© Lonely Planet Publications 41 Storia turtle Island Secondo la tradizione orale e i miti sacri dei nativi, il continente nordamericano, che in certe fonti è citato come ‘Turtle Island’ (Isola delle Tartarughe) è abitato dalla notte dei tempi. All’epoca dell’arrivo dei primi coloni europei da 2 a 18 milioni di persone popolavano ogni angolo del dorso della ‘tartaruga’ a nord del Messico, parlando oltre 300 lingue diverse. La più accreditata ipotesi scientifica sul popolamento del continente americano – ovvero che l’uomo sia emigrato dall’Asia attraverso l’istmo di terra che univa la Siberia all’Alaska in un periodo risalente almeno a 20.000 anni fa – è probabilmente fondata, ma non basta a spiegare tutti i reperti e le testimonianze pervenuteci delle civiltà preistoriche del Nord America. Inoltre, il fatto di trasformare i nativi americani in ‘immigrati’ è apparso a a qualcuno come un mero pretesto per giustificare l’appropriazione del loro territorio da parte del governo statunitense. Le prime culture paleoindiane di cui si sono avuti rilevamenti archeologici sono quelle di Clovis e di Folsom, diffuse su tutto il territorio nordamericano a partire dal 10.000-8000 a.C., alla fine dell’era glaciale. Successivamente si svilupparono numerose comunità socialmente complesse, alcune costituite da cacciatori e raccoglitori nomadi e altre da coltivatori stanziali. Delle culture antiche più significative del continente nordamericano facevano parte i cosiddetti ‘Mound Builder’ (letteralmente, ‘costruttori di tumuli’), che abitarono le valli dei fiumi Ohio e Mississippi in un periodo compreso tra il 3000 a.C. e il 1300 d.C. Il Cahokia Mounds State Historic Site, nell’Illinois, all’apice del suo sviluppo contava ben 20.000 abitanti ed era la più grande città dell’America settentrionale precolombiana. In Ohio, lo Hopewell Culture National Historic Park tutela un sito sacro legato a misteriosi riti cerimoniali definito ‘Mound City’. Nel Southwest gli anasazi, i primi abitanti dei pueblos, occuparono l’altopiano del Colorado dal 100 al 1300 d.C., finché le guerre, la siccità e la scarsità delle risorse non li costrinsero a emigrare. Si possono ancora vedere le loro dimore rupestri nel Mesa Verde National Park del Colorado e i pueblos in adobe nel deserto al Chaco Culture National Historic Park in New Mexico. Da queste genti discesero gli hopi, i cui pueblos in cima alle mesas risalenti al XIII secolo sono considerati tra i più antichi insediamenti ininterrottamente abitati del continente. Nello stesso periodo, grosso modo tra il 500 e il 1000 d.C., le Hawaii furono abitate da popolazioni provenienti dalla Polinesia. Nel Pacific North west e nell’Alaska, si svilupparono culture indigene di navigatori esperti abili a costruire canoe adatte alla navigazione in mare e autori di totem incisi nel legno, pervenuti fino a noi. Sulla Olympic Peninsula, nello stato di Storia degli Stati Uniti di Oliviero Bergamini (Laterza, Bari 2009) è un volume agile e sintetico che ripercorre in modo esauriente e rigoroso la storia del paese dalle origini ai giorni nostri, con particolare attenzione agli ultimi avvenimenti. L’antropologo Wilcomb Washburn nel suo lavoro Gli indiani d’America (Editori Riuniti, Roma 2006) traccia, in un’ampia panoramica storica che va dalla scoperta del nuovo mondo all’epoca attuale, le tappe fondamentali del rapporto tra bianchi e nativi. Il lavoro è completato da un saggio bibliografico che tocca anche gli aspetti letterari e antropologici della questione indiana. CRONOLOGIA 10.000-8000 a.C. Si diffondono le culture di Clovis e Folsom, i cui insediamenti costituiscono la prima testimonianza della presenza umana sul suolo americano. 8000 a.C. Estinzione dei mammiferi dell’era glaciale, incluso il mammut, dovuta in parte all’azione dei primi cacciatori e in parte al riscaldamento del clima. 7000 a.C.-100 d.C. È il periodo arcaico caratterizzato dalla presenza di tribù nomadi di cacciatori-raccoglitori, al termine del quale la società diventa stanziale. 42 S T O R I A l o n el y p l an et . c o m gli ultimi americani Uno dei paradossi su cui poggia la democrazia americana è costituito dal fatto che i nativi, pur essendo stati i ‘primi popoli’ ad abitare il continente, sono stati tra gli ultimi a ottenere la cittadinanza americana. Quando finalmente fu loro riconosciuta nel 1924 (in parte per rendere omaggio ai servizi resi dai nativi americani durante la prima guerra mondiale), cristallizzò senza risolverla la situazione emersa alla fine delle brutali guerre indiane combattute nel XIX secolo: le riserve indiane sarebbero rimaste nazioni separate all’interno degli Stati Uniti, con proprie leggi e obblighi, talvolta però poco definiti per entrambe le parti. La legge sancì una soluzione che in realtà molti non volevano e le opinioni su ‘chi dovesse vivere dove’ divergevano notevolmente. Per porre fine a questi conflitti, nel 1830, cioè quasi un secolo prima, il presidente Andrew Jackson aveva varato l’Indian Removal Act, una legge che prevedeva lo spostamento forzato dei nativi. Secondo quel provvedimento, i territori a ovest del Mississippi diventavano Indian Territory e i nativi avrebbero dovuto trasferirvisi, lasciando le fertili valli che si estendevano a ovest delle Appalachian Mountains agli insediamenti dei coloni e allo sfruttamento capitalistico. Molte tribù opposero una strenua resistenza, tra cui i seminole in Florida, ma gli americani non esitarono a ricorrere ai raggiri, alle minacce e alla corruzione pur di spingerli a firmare trattati e a cooperare; quando simili mezzi si dimostravano inutili, il governo faceva immediatamente ricorso all’esercito. L’episodio più increscioso di questa fase dei rapporti tra coloni e nativi fu il cosiddetto Trail of Tears (‘sentiero delle lacrime’), una marcia forzata che nel 1838 costò la vita a oltre 4000 cherokee. Nel 1844 tre quarti degli oltre 120.000 nativi che vivevano a est del Mississippi erano stati ‘rimossi’ con successo. Seppellite il mio cuore a Wounded Knee di Dee Brown (Mondadori, Milano 1996) è un testo autorevole e molto commovente, che racconta la storia delle guerre indiane combattute negli ultimi decenni del XIX secolo dalla prospettiva dei nativi americani. Washington, la Makah Nation comprende gli scavi di un villaggio di nativi americani del XV secolo che, seppellito da una frana, ha potuto preservare manufatti del periodo precolombiano, tra cui una longhouse comunitaria. L’Alaska Native Heritage Center di Anchorage è senz’altro il posto migliore per imparare qualcosa sulle popolazioni indigene dell’estremo Nord. Furono le culture delle Great Plains a divenire sinonimo di ‘indiani’ nell’immaginario popolare americano, anche perché furono quelle che si opposero con maggiore determinazione all’avanzata dei coloni verso ovest. l’Oklahoma annovera diversi siti che aiutano a ricostruire la vita dei nativi americani prima dell’arrivo degli europei, tra cui Anadarko e il percorso del Trail of Tears. Un nuovo mondo per gli Europei Quando gli europei cominciarono a veleggiare nell’emisfero occidentale, definirono i continenti in cui si imbatterono ‘Nuovo Mondo.’ La terra inaspettata era certamente sorprendente, ma la vera novità era rappresentata dalla possibilità di attraversare in nave l’oceano: si scoprì infatti che il mare non era un confine invalicabile, bensì una strada per raggiungere nuove terre. La scoperta cambiò radicalmente il panorama politico dell’Europa e dell’Asia promuovendo il capitalismo di tipo moderno, con 1200-1300 1492 Nel Southwest i primi abitanti dei pueblos abbandonano in circostanze misteriose le loro dimore rupestri. Nel corso dei suoi tre viaggi Colombo ‘scopre’ l’America ed esplora i Caraibi. Il navigatore genovese chiama gli abitanti ‘indiani’, pensando di essere giunto nelle Indie orientali. 1607 Jamestown è sull’orlo dell’estin zione: nel primo anno muoiono 80 coloni su 108, l’anno seguente (‘l’anno della fame’) 440 su 500. Tra il 1619 e il 1622, muoiono 3000 dei 3600 coloni di Jamestown. S T O R I A 43 l o nely p lanet ita l ia.it Nel 1853, dopo l’annessione del Texas e la vittoria nella guerra contro il Messico, gli Stati Uniti si trovarono a essere praticamente gli unici padroni del continente, con il territorio dei nativi proprio al centro. Soprattutto dopo la guerra di secessione i pionieri e i minatori si riversarono in massa nel West, insediandosi dove capitava, senza rispettare i confini stabiliti dai trattati. Dal 1871 gli Stati Uniti presero l’abitudine di stipulare e di violare i trattati con una tale velocità che non venivano neanche più messi per iscritto; e spesso la loro durata era indicata genericamente: ‘…finché l’erba crescerà e l’acqua scorrerà’. In tutto i trattati infranti furono ben 470. La nazione appena nata aveva fame di oro e nuove terre e ben presto si stancò di chiedere il permesso ai nativi per impadronirsene, rinunciando a ogni prospettiva di convivenza pacifica. Negli ultimi decenni dell’Ottocento si procedette allo sterminio dei bisonti come esplicita (e vincente) strategia militare per affamare le ‘selvagge’ tribù delle pianure che si opponevano allo spostamento forzato nelle riserve. Quando nel 1876 i sioux sterminarono il Settimo Cavalleggeri di Custer nella battaglia del Little Bighorn, le ultime remore svanirono. L’esercito braccò le tribù senza tregua finché, con la fine delle guerre contro gli apache del 1886, la resistenza armata dei nativi venne definitivamente annientata. Relegati in riserve desolate, i nativi iniziarono a dipendere dagli aiuti governativi per poter sopravvivere. Nel 1887 ottennero il Dawes Act, che intendeva ‘integrare’ i nativi nella società bianca, costringendoli così ad abbandonare la loro cultura e la loro lingua. Alla miseria si aggiunse l’oltraggio e molti nativi si opposero strenuamente ai tentativi di assimilazione alla cultura dei bianchi. La stessa politica è alla base dell’Indian Citizenship Act del 1924, che alcune tribù considerarono positivamente mentre altre subirono come violazione della sovranità acquisita. Per saperne di più sulla cultura dei nativi americani, v. lettura p66. conseguenti ripercussioni sull’atteggiamento degli europei nei confronti delle Americhe. Finanziato dalla Spagna, nel 1492 Cristoforo Colombo fece vela verso ovest in cerca delle Indie, trovando invece le Bahamas. La concreta prospettiva di impadronirsi di immense ricchezze indusse ben presto altri esploratori e avventurieri – per lo più spagnoli – a inoltrarsi in queste terre del tutto sconosciute. Tra di essi si ricordano Hernán Cortés, che conquistò gran parte dell’attuale Messico, Francisco Pizarro, che sottomise la civiltà inca del Perú, e Juan Ponce de León, che esplorò la Florida alla ricerca della fonte dell’eterna giovinezza. Dal canto loro i francesi esplorarono il Canada e il Midwest, regioni ricche di pellicce, mentre gli olandesi e gli inglesi perlustrarono la costa orientale del continente. Purtroppo, gli esploratori europei portarono nel Nuovo Mondo malattie contro cui i nativi erano privi di difese immunitarie, scatenando terribili epidemie che contribuirono, più di ogni altro fattore (guerre, schiavitù e carestie), a decimare la popolazione autoctona, riducendola della metà e in taluni casi addirittura del 90%. Nel XVII secolo i nativi americani ammontavano a circa un milione di individui e molte società del continente un tempo prospere attraversarono una fase di turbolenta transizione. 1619 I coloni di Jamestown fondano la House of Burgesses, un’assemblea legislativa formata dai cittadini, e ricevono il primo ‘carico’ di 20 schiavi africani. 1620 A Plymouth arrivano i primi 102 Padri Pellegrini, che saranno salvati dalla fame e dagli stenti dalla tribù dei wampanoag. Nasce così la ricorrenza del Giorno del Ringraziamento. Nel 1502 Amerigo Vespucci usò l’espressione ‘mundus novus’ per descrivere le sue scoperte. Nel 1507 le nuove cartine chiamavano l’emisfero occidentale ‘America’. La casa editrice siciliana Città Aperta propone una moderna traduzione e una inedita lettura di Mundus novus (2007), a cura di Cristiano Spila con testo latino a fronte. 1675 Dopo diversi decenni trascorsi in relativa armonia, tra i puritani e le tribù locali scoppia una cruenta guerra che nel giro di 14 mesi provoca ben 5000 vittime. 44 S T O R I A The New World - Il nuovo mondo (2005), diretto da Terrence Malick, è un film appassionante anche se brutale che racconta la tragica storia della colonia di Jamestown e il fondamentale ruolo svolto da Pocahontas, figlia di un capo powhatan, nel riportare la pace tra nativi e inglesi. l o n el y p l an et . c o m Oltre che dalla brama di nuove ricchezze, alcuni coloni europei erano spinti da sincero fervore religioso, nutrendo la convinzione che i nuovi territori scarsamente popolati fossero dono della divina provvidenza e qundi riservati ai cristiani. I missionari cattolici spagnoli furono i primi a cercare di convertire le culture indigene del continente, fondando una serie di missioni per tutto il Southwest, in Texas e in California. Nel 1607 un gruppo di inglesi benestanti, per la maggior parte ricchi proprietari terrieri e agiati mercanti, fondò la prima colonia permanente europea a Jamestown. Precedenti tentativi analoghi erano tragicamente falliti e anche Jamestown rischiò di andare incontro alla stessa fine: gli inglesi si erano infatti stabiliti in una zona paludosa e avevano iniziato a coltivare la terra troppo tardi per ottenere frutti a sufficienza e molti morirono di fame e di malattie. Disperati, alcuni coloni scelsero di vivere con le tribù locali, le quali rifornirono l’insediamento del necessario per sopravvivere. Per Jamestown e l’America il 1619 rappresentò l’anno della svolta: i coloni di Jamestown fondarono infatti la House of Burgesses, un’assemblea legislativa formata dai cittadini, e ricevettero il primo ‘carico’ di 20 schiavi africani. La produzione di tabacco raggiunse finalmente livelli utili per l’esportazione e gli inglesi scoprirono di aver bisogno di manodopera adeguata: i coloni infatti non erano numericamente sufficienti (e comunque disdegnavano il duro lavoro nei campi), mentre i nativi erano difficili da convincere e sottomettere. Gli schiavi africani – da tempo impiegati nelle piantagioni caraibiche di canna da zucchero – si rivelarono invece perfettamente adatti allo scopo. L’anno seguente, il 1620, fu altrettanto decisivo. In Massachusetts, nella futura città di Plymouth attraccò una nave carica di puritani. I Padri Pellegrini in fuga dalle persecuzioni religiose perpetrate dalla ‘corrotta’ chiesa anglicana, intravidero nel Nuovo Mondo l’opportunità di creare una nuova società che avrebbe dovuto diventare un punto di riferimento morale e religioso per tutti. I Padri Pellegrini firmarono inoltre il ‘patto del Mayflower’, uno dei testi su cui si fonda la democrazia americana, giurando di restare uniti e di sottomettersi alle regole stabilite per il bene comune. Per decenni i puritani e le tribù native vissero in relativa armonia e cooperazione, ma nel 1675 i rapporti si guastarono a tal punto che il conflitto divenne inevitabile. La cosiddetta ‘guerra di re Filippo’, ovvero gli scontri che opposero agli inglesi le tribù sotto la guida di Metacom (chiamato ‘re Philip’ dagli inglesi), durarono 14 mesi e fecero 5000 vittime (per la maggior parte nativi americani); coloro che sopravvissero furono caricati sulle navi dei negrieri e trasportati nei Caraibi. Questo tragico episodio segnò l’inizio del ‘paradosso americano’, in base al quale la libertà politica e religiosa dei bianchi si sarebbe basata sulla schiavitù dei neri e sullo sterminio dei nativi. 1756-63 A seguito della guerra dei sette anni, la Francia viene sconfitta dagli inglesi e cacciata dal Canada. La Gran Bretagna controlla così gran parte dei territori a est del Mississippi. 1773 Per protestare contro la tassa sul tè, gli abitanti di Boston travestiti da indiani assaltano le navi della Compagnia delle Indie Orientali gettando a mare il carico. È il Boston Tea Party. 1775 Il 18 aprile Paul Revere parte da Boston a cavallo per avvertire i ‘minutemen’ dell’arrivo degli inglesi. Il giorno seguente a Lexington ha inizio la guerra d’indipendenza. S T O R I A 45 l o nely p lanet ita l ia.it Capitalismo e Colonialismo Nel corso dei due secoli successivi le potenze europee – in particolare l’Inghilterra, la Francia, il Portogallo e la Spagna – si contesero i territori del Nuovo Mondo, esportando nelle Americhe le logiche di potere che imperavano in Europa. Quando la Royal Navy britannica stabilì la propria supremazia nelle acque atlantiche, l’Inghilterra iniziò a sfruttare sempre più le proprie colonie e a consumare avidamente i frutti delle loro terre, tra cui il pregiato tabacco della Virginia, lo zucchero e il caffè dei Caraibi. Molto prima dell’inizio della rivoluzione industriale, i capitalisti inglesi erano arrivati alla conclusione che simili beni di lusso si sarebbero rivelati vantaggiosi solo se prodotti su larga scala e destinati all’esportazione, sfruttando la manodopera che lavorava a basso costo in piantagioni rigidamente organizzate e strutturate. Tra il XVII e il XVIII secolo la schiavitù venne quindi gradualmente legalizzata in un’istituzione formale, a sostegno dell’economia delle piantagioni. Sebbene solo il 5% del totale degli schiavi deportati dall’Africa finì in Nord America, costoro andarono a costituire una porzione consistente della popolazione delle colonie, al punto che nel 1800 una persona su cinque era uno schiavo. Dal punto di vista politico, la Gran Bretagna concesse ai coloni una certa autonomia di governo e sempre più cominciarono a diffondersi le assemblee rappresentative, nel corso delle quali i cittadini (ossia i proprietari terrieri bianchi) discutevano i problemi legati alla comunità e mettevano al voto leggi e tasse. Nel 1763, alla fine della guerra dei sette anni, la Gran Bretagna iniziò a sentire il peso derivante dalla necessità di governare in modo efficiente un impero che si estendeva in tutti i cinque continenti, creato nel corso dell’ultimo secolo combattendo contro i francesi, i portoghesi e gli spagnoli. Era dunque giunto il momento di fare chiarezza su diritti e doveri di tutti e condividere gli oneri finanziari. La Gran Bretagna decise così di stanziare un esercito permanente in America, fece entrare in vigore leggi che proibivano l’espansione delle colonie a ovest delle Appalachian Mountains e a nord dell’Ohio (misure prese allo scopo di evitare nuove guerre) e impose una serie di tasse per raccogliere fondi per la Corona e la sua difesa. A partire dal 1763, le colonie diedero il via a proteste e boicottaggi, aprendo un dibattito pubblico di filosofia politica che sarebbe culminato nel 1776 con la Dichiarazione di Indipendenza e i Federalist Papers, una raccolta di brevi saggi in cui vengono delineate le basi del sistema federale. In questi documenti i coloni americani adottarono molte idee illuministe che in quegli anni permeavano i principali paesi europei – l’individualismo, l’uguaglianza e la libertà; il ‘diritto naturale’ alla vita, alla libertà e alla proprietà teorizzato dal filosofo inglese John Locke – e idearono un nuovo tipo di governo in grado di mettere in pratica tali principi. Nel 1773 le tensioni culminarono nel Boston Tea Party, in seguito al quale la Gran Bretagna decise di dare un severo giro di vite, chiudendo il 1776 Il 4 luglio le colonie firmano la Dichiarazione di Indipendenza. Alla stesura del documento contribuiscono noti personaggi, quali John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson. 1787 A Philadelphia viene firmata la Costituzione degli Stati Uniti, in base alla quale il potere federale viene condiviso dal presidente, dal Congresso e dalla Corte Suprema. Se la ricostruzione storica è sempre partigiana, Howard Zinn rivela chiaramente le sue simpatie nell’opera Storia del popolo americano. Dal 1492 a oggi (Net, Milano 2007), in cui vengono narrate le vicende spesso ignorate della classe operaia, delle minoranze, degli immigrati, delle donne e dei riformatori che contribuirono a formare l’America. 1791 Viene approvato il Bill of Rights (Dichiarazione dei Diritti) come emendamento alla Costituzione per garantire i diritti fondamentali dei cittadini. 46 S T O R I A Se desiderate prendere visione degli articoli della Costituzione, della Dichiarazione di Indipendenza e dei Federalist Papers, visitate il sito degli archivi nazionali (www.archives. gov) e www.ourdocu ments.gov. L’Autobiografia di Benjamin Franklin (Garzanti Libri, Milano 1999), che il grande inventore e uomo politico iniziò a scrivere intorno al 1771, è non solo un documento indispensabile per avvicinare una delle personalità più significative della storia americana, ma anche una miniera di informazioni sul periodo e sulla temperie sociale in cui Franklin visse. l o n el y p l an et . c o m porto di Boston, rinforzando il contingente militare di stanza in America e facendo valere l’autorità imperiale. Per tutta risposta, nel 1774 i rappresentanti di 12 colonie (a eccezione della Georgia) si riunirono nella Independence Hall di Philadelphia e formarono il First Continental Congress per discutere sulle posizioni da assumere. I coloni, che fino a quel momento si erano identificati con gli inglesi, si trasformarono in un gruppo compatto e omogeneo ed entrambe le parti si prepararono al conflitto. La Rivoluzione e la Repubblica Nell’aprile del 1775, alcune scaramucce tra le truppe britanniche e gruppi di coloni armati del Massachusetts segnarono l’inizio della rivoluzione americana. Poco dopo l’avvio delle ostilità, nel maggio del 1775 fu convocato a Philadelphia il Second Continental Congress, che nominò comandante dell’esercito americano George Washington, un ricco proprietario terriero della Virginia. Ai rivoluzionari mancavano però sia la polvere da sparo sia adeguati finanziamenti (i coloni continuavano infatti a mostrarsi recalcitranti verso il pagamento delle tasse, anche quando servivano a finanziare la lotta per la loro indipendenza) e l’esercito era formato da eterogenee truppe di agricoltori, cacciatori e mercanti malamente armati, facili alla diserzione e pronti a fare ritorno alle proprie fattorie ogni qual volta non ricevevano la paga. Al contrario, le ‘giubbe rosse’ inglesi erano all’epoca l’esercito più potente del mondo. Del tutto privo di esperienza militare, Washington fu costretto a improvvisare, a volte optando per una prudente ritirata e a volte lanciando attacchi di sorpresa ‘poco cavallereschi’. Nell’inverno tra il 1777 e il 1778 l’esercito americano fu sul punto di essere sterminato dalla fame a Valley Forge, in Pennsylvania. Nel frattempo il Second Continental Congress cercò di formulare i principi in nome dei quali si stava combattendo. Nel gennaio del 1776 Thomas Paine pubblicò il celeberrimo Common Sense, un opuscolo che propugnava con veemenza la separazione delle colonie dall’Inghilterra. Fu così che il distacco dalla madrepatria divenne non solo un passo logico, ma addirittura un fatto nobile e necessario, e il 4 luglio del 1776 un gruppo di intellettuali firmò la Dichiarazione di Indipendenza. Scritto quasi esclusivamente da Thomas Jefferson, questo memorabile documento elevava le accuse delle 13 colonie contro la monarchia a dichiarazione universale dei diritti individuali e del governo repubblicano. Ai suoi toni ispirati e commoventi si rifecero da allora le rivoluzioni di tutto il mondo. La Dichiarazione di Indipendenza americana inizia con queste celebri frasi: Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono 1803 L’acquisto della Louisiana dalla Francia di Napoleone, per appena 15 milioni di dollari, raddoppia la superficie degli Stati Uniti, che ora si estendono dal Mississippi alle Rocky Mountains. 1803-6 Incaricati dal presidente Thomas Jefferson, Meriwether Lewis e William Clark si spingono a ovest. Partendo da St Louis raggiungono il Missouri e il Pacifico, guidati dalla nativa shoshone Sacajawea. 1812 Scontri armati nei Great Lakes tra inglesi e nativi da una parte e coloni dall’altra danno avvio a una guerra che continua anche dopo il Trattato di Ghent (1815), soprattutto a New Orleans. S T O R I A 47 l o nely p lanet ita l ia.it creati fra gli uomini i governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Tuttavia, per vincere sul campo di battaglia il generale Washington aveva bisogno di aiuto e non solo di nobili sentimenti; per questo, nel 1778 Benjamin Franklin convinse la Francia (sempre pronta a opporsi all’Inghilterra) ad appoggiare i rivoluzionari con truppe, approvvigionamenti e navi, che contribuirono in maniera decisiva a determinare la vittoria degli americani. Gli inglesi si arresero nel 1781 a Yorktown, in Virginia, e due anni più tardi il Trattato di Parigi riconobbe formalmente gli Stati Uniti d’America. Agli esordi, ben lungi dall’essere unita, la nazione sembrava in realtà una confederazione piuttosto lasca di stati in continuo disaccordo e competizione. Per questo motivo i fondatori si riunirono nuovamente a Philadelphia e nel 1787 apportarono alcune modifiche alla Costituzione, in base alle quali il governo diventava un centro della federazione con maggiori poteri, con l’imposizione di controlli e di equilibri tra le sue tre componenti (legislativa, giudiziaria ed esecutiva). E per prevenire gli abusi del potere centrale nei confronti dei cittadini, nel 1791 fu approvato il Bill of Rights (Dichiarazione dei Diritti). La Costituzione ebbe il merito di consolidare i due cardini su cui si basava la rivoluzione: un radicale cambio di governo e il mantenimento dello status quo economico e sociale. I ricchi proprietari terrieri conservarono i possedimenti nei quali lavoravano innumerevoli schiavi, mentre i nativi americani furono esclusi dalla nazione e le donne dalla politica. Aspramente criticate a livello internazionale (soprattutto in Europa), simili diseguaglianze e ingiustizie erano il risultato in parte di un compromesso pragmatico volto a convincere gli stati schiavisti del Sud ad aderire alla Costituzione, in parte della diffusa convinzione che le cose erano giuste così come stavano. Da quel momento in poi la storia americana è stata caratterizzata da un incessante dibattito sulla definizione da dare ai termini ‘tutti’, ‘uguali’ e ‘libertà’: prendere le mosse dal linguaggio universale della carta costituzionale fondativa degli Stati Uniti e poi o rettificarlo o giustificare le inevitabili ingiustizie e disparità che assillano da oltre due secoli questa società democratica. verso ovest La miniserie prodotta da HBO John Adams (2008) è una storia affascinante, raccontata tenendo conto di ognuna delle parti in causa, degli anni in cui la rivoluzione americana rimase appesa a un filo e la storia avrebbe potuto prendere un corso diverso. Secondo una leggenda metropolitana, George Washington era così onesto che ancora ragazzino, dopo aver abbattuto il ciliegio di suo padre, ammise: ‘Non posso dire una bugia. L’ho fatto con la mia piccola ascia’. All’alba del XIX secolo, l’esperimento americano parve dar prova del proprio funzionamento e ovunque regnava un ottimistico autocompiacimento. Con l’invenzione della sgranatrice (1793), cui seguirono altre macchine come la trebbiatrice, la mietitrice, la falciatrice e, in seguito, la mietitrebbia, l’agricoltura si meccanizzò e il commercio americano ne ricevette un fortissimo impulso. Nel 1803, grazie all’acquisto della Louisiana, il territorio americano raddoppiò di dimensioni e nello stesso periodo ebbe inizio l’espansione a ovest delle Appalachian Mountains. 1823 Monroe formula la sua dottrina per porre fine agli interventi militari europei nelle Americhe, poi ripresa da Roosevelt per giustificare gli interventi in America Latina. 1830 Viene approvato l’Indian Removal Act, un provvedimento legislativo che mira a eliminare l’ostacolo rappresentato dalle popolazioni autoctone. 1836 Un gruppo di texani si ribella al Messico. Il 6 marzo le truppe guidate dal generale Santa Anna conquistano la missione di Alamo, da allora diventata un’icona della storia americana. 48 S T O R I A Potete seguire la straordinaria spedizione di Lewis e Clark verso ovest fino al Pacifico e il loro viaggio di ritorno sul sito www. pbs.org/lewisandclark, che contiene cartine storiche, una raccolta di foto ed estratti da giornali dell’epoca. Allo stesso tempo crudele ed eroica, la serie televisiva western Deadwood (2004-06), trasmessa anche in Italia, ben ricostruisce il caos e i rovesci di fortuna di una cittadina mineraria dell’Ottocento, con personaggi tragici come in un’opera shakespeariana. l o n el y p l an et . c o m Nonostante i vivaci scambi commerciali, le relazioni tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna restarono assai tese: gli inglesi possedevano ancora alcuni forti nella Ohio Valley e continuavano ad aizzare i nativi contro i coloni, mentre le navi inglesi ostacolavano sistematicamente quelle americane. Di fronte a una situazione sempre più pesante, nel 1812 gli Stati Uniti dichiararono nuovamente guerra all’ex madrepatria. I due anni di conflitto armato però si conclusero senza risultati apprezzabili da nessuna delle due parti: gli inglesi abbandonarono i loro forti e gli Stati Uniti rinnovarono la propria promessa di evitare ‘alleanze vincolanti’ con gli europei. Un atteggiamento che trovò compiuta espressione nella dottrina di Monroe, formulata nel 1823, secondo la quale da quel momento in poi l’intero continente americano non avrebbe più dovuto essere considerato oggetto di colonizzazione da parte delle potenze europee. Tra il 1830 e il 1850, mentre il fervore nazionalista e i sogni di espansione continentale crescevano a vista d’occhio, in molti americani andò consolidandosi l’idea del ‘Manifest Destiny’ (destino manifesto): tutta l’America settentrionale era destinata a essere annessa agli Stati Uniti. L’Indian Removal Act del 1830 (v. lettura p42) mirava a eliminare l’ostacolo rappresentato dalle popolazioni autoctone, mentre la realizzazione della ferrovia ne superava un altro, collegando i contadini del Midwest con i mercati della East Coast. Nel 1836 un gruppo di texani fomentò la rivoluzione contro il Messico (ricordate il mito della battaglia di Alamo e di Davy Crockett, oggetto di tanti film?). Dieci anni più tardi gli Stati Uniti proclamarono l’annessione della Repubblica del Texas e, di fronte alle rimostranze dei messicani, non esitarono a dichiarare guerra, finendo per reclamare anche la California. Nel 1848 il Messico fu sconfitto e il successivo trattato di pace lo costrinse a cedere definitivamente la Repubblica del Texas agli Stati Uniti, cui si aggiunsero i territori messicani (che corrispondono oggi all’Arizona meridionale e al New Mexico) acquisiti nel 1853 con l’accordo definito Gadsden Purchase (noto in Messico come Venta de la Mesilla). Fu l’ultimo atto dell’espansione continentale statunitense. A eccezione delle terre tribali dei nativi, gli americani erano ora padroni di tutto il territorio che si estendeva dall’Atlantico al Pacifico. Per una singolare coincidenza, pochi giorni dopo la sigla del trattato con il Messico del 1848, in California furono scoperti ricchi filoni auriferi. Nel 1849, fiumi di vagoni sferragliavano verso ovest carichi di minatori, pionieri, imprenditori, immigrati, fuorilegge e prostitute, tutti in cerca di fortuna. Cominciava così un’epoca esaltante destinata a diventare leggenda, ma all’orizzonte si profilava una questione che avrebbe turbato profondamente la giovane nazione: i nuovi stati entrati a far parte degli USA sarebbero stati favorevoli o contrari alla schiavitù? Il futuro dell’intera nazione dipendeva dalla risposta. 1841 I primi treni percorrono l’Oregon Trail, che prolunga la rotta seguita dalla spedizione di Lewis e Clark. A partire dal 1845, oltre 6500 emigranti all’anno si dirigono a ovest. 1844 Nel 1844 viene inaugurata la prima linea telegrafica. Nel 1845 il Congresso approva la costruzione della ferrovia transcontinentale, completata nel 1869. 1848 Dopo una guerra sanguinosa, il Messico è costretto a cedere definitivamente la Repubblica del Texas agli Stati Uniti; ulteriori territori saranno ceduti con il Gadsden Purchase del 1853. S T O R I A 49 l o nely p lanet ita l ia.it lotta fratricida La Costituzione non aveva posto fine allo schiavismo, ma aveva conferito al Congresso il potere di approvare o di abolire questa pratica nei nuovi stati. Questa posizione scatenò accesi dibattiti sull’espansione dello schiavismo, motivati soprattutto dal fatto che questa pratica favoriva l’equilibrio del potere politico tra il Nord industriale e il Sud agricolo. Sin dalla fondazione, i politici degli stati sudisti avevano controllato il governo e difeso con estrema determinazione lo schiavismo come una realtà ‘naturale e normale’, affermazione che un editoriale del 1856 del New York Times bollava come ‘pazzesca’. Le lobby del Sud in favore della schiavitù in seno al governo suscitarono l’indignazione degli abolizionisti del Nord (che favorivano la ‘Underground Railroad’, una serie di percorsi segreti e case sicure per gli schiavi in fuga dalle piantagioni del Sud che cercavano rifugio negli stati del Nord). Ma anche molti politici del Nord temevano che mettere fine alla schiavitù con un colpo di spugna avrebbe implicato la rovina economica. Costoro reputavano sufficiente limitarne la pratica, convinti che la schiavitù sarebbe spontaneamente sparita con il tempo, nella competizione con l’industria e il lavoro libero, senza rischiare così di provocare violente rivolte tra gli schiavi (un’eventualità vista come un pericolo da evitare a tutti i costi). È del 1859 il tentativo di rivolta guidato dall’abolizionista radicale John Brown, il quale organizzò un attacco all’arsenale federale di Harpers Ferry, nel West Virginia. D’altro canto i vantaggi economici garantiti dallo schiavismo erano innegabili. Nel 1860, si contavano oltre quattro milioni di schiavi negli Stati Uniti, per la maggior parte nella piantagioni del Sud. Cosa avrebbero dovuto fare i proprietari delle piantagioni, semplicemente lasciarli andare via? Il Sud, inoltre, produceva il 75% del cotone del mondo, pari alla metà delle esportazioni americane. Il che equivale a dire che l’economia degli stati del Sud sosteneva quella della nazione intera, e dunque conservare la schiavitù sembrava l’unica strada per mantenere lo status quo. Il dibattito si fece sempre più acceso, giungendo a trasformare le elezioni presidenziali del 1860 in una sorta di referendum sulla schiavitù. Alla fine la vittoria arrise a un giovane politico favorevole alla progressiva abolizione: Abraham Lincoln. Per gli stati del Sud la semplice minaccia di una limitazione della schiavitù da parte del governo federale era troppo onerosa da accettare, per cui quando Lincoln assunse la carica di presidente, 11 stati si separarono dall’Unione dando vita agli Stati Confederati d’America, la cosiddetta Confederazione. Lincoln non poteva accettare la secessione: acconsentire alla defezione degli stati in disaccordo con le decisioni del governo federale avrebbe infatti minato le basi stesse della repubblica americana. Nel 1865, in occasione del discorso con cui inaugurò il suo secondo mandato presidenziale, Lincoln espresse il dilemma in maniera estremamente chiara: ‘Entrambe le parti deploravano la guerra; ma una di esse era pronta a fare la guerra piuttosto che consentire alla nazione 1849 Dopo la scoperta di giacimenti auriferi nei pressi di Sacramento, ha inizio una corsa all’oro che vede protagonisti 60.000 cercatori. San Francisco passa in breve tempo da 850 abitanti a ben 25.000. 1861-65 Infuria la guerra di secessione tra il Nord e il Sud. La fine della guerra, firmata il 9 aprile del 1865, è turbata cinque giorni dopo dall’assassinio del presidente Lincoln. Secondo le stime dell’ONU, oggi al mondo ci sono 12 milioni di esseri umani in schiavitù, per lo più donne e bambini. Secondo la CIA, circa 14.500 persone all’anno vittime del traffico di uomini transitano per gli Stati Uniti. In Storia della guerra civile americana (BUR Rizzoli, Milano 2009) Raimondo Luraghi, uno dei maggiori esperti della guerra civile americana, ricostruisce in modo esaustivo la genesi, l’evoluzione e la conclusione del conflitto in tutti i suoi risvolti politici, militari, sociali, culturali, attraverso una narrazione altamente drammatica se pur rigorosamente scientifica e fondata su una vastissima documentazione. 1869 Viene portata a termine la ferrovia transcontinentale che, insieme all’invenzione del telegrafo, contribuisce a unire gli Stati Uniti da oceano a oceano. 50 S T O R I A This Republic of Suffering (2008), scritto da Drew Gilpin Faust, è uno sguardo toccante sulla guerra civile attraverso gli occhi dei parenti dei soldati di entrambe le fazioni morti negli scontri sulla linea Mason-Dixon. La più grande impresa del mondo. La storia degli uomini che costruirono la ferrovia transcontinentale di Stephen Ambrose (Longanesi, Milano 2004) ricostruisce l’epopea delle migliaia di uomini che, partendo rispettivamente da Sacramento in California e da Omaha in Nebraska, riuscirono a unificare con più di 3000 chilometri di ferrovia il territorio degli Stati Uniti. l o n el y p l an et . c o m di sopravvivere, e l’altra era pronta ad accettare la guerra piuttosto che lasciarla perire; e la guerra venne’. Nell’aprile del 1861 l’esercito confederato attaccò Fort Sumter a Charleston, nel South Carolina, dando inizio alla guerra di secessione. Nel corso dei successivi quattro anni gli Stati Uniti furono coinvolti in una vera e propria carneficina senza precedenti. Al termine della guerra erano morti più di 600.000 soldati, quasi un’intera generazione di giovani, e numerose piantagioni e città del Sud (come Atlanta) erano state saccheggiate e date alle fiamme. Ancora oggi il decorso della guerra e i suoi possibili sviluppi sono materia di accesi dibattiti. Entrambe le parti ebbero la loro quota di comandanti inetti e di scaltri leader che sfruttavano senza requie le truppe esauste; entrambe attraversarono momenti di sconforto e fasi di grande determinazione. La potenza industriale degli stati del Nord rappresentava un innegabile vantaggio, tuttavia la vittoria dell’Unione si rivelò tutt’altro che scontata e fu conquistata col sangue, battaglia dopo battaglia. Con il procedere del conflitto, in Lincoln maturò sempre più la convinzione che la sola vittoria della guerra, senza l’abolizione della schiavitù, sarebbe stata priva di significato. Nel 1863 emanò quindi l’Emancipation Proclamation, che estendeva gli obiettivi della guerra e garantiva formalmente la libertà a tutti gli schiavi (un atto sancito ufficialmente dal 13° emendamento della Costituzione, due anni dopo). Nell’aprile del 1865 il comandante in capo delle forze sudiste Robert E. Lee si arrese al generale dell’esercito nordista, Ulysses S. Grant, ad Appomattox, in Virginia. L’Unione era salva. Un Melting Pot in ebollizione: Segregazione e immigrazione La guerra di secessione aveva posto fine a un sistema economico basato sul lavoro coatto, ma la società in cui entravano a far parte gli afroamericani liberati dal giogo della schiavitù rimaneva in gran parte (e a volte anche profondamente) razzista. Nel successivo periodo detto della Reconstruction (1865-77), i diritti civili degli ex schiavi vennero tutelati dal governo federale, che pretendeva anche pesanti riparazioni in denaro dagli stati sudisti. Risentimenti e recriminazioni si radicarono a tal punto che i rancori generati dalla guerra di secessione durarono per molti decenni ancora. Dopo la ricostruzione, gli stati del Sud adottarono un sistema di ‘divisione del raccolto’ che vincolò i neri alla terra, obbligandoli a coltivarla in cambio di una magra percentuale del raccolto, e fecero approvare innumerevoli leggi miranti a garantire la segregazione razziale tra bianchi e neri, secondo il motto ‘separati ma uguali’. Agli afroamericani il diritto di voto venne concesso nel 1870 , ma le leggi segregazioniste del Sud (le cosiddette ‘Jim Crow Laws’ che rimasero in vigore fino alle battaglie civili promosse dal movimento per il riconoscimento dei diritti civili negli anni ’60) di fatto li escludevano dai più importanti settori della vita pubblica. 1870 Agli afroamericani viene riconosciuto il diritto di voto, ma le Jim Crow Laws li escludono dai più importanti settori della vita pubblica. 1876 Una grande coalizione di tribù guidata da Toro Seduto stermina il Settimo Cavalleggeri del generale George Armstrong Custer nella battaglia del Little Bighorn. 1882 L’ondata xenofoba nei confronti dei cinesi (soprattutto in California) porta all’approvazione del Chinese Exclusion Act, l’unica legge sull’immigrazione che escluda una razza specifica.