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Storia
turtle Island
Secondo la tradizione orale e i miti sacri dei nativi, il continente nordamericano, che in certe fonti è citato come ‘Turtle Island’ (Isola delle Tartarughe)
è abitato dalla notte dei tempi. All’epoca dell’arrivo dei primi coloni europei
da 2 a 18 milioni di persone popolavano ogni angolo del dorso della ‘tartaruga’ a nord del Messico, parlando oltre 300 lingue diverse.
La più accreditata ipotesi scientifica sul popolamento del continente
americano – ovvero che l’uomo sia emigrato dall’Asia attraverso l’istmo di
terra che univa la Siberia all’Alaska in un periodo risalente almeno a 20.000
anni fa – è probabilmente fondata, ma non basta a spiegare tutti i reperti e
le testimonianze pervenuteci delle civiltà preistoriche del Nord America.
Inoltre, il fatto di trasformare i nativi americani in ‘immigrati’ è apparso
a a qualcuno come un mero pretesto per giustificare l’appropriazione del
loro territorio da parte del governo statunitense.
Le prime culture paleoindiane di cui si sono avuti rilevamenti archeologici
sono quelle di Clovis e di Folsom, diffuse su tutto il territorio nordamericano
a partire dal 10.000-8000 a.C., alla fine dell’era glaciale. Successivamente si
svilupparono numerose comunità socialmente complesse, alcune costituite
da cacciatori e raccoglitori nomadi e altre da coltivatori stanziali.
Delle culture antiche più significative del continente nordamericano
facevano parte i cosiddetti ‘Mound Builder’ (letteralmente, ‘costruttori di
tumuli’), che abitarono le valli dei fiumi Ohio e Mississippi in un periodo
compreso tra il 3000 a.C. e il 1300 d.C. Il Cahokia Mounds State Historic
Site, nell’Illinois, all’apice del suo sviluppo contava ben 20.000 abitanti ed
era la più grande città dell’America settentrionale precolombiana. In Ohio,
lo Hopewell Culture National Historic Park tutela un sito sacro legato a
misteriosi riti cerimoniali definito ‘Mound City’.
Nel Southwest gli anasazi, i primi abitanti dei pueblos, occuparono
l’altopiano del Colorado dal 100 al 1300 d.C., finché le guerre, la siccità
e la scarsità delle risorse non li costrinsero a emigrare. Si possono ancora
vedere le loro dimore rupestri nel Mesa Verde National Park del Colorado
e i pueblos in adobe nel deserto al Chaco Culture National Historic Park
in New Mexico. Da queste genti discesero gli hopi, i cui pueblos in cima alle
mesas risalenti al XIII secolo sono considerati tra i più antichi insediamenti
ininterrottamente abitati del continente.
Nello stesso periodo, grosso modo tra il 500 e il 1000 d.C., le Hawaii
furono abitate da popolazioni provenienti dalla Polinesia. Nel Pacific North­
west e nell’Alaska, si svilupparono culture indigene di navigatori esperti
abili a costruire canoe adatte alla navigazione in mare e autori di totem
incisi nel legno, pervenuti fino a noi. Sulla Olympic Peninsula, nello stato di
Storia degli Stati Uniti
di Oliviero Bergamini
(Laterza, Bari 2009) è un
volume agile e sintetico
che ripercorre in modo
esauriente e rigoroso
la storia del paese dalle
origini ai giorni nostri, con
particolare attenzione agli
ultimi avvenimenti.
L’antropologo Wilcomb
Washburn nel suo lavoro
Gli indiani d’America
(Editori Riuniti, Roma
2006) traccia, in un’ampia
panoramica storica che va
dalla scoperta del nuovo
mondo all’epoca attuale,
le tappe fondamentali del
rapporto tra bianchi e nativi. Il lavoro è completato
da un saggio bibliografico
che tocca anche gli aspetti
letterari e antropologici
della questione indiana.
CRONOLOGIA
10.000-8000 a.C.
Si diffondono le culture di Clovis
e Folsom, i cui insediamenti
costituiscono la prima
testimonianza della presenza
umana sul suolo americano.
8000 a.C.
Estinzione dei mammiferi dell’era
glaciale, incluso il mammut,
dovuta in parte all’azione dei
primi cacciatori e in parte al
riscaldamento del clima.
7000 a.C.-100 d.C.
È il periodo arcaico caratterizzato
dalla presenza di tribù nomadi di
cacciatori-raccoglitori, al termine
del quale la società diventa
stanziale.
42 S T O R I A
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gli ultimi americani
Uno dei paradossi su cui poggia la democrazia americana è costituito dal fatto che i nativi, pur essendo
stati i ‘primi popoli’ ad abitare il continente, sono stati tra gli ultimi a ottenere la cittadinanza americana. Quando finalmente fu loro riconosciuta nel 1924 (in parte per rendere omaggio ai servizi resi dai
nativi americani durante la prima guerra mondiale), cristallizzò senza risolverla la situazione emersa
alla fine delle brutali guerre indiane combattute nel XIX secolo: le riserve indiane sarebbero rimaste
nazioni separate all’interno degli Stati Uniti, con proprie leggi e obblighi, talvolta però poco definiti
per entrambe le parti.
La legge sancì una soluzione che in realtà molti non volevano e le opinioni su ‘chi dovesse vivere
dove’ divergevano notevolmente. Per porre fine a questi conflitti, nel 1830, cioè quasi un secolo prima,
il presidente Andrew Jackson aveva varato l’Indian Removal Act, una legge che prevedeva lo spostamento forzato dei nativi. Secondo quel provvedimento, i territori a ovest del Mississippi diventavano
Indian Territory e i nativi avrebbero dovuto trasferirvisi, lasciando le fertili valli che si estendevano a
ovest delle Appalachian Mountains agli insediamenti dei coloni e allo sfruttamento capitalistico.
Molte tribù opposero una strenua resistenza, tra cui i seminole in Florida, ma gli americani non
esitarono a ricorrere ai raggiri, alle minacce e alla corruzione pur di spingerli a firmare trattati e a
cooperare; quando simili mezzi si dimostravano inutili, il governo faceva immediatamente ricorso
all’esercito. L’episodio più increscioso di questa fase dei rapporti tra coloni e nativi fu il cosiddetto Trail
of Tears (‘sentiero delle lacrime’), una marcia forzata che nel 1838 costò la vita a oltre 4000 cherokee.
Nel 1844 tre quarti degli oltre 120.000 nativi che vivevano a est del Mississippi erano stati ‘rimossi’
con successo.
Seppellite il mio cuore a
Wounded Knee di Dee
Brown (Mondadori,
Milano 1996) è un testo
autorevole e molto commovente, che racconta la
storia delle guerre indiane
combattute negli ultimi
decenni del XIX secolo
dalla prospettiva dei
nativi americani.
Washington, la Makah Nation comprende gli scavi di un villaggio di nativi
americani del XV secolo che, seppellito da una frana, ha potuto preservare
manufatti del periodo precolombiano, tra cui una longhouse comunitaria.
L’Alaska Native Heritage Center di Anchorage è senz’altro il posto migliore
per imparare qualcosa sulle popolazioni indigene dell’estremo Nord.
Furono le culture delle Great Plains a divenire sinonimo di ‘indiani’
nell’immaginario popolare americano, anche perché furono quelle che si
opposero con maggiore determinazione all’avanzata dei coloni verso ovest.
l’Oklahoma annovera diversi siti che aiutano a ricostruire la vita dei nativi
americani prima dell’arrivo degli europei, tra cui Anadarko e il percorso
del Trail of Tears.
Un nuovo mondo per gli Europei
Quando gli europei cominciarono a veleggiare nell’emisfero occidentale,
definirono i continenti in cui si imbatterono ‘Nuovo Mondo.’ La terra
inaspettata era certamente sorprendente, ma la vera novità era rappresentata dalla possibilità di attraversare in nave l’oceano: si scoprì infatti
che il mare non era un confine invalicabile, bensì una strada per raggiungere nuove terre. La scoperta cambiò radicalmente il panorama politico
dell’Europa e dell’Asia promuovendo il capitalismo di tipo moderno, con
1200-1300
1492
Nel Southwest i primi abitanti
dei pueblos abbandonano in
circostanze misteriose le loro
dimore rupestri.
Nel corso dei suoi tre viaggi
Colombo ‘scopre’ l’America ed
esplora i Caraibi. Il navigatore
genovese chiama gli abitanti
‘indiani’, pensando di essere
giunto nelle Indie orientali.
1607
Jamestown è sull’orlo dell’estin­
zione: nel primo anno muoiono
80 coloni su 108, l’anno seguente
(‘l’anno della fame’) 440 su 500.
Tra il 1619 e il 1622, muoiono 3000
dei 3600 coloni di Jamestown.
S T O R I A 43
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Nel 1853, dopo l’annessione del Texas e la vittoria nella guerra contro il Messico, gli Stati Uniti si
trovarono a essere praticamente gli unici padroni del continente, con il territorio dei nativi proprio
al centro. Soprattutto dopo la guerra di secessione i pionieri e i minatori si riversarono in massa nel
West, insediandosi dove capitava, senza rispettare i confini stabiliti dai trattati. Dal 1871 gli Stati Uniti
presero l’abitudine di stipulare e di violare i trattati con una tale velocità che non venivano neanche più
messi per iscritto; e spesso la loro durata era indicata genericamente: ‘…finché l’erba crescerà e l’acqua
scorrerà’. In tutto i trattati infranti furono ben 470.
La nazione appena nata aveva fame di oro e nuove terre e ben presto si stancò di chiedere il permesso ai nativi per impadronirsene, rinunciando a ogni prospettiva di convivenza pacifica. Negli ultimi
decenni dell’Ottocento si procedette allo sterminio dei bisonti come esplicita (e vincente) strategia militare per affamare le ‘selvagge’ tribù delle pianure che si opponevano allo spostamento forzato nelle
riserve. Quando nel 1876 i sioux sterminarono il Settimo Cavalleggeri di Custer nella battaglia del Little
Bighorn, le ultime remore svanirono. L’esercito braccò le tribù senza tregua finché, con la fine delle
guerre contro gli apache del 1886, la resistenza armata dei nativi venne definitivamente annientata.
Relegati in riserve desolate, i nativi iniziarono a dipendere dagli aiuti governativi per poter sopravvivere. Nel 1887 ottennero il Dawes Act, che intendeva ‘integrare’ i nativi nella società bianca, costringendoli così ad abbandonare la loro cultura e la loro lingua. Alla miseria si aggiunse l’oltraggio e molti
nativi si opposero strenuamente ai tentativi di assimilazione alla cultura dei bianchi. La stessa politica
è alla base dell’Indian Citizenship Act del 1924, che alcune tribù considerarono positivamente mentre
altre subirono come violazione della sovranità acquisita.
Per saperne di più sulla cultura dei nativi americani, v. lettura p66.
conseguenti ripercussioni sull’atteggiamento degli europei nei confronti
delle Americhe.
Finanziato dalla Spagna, nel 1492 Cristoforo Colombo fece vela verso
ovest in cerca delle Indie, trovando invece le Bahamas. La concreta prospettiva di impadronirsi di immense ricchezze indusse ben presto altri
esploratori e avventurieri – per lo più spagnoli – a inoltrarsi in queste
terre del tutto sconosciute. Tra di essi si ricordano Hernán Cortés, che
conquistò gran parte dell’attuale Messico, Francisco Pizarro, che sottomise la civiltà inca del Perú, e Juan Ponce de León, che esplorò la Florida
alla ricerca della fonte dell’eterna giovinezza. Dal canto loro i francesi
esplorarono il Canada e il Midwest, regioni ricche di pellicce, mentre gli
olandesi e gli inglesi perlustrarono la costa orientale del continente.
Purtroppo, gli esploratori europei portarono nel Nuovo Mondo malattie contro cui i nativi erano privi di difese immunitarie, scatenando
terribili epidemie che contribuirono, più di ogni altro fattore (guerre,
schiavitù e carestie), a decimare la popolazione autoctona, riducendola
della metà e in taluni casi addirittura del 90%. Nel XVII secolo i nativi
americani ammontavano a circa un milione di individui e molte società
del continente un tempo prospere attraversarono una fase di turbolenta
transizione.
1619
I coloni di Jamestown fondano
la House of Burgesses,
un’assemblea legislativa formata
dai cittadini, e ricevono il primo
‘carico’ di 20 schiavi africani.
1620
A Plymouth arrivano i primi 102
Padri Pellegrini, che saranno
salvati dalla fame e dagli stenti
dalla tribù dei wampanoag.
Nasce così la ricorrenza del
Giorno del Ringraziamento.
Nel 1502 Amerigo
Vespucci usò l’espressione
‘mundus novus’ per
descrivere le sue scoperte.
Nel 1507 le nuove cartine
chiamavano l’emisfero
occidentale ‘America’.
La casa editrice siciliana
Città Aperta propone una
moderna traduzione e una
inedita lettura di Mundus
novus (2007), a cura di
Cristiano Spila con testo
latino a fronte.
1675
Dopo diversi decenni trascorsi
in relativa armonia, tra i puritani
e le tribù locali scoppia una
cruenta guerra che nel giro di 14
mesi provoca ben 5000 vittime.
44 S T O R I A
The New World - Il nuovo
mondo (2005), diretto
da Terrence Malick, è un
film appassionante anche
se brutale che racconta
la tragica storia della
colonia di Jamestown e il
fondamentale ruolo svolto
da Pocahontas, figlia di
un capo powhatan, nel
riportare la pace tra nativi
e inglesi.
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Oltre che dalla brama di nuove ricchezze, alcuni coloni europei erano
spinti da sincero fervore religioso, nutrendo la convinzione che i nuovi
territori scarsamente popolati fossero dono della divina provvidenza e
qundi riservati ai cristiani. I missionari cattolici spagnoli furono i primi
a cercare di convertire le culture indigene del continente, fondando una
serie di missioni per tutto il Southwest, in Texas e in California.
Nel 1607 un gruppo di inglesi benestanti, per la maggior parte ricchi
proprietari terrieri e agiati mercanti, fondò la prima colonia permanente
europea a Jamestown. Precedenti tentativi analoghi erano tragicamente
falliti e anche Jamestown rischiò di andare incontro alla stessa fine: gli
inglesi si erano infatti stabiliti in una zona paludosa e avevano iniziato
a coltivare la terra troppo tardi per ottenere frutti a sufficienza e molti
morirono di fame e di malattie. Disperati, alcuni coloni scelsero di vivere
con le tribù locali, le quali rifornirono l’insediamento del necessario per
sopravvivere.
Per Jamestown e l’America il 1619 rappresentò l’anno della svolta: i
coloni di Jamestown fondarono infatti la House of Burgesses, un’assemblea legislativa formata dai cittadini, e ricevettero il primo ‘carico’ di 20
schiavi africani. La produzione di tabacco raggiunse finalmente livelli utili
per l’esportazione e gli inglesi scoprirono di aver bisogno di manodopera
adeguata: i coloni infatti non erano numericamente sufficienti (e comunque disdegnavano il duro lavoro nei campi), mentre i nativi erano difficili
da convincere e sottomettere. Gli schiavi africani – da tempo impiegati
nelle piantagioni caraibiche di canna da zucchero – si rivelarono invece
perfettamente adatti allo scopo.
L’anno seguente, il 1620, fu altrettanto decisivo. In Massachusetts, nella
futura città di Plymouth attraccò una nave carica di puritani. I Padri
Pellegrini in fuga dalle persecuzioni religiose perpetrate dalla ‘corrotta’
chiesa anglicana, intravidero nel Nuovo Mondo l’opportunità di creare
una nuova società che avrebbe dovuto diventare un punto di riferimento
morale e religioso per tutti. I Padri Pellegrini firmarono inoltre il ‘patto
del Mayflower’, uno dei testi su cui si fonda la democrazia americana,
giurando di restare uniti e di sottomettersi alle regole stabilite per il bene
comune.
Per decenni i puritani e le tribù native vissero in relativa armonia e cooperazione, ma nel 1675 i rapporti si guastarono a tal punto che il conflitto
divenne inevitabile. La cosiddetta ‘guerra di re Filippo’, ovvero gli scontri
che opposero agli inglesi le tribù sotto la guida di Metacom (chiamato
‘re Philip’ dagli inglesi), durarono 14 mesi e fecero 5000 vittime (per la
maggior parte nativi americani); coloro che sopravvissero furono caricati
sulle navi dei negrieri e trasportati nei Caraibi. Questo tragico episodio
segnò l’inizio del ‘paradosso americano’, in base al quale la libertà politica
e religiosa dei bianchi si sarebbe basata sulla schiavitù dei neri e sullo
sterminio dei nativi.
1756-63
A seguito della guerra dei sette
anni, la Francia viene sconfitta
dagli inglesi e cacciata dal
Canada. La Gran Bretagna
controlla così gran parte dei
territori a est del Mississippi.
1773
Per protestare contro la tassa sul
tè, gli abitanti di Boston travestiti
da indiani assaltano le navi della
Compagnia delle Indie Orientali
gettando a mare il carico. È il
Boston Tea Party.
1775
Il 18 aprile Paul Revere parte da
Boston a cavallo per avvertire
i ‘minutemen’ dell’arrivo degli
inglesi. Il giorno seguente a
Lexington ha inizio la guerra
d’indipendenza.
S T O R I A 45
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Capitalismo e Colonialismo
Nel corso dei due secoli successivi le potenze europee – in particolare
l’Inghilterra, la Francia, il Portogallo e la Spagna – si contesero i territori
del Nuovo Mondo, esportando nelle Americhe le logiche di potere che
imperavano in Europa. Quando la Royal Navy britannica stabilì la propria
supremazia nelle acque atlantiche, l’Inghilterra iniziò a sfruttare sempre più
le proprie colonie e a consumare avidamente i frutti delle loro terre, tra cui
il pregiato tabacco della Virginia, lo zucchero e il caffè dei Caraibi.
Molto prima dell’inizio della rivoluzione industriale, i capitalisti inglesi
erano arrivati alla conclusione che simili beni di lusso si sarebbero rivelati
vantaggiosi solo se prodotti su larga scala e destinati all’esportazione,
sfruttando la manodopera che lavorava a basso costo in piantagioni rigidamente organizzate e strutturate. Tra il XVII e il XVIII secolo la schiavitù
venne quindi gradualmente legalizzata in un’istituzione formale, a sostegno
dell’economia delle piantagioni. Sebbene solo il 5% del totale degli schiavi
deportati dall’Africa finì in Nord America, costoro andarono a costituire
una porzione consistente della popolazione delle colonie, al punto che nel
1800 una persona su cinque era uno schiavo.
Dal punto di vista politico, la Gran Bretagna concesse ai coloni una certa
autonomia di governo e sempre più cominciarono a diffondersi le assemblee
rappresentative, nel corso delle quali i cittadini (ossia i proprietari terrieri
bianchi) discutevano i problemi legati alla comunità e mettevano al voto
leggi e tasse.
Nel 1763, alla fine della guerra dei sette anni, la Gran Bretagna iniziò
a sentire il peso derivante dalla necessità di governare in modo efficiente
un impero che si estendeva in tutti i cinque continenti, creato nel corso
dell’ultimo secolo combattendo contro i francesi, i portoghesi e gli spagnoli.
Era dunque giunto il momento di fare chiarezza su diritti e doveri di tutti e
condividere gli oneri finanziari. La Gran Bretagna decise così di stanziare un
esercito permanente in America, fece entrare in vigore leggi che proibivano
l’espansione delle colonie a ovest delle Appalachian Mountains e a nord
dell’Ohio (misure prese allo scopo di evitare nuove guerre) e impose una
serie di tasse per raccogliere fondi per la Corona e la sua difesa.
A partire dal 1763, le colonie diedero il via a proteste e boicottaggi,
aprendo un dibattito pubblico di filosofia politica che sarebbe culminato
nel 1776 con la Dichiarazione di Indipendenza e i Federalist Papers, una
raccolta di brevi saggi in cui vengono delineate le basi del sistema federale.
In questi documenti i coloni americani adottarono molte idee illuministe
che in quegli anni permeavano i principali paesi europei – l’individualismo, l’uguaglianza e la libertà; il ‘diritto naturale’ alla vita, alla libertà e alla
proprietà teorizzato dal filosofo inglese John Locke – e idearono un nuovo
tipo di governo in grado di mettere in pratica tali principi.
Nel 1773 le tensioni culminarono nel Boston Tea Party, in seguito al
quale la Gran Bretagna decise di dare un severo giro di vite, chiudendo il
1776
Il 4 luglio le colonie firmano la
Dichiarazione di Indipendenza.
Alla stesura del documento
contribuiscono noti personaggi,
quali John Adams, Benjamin
Franklin e Thomas Jefferson.
1787
A Philadelphia viene firmata la
Costituzione degli Stati Uniti, in
base alla quale il potere federale
viene condiviso dal presidente,
dal Congresso e dalla Corte
Suprema.
Se la ricostruzione
storica è sempre
partigiana, Howard Zinn
rivela chiaramente le sue
simpatie nell’opera Storia
del popolo americano. Dal
1492 a oggi (Net, Milano
2007), in cui vengono
narrate le vicende spesso
ignorate della classe
operaia, delle minoranze,
degli immigrati, delle
donne e dei riformatori
che contribuirono a
formare l’America.
1791
Viene approvato il Bill of Rights
(Dichiarazione dei Diritti)
come emendamento alla
Costituzione per garantire i diritti
fondamentali dei cittadini.
46 S T O R I A
Se desiderate prendere
visione degli articoli della
Costituzione, della Dichiarazione di Indipendenza
e dei Federalist Papers,
visitate il sito degli archivi
nazionali (www.archives.
gov) e www.ourdocu
ments.gov.
L’Autobiografia di
Benjamin Franklin
(Garzanti Libri, Milano
1999), che il grande
inventore e uomo politico
iniziò a scrivere intorno
al 1771, è non solo un
documento indi­spensabile
per avvicinare una
delle personalità più
significative della storia
americana, ma anche una
miniera di informazioni
sul periodo e sulla
temperie sociale in cui
Franklin visse.
l o n el y p l an et . c o m
porto di Boston, rinforzando il contingente militare di stanza in America e
facendo valere l’autorità imperiale. Per tutta risposta, nel 1774 i rappresentanti di 12 colonie (a eccezione della Georgia) si riunirono nella Independence Hall di Philadelphia e formarono il First Continental Congress per
discutere sulle posizioni da assumere. I coloni, che fino a quel momento si
erano identificati con gli inglesi, si trasformarono in un gruppo compatto
e omogeneo ed entrambe le parti si prepararono al conflitto.
La Rivoluzione e la Repubblica
Nell’aprile del 1775, alcune scaramucce tra le truppe britanniche e gruppi
di coloni armati del Massachusetts segnarono l’inizio della rivoluzione
americana. Poco dopo l’avvio delle ostilità, nel maggio del 1775 fu convocato
a Philadelphia il Second Continental Congress, che nominò comandante
dell’esercito americano George Washington, un ricco proprietario terriero
della Virginia. Ai rivoluzionari mancavano però sia la polvere da sparo sia
adeguati finanziamenti (i coloni continuavano infatti a mostrarsi recalcitranti verso il pagamento delle tasse, anche quando servivano a finanziare la
lotta per la loro indipendenza) e l’esercito era formato da eterogenee truppe
di agricoltori, cacciatori e mercanti malamente armati, facili alla diserzione
e pronti a fare ritorno alle proprie fattorie ogni qual volta non ricevevano
la paga. Al contrario, le ‘giubbe rosse’ inglesi erano all’epoca l’esercito più
potente del mondo. Del tutto privo di esperienza militare, Washington fu
costretto a improvvisare, a volte optando per una prudente ritirata e a volte
lanciando attacchi di sorpresa ‘poco cavallereschi’. Nell’inverno tra il 1777
e il 1778 l’esercito americano fu sul punto di essere sterminato dalla fame a
Valley Forge, in Pennsylvania.
Nel frattempo il Second Continental Congress cercò di formulare i principi in nome dei quali si stava combattendo. Nel gennaio del 1776 Thomas
Paine pubblicò il celeberrimo Common Sense, un opuscolo che propugnava
con veemenza la separazione delle colonie dall’Inghilterra. Fu così che il
distacco dalla madrepatria divenne non solo un passo logico, ma addirittura
un fatto nobile e necessario, e il 4 luglio del 1776 un gruppo di intellettuali
firmò la Dichiarazione di Indipendenza. Scritto quasi esclusivamente da
Thomas Jefferson, questo memorabile documento elevava le accuse delle 13
colonie contro la monarchia a dichiarazione universale dei diritti individuali
e del governo repubblicano.
Ai suoi toni ispirati e commoventi si rifecero da allora le rivoluzioni di
tutto il mondo. La Dichiarazione di Indipendenza americana inizia con
queste celebri frasi:
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che
tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro
Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà
e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono
1803
L’acquisto della Louisiana dalla
Francia di Napoleone, per appena
15 milioni di dollari, raddoppia
la superficie degli Stati Uniti, che
ora si estendono dal Mississippi
alle Rocky Mountains.
1803-6
Incaricati dal presidente Thomas
Jefferson, Meriwether Lewis e
William Clark si spingono a ovest.
Partendo da St Louis raggiungono
il Missouri e il Pacifico, guidati
dalla nativa shoshone Sacajawea.
1812
Scontri armati nei Great Lakes
tra inglesi e nativi da una parte
e coloni dall’altra danno avvio a
una guerra che continua anche
dopo il Trattato di Ghent (1815),
soprattutto a New Orleans.
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l o nely p lanet ita l ia.it
creati fra gli uomini i governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal
consenso dei governati.
Tuttavia, per vincere sul campo di battaglia il generale Washington aveva
bisogno di aiuto e non solo di nobili sentimenti; per questo, nel 1778 Benjamin Franklin convinse la Francia (sempre pronta a opporsi all’Inghilterra)
ad appoggiare i rivoluzionari con truppe, approvvigionamenti e navi, che
contribuirono in maniera decisiva a determinare la vittoria degli americani.
Gli inglesi si arresero nel 1781 a Yorktown, in Virginia, e due anni più tardi
il Trattato di Parigi riconobbe formalmente gli Stati Uniti d’America.
Agli esordi, ben lungi dall’essere unita, la nazione sembrava in realtà una
confederazione piuttosto lasca di stati in continuo disaccordo e competizione. Per questo motivo i fondatori si riunirono nuovamente a Philadelphia e nel 1787 apportarono alcune modifiche alla Costituzione, in base
alle quali il governo diventava un centro della federazione con maggiori
poteri, con l’imposizione di controlli e di equilibri tra le sue tre componenti
(legislativa, giudiziaria ed esecutiva). E per prevenire gli abusi del potere
centrale nei confronti dei cittadini, nel 1791 fu approvato il Bill of Rights
(Dichiarazione dei Diritti).
La Costituzione ebbe il merito di consolidare i due cardini su cui si basava
la rivoluzione: un radicale cambio di governo e il mantenimento dello status
quo economico e sociale. I ricchi proprietari terrieri conservarono i possedimenti nei quali lavoravano innumerevoli schiavi, mentre i nativi americani
furono esclusi dalla nazione e le donne dalla politica. Aspramente criticate
a livello internazionale (soprattutto in Europa), simili diseguaglianze e
ingiustizie erano il risultato in parte di un compromesso pragmatico volto
a convincere gli stati schiavisti del Sud ad aderire alla Costituzione, in parte
della diffusa convinzione che le cose erano giuste così come stavano.
Da quel momento in poi la storia americana è stata caratterizzata da
un incessante dibattito sulla definizione da dare ai termini ‘tutti’, ‘uguali’
e ‘libertà’: prendere le mosse dal linguaggio universale della carta costituzionale fondativa degli Stati Uniti e poi o rettificarlo o giustificare le
inevitabili ingiustizie e disparità che assillano da oltre due secoli questa
società democratica.
verso ovest
La miniserie prodotta da
HBO John Adams (2008)
è una storia affascinante,
raccontata tenendo conto
di ognuna delle parti in
causa, degli anni in cui
la rivoluzione americana
rimase appesa a un filo e
la storia avrebbe potuto
prendere un corso diverso.
Secondo una leggenda
metropolitana, George
Washington era così onesto che ancora ragazzino,
dopo aver abbattuto il
ciliegio di suo padre,
ammise: ‘Non posso dire
una bugia. L’ho fatto con
la mia piccola ascia’.
All’alba del XIX secolo, l’esperimento americano parve dar prova del proprio
funzionamento e ovunque regnava un ottimistico autocompiacimento. Con
l’invenzione della sgranatrice (1793), cui seguirono altre macchine come la
trebbiatrice, la mietitrice, la falciatrice e, in seguito, la mietitrebbia, l’agricoltura si meccanizzò e il commercio americano ne ricevette un fortissimo
impulso. Nel 1803, grazie all’acquisto della Louisiana, il territorio americano
raddoppiò di dimensioni e nello stesso periodo ebbe inizio l’espansione a
ovest delle Appalachian Mountains.
1823
Monroe formula la sua dottrina
per porre fine agli interventi
militari europei nelle Americhe,
poi ripresa da Roosevelt per
giustificare gli interventi in
America Latina.
1830
Viene approvato l’Indian
Removal Act, un provvedimento
legislativo che mira a eliminare
l’ostacolo rappresentato dalle
popolazioni autoctone.
1836
Un gruppo di texani si ribella
al Messico. Il 6 marzo le truppe
guidate dal generale Santa
Anna conquistano la missione
di Alamo, da allora diventata
un’icona della storia americana.
48 S T O R I A
Potete seguire la straordinaria spedizione di Lewis
e Clark verso ovest fino al
Pacifico e il loro viaggio
di ritorno sul sito www.
pbs.org/lewisandclark,
che contiene cartine
storiche, una raccolta di
foto ed estratti da giornali
dell’epoca.
Allo stesso tempo
crudele ed eroica, la
serie televisiva western
Deadwood (2004-06),
trasmessa anche in Italia,
ben ricostruisce il caos
e i rovesci di fortuna di
una cittadina mineraria
dell’Ottocento, con
personaggi tragici come in
un’opera shakespeariana.
l o n el y p l an et . c o m
Nonostante i vivaci scambi commerciali, le relazioni tra gli Stati Uniti e
la Gran Bretagna restarono assai tese: gli inglesi possedevano ancora alcuni
forti nella Ohio Valley e continuavano ad aizzare i nativi contro i coloni,
mentre le navi inglesi ostacolavano sistematicamente quelle americane. Di
fronte a una situazione sempre più pesante, nel 1812 gli Stati Uniti dichiararono nuovamente guerra all’ex madrepatria. I due anni di conflitto armato
però si conclusero senza risultati apprezzabili da nessuna delle due parti: gli
inglesi abbandonarono i loro forti e gli Stati Uniti rinnovarono la propria
promessa di evitare ‘alleanze vincolanti’ con gli europei. Un atteggiamento
che trovò compiuta espressione nella dottrina di Monroe, formulata nel
1823, secondo la quale da quel momento in poi l’intero continente americano non avrebbe più dovuto essere considerato oggetto di colonizzazione
da parte delle potenze europee.
Tra il 1830 e il 1850, mentre il fervore nazionalista e i sogni di espansione continentale crescevano a vista d’occhio, in molti americani andò
consolidandosi l’idea del ‘Manifest Destiny’ (destino manifesto): tutta
l’America settentrionale era destinata a essere annessa agli Stati Uniti.
L’Indian Removal Act del 1830 (v. lettura p42) mirava a eliminare l’ostacolo
rappresentato dalle popolazioni autoctone, mentre la realizzazione della
ferrovia ne superava un altro, collegando i contadini del Midwest con i
mercati della East Coast.
Nel 1836 un gruppo di texani fomentò la rivoluzione contro il Messico
(ricordate il mito della battaglia di Alamo e di Davy Crockett, oggetto di
tanti film?). Dieci anni più tardi gli Stati Uniti proclamarono l’annessione
della Repubblica del Texas e, di fronte alle rimostranze dei messicani, non
esitarono a dichiarare guerra, finendo per reclamare anche la California.
Nel 1848 il Messico fu sconfitto e il successivo trattato di pace lo costrinse
a cedere definitivamente la Repubblica del Texas agli Stati Uniti, cui si
aggiunsero i territori messicani (che corrispondono oggi all’Arizona meridionale e al New Mexico) acquisiti nel 1853 con l’accordo definito Gadsden
Purchase (noto in Messico come Venta de la Mesilla). Fu l’ultimo atto
dell’espansione continentale statunitense. A eccezione delle terre tribali dei
nativi, gli americani erano ora padroni di tutto il territorio che si estendeva
dall’Atlantico al Pacifico.
Per una singolare coincidenza, pochi giorni dopo la sigla del trattato
con il Messico del 1848, in California furono scoperti ricchi filoni auriferi.
Nel 1849, fiumi di vagoni sferragliavano verso ovest carichi di minatori,
pionieri, imprenditori, immigrati, fuorilegge e prostitute, tutti in cerca
di fortuna.
Cominciava così un’epoca esaltante destinata a diventare leggenda, ma
all’orizzonte si profilava una questione che avrebbe turbato profondamente
la giovane nazione: i nuovi stati entrati a far parte degli USA sarebbero stati
favorevoli o contrari alla schiavitù? Il futuro dell’intera nazione dipendeva
dalla risposta.
1841
I primi treni percorrono l’Oregon
Trail, che prolunga la rotta
seguita dalla spedizione di
Lewis e Clark. A partire dal 1845,
oltre 6500 emigranti all’anno si
dirigono a ovest.
1844
Nel 1844 viene inaugurata la
prima linea telegrafica. Nel 1845 il
Congresso approva la costruzione
della ferrovia transcontinentale,
completata nel 1869.
1848
Dopo una guerra sanguinosa,
il Messico è costretto a cedere
definitivamente la Repubblica
del Texas agli Stati Uniti; ulteriori
territori saranno ceduti con il
Gadsden Purchase del 1853.
S T O R I A 49
l o nely p lanet ita l ia.it
lotta fratricida
La Costituzione non aveva posto fine allo schiavismo, ma aveva conferito al
Congresso il potere di approvare o di abolire questa pratica nei nuovi stati.
Questa posizione scatenò accesi dibattiti sull’espansione dello schiavismo,
motivati soprattutto dal fatto che questa pratica favoriva l’equilibrio del
potere politico tra il Nord industriale e il Sud agricolo.
Sin dalla fondazione, i politici degli stati sudisti avevano controllato il
governo e difeso con estrema determinazione lo schiavismo come una realtà
‘naturale e normale’, affermazione che un editoriale del 1856 del New York
Times bollava come ‘pazzesca’. Le lobby del Sud in favore della schiavitù
in seno al governo suscitarono l’indignazione degli abolizionisti del Nord
(che favorivano la ‘Underground Railroad’, una serie di percorsi segreti e
case sicure per gli schiavi in fuga dalle piantagioni del Sud che cercavano
rifugio negli stati del Nord). Ma anche molti politici del Nord temevano
che mettere fine alla schiavitù con un colpo di spugna avrebbe implicato
la rovina economica. Costoro reputavano sufficiente limitarne la pratica,
convinti che la schiavitù sarebbe spontaneamente sparita con il tempo,
nella competizione con l’industria e il lavoro libero, senza rischiare così
di provocare violente rivolte tra gli schiavi (un’eventualità vista come un
pericolo da evitare a tutti i costi). È del 1859 il tentativo di rivolta guidato
dall’abolizionista radicale John Brown, il quale organizzò un attacco all’arsenale federale di Harpers Ferry, nel West Virginia.
D’altro canto i vantaggi economici garantiti dallo schiavismo erano innegabili. Nel 1860, si contavano oltre quattro milioni di schiavi negli Stati
Uniti, per la maggior parte nella piantagioni del Sud. Cosa avrebbero dovuto
fare i proprietari delle piantagioni, semplicemente lasciarli andare via? Il
Sud, inoltre, produceva il 75% del cotone del mondo, pari alla metà delle
esportazioni americane. Il che equivale a dire che l’economia degli stati del
Sud sosteneva quella della nazione intera, e dunque conservare la schiavitù
sembrava l’unica strada per mantenere lo status quo. Il dibattito si fece sempre
più acceso, giungendo a trasformare le elezioni presidenziali del 1860 in una
sorta di referendum sulla schiavitù. Alla fine la vittoria arrise a un giovane
politico favorevole alla progressiva abolizione: Abraham Lincoln.
Per gli stati del Sud la semplice minaccia di una limitazione della
schiavitù da parte del governo federale era troppo onerosa da accettare, per cui quando Lincoln assunse la carica di presidente, 11 stati si
separarono dall’Unione dando vita agli Stati Confederati d’America, la
cosiddetta Confederazione. Lincoln non poteva accettare la secessione:
acconsentire alla defezione degli stati in disaccordo con le decisioni del
governo federale avrebbe infatti minato le basi stesse della repubblica
americana. Nel 1865, in occasione del discorso con cui inaugurò il suo
secondo mandato presidenziale, Lincoln espresse il dilemma in maniera
estremamente chiara: ‘Entrambe le parti deploravano la guerra; ma una
di esse era pronta a fare la guerra piuttosto che consentire alla nazione
1849
Dopo la scoperta di giacimenti
auriferi nei pressi di Sacramento,
ha inizio una corsa all’oro che vede
protagonisti 60.000 cercatori. San
Francisco passa in breve tempo da
850 abitanti a ben 25.000.
1861-65
Infuria la guerra di secessione
tra il Nord e il Sud. La fine
della guerra, firmata il 9 aprile
del 1865, è turbata cinque
giorni dopo dall’assassinio del
presidente Lincoln.
Secondo le stime
dell’ONU, oggi al mondo
ci sono 12 milioni di esseri
umani in schiavitù, per
lo più donne e bambini.
Secondo la CIA, circa
14.500 persone all’anno
vittime del traffico di
uomini transitano per gli
Stati Uniti.
In Storia della guerra civile
americana (BUR Rizzoli,
Milano 2009) Raimondo
Luraghi, uno dei maggiori
esperti della guerra civile
americana, ricostruisce in
modo esaustivo la genesi,
l’evoluzione e la conclusione del conflitto in
tutti i suoi risvolti politici,
militari, sociali, culturali,
attraverso una narrazione
altamente drammatica
se pur rigorosamente
scientifica e fondata su
una vastissima documentazione.
1869
Viene portata a termine la
ferrovia transcontinentale
che, insieme all’invenzione del
telegrafo, contribuisce a unire gli
Stati Uniti da oceano a oceano.
50 S T O R I A
This Republic of Suffering
(2008), scritto da Drew
Gilpin Faust, è uno
sguardo toccante sulla
guerra civile attraverso
gli occhi dei parenti dei
soldati di entrambe le
fazioni morti negli scontri
sulla linea Mason-Dixon.
La più grande impresa
del mondo. La storia degli
uomini che costruirono la
ferrovia transcontinentale
di Stephen Ambrose
(Longanesi, Milano 2004)
ricostruisce l’epopea
delle migliaia di uomini
che, partendo rispettivamente da Sacramento
in California e da Omaha
in Nebraska, riuscirono a
unificare con più di 3000
chilometri di ferrovia il
territorio degli Stati Uniti.
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di sopravvivere, e l’altra era pronta ad accettare la guerra piuttosto che
lasciarla perire; e la guerra venne’.
Nell’aprile del 1861 l’esercito confederato attaccò Fort Sumter a Charleston, nel South Carolina, dando inizio alla guerra di secessione. Nel corso
dei successivi quattro anni gli Stati Uniti furono coinvolti in una vera e
propria carneficina senza precedenti. Al termine della guerra erano morti
più di 600.000 soldati, quasi un’intera generazione di giovani, e numerose
piantagioni e città del Sud (come Atlanta) erano state saccheggiate e date
alle fiamme. Ancora oggi il decorso della guerra e i suoi possibili sviluppi
sono materia di accesi dibattiti. Entrambe le parti ebbero la loro quota di
comandanti inetti e di scaltri leader che sfruttavano senza requie le truppe
esauste; entrambe attraversarono momenti di sconforto e fasi di grande
determinazione. La potenza industriale degli stati del Nord rappresentava
un innegabile vantaggio, tuttavia la vittoria dell’Unione si rivelò tutt’altro
che scontata e fu conquistata col sangue, battaglia dopo battaglia.
Con il procedere del conflitto, in Lincoln maturò sempre più la convinzione che la sola vittoria della guerra, senza l’abolizione della schiavitù,
sarebbe stata priva di significato. Nel 1863 emanò quindi l’Emancipation
Proclamation, che estendeva gli obiettivi della guerra e garantiva formalmente la libertà a tutti gli schiavi (un atto sancito ufficialmente dal 13°
emendamento della Costituzione, due anni dopo). Nell’aprile del 1865
il comandante in capo delle forze sudiste Robert E. Lee si arrese al generale dell’esercito nordista, Ulysses S. Grant, ad Appomattox, in Virginia.
L’Unione era salva.
Un Melting Pot in ebollizione:
Segregazione e immigrazione
La guerra di secessione aveva posto fine a un sistema economico basato sul
lavoro coatto, ma la società in cui entravano a far parte gli afroamericani
liberati dal giogo della schiavitù rimaneva in gran parte (e a volte anche
profondamente) razzista. Nel successivo periodo detto della Reconstruction
(1865-77), i diritti civili degli ex schiavi vennero tutelati dal governo federale, che pretendeva anche pesanti riparazioni in denaro dagli stati sudisti.
Risentimenti e recriminazioni si radicarono a tal punto che i rancori generati
dalla guerra di secessione durarono per molti decenni ancora.
Dopo la ricostruzione, gli stati del Sud adottarono un sistema di ‘divisione
del raccolto’ che vincolò i neri alla terra, obbligandoli a coltivarla in cambio
di una magra percentuale del raccolto, e fecero approvare innumerevoli
leggi miranti a garantire la segregazione razziale tra bianchi e neri, secondo
il motto ‘separati ma uguali’. Agli afroamericani il diritto di voto venne
concesso nel 1870 , ma le leggi segregazioniste del Sud (le cosiddette ‘Jim
Crow Laws’ che rimasero in vigore fino alle battaglie civili promosse dal
movimento per il riconoscimento dei diritti civili negli anni ’60) di fatto li
escludevano dai più importanti settori della vita pubblica.
1870
Agli afroamericani viene
riconosciuto il diritto di voto, ma
le Jim Crow Laws li escludono dai
più importanti settori della vita
pubblica.
1876
Una grande coalizione di tribù
guidata da Toro Seduto stermina
il Settimo Cavalleggeri del
generale George Armstrong
Custer nella battaglia del Little
Bighorn.
1882
L’ondata xenofoba nei confronti
dei cinesi (soprattutto in
California) porta all’approvazione
del Chinese Exclusion Act, l’unica
legge sull’immigrazione che
escluda una razza specifica.
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