEEFILOLOGIA
1.Icomponimenti«puerili»
2.Glistudideglianni1813-1815
IV.LA«CONVERSIONELETTERARIA»
1.Dall’«erudizionealbello»
2.Traduzionidiclassici
3.Primeprovepoetichesignificative
4.LacorrispondenzaconPietro
Giordani
V.DEFINIZIONEDIUNAPOETICA
CLASSICISTICA
1.LaLettera(1816)alla«Biblioteca
Italiana»
2.DiscorsodiunItalianointornoalla
poesiaromantica(1818)
VI.LECANZONICIVILIDEL1818,
UN’IPOTESINARRATIVAELE
DUECANZONIFUNERARIE
RIFIUTATE
1.All’ItaliaeSoprailmonumentodi
Dante
2.Ricordid’infanziaediadolescenza
3.PerunadonnainfermaeNellamorte
diunadonna
VII.LA«CONVERSIONEFILOSOFICA»
EGLISVILUPPIDELPENSIERO
LEOPARDIANO
1.Dal«bello»al«vero»elacrisidel
pessimismo«storico»
2.La«teoriadelpiacere»
3.Classicitàfelice?
4.Ilpessimismomaterialistico
VIII.LOZIBALDONE
1.Lastoriaesterna
2.Unpensieroinmovimento
IX.GLIIDILLI
1.Ipiaceridella«facoltà
immaginativa»
2.Idillioeantiidillio
X.LECANZONI
1.L’irrecuperabilitàdell’antico
2.L’edizionedel1824
XI.IL«MIOCERVELLOÈFUORIDI
MODA».LEOPERETTE
MORALIDEL1824E
L’EDIZIONEDEL1827
1.Daldisegnodi«certeprosette
satiriche»alleOperette
morali
2.Impiantodinamicoe
contrappuntistico
XII.LONTANODARECANATI.
IMPEGNOCULTURALEE
DISIMPEGNOPOLITICO
1.Ilcommentatoreel’antologista
2.Discorsosopralostatopresentedei
costumidegl’Italiani
3.IVersidel1826
XIII.ILDISGELO
1.Dalla«cognizione»al«sentimento»
delnulla
2.Imorticome«stativivi»eilpotere
visionario
dell’«immaginazione»
XIV.IL«RISORGIMENTO»EICANTI
DEL1831
1.Laripresapoetica
2.Ilrisorgimento,ASilvia,Le
ricordanze
3.Laquietedopolatempesta,Ilsabato
delvillaggio,Canto
notturno
4.LaprimaedizionedeiCanti
XV.LEALTREOPERETTEMORALI
1.Lecinque«operette»del1825-1832
2.Leedizionidel1834edel1835
XVI.«LOSPETTATOREFIORENTINO»,
GIORNALEDI«NESSUNA
UTILITÀ»
1.Cronacadiungiornalemaiuscito
2.La«inutilità»del«flâneur»
XVII.ILCICLODIASPASIAELEDUE
SEPOLCRALI
1.La«vita»non«immaginata»ma
«reale»
2.Lesequenzedell’«ingannoestremo»
3.Lamortedisabbellita
XVIII.GINOCAPPONIELAPALINODIA
1.LeopardieCapponi
2.Satiraideologica
3.StrutturadellaPalinodia
XIX.ICANTIDEL1835
1.Ilpasserosolitario
2.LasecondaedizionedeiCanti
XX.LASATIRAFUORIDEICANTI
1.LalineasatiricaeInuovicredenti
2.Paralipomenidella
Batracomiomachia
XXI.DALLOZIBALDONEAIPENSIERI
1.Lospettacolodel«mondo»
2.Uncasosintomaticodiriscrittura
XXII.LAPROSAEPISTOLARE
1.Autocontrolloeconfessione
2.L’«uomoinse»
XXIII.L’ESTREMOCONGEDODEL
POETA
1.Iltramontodellaluna
2.Laginestra
XXIV.MODERNITÀETRADIZIONE
1.Primatodell’ioememoriastorica
2.Veritàevita
XXV.LAFORTUNACRITICA
1.Ilettoriottocenteschi
2.IlprimoNovecento
3.IlsecondoNovecento
BIBLIOGRAFIAESSENZIALE
Indicedelleillustrazioni
1.A.
CECIONI,
Giacomo
Leopardi. Busto in gesso
(1879).Firenze,Biblioteca
Marucelliana.
2.Prima
facciata
del
manoscritto
autografo
della canzone Alla sua
donna, vv. 12-33, con a
fianco
varianti
e
annotazioni
(1823).
Napoli,
Biblioteca
Nazionale.Lasuccessione
delle strofe nell’autografo
è diversa da quella delle
stampe, ma ogni strofa è
distinta da un numero che
corrisponde
all’ordine
definitivo. Questa la
distribuzione delle strofe
nell’autografo: 2, 3, 5, 4,
1.
3.Prima
facciata
del
manoscritto
autografo
della Storia del genere
umano (1824). Napoli,
BibliotecaNazionale.
4.Recanati,PalazzoLeopardi.
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