IL DUBBIO E LA FEDE Ortodossia, eresia e miscredenza da Francesco Petrarca a Giordano Bruno Volume pubblicato con il sostegno finanziario dell’Ambasciata d’Italia a Varsavia e con il contributo dell’Università di Breslavia (Uniwersytet Wroc IL DUBBIO E LA FEDE Ortodossia, eresia e miscredenza da Francesco Petrarca a Giordano Bruno Atti del Convegno Internazionale di Studi Breslavia, 27-28 maggio 2006 a cura di Davide Artico e Ludovico Fulci [Wydawnictwo] :URFáDZ Progetto grafico: DAVIDE ARTICO © Copyright by Authors, Davide Artico, Ludovico Fulci. La riproduzione totale o parziale e/o la diffusione telematica di questa opera sono consentite a singoli e comunque a soggetti non costituiti come imprese di carattere editoriale, telematico, cinematografico o radiotelevisivo. ISBN xx-xxxxx-xx-x Printed in Poland :URFáDZ – 2006 r. Druk i oprawa: "!#%$'&%( Indice Generale Saluto inaugurale Anna Blefari Melazzi – Ambasciatore d’Italia a Varsavia pag. 7 L’eresia della parola De vita solitaria Luigi Tassoni – Università di Pécs ……………………… pag. 9 Il linguaggio umano dell’anima in Petrarca Mario Anastasi – Università Complutense di Madrid … pag. 17 L’ortodossia, il dubbio e la fede nell’opera di Francesco Petrarca e nella linguistica filosofica italiana Gaetano La Civita – Accademia del Dialogo, Roma …… pag. 31 La forma poetica del dubbio Francesco Petrarca, Secretum Béla Hoffmann – Università di Szombathely …………… pag. 47 Graziosissime donne Grazia divina e grazia femminile nel Decameron Antonio D. Sciacovelli – Università di Szombathely …… pag. 57 “Che so io?” La fede nel dubbio e la dubbia fede di Michel de Montaigne Maurizio Mazzini – Università di Breslavia …………… pag. 73 Un’altra fede La Riforma in Italia nel XVI secolo Davide M. Artico – Università di Breslavia …………… pag. 83 Bartolomeo Keckermann (1572-1609) La logica dell’ortodossia e le ragioni della tolleranza Danilo Facca – Accademia delle Scienze di Varsavia … pag. 93 Postfazione Il dubbio come fede nel pluralismo Ludovico Fulci – Lettore MAE a Breslavia …………… pag. 109 5 6 ANNA BLEFARI MELAZZI Saluto dell’Ambasciatore d’Italia a Varsavia ai partecipanti al convegno “Il dubbio e la fede” Mi è particolarmente grato inviare il mio saluto e augurio di buon lavoro ai partecipanti al convegno “Il dubbio e la fede: ortodossia, eresia e miscredenza da Francesco Petrarca a Giordano Bruno”, che inizia oggi all’Università di Wroclaw. Un saluto e un ringraziamento che estendo alle Autorità accademiche e a tutti coloro che hanno concorso, insieme al nostro Ministero degli Esteri, all’organizzazione di questa importante iniziativa. L’Italia e la Polonia sono Paesi che, pur nella loro diversità, si sono spesso trovati accomunate da un destino politico e culturale comune nel corso della loro storia. Penso, ad esempio, agli intensi e fecondi scambi artistici che hanno contrassegnato l’età rinascimentale, agli studi italiani di Nicolò Copernico, alla epopea risorgimentale che, tra grandi sacrifici, ha condotto le due Nazioni all’indipendenza e alla creazione di uno Stato unitario. Gli spazi culturali dei nostri Paesi sono stati attraversati negli ultimi secoli da aspirazioni, ideali, valori e problemi sempre più simili tra loro, anche in virtù della comune identità religiosa. In tal senso, dubbio e fede, nella più ampia accezione dei termini, sono estremi di un pensiero che si è rivelato fecondo per i popoli europei e che ha trovato in Polonia e in Italia alcune delle sue espressioni più alte, in campo teologico, artistico e letterario. Il convegno che si apre oggi rappresenta un approfondimento di aspetti vivi e tuttora attuali della nostra comune cultura europea. Sono certa quindi che esso contribuirà in modo significativo all’ulteriore rafforzamento delle già intense relazioni culturali ed accademiche esistenti tra Italia e Polonia. Varsavia, 27 maggio 2006 7 8 LUIGI TASSONI L’eresia della parola De vita solitaria 1. Il titolo medesimo del convegno suggerisce più di una riflessione a chi, come colui che scrive, crede nell’eresia della parola, in quanto non parola profetica, né carismatica, né fideista, ma come parola poetica: nata cioè dalla constatazione che il linguaggio della poesia s’aggiunge al reale, aggiunge pensiero, aggiunge percorsi, percorre antri segreti, apre alla possibilità, all’impreve dibile della civiltà e, per cominciare a citare il Petrarca del Secretum, dice finanche nel non-detto. Il filo che porta appunto da Petrarca a Giordano Bruno è di per sé la dimostrazione dell’eresia moderna che propone il testo della poesia, la scrittura, la letteratura, come luogo che produce fatti ed eventi, piuttosto che rappresentazioni. Il discorso produce il pensiero, e non il contrario. Sto insistendo particolarmente sulla parola pensiero perché, sia pure nella brevità dello spazio concessoci, intendo servirmi come livre de chevet, piccolo breviario da viaggio, del De vita solitaria di Francesco Petrarca. Ho sempre pensato, essendo in buona compagnia di moderni e antichi lettori, che in questa riflessione, là dove pare soverchiante un’ortodossia che è stata defi nita umanistica, in effetti fuoriesca qualcosa di inaspettato. Poi e durante il mio discorso discenderò «giù per li rami», nel regesto del grande opuscolo petrarchesco per mostrare cosa vi si trova di inaspettato. Naturalmente non può bastare al lettore d’o ggi la pretesa di affidare a quest’opera il merito di aver configurato il mito dello spazio solitario come l’unico adatto alla meditazione, al pensiero, alla scrittura: quel luogo apparta to, dove viene negata ogni possibilità di suono, come la immagina Leopardi nella sua Vita solitaria, rischia di essere l’eguale ed opposto del luogo caoti co, della folla, del rumore, della così tanto deprecata urbe di cui parla Petrarca. L’eccesso di silenzio equivarrebbe comunque ad un angoscioso disturbo, ad una angosciosa cancellazione di suoni ed immagini, ad una vera e propria desertificazione percettiva, che di fatto il poeta corregge quando dichiara di prediligire una posizione intermedia tra vita solitaria e confusione, scegliendo 9 per sé lo spazio del bosco e la sommità della montagna, e l’ otium produttivo dell’azione del pensiero. Ma ciò non basta: è poi vero che la mente petrarchesca, così comunicativa e orientata, si accontenti di suddividere questa ambiziosa materia (la solitudine dello scrittore, la solitudine della scrittura) nelle due parti opposte che si intrecciano nell’opera? Ovvero di delimitare due tipi di figure: l’io solitario e l’io indaffarato, ovvero l’io chiuso nella rocca fortificata della vita solitaria e l’io confuso della confusione della v ita appassionata attiva, separando per opposizione due differenti tipologie di piaceri? Seguiamo il tracciato dell’opera, concedendoci qualche incidenza trasversale. L’inizio del discorso, nella dedica a Filippo vescovo di Cavaillon, porta naturalmente in primo piano l’io petrarchesco, critico, pieno di acribie, e ancor più naturalmente narcisista quando depreca gli ignoranti e sottolinea giustamente l’altezza del proprio ingegno contro ogni pregiudizio degli altri. Il nemico è esterno, sta in agguato, e dunque il pericolo sta nel fatto che la penna potrebbe scappar di mano all’autore, la scrittura sfuggire all’eventuale sorveglianza dell’autocensura, producendo un cyrographum, cioè uno scritto di proprio pugno che lasci trapelare qualche rivelazione sul comportamento, sull’atteggiamento, sulle abitudini, sulle simpa tie, e dunque sulle tentazioni dello stesso autore. Infatti, siccome è grave ritenere che la vita sarà giudicata solo sulla base delle parole, in quanto non essendoci più i fatti rimangono le parole (sola verborum supererunt argumenta), le parole dell’opuscolo non possono che insinuarsi nei due versanti della contesa, fra le due parti della medaglia, determinando in apparenza, e per il lettore, un taglio netto fra il piacere del solitario e il piacere dell’indaffarato, mentre la mente scorre in un senso e nel suo opposto, mentre il desiderio stesso disegna le estreme immagini dell’una e le estreme immagini dell’altra, mentre la memoria indugia rispetto al presente. Perché infatti immaginare la bellezza e l’opulenza del caos che mescola vivande di verse, che confonde frutti differenti, che rende possibile lo stupore delle mescolanze, che consente abbandoni, amplessi, capricci e pensieri sfrenati, se non se ne percepisce la seduzione? Il groviglio della mente petrarchesca, che scherzosamente vorrebbe evitare il cyrographum come autoritratto nella scrittura, in effetti sullo scrittoio del quarantuduenne cede ad un vai-e-vieni, tocca i delirî e la loro abiura, saggia le seducenti percezioni e le addita come velenose, riascolta il caos dell’uomo affaccendato e sazio di piacere nella propria notte piena di incoscienze, e richiama alla coscienza dello stare di notte presente a se stesso, poco più che digiuno, meditando sulla meditazione. Cadrebbe il proposito didattico se non fosse dettagliata la disamina della giornata del faccendiere e di quella del solitario, cadrebbe la grande riflessione sulla relatività del tempo, sulla sua estrema mutevolezza determinata appunto dal modo umano di plasmarlo. 10 Così le parole rimangono e superano le azioni. La conclusione dell’opuscolo richiama ancora al ruolo dell’io che ha predisposto il ragionamento, che si è in effetti rivelato e tradito e affermato e identificato nel va-e-vieni della scrittura: Magnus sum opinator, proclama nelle ultime battute rammentando Cicerone (De vita solitaria 2, XII: che non amava la vita solitaria), e conclude con il lessico di chi torna dall’altra parte del piacere, di chi ascolta il fragore del vento e il mormorio delle acque, e soprattutto non si è ripulito di impulso e passione: Hæc tibi autem sic affecto animo discativi, ut omnis impulsarum vento frondium fragor et omnis circa nascentium sonitus aquarum hoc unum dicere viderentur: bene suades, recte consulis, verum dicis. «Ti ho scritto tutto questo con tanta passione». Il vero sta tutto da una parte? La solitudine non è vita solitaria se non è libera dalle passioni (De vita solitaria 1, V). Ma perché liberarsi dalle passioni se riguardano il piacere della scrittura? 2. Seguiamo più da vicino l’avvicendarsi delle situazioni comparate, il va-e-vieni che proprio nell’atto comparativo dispone una scala di valori e di qualità alternati, due condizioni per antonomasia che si separano idealmente ma si riuniscono nel punto nevralgico di quell’io che, solitario in bosco, non può eliminare davvero l’inquietudine del desiderio, non può pretendere davvero per sé la quiete ottenuta nel non amare le cose che sarebbe impossibile amare senza affanni, fatica, tormento, secondo il rimedio suggerito da Agostino nel De vera religione (35.65). Ciò che stiamo per elencare in sintesi è naturalmente ben noto al lettore di Petrarca, che spero mi perdonerà per la sintesi sinottica. Da un lato, dunque, immaginiamoci (De vita solitaria 1, II) la sospettata nausea dell’uomo che vive nella confusione della propria casa, intento nei propri affari, e che a pranzo ingurgita vivande disposte in una confusione di cibi nostrani e stranieri, frutti del mare e della terra, pietanze di forma e gusto differenti, confusione tale da essere paragonata al caos di cui parla Ovidio nelle Metamorfosi (I, 18-20), e con arte voluttuosa il tutto decorato da corna di serpente velenoso, come antidoto scaramantico contro la morte. A quell’at traente caos, alla seduzione del molteplice, risponde la semplice e scarna mensa dell’io solitario che in silenzio si ciba di vivande comuni, e obbedisce ad una sorta di motto: «et summas verasque divitias nil optare, summum imperium nil temere», non desiderare nulla per non aver paura di nulla. Il tempo, noi ce ne accorgiamo, si annulla mentre l’io solitario sta in 11 attesa di concludere bene la rappresentazione della propria vita: l’annullamento del tempo è emblematizza to in questa figura che sta seduta in attesa del niente, eroe dell’impos sibile, che ha allontanato da sé l’evento della vita (ma che comunque ne mette in gioco un altro: la vita del testo). L’eroe di questo racconto occorre immaginarlo immobile mentre dall’altra parte l’antieroe si agita freneticamente: la fredda statua che elimina il superfluo di fronte all’incontenibile pagliaccio che si copre di superfluo. Se è vero che la felicità non consiste nella confusione delle parole, ma nelle cose e negli atti del silenzio, questo silenzio della contemplazione («contemplatio autem omnis amica silentio est», De vita solitaria 1, III) può davvero opporsi al rumore della vita? Il magnus opinator traccia un preciso diagramma di corrispondenze per opposizione (e ancora la funzione comparativa svolge nella mente del lettore un ruolo quanto meno inquietante, con il sospetto della scena doppia e inseparabile). Sul primo binario del double bind, al contemplativo solitario spettano: eloquenza, lentezza nell’azione, moderazione, silenzio, contem plazione; mentre in corrispondenza la tipologia dell’anti -solitario necessita di: dedizione all’azione, incapacità a tenere discorsi, piacere, frastuono e chiacchiere, vita indaffarata. Ma può davvero il pensiero, tanto nel vuoto della contemplazione quanto nel pieno dell’azione, alimen tarsi solo o dello svuotamento o solo del riempimento dell’essere? 3. Un aspetto prioritario della decostruzione concettuale che alimenta la scrittura di Petrarca lo troviamo in prossimità del tema del piacere. Il principio di piacere è di per sé difficilmente riducibile ad un piacere positivo e a uno negativo, sia pure nella vasta gamma delle cose lecite e delle illecite che designano lo spazio conflittuale fra il solitario e l’indaffarato, che co munque è uno spazio intermedio nel quale, con i segreti conflitti del proprio essere, si colloca volutamente l’io (proprio l’io che, come è detto nella lunga Senile a Boccaccio del 28 aprile 1373, prova piacere persino a stringere la penna fra le mani). Non dimentichiamo infatti che, se la Vita solitaria è scritta da chi non intende stilare un breviario per l’ascesi cristiana, parimenti prevede un lettore che sappia muoversi agevolmente fra i due emisferi del possibile se non ha dimenticato il potere della seduzione che sta nello stesso atto della lettura (e della scrittura). Il lettore della Vita solitaria non può essere paradossalmente un contemplativo puro, e invece deve condividere questo viaggio di andata e ritorno continuo, e l’opinione, persuasivamente occulta, che l’immag ine ottenuta non potrà essere designata da un taglio netto in due: la stessa inquietudine del lettore moderno, i suoi dubbi, la sua sete, non potrebbero del resto ammettere il taglio risolutivo fra mondo infernale e 12 mondo ideale, fra corrotto e incorrotto, perché al centro di tutto sta l’ambigua e insieme confortante presenza dei piaceri dell’io. Il magnus opinator del testo e nel testo ricorda inoltre implicitamente che lo spazio e il tempo della vita solitaria costituiscono lo scenario per quello spazio-tempo prodotto nella scrittura, ponendo il linguaggio di fronte alla realtà, l’immagi nario come vita attiva rispetto all’inazione fisica che per il corpo dell’io tuttavia non va intesa come tabula rasa, ma come reimmissione in circolo e sul piano differenziato della scrittura protetta dalla solitudine, evento produttivo all’opposto della consu mazione di ogni piacere fine a se stesso. La contemplazione della vita del solitario è un invito ad aprire gli occhi interiori, per vedere le cose invisibili (De vita solitaria, 1, V), invito allungato sulla lunghezza d’onda (e alibi a discolpa) della presenza cristica, che in effetti alluderebbe al potere dell’immaginario invisibile, che accresce il visibile, sta al di là d’esso, quando l’io non si accont enta della cruda natura delle cose. Tuttavia del potere dell’immagi nario all’interno della contemplazione nel nostro trattato non si parla minimamente. Vi si enumerano comunque (1, VI) le attività che riempiono il vuoto del solitario: «Mittere retro memoriam», proprio come viaggio nel tempo di una mente che, come sappiamo, accoglie i testi nella memoria; il culto dei classici e degli autori che letteralmente Petrarca invita a diseppellire dalle macerie del tempo, di modo che la meditazione infiammi il desiderio; e infine alternare lettura a scrittura, avendo come fine proprio quello di scrivere opere nuove per la posterità. Del resto i consigli più specifici sull’uso della memoria e sulla capacità di leggere e annotare durante la lettura, sono contenuti nel Secretum, dove Francesco si fa dire dal suo Agostino che occorre annotare con precisione, e stare attenti a non fidarsi eccessivamente della capacità della mente, eccitata o bloccata, così chiosando nascondere bene il tutto «in memorie penetralibus» (Secretum II, 122). Questi recuperi della memoria ci dicono che il tempo non esiste in assoluto, e che l’opera degli anti chi continua al presente, ha bisogno del lettore contemporaneo e dello scrittore che se ne serve. 4. Il piacere e i piaceri non sono un problema facile da risolvere, soprattutto per chi in effetti, e soprattutto nella scrittura, non vi rinuncia. In questa cornice all’avvertimento di Quin tiliano, che nelle Institutiones oratoriæ (X, 3, 22) dice che un luogo piacevole come il bosco distoglie dallo studio, il narratore opinator della Vita solitaria risponde in prima persona, con l’esempio di retto della propria esperienza. In nessun altro luogo come nei boschi e sui monti il suo ingegno si esprime felicemente tanto che gli nascono 13 magnifici sensi, idee alle quali felicemente si adattano parole calzanti (1, VII). Lo spazio del solitario Petrarca, dunque, è qualcosa che lo rende sicuro, allontana le paure, e produce delectatio (1, VII), anche perché agisce sulla consapevolezza del presente. E proprio ripensando a quei vecchi che considerano una disgrazia aver dovuto rinunciare al piacere provato fin dall’adolescenza, voluptatis nomen, il piacere della percezione e dei sensi (1, VIII), il narratore vi accosta per sostituzione il piacere della vita solitaria che preserva dai mali e dal tedio: solitarie vite iocunditas. In questo pensiero è implicita la percezione del tempo in sé, il sentimento del tempo che non corre verso il consumarsi del domani, tanto che il solitario si dice in grado di decidere sulla totalità del proprio tempo, e si fida soprattutto dell’oggi, del presente, perché naturalmente non può abbandonarsi alle promesse del futuro. Ecco elaborata una sorta di poetica del presente che risolve il problema del tempo, delle sue manipolazioni, del suo dominio sull’energia dell’uomo. Anzi, il solitario dice esplicitamente di dominare il tempo: e non sarà anche perché ha creato una propria alternativa alla dimensione del tempo, elaborandolo all’interno della scrittura, quel te mpo che se fugge comunque ritorna nel testo? Lo spazio in cui agisce la contemplazione dove hanno origine l’atto creativo del pensiero e quello della scrittura non può che essere un ritiro appartato: la stanza o la cameretta. Questa cameretta petrarchesca è un luogo con una duplice funzione. Da un lato è il luogo ben protetto, circondato da uno spazio protettivo, che consente di isolare il tempo della scrittura e quello della lettura dal caos del mondo, mentre il linguaggio impone le proprie regole interne di tempo, di spazio e di movimento. Dall’altro è la cameretta talamo entro la quale è il lettino sul quale l’autore dei Psalmi pœnitentiales si immagina il pianto per i peccati (salmo II). Così come nel celeberrimo sonetto CCXXXIV del Canzoniere il lettino e la cameretta, che già erano il rifugio dalle tempeste diurne, nascondono di notte segretamente le lacrime amorose. E allora che succede? È ribaltata la poetica del solitario: l’io cerca rifugio nel «vulgo a me nemico e odioso» (v. 12), perché ha paura di ritrovarsi solo, e l’interiorità esplode nell’esteriorità. Se nella Vita solitaria i boschi, e gli alberi, e le creature, non parlano, e non appaiono mai, ciò vuol forse dire che quel bosco con tutte le sue inquietanti e caotiche diversioni è neutralizzato dalle necessità della stanza del solitario, tanto da divenirne un prolungamento? Non per caso proprio a conclusione dell’opera lo stormire delle fronde mosse dal vento è il mormorio delle acque tutt’intorno, unum dicere viderentur, testimoniano coralmente la veridicità di tutta la meditazione, così almeno negli apparenti propositi dell’autore. 14 La difesa dell’idea di vita solitaria, nel bosco protettivo come prolun gamento dello spazio della cameretta, tenta di disegnare anche con prove esemplari (i personaggi biblici nella solitudine dei momenti cruciali della loro esperienza) la roccaforte resistente come rifugio e salvezza dall’irrompere del caos. In questo stesso disegno, però, il magnus opinator non può e non vuole negare che comunque il silenzio del bosco parla, che il tempo parla come memoria e come presente, che l’io mente e psiche parla, che il testo parla con le sue innumerevoli strade, anfratti, recessi, porte e archi. È forse questa la folla di parole e di linguaggi, che renderebbe inutile ogni resistenza, sono queste le presenze indiscrete e multiformi che sotto sotto ridanno vita alla vita solitaria. Riferimenti bibliografici per il testo petrarchesco M. Noce (a cura di), De vita solitaria, introduzione di G. Ficara, Mondadori, Milano, 1992; E. Fenzi (a cura di), De sui ipsius et multorum ignorantia, Mursia, Milano, 1999; E. Fenzi (a cura di), Secretum, Mursia, Milano, 1992; R. Gigliucci (a cura di), Salmi penitenziali, Salerno editrice, Roma, 1997; M. Santagata (a cura di), Canzoniere, edizione commentata, Mondadori, Milano, 1996. 15 16 MARIO ANASTASI Il linguaggio umano dell’anima in Petrarca Pátos e poièsis come confronto con il sé e con l’altro, oltre la contrapposizione tra temporale ed eterno, nella polemica con l’aristotelismo Nel XIV secolo, dopo le dispute intorno all’eternità del mondo (Al berto Magno, Tommaso, Bonaventura, Tempier, Sigeri) e sulla visione beatifica (Giovanni XXII, Benedetto XII, Roberto d’Angiò), il quadro teologico si arricchisce di nuove speculazioni che alimentano in Petrarca quell’intima dis sonanza che riflette il non superamento sul piano soggettivo di quella sottile, ma irresolubile contraddizione fra l’introspezione del mondo antico imperniato su Platone e sul neo platonismo, rivisitato soprattutto attraverso Cicerone, e la meditazione, non meno profonda e autentica, sulle opere di S. Agostino e sugli sviluppi del pensiero francescano. Questa insanabile aporia, fortemente radicata nel pensiero umanistico-rinascimentale, nonostante l’impegno di molti intellettuali più del Petrarca capaci di sviluppare in forme meno soggettive la ricerca filosofica, da Cusano, a Pico, a Marsilio, da Erasmo a Bruno, Telesio e Campanella, interessa non solo problematiche etiche e teologiche, ma è presente anche nel mondo più propriamente scientifico e nello stesso Galileo, in cui il platonismo, non meno dello sperimentalismo legato ad Archimede e agli influssi del naturalismo aristotelico, eserciterà un fascino decisivo per porre le basi teoriche del suo concetto di scienza. Il sentimento cristiano, soprattutto legato alla speculazione agostiniana, e il platonismo, esaltato dal culto per il mondo antico, anche se costituiscono due sistemi di per sé irriducibili l’uno all’altro, contengono tuttavia al loro interno elementi speculativi, slanci mistici, riflessioni che, di per sé, ossia al di fuori di una visione totalizzante, possono intimamente correlarsi e dar luogo ad una visione soggettiva ed intuitiva del mondo, ricca di forti stimoli e di profondi fermenti. Nell’universo culturale che caratterizza la produzione poetico -riflessiva e l’afflato misti co di Petrarca sarebbe erroneo stabilire una netta e schematica cesura: medievale tutto ciò che è autenticamente religioso, umanistico o 17 pre-umanistico ogni aspetto in cui la figura di Laura si rifà ad una sfumata ed onirica sensualità erotica, così come nel costante dialogo del poeta con i classici non c’è un’assoluta polarità laica contrapponibile ad una esclusiva scelta religiosa, per sé caratterizzata dal tentativo di seguire un cammino più fortemente scandito da suggestioni cristiane. Senza voler sottovalutare la presenza di forze contrastanti nella poetica e nel pensiero di Petrarca, questi momenti ci sembrano piuttosto intrecciati e polivalenti, così come, in contrasto con un’ap parente “monodicità” del testo del Canzoniere, esso appare composto da una complessa testura di suoni, la cui potenziale polifonia viene armonizzata in un sottile e velatissimo recitativo, nel quale l’anim a è in costante ascolto di se stessa ed esprime le più sottili vibrazioni. A questo riguardo, Raffaele Amaturo pone in risalto sia l’intensità evocativa del Canzoniere, sia la maggiore duttilità del volgare, tanto più duttile e docile del latino, tanto più adatto, nella sua relativa novità e freschezza, a cogliere e ad esprimere analogicamente l’on deggiante ritmo interiore dell’anima. 1 Esiste una risonanza di voci, senza la quale la poesia e l’opera del Pe trarca non potrebbero essere così ricche di echi, di memoria, di introspezione, elementi che ne costituiscono un aspetto insopprimibile; infatti, come sottolinea Marco Santagata si la poesía medieval tenía en su centro a la amada, de modo que el sujeto no era más que el destinatario de los efectos, negativos o positivos de aquella, el motor de la lírica petrarquista es el yo del poeta.2 In questa lunga e articolata catena di scarti, di contrasti sfumati, lo stile non solo giunge alla forma perfetta, ma è strumento interiore, voce soggettiva fortemente connotata da motivi ideologico-esistenziali che guarda se stessa e si specchia non in modo narcisistico, perché da immagine si converte in icona, per poi ripercorrere il cammino a ritroso, ogni volta apportando e componendo nuovi frammenti di conoscenza di sé. Nel Secretum, dialogo in cui si confrontano il confessore Agostino (la coscienza rivolta all’assoluto) e il peccato re (l’anima confusa, at tratta da un volere limitato e quindi negativo), tutti gli argomenti addotti dal Santo vengono tratti dagli autori latini, così come Petrarca si difende chiamando come testimoni gli stessi personaggi evocati dall’accusatore. Se da un lato è chiara 1 R. Amaturo, Letteratura italiana, Laterza, Bari, 1971. M. Santagata, [in:] Actas del Seminario Internacional Complutense, N. Extraordinario, Madrid, 2005. 2 18 la diversa prospettiva con cui ogni testimonianza è vagliata ed invocata per sostenere i propri argomenti, è rilevante che i due protagonisti si collochino entrambi in un luogo ed in un tempo ideali (il mondo antico), inoltre, se utilizziamo l’analisi di Greimas, almeno alcune delle figure attanziali sono intercambiabili. Di sicuro lo sono gli aiutanti, che passano da un campo all’altro senza una netta demarcazione, mentre fra le al tre vi sono opposizioni pù marcate. In questo senso potremmo creare uno schema semplice, ma non privo di suggerimenti interessanti: Dio è il donante, e la Verità, una sua emanazione, è figura femminile, silenziosa, che si oppone a Laura-alloro-poesia, quindi voce poetica. La Verità si connette poi strettamente con l’oggetto, ossia la salvezza, mentre Laura, per opposizione, rappresenta la dannazione; Agostino è il soggetto che si rivolge a Petrarca, il destinatario; infine l’opponente è il peccato. Pur riducendo il testo ai suoi elementi essenziali, in senso strutturale, notiamo che tra il destinatario ed il soggetto, basato su un rapporto di subordinazione del primo rispetto al secondo, si instaura una relazione paritaria, sul piano del linguaggio e dei riferimenti culturali, e appare evidente la non fedeltà rispetto alle Confessioni, modello a cui Petrarca si ispira, dove, dal momento della conversione, le citazioni appartengono ai Libri testamentari e alla tradizione cristiana. Nello sdoppiamento dell’io, che rende possi bile il dialogo, anche il santo cristiano acquista una sua atemporalità, nel senso di una maggiore aderenza ai valori del mondo classico. L’osservazione di Ugo Dotti, secondo cui «proprio qui Agostino, più che mai stoico, più che mai Petrarca, si leva ad ammonire il disperato discepolo»3, conferma l’idea di base che nel Secretum non bisogna soltanto soffermarsi sulle differenze categoriche tra accusatore e accusato, ma fissare i punti di raccordo, scoprire la trama nascosta delle convergenze, perché ad un livello profondo il linguaggio svela sotterranee assonanze. La riflessione sui limiti della cultura e dell’erudizione – e nello stesso tempo la sua tenace e irrinunciabile difesa – nascono dalla constatazione che ogni conoscenza soffre di un male assoluto: un’insuperabile incompletezza. Eppure, pro prio all’interno di questo baratro in cui è destinato a cadere ogni tentativo della ragione umana di raggiungere una verità assoluta, si crea lo spazio vitale della scrittura e del suo perpetuarsi, come nota Javier del Prado Biezma: […] asumida la muerte como necesidad vital, la fama lo que en francés se llama la re-nommée, permitiría la perpetuidad, no ya del ser como existencia, pero sí de el como nombre. 3 U. Dotti (a cura di), Francesco Petrarca. Il mio segreto, Rizzoli, Milano, 1981, p. 30. 19 […] El segundo nivel contemplaría el poder de la escritura en sí […] la escritura como prolongación, en profundidad poética, del amor y del ser que lo sustenta.4 Il terzo livello, sempre secondo Javier del Prado Biezma, è quello dell’eternità, intesa come constante rivisitazione, attaverso la scrittura del passa to; per cui all’interno del Secretum si presenta una dialettica circolare e conflittiva fra il tempo della scrittura, quello del piacere e l’età contemporanea, pur nella prospettiva di un piano metafisico: fundamenta el punto en el que nace Secretum como conflicto, es decir, como problema de vida y como problema narrativo, pues, como sabemos, no hay narración si no hay conflicto por resolver, es decir, si no hay secretum por desvelar.5 Lo spazio relativo dell’umano si allarga sino a una dimensione atemporale e l’antichità diviene il luogo di un presente inesteso, di una sospensione nell’attesa di futuri eventi salvifici, il limen che divide, ma senza separare irrimediabilmente l’uomo da Dio. Di fronte all’esitazione di Petrarca, l’esortazione di Agostino a non in dugiare, pur se decisa, non si contrappone più al poeta con i toni ultimativi dei precedenti interventi, e sembra in qualche modo attenuata dalla constatazione che alle suggestioni della saggezza degli antichi è anch’egli legato da un riconoscimento di valore, anche se resta chiara l’esclusione di quel mondo dalla salvezza divina. Vi è infatti una distinzione fondamentale fra mondo antico reale e sua proiezione al di fuori del tempo: la consapevolezza dell’insuffi cienza della ragione in sé ed il senso della colpa come coscienza di una condizione non definitiva e sufficiente rispetto al fine ultimo dell’uomo. L’attesa, come osserv a Agostino, non può prolungarsi sino a rendere definitivo l’allon tanamento dell’uomo da Dio. In questo senso il dolore, la disperazione sono guide indispensabili per Petrarca uomo di fede, testimoni di un malessere capace di generare in lui un percorso senza limiti, un ozio dinamico in vista di una salvezza futura. Nelle battute finali del Secretum il giudizio resta così sospeso, e la rappresentazione del dramma dell’anima non si risolve in una netta demarcazione, ma ripropone il dissidio in una forma attenuata, in cui l’ultima parola spetta alla volontà del poeta, perché, ad un livello profondo, tra il tempo-luogo della conversione totale e quello delle humanæ litteræ, più che una sterile aporia, c’è un contrasto ricco e fertile. Come nella famosa epist ola 4 5 J. del Prado Biezma, [in:] Actas del Seminario Internacional Complutense, op. cit., p. 277 Ibid., p. 274. 20 dedicata a Dionigi di Borgo San Sepolcro, il centro del Secretum è la salvezza non vista nella sua assoluta e stretta verità, ma all’interno di un’anima in cui la memoria, pur aspirando ardentemente a Dio, non sa e non vuole ancora liberarsi di sé, mentre, nelle Confessioni, Agostino, riflettendo sulla memoria stessa, auspica il suo distacco dall’anima, mediante la Grazia Divina, perché nell’affi darsi totalmente a Dio giunga al massimo della visione beatifica: è quel momento di oscura tenebra così ben rappresentato da San Juan de la Cruz, in cui il sé, perdendo di fronte alla presenza di Dio la sua intellettuale essenza, è privato della luce limitata della sua visione, per ricevere una nuova illuminazione. Neppure nell’ Otio Solitario o nelle epistole a carattere più profondamente religioso, molte delle quali sono dedicate al fratello Gerardo, si trovano in Petrarca momenti di così intenso e mistico abbandono; vi è piuttosto la vigile consapevolezza dei sentimenti più sfumati, la vitale presenza del “foro” degli auctores, realtà che sembra rappresentare un punto intermedio tra lo scorrere mondano del tempo e l’eternità dell’essenza divina, e sta dinanzi a lui con la polifonia delle sue voci, in un susseguirsi di dialoghi interiori che convergono nel centro della memoria, fino a ricongiungerlo ad una dimensione platonica del passato, inteso come reminiscenza di un mondo ideale. È là, nella sublimazione del tempo di cui parla Petrarca, ormai vecchio, in un’epistola a Fran cesco di Sant’Aposto li come tesoro prezioso da conservare e moltiplicare, che si colloca il suo animo infiacchito dagli affanni, per sospendere, nella lunghezza dilatata dell’istante, l’incessante affaccendarsi della vita e il rumore tumultuoso del volgo. Già nella dedicatoria: «Ad Franciscum Sanctorum Apostolorum, de Laxandis Temporum Angustiis Sistendaquæ Vite Fuga»6 (A Francesco di S.A., come si possa allungare la brevità del tempo e fermare la vita che fugge), si coglie il senso inequivocabile di una sospensione, di una Epoché, che mette tra parentesi la vita stessa, non per negarla, ma per contemplarla nello specchio dell’anima: che farò dunque, e che è questo mio proposito di allungare la vita? Eccotelo, prima di tutto bisogna disporre l’animo ad amare la meta [… ] Quando l’animo avrà imparato a non temere le cose vane, ad amare quelle secondo natura, a desiderare l’inevitabile […] È un vivere quando la vita è compiuta, come dice Seneca; e di tal vita, io credo nulla è più dolce, perché nulla allora ci spaventa o ci sollecita o ci tormenta […] il ricordo del passato e la speranza del futuro accrescono il pre sente benessere.7 6 7 Francesco Petrarca, Familiarum Rerum Libri, Sansoni, Firenze, 1975, p. 1117. Ibid. 21 Un tempo in cui si riflette un’umanità pensosa, alla ricerca di una sua terrena pace, limitata, ma sufficiente per raggiungere, se non la salvezza, almeno la virtù. Ed è sempre in questo tempo sospeso, dedicato più allo studio che alla gloria, alla conversazione con se stesso, reso nobile dall’invisibile, ma non illusoria presenza dei classici, che si fa strada a poco a poco un sentimento di amicizia per un mondo ormai svanito nella storia, ma non nell’anima, e si af faccia, forse per la prima volta con tanta chiarezza, un atteggiamento relativistico che riguarda la cultura e tocca temi rilevanti per la stessa fede. Significativo, a questo proposito, è un brano del De Vita Solitaria sugli eremiti dell’India. Dopo aver parlato a lungo dei costumi di questi uomini parchi e solitari, e di vari aneddoti sulla loro saggezza, Petrarca fa un lungo elenco di ciò che riprova in loro e considera autentiche eresie, alla fine del quale cerca delle affinità, dei motivi di lode: […] ma superbia importuna è invece il fatto che affermano di essere senza peccato […] È questo che mi dispiace della setta. Eppure so che quel vecchio che rimase arditamente di fronte ad Alessandro, se fosse qui, darebbe anche a me una magnifica risposta per appoggiare la sua eresia. Per contro, mi piace quel disprezzo del mondo, che non può essere maggiore del giusto, mi piace la solitudine e la libertà, che presso nessuna gente è tanto grande, mi piace il silenzio, il riposo, la quiete, quell’intenso pensare, mi piacciono la purezza, la sicurezza, perché senza arroganza, mi piace l’imparzialità, e quell’aspetto sempre costante, e l’assenza di ogni timore e desiderio, mi piace q uell’abita re nelle selve […] Mi colpisce, lo confesso, quel colloquio importantissimo di tutti i Bramani, specialmente di Dondami, tenuto con Alessandro […] In questo colloquio non soltanto a lui, ma a quasi tutto il genere umano vengono rimproverate innumerevoli colpe.8 In questo brano e nelle pagine in cui vengono messi in risalto tutti gli aspetti che Petrarca approva e condivide (placet significa essere d’accordo) riguardo alle credenze religiose dei Bramani, viene sviluppata un’analisi assolutamente originale rispetto ad altri testi coevi. Innanzi tutto la scelta del testo in sé, De Moribus Brachmanorum Liber, appare singolare e non priva di un suo valore intrinseco proprio perché lontana dagli orizzonti culturali del nostro autore, attratto eminentemente dalla classicità greco-latina e dalla patristica cristiana. In secondo luogo perché le sue osservazioni mettono in risalto un’apertura critica che non ha prece denti. In nessun commentatore medievale troviamo un’analisi cosí fortemente incentrat a sulle affinità e le differenze fra due modi di sentire i valori fondamentali della spiritualità e il 8 F. Petrarca, De Vita Solitaria, Ricciardi, Milano-Napoli, 1955, vol. VII, pp. 517-518. 22 suo rapporto con il divino; non certo nei testi a noi noti dei grandi viaggiatori medievali, da Marco Polo9 a Giovanni da Pian del Carpine10, da Guglielmo di Rubruck11 a Oderico da Pordenone12, dove, pur non mancando una forte curiosità e una certa capacità d’analisi, non si esce da un giudizio basato su principi fortemente condizionati dalla tradizione e dall’ortodossia cristiana. E neppure nello stesso Dante, che nel Canto XIX del Paradiso propone e riassume il secolare travaglio della spiritualità cristiana sull’arduo problema della salvezza dei pagani, si trovano giudizi così aperti all’incontro con culture diverse. Se confrontiamo il De Vita Solitaria al De Moribus, che Petrarca aveva letto da erudito e da filologo – egli infatti dubita che sia opera d’Ambrogio e lo attribuisce a Palladio – vi sono due affermazioni che mettono in risalto delle profonde concordanze, una dell’anonimo autore a commento del lungo discorso di Dandani ad Alessandro: «erat enim in Dandani spiritus Dei»13, l’altra dello stesso bramano: «Nobis neces sariæ non sunt civitates, in quibus latronum moltitudo colligitur»14. La convinzione che le menti più illuminate del mondo antico fossero pervenute ad una sia pur limitata visione divina, è ribadita numerose volte da Petrarca perché si basa sulla sostanziale uguaglianza dell’animo uma no ed è parte integrante del suo spirito d’umanista. Riguardo alla seconda affermazio ne, essa rappresenta la riprova di un’assonanza, di una sorta di complicità tra solitari, anche se Petrarca prende le distanze da un isolamento assoluto e conia l’ossimoro della solitudine socievole. Va sottolineato, nel lungo brano citato, soprattutto quel magnifice responsurum, dove l’avverbio risulta veramente straordinario, visto che si tratta di mettere in questione il principio cristiano su cui si basa tutto il cammino salvifico dell’umanità 15. Di fronte alla drammaticità del peccato originale, la difesa della propria innocenza, la negazione della macchia, in nessun caso poteva apparire “magnifica” ad un uomo di fede e, anzi, l’aggettivo che traduce l’avverbio lati no potrebbe risultare eccessivo e inappropriato a più di un teologo del nostro presente. Vi è qui la chiara evidenza di un Petrarca che, pur aspirando ad un tempo assoluto e ad un luogo eterno, ha saputo creare, attraverso il dialogo aperto con il mondo 9 M. Polo, Il Milione, Mondadori, Milano, 1982. G. da Pian del Carpine, Storia dei Mongoli, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, 1989. 11 G. di Rubruck, Viaggio nell’Impero dei Mongoli , Marietti, Genova-Milano, 2002. 12 Lucio Monaco (a cura di), Oderico da Pordenone. Viaggio in India e Cina, Dell’Orso, Alessandria, 1990. 13 De Moribus Brachmanorum, Scheiwiller, Milano, 1956, p. 21. 14 Ibid., p. 25. 15 Secondo un’ottica cristiana l’umanità n ella sua interezza è posta in uno stato di peccato dall’errore originale. 10 23 antico, un’aspazialità ed atemporalità re lative, in cui il silenzio, la solitudine e il raccoglimento, proiettati nella dimensione dell’ otium e dell’ amicitia, creano una nuova formam mentis, capace di spingersi sino ad una parziale e non del tutto consapevole relativizzazione dell’ortodossia cristiana, e di stigmatizzare, nello stesso tempo, con l’introiezione del silenzio, una certa vacua pedanteria che avevano assunto in quel tempo alcuni studi sulla natura, basati su preconcetti privi di fondamento. Possiamo rintracciare nelle opere di Petrarca una linea ideale che, partendo da Platone, soprattutto dal Timeo, giunge sino a Cicerone e a Seneca16, per poi trovare in Agostino una possibile ma problematica conciliazione con i valori cristiani. Nel ribadire i capisaldi del suo credo e del suo pensiero, egli fa sfoggio di una forte capacità dialettica e costruisce una sorta di etica positiva, di dialogo aperto, in cui i principî della religione vengono visti secondo una diversa prospettiva, perché sono posti in relazione ad una virtù umana che contiene una sua positività intrinseca, anche se non sufficiente a ottenere la salvezza e la beatitudine: Bisogna amare la virtù per sé sola. È un’antica massima d’origine platonica che circola continuamente in Cicerone e in Seneca e che, allo stesso modo, circolerà nell’epistolario petrarche sco.17 La prospettiva da cui Petrarca osserva il mondo è quella interiorità attraverso la quale entra in contatto con l’altro da sé, per recuperare l’essenza più profonda del suo essere. Questo atteggiamento, sia pure in forme diverse, si estrinseca e acquista nuova coscienza nel ‘ 500, attraverso l’opera di pensa tori a volte molto dissimili per formazione e cultura. Da un lato la fondazione della Seconda Scolastica operata da Fra’ Bartolomé de las Casas, Francisco de Vitoria e Domingo de Soto, fortemente legata al pensiero tomista, ma ricca di riferimenti al volontarismo francescano, giunge con i suoi maestri ad affermare, in gradi e forme diverse, il diritto degli Indios all’autogoverno, e al contrario a mettere in risalto l’assoluta inconsistenza delle pretese de lla corona a voler governare sulle Indie Nuove, semplicemente in base al principio della conversione coatta. Dall’altra Montaigne, fortemente attratto dallo stoicismo, partendo da una critica serrata ad una ragione basata su leggi 16 «Senonché è sempre lo stesso Petrarca a farci avvisati che […] la sua ‘imitazione’ era in realtà ‘rigenerazione’. “Io ho letto Virgilio, Orazio, Boezio e Cicerone non una sola vo lta, ma mille; e non li ho scorsi, ma meditati e studiati con infinita cura […] se pure in futuro non li leggessi più, resterebbero per sempre in me, avendo gettato le loro radici nella parte più intima dell’anima mia”. Qui, con la sola sostituzione del n ome di Seneca a quello di Boezio, abbiamo davvero l’autoanalisi degli ‘auctores’ petrarcheschi». Ugo Dotti, La città dell’uomo, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 47. 17 U. Dotti (a cura di), Francesco Petrarca. Il mio segreto, op. cit., p. 11. 24 rigorose e immutabili, perviene ad un’analisi illuminata della vita morale e sociale, facendo della continua scoperta di se stesso uno strumento di ricerca che va oltre i limiti del suo fondamentale scetticismo. In Petrarca non c’è di sicuro la consapevolezza matura e sistematica di questi pensatori, eppure non si può negare in lui un certo relativismo, che, come abbiamo visto, non solo abbraccia gli antichi, ma si rivolge anche ad altre realtà ed è affermato con entusiastica eloquenza; posto di fronte ai misteri dell’anima , ne esalta l’essenza problematica, l’afflato poetico, per questo restringe il campo dell’aristotelismo, e attacca il cavilloso sillogizzare del medico stolto, che vorrebbe, con le sue sgangherate proposizioni, dimostrare l’inutilità della poesia. Allo stesso modo egli difende gli argomenti della fede contro l’arida analisi della ragione, nel De Sui Ipsius et Multorum Ignorantia, quando i suoi avversari pensano di potersi fare beffe dei testi sacri e di basare le proprie conoscenze unicamente su lunghe catene sillogistiche. Riguardo alle invettive, il discorso contro i medici e gli averroisti rientra in una ben precisa cornice. L’epistola dedicata al Papa Clemente VI non solo è un esempio lampante di quanto il poeta spregiasse l’arroganza di molti medici, ma un vero atto d’accusa contro l’in consistenza scientifica e filosofica di una certa scienza medica. Nell’invettiva, accanto all’esal tazione della poesia e alla critica delle arti meccaniche, c’è un attacco frontale all’Aristoteli smo, che proprio a Padova aveva (e avrà fino al Seicento), uno dei maggiori centri di diffusione; tradizione di antichissima data per Venezia e il Veneto, se già nel XII secolo il veneziano Giacomo Veneto Greco tradusse gli Analitica Posteriora, fino a allora sconosciuti in occidente, così come veneziano sembra l’enigmatico Cerbano che dal 1118 a 1123 fu alla corte di Costantinopoli, e lavorò alla traduzione di testi greci. Se ci riferiamo ad un’epoca vicina o coeva a quella del Petrarca, personaggio centrale dell’Un iversità di Padova è Piero D’Abano (1275 1315/16), a torto considerato un seguace di Averroè, medico e astronomo, profondo conoscitore di Alberto Magno, e traduttore di Ibn Ezra, espertissimo di astrologia giudiziaria, di magia e di necromanzia. Fu accusato di eresia per il suo tentativo di spiegare secondo le leggi naturali i miracoli di natura, e morì in prigione. La sua opera maggiore, il Conciliator, anticipatrice di alcune tematiche cinquecentesche, fu pubblicata postuma nel 1470. La sua figura, e quella di altri studiosi di scuola aristotelica, ci danno del mondo universitario padovano, compreso fra il XIII e XVI secolo, un quadro complesso e articolato, capace, nei suoi sucessivi sviluppi, di influenzare il medico inglese William Harvey, che porrà nel seicento le basi di una nuova medicina, e la teorizzazione della scienza moderna per opera di Galileo. A chi ritenesse che queste considerazioni potrebbero far apparire antiquate e 25 antiscientifiche le critiche di Petrarca, vorrei ricordare un’os servazione di Garin proprio a proposito delle obiezioni sollevate dal nostro autore in un celebre passo del De ignorantia: Allo storico spetta il compito di mettere a fuoco il variare di certe connessioni e di certi metodi, secondo lo sviluppo del pensiero europeo e, insieme, l’emergenza di bisogni non sodisfatti, di vuoti non solo morali, ma innanzi tutto teoretici. La domanda di Petrarca agli aristotelici di Padova non è l’esercizio retorico di un poeta: noi sappiamo da voi quanti peli ha la coda del leone, ma qual è il senso e il destino della vita, quali il valore e il dovere? Domani, a chiedere, non sarà più Petrarca ai fisici e logici padovani, ma Keplero a Galileo, quando vorrà sapere, perché Giordano Bruno, che non credeva né al Dio delle scritture, né all’immorta lità, aveva scelto di morire per quella che riteneva la verità?18 Le domande che vengono poste nei due testi polemici non contrappongono la scienza alla poesia ma, piuttosto, condannano con estrema acutezza la confusione fra filosofia, poesia e scienza, quando si attribuisce alla ragione umana un potere onnicomprensivo, un’irrazionale onnipotenza. Negare alla poesia ogni significato e valore, non è un’operazione che nasce da argomenti scientifici, ma un esercizio di puro cinismo; il voler racchiudere tutte le problematiche filosofiche in un procedimento scientifico, significa non tanto e non solo banalizzare la filosofia, quanto piuttosto utilizzare male la scienza, perché se ne snaturano il metodo e se ne falsano gli scopi. In Petrarca non c’è una precisa visione teoretica sui limiti della filoso fia e della scienza, c’è però la chiara intuizione d’un confine non valicabile, d’un accanita pedanteria che vorrebbe sottrarre all’uomo le domande fonda mentali: Tutte queste nozioni o sono in gran parte false […] oppure non sono state di certo verificate da chi le riporta […] non contribuiscono assolutamente per nulla alla nostra felicità. A che può servire di grazia conoscere le particolarità delle belve, degli uccelli, dei pesci, dei serpenti, e ignorare invece e disprezzare la natura umana, lo scopo della nostra nascita, da dove veniamo e dove andiamo?19 Privarsi di una capacità speculativa, che presuppone una visione problematica del mondo e dà una direzione alla nostra ricerca, fa sì che la mente 18 E. Garin, [in:] Aristotelismo veneto e scienza moderna, Antenore, Padova, 1983, vol. I, p. 13. 19 Francesco Petrarca, De Sui Ipsius et Multorum Ignorantia, UTET, Torino, 1958, vol. I, pp. 1039-1041. 26 perda la capacità di orientarsi: «A furia d’immaginare affidata al caso qualsiasi cosa, non lasciano posto alla ragione»20. Non vi è nell’opposizione del Petrarca ai quattro averroisti veneti, un elogio della fede e dell’arte poetica, intesa come negazione dello studio della natura; egli infatti ribadisce, nell’ambito del discorso scientifico, la necessità della dimostrazione e della sperimentazione: […] e talvolta, sorridendo, chiedevo come mai avrebbe potuto Aristotele sa pere cose, di cui non esiste conoscenza razionale e non è possibile una conferma sperimentale.21 L’esaltazione del bene e della poesia è connessa all’essere stesso di Petrarca, al suo tendere verso una ricerca interiore costante e interminabile, non affidata al caso, ma affinando in sé sempre più l’eloquenza: la parola perfetta, il discorso dialettico sempre teso all’armonia at traverso la riscoperta interiore dei classici e mediante la reminescenza contemplativa del bello e del buono, non separati, ma della stessa sostanza, sino a ricongiungersi a Dio. Eloquenza, dunque, come parola sacra, convincimento espresso in forma chiarissima nell’epistola 4ª del primo libro, dedicata al fratello Gerardo: La poesia non è affatto nemica della teologia. Ti meravigli? Poco ci manca ch’io non dica che la teologia è la poesia di Dio […] Ora, di questo genere di eloquio è composta tutta la poesia, chi lo nega? Là si tratta di Dio e delle cose divine, qua degli dei e degli uomini.22 Un tema fondamentale del Rinascimento, quello della poesia-teologia, è perfettamente enunciato in questo brano. Un attacco così sistematico a quattro seguaci di Averroè, uno degli autori più studiati nell’Università di Padova. Il problema va inquadrato nel l’ambito di una polemica sull’aristoteli smo che aveva impegnato i più importanti studiosi del XII e XIV secolo. Petrarca era vicinissimo alla tradizione filosofica dei francescani che avversava l’idea di un mondo eterno (S. Bona ventura, Stefano di Tempier). In questo senso egli si pone in contrapposizione sia rispetto al possibilismo tomista, sia in relazione alle posizioni estreme dei dialettici (Guglielmo da Ockham). Il suo pensiero nasce da un’esigenza morale intesa come conoscenza di sè: La sua visione etica, che presuppone la comunione degli uomini di tutti i tempi […] sulla comu ne esperienza esistenziale dell’infelicità e dell’insuffi 20 Ibid., p. 1043. Ibid., p. 1063. 22 Francesco Petrarca, Familiarum Rerum Libri, op. cit., p. 663. 21 27 cienza di ogni possibile sapere, permette infatti l’apertura pressoché illimi tata al patrimonio della sapienza antica.23 L’intuizione creativa, insita in o gni autentico spirito meditativo, è elemento di comunione oltre le barriere del tempo e delle culture, fonte, insieme alla comune condizione esistenziale del dolore, di un’illimitata polisemia, ful cro di ogni linguaggio aperto al sé e all’altro. La funzione poetica è insopprimibile perché nel pensiero poetico stesso si origina la filosofia: «Anche i filosofi più grandi attestano che presso i popoli i primi teologi furono i poeti, e lo conferma l’autorità dei santi, e lo indica se non lo sai il nome stesso di poeta»24. La poesia è crezione – 1" –, la più alta manifestazione dell’anima, in cui si rivela l’origine divina, perché essa di per sé va oltre la natura, in quanto si manifesta come intuizione, ed è simbolo vivente dell’onniscienza e della creatività divine, così, relativamente all’ accusa rivolta ai poeti antichi di aver cantato le gesta degli dèi, Petrarca espone il suo convincimento: […] ammettiamo che l’abbiano creduto, sbagliarono […] però non era colpa della poesia, ma della natura umana, e la loro colpa era un portato dei tempi e del loro intelletto, non dell’arte, come ho già detto. 25 In un altro passo cita il De civitate Dei di Agostino a proposito di Virgilio: «Viene dato da leggere ai ragazzi perché, grande com’è, e celeberrimo e migliore di tutti assimilato nell’età più tenera non possa essere cancellato e dimenticato facilmente». Il santo cristiano suggella con le sue parole non solo la liceità, ma l’alto valore educativo della poesia nelle sue più alte manifesta zioni. Essa deve diventare segno profondo e indelebile nei fanciulli, crescere con loro, far perdurare i suoi effetti nell’età adulta. Segno evidente che i mo menti di raccordo e di sintesi tra anelito cristiano e ispirazione poetica non sono affatto separati da un orrendo baratro. L’ ægri tudo ha il sopravvento e diventa malattia mortale solo quando il poeta cessa di guardare dentro di sé, rendendo le immagini vuoti simulacri, ed il cuore non vive più dove ama, secondo quel principio affermato dai Padri della Chiesa, per il quale anima verius est ubi amat, quam ubi animat. Ascensus platonico e discensus cristiano si fondono in Petrarca come poli diversi, ma non contrapposti, di una stessa esigenza spirituale, secondo un canone che nel XV e XVI secolo troverà anche in Spagna molti continuatori. Alla presuntuosa ignoranza dei suoi giudici, 23 E. Fenzi (a cura di), Francesco Petrarca. De Ignorantia, Mursia, Milano, 1999, p. 67. Francesco Petrarca, Invective contra medicum, Ricciardi, Milano-Napoli, 1955, p. 677. 25 Ibid. 24 28 che ritengono non manchi loro nulla per la conoscenza delle cose angeliche, mentre indubbiamente per quella della realtà umana manca molto a tutti e a molti tutto addirittura,26 Petrarca oppone una ricerca del bene e della felicità supportate dall’esperienza dell’in contro con Dio: Per quanto al principio e alla fine dell’Etica [Aristotele] abbia trattato diffu samente della felicità, oserò dire che egli ignorava a tal punto la felicità, che nella conoscenza di essa potrebbero essere più felici un qualsiasi vecchietto devoto o un pescatore, un pastore un contadino che abbiano fede in Dio […] Perciò sono in grave errore quelli che impiegano il loro tempo nel cercare di conoscere la virtù, non di farla propria, e in errore gravissimo quanto lo impegnano a conoscere Dio, non ad amarlo.27 Le numerosissime citazioni tratte da Cicerone, soprattutto dalle Tuscolanæ disputatio nes, riguardo alla concezione del Deus Artifex, diventano oggetto di riflessione rispetto all’en tusiasmo per gli antichi ed al sentimento religioso: […] potrei forse obiettare a lui: “Tu menti: sei un ciceroniano, non un cri stiano. Infatti dov’è il tuo tesoro, là è il tuo cuore”. Risponderò che il mio tesoro incorruttibile e la parte più sensibile del mio cuore sono in Cristo.28 Nel passo citato riemerge un sentimento di dubbio riguardo alla purezza della fede, ma sebbene il dono di sé a Cristo nasca da un sentimento autentico, poco oltre Petrarca riafferma la positività del suo legame con i classici: «Per ora non nego di essere assorbito da molti interessi vani e nocivi. Non includo tra questi Cicerone, perché ho capito che non mi ha nociuto mai e spesso mi ha addirittura giovato»29. E in un altro passo lo stesso Agostino, suo confessore ideale, prende le difese di Platone: «Infatti riguardo a Platone lo stesso Agostino non ha alcun dubbio che, se tornasse a nascere ai tempi nostri, o se durante la sua vita avesse presagito il futuro, sarebbe o sarebbe stato Cristiano»30. La polemica contro gli Aristotelici offre a Petrarca lo spunto per organizzare il suo pensiero in forma più sistematica e più efficace, con intuizioni che anticipano i limiti stessi dell’ari stotelismo, senza sminuire la ricchezza 26 Francesco Petrarca, De Sui Ipsius et Multorum Ignorantia, op. cit., p. 1051. Ibid., p. 1063. 28 Ibid., p. 1121. 29 Ibid., p. 1123. 30 Ibid., p. 1125. 27 29 speculativa e scientifica della Scuola di Padova soprattutto riguardo al discorso sul metodo dei suoi più illustri pensatori Zabarella, Giovanni Papuli o Paolo Veneto, dobbiamo osservare che procedimenti logici come il regressus, se contribuiscono alla formazione del pensiero scientifico, sono superati dalla concezione galileiana dell’espe rimento, in cui i procedimenti empirici sono diretti e supportati dalla teorizzazione matematica e dall’intuizione che prefigura la possibilità stessa della sperimentazione. In relazione a Petrarca, mi sembra interessante osservare che anche in Galileo, accanto al platonismo matematico, gli influssi della fede religiosa e della filosofia antica, come afferma Paolo Rossi, si intrecciano ai suoi convincimenti scientifici: […] egli non esitò a richiamarsi alla meta fisica della luce dello Pseudo Dionigi e alla tradizione ermetico-ficiniana, quando, per un breve periodo della sua vita, si inoltrò sul terreno scivoloso e difficile dell’esegesi biblica, tentando di farsi espositore o interprete delle Scritture, per mostrare che in esse sono contenute delle verità del sistema copernicano.31 La ricerca in Petrarca di una problematica perfezione, di un equilibrio in costante bilico proprio per un’intrinseca dinamica dell’essere, l’esaltazione della poesia come strumento superiore di un conoscere legato alla reminiscenza del divino e alla sua forza creatrice, vanno oltre i confini del Rinascimento; in momenti storici a noi vicini possiamo ritrovare echi di questo profondo desiderio di conoscenza che non si appaga dei progressi del pensiero tecnologico; in senso lato, le problematiche inerenti all’essere e alla cri si delle scienze, intesa come crisi del loro significato in relazione all’uomo, è posizione comune alle diverse correnti esistenzialiste, mentre, riguardo alla cultura incentrata sul concetto di humanitas, autori fondamentali della letteratura del ’900, come il nostro Montale o Saint -John Perse, hanno messo in evidenza, partendo da differenti posizioni, la centralità della poesia come forma di conoscenza. 31 P. Rossi, [in:] Aristotelismo veneto e scienza moderna, op. cit., p. 152. 30 GAETANO LA CIVITA L’ortodossia, il dubbio e la fede nell’opera di Francesco Petrarca e nella linguistica filosofica italiana Nell’età delle tirannidi signorili del XIV secolo 32 e del fallimento delle due istituzioni fondamentali della civiltà medievale, l’Impero e il Papato, visse e operò Francesco Petrarca: la nascita in esilio, la prima educazione avignonese, i frequenti viaggi e le peregrinazioni meditative ricercate sotto la spinta dell’incessante ansietà di conoscenza bastano a caratterizzare, anche attraverso i dati della biografia del Nostro, una fisionomia intellettuale33 e religiosa ormai assai lontana da quella di Dante e da ogni altro scrittore organicamente legato alla realtà politica e culturale del Comune. Oratore ufficiale, epistolografo, diplomatico, filologo, familiare di papi e di imperatori e bene accetto presso le corti, Petrarca incarna la “vera” figura dell’intellettuale umanista e del letterato “nuovo”, sia per gli atteggiamenti polemici nei confronti della realtà contemporanea che non amava34, sia per l’affermazione e la difesa dei valori “moderni” di libertà e di autonomia della cultura e, ancorché immerso nell’alveo della dottrina e del sentimento cristiano, è innegabile nella sua vita il faticoso e tormentato itinerario verso l’ideale ascetico -religioso: senza negare la medievalità di certuni suoi aspetti, le novità che sono all’origine della età moderna – dal classicismo fondato sulla ricerca filologica scrupolosa e scientifica che si esprime come lettura-interpretazione critica e restauro del patrimonio antico fino all’iden tificazione tra vita e letteratura, dal dialogo costruttivo e fecondo con i grandi del passato fino a ribadire, sulla scia di Cicerone, Seneca e Agostino, il primato degli aspetti psicologico-morali nella ricerca sull’uomo e del l’etica co me fondamento di ogni vero sapere e di ogni vera conoscenza – sono tutte novità che, in confronto al mondo del “plurilingui32 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze, 1968. G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, [in:] Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino, 1970. 34 Cfr. De Vita solitaria, I, 8. 33 31 sta” Dante, si orientano verso quel ri conoscimento sempre più vasto e netto della dimensione-uomo, premessa di una visione antropocentrica, umanistico-rinascimentale. E allora se la poesia è l’unica realtà in grado di resistere all’assalto del tempo e alla vita che fugge e non s’arresta un’ora , il classicismo, proprio nelle sue verità più profonde, diviene la possibilità concreta di creare “qualcosa” di stabile e di universale secondo quel processo creativo che ha come protagonista l’uomo nel suo intimo e come strumento il poeta stesso – colto nella sua medesima essenza di lirico cantore di Laura, dell’appassionatamente devoto a Dio quale Padre del ciel, ma anche alla Vergine di sol vestita – pur con tutto il suo desiderio di gloria, le ansie, i dubbi, i dissidi interiori. Petrarca pose al servizio dell’autorità il prestigio dei suoi stud i, ricevendone in cambio protezione e indipendenza economica e pur sradicato da ogni diretta partecipazione alla cosa pubblica rivendicherà sempre a sé il compito di indirizzare i progetti e le utopie degli uomini politici: pertanto si spiega come Petrarca poté rimanere affascinato dalla utopia cristiano-repubblicana di restaurazione dell’antica grandezza di Roma auspicata dal giovane tribuno Cola di Rienzo, ma il fallimento di quell’impresa per l’in flessibilità di papa Clemente VII, e non solo, suggerirà al Nostro un atteggiamento di maggior prudenza pur se non contribuì a fargli cambiare pensiero né gli impedì di esprimere per iscritto le sue idee sia riguardo alla necessità di una riforma popolare degli ordinamenti interni del comune romano, sia sulla funzione attribuita a Roma quale centro unificatore della vita politica d’Italia e della cristianità tutta, e sia infine in rapporto ai sogni di un rinnovamento degli istituti religiosi e di un ritorno alla Chiesa delle origini così com’era auspicato dall’esigenza particolarmente diffusa nelle coscienze e alimen tato dagli ambienti del profetismo gioachimita e del francescanesimo più o meno ortodosso. E quando Cola viene condotto prigioniero ad Avignone e consegnato dall’imperatore Carlo IV al papa C lemente VI, il poeta così ribadisce tutte quelle ragioni che in passato lo avevano conquistato: Mestus, ut vides, ut qui in illo viro ultimam libertatis italice spem posueram, quem diu ante michi cognitum dilectumque, post clarissimum illud opus assumptum colere ante alios mirarique permiseram, ideoque quanto magis speravi tanto nunc magis doleo spe prerepta, fateorque, qualiscunque sit finis, adhuc non possum principium non mirari; pur con amarezza evidenziando l’incongruenza del processo a Cola: 32 nichil enim ex his que bonis omnibus in illo viro displicent, arguitur, neque omnino finis sed principii reus est; non sibi obicitur quod malis adheserit, quod libertatem distituerit, quod e Capitolio fugerit, cum nusquam honestius vivere, nusquam gloriosus mori posset. Quid ergo? illud unum sibi crimen opponitur, unde si condemnatus fuerit, non michi quidem infamis sed eterna decoratus gloria videbitur: quod scilicet cogitare ausus sit ut salvam ac liberam vellet esse rempublicam et de Romano imperio deque romanis potestatibus Rome agi. O cruce vulturibusque dignum scelus, civem romanum doluisse quod patriam suam, iure omnium dominam, servam vilissimorum hominum videret; hec certe criminis summa est, hinc supplicium poscitur.35 Petrarca imputa alla sua età una grave e diffusa decadenza culturale specie nel campo della filosofia e della teologia per quell’eccesso di dialettica che conduce allo smarrimento della verità in quanto è incurante della bontà e della moralità dei costumi: così diviene fondamentale per il Nostro la lezione e la guida dei prediletti e privilegiati auctores antichi, col conseguente rifiuto di ogni dogmatismo dottrinale e di ogni formalismo verbale, delle complesse costruzioni dottrinali della Scolastica e di tutto quanto possa limitare la sfera della libertà individuale creativa e di pensiero. Ed allora non più Tommaso ma Agostino di Ippona, non più Aristotele ma Platone, Seneca, Virgilio e non solo per poter attingere alla verità etica e propriamente umana più che teologica e razionale sino a conseguentemente giungere, sul piano religioso, alla concreta testimonianza di fede autenticamente e pienamente conseguita, sentita ma non confutata anziché cogliere la piena conoscenza di Dio per il Nostro impossibile sul piano razionale36. Ed allora, proprio per le mediazioni del pensiero stoico e neoplatonico l’umano e il divino non ne risultano due fattori contrapposti ma elementi costitutivi di una dialettica costante nello svi35 Cfr. Fam. XIII, VI, 15 e 19-21. «Addolorato, come vedi, per aver riposto l’estrema spe ranza della libertà italica in un uomo che conoscevo e amavo da gran tempo e, dopo che s’era dedicato a un’impresa così illustre, veneravo e ammiravo sopra ogni altro; sicché quanto maggiore fu la speranza tanto più grave è ora il dolore per averla perduta: sebbene, qualunque sia stato l’esito, non posso non esaltare il principio […] Invero non gli si rimpro vera ciò che tutti gli trovarono degno di biasimo, e non gli si dà colpa dell’esito, ma del principio; non lo si accusa di essersi messo dalla parte dei malvagi, d’ aver soffocato la libertà, d’esser fuggito dal Campidoglio quando in nessun altro luogo poteva più dignitosa mente vivere o più gloriosamente morire. Anzi un solo delitto gli si rinfaccia, tale che, se per esso sarà condannato, non infame a me apparirà, l’ intento di far salva e libera la repubblica e di restituire a Roma il governo dell’impero e delle cose ro mane. O delitto veramente degno della croce e degli avvoltoi, che un cittadino romano si sia doluto di veder la sua patria, per diritto signora del mondo, fatta schiava di uomini vilissimi! Che questa è insomma, la sua colpa, e per essa si vuole la sua morte». 36 Cfr. De ignorantia. Della mia ignoranza e di quella di molti altri, a cura di E. Fenzi, Mursia, Milano, 1999. 33 luppo stesso dell’umanesimo petrarchesco sicché, per Petrarca, anch e la linea di pensiero degli scrittori pagani sarebbe stata cristiana se essi avessero conosciuto Cristo per la consonanza di interesse sull’uomo e le sue proble matiche. E dal binomio classicismo-cristianesimo emerge in modo pregnante, nell’ideologia petrarchesca, l’essenza stessa della cultura medievale nonché le medesime scelte culturali di Francesco operosamente rivolto a conciliare in modo armonioso mondo classico e pensiero cristiano, il pensiero antico con l’ortodossia religiosa ma attraverso l ’esempio -insegnamento di opere agostiniane quali De veUUHOLJLRQH'HRUGLQH e De Trinitate, ma soprattutto 'HGRFWULQ FKULVWLDQ da cui filtra in Petrarca la grande intuizione teologicamente fondata secondo la quale Dio è il fondatore di ogni verità e che tutto quanto di vero e di buono c’è anche fra i pagani altro non è che frutto della rivelazione naturale fatta da Dio alle coscienze e alla sensibilità degli autori antichi, i veri e pur ben distinti precursori della cultura morale e religiosa del Cristianesimo. Sicché, dal nostro àmbito, si può dire che tutto quanto Petrarca ha scritto, dal De vita solitaria al De otio religioso, dal Secretum ai Trionfi e non solo, disegni come una circonferenza al cui centro sta il Canzoniere, itinerario e passaggio, quest’ultimo, dall’esperienza amorosa a quell a ascetica e mistica; anzi si può ben a ragione sostenere che se tutti i dubbi i tormenti e le angosce, tutti i drammi del vivere quotidiano, l’amore e il soffrire sono presenti nel poema lirico e che se le riflessioni filosofiche e morali sul peccato, sul tempo e sui piaceri effimeri insieme alla costante tensione verso il divino e l’assoluto compiutamente, nel Secretum, hanno trovato il loro campo d’indagine e d’espressione in prosa, a loro volta quei motivi nel Canzoniere hanno avuto modo di dispiegarsi secondo un lessico stilizzato, smaterializzato dalle varie forme metriche secondo uno stile fatto di innumerevoli corrispondenze e simmetrie sì da formare quell’ unicum petrarchesco fatto di tessere concettuali e poetiche. E in attinenza ai temi del dubbio e della fede in Petrarca, in quest’àmbito, analiticamente ci soffermeremo sui registri stilistici di quelle aree-testo (sonetto LXII; e canzone CCCLXVI) che desunte proprio dal Canzoniere a noi risultano particolarmente pregnanti per quanto sarà da relazionarsi, senza per questo dimenticare di parlare del concetto di “Dio come stabilità”, pur presente nell’ideologia del Nostro, così come è stato sottolineato da Umberto Bosco e a cui è direttamente collegato il senso della “universale labilità” proprio d ella poetica petrarchesca per cui Laura e caducità sono da ricondurre all’unità nel senso che Laura è il fantasma poe tico nel quale liricamente si concreta il senso dell’irrimediabile caducità: il pensiero di Dio, vero deuteragonista della lirica di Petrarca, nasce proprio 34 da lì, dalla medesima sorgente, perciò il costante pensiero della morte non gli dà che angosce e terrore, in quanto non è il valico a Dio tanto desiderato dagli asceti, ma rimane sentimentalmente il temuto ineluttabile che incombe con la sua ombra sul vivere quotidiano; e se poi il Nostro crede e spera nel Dio che non passa a sua volta, Dio gli consentirà di non morire consolidando in eterno e sublimandoli i suoi affetti e le sue aspirazioni terrene. All’anelito verso la felicità terrena si sostituisce quello verso la felicità celeste: è la storia del viaggio di un’anima dal terreno al divino che il poeta accenna nella visione di Scipione nell’ Africa e che, in seguito, più compiutamente canterà nei Trionfi la cui materia è già tutta nel Canzoniere. Ma il poeta, come non conquista – con tutta la sua caducità e vanità – l’umano da cui non si sente appagato, così non perviene compiutamente al divino che non lo placa in modo definitivo in quanto comporta eroiche rinunzie impossibili da accettarsi: c’è una famosa pagina sull’ accidia che in fondo non esprime altro che l’inappagamento anche del pensiero di Dio e che consiste, così come per Dante, in «poco di vigore» nell’amore del bene, di Dio; mentre in un’altra pagina non meno famosa dove si na rra l’ascen sione al Monte Ventoso (Fam. VI, I, 12), il poeta confessa la sua colpevole esigenza di conciliare l’umano che non sa respingere e il divino che ama sicché il suo interno dissidio non consiste nel conflitto umano-divino ma nel conflitto tra la religione e la ragione da un lato, mentre dall’altro vi è l’in coercibile forza del sogno che induce Francesco a concepire la divinità come riposo degli affanni e garante dell’eternità degli affetti umani. E se la felicità, l’assoluto consistono nell’impo ssibile conciliazione dell’umano col divino e da quest’ultimo ne deriva il sugello della stabilità potenziandolo e purificandolo, allora la ragione e la dottrina religiosa gli mostrano tutta l’im ponibilità di quel sogno, di qui i dubbi perenni i tormenti i lamenti del cristiano e del poeta. A tal proposito sostiene Bosco: Il Trionfo dell’Eternità, composto quando il poeta sapeva per non dubbî segni di essere veramente alle soglie dell’eterno, si apre con un’affermazione categorica («Da poi che sotto ‘l ciel cosa non vidi Stabile e ferma»). Ma avviene che Dio è concepito esclusivamente come stabilità. Stabilità anche nei desiderî: ma badiamo: stabilità, non loro dissolvimento nella beatitudine della contemplazione di Dio. Sulla giustizia di lui, sulla sua onnipotenza e sapienza non ci sono che rari e freddi cenni: egli è solo perennità, immutabilità. L’urgenza del desiderio d’immedesimazione con Dio è ignota al Petrarca in quanto poeta; il trionfo si chiude con la congiunzione di cielo e terra: «Se fu beato chi la vide in terra, Or che fia dunque rivederla in cielo?»: giacché il poemetto, che avrebbe dovuto celebrare il trionfo di Dio, in definitiva celebra il trionfo degli affetti terreni. Gli spiriti nel cielo conquisteranno la fama, e questa volta eterna; la bellezza corporale è la massima delle vanità: e tuttavia anch’essa ritornerà in Dio: in sostanza, Dio trionfa della 35 Morte e del Tempo, ma non già degli sconfitti da questi, Amore e Fama, che anzi sono da lui resi vincitori in perpetuo. E la fantasia, ancora in questo trionfo, che è forse l’ultima cosa del Petrarca, si volge a Laura, al mito supremo della sua vita e della sua poesia. Palinodia? Concettualmente, sì; ma ecco il poeta affermare ancora una volta che Laura avrà anche in cielo «vanto fra tutte»; immaginare che come la terra, pur sapendola beata, non si rassegnava a non vederla più, così anche il cielo aspetti che ella riprenda, dopo il giorno del giudizio, il «suo bel velo»; eccolo proprio negli ultimissimi versi, come tante volte nel Canzoniere, invidiare il «felice sasso che ’l bel viso serra»; rievocare senza pentimento tutto il suo mito: la «lunga guerra» d’amore e il lungo canto e persino, tanto era connesso col mito stesso, l’ambiente naturale del suo godere e penare, le chiare acque dei fiumi di Provenza. Spesso il poeta del Canzoniere si era augurato di uscir da questa vita, per poter vedere «il suo Signore e la sua donna». Dio e Laura, insieme. E il Trionfo dell’Eternità è appunto la rappresentazione d’un mondo in cui gli affetti ter reni sono da Dio stesso giustificati e sublimati. La divinità non più rifugio dall’amor di Laura vano, dall’amor di gloria delu dente, e dunque diversa dall’amore e dalla gloria, ma una sola cosa con essi. Cielo e terra conci liati: è il grande, impossibile sogno di tutta l’esistenza del Petrarca. E a fermarlo nel nitido verso, il vecchio e stanco e dotto poeta consacra le ultime settimane di sua vita. Invano: Dio quasi scompare. Giacché la sofferenza dell’uomo era nella coscienza della vanità e peccaminosità di quel sogno; e da questa sofferenza nasceva la sua profonda poesia.37 Ed è proprio nel Canzoniere – nel sonetto LXII e nella canzone alla Vergine come sopradetto – che l’aspetto spirituale della tematica d’amore secondo la dimensione dell’amor sacro, dell’istanza etica e ascetica assumono le forme di una vera preghiera; così il poeta si rivolge alla misericordia divina chiedendo di essere liberato dalla passione d’amore – “benedetto” e “maledetto” –, adeguatamente corredato da rimorso e pentimento: Padre del ciel, dopo i perduti giorni, dopo le notti vaneggiando spese con quel fero desio , ch’al cor s’accese, mirando gli atti per mio mal sì adorni, piacciati omai col Tuo lume ch’io torni ad altra vita et a più belle imprese, sì ch’avendo le reti i ndarno tese, il mio duro adversario se ne scorni. Or volge, Signor mio, l’undecimo anno ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo, che sopra i più soggetti è più feroce. Miserere del mio non degno affanno; reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo; ramenta lor come oggi fusti in croce. 38 37 U. Bosco, Francesco Petrarca, [in:] Letteratura Italiana. I Maggiori, Marzorati, Milano, 1982, pp. 122-123. 38 Canzoniere LXII, [in:] Opere, Sansoni, Firenze, 1975. 36 Per Giorgio Bàrberi Squarotti39 nella trama profonda del sonetto, col tema della preghiera, c’è il motivo della vanità delle cose terrene, del l’amore terreno e del presentimento della loro fine così come ricorre nei componimenti d’anniversario. Se l’amore è vanità, è anche per ciò stesso errore e peccato; e quindi oggetto di rimorso, pentimento, richiesta di perdono a Dio. La catena tematica vanità-peccato-pentimento-perdono si esprime attraverso moduli stilistici e parole-chiave , fra cui in particolare: - idea di vanità: i perduti giorni (v. 1), le notti vaneggiando spese (v. 2), i pensier’ vaghi (v.13) - idea di peccato: quel fero desio (v. 3), il mio mal (v. 4), la vita di non belle imprese ( v. 6 ), le reti… tese dal duro adversario [amore = diavolo] ( vv. 7-8 ), il non degno affanno (v. 12) - idea di pentimento: che è nel riconoscimento dell’amore come fero desio, mal, duro adversario, dispietato giogo; nella confessione dei giorni vuoti di belle imprese e colmi di non degno affanno; soprattutto nell’ammissione della schiavitù d’amore: i’ fui sommesso…, sopra i più soggetti… (vv. 10-11) - idea di perdono: Padre del ciel, …piacciati omai col Tuo lume ch’io torni ad altra vita…(vv. 1-6); l’intera ultima terzina: Miserere… reduci… ramenta… Inoltre l’idea di pentimento e la volontà di redenzione sono espresse: dalla ripetizione (vv.1-2) dell’avverbio dopo e dalla sua opposizione con l’ omai del v. 5; sembra che si voglia dividere in maniera netta ciò che è stato da ciò che è e sarà, il peccato del passato dal riscatto presente; - dal chiasmo perduti giorni…notti… spese: la figura stilistica dà, per sua natura, un’idea di ribaltamento della situazione; - dall’opposizione fra prima e seconda quartina a livello di modi e tempi verbali: nei primi 4 vv. ci sono modi indefiniti (due participi : perduti, spese; due gerundi: vaneggiando, mirando) e tempi passati (perduti, spese, s’accese; i gerundi sono presenti, ma esprimono contemporaneità al passato); nei vv. 5-8 ci sono ben tre congiuntivi presenti (piacciati, torni, scorni): il primo è esortativo-ottativo e gli altri due hanno valore potenziale esprimendo, dunque, un’idea di speranza e desiderio per il presente, in opposizione col passato (avendo le reti… tese, v. 7); 39 G. Bàrberi Squarotti et al., F. Petrarca, [in:] Letteratura. Dalle Origini alla Controriforma, Atlas, Bergamo, 2004 , vol. II. 37 - dall’opposizione fra l’ Or volge (v. 9) e l’ i’ fui (v. 10): il presente è in antitesi col passato; - dal verso finale ramenta lor come oggi fusti in croce nell’implicita op posizione fra il valore sacro della ricorrenza (il venerdì santo, giorno della crocifissione di Cristo e della redenzione dell’umanità) e il suo valore profano (il venerdì santo Petrarca ha conosciuto Laura). Per quanto riguarda la struttura della preghiera si noti: - L’invocazione iniziale al Padre del ciel. Essa richiama fra l’altro l’attac co del Padre nostro in una metafora di alta suggestione poetica e religiosa; l’invocazione dà l’avvio ad un ampio periodo – sul quale sta come sospesa – che ha il verbo principale solo all’inizio del v. 5 (piacciati) e si conclude solo col v. 8; tutta la prima parte del discorso, dedicata alla rievocazione del passato peccaminoso, è chiusa in inciso fra il vocativo iniziale e il suo verbo; il poeta esprime anche visivamente il desiderio di collocare il proprio traviamento entro la cornice del perdono di Dio. - L’invocazione Signor mio ( v. 9 ). Riprendendo quella iniziale, essa apre il secondo periodo della preghiera, più breve e incisivo del primo e di taglio valutativo (si vedano i tre indicativi: volge, fui, è), mentre il primo era di taglio evocativo-ottativo. Con questa seconda invocazione il poeta vuole opporre la “signoria” di Dio a quella dell’amore profano, duro adversario, dispietato giogo che schiavizza l’anima ( fui sommesso) il quale sopra i più soggetti è più feroce. Con questa sentenza Petrarca ribalta letteralmente quanto espresso da Ovidio, massimo teorizzatore dell’amor profano ( Amores, I, 2). - La terzina finale, strutturata come una triplice richiesta di misericordia, aiuto, perdono. I tre versi iniziano tutti con un imperativo (Miserere, reduci, ramenta) esprimendo un crescendo di toni e di contenuti: dal piano dell’esperienza umana e personale del poeta ( il mio non degno affanno, i pensier’ vaghi ) si passa a quello dei valori spirituali (il miglior luogo), del sommo mistero della morte e redenzione di Cristo. L’uso della forma Miserere – citazione biblica e dantesca – aggiunge un tocco di ulteriore religiosità alla preghiera. La conclusiva canzone-preghiera alla Vergine, Vergine bella, che di sol vestita,40 composta nel 1353 o, più probabilmente, verso la fine degli anni ’60, ci testimonia, così come il sonetto proemiale e nella stessa sua essenza di testo programmatico, la chiave di lettura unitaria delle rime sparse anche nei risvolti spirituali di toni e incerti sospiri. 40 Cfr. Canzoniere CCCLXVI, [in:] Opere, Sansoni, Firenze, 1975, vol. I. 38 Sempre secondo Bàrberi Squarotti41 tutta la canzone è un intreccio di fili letterari, filosofici, teologici nella mole impressionante di riferimenti, reminescenze, citazioni dalla letteratura antica e medievale, profana e religiosa: troviamo la Bibbia e i Padri della Chiesa, testi classici e testi liturgici, l’innologia mariana e la poesia religiosa provenzale, la mistica e Dante (il modello di riferimento più diretto è forse la preghiera di San Bernardo alla Vergine nel canto XXXIII del Paradiso). Petrarca conferisce così ufficialità e solennità al componimento, dà un’ultima dimostrazione del suo raffinato bagaglio culturale e spirituale e suggella l’intera raccolta con una prova di alto profilo letterario: soprattutto sembra voler tentare un’estrema armoniz zazione, una sintesi finale in prospettiva religiosa di tutti i tratti del suo patrimonio intellettuale, della sua formazione, del suo pensiero. Sono di particolare rilievo i riferimenti alla letteratura e alla liturgia mariane, dedicate cioè al culto della Vergine Maria: ci sono richiami ai testi dell’ Ufficio di Maria o alle antifone mariane, all’ Ave Maria o alla Salve Regina. Vi sono rimandi alla tradizione del culto di Maria perfino nella struttura della canzone: le dieci stanze, divisibili per ragioni formali in due gruppi di cinque, ricordano due numeri sacri alla Vergine, che ricorrono in particolare nella pratica del rosario. La Vergine viene invocata all’inizio di ogni stanza, quasi sempre con un aggettivo di lode di una sua prerogativa; l’invocazione viene poi ripetuta regolarmen te al nono verso (anche il nove è numero altamente simbolico), accompagnata sempre da una richiesta d’aiu to. Nell’insieme si delinea quindi una trama di appelli a Maria che sovrappongono lo schema sacro della preghiera (il rosario, appunto, o la litania) a quello profano della canzone. In questo componimento Laura si eclissa per essere sostituita e superata dalla Vergine. Nelle ultime tre stanze gli accenni che la canzone riserva alla donna, che è stata essenziale punto di riferimento di tutta la raccolta, sono decisamente negativi: essa viene riconsegnata ad una dimensione esclusivamente umana e terrena. La medusa della bellezza di Laura non ha procurato che morte ed errore; Laura è terra, terrestro limo, poca mortal terra caduca. La sua figura è del tutto oscurata da quella della Vergine, modello inarrivabile di femminilità, l’anello di congiunzione fra l’uma no e il divino, autentica via alla beatitudine e alla salvezza: tutte le funzioni di Laura sono trasferite su Maria e rese, attraverso di lei, 41 G. Bàrberi Squarotti et al., F. Petrarca, [in:] Letteratura. Dalle Origini alla Controriforma, op. cit. 39 pienamente operative. Non più Laura, ma Maria: la Vergine è probabilmente l’ultimo grado della trasfigurazione di Laura. Alla fine della prima stanza (v. 18) il poeta invoca la Vergine perché lo aiuti nella sua guerra finale della rinuncia al mondo nella preparazione al passo estremo della morte secondo gli schemi classici della precettistica medievale, in cui la Vergine è esaltata nella sua funzione di mediatrice fra l’uomo e Dio e di soccorritrice contro il peccato. Si noti, al riguardo, la successione dei motivi nelle dieci stanze: - la Vergine risponde sempre a chi la invoca con fede; - Maria è lo scudo degli uomini contro la morte e la fortuna; - la Vergine salva gli uomini al momento della morte; - Maria è la madre di Cristo, fonte di pietà e sole di giustizia; - la Vergine è portatrice di gioia; - la Vergine salva il poeta dalla terribile tempesta; - il poeta confessa i propri errori prima di chiedere ancora aiuto a Maria; - la Vergine può fare ciò che non ha potuto fare Laura: por fine al dolore del poeta; - il poeta, in su l’extremo passo, chiede la grazia di piangere sante lagrime di pentimento e devozione; - la Vergine purificherà il poeta dai peccati. La funzione programmatica della conclusiva canzone è rappresentare l’ideale traguardo morale e religioso del Canzoniere così come è dimostrato, a livello testuale, dai vari richiami al sonetto proemiale. In particolare sono significativi i vv. 126-130 (finale dell’ultima stanza): - il termine stile (v.127) riprende l’espressione vario stile (v. 5 del sonetto proemiale); - cor (v. 128) richiama nudriva ’l core (v. 2); - sospiri (v. 128) riprende quei sospiri (v. 2); - lagrime (v. 128) richiama io piango (v. 5); - pensieri (v. 127) può ricollegarsi a ragiono (v. 5); - i cangiati desiri (v. 130) si collega a quand’era in parte altr ’uom da quel ch’i’ sono (v. 4); - il primo giovenile errore (v. 3 del sonetto proemiale) trova riscontro invece nel v. 111 (penultima stanza): l’error mio. La canzone, in definitiva, contiene molti altri richiami non solo al sonetto proemiale ma anche ad altri passi del Canzoniere: il poeta dimostra così la propria volontà di riprendere, in conclusione, i fili essenziali del percorso per riproporli nella prospettiva di una definitiva volontà di spiritualizzazione. Laura, sostituita da Maria, è citata direttamente nelle ultime tre stanze ma solo per riceverne connotazioni di segno negativo: 40 - Laura (evocata oltre tutto col pronome indefinito tal) è terra (v. 92); Laura ha posto in doglia il cuore del poeta (vv. 92-93); ogni voglia della donna è stata morte per il poeta e fama rea per lei stessa (vv. 96-97); - la bellezza di Laura, come una Medusa (v. 111), ha reso di pietra il cuore di Petrarca; - il pianto d’amore del poeta era pieno di terrestro limo e di insania (vv. 116-117); - Laura è poca mortal terra caduca (v. 121); Laura, tuttavia, è indirettamente presente nell’intera canzone; in tutte le definizioni della Vergine il poeta usa termini già presenti nel Canzoniere in riferimento a Laura: bella, sacra, alma, beata, beatrice, pura, benedetta, sola, dolce, pia, ecc. Al culto di Laura si sostituisce il culto di Maria: la beatificazione di Laura è ormai giunta al massimo grado possibile, ma se fra la Laura terrena e la Vergine permane uno stacco incolmabile, fra Laura trasfigurata e la Vergine c’è come una sorta di identificazione. Nelle prime cinque stanze Petrarca adotta una struttura che ricorda quella dell’ Ave Maria: lode nella prima parte (vv. 1-8, celebrazione della Vergine), preghiera nella seconda (vv. 9-13) così come fa Dante nella preghiera di San Bernardo alla Vergine (ultimo canto del Paradiso). In diversi punti Petrarca mostra di richiamarsi sia all’ Ave Maria (ad esempio v. 40: d’ogni grazia piena ) sia alla preghiera di Dante (nei vv. 24-26, 28, 41 e anche altrove). Ma sono da notare anche molti altri importanti riferimenti, in particolare di àmbito religioso, che danno un tocco di liturgica solennità al componimento: - l’espressione di sol vestita, coronata di stelle (vv. 1-2) riporta un passo dell’ Apocalisse; - al mio prego t’inchina (v. 11) richiama il Salmo 87; - bench’io sia terra, e tu del ciel regina (v. 13) riprende un passo del Regina cœli (un’antifona mariana); - l’inizio della seconda stanza (vv. 14 -16) cita la parabola delle vergini prudenti dal Vangelo di Matteo; - que’ begli occhi… volgi (vv. 22-25) ricorda la Salve regina (illos tuos oculos ad nos converte); - Vergine pura, d’ogni parte intera (v. 27) fa riferimento alla dottrina dell’Immacolata Concezione sostenuta soprattutto dai francescani; - fenestra del ciel (v. 31) ricorre negli inni di Maria; - fonte di pietate (v. 43) è metafora tratta dal Dies irae; - di giustizia il sol (v. 44) è tratta dal libro di Malachia (Bibbia). 41 Alla fine della quarta stanza e nella quinta l’intonazione si mantiene solenne, ma qua e là esce dal clima liturgico per concedersi tocchi di più terrena umanità nel passaggio ai temi più personali e autobiografici della seconda parte della canzone. Ci sono ancora citazioni dalla Salve regina (nel v. 58: verginità feconda, nel v. 61: dolce e pia), dall’ Epistola ai Romani di San Paolo (v. 62) e da altri passi biblici (v. 63, le ginocchia de la mente inchine) preannunciandosi l’imminente cambiamento di registro: - l’affettuosa familiarità degli aggettivi dolci e cari (v. 46) e dei tre appellativi madre, figliuola e sposa, sintetizzano e convogliano sulla Vergine le massime espressioni dell’amore femminile: l’amore materno, l’amore filiale, l’amore coniugale; - l’espressione vera beatrice (v. 52), con un doppio e implicito riferimento: a Laura e alla Beatrice dantesca; Laura è dunque una “falsa beatri ce”; solo la Vergine è vera dispensatrice di beatitudine: in questo modo Petrarca sancisce il passaggio di funzioni da Laura a Maria così come sviluppato nell’ultima stanza. A quest’ultimo proposito si può notare come la Vergine sia subito chiamata a svolgere il compito che, in passato, era per eccellenza di Laura: quello di “oggetto di innamoramento”, ma in prospettiva del tutto spirituale: ’ l ciel di tue bellezze innamorasti… Per te pò la mia vita esser joconda… (vv. 54-59). Dalla sesta stanza e in tutta la seconda metà della canzone è prevalente la prospettiva personale di P. uomo e autore del Canzoniere così come ne è annunciato dall’immagine che introduce la sesta stanza: di questo tempestoso mare stella. L’espressione “stella del mare” traduce letteralmente l’inizio dell’ Ave maris stella, noto inno mariano, ma la metafora della vita come tempesta è tutta petrarchesca e ricorre nella sua opera. Sono da considerare: - il termine che l’autore usa per definire il demonio, nemico (v. 75), spesso usato per indicare l’amore per Laura o Laura stessa; - il passaggio esplicitamente autobiografico dei vv. 82 sgg. (Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno… ): si parte da una notazione propriamente biografica e geografica, per passare subito alla rievocazione in chiave negativa della storia d’amore con Laura ( Mortal bellezza… ); - l’utilizzazione di un lessico più lirico: lagrime… sparte, preghi indarno, pena, danno, affanno, ecc.; - i passaggi in cui Laura è direttamente evocata per essere contrapposta alla figura della Vergine; - i passaggi in cui, attraverso i richiami al sonetto proemiale, viene fatto un bilancio conclusivo del Canzoniere in prospettiva religiosa. 42 Il congedo (vv. 131-137) non è rivolto, come di regola, alla canzone, ma ancora alla Vergine ed è un’autentica sintesi conclusiva. - Nell’esordio compare una riflessione sulla morte (vv. 131 -132), motivo ricorrente del Canzoniere ed è, allo stesso tempo, riferimento ad un passo biblico (Ezechiele) e ad un passo ciceroniano (De senectute). - All’eso rdio fa seguito un’ultima invocazione alla Vergine, affinché rac comandi a Dio l’anima del poeta (si noti la rima al mezzo Dio/mio). - Il congedo si chiude nel segno delle virtù teologali: la fede (tuo figliuol, verace homo e verace Dio: richiamo al Credo), la speranza (accolga ’l mio spirto) e la pace (pace è l’ultima parola della canzone e dell’intera raccolta), estrema e più alta forma cui l’amore (la carità) aspira nel Canzoniere. In definitiva, dalla disamina di questo nostro excursus analitico, “il dubbio e la fede” decisamente ne emergono come l’essenza lirica nell’opera stessa di Francesco Petrarca per la sua medesima religione della cultura: egli «non è affatto un mistico» – come ha ben messo in evidenza C. Calcaterra – né ricerca «Dio con la filosofia perché dice bastargli la fede. Egli è, sì, un’anima religiosa; ma, come tale, trae le sue caratteristiche più dall’invocazione quotidiana dell’aiuto, che non dal rapimento» 42 dell’estasi. È chiaro a questo punto che Petrarca non poteva non lasciare una traccia nella cultura italiana, traccia che si rinviene facilmente nella tradizione lirica, ma che poi è visibile anche nella pubblicistica filosofica. Si pensi ai molti dialoghi, che sul calco del Secretum sono stati scritti da diversi filosofi, celebri e meno celebri. Fra i molti ricordiamo Giordano Bruno, Magalotti, Alessandro Verri, Giacomo Leopardi, i quali tutti hanno dato qualcosa al dialogo come strumento di comunicazione (e sollecitazione) del pensiero. Effettivamente del dialogo, del dialogismo, della dialogicità e finalmente di dialogica si sono occupati molti studiosi del Novecento specialmente in Italia. Chi del dialogo si è soffermato a indagare l’aspetto comuni cativo colto nella valenza conoscitiva e insieme religiosa è stato Aldo Testa, alla cui opera faremo riferimento come possibile punto d’arrivo di tematiche sorte nell’età di Petrarca, anche per via di un umanesimo che lo stesso Testa ha inteso rivendicare. Nell’àmbito linguistico -teoretico della filosofia del linguaggio e della religione come dialogo, lo spazio linguistico quale «spazio dialogico» ne va emergendo, ma alitante nella sua stessa sacralità, nella misura in cui 42 C. Calcaterra, Il Petrarca e il Petrarchismo, [in:] Questioni e correnti di Storia Letteraria, Marzorati, Milano, 1949, p. 197. 43 la Parola, proprio nel circolo del colloquio o del discorso, va alitando tra di noi che realizziamo insieme congiunti e partecipi, la divinità (quale Dio-Amore) fra di noi nel suo circolare quale verità verbale fra di noi (cioè verità essa stessa) religati in comunione (quali co-umanità) nell’umana assemblea della comune mensa dell’àgape (pane) sacro. Così infatti ci propone il Dialogo: «Congiuntamente tra di noi raggiungiamo la massima espressione dell’universale dialogico quale si riassu me nell’universale teologico […] In tale àmbito l’abbraccio circoinvolgen te dell’Amore nel suo svolgersi e proporsi tra di noi che, nel suo respirare circolarmente ne respiriamo nel respiro stesso tra di noi, trascende l’alter nativa verticalità-orizzontalità. Così decade il dio singolo quale dio dei singoli nel suo risultare infine come dio sopra i singoli; da cui occorre liberarsi affinché l’Umanità possa risorgere come umanità tra gli uomini quale universale concreto in quanto universale dialogico»43. La nuova visione religiosa in tal modo proposta dalla «filosofia del dialogo», si può definire senz’altro, come ‘antropote ologica’ perché l’im pegno reciproco si propone nell’amore dove tutti viviamo e amiamo. Nel nostro stesso amarci nell’Amore, la divinità che può farsi uma nità, si rivela non più esteriormente (cioè secondo l’errata trascendenza-supersistenza), né interiormente (cioè secondo l’errata immanenza), ma si propone «diateisticamente» tra di noi44. Così l’uomo può dirsi ad immagi ne e somiglianza di Dio (che è Amore) quando tutti ci incontriamo come Umanità nel Suo proporsi nel rapporto degli uomini nel loro amarsi tra loro. Così Dio, non più quale Dio dalla personalità di singolo a noi supersistente, ma interpersonalmente in noi, da noi, tra noi, ha la sua inconfutabile, diretta testimonianza45. Cadono così, insieme al mortificante idolo incombente su di noi nel proporsi del vivo e vivificante Dio tra gli uomini, tutti gli astratti universali quali: l’essere sugli enti, nel proporsi dell’essere tra gli enti; la astratta legge supersistente su uomini ad essa passivamente soggetti, nel proporsi della legge tra gli uomini, nel loro reciproco «co-impegnarsi» come attivi partecipi soggetti nella proportio hominis ad hominem, e cade infine l’astratto Sta to supersistente su cittadini-sudditi, nel ritorno alla «romana res publica proponentesi tra coimpegnati, responsabili cives»46. Sì da proporsi nel dialogo, l’universo dialogico del colloquio universale (il Pa dre), dove sono i dialoganti nel loro colloquio (il Figlio) e, nel suo proporsi tra questi, (vi) è il discorso nel suo svolgersi tra loro, che vi si trovano 43 A. Testa, L’Essere come Amore, “Il Dialogo” 13, Biblioteca del Dialogo, Bologna, p. 9. A. Testa, La caduta degli idoli, Montefeltro, Urbino, 1979. 45 Ibid., p. 204. 46 Ibid., p. 200. 44 44 coinvolti (lo Spirito). Così si spiega la «unitrinità» propria del dialogo, nel nostro essere in dialogo tra di noi che, nel colloquio tra noi, diamo umano e terreno corpo al dialogo «nel suo effettuarsi tra di noi a cui, tra di noi, concorriamo»47. Il dialogo non è detto da alcuno ma si propone tra di noi quale Verità-Amore dove, a prendervi corpo incarnandovisi nel suo proporsi di Verbo, la verità respira tra di noi; perché essa è ‹‹respiro di vita, respiro che è vita: VITA che è Spirito, Spirito che è Vita; Vita che è Amore››48. In campo dialogico nella loro verità, divengono così inconsistenti tutte le prove a priori ed a posteriori dell’esistenza del Dio supersistente e inesistente, perché nel dialogo noi, tra di noi, celebriamo e affermiamo Dio che è «Dialogo nel quale ci proponiamo in dialogo tra di noi»49. Allora la Parola testimonia di se stessa tra i parlanti che, parlando di essa, ne affermano la realtà nell’atto stesso in cui (vi) si propongono (tra loro) nel respiro del dialogo, a riconfermare la ‘unitrinitarietà’ con cui insieme si propongono Parola quale Padre: parlanti quali Figlio; nel respiro colloquiale quale Spirito. Sicché (sviluppando da Giovanni Evangelista) potremo dialogicamente dire: «Chi non ama, non ha mai conosciuto Dio, perchè Dio è Amore. Iddio nessuno l’ha mai contemplato: se ci amiamo scambievolmente, Dio dimora in noi (tra noi) e il suo amore in noi (quale amore tra noi) è giunto a perfezione»50. In conclusione «la divinità non può essere colta secondo una immagine che necessariamente la esteriorizza, in quanto di essa, vivendone si deve partecipare, nella presenza di essa, in noi e tra di noi, e di noi in essa. Dunque non trascendenza e neppure immanenza, ma interpresenza o pervadenza»51. A dire il nostro esserne tutti pervasi nell’umanità in cui Dio assume vivo e concreto corpo non nella piatta somma degli uomini, ma si viene svolgendo tra gli uomini, circoivolgendoli come Amore. In tali termini il monoteismo teologico concorda perfettamente con l’esigenza trinitaria che caratterizza Il Padre quale universo dialogico che si va delineando quale Dio-Amore che, nel suo procedere e svolgersi nel Figlio (cioè negli uomini in cui prende corpo), alfine dal Figlio si propone e si svolge nel Padre. Per cui, nel respiro vitale che circola «nel chiasmo di tale coinvolgimento, il Verbo si fa carne (e Dio si fa Umanità), lo Spirito Santo, nel loro coinvolgersi, procede insieme nel Padre e nel Figlio che, 47 Ibid. Ibid., pp. 114-115. 49 Ibid., p. 115. 50 Ibid., p. 129. 51 Ibid. 48 45 infatti, nel suo spirare coincidono»52. Così, nel coinvolgente e vitale respiro dell’amo re, si incontrano divinità e Umanità quali Amore, sicchè la rivelazione risulta incontro tra Dio e l’uomo cioè quale incontro divinità ed umanità (dell’Uomo -con-l’Uomo). È ormai tempo che si intenda la teologia come incontro tra parola umana e verbo divino, ma tale evento può verificarsi per noi se l’autentica parola umana, nel suo proporsi tra gli uomini nella sua divinità e verità, va coincidendo con la divinità del verbo che è il Dialogo che prende corpo tra gli uomini. Il che è dire che, a seguito della rivelazione di Dio, testimoniantesi come Umanità, ora sopravviene il momento della rivelazione dell’Uma nità nel suo testimoniarsi come divinità affinché, come la rivelazione di Dio s’è compiuta con la resurrezione dell’Uomo, così con la resurrezione del Dio autentico deve compiersi la rivelazione dell’Umanità. Per cui non v’è «l’umanità in sé sui singoli uomini, ma vi è l’umanità tra gli uomini che vi partecipano, né v’è la giustizia in sé, ma vi è la giustizia tra i giusti che vi partecipano; infine non vi è l’essere in sé sugli enti perché l’essere si svolge nel rapporto tra gli enti che, infatti (come esprime la forma partecipiale), vi partecipano»53. 52 53 Ibid., p. 191. A. Testa, Dialogo e religione, Cappelli, Bologna, 1969, p. 190. 46 BÉLA HOFFMANN La forma poetica del dubbio Francesco Petrarca, Secretum Il presente saggio assume come punto di partenza il dubbio come parola, espressione verbale. Il dubium (dubius) latino proviene etimologicamente dalla radice duo. Di conseguenza anche la parola italiana dubbio (dubbioso, dubitare, dubitante) conserva in sé la radice di due, come, ad esempio, anche nel tedesco con lo stesso significato di “dubbio” si trova Zweifel, che è calco linguistico. Se si accetta la definizione bachtiniana concernente il carattere ineliminabilmente dialogico della parola54, allora la parola dubbio deve essere considerata non solo come qualcosa che conserva nel suo significato una un–ità duplice in sé, in quanto essa segnala storicamente il due nell’uno , ma al tempo stesso si pone come qualcosa che rivela per eccellenza il carattere generico della parola. Per questo motivo vogliamo subito indicare che, a nostro avviso, nel Secretum di Petrarca si è dinanzi alla forma drammatizzata del monologo interiore quale forma di discorso, che significa anche la resa esplicita del carattere vero e proprio della parola. Al tempo stesso è ovvio che la forma drammatizzata del monologo interiore a livello ideale risulta essere in perfetta armonia con la situazione di crisi in cui si trova l’io, sul quale domina no l’in certezza e la titubanza, il sentimento del dubbio appunto, perché gli pare di dover scegliere tra due esigenze proprie della sua interiorità. Il presente saggio analizza dunque – anche in connessione con i dialoghi platonici e ciceroniani – i dubbi dell’io non tanto a livello tematico, quanto a livello delle modalità del discorso, vale a dire nel senso della 54 «La parola non è una cosa, bensì un tramite eternamente in moto, eternamente sottoposto a mutazioni del contatto dialogico. Non è mai sottoposta ad un’unica coscienza, ad un’unica voce omofona. La parola vive la sua vita passando di bocca in bocca, di contesto in contesto […] Nel frattempo non si dimentica della via da es sa compiuta e non è capace di liberarsi del potere effettivo dei contesti di cui una volta ha già fatto parte». Michail Bachtin, A szó Dosztojevszkijnél, [in:] idem, Dosztojevszkij poétikájának problémái, Gond-Cura/Osiris, Budapest, 2001, p. 251 (trad. B. Hoffmann). 47 specificità del genere che ci è dinanzi come forma poetica del dubbio. In secondo luogo ci si accosta al dubbio partendo dalle possibilità interpretative del ruolo di Agostino, e infine, in terzo luogo, occupandoci del ruolo svolto dall’ Introduzione nell’integrità dell’opera, e considerandola quale parte organica del Secretum, la problematica del dubbio viene esaminata alla luce dell’intenzione dell’auto re. I. 1. È un’esperienza a tutti nota che l’atto verbale del discorso ha la prete sa e la consapevolezza di servirsi di un’unica voce, che è esclusivamente quella del parlante, fatto che rimane spesso incosciente nelle sue intenzioni finali. In altri termini il parlante vuole prendere possesso della lingua stessa mediante la sua voce – e lo fa pure – ma nel corso di quest’atto non può non subire una sconfitta poiché non è mai in grado di appropriarsi dei significati. La causa di tutto questo va cercata nel carattere ineliminabilmente dialogico della lingua stessa (basti qui accennare al variare quasi maniacalmente oscillante del significato di volontà, fama e amore in Francesco e in Agostino). Ma non potrebbe darsi che non sia proprio il carattere specifico della parola a segnalare e, anzi, a rendere necessaria la sua specificità basilarmente retorica? In altri termini: appare evidente come la volontà dell’enunciato monologico a costituire una sola voce, esclusivamente sua, sia un tentativo incapace di privare il linguaggio della retorica che ne è propria, e cioè della sua stessa caratteristica di base. È lampante che, se nella parola vi è sempre l’estraneità a se stessa come momento che ne mette in dubbio il significato, il dubbio medesimo deve pur possedere una sua natura linguistica, poiché esso si nutre di connotazioni di significato di cui la parola si è appropriata nel corso del suo status ontologico e le quali si attivano inaspettatamente in un contesto determinato, emergendo dall’oblio. È appunto la letteratura a testimoniarcelo nel modo più pregnante55. Prima però di iniziare l’interpretazione del Secretum, diamo un’occhia ta alla confessione, all’atto di penitenza come atto verbale. In questa forma penitenziale si è di fronte all’inten zione del parlante, che si trova già al di là del suo io precedentemente disgregato, diviso, di manifestare davanti ad un’al tra persona la sua unità monolitica, ovvero di rendere per se stesso 55 L’unità della parola sottoposta al tempo e alla propria storia può essere più o meno illustrata dalla sua analogia con l’unità dell’uomo che si manifesta nella sua paradossalità, pri vata appunto della compresenza temporale delle qualità e proprietà di cui essa consta, mentre l’unità della parola esistente in un dato contesto viene pri vata di tutte le sue possibili connotazioni di significato. Cfr. N. Hartman, )+* , -/.021 3547684393;:</-=3#: >"?A@%BC1D?021D>"E=3;F [in:] idem, Lételméleti vizsgálódások, Gondolat Kiadó, Budapest, 1972, pp. 346-347. 48 ineliminabile, grazie alla confessione, l’intenzione di cambiare lo stato del suo animo. Vale a dire che egli confessa a Dio la pre-istoria dell’unità ristabilitasi dell’io. Così, tramite il sacerdo te, si rivolge in modo apostrofico a Dio, ma al tempo stesso vi si rivela anche il momento autoapostrofico poiché il parlante ha ottenuto il dominio su uno dei suoi due io. La confessione è un tentativo che mira a formare, partendo dalla parola internamente dialogica, un discorso monologico in cui però è presente anche l’altra voce – siccome la necessità stessa della confessione ne rende evidente l’esistenza –, sebbene la sua direzione non sia più in grado di sviarla. Possiamo anche dire che l’affermazione si costrui sce sulla negazione. Il carattere dell’affermazione è di stampo morale, la sua natura è di stampo ontologico, mentre il modo enunciativo è monologico. Questa tipologia della voce nella letteratura può essere imparentata con la lirica apostrofica, poiché in essa l’apostrofe è il tramite della nascita della poesia: la voce si crea grazie all’apostrofe 56. Ecco perché, nella confessione, il discorso sembra essere a un’unica voce, e per questo può presentare l’io come unità monologica. Tutto ciò però vuol dire che il carattere dialogico della parola, che in questa sua voce nonostante tutto è presente come negazione dell’altra, come mancanza esistente, non può che essere al tempo stesso documentato. 2. Com’è noto, nella lirica autoapostrofica la voce si raddoppia, si divide in due voci opposte e contrapposte. Ne è tratto distintivo il fatto che il parlante, rivolgendosi a se stesso, cerca di dominare uno dei suoi due io in esso presenti57. Ci siamo riferiti a questo fenomeno semplicemente per rilevare quanto sia sottile il confine di genere che passa tra essa e la forma drammatizzata del monologo interiore. Quest’ultima, grazie alla creazione di figu re, rende espliciti i processi internamente opposti dell’anima e dell’intelletto: la parola disgregata dell’io che lo svia da se stesso, si presenta davanti al lettore come dialogo esteriore e, grazie a questa esteriorizzazione, può anche illustrare in modo visivo il carattere contrapposto del discorso interiore. Mentre la voce della lirica autoapostrofica è già al di là dell’articolazione del dubbio (vi allude l’apostrofe indirizzata a se stesso) e presenta le difficoltà della scelta, la variante drammatizzata del monologo interiore dell’opera pe trarchesca esemplifica la forma poetica del dubbio, dato che è appunto questa la forma con cui la presentazione del dubbio come tema si armonizza in modo perfetto. È a dire che in vece del discorso dell’io lirico, troviamo che il mio io da una parte afferma una tesi, dall’altra però ve ne oppone un’altra . 56 J. Culler, Aposztrophé, “Helikon” 3, 2000, p. 377. Kulcsár-Szabó Zoltán, A „te”lírai alakzatának kérdéséhez, [in:] idem, Az olvasás leheG"H=I5JLKNM O , Kijárat Kiadó, Budapest, 1997, pp. 41-51. 57 49 In altri termini il dialogo puro58 che nel Secretum in apparenza, ovvero in relazione con il modo del discorso letterario, si rivela come una lotta tra la parola propria del parlante e quella altrui, espone il carattere dialogico della parola che costruisce in modo implicito il discorso monologico. L’Introduzio ne definisce le due voci contrapposte, ovvero definisce il dialogo come mezzo e forma, il che sposta l’opera nella direzione dell’appropriazione e della conoscenza dell’io, considerando le due voci come appartenenti ad un unico io. La forma drammatizzata si manifesta dunque come la forma fissata per iscritto (ma internamente disgregata) dell’en unciato monologico dell’io. In al tri termini diremo che se, a proposito della lirica apostrofica, nell’atto apo strofico ci troviamo di fronte appunto alla formazione della voce poetica e della poesia stessa, in Petrarca tuttavia il momento poetico che mira a produrre un’opera artistica con l’aiuto della sua forma dialogica nasconde l’atto autoapostrofico e si forma e, di conseguenza, si trova dinanzi a esso come una voce che distrugge la possibilità dell’esistenza di un enunciato che si basi su un’uni ca voce autosufficiente. La forma dialogica crea dal trattato di stampo filosofico-morale la forma poetica del dubbio. 3. Se prestiamo ora attenzione alla forma narrativa del genere confessionale – alludiamo soprattutto alle Confessioni di Agostino, in cui il protagonista centrale è egli stesso come lo è anche Petrarca nel suo Secretum – in cui la produzione della forma poetica viene determinata dall’identità dell’io narran te e dell’eroe, potremo osservare una sorta di situazione psicanalitica che pr esuppone, per fine terapeutico e al tempo stesso per condizione, che il soggetto sia in grado di rendere, grazie alla narrazione, la vera e propria storia della sua vita impenetrabile, chiarendo anche i propri dubbi. Ecco perché le forme confessionali hanno per elemento ineliminabile il carattere autobiografico. La confessione dei peccati compiuti in età giovanile assume la forma di un’ango scia intellettuale in cui i peccati sono presentati come qualcosa che deve essere oltrepassato. La scrittura non tanto serve a rievocarli nella memoria, quanto piuttosto è un mezzo che crea la memoria stessa. In questo “romanzo dell’io e sull’io” il successo della confessione dipende anche dalla rivelazione del ca 58 In Platone non tutti i dialoghi possono essere ritenuti “p uri”. Ai dialoghi del Convito e del Protagora si mescolano intermezzi narrativi: il protagonista infatti non solo domanda e risponde, ma riassume anche in modo narrativo gli eventi precedenti, rievocando in forma di cornice i discorsi di Socrate e disegnando la situazione in cui essi vengono pronunciati. Specialmente nel Fedone e nel Timeo domina la narrazione del protagonista con caratteristiche tipiche della trattatistica, né manca in essi la qualificazione dei partecipanti (dialogo nel dialogo). In Crizia è il dialogo a cedere il posto alla narrazione del protagonista, e il dialogo serve solo da condizione e introduzione a un discorso in prima persona; inoltre anche il monologo di Lisia nel Fedro – che si riferisce alla lettura di un libro – è una testimonianza di questa tipologia. 50 rattere dialogico della parola, che deve presentare non solo il significato nuovo, bensì anche il processo con cui esso si produce, perché l’altra voce impli cita nel discorso monologico – nel caso della guarigione e nel caso che il parlante riesca a trovare la forma narrativa con cui esprimersi autenticamente – non sia più in grado di sviarne la direzione. Il ritrovamento della nuova lingua non può avvenire semplicemente con lo smarrimento di ogni traccia della vecchia lingua. 4. Mentre nei dialoghi platonici e ciceroniani la ricerca della natura della virtù (di una verità morale) ci sta dinanzi come scontro delle posizioni di due persone differenti, questa duplicità figurale in Petrarca rimane un momento esteriore: diventa una forma d’espressione, un’ipostasi della duplicità, dei dubbî dell’io, ed h a per scopo non tanto di seguire un filo logicamente convincente, quanto di formulare questa duplicità. L’insieme di autoappro priazione e di assenso, come principio stoico su cui si basa l’autonomia uma na, e che viene indirizzato da Agostino a Francesco, come anche la contestazione di questa possibilità da parte di Francesco che si riferisce alla volontà che non vuole, servono a sottolineare la presentazione della duplicità contrapposta di una coscienza. È la minestra di lenticchie, si potrebbe dire, ad aspettare di essere divorata o respinta dal protagonista. Nel dialogo petrarchesco l’autore è segnalato formalmente co me Francesco, ma effettivamente tutto ciò che sotto quest’aspetto pare esteriore, ovvero la figura di Agostino, è anch’esso interiore: infatti, in queste due figure è in vigore la dialettica della duplicità interiore caratterizzata dalla contrapposizione, forma della duplicità dell’io di sgregato. In altre parole: la disgregazione contrapposta dell’io di mezzato prende, sotto l’aspet to del genere, la forma di due figure esteriorizzate59. Della verità l’io non può appropriarsi nemmeno in chiusura dell’opera: anche se Francesco concorda con gli argomenti agostiniani, arriva solo ad una distillazione intellettuale-spirituale della comprensione e non si spinge fino alla sua base ontologica, cioè fino all’impianto nella prassi di tutto ciò che da lui è stato compreso. Vale a dire che il maestro e l’alunno fanno parte del medesimo io. Anche se i dubbi sono più o meno già spariti, la forza della volontà rimane dubbiosa. E in modo paradossale deve rimanere così, se Agostino ha ragione, perché per far funzionare la volontà ci vuole il dono della pietà. È per questo che la nascita del dialogo deve essere attribuita al senso di 59 Nel dialogo platonico si scontrano due sistemi di idee: l’autore non si presenta mettendo si nei panni di uno dei protagonisti del dialogo, le parti in discussione sono manifestamente esterne, anche se Platone si pone dal punto di vista di una di esse (Socrate). Nelle opere dialogiche ciceroniane il carattere del dialogo viene determinato dal rapporto tra maestro e alunno. Il maestro possiede la verità ed egli non è altro che figura dell’autore. È qui in vigo re la dialettica dell’interiore e dell’esteriore. 51 colpa latente. Questo confronto potrà aver luogo nella visione o nel sogno. Ecco perché al centro si pongono il riconoscimento e il volere del libero arbitrio60. Inoltre, a proposito del modo del discorso, ovvero del genere, va rilevato come nei dialoghi platonici e ciceroniani non sia presente nemmeno in modo implicito l’aspetto confessio nale, così che esso non può determinare il carattere dei dialoghi. L’opera petrarchesca rievoca la forma del dialogo pla tonico solo esteriormente, ma con questa esteriorizzazione è in sostanza la forma del soliloquium, che si basa sulla parola internamente dialogica, ad essere presente61. E se ciononostante è vero che nei dialoghi precedenti traspare la personalità dell’auto re, è vero pure che essa non ne costituisce l’argom ento, mentre in Petrarca e in Agostino è la personalità del parlante a diventarne il tema e, grazie ad essa, la direzione delle domande di stampo epistemologico si sposta nella direzione di una comprensione di tipo ontologico62. D’altro canto tutto ciò si manifesta nel fatto che Petrarca, più che parlare di se stesso, racconta se stesso con l’aiuto del genere drammatizzato dell’immediatezza mediata. 60 La “libertas arbitrii” – come spiega Pietro di Dante – «presuppone la ragione, ma non si identifica con essa, in quanto comporta una scelta operativa, che è propria della volontà». Cfr. G. Frasso, Purgatorio XVI–XVIII: una proposta di lettura, [in:] F. Tateo, D.M. Pegorari (a cura di), Contesti della Commedia. Lectura Dantis Fredericiana 2002-2003, Palomar-Athenaeum, p. 76. 61 La situazione è poi analoga nel caso in cui si prendano in esame le caratteristiche basilari del dialogo socratico come enunciato verbale nei confronti dell’opera petrarchesca. L’idea principale secondo cui «la verità nasce non nella testa di un singolo uomo, né in essa alberga, ma è tra gli uomini che la cercano nel corso dei loro contatti dialogici», è data anche nell’opera petrarchesca nella forma esteriore del dialogo che si svolge dentro l’io, ma per quel che concerne la sua essenza, si accosta al genere della diàtriba e/o a quello del soliloquio. La causa di questo fenomeno – come osserva Bachtin – è che «si è di fronte alla dialogizzazione del discorso e del processo della riflessione», davanti alla formazione di un “rapporto dialogico” con se stessi che distrugge sia «la totalità ingenua delle immagini che di noi stessi ci siamo creati […] sia l’involucro che ricorpre l’immagine che altri si sono fatta di noi». M. Bachtin, op. cit., pp. 138-150 (trad. B. Hoffmann). 62 Il soggetto dell’atto di penitenza e della confessione, dato che essa è il discorso in assolu to più personale, può essere definito sia il discorso di un io disgregato, sia come un tentativo fatto dall’io di passare dal livello indivi duale a quello del soggetto, della persona. La coscienza della persona, secondo Béla Hamvas, «non coincide né con la coscienza individuale (desiderio di gloria, fama, ricchezze, successo), né con quella collettiva (comunità di interessi). […] La persona deve confessarsi e rivelare la propria sorte, i propri atti, il proprio punto di vista, le intenzioni, i peccati, vale a dire la propria passione per la beatitudine. […] La persona è una nozione propria della storia, che mira a salvarsi l’anima». Non è un caso che Hamvas sottolinei il ruolo della coscienza confessionale nella formazione del Bildungsroman, del romanzo biografico, del romanzo epistolare, della forma diaristica, nel romanzo in generale, specialmente a partire da Cervantes. B. Hamvas, Regényelméleti fragmentum, [in:] idem, Arkhai, Medio Kiadó, Budapest, 2002, pp. 298, 290, 299. 52 Nel distanziarsi dal dialogo platonico il momento decisivo non sta semplicemente nel fatto che nel dialogo petrarchesco sia un vivo a discorrere con un morto, ma nella forma in cui l’io parla con un morto e, per giunta, ci parla come con il proprio io innalzato a livello della coscienza dal suo stato caduto in oblio. È il passato quale parte dell’ hic et nunc, nella sua attualità, a pronunciarsi come parte dell’io. II. L’indulgenza agostiniana che si presenta in chiusura dei dialoghi non deve essere considerata come una vittoria provvisoria di Francesco o una qualsiasi sconfitta del padre della chiesa, poiché Agostino, in armonia con le proprie idee – secondo cui «l’uomo non è capace di fare nulla di bene» e, di conseguenza, «il bene è il risultato dell’effetto della pietà divina» ovvero, in altri termini, «parlando della corruzione della volontà umana» in realtà «esprime la sua convinzione sulla pietà di Dio»63 – non può credere che l’enu merazione dei principî dello stoicismo e del cristianesimo siano sufficienti, senza la pietà divina, a sviare la volontà di Francesco. Dunque è ben cosciente del fatto che il suo desiderio non basterà di per se stesso a condurre Francesco nella giusta direzione64. All’ombra di quest’impostazione petrarchesca in verità va intravista la contrapposizione delle idee agostiniane e pelagiane basate sull’ottimismo dell’etica antica e cioè sulla forza della volontà umana. Dunque la conclusione dell’opera conferma la giu stezza delle idee agostiniane in opposizione a quelle di Pelagio e della dottrina stoica, poiché Francesco da e per se stesso non è capace di volere ciò che dovrebbe volere: ovvero, la non-decisione di Francesco conferma la giustezza di Agostino che sottolinea l’ine liminabilità della pietà e smentisce le affermazioni di Pelagio. Non ci è noto che László Szörényi abbia accennato a questo fatto in una sua riflessione secondo cui Petrarca avrebbe compreso meglio Agostino di quanto l’avessero fatto tanti altri filologi 65. Secondo quest’inter pretazione della pietà l’ Introduzione ci è davanti come qualcosa che può aver 63 D. Sattler, T. Schneider, Teremtéstan, [in:] B.J. Hilberath et al., A dogmatika kézikönyve, Vigilia Kiadó, Budapest, 1996, pp. 189-190. 64 Questo tipo di “sconfitta” dell’argomentazione agostiniana si riferisce in modo parados sale appunto alle idee degli stoici che sottolineano l’autoappropriazione (la coscienza del fatto che i nostri pensieri e atti appartengono a noi) e l’assenso come atto epistemologico con cui respingiamo o approviamo le nostre idee per fondare filosoficamente l’autonomia della nostra personalità. Cfr. K. Steiger, Utószó, [in:] Sztoikus etikai antológia, Gondolat, Budapest, 1983, p. 513. 65 L. Szörényi, PRQTSU2VW'X Y Z\[2]D['^C_R`Ta#bc[2dCe;f dhgji[lk5_=km _ Secretumához), [in:] F. Petrarca, Kétségeim titkos küzdelme, ford. Lázár István Dávid, LAZI Bt., Szeged, 1999, p. 154. 53 già toccato l’autore 66. A questo allude già persino la prima frase che – fissando un qualsiasi influsso degli argomenti di Agostino – sottolinea una condotta di vita che tenga ormai presente la transitorietà della vita umana: «Mentre stavo sospeso meditando, come fo spesso, in qual modo fossi entrato in sì fatta vita e in quale ne sarei uscito»67. III. L’ Introduzione ha un ruolo analogo, anche se non tanto radicale, a quello del sonetto introduttivo del Canzoniere: è una palinodia che viene promessa al lettore, nella quale tutto ciò che seguirà l’ Introduzione viene presentato come un traviamento già compreso e che, dunque, ci si è già lasciati in parte alle spalle («e non già perché lo voglia comprendere fra le altre mie opere e attendermene gloria – ne volgo per la mente certe ben maggiori»68), per il fatto che suggerisce un cambio di direzione verso il futuro. Coincide con questa direzione anche l’osser vazione fatta da Francesco in chiusura dell’opera: «Sarò presente a me stesso quanto potrò: raccoglierò gli sparsi frammenti dell’anima m ia e vigilerò diligente su di me».69 Ne risulteranno i Rerum vulgarium fragmenta. Di un momento simile sono evidemente privi i dialoghi platonici e ciceroniani: è questo ciò che sposta l’opera petrarchesca verso la for ma drammatizzata della confessione lirica. Oltre a tutto questo, l’osservazione che sottolinea il desiderio di rivi vere la delizia che deriva dalla rievocazione del colloquio con Agostino si manifesta come un momento esplicitamente estetico, il che contraddice la supposta intenzione di Petrarca di non pubblicarlo e il fatto che potesse eventualmente riferirsi ai contemporanei, ma non ai lettori futuri70. Tutto ciò è 66 Sotto quest’aspetto condividiamo il pensiero di Santagata, secondo cui «quel libro è anche l’esame di coscienza di un letterato: che fa i conti molto seriamente con il suo modo di concepire, sino ad allora, la lettteratura e l’impegno culturale; che giunge a mettere in crisi una consolidata immagine di sé, in quanto scrittore; che prospetta una nuova dimensione alla sua ricerca letteraria». M. Santagata, I frammenti dell’anima , il Mulino, Bologna, 1992, pp. 6061. Se è davvero così, cioè se Petrarca dopo la svolta svolge un’attività letteraria ormai differen te (raccogliendo e redazionando le sue lettere metriche e le epistole in prosa, oltre che le liriche del Canzoniere), l’ Introduzione della fictio rimanda al momento del riconoscimento illuminato dal raggio di pietà almeno nell’intenzione poeti ca, che sarà confermata, tra l’al tro, appunto nel sonetto introduttivo del Canzoniere. 67 F. Petrarca, Secretum, [in:] G. Martellotti et al. (a cura di), La letteratura italiana. Storia e testi, Milano-Napoli, 1955, vol. VII, p. 23. 68 F. Petrarca, Secretum, op. cit., p. 27. 69 F. Petrarca, Secretum, op. cit., p. 215. 70 «Il “libro segreto” faceva dunque parte di un progetto che prevedeva la costruzione di un autoritratto complesso e contraddittorio ma ineluttabilmente proiettato alla finale conversio in Deum: che gli toccasse la parte di un messaggio ai posteri piuttosto che ai contemporanei, 54 confermato anche dall’ Introduzione stessa che, nel caso opposto, perderebbe la sua funzione. E non parliamo delle ultime righe che rimandano al modo della scrittura, cosa che sembra completamente superflua qualora manchi l’intenzione da parte dell’autore di pubblicare l’opera. Questo fatto non viene diminuito di intensità neanche dal passo che costringe il libro a non uscire dal suo nascondiglio. Al contrario: sembra si tratti di una preterizione inversa, e desta quasi ilarità il momento in cui l’autore, a mo’ del commiato tipico delle canzoni, non manda l’opera tra la gente, ma fa una dichiarazione in senso opposto che, per giunta, figura alla fine di un testo in prosa. Petrarca dona così ai suoi lettori un nuovo dubbio. Ci si chiede, a questo punto, perché abbia rielaborato il suo libro almeno tre volte71. L’ Introduzione dunque non può essere vista come se non facesse parte del libro, poiché oltre a sottolineare il carattere autobiografico della scrittura ed a fissare la situazione in cui il dialogo si realizza (rendendo evidente il carattere onirico della scrittura), esprime anche le intenzioni dell’autore. Petrarca crea una distanza tra la chiusura e l’ Introduzione. Quest’ul tima disegna già l’immagine del parlante che sta per compiere i suoi passi nella giusta direzione. Chissà che non lo faccia sotto il primo raggio della pietà. come le altre opere ascetiche, è il portato di un’astu ta strategia culturale da Petrarca sistematicamente perseguita». M. Ariani, Francesco Petrarca, [in:] E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana, Salerno-Roma, 1995, vol. II, p. 639. 71 Alla fine della copia fiorentina – sostiene Rico – si trovano tre datazioni: 1347, 1349, 1353, e la copia conservata è identica all’ultima, essenzialmente esente dalle correzioni poi apportate nel 1358. Cfr. L. Szörényi, nRoqpr2st'uwvyx\tzDtD{=|R} (Utószó Petrarca Secretumához), [in:] Francesco Petrarca, Kétségeim titkos küzdelme, LAZI Bt., Szeged, 1999, pp. 152-153. 55 56 ANTONIO D. SCIACOVELLI Graziosissime donne Grazia divina e grazia femminile nel Decameron72 Prima di arrivare ad una illustrazione concettuale di quanto espresso nel titolo, un primo approccio nell’inquadramento della discussione possibile sulla grazia femminile come derivante dalla grazia divina, ovvero come virtù di per sé individuabile in un sistema di valori morali, può essere quello che riguarda l’aggettivazione, è a dire la definizione attraverso at tributi ben definiti e di non frequente apparizione, di alcune figure femminili particolarmente importanti. Le donne eccezionali (o miracolose, come le definisce Branca73) possono essere caratterizzate, oltre che da una attenzione particolare da parte del narratore, da attributi ormai paradigmatici, come accade per il binomio «grazioso e benigno» già usato da Francesca come apostrofe a Dante nella Commedia74 (si veda in X, 10, 25 a proposito di Griselda: verso i subditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna), proprio ad indicare la compresenza di due qualità (grazia e bontà) la cui manifestazione scorre parallela ad un altro celebre “paio” reso noto sempre da Dante, quello di «gentilezza e onestà». La bellezza, infatti, per alcuni personaggi femminili, è scontata in quanto attributo necessario a che possano ergersi a protagoniste dei racconti che intorno ad esse ruotano: ciononostante, in presenza di un’altra fan ciulla straordinaria, la Giannetta figlia del Conte d’Anguersa di II, 8, Boccaccio usa 72 Ad un convegno sul dubbio e la fede sarebbe stato scontato se non addirittura banale, dovendo scegliere di muoverci entro l’ampia area consentita dall’opera boccacciana, scegliere una analisi delle novelle sulla fede che aprono il Decameron, oppure prendere in esame alcuni dei non rari attacchi del Certaldese alla corruzione ed al cinismo della Chiesa, in stridente contrasto con la fede dei semplici e la esemplare umanità dei magnanimi. Abbiamo scelto invece di presentare un altro argomento, sollecitati da quanto illustrato dagli organizzatori del Convegno a proposito dell’immagine della donna, che – anche secondo quanto si è cercato di dimostrare nel corso di questi ultimi anni e con la pubblicazione di una monografia sulla tipologia femminile del Decameron – ritrova proprio nella complessa struttura decameroniana una possibilità di esprimersi attraverso nuove prospettive, interessanti sperimentazioni, senza disdegnare in più di una occasione un sano contatto con alcune tradizioni tutt’altro che misogine. 73 V. Branca (a cura di), Giovanni Boccaccio. Decameron, Milano, 1985, X, p. 10, nota 43. 74 E si ricorda che grazia è dolce e cortesemente parlare (Convivio, IV, xxv 1). 57 il binomio «bellissima e graziosa» (cv. 41), che apre una serie di eventi eccezionali legati alla straordinaria continenza ed onestà della giovane. Ed ancora nella nona novella della terza giornata, assistiamo all’apparire della grazia carismatica, al dono intellettuale e quasi sciamanico della grazia attuale per mano di Giletta di Nerbona, figlia di medico e destinata a guarire il re di Francia, prima, poi a capovolgere miracolosamente la situazione di abbandono in cui versano i possedimenti del marito, ed infine la propria condizione di moglie tacitamente ripudiata, mediante una serie di azioni pietose, che culminano nella grazia concessa da Dio (come fu piacer di Dio, la donna ingravidò in due figlioli maschi, come il parto al suo tempo venuto fece manifesto). È la grazia divina che si riversa, seppure – in questo caso – in maniera assai venturosa, nelle gioie del matrimonio, come testimoniato dall’opinione di Bernabò riguardo alla spezial grazia da Dio concessagli di avere una donna per moglie la più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello dee avere! (II, 9, 8). Ancora prima che Ginevra/Zinevra appaia, come sovente succede per la presentazione delle figure femminili, ne vengono descritte le qualità di donna perfetta, ed il discorso di Bernabò, pur se limitato alla persona della sua consorte, è entusiasta di questo primato, e in questo si oppone radicalmente a quello di Ambrogiuolo, che sulla base del pregiudizio fondato sulla lettura capziosa della Scrittura, nega la perfezione alla donna, riservandola all’uomo. Già nella sec onda giornata dunque, subito dopo le peripezie erotiche di Alatiel (II, 7), Boccaccio fornisce almeno due esempi di donne depositarie di una grazia che è sia l’insieme delle quali tà che rendono la donna gradita alla vista, ai sensi, allo spirito; genere di bellezza gentile e delicata (che risalta specialmente nel volto)75 sia virtù, perfezione morale, attitudine, talento, predisposizione morale76, che infine riflesso della grazia divina nelle sue numerosissime forme, riconducendo lo spirito muliebre ad una esemplarità che ha molto in comune con i principî del culto mariano e delle sante, quale si sviluppa particolarmente proprio nei secoli dall’XI al XIV. Parlandosi di donne eccezionali, abbiamo più di un implicito riferimento a figure femminili dell’agio grafia medievale. 75 Cfr. la voce grazia [in:] S. Battaglia (a cura di), Grande Dizionario della Lingua Italiana (GDLI), Torino, 1972, VII (GRAV-ING), p. 12. 76 GDLI, p. 13. 58 Le sante Nonostante questa tipologia (apparentemente) appaia assai distante da quella che ad una lettura superficiale potremmo immaginare tipica del Decameron, non possiamo fare a meno di riferirci a quegli esempi agiografici che, nell’Europa mediterranea soprattutto, privi legiano lo studio della santità di alcune donne. Non sono pochi gli studi sulla santità del Medioevo, secondo cui essa risulta avere caratteristiche ben differenti a seconda che ci muoviamo nell’Europa medi terranea, in quella dei regni centrorientali, ovvero nelle terre più “lontane” dell’àmbito britannico o scandinavo 77: senza ora soffermarci sulle pur interessantissime considerazioni che emergono a proposito della composizione sociale di intere “schiere” di santi, rimarcheremo come la santità femminile del Medioevo si carichi anche di un significato di “com pensazione” rispetto alla considerazione a priori negativa della donna prove niente dal pregiudizio biblico78. L’àmbito stesso entro cui le sante si muovo77 A. Vauchez, La santità nel Medioevo, trad. di A. Prandi, Bologna, 1999, pp. 355-374. L’analisi di questa problematica coinvolge tutto il pensiero “sulla donna”, quale si riflette negli scritti di natura più varia, e non solo durante il Medio Evo: punto di partenza fondamentale per la proliferazione di una lettura – più o meno spiccatamente – misogina della storia dell’umanità è sicuramente l’interpretazione dell’episodio della tentazione che provo ca il peccato originale, accolto da diversi lettori e commentatori (San Girolamo, Gregorio Magno, Rabano Mauro, Ugo di San Vittore, etc.) come un momento in cui si evidenzia la dicotomia tra Eva come carne e Adamo come spirito; v. a questo proposito la sintesi di G. Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, trad. di G. Viano Marogna, Roma-Bari, 1999, pp. 35-55. La caduta in tentazione e, di conseguenza, nel peccato, viene chiaramente addebitata alla cupiditas femminile, che condiziona persino fisiologicamente le funzioni biologiche della donna: un esempio classico della valenza negativa della natura femminile risiede nell’in quietudine che l’uomo del Medio Evo sente di fronte al sangue mestruale, testimoniata dal vero e proprio “catalogo” di malefatte compiute da tale elemento, spesso associato al veleno; v. Thomasset [in:] G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di Ch. Klapisch-Zuber, Roma-Bari, 1998, pp. 56-87. La donna mestruata – allo stesso modo della donna non più in grado di generare, dunque considerata nel periodo seguente la menopausa, quando non ci sono più le mestruazioni a consentirle di liberarsi delle “cose su perflue” e quindi nocive – ha uno sguardo che appanna gli specchi, dunque emana proprio da quell’organo che dalla poesia sarà deputato a “tra smettere l’innamoramento”, il flusso mefitico che provi ene dalla sua intimità. Da qui a porre la donna in stretto rapporto con il mitridatismo, il passo è breve, con tutte le conseguenze – anche metaforiche – che ciò implica, come il bacio avvelenato, il coito utilizzato come arma fatale, e così via: non dimentichiamo che tali credenze si sono conservate nel profondo della cultura popolare europea, e che ancora a metà del ventesimo secolo vivevano “indi sturbate” tanto da motivare l’interesse di un grande studioso come Ernesto de Martino ( Sud e magia, apparso nel 1959, dedica numerosi capitoli alla dimensione magica della fisiologia femminile). La donna, dunque, porta dentro di sé una condanna biologica che viene talvolta vissuta in maniera problematica, specialmente nel momento in cui ci si accosta alla fede nella 78 59 no è diviso tra il contatto con il mondo e l’isolamento da esso: sostanzialmen te, mentre è piuttosto l’uomo a poter decidere di inter rompere i legami con la famiglia e l’auto rità paterna, la donna è comunque soggetta, almeno in prima istanza, all’ottica del matrimonio imposto come “nor male cornice” della vi ta79. Non sono rare infatti le donne che raggiungono la santitudine dopo il matrimonio, nella vecchiaia o in seguito alla vedovanza, e che nel ritiro in convento o nel farsi “mu rare” presso una chiesa ritrovano una dimensione intima favorevole ad una diversa impostazione della loro vita spirituale. Queste donne sante (o sante donne) riescono ad avere una incredibile forza di suggestione sulle masse che le circondano, sia per l’esempio di ri congiungimento alla divinità che riescono ad offrire (e qui siamo in presenza di una particolare concezione della grazia), sia per il loro porsi a giudici della comunità, che talvolta teme addirittura le critiche da esse mosse ai comportamenti generali ed individuali80. Quelle che con felice espressione sono state chiamate le poetesse di Dio, ovvero le mistiche che dall’XI secolo sono sempre più presenti nella vita spirituale europea, rappresentano per la nostra analisi un momento particolarmente importante di riflessione: si tratta infatti di donne coscienti del loro compito intellettuale, che con diverse testimonianze rappresentano un aspetto illuminante per comprendere una funzione “unica” della donna nella società medievale. Molte di esse fondano monasteri o divengono priore, badesse, ma non sono rari i casi di predicatrici, come quello della celebre Margherita Porete: sia nelle opere che esse ci hanno direttamente lasciato, che nelle dimensione “privilegiata” dell’aspirazione alla santità: il discrimen temporale della fioritura della spiritualità mariana (dal XII secolo in poi) è un momento significativo per la rivalutazione del ruolo delle donne nella storia della salvezza (Vauchez, op. cit., pp. 356-358) e per lo sviluppo di forme nuove di vita religiosa adattate ai bisogni delle donne (le beghine, oppure la possibilità di perseguire la santità senza entrare in convento, ma in domibus propriis), che spiegano la fioritura della santità femminile laica dal Duecento in poi. 79 Non bisogna dimenticare che il matrimonio è stato istituito da Dio stesso in Paradiso: è dunque il più antico degli “ordini” ( et erunt duo in carne una, Genesi II, 24), ed insieme condizione a che si realizzino i due imperativi divini (crescite et multiplicamini, Genesi I, 28) su cui si basa la continuità della vita stessa sulla terra. Il matrimonio antico e medievale, inoltre, non era soltanto un “cambiamento di stato”, ma comprendeva un lungo pro cesso di cerimonie, di rituali, di lenta realizzazione di interdipendenze sociali, grazie al quale già in epoca romana era evidente il rapporto tra legame matrimoniale e storia della repubblica, rapporto poi riesaminato e ritenuto ancora valido da Sant’Agostino , che vede in esso l’isti tuzione fondamentale per costruire la pace nella comunità politica; v. Owen Hugues [in:] M. De Giorgio, Ch. Klapisch-Zuber, Storia del matrimonio, Roma-Bari, 1996, pp. 5-13. 80 Ciò vale sia per le fondatrici di monasteri e per le badesse, che per le “recluse”, che rappresentano un tramite tra la divinità e la vita spirituale della comunità di cui – pur essendo nominalmente da essa escluse – fanno parte: in generale, le forme di vita spirituale che necessitano della pratica della clausura, sembrano autorizzare le recluse ad un rapporto di superiorità nei confronti del “mondo”. 60 biografie compilate dai promotori delle loro canonizzazioni, vediamo apparire forte la coscienza di quanto fosse importante – oltre l’esempio verbale – che la parola scritta si ponesse a custodia della memoria di alcuni percorsi di vita che nell’epoca di massima fioritura culturale ed economica dell’Europa medievale (XI-XIV secolo) si ponevano in stridente contrasto con quelli che oggi chiameremmo il progresso e la diffusione della società dei consumi. Molte di queste personalità, infatti, muovevano, come i loro omologhi maschili, aspre critiche ad una società in corso di stabilizzazione, che vedeva nell’accumulo delle ricchezze un mezzo privilegiato per assicurarsi una soli dità che le cronache testimoniavano nuova, dopo secoli buî di incertezze e timori: l’atteggiamento della più importante monaca dell’XI seco lo, Ildegarda di Bingen, può essere paradigmatico di questa facoltà di criticare i “nuovi co stumi”, se è vero che anche nella fondazione e organizzazione dei monasteri riteneva fondamentale che si conservasse il privilegio nobiliare81, ma poi non risparmiava critiche ai sacerdoti che con la loro vita sempre più mondana si allontanavano dal giusto modello comportamentale, prestando così il fianco agli attacchi mossi dai movimenti ereticali82. Se le donne che accettano di servire Iddio nel chiuso del convento costruiscono implicitamente un mondo a loro misura, un mondo generalmente femminile (ma non sono pochi i casi di donne che governano un monastero maschile), quali sono le loro opinioni sulla donna in quanto tale, in quanto messa in rapporto con l’u omo? Nel brano in cui rievoca la prima coppia della Terra, Ildegarda ricorda che, mentre l’amore del l’uomo per l’amore della donna è ardente quanto il fuoco dei vulcani che difficilmente può spegnersi e diventa poi un fuoco di legna che si spegne facilmente, al contrario l’amore della donna per l’amore dell’uomo è come un dolce calore che viene dal sole e che porta frutti; si muta in fuoco di legna molto ardente ed è per questo che, nel bambino, porta un frutto di dolcezza83. Ecco una particolare concezione della grazia, che resta importante, se non fondamentale, anche nella possibilità di interpretazione a disposizione degli autori del Trecento. Nel prologo al suo Specchio delle anime semplici annientate, Margherita Porete parte, per spiegare le ragioni che hanno spinto l’Anima a scrivere il libro, dall’ esempio della fanciulla innamorata del re Alessandro, la quale compone un’immagine dell’amato per poterlo vagheggiare, onde superare la distanza che da esso lo supera (ibid. 154): nella descrizione di questo amore di lontano, che pure non deve aver fatto a meno di suggestioni culturali contemporanee, la figura della fanciulla è vista nel suo afflato più puro verso l’amore, nono stante questo le causi do81 E. Ennen, Le donne nel Medioevo, trad. di G. Corni, Roma-Bari, 1991, p. 163. Ibidem, p. 164. 83 G. Epiney-Burgard, E. Zum Brunn, Le poetesse di Dio. L’esp erienza mistica femminile nel Medioevo, a cura di D. Bremer Buono, Milano, 1994, p. 52. 82 61 lore e pena. Il culmine della scrittura mistica femminile può essere rappresentato, non soltanto a nostro avviso, da Caterina da Siena, che vive durante la seconda metà del Trecento e rappresenta la sintesi di tutto un movimento “ita liano” in cui sono com prese Chiara d’Assisi (†1253), Margherita da Cortona (†1297), Angela da Foligno (†1309): dalla storia del proprio annientamento in Dio, che si realizza con le privazioni e le autoumiliazioni, possiamo avvicinarci ad un immaginario che anche per Caterina indica il tentativo di raggiungere l’unione mistica, il matri monio perfetto con Cristo84, senza necessariamente implicare la cancellazione della femminilità, della grazia come summa di attributi fisici e virtù spirituali. Le figure delle sante medievali sono comprese da un sentimento di amore e di totale dedizione, che difficilmente si potrebbe allontanare da una esperienza totalizzante, in cui è proprio la grazia, nel senso di sensibilità femminile ad essere chiamata in causa, come la più adatta a piegarsi al desiderio di asservimento esclusivo al Signore, ovvero perché la donna che sceglie la via della santità, rinuncia ad un altro genere di vita attiva, riscattato dall’esempio della Ver gine. La raffigurazione del corpo femminile Esaminando la concezione della grazia nei personaggi femminili del Decameron non possiamo fare a meno di soffermarci sulle qualità fisiche di alcuni soggetti rappresentati, continuando la tradizione delle topiche classiche – e medievali – inerenti alle descrizioni delle diverse componenti della natura85. Tra queste topiche una delle più complesse – e ricorrenti – è quella del locus amœnus (che Boccaccio rinnova completamente attraverso una lunga serie di esempi disseminati nel corso della sua opera tutta) e, così come esiste non un solo paesaggio ideale, possiamo affermare che esista non una sola “donna ideale”: la poesia lirica aveva man mano raffinato, attraverso un’am plia codificazione, prima di Boccaccio, i tratti caratteristici della donna ideale poi confluita nella “donna angelicata”, tratti che il po eta di Certaldo utilizza 84 A. Pagano, L’immaginario di Santa Caterina da Siena , “Ambra” III, Szombathely, 2002, p. 104. 85 A tal proposito si vedano le considerazioni di E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. di A. Luzzatto e M. Candela, Firenze, 1993, pp. 118-122 e di L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del “Trionfo della Morte”, Roma, 2000, pp. 109-111 sulla rappresentazione di questi “mo delli” in connessione con la to pica del locus amœnus: in altra sede abbiamo argomentato a proposito della capacità di Boccaccio di superare la tradizione del locus amœnus a lui precedente proprio in alcune descrizioni decameroniane; v. A.D. Sciacovelli, Il superamento della tradizione nella tipologia decameroniana del “locus amœnus”, “Ambra” III, Szombathely, 2003, pp. 128 -145. 62 abbondantemente nelle prime Rime, spesso in combinazione significativa con alcuni loci amœ ni: Intorn’ad una fonte, in un pratello di verdi erbette pieno e di bei fiori, sedean tre angiolette, i loro amori forse narrando, e a ciascuna ‘ l bello viso adombrava un verde ramicello ch’ i capei d’or cingea, al qual di fuori e dentro insieme i dua vaghi colori avolgeva un suave venticello.86 All’ombra di mill’arbori fronzuti, in abito leggiadro e gentilesco, con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco lacci tendea, da lei prima tessuti de’ suoi biondi capei crespi e soluti al vento lieve, in prato verde e fresco, una angiolella; a’ quai giungeva vesco tenace Amor, e ami aspri e acuti.87 …vid’io colei, che ‘ l ciel di sé innamora, e ‘ n più donne far festa: e l’aureo vello le cingea ‘ l capo in guisa che capello del vago nodo non usciva fuora.88 …quando mi parve udire un canto lieto tanto che simil non fu consueto d’udir già mai nelle mortali scuole. Per ch’io:« Angela forse, o ninfa, o dea canta con seco in questo loco eletto», meco diceva, «degli antichi amori». Quinci madonna in assai bel ricetto del bosco ombroso, in su l’erbe e in su’ fiori, vidi cantando, e con altre sedea.89 Non credo il suon tanto soave fosse che gli occhi d’Argo tutti fé dormire, […] quant’una voce ch’io d’ un’angioletta udi’, che lieta i suoi biondi capelli cantand’ ornava di frond’ e di fiori.90 86 V. Branca (a cura di), Giovanni Boccaccio. Rime, Milano, 1992, I, pp. 1-8 (edizione su CD-ROM della Letteratura Italiana Einaudi, Torino, 2000). 87 Rime, op. cit., II, pp. 1-8. 88 Rime, op. cit., III, pp. 5-8. 89 Rime, op. cit., IV, pp. 6-14. 90 Rime, op. cit., V, pp. 1-2, 9-11. 63 Questi primi esempi (che Boccaccio, insieme alla Caccia di Diana, riconosce in una sua epistola come “debito di appartenenza ” al modello petrar chesco91) sono riconducibili ad una serie di influssi stilnovisti e danteschi, che man mano Boccaccio integrerà con nuclei tematici originali: uno dei quali è sicuramente l’accentuazione della sensualità delle rappresen tazioni, come è possibile reperire nella prima delle Rime di dubbia attribuzione: Iscinta e scalza, con le trezze avvolte, e d’uno scoglio in altro trapassando, conche marine da quelli spiccando, giva la donna mia con altre molte. E l’onde, quasi in sé tutte raccolte, con picciol moto i bianchi piè bagnando, innanzi si spingevan mormorando e ritraensi iterando le volte. E se tal volta, forse di bagnarsi temendo, i vestimenti in su tirava, sì ch’io vedeo più della gamba schiuso, oh, quali avria veduto allora farsi, chi rimirato avesse dov’io stava, gli occhi mia vaghi di mirar più suso.92 Il corpo femminile, dunque, viene rappresentato dal punto di vista del poeta-amante, che lo guarda e – quasi – lo spoglia con lo sguardo: l’attenzio ne passa dal biondo dei capelli al nitore dei piedi e delle gambe, suggerendo la completezza dell’apparizione. Ancor più parti colare è la prospettiva che Boccaccio ci propone nella Fiammetta, quando la protagonista si esamina e scopre di possedere bellezze che esercitano una irresistibile attrazione nei confronti degli altri: E come la mia persona negli anni trapassanti crescea, così le mie bellezze, de’ miei mali speciale cagione, multiplicavano. Ohimè! che io, ancora che picciola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e loro con sollecitudini e arti faceva maggiori. Ma già dalla fanciullezza venuta ad età più compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo quali disii a’ giovani possono porgere le vaghe donne, conobbi che la mia bellezza, miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, più miei coetanei giovanetti e altri nobili accese di fuoco amoroso.93 91 L. Surdich, Boccaccio, Roma-Bari, 2001, p. 9. Rime, op. cit., p. 1. 93 G. Boccaccio, L’elegi a di madonna Fiammetta, [in:] C. Salinari, N. Sapegno (a cura di), La letteratura Italiana. Storia e testi. Volume 8. G. Boccaccio, Decameron, Filocolo, Ameto, Fiammetta, a cura di E. Bianchi, C. Salinari e N. Sapegno, Milano-Napoli, 1952, pp. 1062-1063. 92 64 Se la bellezza si identifica dunque con il desiderio sensuale, essa si propone anche – nel caso di Fiammetta – come valore oggettivo in cui la protagonista stessa si riconosce. Nel Decameron ben più complessa si presenta la caratterizzazione fisica dei personaggi femminili: se è vero che in molte novelle Boccaccio privilegia una tipologizzazione sommaria, che si informa ad uno schema formulare alquanto rigido, sono proprio le eccezioni, ovvero le narrazioni in cui maggiori sono i particolari descrittivi della bellezza femminile, a costituire il campo di indagine più interessante da questo punto di vista94. La descrizione che rappresenta, per completezza ed intensità, un momento unico di abbandono al piacere della contemplazione delle grazie femminili, seguito dal momento della grazia attuale, è sicuramente quella di Ifigenia dormiente, vista con gli occhi di Cimone (V, 1): Per lo quale andando, s’avenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d’altissimi albe ri circuito, nell’un de’ canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento addosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea, e era solamente dalla cintura in giù coperta d’una coltre bianchissima e sottile; […] La quale come Cimon vide, non altramenti che se mai più forma di femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone […] la incominciò intentis simo a riguardare; […] E quinci comin ciò a distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la fronte, il naso e la boc ca, la gola e le braccia e sommamente il petto, poco ancora rilevato: e, di lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali ella da alto sonno gravati teneva chiusi… (V, 1, 6 -9)95 94 L’attenzione della critica si è diretta piuttosto verso la trattazione dell’erotismo come di una delle componenti insieme più apertamente presenti eppure più metaforicamente affrontate dalla trattazione boccacciana: costituendo questo una delle questioni più spinose della ricezione stessa dell’opera, ci troviamo spesso di fronte a posizio ni critiche ambigue, in cui si cerca di attribuire alla “vena erotica” del Boccaccio, di volta in volta, o una esagera ta licenziosità, o una fin troppo arguta e raffinata capacità di travestire l’istinto carnale e di in gentilirlo; v. Decameron di Giovanni Boccaccio, [in:] A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le Opere, Volume primo, Torino, 1992, pp. 68-72 (edizione su CD-ROM della Letteratura Italiana Einaudi, 2000). 95 Per le citazioni dal Decameron si userà di seguito la paragrafatura ormai canonizzata dall’edizione Branca; v. V. Branca (a cura di), Giovanni Boccaccio. Decameron, Milano, 1985. 65 Nonostante questo passo presenti dei tratti comuni con la rima di dubbia attribuzione suaccennata, notiamo una diversa direzione della curiosità di chi osserva: la descrizione minuta delle grazie fisiche di Ifigenia, nei colori delle quali predominano i toni che rendono inclini alla mitezza (candide carni, capelli d’oro ), è strumentale al cambiamento che il sentimento amoroso provoca nel petto di Cimone, e si mantiene nella topica della descrizione della donna leggiadra, che dovrà avere tutto proporzionato ad un ideale medio (di qui il particolare del petto, poco ancora rilevato, che ricorda quelle poppelline tonde e sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fos sono state (II, 3, 32) intuite da Alessandro nell’atto di posare la mano sul petto del misterioso abate). La peculiare forza attrattiva di questa bellezza verginale96 si manifesta tutta nel desiderio di Cimone di veder gli occhi della giovane donna: le luci del volto, che lungo tutto l’itinerario della lirica romanza medievale avevano conservato un primato innegabile, dominano la scena di questo “idillio pasto rale”, pur se in absentia. Nella sesta novella dell’ultima giornata saranno Gi nevra ed Isotta, con la loro formidabile grazia, a ripetere l’incantesimo del ra pimento erotico, ma con una dinamicità che si differenzia assolutamente dall’immobilità quasi contemplativa de lla bella Ifigenia: […] entrarono due giovinette d’età forse di quindici anni l’una, bionde come fila d’oro e co’ ca pelli tutti inanellati e sopr’essi sciolti una leggera ghirlan detta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; e eran vestite d’un vesti mento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in sù era strettissimo e da indi ’n giù largo a guisa d’un padiglione e lungo infino a’ piedi. (X, 6, 11) È significativo che – proprio nel caso di due novelle da noi già citate – Boccaccio ci presenti l’eccezionalità delle protagoniste nella loro – comune ma di diverso carattere – ostinazione a voler preservare il legame di amore e di affetto nei riguardi del coniuge, che invece si dimostra dal suo canto (come avverrà per lo stesso Bernabò) insensibile alla grazia che dalla donna emana, sino a provocare sadicamente l’inasprimento del rapporto. Parliamo di Gual 96 Nel suo ampio studio su Boccaccio visualizzato, Vittore Branca ha illustrato quanto grande sia stata la suggestione di questa – e non solo di questa – novella su una serie di illustrazioni che passeranno agevolmente dalla funzione “endotestuale” (quella cioè di rappresenta re la scena ai lettori dell’opera s tessa) a quella archetipica – ed “esotestuale” – per alcuni esponenti delle arti figurative, a partire da Botticelli; v. V. Branca, Boccaccio visualizzato. Amore sublimante, amore tragico, amore festoso dalla novella alla figuratività narrativa, [in:] La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Roma, 1989, pp. 288-290. 66 tieri e di Beltramo, protagonisti maschili delle novelle rispettivamente di Griselda e di Giletta da Nerbona. Il marchese Gualtieri, di fronte alla prospettiva di una vita familiare che prima o poi gli verrà imposta, non pensa che a cacciare ed a godersi la vita, riservandosi forse per un tempo a venire il cruccio di cercare una compagna adatta al proseguimento della schiatta: «né di prender moglie né d’aver fi gliuoli alcun pensiero avea; di che egli era da reputar molto savio» (X, 10, 4). Sono però le pressioni continue dei suoi vassalli a spingerlo ad esasperare la propria idiosincrasia nei confronti dell’istituto matrimoniale, e quindi ad esporre la propria teoria riguardo un tema di eterna attualità, ovvero la possibilità che due persone possano convivere in armonia: Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s’abbatte. E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere né come i segreti delle madri di quelle: quantunque, pur conoscendogli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e alle madri dissimili… (X, 10, 6 -7) Ciononostante Gualtieri si fa convinto della necessità di prender moglie: Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, e io voglio esser con tento; e acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’ vostri prieghi. (X, 10, 8) Il discorso del marchese sembra voler prevenire le conseguenze di una situazione simile a quella per cui il re di Francia, guarito da Giletta di Nerbona, acconsente a che ella sposi Beltramo di Rossiglione, cui però deve imporre questo matrimonio: «Beltramo, voi siete omai grande e fornito: noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro contado e con voi ne meniate una damigella la quale noi v’abbiamo per moglier data». Disse Beltramo: «E chi è la damigella, monsignore?» A cui il re rispose: «Ella è colei la quale n’ha con le sue medicine sanità ren duta». […] 67 «Monsignore, dunque mi volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io sì fatta femina prenda giammai». […] «Monsignore,» disse Beltramo «voi mi potete torre quanto io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò di tal maritaggio contento». «Sì sarete » disse il re «per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto: per che speriamo che molto più lieta vita con lei avrete che con una dama di più alto legnaggio non avreste». (III, 9, 19-25) Il compromesso a cui il re di Francia deve piegarsi è quasi inspiegabile, soprattutto agli occhi del giovane conte: dimenticare del tutto l’importanza del lignaggio, sopravvalutare la grazia che appare in un complesso pur eccezionale di doti umane (la damigella è bella e savia e amavi molto) oggettive rispetto al valore “universale” della nobiltà di sangue (che legittima il re stes so, in quanto depositario dell’autorità feudale ( voi mi potete torre quanto io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi piace), soltanto per tenere fede ad una promessa!97 Nel caso di Gualtieri, dunque, non si vuole che la responsabilità della scelta ricada su altri che non sul soggetto stesso del matrimonio: per questo motivo egli capovolge la situazione di III, 9, mettendosi “al posto del re” e scegliendo la futura moglie per le sue qualità umane, probabilmente ancora ignorando la grazia particolare che da essa emana («verso i subditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna») ma moderatamente attratto dal contrasto delle attitudini della giovane: «Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera giovi netta che d’una villa vicina a casa sua era, e paren dogli bella assai estimò che con costei dovesse potere aver vita assai consolata» (X, 10, 9); escludendo subito la possibilità di sceglierla in base al lignaggio. Dal giorno delle nozze appare la “nuova” Griselda, che altro non è che una proiezione della signora ideale: le virtù naturali, accresciute dalla nuova condizione, cancellano – apparentemente – il passato di Griselda, confermandone però quelle due virtù – «tanto obediente al marito e tanto servente» (X, 10, 24) – che condizionano il suo comportamento a venire. Boccaccio tende a sublimare, avvicinandolo a quello delle sante verso Dio, l’atteggia mento passivo di Griselda verso il coniuge: la giustificazione di un agire addirittura contrario al sentimento materno viene offerta dalla donna stessa, che la fonda su quella cieca obbedienza che ha giurato al marito, e che in questo 97 Davvero è possibile che il re decida per questo strano maritaggio anche in base al ragionamento per cui la casata dei conti di Rossiglione comunque non si estinguerà, mentre in un altro caso “increscioso” Boccaccio aveva ritenuta necessaria addirittura l’intercessione del Papa, nella terza novella della seconda giornata, quando un giovane senza lignaggio e la figlia del re d’Inghilterra decidono di consac rare la propria unione. 68 caso viene mascherata dal desiderio di colmare l’enorme distanza soci ale fra i due: «Signor mio, fa di me quello che tu credi che più tuo onore o consolazion sia, che io sarò tutta contenta, sì come colei che conosco che […] io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti» (X, 10, 28). Domine non sum dignus. Giletta di Nerbona La differenza di lignaggio, nella novella di Giletta e Beltramo, crea un insopportabile muro di indifferenza tra i due coniugi, per superare il quale Giletta dovrà affrontare delle prove impossibili, la prima delle quali si inserisce perfettamente nel topos della castellana che sostituisce il marito assente (come abbiamo visto per la marchesana del Monferrato), e consiste nel rimettere in sesto la contea di Beltramo, cosa che le guadagna il favore dei sudditi. Di fronte a questa prima prova di eccellenza, spirito di iniziativa e predisposizione al comando, Beltramo propone una condizione impossibile al ritorno, con la chiara intenzione di negare la possibilità che esso avvenga98. Della grazia di Giletta vengono esaltati soprattutto le doti taumaturgiche miracolose ed il carattere nobilmente – diremmo affabilmente – autoritario (nel corso della narrazione è quasi sempre nominata la contessa, soltanto all’inizio incontriamo il suo nome di battesimo). Questa volontà si mani festa, naturalmente, nel discorso finale tenuto al conte, che rappresenta l’umiliazio ne dell’autorità dispotica del marito. Inoltre le parole che Giletta usa per defi nirsi – «Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando» (III, 9, 58) – sono quasi una ripetizione delle parole dette da Ginevra a Bernabò – «Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando» (II, 9, 68) – ed esprimono – nel parallelo tra le due novelle – una comunanza di esperienze e di intenti che chiaramente si riconducono ad una figurazione agiografica delle due donne, spinte ad un lungo vagare che ha per fine il ricongiungimento con il legittimo consorte, ovvero con il compimento della loro missione di grazia. Ginevra È in occasione dell’incontro con Ambrogiuolo che Ginevra, nei panni di Sicurano, riesce a sfruttare la sua doppia identità per chiarire davanti all’autorità di un regnante l’errore alla base della persecuzione che l’aveva col pita: ancora una volta la determinazione femminile prende il sopravvento sulla passività dei due uomini, protagonisti attivi della “scom messa” ed ora chia 98 La richiesta impossibile assumerà carattere davvero iperbolico nella novella di madonna Dianora (X, 5). 69 ramente sottoposti all’autorità di Zinevra. La quale, per dimostrare quanto ha da dire, compie un gesto plateale, offrendo alla vista del giudice le proprie grazie femminili, «stracciando i panni dinanzi e mostrando il petto» (II, 9, 69); gesto che pure ha un senso di ciclicità, se era stato un neo sotto la mammella sinistra a confortare Bernabò nel sospetto del tradimento. Il travestimento, contraffazione di tutti i segni di riconoscimento dell’individuo, si po ne in questo caso in una direzione obbligatoria, se è vero che Zinevra possiede già quelle doti maschili che le permetteranno di passare inosservata: non sono però soltanto le virtù fisiche, diremmo sportive, a contrassegnare il periodo “maschile” di Zi nevra, dato che il sultano vede in Sicurano da Finale un uomo adatto al comando destinandolo alla gestione della sicurezza del commercio in Acri. Il comportamento autoritario e l’attitudine al comando, al governo esemplare, sono altre forme di quella grazia che caratterizza altre protagoniste come Griselda o Giletta di Nerbona, ed in qualche modo costituiscono un contrassegno morale che le oppone all’ingiusto trattamento che viene riservato loro dai mariti. Divinità delle grazie femminili Abbiamo già detto dell’importanza in Boccaccio della rappresentazio ne del corpo femminile, e siamo sicuri che nella sua tipologizzazione della bellezza fisica molti elementi provengono dalla volontà di offrirci delle figure “angeliche”: Efigenia (V, 1) rappresenta in fatti il nucleo tematico più evidente di questa rappresentazione, per la descrizione degli effetti che la sua bellezza induce nell’animo di Cimone. Al di là della ironica considerazione secon do cui il rozzo giovane era «di bellezza subitamente giudice divenuto» (V, 1, 9), rileviamo come l’atten zione alla bellezza superficiale, che si concentra nel desiderio di vedere gli occhi della giovane, si sposti gradatamente a riflessioni ben più generali indotte da questo genere di nobilitazione: Cimone, infatti, «dubitava non fosse alcuna dea» (V, 1, 10), dunque rapportando la bellezza femminile non alle leggi del desiderio, ma a quelle di una più alta considerazione dei rapporti umani, in cui «giudicava le divine cose essere di più reverenza degne che le mondane» (V, 1, 10). L’essere femminile, dunque, per me rito di quella grazia che si verifica e si incarna nelle sue fattezze, assume quella caratteristica di divinità, di soprannaturale, che Boccaccio cala a proposito nel contesto di una novella di ambientazione antica, senza però negare che questa forma di analisi del fascino esercitato dall’apparizione del co rpo femminile possa avere validità anche in “ambiente cristiano”: pensiamo al l’amore di Gentil de Cari sendi, che pure giunge quasi fino alla profanazione del corpo creduto morto dell’amata, ripetendo un rituale di adorazione estre ma del corpo che emana grazia (il culto dei santi e delle loro spoglie mortali). 70 Abbiamo già accennato alla sesta novella della decima giornata, in cui il proposito dell’autore è quello di mostrarci delle bellezze angeliche: «e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa…» (X, 6, 11); che per la grazia dei volti – e la trasparenza degli abiti – riescono a creare una situazione di atarassica contemplazione nel vecchio re: «ma sopra a ogn’al tro erano al re piaciute, il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata […] che chi allora l’avesse punto non si sarebbe sentito» (X, 6, 18). Le due giovinette, più avanti, sono colte nell’atto di cantare una ballata per effetto della quale «al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che tutte le gerarchie degli angeli quivi fossero discese a cantare» (X, 6, 22): insistendo sulla similitudine con gli angeli, e nonostante le due fanciulle siano dotate di nomi dal complesso portato immaginifico (Ginevra e Isotta), se da un lato Boccaccio non fa che conchiudere quanto argomentato nella introduzione alla quarta giornata, a proposito di «quegli che contro alla mia età parlando vanno» (IV, intr., 33, quando aveva addotto proprio gli esempi di tre esponenti dello stilnovo, Cavalcanti, Dante e Cino); d’altro canto ci mostra come la natural affezione trovi la sua sublimazione (la «buona affezion» di X, 4) nella volontà di allontanare da sé uno sconveniente appetito, vincendolo e dimostrando dunque di esserne tanto più degno quanto più capace di rinunciarvi. Poiché siamo nel regno della cortesia e della liberalità, non possiamo attenderci di meno da un protagonista che, per di più, è depositario di virtù regali (in maniera simile, ma partendo da una situazione opposta, si comporterà nella novella seguente un altro re, Pietro d’Aragona); resta però il fascino esercitato dalle figure angeliche che non suscitano, in un primo momento, appetiti sensuali ma piuttosto, graziosamente, uno stato di contemplazione in cui sapientemente Boccaccio inserisce elementi che alludono alla dimensione celeste, divina. La presenza nel Decameron della grazia, nelle sue diverse forme, è stata in questa breve relazione esemplificata soprattutto in alcune figure femminili che giustamente hanno meritato l’attenzione di critici e lettori per la loro forza spirituale e le loro doti eccezionali: non dimentichiamo però che esse sono depositarie di un complesso di qualità che – pur sconfinando talvolta nell’imma ginario dell’ exemplum agiografico – appartengono a donne comuni (Griselda è figlia di un contadino, Giletta di un medico, Ginevra moglie di un mercante) che, proprio in virtù della grazia, sono capaci di grandi imprese e soprattutto portatrici di magnanimità e giustizia, due qualità che le contrappongono al paradigma negativo della diffusa misoginia medievale, e le avviano verso quell’ideale di donna che proprio nel Petrarchismo troverà esponenti di spicco, addirittura in una appassionata e graziosa, ma sventurata poetessa, come Isabella di Morra. 71 72 MAURIZIO MAZZINI «Che so io?» La fede nel dubbio e la dubbia fede di Michel de Montaigne «Non men che saper dubbiar m’aggrada» 99. Questa citazione dantesca spicca tra le centinaia di citazioni di classici greci e romani che popolano le pagine dei Saggi e coglie in pieno uno dei tratti salienti del pensiero di Montaigne: saper rinvenire nella debolezza umana, nei limiti che madre natura ci ha imposto, una ragione di vita e di allegria. Limitazioni queste di carattere essenzialmente cognitivo. In un’epoca in cui il culto delle capacità intellettuali dell’uomo e l’interesse per la sua componente razionale si mescolano ad un bisogno di irrazionale che si esprime nel fascino per l’esoterico e le scienze occulte, in un secolo sconvolto da conflitti religiosi, in cui ciascuna delle parti in campo cercava di imporre la propria unica verità, lo scrittore francese respinge entrambe le tentazioni e propone ai suoi contemporanei un ben più modesto «Que sais-je?», una sospensione del giudizio di pirroniana memoria che fece incidere quale motto su una medaglia. Di che cosa infatti può mai essere certo l’uomo, creatura tanto misera e fragile quan to presuntuosa e orgogliosa? Del mondo che ad ognuno di noi appare differente e incessantemente mutevole? O forse del valore delle azioni umane le quali spesso sfociano nell’opposto di ciò che i loro autori si proponevano? Per conoscere e giudicare – ci dice Montaigne – occorrerebbe disporre di adeguati ricettori, atti a decifrare la realtà in modo oggettivo, mentre gli strumenti di cui l’uomo dispone spesso lo inducono in errore, fal sano la prospettiva e deformano l’immagine, facendogli credere di possedere capacità di giudizio assoluto che sono in realtà una prerogativa divina. L’errore di base consiste, secondo Montaigne, nella presunzione di essere al centro del creato, in posizione superiore agli altri esseri viventi. I Saggi pullulano di esempi da cui si deduce che, con buona pace delle Sacre Scritture, sono in realtà gli animali a farla da padrone poiché dispongono di sensi che ci sono ignoti e di una saggezza che ci è preclusa. Così egli si domanda se non sia per caso la sua gatta a trastullarsi con lui anziché l’oppo sto e chi dei due sia veramente la bestia. In 99 M. de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano, 2005, vol. I, p. 199. 73 un altro passo ci viene proposto quale modello di saggezza il porco di Pirrone, la cui impassibilità di fronte alla tempesta viene da questi portata ad esempio ai suoi compagni terrorizzati dall’idea del naufragio. A sua volta, come per Giordano Bruno, l’asi no, animale ignorante e contemplativo, ostinato e paziente nella ricerca della verità, assurge ai vertici della saggezza proprio perché immune dalla «peste dell’uomo [che] è credere di sapere» 100. Alle lacune sensoriali si accompagna un’immaginazione zoppicante che sovente altera l’aspetto dei fenomeni, ci contrabba nda per miracolo ciò che non lo è e ci rende allettanti le «buffonate delle scienze astruse»101, minando le nostre già labili facoltà di giudicare. Se esistessero leggi naturali, afferma Montaigne, la percezione dei fenomeni e i giudizi sugli stessi sarebbero uguali per tutti, indipendentemente dal paese d’ori gine, dalla religione, dallo stato di salute e da una moltitudine di fattori contingenti. Invece molto di quello che ci sembra logico e naturale avviene per caso, così come per caso siamo cristiani, perigordini o italiani, e basta un improvviso mal di calli per farci sembrare il mondo diverso da quello che ci appariva un attimo prima. Persino nelle questioni più indiscusse, quali sono i tabù, niente per Montaigne è naturale e scontato; c’è sempre una fessura attraverso cui il dubbio si fa strada. Il relativismo etico-culturale di Montaigne tocca qui i suoi vertici: Non c’è niente di tanto orribile a immaginare quanto mangiare il proprio padre. I popoli che anticamente avevano quest’usanza, l’int endevano tuttavia come testimonianza di pietà e di grande affetto, cercando così di dare ai loro progenitori la sepoltura, più degna e onorevole, albergando in se stessi e per così dire nel loro midollo i corpi dei loro padri e i loro resti, vivificandoli in qualche modo e rigenerandoli col tramutarli nella loro viva carne per mezzo della digestione e del nutrimento. È facile considerare quale crudeltà e abominazione sarebbe stata per uomini nutriti e imbevuti di questa superstizione, gettare le spoglie dei genitori alla corruzione della terra e in pasto alle bestie e ai vermi.102 Neppure il parricidio e il cannibalismo riescono a smuovere più di tanto il compassato scrittore, né suscitano sdegno e riprovazione dal momento che per lui i confini di ciò che è umano e pertanto giustificabile si dilatano fino all’inverosimile. Così come non regge il tentativo di applicare ad altre culture la nostra unità di misura e i nostri parametri, anche all’interno della stessa comunità non è corretto considerare gli altri sulla base del nostro comportamento, né all’inverso trarre conclusioni affrettate dal comportamento de gli altri nei nostri confronti: 100 Ibid., p. 438. Ibid., p. 130. 102 Ibid., p. 772. 101 74 Io non incorro affatto nel comune errore di giudicare un altro secondo quel che io sono. Ammetto facilmente cose diverse da me. Per il fatto di sentirmi impegnato a una certa forma, non vi obbligo gli altri, come fanno tutti; e immagino e concepisco mille contrarie maniere di vita; e, diversamente dalla gente comune, noto in noi più facilmente la differenza che la rassomiglianza. Libero totalmente un altro essere dalle condizioni e dai principî che sono miei, e lo considero semplicemente in se stesso, senza paragoni, foggiandolo sul suo proprio modello. Per il fatto che non sono casto, non per questo manco di approvare sinceramente la castità dei foglianti e dei cappuccini, e di trovar buono il loro modo di vita; con l’immagina zione mi metto molto bene al loro posto.103 Aggiungiamo non senza malizia che la sua immaginazione doveva essere nella fattispecie eccezionalmente fervida, visto il suo interesse per le donne e in particolare per le cortigiane, soprattutto nel nostro paese dove «c’è più bellezza da vendere»104. Similmente, per indurci alla prudenza nel giudicare il comportamento altrui, egli ci avverte che il fatto che una donna ci abbia rifiutato le sue grazie non esclude che poco dopo le conceda a un mulattiere. Dai Saggi apprendiamo altresì che il singolo essere umano è non solo irripetibile, ma continuamente mutevole e irriconoscibile a se stesso, e questa consapevolezza della frammentarietà e contradditorietà dell’uomo e delle la cerazioni della sua psiche, costituisce una delle grandi anticipazioni montaignane. Per dirla con Auerbach «con lui per la prima volta, la vita dell’uomo, la propria vita qualunque e totale diventa problematica nel senso moderno»105. Citando il suo prediletto Seneca, il quale nelle Epistole affermava che è molto difficile essere sempre lo stesso uomo, Montaigne si spinge ancora più in là, sostenendo che noi siamo fatti tutti di tanti pezzetti, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo. E c’è altrettanta differanza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri.106 Una conclusione a cui giunge indagando l’unico ambito che ad indagi ne si presti, vale a dire se stesso, soffermandosi sul proprio animo volubile e su comportamenti e giudizi ad ogni piè sospinto contraddittori: Tutti gli opposti si ritrovano in me in qualche piega o maniera. Discreto, insolente; casto, lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, svogliato, ingegnoso, ottuso, triste, allegro, imbroglione, sincero, dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto ciò lo vedo in me in qualche modo, a seconda di come mi giri; e chiunque si studi attentamente trova in se stesso, 103 Ibid., p. 326. Ibid., vol. II, p. 820. 105 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 1956, p. 43. 106 M. de Montaigne, op. cit., p. 435. 104 75 e anzi nel suo giudizio, questa volubilità e discordanza. Non posso dir nulla di me una volta per tutte.107 Un invito, questo, che Montaigne rivolge a tutti; lui che, a differenza della moltitudine, preferiva guardare dentro se stesso che non davanti a sé, data la mancanza di punti di riferimento fissi e di appigli sicuri per chi dispone solo di «una pietra di paragone falsa e di una bilancia inesatta»108: Insomma non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere, né di quello degli oggetti. E noi e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante quanto il giudica to essendo in continuo mutamento e movimento.109 In questo sforzo di autoanalisi, fondato sul principio per cui «non c’è testimone tanto sicuro quanto ciascuno lo è per se medesimo»110, è rinvenibile una volontà di autoeducazione di cui i Saggi sono lo strumento e che tale volontà risvegliano, a distanza di secoli, nel lettore. Per questo lo scrittore definì la sua opera consustanziale a se stesso, un processo in divenire in cui prodotto e produttore finiscono per confondersi. Dalla coscienza del fatto che tutto ciò che vi è di esterno all’uomo non è che un inestricabile groviglio di apparenze e di giudizi parziali, si potrebbe dedurre la vanità e l’insensatezza di qualsiasi riflessione sul mondo, e quindi di qualunque filosofia. Senonché Montaigne non cessa di sorprenderci. Sebbene i discorsi dei contadini gli paiano «in generale più conformi alla norma della vera filosofia di quanto siano quelli dei nostri filosofi»111, egli difende così l’operato di coloro che anche dal carattere puramente speculativo delle loro ricerche hanno saputo trarre godimento intellettuale: «Non bisogna trovar strano che persone che avevano disperato di raggiungere la preda non abbiano cessato di prender piacere alla caccia»112. Occorre tuttavia distinguere tra filosofia e filosofia: rifuggere da quella «ostentatrice e chiacchierona»113, da lui individuata ad esempio nelle opere di Plinio o di Cicerone, dove sotto la perfezione formale traspare l’ansia di gloria, da quella che Michel Eyquem definisce «la vera e schietta filoso- 107 Ibid, p. 750. Ibid, p 450. 109 Ibid, pp. 455-456. 110 Ibid, vol. II, p. 835. 111 Ibid, vol. II, p. 883. 112 Ibid, p. 669. 113 Ibid, p. 325. 108 76 fia»114, che egli elegge invece a filosofia di vita. Bisogna infatti seguire il consiglio di quei filosofi che vi terranno su questa strada di contentarvi di voi stessi, di non prendere in prestito che da voi, di fissare, rafforzandola, la vostra anima su pensieri determinati e limitati, e tali che in essi possa compiacersi; e, avendo compreso quali siano i veri beni, dei quali si gode a misura che si comprendono, accontentarsene, senza desiderare di prolungare né la propria vita né il proprio nome.115 In questo passo possiamo coglier il nesso fondamentale esistente nel pensiero di Montaigne tra l’indagine filosofica e la ricerca del vero piacere, che scaturisce non dall’effimera ammirazione da parte del nostro prossimo, bensì dal raggiungimento di uno stato di armonia interiore, di pacata comunione di animo e corpo, in cui l’uomo si riscopre nella sua completezza e du plicità di. Il corpo, in particolare, assume nel suo pensiero connotazioni che definiremmo mistiche, se Montaigne non fosse alieno da qualsiasi forma di misticismo. Nel concetto di “salute”, in cui la cr itica più attenta, a cominciare da Sergio Solmi116, ha rilevato l’essenza della riflessione del francese, il corpo svolge un ruolo preminente anche se non esclusivo. Si tratta indubbiamente di un aspetto, questo, infarcito di reminiscenze pagane, in cui madre natura appare quasi una divinità che l’uomo non deve tradire, se non vuole tradire se stesso. Ogni mortificazione del corpo ed ogni forma di ascetismo gli sono sospetti ed il saggio, ci dice lo scrittore, è proprio colui che più si avvicina alla natura. Si noti inoltre come molti dei vizî umani più gravi elencati da Montaigne siano in primo luogo attentati all’involucro corporale dell’essere uma no: ogni forma di crudeltà, tortura in testa, l’assassinio, il tradimento, la tiran nia, a cui vanno aggiunti quei vizi che minano «il commercio degli uomini»117: la slealtà e la menzogna. Solo comprendendo e rispettando le esigenze del corpo si potrà vivere con quel «giubilo costante»118 che rappresenta il segno di riconoscimento della saggezza. Dopo aver citato Platone, il quale sosteneva che non si possono educare l’ani ma ed il corpo separatamente, ma bisogna considerarli due cavalli attaccati allo stesso timone, Montaigne aggiunge: Il corpo ha grande importanza nella nostra esistenza, vi tiene un gran posto [...] quelli che vogliono dividere le nostre due parti principali e separarle l’una dall’altra, hanno torto. Al contrario bisogna riaccoppiarle e ricongiungerle. Bisogna ordinare all’anima non di isolar si, 114 Ibid. Ibid., p. 328. 116 Cfr. S. Solmi, La salute di Montaigne, [in:] M. de Montaigne, op. cit., pp. IX-XXXIII. 117 M. de Montaigne, op. cit., p. 347. 118 Ibid., p. 143. 115 77 di coltivarsi in disparte, di disprezzare e abbandonare il corpo (del resto non potrebbe farlo se non per un’artificiosa impostura), ma di tenerglisi stretta, di abbracciarlo, vezzeg giarlo, assisterlo, controllarlo, consigliarlo, raddrizzarlo e correggerlo quando si fuorvia, sposarlo insomma e fargli da marito.119 Come si conciliano, ammesso che conciliabili siano, questa preminenza accordata al corpo e ai piaceri della vita, la convinzione che la ricerca della virtù non debba distogliere l’uomo da quella della felicità terrena, lo spazio assegnato alla libertà dell’individuo di fare le sue scelte restando fedele a se stesso, l’assenza quasi totale nella sua opera dei concetti di peccato e di ripro vazione, il fatto che per questo «maestro del dubbio» – come lo definisce Giovanni Macchia120 – non esista neanche la certezza che la vita non sia sogno e viceversa, come si concilia tutto questo con il cattolicesimo da lui professato e strenuamente difeso contro le eresie, la miscredenza e quell’atei smo che considera tanto mostruoso quanto inverosimile? Fu veramente Montaigne – come afferma Solmi – «così poco cristiano [da] ignorare il cristianesimo ad un grado sconosciuto perfino agli umanisti più liberi e più compresi della filosofia antica»?121 Quello che lascia perplessi a prima vista è la mancanza, da parte di chi come Montaigne si considera cristiano, di qualsiasi senso di colpa e l’assenza nella sua opera di qualsiasi accenno al pentimento, se non per la menzogna, il che tuttavia si spiega sia con il fatto che questi sentimenti comporterebbero un macerarsi del tutto estraneo alla sua indole, sia con la mancanza di riferimenti alle leggi divine, ai comandamenti che egli sembra ignorare. La spiegazione di questo atteggiamento va ricercata nel fatto che qualsiasi punto di contatto tra l’uomo e Dio, qualunque valico tra l’umano e il divino gli appare sospetto e viziato all’origine poiché, a suo avviso, non esiste comunicazione possibile tra i due mondi. Lo sono pertanto anche le tavole del Sinai che, traducendo nell’imperfezione del linguaggio umano la volontà divina, perdono ai suoi occhi valore di legge assoluta. Come può infatti uno strumento che fa cilecca nei rapporti tra gli uomini («la maggior parte delle cause degli sconvolgimenti del mondo sono grammaticali»122), servire da trait d’union tra questi e Dio? Paradossalmente spetta pertanto al piccolo uomo darsi leggi che gli consentano di vivere nel migliore dei modi, cioè «più piacevolmente e a suo agio»123, definendo in base a ciò il bene ed il male. Essi infatti, ed è un’af fermazione che puzza di eresia, sono a discrezione dell’uomo e possia 119 Ibid., vol. II, p. 853. Giovanni Macchia, Il maestro del dubbio, [in:] Il mito di Parigi, Einaudi, Torino, 1995, pp. 45-62. 121 S. Solmi, op. cit., p. XXIII. 122 M. de Montaigne, op. cit., p. 693. 123 Ibid., p. 103. 120 78 mo chiederci con Platone se la potenza, la salute e la ricchezza di un ingiusto sia l’uno o l’altro, così come al quanto discutibile per un cristiano risulta l’af fermazione che la vita non è né un bene, né un male. Cogliamo qui la particolare accezione dei concetti montaignani di “bene” e “male”, privi di qualsiasi connotazione etica poiché «il nostro bene e il nostro male dipendono solo da noi»124. Potrebbe sembrare di prim’acchito che l’ignoranza dell’uomo nei con fronti della divinità da lui venerata e a proposito di quello che essa si attende dai suoi fedeli costituisca per essi una lacuna tanto grave da pregiudicarne il sentimento religioso. Ebbene, Montaigne sostiene esattamente il contrario e riferisce di un popolo cristiano che, vivendo felicemente su un’isoletta del l’Oceano Indiano, «non capisce una parola della religione che osserva con tanto scrupolo; cosa incredibile per chi non sapesse che i pagani, idolatri così devoti, non conoscono dei loro dèi se non il nome e la statua»125. Anche in materia di morale cattolica Montaigne naviga decisamente controcorrente. Egli infatti, con il senso pratico che lo contraddistingue, arriva a dichiarare preferibile il divorzio al matrimonio per abitudine, né si scandalizza per i legami omosessuali e lesbici di cui è testimone durante il suo viaggio in Italia. Non si perita inoltre di criticare l’uso strumentale della reli gione, lasciandosi andare a toni sdegnati del tutto insoliti quando critica «la spaventosa impudenza con cui ci palleggiamo le ragioni divine»126 e ammette persino che, «pur essendo fatta per estirpare i vizi, la nostra religione li protegge, li alimenta, li eccita»127. Non vi è dubbio che egli, non essendo uno sprovveduto, si rendeva conto del carattere provocatorio di queste ed altre sue “fantasie” contenute nei Saggi, con le quali – ci tiene a precisare – «io non cerco affatto di far conoscere le cose, ma me stesso»128. A scanso di equivoci e come volesse prevenire possibili attacchi, ma non per questo senza sincerità, Montaigne aggiunge che sottopone le sue fantasie informi e insolute al giudizio di coloro a cui spetta disciplinare non solo le mie azioni e i miei scritti, ma anche i miei pensieri. E me ne sarà accetta ed utile tanto la condanna quanto l’approvazio ne, poiché considero esecrabile qualsiasi cosa vi si trovi che io, per ignoranza o inavvertenza, abbia detto contro i santi precetti della Chiesa cattolica, apostolica e romana, nella quale morirò e nella quale sono nato.129 124 Ibid., p. 392. Ibid., pp. 415-416. 126 Ibid., p. 609. 127 Ibid., p. 572. 128 Ibid., p. 12. 129 Ibid., p. 409. 125 79 Fiducia questa non ricambiata, dal momento che gli Essais furono messi all’indice da parte di quella stessa Chiesa cattolica nel 1676. Quali possono essere dunque i nessi tra ragione e fede, nel momento in cui Dio è considerato un’entità impensabile n ella sua perfezione e la prima non ci consente di alimentare la seconda per avvicinarci al Creatore? Ancora una volta si tratta, a suo parere, di una battaglia perduta in partenza, ma alla quale non bisogna sottrarsi, così come nel caso della riflessione filosofica sulla realtà sensibile che ci circonda: Bisogna accompagnare la nostra fede con tutta la ragione che è in noi, ma sempre con questa riserva, di non ritenere che questa dipenda da noi, né che i nostri sforzi e i nostri argomenti possano arrivare a una scienza così soprannaturale e divina.130 L’ultima parola spetta dunque a Dio che, con la forza della sua grazia, può porgere la mano all’uomo e permettergli di avvicinarsi al cielo. Leggia mo nei Saggi: «La nostra fede non è nostro acquisto, è puro dono della liberalità altrui»131. Lo studio e la sapienza conducono proprio a questo senso di impotenza che tuttavia Montaigne accetta umilmente come un fatto naturale, senza alcun senso di smarrimento, come ci prospetta con una splendida metafora da cui emerge, a mio avviso, un netto e profondo sentimento religioso: L’ignoranza che era naturalmente in noi l’abbiamo, con lungo studio, confermata e consta tata. È accaduto agli uomini veramente sapienti quello che accade alle spighe di grano: esse si elevano e si innalzano, la testa dritta e fiera, finché sono vuote; ma quando sono colme e pregne di grano nella loro maturità, cominciano a diventare umili e ad abbassare il capo.132 Questo ulteriore apparente paradosso montaignano dello studio che ci rende coscienti della nostra ignoranza conferma il distacco, la scissione totale che per lo scrittore esiste tra la dimensione umana e quella divina, tra vita terrena e fede eterna. Una dicotomia che gli umili hanno nel sangue, come dimostra quella prostituta romana di cui Montaigne riferisce nel suo Journal de voyage en Italie, la quale ogni sera, «al suonar dell’Ave Maria», nel bel mez zo dell’esercizio della professione «si butta giù dal letto e s’inginocchia al suolo per recitare la prece»133. Al contrario, per chi è di sangue blu come lui, tale fedeltà alla natura non risulta affatto scontata, bensì deve essere conquistata attraverso la saggezza, fondata sullo studio di se stessi, «fortificato dai ragionamenti degli Antichi»134. Ne consegue altresì l’importanza accordata da 130 Ibid., pp. 567-568. Ibid., p. 653. 132 Ibid. 133 M. de Montaigne, Viaggio in Italia, Rizzoli, Milano, 2003, p. 277. 134 M. de Montaigne, Saggi, op. cit., vol. II, p. 879. 131 80 Montaigne ad un corretto processo educativo, che deve fondarsi sulla dolcezza e sul buon esempio anziché sulla severità e sulle pene corporali, nonchè al valore formativo dei viaggi, che andrebbero compiuti «per riportarne soprattutto le indoli di quei popoli e la loro maniera di vivere e per sfregare e limare il nostro cervello contro quello degli altri e non, [conformemente alla moda della nobiltà francese], per riportarne l’eleganza delle mutande della signora Livia»135. A questo proposito va aggiunto che Montaigne non dovrebbe lamentarsi troppo delle usanze dei suoi connazionali, dato che proprio ai contatti di suo padre con l’Italia deve in parte il tipo di educazione e di sensibilità ricevuti, che ne fecero uno degli scrittori francesi più legati all’Italia. Conclu dendo: poiché secondo Montaigne la religione costituisce «un campo al di fuori della ragione»136, ed il dubbio e la fede sono concetti che appartengono a sfere diverse e non comunicanti, oso ritenere che l’accostamento che è argomento del presente convegno non sarebbe risultato gradito al Nostro. Ignoriamo in verità l’opi nione al proposito di quel Dio a cui egli si rimetteva, ma poiché quella morte a cui si era preparato per tutta la vita non lo colse – come sognava – mentre coltivava i suoi cavoli, vale a dire faceva i cavoli suoi, bensì nel bel mezzo della messa, rimane il dubbio che la fede di Montaigne non fosse esemplare. 135 136 Ibid., p. 201. Ibid., p. 144. 81 82 DAVIDE M. ARTICO Un’altra fede La Riforma in Italia nel XVI secolo Uno dei fondamentali errori metodologici dello storico è quello di interpretare il passato secondo le categorie del presente. È pur vero che il «mestiere dello storico»137 consiste principalmente in un’assimilazione critica continua degli avvenimenti passati. Assimilazione, dal canto suo, indica un processo per cui un corpo estraneo viene fatto proprio. In questo senso il passato deve in certo modo diventare intelligibile nel presente. Ciò nondimeno questa assimilazione non può mancare di tenere presente quelle caratteristiche del periodo studiato che oggi non esistono più. Fra queste caratteristiche ci sono anche, appunto, le categorie di pensiero. La storia contemporanea della Penisola Italica è anche la storia dell’an tagonismo fra un pensiero laico estremamente variegato, che va dall’anti clericalismo sabaudo in periodo umbertino fino al laicismo talvolta estremista dell’odierna sinistra alterglobalista; e invece una gerarchia cattoli ca che presenta se stessa come l’unica rappresentante legittima del cristianesim o. Come si accennava, questa situazione è stata determinata dalle specificità della storia contemporanea italiana ed è, pertanto, perfettamente comprensibile. Non significa però che, nel periodo che va dall’età petrarchiana fino alla fine del Cinquecento, l’opposizione concettuale ruotasse soltanto intorno ai poli ri spettivamente laico e cattolico. La fede, insomma, era qualcosa di molto meno monolitico di quanto si possa supporre secondo i criteri odierni. Soprattutto non era identificata tout court con la confessione cattolico-romana. Gioverà a questo punto ricordare che, a partire all’incirca dall’ultimo ventennio del XII secolo, fu proprio nell’Italia settentrionale che si diffuse maggiormente un movimento di rinascita spirituale cristiana che aveva avuto i suoi inizi a Lione. I cosiddetti “Poveri di Lione” avevano pre so le mosse dalla predicazione di una figura per certi versi analoga a quella di Francesco d’Assi si (inizi XIII secolo), ma anche molto più radicale nel senso positivo 137 Cfr. Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou métier d’historien. Éd. critique, Colin, Parigi, 1993. 83 del termine. Si trattava di Pierre Valdès – Valdesius in latino – che, mosso in special modo dalla parabola evangelica del giovane ricco138, decise di abbandonare la mercatura, donare i suoi beni ai poveri e quindi cominciare a condurre la loro stessa vita. Il radicalismo di Valdo non consistette però tanto in questo, quanto nella sua decisione di far tradurre la Bibbia per poi mettersi a predicarla di persona, senza l’intermediazione di alcuna struttura ecclesiastica gerarchica, ma esattamente secondo la lettera del messaggio evangelico, per cui «molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi»139. Era cioè necessario, secondo Valdo, che il cristianesimo smettesse di procedere dall’alto del magi stero papale via via verso il basso, ma che al contrario cominciasse a procedere proprio dal basso. Condizione forse non sufficiente, ma sicuramente necessaria per questo era però che tutti avessero accesso diretto al testo biblico; diventavano dunque indispensabili le traduzioni. Lo scontro con il cattolicesimo istuzionale non si fece attendere. I “Po veri di Lione” furono co stretti a disperdersi. La prima direzione presa fu quella orientale, infatti negli anni ottanta del XII secolo i seguaci di Valdo si erano già profondamente radicati a Milano. Il movimento dei “Poveri Lom bardi” si espanse quindi da Milano in tutta Europa, compresa la Polonia. Le persecuzioni delle autorità tanto ecclesiastiche quanto secolari ridussero ben presto il movimento in clandestinità. Già nel XIV secolo esistevano nuclei stanziali soltanto più in Calabria e sui due versanti delle Alpi occidentali: in Piemonte, Delfinato e Provenza. Ai nuclei clandestini, detti in Piemonte “ospizi”, si affiancavano predicatori itineranti, chiamati a loro volta “barba”, dall’anti co termine che stava a indicare lo zio140. Fu dunque su questo terreno, dissodato già da almeno tre secoli, che agli inizi del Cinquecento venne a cadere anche in Italia il seme del protestantesimo germanofono, tanto nella sua versione luterana quanto in quella, posteriore, che faceva capo allo zurighese Zwingli. Porta d’ingresso in Italia delle idee riformate, tanto tedesche quanto svizzere, fu Venezia. Una delle ragioni di questo ruolo ci viene suggerita, con il suo solito stile diretto e immediato, da Francesco Guicciardini. Nei suoi Ricordi Guicciardini ci informa che la situazione di partenza in Italia non era molto diversa da quella presente nel mondo germanico, nel senso che anche nei vari staterelli della penisola si era giunti a tollerare sempre meno l’arro ganza e l’ingordigia del clero cattolico. Anche in Italia, dunque, il discredito della Santa Sede stava aumentando in maniera esponenziale, costernando i credenti e preparando il terreno per una rivolta che, com’è noto, al di là delle 138 Marco X, 17-31. Marco X, 31. 140 Giorgio Bouchard, Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, Claudiana, Torino, 2003, pp. 107-108. 139 84 Alpi avrebbe infine infranto l’unità del cristianesimo occidentale, consegnan do alla Riforma protestante circa la metà della base su cui si reggeva il papato141. Guicciardini stesso, senza mezzi termini, afferma: Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti […]. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m’ha necessitato a amare per el particu lare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ ter mini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità.142 A giudicare dal commento di Guicciardini, quindi, in Italia non esisteva soltanto una tradizione di oltre tre secoli di associazionismo cristiano di matrice che sarebbe stata molto sensibile alla predicazione dei riformatori svizzeri: c’era anche un movimento di opposizione alla discreditata Curia romana che avrebbe potuto portare, non fosse stato per il «particulare» degli interessi contingenti, a un movimento riformatore molto simile a quello luterano. Rimane da stabilire perché proprio Venezia si ritrovò a svolgere il ruolo di ambasciatrice della Riforma in Italia. Guicciardini ce lo suggerisce attraverso un paragone fra la stessa Venezia e Firenze: Ho detto molte volte, e è verissimo, che più è stato difficile a’ Fiorentini a fare quello poco dominio che hanno, che a’ Viniziani el loro grande: per ché e Fiorentini […] hanno di poi la Chiesa vicina, che è potente e non muore mai, in modo che se qualche volta travaglia, risurge alla fine el suo diritto più fresco che prima. E Viniziani […] per vicini hanno avuto prìncipi secolari, la vita e la memoria de’ quali non è perpetua. 143 Fatti storicamente confermati rispetto all’atteggiamento tenuto da Ve nezia nei confronti della Riforma sono il riconoscimento ufficiale di un ambasciatore della Lega di Smalcalda e l’assoluta libertà di stam pa concessa ai traduttori degli scritti luterani, che poi venivano esportati tanto a Firenze e Lucca, quanto a Modena e persino nella Napoli occupata dagli Spagnoli144. È noto inoltre che vivace sostenitore delle idee riformate fu il patrizio Gaspare Contarini, che interpretava tra l’altro i sentimenti di buona parte dei ceti arti giani. Venezia per un periodo diede anche ospitalità al teologo riformato Gerolamo Zanchi, di Bergamo, ed al vescovo di Capodistria, Pier Paolo Verge141 Barbara W. Tuchman, La marcia della follia, Mondadori, Milano, 1985, p. 65. E. Pasquini (a cura di), Francesco Guicciardini. I Ricordi, Garzanti, Milano, 1965, libro I, 28. 143 Ibid., libro I, 29. 144 J. Lortz, E. Iserloh, Storia della Riforma, il Mulino, Bologna, 1990, pp. 236-239. 142 85 rio, poi costretto ad emigrare nei Grigioni per aver espresso anche a stampa le sue idee affini a quelle dei riformatori svizzeri145. Se dobbiamo prestar fede a Paolo Sarpi, questo atteggiamento veneziano sarebbe durato ancora ben oltre la fine del XVI secolo, culminando con l’interdetto lanciat o nel 1606 da papa Paolo V contro la Repubblica146. Le spiegazioni lasciate dallo stesso Sarpi e pubblicate post mortem sembrano confermare in pieno le valutazioni di Guicciardini, precedentemente riportate. Nella sua Historia particolare delle cose passate fra il Sommo Pontefice Paolo V e la Serenissima Republica di Venetia, Sarpi perentoriamente afferma: Mà sopra tutto l’odio suo [di Paolo V, NdR] era acceso contra la Republica di Venetia, si perche ella sola sostiene la degnità, & i veri effetti i Prencipe indipendente, come anco per che esclude totalmente gli Ecclesiastici della partecipatione del suo governo, & più ancora perche ella sola tra tutti i Prencipi, non pensiona alcuno della Corte Romana, il che essendo da essi interpretato per termine di poca stima, che si faccia di loro, fà che s’accendano di particolar odio, & nodrischino un’interna mala volontà verso quella. Per tutto il Cinquecento Venezia fu dunque l’unico Stato veramente laico della Penisola Italica, il che contribuì in modo determinante a farne un baluardo di tolleranza prima nel mare dell’oscurantismo arrogante della Curia romana, poi nel clima di terrore venutosi a instaurare dopo il 21 luglio 1542, data dell’istituzione formale dell’Inquisizione. Questa condizione di eccezionalità della Repubblica di Venezia, unica abbastanza ricca e potente da non dover badare al suo «particulare» assecondando in tutto e per tutto il papato, spiega anche perché in Italia la Riforma non trovò i presupposti per trasformarsi in movimento popolare, guadagnando proseliti soltanto fra i circoli colti. Non esisteva infatti un “principe” che osasse sfidare apertamente i Diktat papisti e sostenere apertamente un riformatore di calibro simile a quello di Lutero. D’altro canto la Repubblica vene ziana, nel suo perseguire la tolleranza e discostarsi dall’oscurantismo delle gerarchie cattoliche romane, era troppo isolata per costituire un autentico baluardo della Riforma. In Italia, pertanto, le idee della Riforma finirono con il conquistare soltanto i rappresentanti più eminenti del cosiddetto “evangeli smo”, un movi mento di risveglio impregnato prevalentemente di umanesimo biblico. Le idee riformate, insomma, divennero appannaggio quasi esclusivo di una élite intellettuale che, per estrazione sociale e formazione culturale, era lontanissima da qualsiasi progetto di movimento popolare. 145 146 J.A. Gierowski, ~ 2=D C Ossolineum, Breslavia, 1999, p. 200. Cfr. Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Einaudi, Torino, 1979. 86 Di fatto in Italia, fin dall’inizio della predi cazione luterana, esistettero profondi legami spirituali tra gli uomini e le donne che dovevano passare alla Riforma protestante da una parte e, dall’al tra, i fautori di una riforma cattolica. Fra questi ultimi sono due le figure che spiccano in maniera particolare. La prima è quella di Juan Valdés (1500-1541), soltanto omonimo del Valdesius di cui s’è detto in precedenza. Studente ad Alcalá, vi venne a contatto con le idee erasmiane e probabilmente anche con il movimento degli alumbrados. Il movimento degli Illuminati spagnoli sorse probabilmente in coincidenza con la Reconquista, nell’ultimo decennio del X V secolo. Si trattava di una corrente gnostica, di cui poco è noto con certezza, mentre a circolare sono soprattutto leggende ed aneddoti. Una delle leggende lo vuole di origine italiana, mentre secondo un’altra sarebbe stato fondato agli inizi del Trecen to da templari sfuggiti alle persecuzioni di Filippo il Bello. Gli aneddoti invece parlano di un movimento a maggioranza femminile, in cui a prevalere erano fenomeni di trance, estasi, visioni mistiche ed addirittura levitazione, raggiunte appunto attraverso una supposta “illuminazione” diretta da parte dello Spirito Santo. Di certo però il movimento doveva essere abbastanza diffuso se, come pare, lo stesso Ignazio de Loyola fu ammonito per le sue simpatie verso gli Illuminati, con cui era venuto in contatto nel 1527 durante i suoi studi a Salamanca. Il movimento degli Illuminati, che Juan Valdés conobbe probabilmente attraverso il predicatore Pedro Luíz de Alcaráz, era certo distante anni luce dalle idee riformate. Lo stesso concetto di contatto diretto con la divinità al di fuori della Scrittura è infatti profondamente alieno allo spirito protestante. A quest’ultimo appartiene inoltre un egualitarismo nettamente visibile nelle attuali strutture presbiteriane di matrice calvinista, in cui il ruolo dei pastori è spesso subordinato alla volontà assembleare dei credenti laici; gli Illuminati, al contrario, evidenziavano spesso un atteggiamento elitario per cui gli imperativi morali correnti smettevano di essere validi per coloro che avessero raggiunto la grazia attraverso, appunto, le illuminazioni. Gli alumbrados, insomma, tutto erano fuorché protestanti; ciò nondimeno il mancato riconoscimento della gerarchia cattolico-romana costituiva un precedente che avrebbe fatto in seguito di Valdés una figura molto particolare nel panorama italiano della prima metà del Cinquecento. Valdés giunse in Italia presumibilmente per sfuggire all’Inquisizione spagnola. Ciò non gli impedì di assurgere alla carica di ciambellano di Clemente VII, per trasferirsi poi a Napoli sotto la protezione del cardinale Gonzaga. Proprio a Napoli si raccolse intorno a Valdés un gruppo di “spirituali” che comprendeva, oltre a futuri protestanti come Bernardino Ochino e Pietro 87 Martire Vermigli, anche donne notevoli come Vittoria Colonna e la stessa Giulia Gonzaga. La seconda figura che, pur senza staccarsi mai ufficialmente dal cattolicesimo, funse come Valdés da ponte spirituale con i riformati fu anch’essa una donna. Si tratta della duchessa Renata di Ferrara, figlia di Luigi XII di Francia, morta nel 1575. Renata fornì un sostegno importantissimo alle correnti riformate, mantenendo anche una fitta corrispondenza epistolare con Giovanni Calvino. Quest’ultimo addirittura si recò di persona a Ferrara per farle visita. Fu soltanto l’alta posizione sociale che protesse la duchessa dagli strali dell’In quisizione. In effetti il fenomeno che meglio contraddistingue il Cinquecento italiano è quello del cosiddetto “nicodemismo”, che consiste – purtroppo ancora oggi in molti Paesi, anche europei – nel tenere nascosta la propria fede per timore di discriminazioni o di aperte persecuzioni. Ciò non toglie che le personalità più di spicco del Cinquecento italiano non rinunciarono affatto al dibattito teologico. Semplicemente, per non finire nelle camere di tortura e sui roghi dell’Inquisizione, emigrarono, diventando esempi delle forze intellettuali italiane che vanno ad arricchire altri Paesi per l’impossibilità di restare nei luoghi natii147. Nemo propheta in patria. Il fenomeno dell’emigrazione intellettuale in risposta all’oscurantismo cattolico fu tutt’altro che marginale. Lo testimonia una famosa incisione olan dese del XVII secolo, che rappresenta un tavolo cui siedono, intorno a un candeliere, gli uomini più importanti della Riforma. Vicino ai giganti Lutero e Calvino si possono distinguere chiaramente gli italiani Vermigli e Zanchi. Il lucchese Pietro Martire Vermigli (1499-1562) iniziò i suoi studi a Fiesole, occupandosi soprattutto di filologia. La sua formazione umanistica fu poi proseguita a Padova ed a Bologna, dove si dedicò fra l’altro allo studio dell’ebraico. Questa sua solida preparazione gli permise di divenire forse l’unico riformatore italiano aperto alle istanze popolari, come dimostra fra l’altro il p eriodo in cui fu abate di San Pietro ad Arame, a Napoli. La sua attività di predicazione napoletana fu incentrata soprattutto sulla dottrina della giustificazione per fede, che sarebbe poi diventata il cardine del pensiero riformato, ripresa in epoca contemporanea da Karl Barth ed efficacemente sintetizzata nel motto solus Christus. 147 Uno studio estremamente interessante è stato dedicato in particolare ai riformatori italiani emigrati in territorio elvetico – cfr. Emidio Campi, Giuseppe La Torre (a cura di), Il protestantesimo di lingua italiana nella Svizzera. Figure e movimenti fra Cinquecento e Ottocento, Claudiana, Torino, 2000. 88 L’intervento degli inquisitori non si fece attendere e Vermigli, per non essere costretto ad abiurare, fuggì a Strasburgo, entrando in contatto con Bucero, che gli propose una cattedra per l’insegnamento dell’Antico Testamen to. Da Strasburgo Vermigli si trasferì poi ad Oxford nel 1547, su invito di Thomas Cranmer, con cui probabilmente collaborò alla stesura del Book of Common Prayer. Purtroppo però nel 1553 la restaurazione cattolica in Inghilterra lo costrinse nuovamente alla fuga. Tornò dapprima a Strasburgo, per trasferirsi poi a Zurigo, dove la sua predicazione assunse i definitivi connotati zwingliano-calvinisti. Morì nel 1562. Discepolo di Vermigli fu il bergamasco Girolamo Zanchi (1561-1590). Monaco agostiniano, dal 1541 fu a Lucca, dove seguì la predicazione appunto di Vermigli. Fu nel 1551 che assunse la decizione di lasciare definitivamente l’Italia per la Svizzera, trasferendosi dapprima nei Gri gioni e poi a Ginevra. In seguito fu per dieci anni, dal 1553 al 1563, professore di Antico Testamento a Strasburgo. Nel 1568 passò a insegnare dogmatica a Heidelberg e, dal 1576 fino alla morte, occupò la cattedra di Nuovo Testamento a NeuStadt. L’enorme erudiz ione di Zanchi gli valse l’appellativo di “Cicerone della Germania”. Come Vermigli, anche Zanchi propendeva per una teologia di ispirazione zwingliano-calvinista, incentrata soprattutto sulla fedeltà al messaggio biblico (sola Scriptura). Il suo atteggiamento fu però estremamente ecumenico, ed egli stesso ebbe a sconfessare tutti coloro che lo volevano inquadrare in un campo confessionale piuttosto che in un altro. Non si definiva né luterano né zwingliano né calvinista, dicendosi piuttosto cristiano non settario e subordinando il suo rispetto per i tre grandi riformatori al fatto che essi avevano saputo interpretare in modo convincente l’unica fonte attendibi le, cioè la Bibbia. Pure lucchese di origine, anche se trascorse tutta la sua vita a Ginevra, fu Giovanni Diodati (1576-1649), il primo traduttore della Bibbia in lingua italiana. La prima edizione fu del 1607, ma la versione di maggiore successo fu quella del 1641, rimasta poi in uso fra i protestanti di lingua italiana per ancora almeno due secoli. Ci sono almeno ancora tre figure di protestanti italiani che varrà la pena ricordare. Il primo anche in ordine di tempo fu Bernardino Ochino (1487-1564), vicario generale dei Cappuccini dal 1538 al 1542. Ochino entrò in contatto con le idee della Riforma a Napoli, frequentando il circolo del già ricordato Juan de Valdés. Accusato dall’Inquisizione nel 1542, si sottrasse al processo fuggendo a Ginevra, dove Calvino lo accolse nonostante alcune divergenze dottrinarie allo scopo di rafforzare la comunità di lingua italiana. 89 Le dottrine di Ochino, che pure non si discostavano molto da quelle calviniste, presentavano tuttavia un accento per certi versi affine a quello degli anabattisti, forse anche in conseguenza della sua formazione francescana. Fu probabilmente per questo che, dopo tre anni di permanenza a Ginevra, Ochino decise di diventare predicatore itinerante, trasferendosi di volta in volta a Basilea, Strasburgo, Londra e giungendo persino in Polonia. La fase finale della sua vita lo vede impegnato nel dibattito teologico dei Fratelli Moravi, che sarebbero in seguito divenuti parte integrante del movimento riformato polacco. Ochino morì in Moravia nel 1564. Figura per certi versi speculare a quella di Valdés fu Pietro Paolo Vergerio (1498-1565), originario di Capodistria e laureato in giurisprudenza all’Università di Padova. Inizialmente Verge rio godette della fiducia del papa Paolo III, che giunse persino a farne il legato pontificio per la Germania. Tra il 1540 e il 1541, proprio in Germania, Vergerio collaborò attivamente alla fase preparatoria del Concilio di Trento. Tornato in Italia, fu però denunciato all’Inquisizione. Forse anche a causa della sua posizione di prestigio, non fu sottoposto a torture durante il processo celebrato a Venezia. Ciò nondimeno, nel 1544, Vergerio venne convocato a Roma ed ufficialmente scomunicato. Fuggì dapprima nei Grigioni, quindi nel Württemberg, dove divenne consigliere ducale. Per ben due volte fu anche in Polonia per l’attività di predica zione. In conclusione sia consentito ricordare un laureato dell’Università di Torino, il canavese Celio Secondo Curione (1503-1569), dalle cui vicende si potrebbe tranquillamente trarre un romanzo d’avventura. Curione infatti, che cominciò a leggere gli scritti di Zwingli e Melantone già all’età di vent’anni, fu imprigionato in un convento punitivo su ordine del vescovo di Ivrea. Fuggito in modo rocambolesco a Milano, si mise in seguito sotto la protezione del marchese di Casale Monferrato, Gian Giorgio Paleologo. Il soggiorno casalese di Curione, durato fino al 1534, cade proprio nel periodo dell’adesione dei Valdesi alla Riforma protestante di matrice ginevrina, avvenuta in seguito alle combattute assemblee di Cianforan del 1532 e di Prali del 1533, che condussero infine il movimento piemontese ad assumere un’identità per molti versi affine a quella degli ugonotti francesi148. Le vicende successive di Curione sono ancora più rocambolesche. Costantemente inseguito e perseguito dall’Inquisizione, il rifor matore piemontese fu professor publicus all’Università di Pavia, dopodiché fuggì a Venezia, per approdare in seguito alla corte della già ricordata Renata di Ferrara. Raccomandato dalla duchessa, nel 1541 Curione fu assunto come istitutore dalla 148 G. Bouchard, op. cit., p. 108. 90 potente famiglia lucchese degli Arnolfini, ma anche qui fu raggiunto dall’In quisizione nella persona del terribile cardinal Guidiccioni. Non rimaneva per Curione che la strada nota dell’emi grazione in Svizzera, dapprima a Losanna e poi, dal 1546, a Basilea, dove per ben 23 anni tenne la cattedra di retorica alla locale università, diventando un punto di riferimento per gli esuli italiani, compresi i ricordati Vergerio ed Ochino. Ma la vera protagonista del periodo, giova ricordarlo, fu proprio l’In quisizione. Istituita il 21 luglio 1542, durante il pontificato di Paolo IV ricorse a mezzi sempre più drastici, fino a soffocare completamente qualsiasi tentativo innovatore. Una lezione da non scordare. 91 92 DANILO FACCA Bartolomeo Keckermann (1572-1609) La logica dell’ortodossia e le ragioni della tolleranza È giusto considerare la Polonia dei decenni a cavallo del 1600, con le sue istituzioni politiche, la sua struttura sociale e la sua mappa confessionale, una sorta di laboratorio dove vengono tentate o prospettate soluzioni molto coraggiose. I termini cronologici di questo particolare periodo della storia del paese possono essere indicati da un lato nel 1573, l’anno della Confederazio ne di Varsavia e, dall’altro, nel 1648, l’anno del tracollo, quando l’inv asione svedese, il cosiddetto “diluvio”, mise a nudo le contraddizioni di questo mo dello e distrusse il delicato equilibrio su cui esso si era retto per quasi un secolo. Qui ci interessano naturalmente i riflessi in ambito religioso-confessionale di questa situazione. In questo caso il fatto più spettacolare, e forse anche il più significativo, è che almeno dagli ultimi decenni del ’500 la Polo nia è il rifugio di tutti gli eretici perseguitati negli altri paesi. Tra questi spiccano quelli che saranno a lungo considerati gli arcieretici, il nemico pubblico numero uno di tutte le ortodossie, e cioè gli antitrinitari. Ed è tra di loro che – in questo contesto unico, sperimentale, quasi anarchico – incontriamo alcune delle espressioni più libere, più innovative del pensiero religioso dell’epoca. Come è noto, l’antitrinitarismo polacco preesiste all’arrivo in Polonia di Fau sto Sozzini nel 1579: si era sviluppato già dal 1562 dentro l’ala radicale del calvinismo, la cosiddetta Ecclesia minor. Con Fausto Sozzini arriva però una nuova qualità, intellettuale e organizzativa. Perchè l’antitrinitarismo sozzinia no è particolarmente importante? È opinione di illustri studiosi che con il socinianesimo abbiamo a che fare con l’espressione più radicale della Ri forma, una revisione profonda del Cristianesimo, una reinterpretazione del suo significato149. I sociniani saranno addirittura accusati – sarà questo quasi un luogo 149 Non è possibile rendere conto in modo esaustivo della vasta letteratura su Sozzini ed il socinianesimo. Una rassegna dovrebbe comunque cominciare dal fondamentale Eretici italiani del Cinquecento di Cantimori (1939), e concludersi – per il momento – con i volumi degli 93 comune della pubblicistica religiosa – di rinunciare sic et simpliciter al Cristianesimo150 (un’accusa che cattolici e luterani o cattolici e riformati non si sarebbero mai nemmeno sognati di scambiarsi), c’è persino chi dirà che la loro è di fatto una forma di islamismo (l’unità di Dio è assoluta, Cristo è solo il suo profeta, divinizzato successivamente). Un’accusa assurda naturalmente, che provocherà la reazione di Socino e che altri apologeti dell’antitrinitari smo, come Johann Schlichting151, respingeranno sdegnosamente. L’avversio ne radicale nei confronti dei sociniani farà di loro l’ absolutum malum agli occhi di diverse generazioni di polemisti cattolici, evangelici, luterani, anglicani e quant’altri. In ogni caso, nell’ambito di questo «stato senza roghi» 152 – per usare l’espressione resa celebre da J. Tazbir –, c’era lo spazio per esperie nze intellettuali avanzatissime. Vorrei qui ricordare lo scambio epistolare tra lo stesso Fausto Sozzini e Andreas Dudith all’inizio degli anni ottanta. Dudith è una fi gura emblematica: umanista dai mille interessi cresciuto nel circolo del cardinal Pole, poi partecipante al Concilio di Trento come vescovo cattolico, poi apostata e profugo in Polonia, diplomatico imperiale, corrispondente con i maggiori intellettuali del secolo, infine simpatizzante per l’eterodossia e per gli antitrinitari. Scrivendo all’eretico senese, egli sottolinea tutte le incon gruenze, le contraddizioni materiali e teologiche della Sacra Scrittura (specie quelle relative all’escatologia) e arriva a chiedere al suo intelocutore se non sia il caso di dubitare dell’autorità di quest ’ultima e, quindi, di respingere la religione che su di essa è stata costruita. Un dubbio davvero iperbolico che non si sa bene se frutto di autentico tormento religioso o se fu espresso solo atti dei due convegni di Cracovia e di Siena del 2004, a 400 anni dalla morte di Sozzini, rispettivamente: L. Szczucki (a cura di), Faustus Socinus and his Heritage, Cracovia, 2005; M. Priarolo, E. Scribano (a cura di), Fausto Sozzini e la filosofia in Europa, Siena, 2005. Per le presenti considerazioni mi sono basato principalmente su L. Chmaj, Faust Socyn, Varsavia, 1963 e sui lavori di Z. Ogonowski, in particolare \ ' ' 5¡D7¢ Varsavia, 1966 – un’interpretazione storico -filosofica del socinianesimo per molti versi a tutt’og gi insuperata. 150 Come sosterrà per es. Marcin £ ¤¥D¦/§'¨ ©ª%¥2«A¬A%®°¯¨¦§"¥±²®§"®A¦¨5³¥¯/¥%²¬A³±¯/¨§"§'±´µ®A³"¶;®¶;¥"·¸®¶ ma in Polonia – cfr. Z. Ogonowski, ¹»ºl¼2½¾C½2¿ºDÀÁºÃÂÅÄÆ ÇÃÈ"ÉcÊËÌ ÍÏÎÐ ÑÒÔÓ=ÕÖÕ×ØDÌÙ ÚCÛ [in:] ÜCÝÝÔÞÅß à5á2âãµäAá skiej, Varsavia, 1979, vol. III/1, pp. 623-626. 151 Cfr. Z. Ogonowski, å âDá2äæ äçAâ'èéâAÞÅßàáê'ãµä=ëìíLæî%è ï op. cit., p. 567 e ss. Id., Socynianizm polski, Varsavia, 1960, passim. Interessante che per es. un autore come Ugo Grozio, a sua volta accusato di cripstosocinianesimo, sarà indotto, quasi per giustificarsi agli occhi dei suoi detrattori ed a fugare il sospetto di proporre soluzioni troppo innovative, a pubblicare una lunga apologia del cristianesimo: De veritate religionis christianae, Leiden, 1622. 152 ð è ñ òóDô»õö/÷Ïøùòó2õCòú=ôùûAü=øýþDÿ ÷øø=þD÷úô9ó2õ2÷%ÿAþAô jõ òÿ÷ùþRôùû Varsavia, 1967. 94 per sollecitare l’abilità teologica e dialettica di Sozzini 153. Sul contesto culturale e politico polacco, che costituisce lo sfondo senza il quale queste esperienze intellettuali sarebbero difficili da immaginare, torneremo comunque in un secondo momento. Qui vorrei invece parlare di un altro aspetto ancora di questo laboratorio religioso, non meno interessante e significativo: ci sposteremo perciò a Danzica, che in quest’epoca è il centro urbano più grande e più dinamico del la Repubblica Polacca. Ci occupiamo, infatti, di Bartholomaeus KeckerMann154, un intellettuale versatile (teologo, logico, umanista, filosofo, scienziato), che nel primo decennio del ’600 si occupò della riorganizzazione del più importante istituto scolastico della città, il Ginnasio. Come tanti altri istituti medio-superiori, che portavano questo nome e che sorsero nel periodo e nell’area della Riforma, anche il Ginnasio di Danzica si ispirava in ultima analisi al modello della scuola sturmiana di Strasburgo ma, rispetto a quest’ultima – e proprio grazie all’influenza di Keckermann –, presentava un profilo più filosofico-scientifico che umanistico-letterario. Il biennio conclusivo della scuola era di livello universitario e anche il relativo programma di filosofia non era in pratica diverso da quello delle università vere e proprie. Keckermann fu autore molto letto nel mondo protestante, specie nelle scuole, da quelle olandesi a quelle delle colonie inglesi dell’America settentrionale. Nella letteratura viene comunemente classificato come calvinista, ma è necessario precisare il significato di questo termine. Keckermann, se ho visto bene, nella sua opera non cita nemmeno una volta Calvino. Quella di “calvinista” è in realtà un’etichetta che a lui ed a quelli della sua confessione viene appesa dagli avversari. Si tratta di quel ramo della Riforma che aveva nel Palatinato e in Heidelberg il suo centro di propulsione e che si era distinto dall’ortodos sia luterana soprattutto sul piano dogmatico. I rappresentanti di questo ramo della Riforma venivano definiti – con maggiore precisione – “fil ippisti”, in 153 Per le lettere di Sozzini a Dudith bisogna ancora vedere il I vol. della Bibliotheca Fratrum Polonorum, [Amsterdam] 1656, aspettando il vol. VII della corrispondenza di Dudith di prossima pubblicazione (nell’ultimo volume pubblicato c’è solo una delle lettere di Sozzi ni a Dudith). Cfr. L. Szczucki, T. Szepessy (a cura di), Andreas Dudithius. Epistulæ pars VI: 1577 -1580, Budapest, 2002, pp. 392-400; Z. Ogonowski, Socynianizm a "!#%$'&)(+*#,.-.* $ pp. 15-77. 154 Su Keckermann mi permetto di rimandare a D. Facca, /0213.465798.:;<=: >"?@:A17B02CDCE8F8.GH5 I,5JF80 , Varsavia, 2005 (con bibliografia). Sulla vita e le opere del danzicano i due lavori di riferimento sono: B. Nadolski, K@L'[email protected]"SN.T2U6TV.W X@Y Z\[^]_`@a2bc]edgf]h2i`jk%dgal_^mon@a2[^kdgaep]2qr.s6at9j.ku2]ev=k,mA`kqtB][[#] , wyxz{ | }~AD~@ J.S. Freedman, The Career and Writings of Bartholomew Keckermann (d. 1609), “Proceed ings of the American Philosophical Society” 143, 1997, pp. 305 -364. 95 quanto seguaci dell’interpretazione che l’ultimo Melantone aveva dato del dogma della presenza di Cristo nel pane eucaristico. Melantone in qualche modo si rifaceva su questo tema più a Zwingli che a Calvino, per sostenere che Cristo è presente nel pane e nel vino in modo simbolico, metaforico, “spi rituale”, e che la celebrazione eucaristica è un ricordo, un memoriale della ce na di Gesù con i discepoli. Difficile sottovalutare gli effetti dirompenti (per la teologia, per l’ecclesiologia) ch e questa svolta dogmatica comportava e che erano inaccettabili non solo per i cattolici romani, ma anche per i luterani di stretta osservanza, che infatti furono i nemici più severi di questa interpretazione155. Oltre alla tradizionale polemica dei riformati con i papisti si apriva così un fronte interno alla Riforma, l’ennesimo or mai, con tutto il suo strascico di contrasti e di odî, ma anche di innovazioni, di esplorazioni teologiche, e anche filosofiche e logiche. In Europa centrale, specialmente in Germania, queste divisioni ben presto si istituzionalizzarono e trovarono il loro ambiente ideale nelle scuole, cioè nelle università o negli istituti quasi-universitari come quello di Danzica, nel corso di quella che è stata chiamata la “confes sionalizzazione”, cioè la creazione di strutture di organizzazione della socie tà, di istituzioni pubbliche e statuali di impronta confessionale, che ebbe luogo nella seconda metà del ’500 156. Anche una parte della Polonia, quella che gravitava nell’area di influ enza culturale tedesca, fu coinvolta in questi processi. E qui torniamo appunto in Pomerania, con i suoi centri maggiori: 7RUX(OEOJHLQSDUWLFRODUH'DQ]LFD Le polemiche religiose avevano ripercussioni intellettuali e culturali ad ogni livello. Qui ci soffermeremo brevemente sulle discussioni di tipo filosofico e logico. Si è parlato a questo proposito di una situazione di «guerriglia teorica continua»157 che dominava il lavoro delle scuole. Come si diceva, 155 Naturalmente non è possibile qui offrire un soddisfacente resoconto della letteratura sul tema. Per un primo orientamento, anche bibliografico, sono oggi consigliabili i più recenti lavori di R.A. Muller, in particolare After Calvin. Studies in the Development of a Theological Tradition, Oxford, 2003. 156 Sulla confessionalizzazione nella “Polonia prussiana” c’è il lavoro di G. Müller, Zweite Reformation und städtische Autonomie im Königlichen Preussen. Danzig, Elbing und Thorn in der Epoche der Konfessionalisierung (1577-1660), Berlino, 1997; sulla filosofia nelle scuole in questo contesto si vedano gli studi di J.S. Freedman, Deutsche Schulphilosophie im Reformationszeitalter (1500-1650), Münster, 1984; Id., European Academic Philosophy in the Late Sixteenth and Early Seventeenth Century. The Life, Significance, and Philosophy of Clemens Timpler, Zurigo-New York, 1988 (raccomandabile soprattutto per la bibliografia); Id., “Professionalization” and “Confessionalization”: The Place of Physics, Philosophy, and Arts Instructions at Central European Academy Institutions during the Reformation Era, “Early Science and Medicine” 6, 2001, pp. 334 -352. 157 Questa felice espressione è in G. Roncaglia, Palaestra rationis. Discussioni su natura della copula e modalità nella filosofia “scolastica” tede sca del XVII secolo, Firenze, 1996, p. 10. La prima parte del lavoro costituisce un’eccellente esposizione – per quanto ne so 96 l’isti tuzione di queste Hochschulen-Gymnasia Illustria è un fenomeno abbastanza tipico. Dove si poteva venivano istituite dalle élites cittadine, per limitare fin dove era possibile gli effetti negativi delle peregrinationes academicae, i viaggi di studio all’estero da parte dei rampolli di q ueste stesse élites. Gli studi infatti costavano cari e c’era inoltre il rischio della “fuga dei cervel li”: esem plare fu il caso del celebre logico-ILORVRIRHWHRORJR0DUFLQ PLJOHcki (Smiglecius), che fu “trattenuto” dai gesuiti con grande dispetto de l suo patronus Jan Zamoyski, che aveva per lui altri piani. C’era poi il pericolo – tipico di quest’epoca – che il cervello fuggito entrasse in contatto con correnti e pensatori eterodossi e, ritornato in patria, fungesse da quinta colonna dell’eresia 158. Questo contesto di “guerriglia” – tra cattolici e protestanti e tra protestanti al loro interno (tra filippisti e luterani e poi tra questi e le ali estreme della riforma, quella mistica degli anabattisti e quella razionalista dei sociniani) – era da un lato una fonte inesauribile di stimoli teorici, una scuola formidabile per l’addestramento dialettico, dall’altro generava inevitabilmente un clima in cui le rispettive posizioni si irrigidivano, specie se in gioco c’erano le materie più delicate e controverse. È chiaro che quando si è in guerra non c’è spazio per il dubbio intellettuale, nè per l’ascolto delle ragioni dell’avver sario. Forse si pensava che l’unità dei cristiani dovesse passare eventualmente attraverso la sconfitta della parte avversa, e a questo scopo dovevano essere mobilitate tutte le forze intellettuali del proprio partito confessionale. Le voci che chiamavano alla concordia erano, in questo contesto, delle eccezioni. Al proposito si può citare il testo del ministro della chiesa calvinista slesiana Bartholomaeus Bythner, la Fraterna et modesta ad omnes per universam Europam reformatas ecclesias […] exhortatio, scritto dopo il 1605 e pubblicato a Heidelberg nel 1609159, ma – circostanza assai eloquente – si tratta di uno spirito di conciliazione assolutamente parziale, rivolto solo agli “evange lici”, cioè a una fra zione interna alla Riforma, non certo ai cattolici romani o all’universo del mondo cristiano. La conclusione di Bythner è però ragione vole e per questo merita di essere ricordata: non saranno certo i teologi, per via puramente dialettica, a produrre la concordia del mondo cristiano; anzi, i l’unica di questa ampiezza in italiano – sull’organizzazione degli studi nelle università te desche del periodo. 158 Ancora da leggere è su questo tema S. Kot, c @lgJ%g9A@P2A), Varsavia, 1987. A¡9¢£ ¤Ricerche ¥¦¨§©^D¢¤ªpiù ¡«¬recenti "¢. ® ¯±°sono ²³´µ2¶.·state ¸l¹Eº=presentate ²»A²2¼¯½¶R¾¿in¶À.ÁgD. ¯Â¼#yÃÄÃ2,µ à ÅD-Strzelczyk, ·AÆ9¶ÃÇAÈɶʼ#Peregrinatio ¶Ác·»%´J¯gÀJ·"ÀJÃÇ"ÈÄaca¼¨¶.· ¶ ° ¶ · » Á ) ´ @ ¹ · = ¸ ° 2 ² 6 Î 2 ² Á . ¶ · Á ¶ A · @ µ , Ê Ð Ñ Ò " Ó ^ Ô Õ Ö × " Ø Ù Ù Ü Ú P Û ß Ý á Þ + à # â ã ä # â ç å A æ × mieckich w ËÌÍ Protestanci ËÌ2ÍÏÍ polscy na studiach w katolickich uniwersytetach zagranicznych w latach 1564-1600, “Res Historica” 10, 2000 [Z dziejów stosunków wyznaniowych w Rzeczypospolitej XVI-XVII w.], pp. 189-202. 159 Z. Ogonowski, èêé.ëHì í,ìJîéï\éðRñ#òAëóôì2õ6ö,÷oí ø^ï ù'ì)ô¿ú^÷,é.ûú ù pp. 605 e ss. 97 dibattiti teologici, almeno fino a quando in essi domina uno spirito di diffidenza e di inimicizia, la allontanano. Bythner aveva certamente presente O¶HVLWRGHJOLLQFRQWULVLQRGDOLGL6DQGRPLHU]HGL7RUX FKH videro riuniti i rappresentanti di evangelici, luterani, “fratelli boemi” ed altri. È difficile negare il fatto che l’uni tà dei riformati uscita da questi consessi fosse più che altro di tipo “politico”, si trattava cioè di forma re un fronte unito contro il comune nemico papista, mentre sulle questioni relative agli articoli di fede le divisioni dogmatiche restavano fondamentalmente insuperate, al di là degli equilibrismi verbali dei pronunciamenti ufficiali160. Insomma l’immagine che esce dalle scuole e dai di battiti teologici è quello di un bellum omnium contra omnes nel quale il mondo cristiano sembra cercare ogni occasione per dividersi, scaricando sui rivali confessionali la colpa di questa situazione. Lo studioso della filosofia di questo periodo resta colpito in particolare da un fenomeno che è figlio di questo clima e che a sua volta contribuisce ad alimentarlo. Si tratta del particolare legame, a cui si è ormai dovuto accennare più volte, tra filosofia, logica e teologia. Delle tradizionali discipline comprese nell’insegnamento filosofico la logica assume ora un ruolo di primo piano (paragonabile solo a quello della metafisica, rinata attorno al 1600 con la diffusione in Germania delle Disputazioni metafisiche di Francisco Suarez)161, un vero e proprio boom ovviamente legato al clima di conflittualità confessionale. La logica diventa cioè un’arma nelle mani di professori e polemisti per la difesa di quella che ciascuno ritiene l’ortodossia e per la con futazione delle tesi avverse. È vero che spesso ci si pone il problema dell’ap plicabilità della logica a materie così delicate come sono quelle della fede (in che limiti sono validi i principî di non contraddizione e di identità nelle definizioni dogmatiche?); ciò nondimeno tutti, o quasi tutti, sono convinti che an160 üýJþÿ ÿ "!#%$&')(*+$*,-./$0#21436537,&989: Varsavia, 2002, pp. 22 e ss., 299 e ss. 161 Per la logica del periodo fondamentali sono i lavori di Wilhelm Risse, Die Logik der Neuzeit. I Band: 1500-1640, Stuttgart-Ban Cannstatt, 1964; Id., Bibliographia logica: Verzeichnis der Druckschriften zur Logik mit Aufgabe ihrer Fundorte. Band 1: 1472-1800, Hildesheim, 1965. Per quanto riguarda la metafisica, sull’influsso di Suare z v. il classico, anche se un po’ datato, W. Wundt, Die deutsche Schulmetaphysik des 17. Jahrhunderts, Tübingen, 1939. La ricerca degli ultimi decenni coglie il carattere peculiare della metafisica di questo periodo nel costituirsi al suo interno di una metafisica “speciale”, o teologia, e – soprattutto – di una metafisica “generale”, o ontologia; vasta anche qui la letteratura, segnalo solo i la vori di U.G. Leinsle, Das Ding und die Methode. Methodische Konstitution und Gegenstand der frühen protestantischen Metaphysik, Augsburg, 1985, vol. 1, pp. 21 e ss.; J.F. Courtine, Suarez et le système de la métaphisique, Parigi, 1990; i lavori di C.H. Lohr, per tutti Metaphysics, [in:] C.B. Schmitt et al. (a cura di), The Cambridge History of Renaissance Philosophy, 1988, pp. 537-638. 98 che qui – come in qualsiasi altra materia filosofica o scientifica – si tratta di confutare gli avversari, mostrando che essi, nelle loro dottrine, violano le regole del retto pensiero, abusano dei concetti, costruiscono sillogismi erronei. In una parola l’avversario si contraddice e questo – come aveva insegnato Aristotele – rende il suo discorso insignificante. Quando per esempio, a proposito della cœna Domini, si sostiene che il pane è corpo o che il vino è sangue, oppure si afferma che un certo vescovo – quello romano – è superiore agli altri, vescovi al pari di lui, in realtà non si dice niente di sensato. Chi sostiene queste tesi sproloquia, anzi è come se non parlasse, è come una pianta162. E come è noto, la confutazione della tesi avversaria, per il principio del terzo escluso, costituisce la prova dialettica della propria tesi. Già Melantone – il præceptor, il maestro della Germania, e anche di questa Polonia tedesca – aveva insistito nelle varie edizioni della sua Dialettica sulla fondamentale importanza del principio di non contraddizione, uno di quelli che Dio ha scolpito nel nostro cuore; anzi, una di quelle scintille della sapienza adamitica, che sono rimaste intatte nell’intelletto umano e a partire dalle quali si può ricostituire – attraverso un lungo processo educativo – l’immagine di Dio nel l’intelletto stesso. La “logica della Riforma” è comunque un fenomen o che ora è sotto la lente degli studiosi, ma molto lavoro resta da fare, se non altro perché la base materiale è vastissima ed è stata studiata solo in parte163. A sua volta la teologia si presenta come “scienza”, ma in un senso di verso da quello medievale, un senso che fa i conti soprattutto con l’epistemo logia dell’epoca. I fattori decisivi qui sono due. Da un lato la teologia deve costituire un “sistema”, cioè un corpus rigido e chiuso di dottrine, concatenate le une con le altre e, se possibile, riconducibili a pochi principî generali. Il secondo è collegato a questo ed è la riproposta dell’epistemologia contenuta negli Analitici II di Aristotele, secondo l’interpretazione che ne aveva dato il filosofo padovano Jacopo Zabarella. Negli Analitici II Aristotele descrive un modello scientifico ipotetico-deduttivo, ispirandosi alle scienze matematiche e in particolare alla geometria euclidea. Nella geometria, e nelle matematiche in generale, si devono presupporre dei principî sottratti ad ogni discussione (nel senso che la loro definizione non è oggetto di ricerca da parte della scienza stessa: la geometria non discute se ci sono punti, linee, etc., li dà per acquisiti), dai quali conseguono – se si seguono correttamente le regole del 162 Meth., IV, 4, 1006 a16. Il giudizio è in G. Roncaglia, Modal Logic in Germany at the Beginning of the Seventeenth Century: Christoph Scheibler’s ‘Opus Logicum’, p. 1; ora alla pagina web: www.merzweb.com/ Sulla logica melantoniana c’è un articolo dello stesso Roncaglia che fa il punto sulle attuali conoscenze in materia: L’evoluzione della logica in Melantone , “Medioevo” 24, 1988, pp. 235-265. 163 99 sillogismo – una serie di affermazioni, dei “teoremi” 164. E le scienze empiriche? quelle che organizzano i dati dell’esperienza? A questo proposito alla fi ne del XVI secolo c’era stata una preziosa integrazione allo schema aristoteli co grazie alla teoria del cosiddetto regressus dello stesso Zabarella. Nel caso di una scienza empirica – il logico padovano pensa soprattutto ad una scienza della natura come la fisica – le conclusioni vere e scientifiche hanno origine in un processo che confronta riflessione teorica e dati dell’esperienza (qualcu no vi ha visto anche l’origine del metodo galileiano del controllo empirico delle ipotesi, ma questa è un’altra storia) 165. Orbene tutti questi elementi, dalla rinascita di una logica aristotelizzante al suo connubio con la teologia in una prospettiva confessionale, sono assai ben rappresentati da Keckermann. In particolare vediamo ora come egli si serva, per la sua teologia, dell’apparato epistemologico più moderno al l’epo ca. Bastino due esempi: - All’inizio del suo Sistema theologiae in perfetto stile geometrico KeckerMann enuncia un principio che non è sottoponibile a discussione, e che si considera acquisito definitivamente in quanto risultante dalla Sacra Scrittura. Questo principio è la definizione dell’essenza divina come «spi rito primo e infinito». Da questa definizione – come spiega Keckermann – derivano sei teoremi, il più importante dei quali è che Dio è, e che non può che essere trino166. - Il regressus zabarelliano viene invece utilizzato da Keckermann nel suo testo fondamentale di logica per dimostrare, a partire dal “dato di esperienza” per cui alcuni sono salvi, che Dio salva coloro che prima di tutti i tempi ha voluto salvare. In breve: C’è il fatto che alcuni sono salvi. Come si spiega? Si possono fare diverse ipotesi, ma se si ammette che le cose stanno così perchè Dio ante saecula ha voluto destinare alcuni alla salvezza, tale fatto trova la 164 Oltre ai citati lavori di Risse, Leinsle, Lohr, sull’importanza di Zabarella per la filosofia del periodo alcune pagine molto interessanti si trovano anche in E. Berti, Metafisica e dialettica nel “Commento” di Giacomo Zabarella agli “Analitici posteriori”, “Giornale di Meta fisica” 14, 1992, pp. 225 -244. Su tutta questa problematica si veda G. Piaia (a cura di), La presenza dell’aristotelismo padovano nella filosofia della prima modernità . Atti del Colloquio internazionale in memoria di Charles B. Schmitt (Padova, 4-6 settembre), Roma-Padova, 2002, specialmente gli interventi di Blum, Bottin, Elsman, Lines, Maclean, Mikkeli. Il lavoro di riferimento sull’epistemolgia di Zabarella rimane ancora oggi A. Pop pi, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella, Padova, 1972, ma si veda anche ultimamente H. Mikkeli, An Aristotelian Response to Renaissance Humanism: Jacopo Zabarella on the Nature of Arts and Science, Helsinki, 1992. 165 Il tema è stato oggetto di un lungo dibattito, iniziato nel lontano 1940 da J.H. Randall con un saggio edito successivamente in forma di volume: The School of Padua and the Emergence of the Modern Science, Padova, 1961. 166 Systema S.S. theologiae tribus libris adornatum [...] editio ultima, Hanoviæ, 1610, pp. 5-8. 100 sua perfetta spiegazione, è stato dedotto. Assunta la tesi della determinazione della volontà divina, il fatto è perciò “dim ostrato”. La dottrina calvinista della predestinazione ha così una sanzione logica167. In questo modo, o attraverso la suggestione del modello delle matematiche, o con la benedizione dell’aristotelismo più evoluto, la teologia diventa una scienza nel senso più moderno del termine. Difficile sottovalutare l’im portanza di un’impresa del genere, il cui scopo – tra gli altri – era quello di mettere nelle mani dei propri correligionari un’arma efficacissima, o meglio due armi nello stesso tempo, uno scudo per l’apologia ed una spada per la po lemica confessionale. Di quest’arma Keckermann si serve innanzitutto contro l’arcinemico, diffuso a Danzica come in Pomerania, in Polonia come ormai nell’intera Europa: l’antitrinitarismo, una sirena che incantava spec ialmente le élites sociali e intellettuali. Abbiamo appena visto come Keckermann si serva del modello della geometria (la deduzione di teoremi da principi-assiomi accolti come primi e veri) per sbaragliare gli antitrinitari. Con loro perciò c’è un dis senso sugli stessi principi, sull’idea di Dio; è come se un geometra si rifiutas se di riconoscere l’esistenza di linee e superfici: a costui sarebbe ovviamente inutile offrire una dimostrazione del teorema di Pitagora. In questo senso gli antitrinitari si pongono oltre i limiti del cristianesimo, accusa come si è visto comune all’epoca e che Keckermann fa implicitamente sua. Poi però c’è il conflitto con chi accetta i principî comuni e non intende escludersi dalla famiglia dei cristiani. Si tratta prima di tutto dei luterani, che con la loro dogmatica sacramentale generano delle contraddizioni, non tanto generali, come nel caso precedente, ma – per così dire – locali e in particolare “fisiche”: per es. il corpo di Cristo sarebbe per loro “accanto” al pan e e “in sieme” ad esso; da qui la loro dottrina della “con -substanzialità”, alternativa alla “trans -substanziazione” cattolica. Il fondamento di questa dottrina dei luterani è il principio da essi ammessi della “ubiquità” del corpo di Cristo: quest’ultimo sarebbe infatti “ovunque” nell’universo, e perciò anche nel pane. Per questo motivo – sia detto per inciso – durante l’eucaristia il celebrante non “fa veni re” il corpo di Cristo nelle specie del pane e del vino, dato che es so è già lì, “assieme” ad ess e; si elimina così quell’aspetto “magico” e super stizioso con cui i cattolici travestono il rito centrale del cristianesimo. Ma per tornare a Keckermann ed alla sua polemica antiluterana, secondo il danzicano un corretto uso dei concetti di “corpo” e di “spazio” mette in luce le incon 167 Systema logicae tribus libris adornatum [...] editio III, Hanoviæ, 1606, pp. 544-545. Va qui segnalato un articolo di P.R. Blum, che studia alcune applicazioni del regressus nella teologia del ’600 inoltrato: “Ubi natura facit circulus in essendo nos facimus in cognoscen do”. Der demonstrative Regreß und die moderne Wissenschaft bei katholischen Scholastikern, alle pp. 371-392 del volume collettivo cit. alla n. 164. 101 gruenze di queste dottrine o perlomeno l’ignoranza da parte dei luterani dei principî della fisica aristotelica, che resta la regola di ogni sano filosofare. Un corpo – che per definizione è finito – non può essere “ovunque” , cioè infinito. I cattolici infine rappresentano una degenerazione del cristianesimo in direzione dell’idolatria. Qui la logica a dire il vero ha poco da dire, più che al tro si tratta di additare la degenerazione morale-politica dei romani (la simonia, l’avidità di potere, i papi insomma), la cui dogmatica (il primato del ve scovo di Roma, la transubstanziazione), oltre ad essere assurda in sè, è soprattutto un’ideologia, proprio nel senso di una “falsa coscienza”. È cioè il tentativo di giustificare con il linguaggio della teologia scolastica il dominio sulle coscienze di una casta clericale, esercitato mediante forme di religiosità superstiziosa, violenta e essenzialmente antievangelica. Questi motivi, ovviamente presenti nel Systema theologiae, ricorrono quasi ad ogni pagina anche nelle opere di logica di Keckermann, che assumono perciò un singolare carattere “militante”. Come c’era da aspettarsi, sulla testa del professore di filosofia di Dan zica cadde l’accusa di essere un “razionalista” in m ateria religiosa. Interessante che a volte a muoverla fossero degli avversari confessionali che poi però usavano – come e più di Keckermann – la logica come fondamento (o semplicemente copertura) del discorso teologico. Si leggano per esempio le espressioni usate da uno dei tanti che accusarono Keckermann di razionalismo, il celebre Kornelius Martini (1568-1621), professore ad Helmstedt e luterano, che nel 1619 si chiedeva: «Nelle controversie teologiche è sempre necessario dibattere in modo formale, cioè secondo la forma sillogistica?»168 La risposta era inequivocabile e anche piuttosto sconcertante: Sì […] tutti i profeti, tutti gli apostoli e lo stesso Salvatore nostro, tutte le volte che spiegano (rationem reddunt) la loro dottrina, non solo discutono, ma lo fanno in modo, per così dire, estremamente formalizzato (formalissime). Dire che qualcuno dei dottori dell’antico o del nuovo testamento ha trascurato la formalizzazione nel le sue dispute […] non solo è una grande, anzi una grandissima offesa alla Sacra Scrittura, ma costituisce altresì il massimo dell’empietà. 169 168 Cito da Roncaglia, Palaestra rationis, op. cit., p. 47, che riporta questo testo del De analysi logica tractatus del 1619. Su Martini e sul suo ruolo nel dibattito logico e filosofico c’è in italiano un’interessante nota di R. Pozzo alla sua edizione di un testo del logico tedesco: Kornelius Martini. “De natura logicæ”. Prolegomeni ad un corso di lezioni del 1599, “Rivi sta critica di storia della filosofia” 3, 1989, pp. 499 -527. 169 Ibid. 102 In ogni caso tacciare Keckermann di hybris intellettuale, di “pelagia nesimo” e quant’altro, divenne quasi un luogo comune. Incontriamo queste accuse per esempio in alcuni dei protagonisti delle polemiche arminiane del secondo decennio del XVII secolo in Olanda170, ma le ritroviamo nientemeno che nella Teodicea171 leibniziana, ormai a distanza di parecchi anni, ma in un atmosfera di scontro confessionale in fondo non molto diversa da quella in cui operò il professore di Danzica. Il mio personale parere su questo aspetto è che – nonostante tutto – Keckermann non fosse affatto un “razionalista”, non credo insomma che pensasse seriamente di ridurre la teologia – e tantomeno la fede religiosa – ad una combinatoria di concetti, metodicamente dedotti ed ordinati. Keckermann appena può e senza ambiguità ribadisce che l’ essenza di Dio in nessun caso può venir rinserrata dall’intelletto umano in una defini zione per genere e differenza specifica, risfoderando a proposito un lessico neoplatonico: Dio – scrive, riprendendo Giovanni di Damasco – è hyperousios, al di là dell’essere, akataleptos ed anonymos, inconcepibile e senza nome172. Ma soprattutto non si deve dimenticare il contesto della sua deduzione more geometrico della Trinità, che ha solo uno scopo confutatorio, polemico, e non dogmatico. Come dire: non sappiamo bene che cosa è Dio, nello stesso modo in cui sappiamo dire che cosa è un uomo o un gatto. Ciò premesso, dobbiamo però ammettere che quel poco che sappiamo (la rivelazione ci fornisce dei “principî” per il ragionamento e, dunque, nemmeno essa resta immune dalla concettualizzazione) non consente in nessun modo di dire di Lui quelle assurdità che vengono sostenute dai nostri avversari che negano che egli si articoli trinitariamente. Perciò c’è una teologia come scienza che, non diversamente dalle altre discipline scientifico-filosofiche, ha i suoi principi, il suo metodo, le sue conclusioni, e si costituisce secondo il modello aristotelico-zabarelliano, ed è un’arma al servizio del dibattito confessionale per il trionfo della vera dottri na. Poi però resta la teologia più importante, quella schiettamente ed autenticamente religiosa, che non può essere sostituita dalla prima e che si esprime soprattutto nella pastorale, nell’opera di diffusione della Sacra Scrittura tra il popolo, cioè in una forma di persuasione che pur non escludendo l’intelletto, parla soprattutto ai cuori. Ed a questa resta in fondo il primato, alla nuova 170 Ho provato a renderne conto brevemente nel mio libro su Keckermann, a cui rimando alle pp. 79 e ss. 171 Al paragrafo 59 del Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione; ricordo che i Saggi di Teodicea furono pubblicati nel 1710. 172 Systema theologiae, op. cit., p. 6. 103 evangelizzazione di cui il popolo di Dio ha bisogno, dopo secoli di tenebre romano-papiste173. Certo Keckermann con la sua teologia “scientifica” non ebbe la prete sa di risolvere il problema di fondo, il vero problema filosofico; anzi, impegnato com’era più sul piano organizzativo e didattico, quasi nemmeno lo vide: come parlare di Dio? quale è la logica che ci consente di parlare di Dio? La scolastica protestante, di cui Keckermann è uno degli iniziatori, elaborerà però a questo scopo una scienza particolare, interna alla metafisica, la cosiddetta metafisica “speciale”, cioè una teologia razionale. In generale poi adot terà la formula – assolutamente accettabile anche dalla scolastica medievale, da un San Tommaso – che ogni discorso vero su Dio che la teologia rivelata ci offre è non contra, sed supra rationem. Questa epistemologia teologica in fondo rimarrà a lungo valida, almeno fino a Kant, che la svuoterà (la teologia non è e non può essere una “scienza”) e a Hegel, che la rovescerà (la logica di Dio, dell’Asso luto è la logica della contraddizione). L’orizzonte di Kecker Mann è però quello di un solido aristotelico, che in fondo guarda al medioevo e ad Aristotele per ricostruire una nuova allenza tra filosofia e sapere profetico, cioè una scolastica rinnovata che sostituisca quella decadente dei papisti e che sia perciò veramente “cattolica”. Insomma lo scopo del dibattito teologico è la sconfitta teorica dell’av versario, e tutti – Keckermann davanti a tutti – sono convinti che questa è possibile a suon di dimostrazioni. La sua ortodossia “scientista” ha fonda mentalmente l’obiettivo di sradicare l’eresia dagli intelletti degli uomini. Da questo punto di vista il Keckermann teologo e logico rappresenta un atteggiamento dogmatico, tendenzialmente intollerante ed escludente. Dalla Riforma poteva svilupparsi – e qua e là si sviluppò effettivamente, si pensi a Sebastiano Castellione – il pensiero della tolleranza, per esempio sulla base del principio del sacerdozio universale e della separazione tra potere secolare e autorità religiosa. E invece la Riforma del secondo ’500 tende in generale ad orga nizzarsi come qualsiasi altra ortodossia, chiedendo ai suoi intellettuali di lavorare a consolidarla, e al potere politico di difenderla con la spada. C’è tuttavia il rovescio della medaglia; il discorso su Keckermann, se si fermasse qui, sarebbe largamente incompleto ed anche ingiusto nei suoi confronti. C’è infatti un testo, forse l’ultimo scritto prima della morte prema tura a 37 anni, che pone l’aut ore sotto una luce decisamente diversa. Si tratta del suo trattato di filosofia politica174, come d’abitudine in Keckermann mo dellato sul corrispondente testo aristotelico, ma oltre a ciò ricco di considera173 Alla “teologia” intesa come pastorale è dedicato il III libro del Systema theologiae, la cui struttura riprende quella del Catechismo di Heidelberg del 1577, per Keckermann il testo pastorale di riferimento. 174 Systema disciplinae politicae, Hanoviæ, 1606. 104 zioni ispirate alla scienza politica contemporanea e persino alla storia contemporanea. Anzi si direbbe questa l’opera meno scolastica e manualistica di Keckermann, dove contano meno le distinzioni concettuali, le tassonomie e le precisazioni terminologiche e dove invece prevalgono le osservazioni personali sulla realtà presente. A parte l’impianto “aristotelico” 175, l’autore trae in realtà la sua ispirazione da fonti diverse, a volte apparentemente incompatibili, come possono essere Bodin e le sue teorie assolutiste da un lato, le Vindiciae contra tyrannos ed il pensiero dei monarcomachi dall’altro, il contrattualismo democratico aristotelizzante di un Altusio da un altro lato ancora. Questo non aiuta certo il Sistema politicae ad essere un’opera unitaria e coerente, ma credo che le intenzioni di fondo di Keckermann si riescano a leggere con sufficiente chiarezza176. L’opera è sostanzialmente una difesa del regime politico polacco, un regime “misto”, temperato, nel quale le diverse componenti della società han no voce e vengono rappresentate, il che da un lato conferisce legittimità alle istituzioni dello stato, dall’altro previene i sommovimenti politici rivoluzio nari che una o l’altra parte potrebbe provocare. In fin dei conti però l’unità dell’or ganismo statale è garantita dal monarca. Da qui certi accenti bodiniani di Keckermann sul fatto che la sovranità è indivisibile e ab-soluta, non sottoposta cioè ad alcun vincolo; tranne naturalmente quello del rispetto della giustizia, il vinculum iustitiae, riconosciuto peraltro anche dall’“assolutista” Bodin nelle prime pagine dei suoi celebri Les six livres de la Republique del 1577. Stiamo naturalmente parlando di uno stato moderno, il cui compito principale è quello di conservarsi nell’esistenza, garantendo al contempo la stabilità, la sicurezza interna, l’assenza di conflitti civili. Keckermann loda per questo a più riprese i re polacchi, esprimendo così al contempo l’atteggia mento lealista del patriziato calvinista di Danzica, dalle cui fila egli proveniva. Tra i re celebrati vi è persino Stefan Batory, che pure aveva posto sotto assedio la città negli anni ’80, e che aveva però finito per riconoscere le pre rogative di quello che era diventato il più importante e dinamico centro urba175 Sul significato dell’aristotelismo politico nella cultura delle università tedesche mi limito a rimandare all’articolo di M. Scattola, Arnisaeus, Zabarella e Piccolomini: la discussione sul metodo della filosofia pratica alle origini della disciplina politica moderna, [in:] La presenza dell’aristotelismo, op. cit., pp. 273-309. Interessanti ossrvazioni anche in E. Berti, Filosofia pratica, Napoli, 2004, pp. 67 e ss. 176 Il background di questo aspetto del pensiero di Keckermann è facilmente ricostruibile grazie alle principali sintesi sulla filosofia politica dell’epoca, che mettono nel dovuto rilie vo il rapporto tra teoria politica e problematica confessionale. Qui ricordo P. Mesnard, L’essor de la philosophie politique au XVIe siècle, Parigi, 1951; Q. Skinner, The Foundation of Modern Political Thought, 2 voll., Cambridge, 1978; R. Tuck, Philosophy and Government. 1572-1651, Cambridge, 1993; Z. Ogonowski, Filozofia polityczna w Polsce XVII wieku i tradycje demokracji europejskiej, Varsavia, 1999. 105 no sul territorio della Repubblica. Qui non ci addentriamo nella vicenda, che comunque sarebbe interessante per spiegare il particolare status giuridico e politico della città177. Come è facile aspettarsi, la tematica religiosa – in particolare il problema del rapporto tra il potere politico e le confessioni – occupa nel trattato politico di Keckermann uno spazio importante. Anche questo spiega gli accenni bodiniani che qua e là affiorano nell’opera: il principio della indivisibi lità della sovranità è la via per scongiurare i conflitti giuridiszionali, come quelli che – con una grandissima eco internazionale - avevano avuto luogo a Venezia pochi anni prima e che Keckermann ritiene essere conseguenza delle arroganti ed illegittime pretese di Roma nei confronti della Serenissima. Il bersaglio concreto del professore di Danzica è però un altro, vale a dire i gesuiti allora molto attivi a Danzica. Costoro vorrebbero godere di una specie di extraterritorialità giuridica, dal momento che hanno giurato obbedienza al solo Pontefice romano, cioè ad un potere distante migliaia di chilometri dal territorio della Polonia. Ciò è naturalmente intollerabile e Keckermann è fermo nel ribadire che la sovranità del re non sopporta limiti, il potere di giurisdizione di quest’ultimo non è alienabile a chicchessia. Ma quello che a noi interessa di più è che Keckermann – in modo a dire il vero non sempre lineare – esprime l’esigenza che il potere politico, proprio perchè il suo scopo è il mantenimento della pace interna, non si mescoli nelle questioni religiose. È qui perciò che Keckermann enuncia apertis verbis il principio della separazione tra stato e confessioni. Stefan Batory viene infatti lodato di nuovo per aver detto: «Non voglio governare le coscienze, perchè tre cose Dio ha lasciato alla propria esclusiva competenza: creare qualcosa ex nihilo, conoscere il futuro e dominari conscientiis»178. 177 Non a caso Keckermann tace di Sigismondo III, che aveva mutato politica rispetto ai predecessori. Sulla lode di Batory v. sotto. ;6<>=@?AB9CDE?FCAHG<I9JLKNMPOIQRCM6S6MHJRCTI9S6?VUXWZY[CI \ ]/^_H`L^ cura di), acb defg+bihkjl6hm4dnZhEo Danzica, 1978-1997, vol. II, in particolare M. Bogucka, Zatarg z Batorym – defZdpqr+nPjl6h4mdnhslfutwvh4qx4y{zh|}e ~nb/>Z~ Pp6qehVLo parte II, pp. 579-626. Più 9E6}}F% ^9R_ efepg + Z¡¢£¤¦¥4§©¨>¡ ªE«E¬®°¯«6±4²³´4µi¶+·¸±¹ º¶¼»4±½¶+·¿¾X±ºÀÁ%· o Â+ñÁ±4´Zº¶ÁFÄ[ÅN±6«E¬®)ij¬9¶³½±³ºÀÄFµ/¶ cznej Rzeczypospolitej, “Odrodzenie i Reforma cja w Pol- sce” 67, 2003, pp. 89 -103. Per la situazione confessionale a Danzica v. ancora P. Simson, Geschichte der Stadt Danzig bis 1626, Danzica, 1913-1918, vol. 2, pp. 428 e ss.; una breve, ma efficace presenÆNÇ+ÈZÉ/Ê4ËÌ@ÉËÎÍÏÐ[ÉÌ9ÑÓÒ/ÇÔÕ ÖØ×iÙ Ú+ÛÜÞÝ"ÛÜ%ß@àßVáãâ>äiå/åàßPæàçèä/àßêécëàìàíãîïðÛEåñòé èóÚ6éô4õòZé%ö4éòZ÷@ß>äiéõåé"ø[÷6Ú+ÛäiàEù÷ìà0èó÷PíóÜ6Û+ìé4ì äi÷4íã÷Eá Breslavia, 2000, pp. 118 e ss. 178 Systema disciplinae politicae, op. cit., p. 523. Anche a p. 519 leggiamo parole molto chiare: «Magistratus sive princeps non debet se immiscere muneri ministrorum ecclesiæ […]. quia Deus vult distinctissimum esse officium ministrorum et magistratus». 106 Il potere politico è escluso dunque dalla sfera delle convinzioni religiose. Più che ispirarsi alla ricca letteratura politica di ispirazione protestante (ginevrina in particolare), che aveva discettato dei limiti del potere politico179 e che egli sicuramente conosceva, nello scrivere queste pagine Keckermann aveva sotto gli occhi lo spettacolo della destabilizzazione portata in Inghilterra, Fiandre, Francia e Germania dalla pretesa del potere politico di imporre una religione piuttosto che un’altra. Ma non c’era solo questo. È chiaro che egli aveva presente anche l’esempio positivo offerto dalla Polonia, che alme no in quegli anni poteva essere additata come modello di un organismo politico stabile e forte, grazie proprio al fatto che il sovrano non interferiva nelle questioni religiose, non si lasciava influenzare troppo facilmente da Roma e, si può aggiungere, garantiva a città come Danzica una larga autonomia in questa ed in molte altre materie. Janusz Tazbir ricorda come l’aver la Polonia evitato guerre religiose come quelle che avevano travagliato la Francia era un argomento a favore della superiorità del modello costituzionale sarmatico, nel quale la società nobiliare divisa sul piano confessionale fu capace di esigere dal sovrano il rispetto delle proprie libertà religiose.180 Certo è plausibile che per Keckermann lo stato laico, la tolleranza, il pluralismo confessionale siano non tanto un bene in sé, quanto semplicemente il male minore. Siano cioè quelle regole pratiche di convivenza che consentono ad uno stato ed una società così complessi ed eterogenei come quelli polacchi di stare uniti e, quindi, di conservarsi nell’esistenza. Si potrebbe a que sto riguardo menzionare la sua interpretazione minimalista della Confederazione di Varsavia, il primo atto di tolleranza in Europa: con quei patti – dice Keckermann – semplicemente si sono evitati guai peggiori. Analogamente in Germania la regola del cuius regio eius religio – che, appunto, non comportava certo il principio della libertà individuale della coscienza – ha fatto sì che la situazione non precipitasse nel caos181. 179 Penso alla questione degli “efori”, i magistrati che dovevano limitare il potere del sovra no, così come venne impostata da Calvino e, soprattutto, da T. Beza nel suo Du droit des magistrats sur leurs subjects del 1574. Ho già detto della conoscenza di Keckermann delle celebri Vindiciae contra tyrannos (1579); su questa tematica, oltre alle opere generali di cui alla nota 176, si veda B. Nicollier-De Weck, Hubert Languet (1518-1581). Un réseau politique internationale de Melanchthon à Guillaum d’Orange, Ginevra, 1995. 180 Szlachta i teologowie, Varsavia, 1987, p. 188. L’autore ricorda giustamente le tendenze irenistiche molto forti anche in campo cattolico, spesso collegate all’attività politica di Jan Zamoyski. 181 Questo è a mio avviso il senso dell’argomentazione di Keckermann a p. 523 del Systema politicae. 107 Resta però il fatto che Keckermann scrive poche, ma inequivocabili pagine sulla necessità della tolleranza e della “laicità” dello stato, e questo mentre tutta la sua cultura lo spingeva al dogmatismo confessionale, mentre tutta la sua formazione era finalizzata alla battaglia per il trionfo di una forma di ortodossia religiosa. La contraddizione, credo, non si può spiegare se non ricollegandosi ad un unico fatto, l’essere cioè Keckermann un cittadino di Danzica e un suddito del re di Polonia, ed il constatare realisticamente da parte sua il relativo successo – nel primo decennio del ’600 – di questo grande laboratorio politico, (relativamente) aperto ed includente. Se Keckermann fosse vissuto in territorio tedesco, nulla probabilmente lo avrebbe distinto da tanti altri professori-polemisti che avevano messo il loro sapere al servizio della “vera fede” profe ssata dalla propria università e dal proprio principe. Ma come cittadino di una città “confederata” con la Repubblica Polacca, il cui regime politico esercita su di lui un’indubbio appeal, egli si trova in una situazione particolare, una situazione che in qualche modo mette in crisi il senso del suo lavoro di intellettuale engagé della Riforma protestante, quale egli voleva in fondo essere. In conclusione vorrei ricordare una circostanza singolare, ma assai significativa e – in qualche modo – anche commovente che riguarda KeckerMann e il suo Systema disciplinae politicae. Quest’opera nel corso dei secoli non ha avuto molti lettori. L’unico che a mia notizia in epoca contemporanea se ne sia interessato è stato l’illustre storico della Riforma Ludwik Chmaj , in un articolo significativamente intitolato Bartolomeo Keckermann difensore del regime politico della Polonia, pubblicato in un numero di un periodico di Danzica tutto dedicato alla storia ed alla cultura di questa città di frontiera182. La tesi di Chmaj – del tutto giustificata, come ho cercato di mostrare – è che il Systema disciplinae politicae sia un’apologia della monarchia polac ca in quanto sistema aperto, multietnico, multinazionale e multireligioso, che ha consentito a sua volta alla città baltica di essere una città tollerante, viva e dinamica, la “finestra della Repubblica sul mondo”, come si diceva nel ’600. Nell’opera semidimenticata di un semidimenticato professore di filosofia del ’600 Chmaj individuava proprio questi valori, che poi erano il lascito principale del secolo d’oro della Polonia. Ma era il momento storico a dare partico lare significato all’intervento di Chmaj e a fare di esso qualcosa di più di una operazione erudita e scolastica. Era infatti l’estate del 1939: i venti di gu erra soffiavano forti e avrebbero di lì a poco travolto – per prime in Europa – proprio la “città aperta” e la Repubblica di cui aveva parlato Keckermann. ü@ûÿüÿ ûýiüÿ [ÿ ý ÿ Vÿ! "$#&%(' )*+,*.-0/1% L. Chmaj, úXûüýþNÿ Literackie” 16, 1939, pp. 31 -32. 182 108 LUDOVICO FULCI Postfazione Il dubbio come fede nel pluralismo Non c’è dubbio che lo sforzo di e dulcorare la figura di Laura fino a farne un duplicato della Vergine sia stato, nell’arco di tempo che da Petrarca porta a Bruno (ma anche oltre), quel che una cultura egemone tentò di fare. Tale cultura che – a nostro avviso – con troppa disinvoltura si propose come espressione del Cristianesimo (soggetto estremamente difficile da definirsi in sede storica) era piuttosto una cultura condivisa da gruppi di potere (politico, spirituale, intellettuale, economico) a vario titolo interessati a tenere unito e compatto il popolo cristiano. Fatica improba, che solo la consapevolezza di detenere importanti leve di potere lasciò intravedere come possibile nell’arco di tempo compreso tra il XIV e il XVII secolo. Oggi, alla distanza di tanti secoli, il buon senso basta a far sospettare che il Cristianesimo, come atteggiamento religioso diffuso e a quel tempo professato in più aree d’Europa, do vesse la sua fortuna proprio al complesso articolarsi di forme con cui esso si presenta in diverse regioni del continente europeo. In questo senso il variegato culto dei santi, a cominciare da quello della Vergine e della Maddalena, il diverso modo di concepire il destino dell’uomo e il suo rapportarsi al divino (con la diversa sottolineatura posta al libero arbitrio ovvero alla predestinazione) son tutte cose che avevano consentito alla particolare idea del sacro posta a fondamento dello stesso credo cristiano183 di 183 Molto autorevolmente ha sostenuto Joseph Ratzinger, qualche anno prima di essere eletto papa, che «il Dio al quale i cristiani credono e che venerano, a differenza degli dèi mitici e politici, è davvero natura Deus; in ciò soddisfa le esigenze della razionalità filosofica. Ma nello stesso tempo vale l’altro aspetto: non tamen omnis natura est Deus – non tutto ciò che è natura è Dio. Dio è Dio per sua natura, ma la natura come tale non è Dio. Si crea una separazione tra la natura universale e l’Essere che la fonda, che le dà la sua origine» – J. Ratzinger, La verità cattolica, “Micromega” 2, 2000, p. 47. Un tale concetto di Dio, sicuramente diverso da quello che ebbe il mondo greco-romano, costituisce una delle novità del Cristianesimo. 109 amalgamarsi a precedenti tradizioni pagane che in una cultura essenzialmente contadina sarebbe stato estremamente difficile rimuovere totalmente184. Se si riflette tuttavia al complesso intreccio di rapporti politico-diplomatici che si giocano tra Chiesa cattolica, corti europee, forti congregazioni economiche e leghe tra città e potentati resi aggressivi e temibili da patti di alleanza e solidarietà, si comprende che spinte perfino opposte e contradditorie possono agire ora su questo ora su quel personaggio o istituzione. Non ci si riferisce a fenomeni di mero opportunismo, ma anche a comportamenti che sono coerenti a situazioni in cui ci si trova coinvolti. Non si può, ad esempio, scegliere una carriera, avvalersi dei benefici che ne conseguono e ignorare gli obblighi che ne nascono, specie considerando i valori morali operativi in quell’epoca, quali la lealtà e il senso dell’onore. Definendo “egemone” la cultura ecclesiastica dell’età umanistico -rinascimentale, si vuol quindi tener conto di tutte queste cose, porre in primo piano la capillarità di un sistema che si avvale dei legami di sangue, della “pa rentela spirituale”, degli esempi edificanti per sollecitare comportamenti corretti in chi tenderebbe a pensare (troppo) autonomamente. Si aggiunga un ideale etico-estetico di coerenza e si capirà come tale “egemonia” si rendesse possibile grazie a un atteggiamento mentale diffuso che vedeva un po’ tutti pensare al Cristianesimo come a un unico soggetto, nel nome del quale rivendicare da ogni parte il diritto di possedere la verità vera. Cattolici, luterani, calvinisti si scontrano, mentre hussiti, valdesi e altri gruppi minori si vedono ora accolti, ora osteggiati dagli uni o dagli altri. La dottrina insomma ebbe in quel tempo più forza della filosofia e aveva visto bene Erasmo da Rotterdam quando aveva lamentato che l’osservanza della regola, all’interno dei vari o rdini religiosi, sembrava valere più della conoscenza dei Vangeli185. 184 A questo tema dedicò già nel 1930 un interessante studio Vittorio Macchioro, che in Zagreus. Studi intorno all’orfismo (apparso per la Vallecchi di Firenze) intese individuare nei misteri orfici il primo seme di una spiritualità cristiana. 185 Nel suo celebre Elogio della follia Erasmo ragiona di alcuni «religiosi ipocriti e ignoranti» i quali «ritengono condizione essenziale per una vita pia essere tanto ignoranti da non sapere neppure leggere. Inoltre quando cantano i loro salmi numerati ma non capiti, con i loro ragli asinini credono di accarezzare le orecchie dei santi… Ma lo spettacolo più ridico lo è vederli seguire in ogni loro atto norme rigidissime come se si regolassero su formule matematiche, trasgredire le quali potrebbe essere pericoloso. I sandali devono avere un certo numero di nodi, la cinghia un colore stabilito, la veste quei determinati pezzi, e la cintura dev’essere di una data stoffa e larghezza, il cappuccio di quella certa ampiezza e di quel certo colore, la tonsura larga tanto e non più, ed hanno perino un orario per il sonno» – Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, trad. italiana di Erich Linder rivista da Nicola Petruzzellis, Mursia, Milano, 1989, pp. 109-110. 110 Si aggiunga che il potere politico era in quel tempo capace di un controllo diretto ed efficace su un’area territoriale decisamente più esigua di quella che descrive i confini della christianitas e, proprio nell’epoca che dall’età di Petrarca porta a quella di Bruno, si assiste al declino dell’impero e all’affer marsi degli stati nazionali. Affermazione che è graduale e lenta, il che giustifica – salvo rare eccezioni, quasi tutte concentrate nell’area di diffusione del luteranesimo – come la nuova entità abbia difficoltà a percepirsi come forza contrapposta a quella della Chiesa. Se la Chiesa ha interesse a tenere unito il popolo cristiano, l’unità nazionale a cui guarda lo stato è frammentazione della cultura, accentuazione degli usi locali, dell’ ethos che tradizionalmente agisce nel popolo e che spesso si fonda su principi codificati in età precristiana. Ci vorrà peraltro del tempo perché lo stato moderno giunga a rivendicare il suo diritto a dirsi e ad essere laico. Sono in realtà moltissimi i signori, re, prìncipi, duchi e granduchi italiani ed europei a vedere nell’unità spirituale del po polo che governano un fattore di coesione utile, specialmente quando si tratta di far giungere un qualche coinvolgente messaggio ai sudditi. Difficile dire quanti di loro fossero consapevoli della forza centrifuga di cui erano espressione i potentati locali rispetto a un potere spirituale fortemente centralizzato che, anche grazie a loro, aveva vinto la competizione con l’altra grande pote stà medievale, rappresentata dall’impero. Di qui le posizioni delle varie monarchie europee di cui sono anima Caterina de’ Medici, Enrico VIII, Sigismon do II di Polonia, figure emblematiche nel loro diverso atteggiarsi nei confronti di chi rivendichi il diritto di esercitare una qualche autorità spirituale. Diversa è invece la situazione per come appare a personaggi del tipo di Pietro Bembo, del Cardinal Polo, di Marin Mersenne o di Roberto Bellarmino, intellettuali che svolsero all’interno della Chiesa un ruolo che li vide variamente impegnati a difendere il Cristianesimo e che risultano essere stati più o meno concordi nel vedere minacciata l’unità del mondo cristiano, per come questa unità può essere intesa da parte di chi occupi alte cariche all’interno della complessa gerarchia ecclesiastica. Parlando dunque di egemonia, intendiamo riferirci innanzitutto alla volontà di non rassegnarsi a vedere frantumato questo mondo, già ridotto nelle sue dimensioni dalle scoperte geografiche, sempre più caratterizzato da un pluralismo linguistico e culturale, che appare frazionarlo se non frantumarlo, fatti a cui s’aggiunge l’affermarsi del principio della territorialità del diritto, che rende visibili le diversità anche sul piano degli ordinamenti giuridici, che sempre più si differenzieranno da stato a stato. L’ege monia a cui ci riferiamo è quindi frutto di equilibri e squilibri che sono figli dei tempi e che all’epoca si caratterizzano per essere gli uni particolarmente precarî e gli altri eccezionalmente evidenti. Gli equilibri infatti si cercarono con estrema fatica; quanto 111 agli squilibri, essi si palesarono nelle contradditorie vocazioni della giustizia allora esercitata. Egemone, sia pure limitatamente a un certo periodo, fu questa cultura che volle vedere in Petrarca l’ispiratore del petrarchismo, fenomeno con aspetti troppo notoriamente degenerativi perché su una tale tesi si potesse ragionevolmente insistere186. Difficile negare che un tale fenomeno sia appartenuto a un periodo della storia culturale d’Italia e d’Europa, particolarmente importante perché segnato, in parallelo, da un’ansia di novità intorno alla quale si è anche fin troppo discusso. Il convegno Il dubbio e la fede. Ortodossia, eterodossia e miscredenza da Francesco Petrarca a Giordano Bruno, organizzato dall’Uni versità di Breslavia e reso possibile grazie a un contributo dato dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e dall’Ambasciata d’Italia a Varsa via, è nato del resto dall’aver preso in considerazione quanto – all’epoca com presa tra l’età di Petrarca e quella di Bruno – la cultura italiana abbia influito su quella europea in un rapporto fecondo anche per gli scambi e per il replicarsi di certi modelli politici e culturali. È perciò giusto che si ragioni – in un’epoca in cui la corte rinascimentale raggiunge un po’ in tutta Europa le forme più mature della sua evoluzione – di una cultura egemone che non a caso si articola secondo il trinomio di ortodossia, eterodossia e miscredenza. Focus di tale storia appaiono il dubbio e la fede: due polarità che – come ha suggerito nel suo messaggio di saluto ai partecipanti al convegno l’Ambasciatore d’Italia a Varsavia, Anna Blefari Melazzi – non necessariamente formano un contrasto. Se la fede è un comodo rifugio per non vedere i molti problemi che nel mondo si agitano, essa non vale più di un dubbio onestamente coltivato nella propria coscienza. Se il dubbio dev’essere un comodo paravento dietro il quale differire le scelte che pure si devono compiere sul piano morale, su quello politico, su quello delle strategie di vita, allora non vale più di un pregiudiziale convincimento circa l’assolutezza di un principio che non si voglia a nessun costo mettere in discussione. È innegabile che a scandire i tempi che da Petrarca portano a Bruno ci fossero – nella coscienza di tanti – queste tensioni morali e intellettuali, tensioni che interessarono non soltanto moralisti e filosofi, ma anche persone comuni. Lo confermano i molti processi intentati ai danni di privati cittadini accusati chi di eresia, chi di miscredenza per il fatto di condividere semplicemente tesi professate da “pubblici nemici” della Chiesa. Sicuramente questi 186 Sulla sostanziale insincerità del petrarchismo convengono un po’ tutti gli studiosi che ri conoscono nel petrarchismo una “maniera”. Tralasciando la questione del ruolo avuto da una sensibilità “romantica” che, disprezzando l’estetica de ll’imitazione, giunse a ridicoliz zarla, è certo che la “maniera” suggerisce una moda più che non uno stile e il “petrarchi smo” fu, come vide Giordano Bruno, mistificazione della realtà. 112 fatti, che formano un clima culturale, sono stati tenuti presenti da parte degli studiosi che sono intervenuti al convegno di Breslavia. Da questo punto di vista l’incontro può dirsi senz’altro fruttuoso. Aggiungendo, come mi è stato affettuosamente richiesto dai partecipanti, una nota personale che valesse quasi un intervento, vorrei enunciare una sorta di paradosso e osservare che – nelle aree culturali nelle quali ha dominato il cristianesimo – l’eresia ebbe in fondo il merito d’avere salva guardato la fede. Intendo dire che la lotta, il castigo, a volte perfino la persecuzione di una fede diversa, altra (per usare un’espressione di Davide Artico, che mi ha validamente sostenuto e affiancato nella realizzazione del progetto) ha comunque suscitato in chi fosse del tutto acriticamente “ortodosso” un senso di rispetto nei confronti di chi affrontava, nel nome della fede, il peso di una vita difficile. Che poi a creare tali difficoltà fosse materialmente il braccio secolare, più che non alcuni ordini religiosi a cui si affidò in quell’età il compito precipuo di porsi a baluardo delle verità di fede, mi sembrano questioni del tutto marginali, vista la compattezza, l’uniformità, la coerenza a cui aspira una cultura che si fa forte, nel proporsi come egemone, della sua capacità di difendere, ma anche di definire e detenere un’ ortodossia. Aggiungo che una storiografia che torna a insistere, come pure accade, a far leva sulla distinzione delle responsabilità del braccio secolare rispetto a quelle dell’autorità religiosa dovrebbe porsi più attentamente la question e nei termini di un male che affligge la cultura occidentale: alludo alla discrasia – che a me personalmente pare sospetta in quanto artificiosa – tra teoria e pratica, con un mondo accademico che spesso si sottrae, un po’ come i domenicani dell’epoca di Bruno, a responsabilità politico-culturali che invece gli appartengono istituzionalmente, e un mondo politico che guarda alla cultura solo per l’utilità che gliene può venire sul piano di una propaganda ben organizzata. Eppure l’approdo a una visione plu ralistica, che arrivasse a sancire i principî democratici nei paesi dell’Europa moderna, si co mincia a delineare – con chiarezza crescente e come aspirazione irrinunciabile – proprio in quei secoli che da Petrarca portano a Bruno187. Il dubbio, la struttura dialogica di tanti saggi filosofici che, dal Secretum in avanti sono stati scritti, e che presentano rispetto al modello platonico e ciceroniano nuove forme, come è emerso dalle comunicazioni dei partecipanti al convegno, sono il primo seme da cui scaturisce l’esigenza di un sere no interrogarsi da parte dell’uomo moderno sui problemi della vita. È questo 187 Ci si riferisce soprattutto alle lotte sostenute per la difesa delle libertà civiche, che spesso passarono in Italia, come in altri paesi europei, sotto il segno di una protesta religiosa. L’esempio più tipico fu la cosiddetta congiura di Campanella, della cui soppressione si oc cupò il principe Spinelli, figlio del persecutore dei valdesi che a Porta Piemontese in Calabria aveva sterminato quella minoranza religiosa. 113 un tema su cui il rifiuto di venire catechizzati diventa mano mano norma. Norma che in Bruno trova il suo più grande campione. Per la filosofia bruniana Giulio Giorello ha suggerito il ricorso al concetto di “multiverso” in antitesi a quello di “universo” 188. A me pare che la proposta sia sensata, in quanto spiega due cose che hanno una grande importanza ai fini della vicenda culturale italiana e più generalmente europea. Da un lato, infatti, la questione cosmologica, ridotta alla definizione dell’ universo, può porsi all’origine dell’incomprensione di Bruno da parte di molti suoi contemporanei; dall’altro spiega la pretesa che, stando a tesi a lungo s ostenute, Bruno abbia svolto un ruolo marginale nel quadro degli eventi che portarono al compiersi di quella rivoluzione che, nella storia della cultura, segna la nascita della scienza sperimentale. E qui c’è la necessità, a mio avviso, di collocare il sorgere della scienza sperimentale nell’ampio quadro culturale da cui è nata, evitando di fare l’in verso e voler ricondurre allo sperimentalismo tutti i fermenti culturali significativi dell’epoca, da cui poi nasce l’equivoco di una cultura “umanisti ca” diversa da quella “scientifica”, scomodo retaggio dello sperimentalismo. Le relazioni su Petrarca hanno invece tutte in varia misura posto in luce, a cominciare da quella di Luigi Tassoni, uno spessore, una tensione culturale che si contiene nella lingua di Petrarca, nella quale lo scrittore ripensa il suo mondo, con accenti sul cui lirismo si è fin troppo – cioè per troppo tempo – insistito, e che mi pare possano essere ricondotti al possesso di strumenti concettuali che vanno ben oltre i confini di un poetare convenzionale. Un convegno in lingua italiana organizzato col contributo dell’Amba sciata d’Italia in Polonia sul tema dubbio e fede, e a cui partecipano studiosi che vengono da varie parti d’Europa, non poteva che essere un’occasione per valutare quale sia la conoscenza di certi aspetti della cultura italiana somiglianti o speculari a quelli di altre realtà europee. S’è parlato durante il convegno di cultura in senso ampio, nel senso in cui i gesti, i rituali della vita quotidiana, i gusti, i modi di essere e di presentarsi si sposano con un modo di pensare, di vivere e di affrontare i problemi, ma ne abbiamo parlato anche come capacità di operare delle sintesi che tutto questo contengano e tutto questo superino, senza però ignorarlo. Bruno è un filosofo che è penetrato a fondo nella cultura italiana, forse meno negli spazi accademici che non in quelli di una cultura popolare. Non a caso il cinema e un giornalismo non sempre da “terza pagina” se ne sono occupati più volte. La letteratura su d i lui è tuttora di duplice segno. C’è il filologo che si prende cura di interpetarne gli scritti, ma c’è anche chi, ai margini della cultura ufficiale, più o meno liberamente, ma comunque sempre legittimamente, si richiama alla sua opera, 188 G. Giorello, Il pesce e la Fenice, “Micromega” 2, 2000, pp. 281 -82. 114 la cita, la commenta, ne tiene desta la memoria. Al crocevia della sua riflessione filosofica si pongono però questioni talmente urgenti da non potersi più ignorare. Voglio dire che Bruno è lo specchio di una situazione culturale che non interessa soltanto l’Italia, ma a nche molte altre culture europee, all’inter no delle quali il dialogo tra cultura popolare e accademia risulta particolarmente difficile. È questa, io credo, la ragione per cui si continua a conoscere poco di Giordano Bruno. Gli sforzi compiuti da Frances Yates, che restano comunque un punto di riferimento189, sono solo in parte serviti a far riemergere dall’ombra una delle figure principali della vicenda culturale italiana. Se si pensa che Bruno è l’anello di congiunzione tra la filosofia rinascimentale, che in Italia ha conosciuto robusti pensatori come Giovanni Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, da una parte e tutto quel fermentare di nuovi umori che porteranno alla Scienza Nuova di Vico dall’altra, se ne comprende l’im portanza al fine di una delineazione di qualcosa come una filosofia italiana, fin qui ricostruita in modo tutto sommato frammentario. In realtà ci sono all’interno della tradizione filosofica italiana temi e motivi dominanti e ricorrenti che si trovano senza troppa difficoltà proprio in Bruno. Mi riferisco a un epicureismo di marca lucreziana e oraziana, alla tradizione magno-greca, alle questioni in margine all’averroismo, ora visto quale pericoloso equivoco in cui incorrere (sicuramente secondo la cultura egemone), ora come elemento di interesse (Agostino Nifo, Girolamo Cardano, per esempio). E aggiungerei una vena di libertinismo che, come libertinismo dei costumi e soprattutto come libertinismo erudito, ha comunque avuto la sua importanza nella formazione culturale delle classi colte italiane. Questi fatti non possono continuarsi a ignorare, anche perché mi sembra totalmente chiusa la stagione di studi storici segnati dalla celebrazione trionfalistica di una spiritualità che – univocamente intesa – compia la sua inarrestabile marcia in avanti. La storia non ha solo ripensamenti. Ci sono freni posti sia dall’interno che dall’esterno delle diverse civiltà. Anche da quanto abbiamo rapidamente visto non c’è dubbio che la tradizione greca, quella ebraica e quella araba agissero potentemente in area cristiana, secondo stimoli e contributi che sarebbe erroneo sottovalutare, anche perché vivere responsabilmente una fede significa sapersi confrontare con coloro che ne vivono una diversa. E quel che vale per la fede ci pare valga sensatamente anche per il dubbio. 189 Si tengano presenti soprattutto: Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, The University of Chicago Press, London, 1964 e The Art of Memory, Routledge & Kegan Paul, London, 1966 – due studi memorabili, anche se ridimensionati da una critica più recente, per l’attenzione ai legami che la filosofia bruniana ebbe con la cultura rinascime ntale. 115