TUTTA L’AUTONOMIA POSSIBILE:
L’ESPERIENZA DI DUE COOPERATIVE
DEL TERRITORIO BERGAMASCO
Giancarla Panizza
Assistente Sociale Progettazione
Cooperativa Sociale
Viviana Vertua
Psicologa – Cooperativa
Paul Wittgenstein
GIANCARLA PANIZZA:
Buongiorno a tutti.
Dopo un intervento così carico emotivamente e tutti i contenuti di questa
mattina è oggettivamente difficile dire qualche cosa di nuovo e altrettanto in
grado di colpire la vostra attenzione.
Io provo a parlarvi della nostra esperienza con i suoi limiti e con le sue fatiche, ma anche con la grande soddisfazione di aver raggiunto alcuni risultati positivi in questi anni.
L’intervento della cooperativa “Progettazione” è iniziato nel 1999 ed è diventato operativo nel 2000 grazie alla collaborazione con gli Ospedali Riuniti di Bergamo che per primi ci hanno segnalato alcune situazioni che
necessitavano di inserimento lavorativo. Siamo partiti dal 2000 e ad oggi abbiamo seguito, considerando gli ultimi casi delle ultime persone prese in carico dopo l'estate, abbiamo superato le 100 persone seguite.
Il nostro lavoro viene attuato soprattutto in partnership, quindi con la famiglia, con la persona con grave cerebrolesione acquisita.
Nella fase post acuta, come diceva prima il dottor Melizza, siamo presenti
già all'interno dell'ospedale con un punto di informazione per le famiglie.
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Negli Ospedali Riuniti a breve attiveremo l’Infopoint, e dal 12 di novembre
siamo presenti a San Pellegrino all'interno della clinica Quarenghi con uno
spazio di ascolto / informazione per le famiglie proprio per creare quei ponti
tra strutture sanitarie e territorio che sono necessari alla famiglia per vivere
con maggiore serenità questo evento così difficile da affrontare.
Da 7 anni gestiamo un gruppo di mutuo aiuto con i familiari che ad oggi ha
compreso circa 25 famiglie e c’è la nostra disponibilità ad avviare questa
esperienza anche all’interno delle strutture ospedaliere perché possa essere
quanto più precoce possibile e quanto più vicino all'evento proprio un punto
in cui i genitori possano scambiarsi le loro esperienze, ascoltarsi ed essere
ascoltati ed aiutati a proseguire per questa strada.
Quindi fase post acuta e fase degli esiti.
Le persone che vengono seguite all’interno, adesso abbiamo un centro
diurno finalmente accreditato con la Asl che ha dei posti come centro socio
educativo, quindi per persone che non sono in situazione di gravità ma
stanno per essere avviate al reinserimento sociale, con anche 5 posti per situazioni ancora gravi e complesse. Quindi la nostra struttura in questo momento si rivolge sia a persone prossime al reinserimento sociale sia a persone
che hanno bisogno di un cammino più lungo e complesso.
Il lavoro si realizza tramite progetti personalizzati. Viene fatto all’inizio nella
fase di conoscenza un piano dinamico funzionale che definisce quali sono
gli obiettivi e i tempi di lavoro con la persona e incomincia a proporre delle
attività che vengono concordate con la persona e con la famiglia. Vengono
realizzate alcune attività di tipo laboratoriale, quindi attività operative che si
affiancano ad altre attività volte più al lavoro sulla relazione, sulle emozioni,
sulla propria ricostruzione autobiografica.
La prospettiva è quella del lavoro di riabilitazione ecologica, quindi di lavoro
con il contesto di vita della persona finché la persona gradualmente possa al
meglio riprendere a interfacciarsi con essa e diventarne di nuovo parte attiva.
Il lavoro con la persona con un grave cerebrolesione acquisita è diretto a sostenerla a realizzare il proprio diritto all’inserimento nella società (quello
che diceva già questa mattina molto meglio di me il dottor De Tanti), a conseguire il diritto al lavoro ove compatibile con gli esiti, il diritto insomma ad
una vita adulta in cui venga attivata tutta l'autonomia possibile.
L'intervento di riabilitazione sociale garantisce continuità e collegamento
quindi tra le fasi di riabilitazione ospedaliera e reinserimento nell'ambiente
di vita e vede l'attivazione di un complesso lavoro di rete e in rete.
Quello che vi presento sembra un diamante, in realtà è un lavoro fatto dallo
schema di Todd (figura 1) che cerca di individuare quali sono tutti i soggetti che intervengono intorno e a favore della ripresa dell'autonomia della
persona con una grave cerebrolesione.
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Figura 1
Si tratta quindi di connessioni e della necessità di una funzione guida, quel
famoso case manager di cui tanto si è parlato sia all'interno della Conferenza di Consenso di Verona sia questa mattina in questa sede, Case manager che nel nostro ideale andrebbe individuato in una figura pubblica perché
nonostante io rappresenti il terzo settore riconosco che le garanzie ai cittadini vanno date dal pubblico e quindi stimoliamo la Asl, i Comuni, gli Uffici di Piano, a pensare che forse questo tipo di figura vada sperimentata. In
una realtà come la bergamasca dove la paura a sperimentare su questo campo
non c’è stata, insomma c’è stato un certo coraggio e una certa imprenditività,
credo che anche l’ente pubblico possa fare la propria parte e l’ha già fatto
per molti aspetti peraltro.
In questo momento vorrei anch’io ringraziare Simona Colpani e l'Assessore
che sono sempre molto precisi e puntuali a creare relazioni e a creare una
macro rete. Noi ci occupiamo delle micro reti ma loro hanno creato una
buona macro rete su questo territorio.
Quindi i primi due soggetti della rete sono sicuramente la famiglia, e l'ospedale che è quello che indirizza poi al territorio la persona perché venga presa
in carico.
Nel nostro caso siamo una cooperativa e quindi diventiamo uno dei punti di
snodo di questa rete. Il nostro compito è insieme alla famiglia e all’ospedale quello di attivare i servizi sociali per tutto quello che serve per poter rea81
lizzare anche il nostro intervento, quindi dal trasporto all'attivazione di spazi
per dei tirocini socializzanti. Per esempio al nostro centro arrivano da tutta
la provincia di Bergamo, ovviamente perché è l'unica realtà presente in questo momento quindi a volte le persone arrivano da paesini di montagne molto
distanti e diventa critico il poter prevedere anche questo tipo di viaggio e di
permanenza. L’obiettivo è comunque sempre quello di reinserire la persona
nel proprio territorio, quindi tra le tante cose che abbiamo pensato in questi
anni c'è stata la formazione dei bibliotecari: le biblioteche che in alcuni piccoli paesi della provincia sono l'unico luogo sociale in cui le persone hanno
possibilità e opportunità di incontrare altre persone, per cui il riprendere
delle relazioni. Il lavoro della biblioteca è tutelato in quanto parte di un ente
pubblico, e per di più ben si offre ad una serie di operazioni che le persone
possono essere in grado di fare. Per cui creano contatto con il pubblico, ci
sono operazioni di riordino,… e i bibliotecari si sono mostrati molto favorevoli a questo tipo di collaborazione al punto che due persone sono rimaste poi a lavorare all'interno delle biblioteche comunali.
Il volontariato è importante. Noi abbiamo una collaborazione storica con il
CAI di Bergamo per esempio perché ha sedi dislocate un po’ in tutto il territorio per cui il CAI diventa un'occasione per stare insieme agli altri per
poter svolgere delle attività del tempo libero in autonomia, quindi delle attività che di fatto sono di promozione dell'integrazione, ma anche di sollievo
alla famiglia. Quindi un ringraziamento anche a loro e agli altri volontari
che collaborano.
Altre risorse territoriali. Collaboriamo con il Centro per l'Impiego per esempio, con altre strutture di tipo sportivo per il tempo libero, con strutture istituzionali, con la Asl, con le commissioni di invalidità. Insomma la rete è
veramente una rete complessa. Ci sono le relazioni amicali e ci sono le relazioni con i colleghi di lavoro. In alcune situazioni è capitato anche di effettuare un lavoro su questo fronte per favorire il mantenimento di relazioni
positive o per favorire l'inserimento di nuovi contesti, per esempio nel contesto lavorativo di cui parlerà poi la mia collega che è uno dei contesti critici ma che sicuramente è quello che suggella il fatto del vero ritorno
all'autonomia e che tutte quante le persone con cui lavoriamo hanno molto
ben presente come proprio obiettivo finale.
I servizi offerti dalla cooperativa quindi tendono a creare un ponte tra la degenza e l'autonomia possibile (figura 2).
Ho già detto del centro diurno, dei gruppi di mutuo aiuto.
L’informazione è sicuramente uno degli snodi fondamentali per le famiglie
perché soltanto se c’è conoscenza si può ovviamente poi usufruire delle risorse che il territorio mette a disposizione.
Quelle che vedete sulla sinistra sono le risorse attivate all’interno del cen82
Figura 2
tro, quelle che appariranno sulla destra sono più attività svolte all’esterno e
sul territorio (figura 3).
La cooperativa opera per soli soggetti con disabilità acquisita, quindi traumi
cranici e cerebrolesioni. Questa è una specificità dalla sua nascita.
C’è un intervento di sviluppo dell’autonomia, dall'uso dei trasporti, al potenziamento delle attività sociali, che viene svolto sul territorio.
C’è una collaborazione con la formazione professionale finalizzata all’inserimento lavorativo.
È nata, dall’esperienza di “Progettazione”, la cooperativa “Paul Wittgenstein” che si occupa unicamente di integrazione lavorativa di soggetti con disabilità acquisita proprio perché, come sottolineavano le raccomandazioni di
genitori di gruppi di cui questa mattina si parlava, siamo totalmente d'accordo sul fatto che è una tipologia di disabilità che non può essere associata
alla disabilità neonatale. I soggetti che sono portatori di questo problema
difficilmente accetteranno questo tipo di confronto.
L’inserimento lavorativo avviene presso aziende o enti del territorio.
L’ultimo nostro step, che stiamo ancora costruendo, ovvero che è costruito
fisicamente ed ora stiamo lavorando per l’attivazione, è quello dell’autonomia abitativa. Si tratta di appartamenti protetti che potranno diventare utili
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Figura 3
per il dopo di noi ma che noi speriamo che diventino utili per il durante noi,
cioè proprio come spazio di riconoscimento del diritto alla vita adulta autonoma delle persone anche portatrici di una disabilità.
Abbiamo bisogno della collaborazione delle famiglie. Una persona con disabilità ha già sperimentato questa realtà. Gli appartamenti sono 5 e stiamo
lavorando per farli diventare una realtà attiva e concreta.
Alcuni dati. Dicevo oltre 100 persone seguite dal 2000 al 2007. Gli interventi
sono ovviamente di varia natura. Trattandosi di progetti individualizzati ogni
persona ha un proprio percorso e una propria offerta. Elencandoveli in ordine
(figura 3) si tratta di 44 persone seguite all'interno dello spazio training attivato agli Ospedali Riuniti quando ancora la sede era al Matteo Rota: da lì
è partita la nostra esperienza. 64 persone hanno frequentato fino ad oggi il
centro diurno; 52 persone con disabilità acquisita hanno usufruito di colloqui di sostegno psicologico; 77 familiari hanno avuto incontri di sostegno;
70 persone hanno partecipato invece ad attività di gruppo e sono quelle di
cui vi dicevo prima, gruppi di orientamento sociale, gruppo sulle emozioni
e così via; 45 persone sono state seguite in percorsi sul territorio per l'inserimento territoriale e sociale; 61 persone hanno avuto una consulenza orientativa; 49 hanno avuto attività di accompagnamento e sostegno educativo;
per 42 è stata disposta una rete di territorio in collaborazione con i servizi
sociali, questa attività sta ormai prendendo molto spazio e i servizi del ter84
ritorio si stanno specializzando in questa tipologia di lavoro, stiamo molto
collaborando ma su questo piano davvero ci sarà da fare ancora e credo che
la Provincia ci darà occasione per continuare a lavorare su questo fronte; per
30 persone sono state attivate attività di vacanza e di tempo libero.
Perché dietro a tutto questo ci sta il fatto che la nostra concezione va con Igor
Salomone nel dire che il grado di autonomia raggiunto ogni momento della
vita può essere descritto a partire dal grado di complessità che riusciamo ad
assegnare al nostro sistema di dipendenze. Quindi il lavoro di creazione di
rete è un lavoro che crea una serie di dipendenze, intese ovviamente in senso
positivo. Chi ha una monodipendenza se viene meno questa risorsa è perso.
Se uno dipendesse solo dalla famiglia, o solo da un’istituzione, se venisse
meno questa offerta si creerebbe un grave problema. Il problema è appunto
quello di creare una competenza sociale allargata e far sì che la comunità si
faccia carico e diventi risorsa, e avere quindi queste occasioni di solidarietà
e di dipendenza.
La persona con una grave cerebrolesione acquisita pertanto può raggiungere
la sua meta se partecipiamo in molti e con un buon coach, che sarebbe il
case manager, alla sua gara per l’autonomia.
E io passo il testimone a Viviana.
VIVIANA VERTUA:
Buongiorno a tutti.
Vi parlerò di una ricerca realizzata in collaborazione dalle cooperative “Progettazione” e “Paul Wittgenstein” grazie ad un finanziamento ottenuto dal
piano provinciale per il biennio 2005-2006 che abbiamo utilizzato per conoscere le buone prassi per l'inserimento lavorativo.
Vi parlerò di questo perché ci siamo accorti di quanto sia importante raccogliere strumenti, teorie, per un’azione coordinata per l'inserimento lavorativo e specifica delle persone con una grave cerebrolesione acquisita.
Parto mostrandovi brevemente, anche perché siamo un po’ in corsa, una revisione critica della letteratura che ci dice quante sono le variabili che hanno
una influenza sull’inserimento lavorativo. Qui vi ho riportato per brevità, le
scorro velocemente, quali sono quelle che hanno ricevuto supporto empirico
dagli studi condotti (figura 1, 2, 3).
Vi è una condizione lavorativa precedente al trauma: questi ragazzi hanno
sperimentato una vita con un determinato lavoro e quindi arrivano al momento invalidante portandosi dietro tutta un'esperienza precedente. Sembra
che persone che hanno svolto lavori più qualificati abbiano più facilità a rientrare al lavoro.
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L’aspetto della valutazione funzionale al termine della riabilitazione che faccia riferimento quindi al funzionamento globale della persona è determinante,
più che l'indice di gravità in senso stretto.
Variabili di natura neuropsicologica, come si diceva estremamente importanti, che riguardano il funzionamento cognitivo in generale ma anche le capacità di attenzione, le funzioni esecutive.
Il coinvolgimento in programmi di riabilitazione occupazionale sembra possa
garantire una migliore produttività di questi ragazzi anche se è da verificare
se si tratta di programmi efficaci di per sé stessi o se già la selezione dei ragazzi che vengono fatti partecipare a questo tipo di programmi li rende in
qualche modo più pronti a un beneficio maggiore da parte di questi interventi.
E poi le componenti emotive che non vanno per nulla sottovalutate perché
possono limitare grandemente la capacità dell'individuo di cercare di mantenere un lavoro.
Figura 1
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Figura 2
Figura 3
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Queste che sono invece le variabili che richiedono ulteriori ricerche ma che
emergono sempre più con forza a sottolineare l'impatto che tutto il contesto
sociale e lavorativo ha per facilitare l'inserimento al lavoro dei ragazzi. Oltre
che, non da meno, l'importanza dell'aspetto relazionale e meta cognitivo cioè
la capacità da parte del soggetto di essere consapevole delle difficoltà ma
anche delle risorse e di utilizzare strategie adeguate per sopperire ai deficit.
(figura 4).
Da non sottovalutare anche l'importanza che il lavoro ha per questi ragazzi.
Dalle ricerche condotte si sottolinea che non è solo e necessariamente il guadagno e il monte ore lavorative che determina il successo nel luogo di lavoro,
ma anche sensazioni più legate ad un valore personale e cioè la sensazione
di essere produttivi quindi poter tornare a partecipare alla comunità, la capacità di sostenere a lungo termine un lavoro. Tutto va a rafforzare un senso
d’identità personale che, come si diceva ampiamente, va ricostruito, va ridefinito, e che permette di accrescere il senso di valere.
Quindi diventa d’obbligo utilizzare un accoppiamento il più adeguato possibile tra la persona e il lavoro perché un livello di supporto e un lavoro sbagliati possono andare a detrimento di un'immagine di sé che è ancora fragile
Figura 4
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e ancora in definizione e che quindi ci chiede molta prudenza e molta cautela da questo punto di vista.
Così pure l'importanza non tanto del raggiungimento di un obiettivo specifico
momentaneo, ma piuttosto l'idea che ci sia un processo nella riabilitazione occupazionale e cioè la possibilità di mettere in grado la persona di tenere sul
lavoro.
Una teoria che diventa essenziale nell’inserimento lavorativo per questa patologia specifica non può quindi più fondarsi su un approccio legato al deficit, ma decisamente spostarsi su un modello basato sulle risorse che possa
favorire la percezione delle proprie capacità oltre che dei propri limiti e
quindi incrementare il senso di autoefficacia, la possibilità di credere che c'è
spazio per modificare con le proprie azioni l'esito di una determinata situazione, quindi la possibilità di poter lavorare anche sulla situazione e di gestirla.
E non dimentichiamo l'importanza assoluta di accrescere la motivazione che
spesso è più importante per sostenere la tenuta nel lavoro del livello di funzionamento della persona.
Ecco perché diventa importante seguire dei percorsi di riabilitazione occupazionale, e cioè il fatto che la persona venga coinvolta nelle attività produttive attraverso i tirocini e le borse lavoro: è assolutamente importante per
questi fattori che sono qui elencati, estrinseci ed intrinseci, che vanno a lavorare sull'accrescersi di una consapevolezza nuova di sé, perché le persone
sperimentano la possibilità di rimettersi in gioco, quindi di avere fiducia, di
poter partecipare nuovamente alla vita lavorativa, di usufruire del supporto
degli altri ma anche del loro feedback. Sappiamo che spesso questi ragazzi
hanno difficoltà ad essere consapevoli delle proprie capacità ma anche dei
propri limiti, per cui avere un feedback da parte di chi sta accanto e accompagna nell’inserimento lavorativo di mettere in grado di integrare abilità e
disabilità recuperando quindi una identità più completa. E quindi permettendo di sperimentarsi.
Ciò permette un apprendimento riguardo alle proprie capacità che integri le
vulnerabilità ma anche le competenze esistenti o comunque raggiungibili.
Tutto questo accresce la consapevolezza di sé che va a vantaggio poi del ciclo
produttivo.
Vi espongo brevemente un follow-up che abbiamo realizzato sugli utenti transitati dalla cooperativa, fatto attraverso un questionario che ha valutato la
condizione lavorativa attuale degli ex utenti (figura 5).
Vi dico già che non faremo nessuna inferenza di nessi causali sia per l’esiguità del nostro campione sia per il fatto che ci sono tante variabili che non
riusciamo a controllare e purtroppo tante lacune del materiale da cui siamo
partiti. Per cui semplicemente vi illustro cosa abbiamo raccolto.
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Figura 5
Degli utenti che abbiamo avuto in carico abbiamo scelto 44 persone ed
escluso le altre, alcune perché già in carico, altre perché hanno avuto con noi
soltanto dei contatti molto brevi, altri ancora per delle lacune nel materiale a
nostra disposizione per ricostruire un po' la loro storia.
Realizzando 36 questionari, il campione che abbiamo raccolto che si costituisce per l'81% da maschi e il 19% da femmine con una scolarità per la maggior parte di scuola media inferiore e qui distribuito su medie superiori e
scuole professionali, che ha una fascia di età per la maggior parte compresa
fra i 21 e i 30 anni, che per la maggior parte, l’89%, ha subito trauma cranico.
Va detto che gli ultimi anni vedono un incremento delle lesioni cerebrovascolari che in questo campione non compaiono perché i soggetti spesso sono
ancora in carico alla nostra struttura.
Questa è brevemente la divisione delle percentuali di invalidità dei ragazzi
contattati e questi i percorsi che hanno svolto nella nostra cooperativa. Chi
solo percorsi di riqualificazione professionale, chi percorsi di inserimento
lavorativo, chi l’esperienza del centro diurno, chi entrambe (figura 6).
Le difficoltà che questi ragazzi e le loro famiglie riferiscono, come vedete,
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Figura 6
raccontano molto di quanto già si è detto in mattinata, in particolare le difficoltà cognitive e comportamentali che sono tipiche di questa patologia.
Vi invito ad osservare la differenza fra utenti e familiari (figura 7) in particolare che il familiare tende a sottolineare l'impatto che le difficoltà relazionali e sociali hanno nella vita del loro congiunto. Spesso i ragazzi fanno più
fatica a riconoscere queste loro difficoltà, magari a volte dovute non solo,
ma a volte dovute anche, a difficoltà comportamentali.
Quindi riteniamo importante pensare a un percorso di integrazione lavorativa che sia però all’interno di un più ampio percorso di integrazione sociale,
perché il lavoro è vero che restituisce il valore alle persone ma non è solo
l’unica fonte di benessere.
Attualmente di questi ex utenti contattati lavora il 69%, 52% del quale assunto
a tempo indeterminato part-time, cioè svolge 4 ore lavorative al giorno. Specifichiamo che l’80% di queste persone non lavora più nella stessa ditta in cui
lavorava prima dell'evento invalidante e il 69% dichiara di svolgere una mansione diversa e di livello inferiore rispetto alla precedente (figura 8).
Un buon risultato riguarda la tenuta. Per tanti dei nostri ragazzi il lavoro lo
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Figura 7
stanno portando avanti ormai da più di tre anni grazie anche ad un’attività di
tutoraggio che viene loro garantita. E qui vi facciamo vedere quello che è
emerso rispetto alle percentuali di invalidità (figura 8): il 100% dei ragazzi
con invalidità compresa fra il 46% e il 75% lavora.
La percentuale di chi lavora scende con l'aumentare dell'invalidità anche se le
persone che hanno una invalidità inferiore al 46% hanno grosse difficoltà a trovare lavoro perché impossibilitate ad accedere alle facilitazioni consentite per
legge a categorie superiori di invalidità.
Riguardo alla soddisfazione: abbiamo chiesto loro se sono soddisfatti del lavoro che stanno svolgendo. Questo è il risultato. Il 68% si dice soddisfatto anche
se il lavoro non è il lavoro ideale, tuttavia i motivi che vengono addotti alla soddisfazione riguardano il fatto che sul lavoro si possano instaurare delle buone relazioni, il fatto che ci sia un riconoscimento economico, una mansione che va
nell'ordine di rendere le persone capaci di svolgere quel lavoro quindi in corrispondenza delle abilità residue, il fatto che possa essere anche in un territorio
vicino all'abitazione.
I motivi della non soddisfazione riguardano il confronto chiaramente con il lavoro precedente sia in termini di ore di lavoro sia di mansione svolta.
Notiamo questo: anche le relazioni scompaiono, anzi sono uno dei motivi maggiori che fanno interrompere un percorso di inserimento lavorativo. Il che ci fa
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Figura 8
dire che è necessario sì un lavoro di elaborazione e accettazione del cambiamento, ma anche lavorare per sviluppare delle buone competenze relazionali
per mettere il soggetto il più possibile in grado di vivere bene nel proprio luogo
di lavoro, così come supportare l'azienda che accoglie la persona disabile, perché sia più pronta a offrirgli un ambiente di accoglienza vera.
Brevemente vi mostro i servizi che le famiglie hanno detto sono stati d'aiuto
nell’inserimento lavorativo. Il 53% dice di aver ricevuto aiuto per la maggior
parte dalla nostra cooperativa presso cui sono transitati, ma anche dai servizi territoriali per il lavoro.
Però una grande percentuale o non riesce a rispondere sul servizio che ritiene
possa averlo aiutata per l'inserimento lavorativo o si muove autonomamente.
Questo ci fa pensare che ci possa essere una distanza, perlomeno percepita, fra
i bisogni delle famiglie e i servizi che offrono e che potrebbero offrire un aiuto
per questi bisogni.
Perciò riteniamo importante attuare delle azioni che favoriscano:
• una migliore circolazione delle informazioni sulle possibilità e sui servizi che
possono offrire anche rispetto al lavoro, incrementare la collaborazione fra
strutture specializzate su questo tipo di disabilità che è diversa dalla disabilità congenita o di altro tipo, e i servizi territoriali che si occupano di inserimento lavorativo per i disabili in senso lato,
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Figura 9
• lo sviluppo di reti formali e informali perché spesso le persone vengono sostenute,
• il supporto sociale aiuta la persona nel mantenere anche una buona condizione lavorativa oltre che un benessere personale.
Che cosa facciamo o cosa cerchiamo di fare alla luce di quanto raccolto? Un percorso a fasi, un'accoglienza della domanda che può arrivare sia dalle persone singole che dalla struttura ospedaliera di riabilitazione che dimette il paziente, sia
dagli enti territoriali comunali. Se compatibile con la possibilità di intraprendere
un percorso d’inserimento lavorativo viene iniziata una valutazione anche qui
con strumenti assolutamente specifici per questo tipo di disabilità. Un profilo di
orientamento che consideri tutte le esperienze pregresse che la persona porta con
sé, le sue aspettative e le motivazioni che ha rispetto al lavoro, l’osservazione.
Anche qui ci stiamo attrezzando con il protocollo SOVI realizzato dal centro di
Ferrara rispetto alla valutazione delle abilità lavorative per questa tipologia di disabilità. Progetto individualizzato: anche qui ci stiamo attrezzando con l’ICF
come si diceva già varie volte per uniformare anche la comunicazione fra i servizi. I lavoratori di cui già Giancarla vi parlava, il consolidamento di alcune abilità, percorsi di autonomia per esempio sui trasporti o sulle attività di vita quotidiana. Assolutamente azioni coordinate con le strutture territoriali per il lavoro
e anche spazi di formazione professionale o riqualificazione lavorativa.
Si arriva perciò ad attivare prima un tirocinio, poi una borsa lavoro in ambienti
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Figura 10
lavorativi a diverso livello di protezione prima e poi non protetti, fino all’assunzione e al mantenimento attraverso azioni di tutoraggio del posto di lavoro.
Semplicemente questa slide (figure 9 e 10) vi ripete in forma grafica un po’ il
percorso, questo dell'accoglienza fino alla presa in carico. E questo è quello che
facciamo come inserimento lavorativo specifico per questo tipo di disabilità.
Questa (figura 11) è l’equipe che lavora con noi. Come si diceva assolutamente
multiprofessionale.
Non vi sto a ripetere perché so che i tempi stringono, per cui passo alle conclusioni, un po’ di quanto possiamo dire rispetto all’inserimento lavorativo delle
persone con cerebrolesione acquisita.
Ci sono delle criticità, alcune delle quali sono tipiche di questa patologia. Sottolineo l’importanza di non trascurare le esperienze scolastiche e professionali
precedenti all’evento invalidante e quindi le aspettative che la persona, ma anche
la famiglia, ha rispetto al lavoro anche se spesso purtroppo sono lontane dai lavori possibili. L’importanza di lavorare sulla motivazione alla tenuta di percorsi
che spesso possono risultare non professionalizzanti. Difficoltà comportamentali e relazionali che, come dicevamo, sono spesso causa dell’interruzione dei
rapporti di lavoro. E poi criticità più generali legate alla mancanza di strumenti
standardizzati per valutare l’efficacia di questi interventi specifici per l’inserimento lavorativo. E anche ovviamente la difficoltà a reperire risorse di cui si è
già ampiamente parlato.
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Figura 11
Figura 12
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Quello che facciamo noi, che cerchiamo di fare nella nostra piccola esperienza,
sono: specifiche aree di lavoro per questi ragazzi, percorsi per sviluppare le abilità sociali e relazionali, per lo sviluppo di strategie di compenso al deficit che
possono restituire competenza a queste persone; il supporto psicologico all’utente e alle famiglie sia per la motivazione sia per il lavoro sulle aspettative
e le differenze fra aspettative e ciò che è perseguibile; la necessità di continuare
l'inserimento nella rete di servizi che hanno in carico la persona dalla struttura
ospedaliera. E qui cito l’Istituto di Riabilitazione di Mozzo con il quale abbiamo
avviato anche questa collaborazione importantissima, ma anche le strutture sociali e territoriali, i Comuni e anche le varie agenzie sul territorio comprese le
agenzie per il lavoro.
E infine quello di cui ci stiamo dotando: strumenti per una comunicazione il
più possibile omogenea delle informazioni tra i servizi attraverso per esempio
l'utilizzo dell’ICF.
Anche se ho corso vi ringrazio per l’attenzione.
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UN ESEMPIO
DI BUONA PRASSI:
LA SPECIAL BERGAMO
SPORT E LO SPORT
Alberto Bacchini
Associazione Disabili Bergamaschi
Parliamo di sport. Lo sport deve essere sinonimo di allegria e ottimismo. Vorrei portare queste due parole, allegria e ottimismo, anche nel campo della disabilità e nello specifico delle persone che hanno avuto una lesione midollare
e, a causa di questa lesione, vivono in carrozzina, si muovono con la carrozzina.
Queste due parole non sono del tutto fuori luogo perché vi inviterei ad essere
vicini ad una squadra di basket in carrozzina, o ad un gruppo di ragazzi che
fanno tennis in carrozzina o vanno a sciare in carrozzina: vedreste che queste
parole allegria e ottimismo assolutamente non sono fuori luogo.
Ci sono delle diapositive che scorrono mentre parlo. Sono diapositive quasi
tutte derivate da atleti che fanno parte dell’SBS, la Special Bergamo Sport. Alcune di queste sono derivate invece da atleti di altre società sia italiane che di
altre nazioni.
Però vorrei soprattutto sottolineare questo fatto. Non sono persone eccezionali, non sono persone che vengono da un altro pianeta. A volte sono ragazzi
che non si erano mai avvicinati allo sport e lo hanno invece capito e apprezzato
nel momento in cui gli è servito moltissimo sia fisicamente che psicologicamente per ritornare ad un livello di vita non solo accettabile ma assolutamente
valido.
A questo punto vorrei farvi per un attimo una breve storia di quello che sono
l’ADB e la SBS, in quanto mi presento sotto queste due associazioni. L’ADB,
l’Associazione Disabili Bergamaschi, è nata circa vent’anni fa ed è nata perché si era ritenuto indispensabile creare un’associazione che seguisse le persone
che sono in carrozzina per lesione midollare dopo la dimissione dal reparto di
Riabilitazione degli Ospedali Riuniti che ha sede a Mozzo.
Perché era necessario? Era necessario perché ritornare alla vita normale, alla
vita di tutti i giorni dopo essere stati per diverso tempo, per diversi mesi addi99
rittura, all’interno di una struttura protetta come può essere quella dell’ospedale
evidentemente era utile ed era importantissimo avere un supporto per tutto ciò
che riguarda le pratiche di più normale necessità: dalla patente al sapere come
richiedere gli ausili e così via. Ecco che quindi è nata questa associazione che,
in collaborazione sempre con il reparto di Mozzo degli OO.RR. di Bergamo,
ha operato ed opera da vent’anni a questa parte.
Col passare del tempo abbiamo sempre più capito quanto era importante affiancare a questa associazione un'altra associazione che si dedicasse in maniera particolare allo sport. Questo pensiero lo si è concretizzato con i medici
e con i fisiatri dell’ospedale del reparto di riabilitazione. Lo avevamo dentro di
noi perché eravamo tutti un po’ sportivi quando stavamo bene ed eravamo più
giovani e quindi abbiamo capito quanto fosse importante fare dello sport per
un sistema di riabilitazione.
Così quattro anni fa è nata la Special Bergamo Sport (SBS). L’intento di questa associazione, di questa società sportiva, è proprio quello di avviare le persone, i giovani, ma non solamente i giovani, alla pratica sportiva. Però con un
appunto di particolare importanza: non aspettare che questi ragazzi vengano dimessi dal reparto di riabilitazione, ma inserirli addirittura durante il periodo di
degenza. Questa è stata una carta decisamente vincente e ce lo testimoniano i
medici, i fisiatri, le fisioterapiste che operano in quel reparto i quali dicono
quanto siano diminuiti, si siano dimezzati addirittura, i tempi di recupero sia fisico che psicologico per questi ragazzi, perché ricordiamoci che la maggior
parte delle persone che sono in carrozzina per una lesione midollare che sia una
paraplegia, cioè una lesione bassa, o una tetraplegia, cioè una lesione alta, sono
giovani che hanno fra i 20 e i 30 anni. Pochissimi sono i casi di patologie che
portano in carrozzina. Mi pare di ricordare circa il 10%-15%. Il resto sono tutti
i traumi. I traumi sappiamo benissimo che derivano il più delle volte da incidenti stradali, e negli incidenti stradali il più delle volte sono coinvolti i ragazzi. Allora questi ragazzi cosa fanno? Nel momento in cui vivono in questa
struttura per la riabilitazione cominciano ad avvicinarsi allo sport, ragazzi che
magari lo sport non lo avevano mai fatto prima di allora, però capiscono quanto
sia importante dal punto di vista fisico, naturalmente nei limiti di quello che è
consentito dalla loro condizione, e soprattutto quanto sia importante dal punto
di vista psicologico. Perché in fondo la lesione midollare dà una disabilità acquisita, cioè sopraggiunta nel corso della vita e tutto il pensiero, tutto il desiderio che si ha è quello di poter fare ancora quello che si faceva prima, quindi
muoversi decentemente e vivere con gli altri in una forma la più normale possibile.
Gli sport praticabili si dividono in due o tre tipi. C’è lo sport che viene fatto
senza carrozzina, per esempio il nuoto che dà un benessere fisico; c’è lo sport
che è fatto con la carrozzina, però con la carrozzina in forma statica come può
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essere il tiro con l’arco; ma c’è lo sport importantissimo che è quello che utilizza la carrozzina come mezzo, come può essere il basket, il tennis, come può
anche essere lo sci perché si può sciare con carrozzine speciali.
Questi sport permettono anche di avere una migliore manovrabilità con la carrozzina, una dimestichezza che aiuta a vivere in maniera migliore e più adatta
a quelle che sono le condizioni di vita.
Stanno scorrendo proprio adesso le diapositive di un incontro di basket. È la nostra squadra, la squadra del l’SBS che è stata promossa quest'anno dalla serie
B alla serie A2. E non è poco perché la serie A2 è una divisione nazionale,
quindi quest'anno ci aspettano trasferte in tutta Italia. Le partite si svolgono
nella palestra dei Carpinoni che è vicino all'ingresso dell'autostrada, il sabato
sera alle 20.30. Vi inviterei a vederle perché ci si può rendere conto come la carrozzina perda il suo significato di ausilio. Questo mi è stato testimoniato da
diverse persone: quando si entra in palestra a vedere una partita di questo genere ci si dimentica che sono persone con disabilità che fanno lo sport, ma
sembra che siano persone del tutto normali che utilizzano la carrozzina come
mezzo per fare lo sport. Quindi è una cosa molto bella che lo sport, nel caso
particolare quello che vi ho descritto, non mostra più la carrozzina come un
mezzo di costrizione. Quante volte si è sentita dire quella brutta espressione,
“è costretto a vivere per tutta la vita in carrozzina”, come se la carrozzina fosse
inchiodata per terra e uno non si potesse più muovere! La carrozzina in questo
caso è un mezzo come un altro per andare più veloce, fra l'altro bisogna essere
veramente degli atleti bravi e molto forti per poterlo fare. Stanno scorrendo
altre diapositive, adesso abbiamo il tiro con l’arco e la corsa con le carrozzine
speciali: è molto bella perché fa vedere due persone cosiddette normodotate e
uno che li insegue con la carrozzina. Poi la scherma, speriamo con l’SBS di
poter avere anche questo sport.
Attualmente abbiamo il basket, il tennis, lo sci e il nuoto.
Questa è bellissima: un tetraplegico che fa subacquea. Non so se lo avete riconosciuto, è l'unico che non ha le pinne ai piedi chiaramente, gli altri sono istruttori e portano le pinne.
Ora è lo sci con Luca Carrara che scia, molto bene fra l'altro, a livello nazionale.
Questa invece è la squadra di tennis. Il tennis ha avuto uno sviluppo enorme.
In pochi anni addirittura abbiamo 15 atleti che fanno tennis e quindi è stato
veramente un risultato eccezionale.
Il tennis è uno sport molto bello, permette di muoversi rapidamente con la
carrozzina.
Questo è Andrea Casillo, un ragazzo per esempio che ha avuto la lesione non
più di due o tre anni fa. In pochi anni riuscire ad avvicinarsi allo sport e addirittura presentarsi al pubblico in carrozzina non è facile: muoversi in carrozzina
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e ritrovare gli ambienti nei quali si viveva prima con una situazione diversa,
contattarsi con le persone con le quali ci si contattava prima e farlo in carrozzina, è psicologicamente estremamente difficile. Se questi ragazzi riescono a
superare questa difficoltà nel giro di poco tempo, è anche tramite l’esercizio
sportivo.
Vorrei concludere con un'altra osservazione che è di estrema importanza: tutto
quello che abbiamo detto fino adesso, dalla degenza ospedaliera, alla riabilitazione, allo sport, tutto quello che serve per ridare una vita importante a quelle
persone che non possono assolutamente, avendo anche un'età molto giovane,
essere costretti per tanti anni a fare poco e nulla, ebbene, tutto quello che noi
abbiamo detto svanisce, diventa inutile se non si eliminano le famose barriere
architettoniche. Se non possiamo permetterci, noi che siamo in carrozzina, di
muoverci agevolmente, ma non solamente negli spazi chiusi ma anche in quelli
aperti, praticamente è tutto vano quello che abbiamo fatto perché torniamo indietro e siamo ancora costretti a vivere bloccati, a non muoverci e quindi ad
avere una vita decisamente molto costretta.
Ribaltiamo quindi il concetto di disabilità per persone che sono in carrozzina:
queste persone non sono disabili, ma persone del tutto normali, che per muoversi devono utilizzare la carrozzina; sono persone che hanno una disabilità
anche inferiore a tante disabilità che non sono visibili. La nostra è visibile, ma
decisamente superabile, l'importante è che non ci siano ostacoli che ci impediscano di poterci muovere in maniera autonoma.
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Alcune diapositive rappresentanti persone con
disabilità acquisita che svolgono attività sportive
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ESPLORAZIONE DI
UN BISOGNO APERTO.
QUALI PROSPETTIVE?
Elena Poma
Ass. Politiche Sociale e Società Partecipate - Comune di Seriate
Buongiorno a tutti.
Voglio innanzitutto ringraziare la Provincia di Bergamo, l’Assessore Bianco Speranza e il Settore delle Politiche sociali, per aver organizzato questo convegno.
Oggi, grazie a tutti coloro che sono intervenuti, ai significativi apporti che hanno
portato a questo convegno, alla competenza e alla professionalità che ogni giorno
investono nell’affrontare le problematiche derivanti dalle gravi cerebrolesioni,
abbiamo avuto la possibilità di comprendere appieno la complessità e la poliedricità di questa malattia, che coinvolge in maniera determinante sia l’ambito sanitario che quello sociale.
La mia attenzione, come Assessore alle Politiche sociali (e rappresentante dell’Ambito territoriale di Seriate) va alla fase del Reinserimento Sociale, fase delicatissima che, come detto in precedenza, può durare da alcuni mesi ad alcuni
anni e, in qualche caso, per tutta la vita.
Sentiti gli interventi dei vari relatori che mi hanno preceduta, appare fondamentale per il territorio offrire servizi di qualità alle persone interessate da queste patologie e alle loro famiglie, che si trovano in una condizione emotiva ed
organizzativa molto fragile. Tutti hanno ribadito che le gravi cerebrolesioni acquisite rappresentano un problema sanitario e sociale rilevante. Si riscontra una
elevata incidenza di questa patologia nei giovani, negli adulti, di dimensioni tali
da richiedere particolare attenzione e complessità nella cura. L’imprevedibilità
degli eventi impatta in maniera forte sulle famiglie, incide pesantemente sullo
stile di vita della persona e le conseguenze sono determinanti negli aspetti complessivi della socialità, che riguardano l’ambito scolastico, quello lavorativo e
del tempo libero.
La realtà attuale tuttavia è caratterizzata dal vuoto: a fronte di dati statistici che
parlano di circa 60 famiglie ogni anno in provincia di Bergamo toccate da que107
sto problema, si ha una percentuale bassissima, quasi pari a zero, di famiglie che
si rivolgono al servizio sociale territoriale per portare il loro problema e richiedere eventualmente un accompagnamento.
Ne deriva che, a livello territoriale, non c’è consapevolezza dell’entità del problema quindi non sono ancora stati pensati percorsi e servizi specifici in risposta a questo tipo di bisogno. Ciò deriva anche dal fatto che la cerebrolesione è una
patologia che richiede una competenza specifica e peculiare, e in questo senso
gli Ambiti territoriali e di conseguenza i servizi sociali comunali non sono pronti
a dare risposte compiute. Mancano informazioni, mancano risorse economiche
specifiche.
Quali sono gli effetti di questa patologia sulla persona? Si verifica essenzialmente una restrizione nella partecipazione del soggetto ad una vita normale; significa una incapacità parziale o totale a provvedere alle cure personali, una
limitazione nella mobilità, nello scambio di informazioni, nelle relazioni sociali,
nella vita domestica e nell’assistenza degli altri; ne consegue una limitazione all’istruzione, al lavoro, alla vita economica, sociale e civile.
Le famiglie chiedono informazione, completa e continua, anche attraverso un
linguaggio chiaro e comprensibile; chiedono stabilità nelle équipe di cura, chiedono assistenza psicosociale, finanziaria e burocratica. Abbiamo sentito più volte,
oggi, esprimere un bisogno di inserimento sociale e lavorativo; interventi mirati
al bisogno di mobilità. Si chiede più chiarezza sulle leggi, sulle agevolazioni,
sugli interventi a domicilio, sulle strutture di sollievo e i centri diurni.
Le famiglie esprimono bisogni che riguardano anche la possibilità di adeguare a
livello strutturale le proprie abitazioni, per l’eliminazione delle barriere architettoniche.
Nell’ambito dell’offerta di servizi che il territorio offre loro, molto spesso purtroppo le famiglie si sentono disorientate. Il momento delle dimissioni della persona colpita da cerebrolesione rappresenta senz’altro il momento più delicato,
quello in cui viene a galla lo smarrimento, il senso di inappropriatezza e di incapacità nel gestire la nuova situazione.
È emersa, nella discussione di oggi, l’opportunità, che è anche necessità, di costruire una rete. Colgo l’occasione anch’io per sottolinearne l’importanza. La
rete dei servizi, infatti, permette la costruzione di percorsi facilitati per la famiglia. Questo consente la massima partecipazione possibile per ogni persona, che
deve trovare nei servizi un percorso facilitato e non un muro o barriere burocratiche, che di fatto gli impediscono di usufruire dei servizi di cui hanno diritto.
I Comuni nei rapporti che intrattengono con l’Asl, con il privato sociale, con
tutte le Istituzioni, chiedono a gran voce una maggiore sensibilità verso il tema
dell’integrazione socio-sanitaria. Unire le risorse per non frammentare gli interventi è ormai una richiesta che in modo pressante i Comuni rivolgono all’Asl.
In questo momento il nostro sollecito va al settore sanitario, al quale con forza
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chiediamo una collaborazione ed un dialogo costante. Chiediamo uno sforzo nel
contattarci e fornirci indicazioni che ci aiutino a cogliere al meglio il bisogno di
ogni singolo paziente, al fine di approntare un progetto individualizzato rispettoso della specificità di ciascuno e rispondente ai reali bisogni.
Cosa si può fare? Come intervenire?
Stamattina abbiamo sentito parlare del “Case Manager”. Questa è una strada percorribile, è importante però aprire la strada. È necessario assumersi la responsabilità dell’agire, è necessario fare riferimento alle raccomandazioni delineate
dalle Conferenze di Consenso e individuare l’interlocutore privilegiato, colui che
si fa carico di portare avanti questo lavoro, colui che svolgerà la funzione di Case
Manager appunto.
La Provincia di Bergamo ha istituito e portato avanti il tavolo per la valutazione
dei bisogni dal cui lavoro è nata, tra l’altro, la guida “Ritorno a casa”. Essa vuole
essere uno strumento di sollecitazione alle famiglie affinché si rivolgano ai servizi territoriali, ma è anche uno strumento di mediazione tra l’ambito sociale e
quello sanitario.
In questo senso lo strumento del Progetto dimissioni, da compilare a cura dei fisioterapisti, diventa per noi strumento prezioso perché:
• è fonte di indicazioni importanti per guidare la nostra azione;
• nelle mani di un familiare può costituire sollecitazione a presentarsi al servizio sociale;
• è strumento di mediazione ed unione di due mondi diversi, quello sociale e
quello sanitario, ognuno con linguaggi e modalità operative proprie non sempre comprensibili l’uno all’altro. Consente di costruire un raccordo terminologico, poiché chiede al sanitario di tradurre valutazioni proprie in parametri
concreti fornendo indicazioni operative al sociale, agevolando il lavoro di tutti.
Il fine ultimo di un agire comune è quello di dar vita a processi efficaci che si consolidino nel tempo, in cui sociale e sanitario collaborino a servizio di persone e
famiglie in condizione di sofferenza e disorientamento che, in questo drammatico momento della vita, necessitano di essere accompagnati e sostenuti. I servizi
sanitari e sociali non devono costituire per loro ulteriore fonte di disagio e incomprensioni, ma punto di riferimento significativo.
L’altro aspetto che preme sottolineare è promuovere sul territorio servizi che si
occupino nello specifico delle disabilità acquisite, in grado di offrire risposte
adeguate che tengano in considerazione la complessità del bisogno in termini sociali, affettivi ed emotivi, che aiutino la persona nelle varie sfere della vita quotidiana: scolastica, lavorativa, familiare, sociale e del tempo libero.
Io ho terminato. Vorrei ringraziare tutti coloro che sono intervenuti. Ringrazio lo
staff del comune di Seriate, l’assistente sociale, la signora Noris Rosaria che quest’anno ha partecipato al tavolo di lavoro della Provincia.
Vorrei ringraziare anche tutti coloro che si impegnano, per motivi professionali
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ma anche in nome di una dedizione e di una sensibilità che portano dentro di
loro, perché credo che il loro lavoro sia indispensabile e inscindibile da quello
delle Istituzioni. Senza lo sforzo di tutti loro, il lavoro delle Istituzioni non
avrebbe il significato profondo che invece deve assumere.
A conclusione, unisco alle mie riflessioni i ringraziamenti a quanti si sono spesi
e hanno investito tempo e risorse nell’organizzazione di questo convegno che ha
consentito l’emergere di un tema delicato e per nulla conosciuto, ma che sta assumendo dimensioni che non possiamo trascurare.
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IL RUOLO DELL’ASL
ATTUALE E FUTURO
Luciano Nicoli
Responsabile Unità Operativa Attività Socio-Sanitarie Disabili
Buongiorno a tutti. Mi accodo a quanto è stato detto nel precedente intervento
dall'Assessore Poma nel senso dI ringraziamento all'Amministrazione Provinciale per aver creato un convegno così composito e con tante professionalità
coinvolte.
Un segno di rammarico da parte mia, in termini personali, perché devo dire
che ho ascoltato veramente con piacere il calore dato dalle presentazioni dei
tecnici che si occupano della grave cerebrolesione acquisita, il calore comunicato nella relazione presentata questa mattina di chi opera all’interno delle
strutture pubbliche ospedaliere e delle strutture convenzionate, il calore portato
dalle relazioni delle famiglie, il calore portato dal terzo settore, il calore portato da chi si occupa del tempo libero dei pazienti con grave cerebrolesione.
Il segno di rammarico è riferito al fatto che il ruolo ricoperto nell’arco degli ultimi anni in termini aziendali, come operatore ASL, è soprattutto un ruolo distante dalla gestione della quotidianità e dei problemi presentati dai cittadini,
dalla gestione clinica e degli interventi da realizzare nel territorio. Nel senso
che attualmente all’ASL compete un ruolo essenzialmente di programmazione
e di controllo. Questo è un po’ il significato del rammarico comunicato, direi
il rovescio della medaglia, anche se l’organizzazione aziendale con dimensioni
provinciali consente di avere una visione più ampia dei problemi e delle scelte
programmatorie. Infatti, nell’arco di questi ultimi anni la gestione aziendale in
dimensioni provinciali, a fronte di problemi particolari ed emergenti qual è
stato anche la grave cerebrolesione acquisita, ha consentito di trovare, diversamente da come magari in alcuni settori viene sottolineato, “nelle leggi di settore” nazionali e regionali la possibilità di dare delle risposte anche significative
alle sollecitazioni che arrivavano dalle famiglie e dal territorio, anche per nuove
tipologie di bisogni, reperendo anche opportune risorse economiche.
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Vedremo, nelle brevi e sintetiche slide, dei dati riferiti alla cerebrolesione acquisita.
Sottolineo uno dei temi che ha attraversato tutta l'organizzazione della giornata: il tema della “rete” rispetto alle possibilità di interventi a favore della
grave cerebrolesione acquisita, rete che, nella prima slide, comprende da una
parte interventi prettamente “sanitari”, cioè le cure intensive ospedaliere e la
riabilitazione ospedaliera, e dall'altra parte si attivano quegli interventi a valenza socio-sanitaria, che sono la riabilitazione in regime extraospedaliero all'interno degli istituti di riabilitazione, insieme alla “riabilitazione sociale”, cioè
quegli interventi socio-assistenziali realizzati nel territorio, con ricorso a normative nazionali e regionali in gestione all’ASL o agli Enti Locali.
Dimenticavo una precisazione: come prassi istituzionale la ASL attuale, ma
anche le precedenti USSL e le Aziende USSL, si sono sempre occupate di gestione e organizzazione di interventi a favore della disabilità cronica, nello specifico con la gestione di servizi diurni (CSE/CDD) e residenziali (CRH/RSD)
a favore di cittadini disabili gravi. Nell’arco degli ultimi anni è diventata pressante la necessità di prevedere interventi e approntare nuove risposte alla disabilità acquisita, con conseguente organizzazione di servizi e attivazione di
risorse con personale specificatamente dedicato.
Bisogni riabilitativi ed assistenziali delle
persone con GCA e delle loro famiglie
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•
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•
Cure intensive ospedaliere, intervento sanitario
Riabilitazione ospedaliera, intervento sanitario
Riabilitazione extraospedaliera, intervento socio-sanitario
Riabilitazione Sociale, intervento socio-assistenziale
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Questa mattina infatti si parlava dell’esigenza - e come ASL ci siamo trovati
anche a dare delle risposte in tal senso - di organizzare e offrire risposte alle persone con disabilità acquisita in luoghi, contesti e organizzazioni diversi da quelli
storicamente deputati alla disabilità cronica, proprio perché i bisogni delle persone e delle famiglie con disabilità acquista sono diversi e difficilmente si riesce
a lavorare in contesti dove si opera sia per la disabilità acquisita che per quella
congenita. Per cui condivido l’osservazione che veniva posta in merito alla attivazione di servizi specificatamente dedicati alla disabilità acquisita.
Per quanto riguarda l’organizzazione degli interventi socio-sanitari, come ASL
ci siamo incontrati con le famiglie di soggetti con disabilità acquisita che presentavano richieste per accedere a delle prestazioni che venivano erogate al di
fuori della Lombardia; di fronte a queste nuove esigenze si è individuata la possibilità di offrire una risposta riconoscendo le prestazioni erogate in regime ambulatoriale come ex. articolo 26 anche per quei cittadini che hanno fatto richiesta
di accesso a strutture che fossero al di fuori del contesto provinciale e regionale
(seconda slide). Inoltre (terza slide) col finanziamento socio assistenziale della
legge 162/98, legge nazionale di modifica ed integrazione della legge 104, l’ASL
ha garantito la copertura per “spese alberghiere” sostenute dalle famiglie dei pazienti che hanno avuto accesso a prestazioni extraregionali.
Per la legge 162/98 due osservazioni di questo tipo. Da una parte la difficoltà in
termini aziendali di riuscire ad utilizzare - erano circa € 500.000,00 annui che
venivano assegnati alla Asl di Bergamo- tutte le quote assegnate nel territorio
bergamasco, sollecitando gli enti locali perché queste risorse venissero destinate
all'interno del territorio provinciale e non venissero rese al sistema regionale, e
in alcune situazioni non è stato semplice attivare dei progetti nel nostro territo120
rio con gli enti locali. All’interno di questa normativa abbiamo individuato la
possibilità e la flessibilità per riconoscere, come viene presentato nella slide, un
contributo economico alle famiglie che hanno fruito di “prestazioni alberghiere”
per trattamenti in strutture extraregionali - come prima menzionato -.
Come seconda osservazione, è stato possibile finanziare, sempre con la L.162/98,
dei progetti diurni che prevedevano di realizzare sul territorio bergamasco specifici interventi a valenza riabilitativa, in termini sociali ed occupazionali. Questa attenzione ha consentito di realizzare un “sperimentazione” per dei servizi
innovativi a favore della disabilità acquisita, in attesa di allinearsi a indicazioni
regionali riferite a servizi diurni consolidati nel campo della disabilità cronica.
L’ ASL provinciale ha gestito il finanziamento per tali servizi innovativi dal 2002
al 2004, in quanto con successiva delibera la Regione procedeva ad una assegnazione di finanziamento della legge 162 agli Ambiti Territoriali, inferiore come
contribuzione rispetto alle precedenti annualità, nelle quote complessive di assegnazione per le “leggi di settore”, lasciando aperta la discrezionalità per la destinazione comunque di quote di finanziamento a favore della “disabilità grave”,
in cui rientra anche la disabilità acquisita.
L’altro intervento specifico, in termini sempre socio-assistenziali, e che continua
ad essere gestito a livello provinciale dall’ASL proprio perché non riguarda dei
progetti ma delle risposte a seguito di richiesta da parte del singolo cittadino,
sono i finanziamenti legati alla legge regionale 23/99, la legge regionale sulla
famiglia che nello specifico ai commi 4 e 5 riguarda i contributi alle famiglie o
al singolo soggetto disabile per “l'acquisto di strumenti tecnologicamente avanzati”. La normativa prevede di finanziare sino al 70% del costo ammissibile.
Nello specifico è stato possibile assegnare i contributi anche a favore di pazienti
con grave cerebrolesione acquisita per acquisizione di personal computer con
adattamenti specifici, strumenti per il controllo ambientale, strumenti per l’attività sportiva, volta pagine, tavolini adattati, registratori con dittafoni.
Il sistema regionale assegna le quote di contribuzione, demandando poi l’individuazione dei criteri di accesso a queste contribuzioni ad ogni ASL. Come nostra
rilevazione osserviamo che spesso l’80% o il 90% della destinazione di questi
contributi è volto all’acquisizione di personal computer, che sì sono strumenti
tecnologici ma non so se li possiamo ancora definire avanzati o di ordinaria gestione. Dall’anno scorso la Regione ha introdotto l'indicazione di destinare almeno il 20% delle risorse assegnate ad ogni ASL per interventi di “domotica”,
intendendo tutti quegli ausilii e strumentazioni che favoriscono l’autonomia e la
vita indipendente nella propria abitazione, con possibilità, in caso di strumenti o
dispositivi costosi, di finanziamento correlato anche a piani di rateizzazioni.
Anche qui ci stiamo muovendo con un po’ di difficoltà rispetto a quelle che sono
le indicazioni regionali, nel senso che nel 2006, a fronte dell’assegnazione, avevamo destinato € 47.000, 490 per la “domotica”, corrispondenti al 20% dell’as121
segnazione complessiva. A fronte delle richieste pervenute sono stati utilizzati
solo € 28.135,44. Pertanto la parte di quota non destinata alla “domotica” è stata
assegnata alle altre richieste di ausilii.
Per quanto riguarda il piano di riparto di quest’anno - 2007 - della legge regionale
23/99, i cui termini per la presentazione delle domande scadevano il 15 ottobre
scorso -, tenuto conto di una assegnazione per due annualità 2006-2007, come
ASL dovremmo destinare sempre circa il 20%, pari ad almeno € 95.977,80.
Stiamo predisponendo in questi giorni la graduatoria, però approssimativamente
con le richieste pervenute saremo al di sotto della quota stimata come destinazione finalizzata allo specifico degli interventi di domotica.
Ho riportato nelle slide 4 e 5 quanto viene indicato dalla delibera di Giunta regionale 2006 in merito alla “domotica”. Per “domotica” s’intendono tutte quelle
esigenze di comfort, risparmio energetico, che rappresentano un’utile opportunità per rendere maggiormente fruibile l'ambiente di vita di persone con specifiche tipologie di disabilità, contribuendo così ad una migliore qualità di vita del
disabile e riducendo il carico assistenziale di chi se ne prende cura.
Il distinguo viene fatto differenziando fra il “dispositivo domotico”, che è una singola o piccola apparecchiatura, e il “sistema domotico” cioè di dispositivi che
sono in grado di dialogare fra di loro. Tra questi si intendono dispositivi per il controllo ambientale, strumenti per l'automazione domestica, gestione dell'ambiente
via computer, dispositivi per comandi vocali, dispositivi per la regolazione dei
mobili, dispositivi per specchio reclinabile, mensole con barra di controllo per regolazione arredi, per esempio reclinazione lavabo, mobili regolabili elettronicamente in altezza, supporti per alzata persone, dispositivi elettronici per l’orientamento, sistema di navigazione guidato. Chiaramente tutti questi ausili o questi
sistemi devono essere facilmente utilizzabili dal cittadino.
Ai fini dell’accesso alla contribuzione il cittadino richiedente deve presentare, insieme alla domanda, un progetto individualizzato, a valenza educativo-socializzante, predisposto da un operatore sociale, oltre ad una “prescrizione” a cura di
uno specialista che indichi la correlazione tra l’ausilio richiesto e la patologia del
paziente.
La richiesta per cui il progetto individualizzato sia condiviso e sottoscritto anche
dall’operatore sociale del territorio in cui risiede il cittadino sta dando dei risultati significativi, in quanto significa comunque il coinvolgimento dell’operatore
sociale in finanziamenti prettamente del settore socio assistenziale, ma soprattutto
realizza l’obiettivo di avvicinare sempre di più il cittadino, anche con disabilità
acquisita, al proprio Comune, al proprio servizio sociale, per eventuale apertura
ad una gamma di servizi che il territorio può offrire per garantire il reinserimento
della persona disabile all’interno del proprio contesto di vita.
Dal mese di agosto come Servizio Disabili ci stiamo occupando della lista d’ attesa per le persone in Stato Vegetativo Persistente. Ricordo com’è la situazione,
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in termini provinciali, per l’accoglienza degli ospiti in stato vegetativo persistente
presso quattro strutture riabilitative, sanitarie e socio-sanitarie: 47 ospiti, di cui
7 sono persone ricoverate a seguito di grave incidente. La lista di attesa, alla data
odierna, è formata da 12 persone, di cui una a seguito di incidente.
Recupero alcune osservazioni che hanno attraversato la giornata:
• la istituzione di un “case manager”, in qualità di operatore che coordina gli interventi ed i servizi a favore dei cittadini in difficoltà;
• la sollecitazione ad uniformare i linguaggi, come per esempio la introduzione
nel territorio bergamasco dello strumento ICF, strumento che ha una sua spendibilità nella misura in cui la struttura inviante che lo elabora lo invia ad una
struttura accogliente in grado di leggere tutto il lavoro predisposto con lo stesso
linguaggio di valutazione.
Mi auguro che la giornata di lavoro possa produrre risultati di continuità rispetto
a questi due temi, il “case manager” e l’esigenza di utilizzare un linguaggio comune.
Un ulteriore segnale di raccordo/rete: l’ASL è stata assegnataria anche di un finanziamento “una tantum” per quanto riguarda la legge 388/2000. La normativa
aveva una sua contraddizione di termini, perché dava disponibilità di finanziamento per ristrutturazione arredi e solo avvio di gestione a favore di residenzialità per soggetti con grave disabilità. La contraddizione sta nel finanziare la vita
autonoma ed indipendente per soggetti con grave disabilità.
Nel territorio bergamasco a questi contributi ha avuto accesso anche la Cooperativa “Progettazione”, con un progetto da accompagnare nella sua realizzazione
a favore di persone con grave cerebrolesione acquisita.
Altri finanziamenti della 388/2000 sono stati destinati alle Comunità Socio Sanitarie (CSS), che da oltre vent'anni si occupano della disabilità grave congenita.
Con tali strutture sarebbe interessante ed utile avvicinarsi per realizzare delle sinergie veicolate proprio alla realizzazione di percorsi legati alla “vita autonoma
ed indipendente” per persone con disabilità acquisita.
Risultati significativi, nella prospettiva di “rete”, si potrebbero ottenere mettendo
insieme le sinergie tra la ASL, con le normative di settore che governa, gli Enti
Locali all’interno della 162, la collaborazione con il privato-sociale, la collaborazione con le famiglie e con l’Associazionismo familiare, anche sperimentando
inizialmente dei progetti di intervento per questi percorsi di vita autonoma e indipendente a favore della disabilità acquisita.
Grazie a tutti arrivederci.
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IL TAVOLO PROVINCIALE SULLE LESIONI
CEREBRALI E VERTEBROMIDOLLARI.
STORIA E PRODOTTI
Simona Colpani
Pedagogista e consulente
della Provincia di Bergamo
Valter Tarchini
Sociologo, collaboratore
Studio APS Milano
Un percorso
Grazie e buongiorno a tutti. Presento alcune riflessioni predisposte insieme a
Simona Colpani. È l’ultimo intervento della giornata prima delle conclusioni
è ha l’obiettivo di riprendere alcuni fili e alcuni elementi caratterizzanti di
quello che è stato il percorso del tavolo di lavoro provinciale sulle Gravi Lesioni Cerebrali e Vertebromidollari.
Questo tavolo di lavoro è nato nel 2004 promosso e coordinato dalla Provincia di Bergamo, Settore Politiche Sociali, condotto nello specifico da Simona
Colpani, consulente della Provincia. Ne fanno parte diverse delle persone che
avete visto oggi presentare delle riflessioni: Ivo Ghislandi e Giovanni Melizza
degli Ospedali Riuniti di Bergamo – Unità Operativa di Riabilitazione di
Mozzo, Giampietro Salvi della Casa di Cura Quarenghi di San Pellegrino e
dell’Associazione Genesis ad essa collegata, Giambattista Guizzetti del Centro don Orione di Bergamo, Stefano Pelliccioli dell’Associazione Amici Traumatizzati Cranici, Alberto Bacchini dell’Associazione Disabili Bergamaschi,
e Giancarla Panizza della Cooperativa Progettazione.
Ad una fase dei lavori del tavolo, e in particolare alla realizzazione dell’opuscolo “Sostenere percorsi dentro e fuori casa” (che illustreremo più avanti),
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hanno inoltre collaborato le Assistenti Sociali Silvia Belluzzi e Rosaria Noris,
operanti rispettivamente negli ambiti territoriali di Romano di Lombardia e di
Seriate.
Qual è il lavoro che ha fatto il tavolo in relazione alle problematiche che sono
state presentate oggi? Quello che ha cercato di fare il tavolo è stato innanzitutto di condividerle, di riconoscersi in esse, valorizzando le diverse prospettive e le diverse forme di implicazione che avevano le persone e le organizzazioni presenti, e poi di individuare alcuni problemi più specifici per cercare di capire se, attorno ad essi, era possibile attivare delle iniziative, delle dimensioni progettuali, delle sinergie. Lo scenario per molti aspetti è ricco di
problemi, ha delle carenze e dei limiti, ma ci sono però anche delle presenze,
delle risorse, quali ad esempio quelle che lavoravano attorno al tavolo, e che
potevano individuare delle convergenze su dei problemi e su delle iniziative
sentite utili. Per cui il tavolo ha provato a identificare delle questioni più specifiche su cui produrre delle riflessioni ma anche poter attivare operativamente
delle azioni.
Allora quello che ha fatto il tavolo è stato di partire anche da dei disagi, da dei
vissuti problematici, da delle disfunzioni, utilizzando alcuni quadri di riferimento e delle ipotesi sui problemi, che sono anche quelle che sono state presentate oggi e che sono state messe a punto nelle Conferenze di Consenso,
Conferenze alle quali hanno partecipato anche diversi membri del tavolo, e
contribuendo al lavoro dei gruppi tematici lì attivati.
Valorizzando le esperienze e le conoscenze dei soggetti presenti al tavolo, e confrontandosi attorno a dei dati più specifici relativi alla Provincia di Bergamo, alle
risorse presenti, a dati numerici inerenti le patologie ma anche a dati qualitativi
e specifici legati ai vissuti dei familiari portati dalle associazioni, che consentivano di mantenere presente uno sguardo articolato sulle cose, e soprattutto mettendo in comunicazione più prospettive, anche attraverso le diverse persone
sedute al tavolo, che erano familiari, ex pazienti, medici, tecnici della riabilitazione, operatori di area sociale. Operare dunque per condividere dei problemi da
cui partire per delineare una progettazione condivisa.
Le questioni su cui si è lavorato
Riassumiamo ora le questioni principali su cui si è mosso tavolo, e che poi
hanno trovato anche delle traduzioni operative.
La principale è stata forse la questione della dimissione, cioè delle criticità
collegate al momento delle dimissioni dalla struttura ospedaliera e del rientro
a casa. È un passaggio delicato, e il tavolo ha cercato di convergere sul come
sollecitare una costruzione di riferimenti nel territorio a supporto della famiglia. Il termine dimissione evoca un po' anche il termine abbandono: questo è
stato ripreso anche nelle testimonianze riportate in mattinata. Cercare di ca126
pire cioè come il momento della dimissione potesse essere visto non come il
momento in cui uno si accosta a una frontiera e passa in un altro Stato, dove
poi si aprono difficoltà di comunicazione e dove si percepisce separazione. Al
contrario, cercare di introdurre delle logiche e dei supporti per vederlo più
come un momento nel quale ci si avvicina a dei confini, ma dove attorno a
questi confini è anche possibile costruire dialogo fra confinanti, cioè fra servizi e soggetti che hanno a che fare con quel problema, o meglio con quel problema per come si manifesta in quel percorso di vita, in quella storia individuale e familiare. Lavorare dunque su questo assumendo come dato di realtà che le difficoltà d’integrazione tra servizi ci sono e che spesso le risorse
sono parziali e frammentate. La testimonianza portata come genitore da Stefano Pelliccioli lo esprimeva bene, diceva cioè del come il momento delle dimissioni viene vissuto come un momento di vuoto. Il tavolo ha raccolto questo
bisogno pensando a come favorire, supportare costruzioni di riferimenti nella
realtà concreta, a quali riferimenti e strumenti era possibile mettere in campo,
che cosa poteva essere utilizzato per costruire dialogo attorno alla dimissione.
Un secondo problema su cui si è mosso il tavolo è stato quello del sostenere
la famiglia come interlocutore. Come argomentavano diversi degli interventi,
e com’era anche ribadito nei documenti della Conferenza di Consenso, la riabilitazione si fa “con la famiglia e con la persona”, e non solo per la persona.
Cosa vuol dire questo? Potremmo dire che la famiglia nell'operato dei servizi
sanitari e sociali è sempre stata presente, cioè non si è mai pensato senza la famiglia. Però molte volte nel modo di operare dei servizi la famiglia viene vista
un po’ come un “collaboratore naturale”, come un soggetto che in qualche
modo deve collaborare naturalmente, in modo a volte considerato dato, dovuto, scontato per la cura di un suo componente, e lo deve fare nella prospettiva proposta dai servizi. I dati e le riflessioni che ha presentato stamattina
Mariangela Taricco fanno vedere come la famiglia sia molto presente. Però
pensare alla famiglia solo come collaboratore naturale significa a volte sottovalutare le esigenze di riprogettazione, i carichi psicologici presenti, i disorientamenti che la attraversano. È diverso invece vedere la famiglia come un
sistema all’interno del quale avvengono degli eventi nuovi, connessi all’evento
che ha coinvolto un componente, e quindi pensare che la riabilitazione vuol
dire pensare alla famiglia anche in rapporto alle sue esigenze di riprogettazione, di ricostruzione di senso per il congiunto che è stato colpito da un
trauma, ma anche per le altre persone che debbono riprogettassi con lui.
Allora la famiglia non è solo un collaboratore naturale a cui assegnare dei
compiti, da cui aspettarsi delle cose, ma è un soggetto con cui interagire, riconoscerne le domande, e all’interno del quale vedere delle possibilità nuove
da costruire o da ricostruire. Ognuno di noi ha delle dipendenze e delle autonomie, ognuno di noi lavora all'interno di un reticolo di interdipendenze. Esi127
stono sicuramente delle interdipendenze e delle reciprocità che vanno ricostruite e che vanno aiutate a ricostruirsi. Il tema su cui ha lavorato il tavolo era
“non lasciamo sola la famiglia nel ricostruire queste cose”, non diamole solo
dei compiti da fare, ma vediamo come può essere supportata a ripensarsi in
questi nuovi compiti: vederla quindi come interlocutore, come soggetto, e capire anche come dialogare con lei.
La terza questione su cui ha lavorato il tavolo era collegata al favorire sempre
più consapevolezza che la riabilitazione è collegata alla possibilità di rigiocarsi
all'interno delle relazioni, del sociale, della formazione, dell'abitare, del lavoro, proprio perché la riabilitazione è sì un percorso medico e tecnico, ma è
anche un percorso sociale, motivazionale ed automotivazionale.
Questo è stato ben messo in luce anche in precedenza da Alberto Bacchini rispetto per esempio allo sport, cioè all’avere delle possibilità di relazione e al
ripensarsi diversamente nelle relazioni, come dimensione che genera risorsa
al soggetto e al sistema familiare. Vedere, valorizzare, sostenere sempre di più
le possibilità che si possono generare mettendo in collegamento, aprendo prospettive.
E per finire direi che un grande tema sul quale ha lavorato il tavolo è stato
quello del favorire un riconoscimento e una visibilizzazione di problematiche, quali quelle personali e familiari legate ad eventi traumatici cerebrali e
vertebromidollari, che sono spesso collegate a solitudini e a isolamenti. Molte
volte infatti di fronte a questi problemi si assiste anche a dei ritiri o a dei percorsi di solitudine incentrati quasi unicamente sulle dimensioni tecniche e riabilitative. Quindi l’obiettivo era anche di parlare di alcuni temi perché questi
arrivino ad essere sempre più legittimati, se ne possa parlare senza vergogna
e senza comportamenti di ritiro.
Sono dunque delle questioni molto importanti e attorno ad esse il tavolo ha
cercato di produrre delle possibilità, produrre qualcosa di nuovo.
Alcuni esiti
È importante ora mettere in luce alcuni degli esiti che sono stati prodotti dal
tavolo. Alcuni di questi si sono poi anche materializzati attraverso dei documenti e degli strumenti, alcuni sono in cartelletta e li presentiamo oggi, altri
si possono trovare sul sito della Provincia di Bergamo andando nella sezione
del Settore Politiche Sociali, dove, nell’area relativa alla disabilità, c’è un collegamento al materiale prodotto dal tavolo di lavoro sulle gravi lesioni cerebrali e vertebromidollari.
Uno dei primi esiti del tavolo è stata la stesura di un documento di riferimento
condiviso che si chiama “Osservazioni sulla situazione presente in provincia
di Bergamo e prime ipotesi di lavoro”. Un primo prodotto è stato cioè il condividere una lettura della situazione, una convergenza di riferimenti attorno ad
128
una situazione, rispetto ai suoi elementi certi ma anche ai chiaro-scuri e alle
possibilità di lavoro. È una sintonia di partenza, ma che è molto importante nel
sostenere poi un percorso.
Un altro esito è stata la produzione di riflessioni condivise sulle problematiche affrontate dalle famiglia e sulle diverse attenzioni che possono entrare in
campo nel favorire iniziative di vicinanza e di “sollievo”, riportata poi all’interno della pubblicazione “Sollievo, disabili e servizi: una lettura esplorativa”.
Cioè ha provato un po’ a pensare allo specifico del tema del sollievo rispetto
alle disabilità acquisite, e ha prodotto delle riflessioni, delle ipotesi, delle prospettive che hanno interagito con altre riflessioni sulla disabilità.
Un terzo esito è stata la produzione di un opuscolo a supporto di iniziative di
informazione e sensibilizzazione che si chiama “Sostenere percorsi dentro e
fuori casa”.
L'idea era di produrre uno strumento
agile che potesse aiutare a far circolare informazioni sul tema, possibilmente con un linguaggio comprensibile ai cittadini in generale, perché
l’informazione aiutasse chi è coinvolto nel problema ad esplicitarlo, ma
aiutasse anche le altre persone a prendere più contatto, se non altro in termini di consapevolezza, con queste
questioni.
Un quarto esito è stata la predisposizione di uno strumento operativo, la
“Guida al ritorno a casa”, da utilizzare
nel momento del rientro a casa, finalizzato a supportare la famiglia nel
progetto di cura e nel costruire relazioni con i servizi.
Un primo esito legato alla “Guida al
ritorno a casa” è la sperimentazione
in corso sull’uso dello strumento, nel
senso che non si ha solo il prodottostrumento ma si sta provando a utilizzarlo.
Il convegno di oggi inoltre è esso
stesso un esito di questo tavolo di lavoro. E non è poco neanche questo.
129
Riflessioni trasversali
Come leggere quanto in atto? Il lavoro di questo tavolo ha prodotto delle convergenze valoriali e culturali tra servizi diversi e tra soggetti diversi. Soggetti
spesse volte anche antagonisti, diverse volte anche in conflitto, ma per certi
aspetti questi conflitti sono stati anche la possibilità di riconoscere delle
istanze, delle tensioni, dei bisogni, e attorno a questi cercare di produrre delle
convergenze. Il problema non è di dire andiamo tutti d'accordo, ma piuttosto
di convergere su alcune questioni sapendo che a volte ci sono anche delle
tensioni, dei punti di vista e delle istanze diversificate. Quindi ci sono stati
orientamenti valoriali e culturali e strumenti operativi su cui c'è stata una
convergenza e su cui investire per favorire delle influenze nei processi di lavoro delle organizzazioni. Ad esempio il cercare di usare dei linguaggi il più
possibile orientati alla famiglia, di usare dei riferimenti che aiutino a orientare la famiglia nella valenza riabilitativa di una nuova quotidianità che è riprogettabile. Il problema è infatti anche il trovare un nuovo significato alla
quotidianità, nelle relazioni verso dei soggetti e dei servizi da stimolare.
Anche la sperimentazione è, potremmo dire, una convergenza dei linguaggi.
Questo tema, e lo vedremo illustrando la “Guida”, è quello del provare a comunicare con linguaggi orientati alla famiglia delle ipotesi attorno al che
cosa è successo a questa persona, comunicare inoltre i riferimenti e i dati
sullo stato in cui si trova ed il che cosa si può fare. Questa non è una cosa facile, perché non è così facile tradurre un linguaggio tecnico, come quello medico e riabilitativo, in un linguaggio della quotidianità.
È necessario “tradurre”, ma non è facile tradurre senza “tradire”.
Molte volte nell’utilizzare un linguaggio non tecnico ai professionisti può
sembrare di banalizzare, può sembrare di tradire l'importanza e la rilevanza
di un problema. Allora potremmo riconoscere che semplificare senza banalizzare non è semplice, richiede una professionalità molto alta e richiede un
lavoro molto forte da parte degli operatori. Gli strumenti su cui ha lavorato
il tavolo sono stati costruiti con questo obiettivo: semplificare senza banalizzare, poter dire delle cose non con il linguaggio della diagnostica ma con
il linguaggio dell'interazione quotidiana, non con il linguaggio della codifica, ma con il linguaggio della consapevolezza che può aiutare anche a immaginare, ricercare, capire, comprendere, intuire delle possibilità. Questo
non è un problema banale. Sono aspetti che vanno gestiti da un medico, da
un fisioterapista, da un assistente sociale, per dialogare meglio con la famiglia e per cercare di dire le cose complesse in modo semplice, in modo non
banale, in modo non classificatorio, ma in termini di punti di riferimento per
ricercare nuovi percorsi. Non è facile ed è una direzione, un’attenzione che
stanno dietro alla produzione dello strumento “Guida” e alla sperimentazione
del suo utilizzo.
130
Gli strumenti in sintesi
Una panoramica veloce dei due strumenti che sono in cartelletta: “La guida al
ritorno a casa” e l’opuscolo “Sostenere percorsi dentro e fuori casa”.
“La guida al ritorno a casa” ha una sezione iniziale ove si indicano alla famiglia dei riferimenti per le dimensioni sanitarie, sociali e di supporto ai percorsi
di integrazione. Una seconda parte dove vengono evidenziati delle attenzioni
a valenza riabilitativa e vengono indicati degli obiettivi di periodo, e una parte
finale su cui riportare osservazioni e annotazioni da parte della famiglia.
Una copia di questa Guida si ritiene sia utile consegnarla ai servizi sociali e agli
operatori a cui ci rivolge per attivare le relazioni di supporto e aiuto. La questione non è il dare ad altri dei dati diagnostici, ma di avere uno strumento con
delle indicazioni e delle informazioni che supportino nel prendere relazioni e
contatti sul territorio con i soggetti sociali e sanitari. Per cui c'è una prima parte
che è pensata per attivare dei contatti di rete e dove ci sono tutta una serie di
riferimenti operativi e di indicazioni legati ai possibili bisogni. Rispetto ai temi
della privacy qui ci sono solo delle informazioni orientate all'interazione, al favorirla e supportarla, non orientate alla definizione di una situazione.
Nella seconda pagina della Guida ci sono dei riferimenti più specifici, delle
associazioni con cui prendere contatti, dei servizi e dei gruppi di mutuo aiuto
presso cui poter andare.
Lo metteva in luce anche Mariangela Taricco questa mattina: il legame delle
persone e delle famiglie con le associazioni non è elevato, spesse volte ci sono
situazioni di solitudine, vissuti di isolamento, mentre ci sono degli aiuti e delle
relazioni risorsa che potrebbero anche essere attivati.
Sono poi indicati alcuni siti Internet sia delle associazioni che hanno collaborato, sia alcuni siti nazionali di riferimento. Ne abbiamo selezionati pochi, solo
i principali, perché entrando in questi ci sono poi molte altre diramazioni 1.
La parte della Guida dedicata agli obiettivi e alle attenzioni riabilitative è quella
parte dove, come si diceva, si cerca di costruire una presentazione di obiettivi
di riabilitazione orientati ad una loro gestione anche nella quotidianità. La prospettiva utilizzata è stata questa: in teoria tutto è importante, però il nodo è dare
indicazioni supportanti e orientanti. Una famiglia o una persona quando gli capita il trauma è disorientata. Cosa faccio? Come mi muovo? Tutto è importante. Tutto mi soffoca.
Poter usare la guida come supporto in termini ricorrenti, ogni due o tre mesi,
permette di fare aggiornamenti e dire: questi tre mesi investiamo su questa
cosa, poniamo attenzione a questi aspetti, scambiamoci osservazioni su queste
aree. Proviamo a darci come priorità questi obiettivi, non perché sono gli unici,
1 Per gli strumenti citati nella presente relazione si faccia riferimento agli allegati in calce alla pubblicazione
131
ma perché si procede a tappe. I tempi della riabilitazione sono lunghi, occorre
prendere confidenza, occorre costruire delle relazioni diverse, mediate nel
tempo. Lo scopo è supportare la possibilità di descrivere gli obiettivi in termini di operazioni quotidiane, riportate a come funziona quella casa e quella
famiglia, e poterle monitorare e valutare nel tempo.
L’ultima pagina è uno spazio per delle annotazioni: è la possibilità e soprattutto lo stimolo per il familiare di scrivere anche delle cose sue, di far sì che i
suoi vissuti, le sue sensazioni, siano scritte e diventino informazioni utili per
meglio supportare lo scambio. Anche un’emozione o una fatica, non sono banalità: sono consapevolezze che possono permettere di progettare dei nuovi
passi.
Nel costruire lo strumento guida, pur nei suoi limiti e nella sua parzialità, ci sta
quindi questo sforzo: tradurre senza tradire, semplificare senza banalizzare,
valorizzare la quotidianità come spazio di ricostruzione.
Il secondo strumento è “Sostenere percorsi dentro e fuori casa”. È un opuscolo
che presenta delle riflessioni e delle informazioni. Ha una presentazione iniziale sul come e perché è nato, e poi pone alcune attenzioni:
• le gravi lesioni cerebrali e vertebromidollari esistono;
• ci sono dei percorsi di cura e di riabilitazione che possono prendere in carico queste problematiche quando si sviluppano;
• è importante non essere da soli e non stare da soli, perché molte volte si è
da soli, ma molte volte si sta da soli perché ci si richiude, e occorre anche
stimolare, supportare, anche un po’ spingere.
Ci sono poi delle indicazioni relative al “a chi fare riferimento” nel proprio territorio, delle indicazioni di siti Web, ed una breve presentazione delle associazioni e dei servizi che hanno partecipato al tavolo.
Copie dell’opuscolo per un suo utilizzo o per una sua diffusione si possono richiedere alla Provincia di Bergamo – Settore Politiche Sociali.
Grazie dell’attenzione a nome mio e di Simona Colpani.
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Allegati
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157
COLLANA “ITINERARI FORMATIVI”
1)
2)
3)
4)
5)
6)
Emarginazione grave:
come intervenire, risultati e fatiche.
Atti del Corso di formazione, maggio 2002
2002
Affido familiare
tra legge ed operatività.
Atti del Convegno, Bergamo 23 novembre 2001
2002
Alzheimer.
La ricerca di nuove letture.
Atti del Convegno, Bergamo 12 aprile 2002
2002
A.I.D.S.
Il punto della situazione.
Atti del Convegno nazionale, Bergamo 19 giugno 2002
2002
Laboratori di solidarietà giovanile.
Materiali sul rapporto tra handicap e volontariato
giovanile in provincia di Bergamo.
Atti del Convegno, Bergamo 12 ottobre 2002
I Servizi Formativi all’Autonomia
in provincia di Bergamo.
Atti del Convegno, Bergamo 7 dicembre 2002
7)
I processi di lavoro quotidiano con le famiglie.
Atti del Corso di formazione, 2001-2003
8)
La qualità dei servizi integrativi
per l’infanzia e la famiglia.
Atti del Corso di formazione, 2002-2003
158
2003
2003
2004
2004
9)
Droga:
come parlare e intervenire con i nostri giovani.
Atti del Convegno, Bergamo 15 aprile 2003
2004
10) Pena Carcere Lavoro.
La giustizia in-divenire.
Atti del Convegno, Bergamo 9 giugno 2003
2004
11) Conoscere per ascoltare.
Indagine sulla Genitorialità Sociale.
Ricerca-Azione multifocale e multilocale
2004
12) Fare posto alle relazioni di cura:
le famiglie accoglienti interrogano la comunità.
Atti del Convegno, Bergamo 26 marzo 2004
2005
13) Comunità alloggio:
un’indagine sui minori accolti.
Ricerca-Azione a cura dell’Osservatorio Disagio minorile
2005
14) Lavoro di cura:
aspetti critici, significati e vissuti.
Atti delle giornate seminariali, aprile-maggio 2003
2005
15) Costruire la qualità:
i nidi famiglia in provincia di Bergamo.
Report 2003-2006
2006
16) Progetti extrascuola. Laboratorio di esperienze
e apprendimenti fra scuola, famiglia e territorio.
A cura di Floris F., Mayer E., Reggio P., Testa B.
2007
17) I percorsi dell’affido familiare.
Progetto “Reti familiari, affidi e famiglie risorsa”
2006-2007
2008
159
Stampa:
Studio Lito Clap snc - Bergamo
Maggio 2009
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