Mirella Schino
Profilo del teatro italiano. Dal XV al XX secolo
Roma, Carocci 1995, pp. 109-117
Attori
Col nuovo grande attore, Luigi Vestri, la conquista dell’arte scenica avviene ancora una volta, come per il Morrocchesi,
di forza [...]. Il suo colloquio col pubblico diventava la materia stessa della sua arte, quasi una musica, una sostanza
plastica, ch’egli andava modulando per suggerire un’immagine. Da buon attore, partendo dalla sua fisicità (ed aveva,
non solo nel corpo, qualcosa di grave, di inizialmente avviluppato: quel suo volto largo, di guance cascanti, ma di fronte
fantasiosa sui potenti archi ciliari, si concentrava ora nella bocca, così diversa da ritratto a ritratto, ora negli occhi strabi,
e di lì, dalla bocca e dagli occhi, si sperdeva), piegava il corpo e il volto a promuovere quel trasporto, quel rapimento
che lo rendevano signore della scena, anzi del coro; e di lì muoveva a un’immagine fantastica che toglieva consistenza e
realtà a tutto, alle parole del testo come all’occasione fittizia della rappresentazione, al proprio esser uomo di carne ed
ossa come alla molteplice realtà degli uomini adunati ad ascoltarlo. Si dirà che questo giuoco di realtà sovrapposte è
d’ogni grande attore: ma appunto l’idea che noi abbiamo oggi del grande attore ebbe in Italia una prima e grandissima
personificazione in Luigi Vestri 1.
Così Mario Apollonio ha analizzato il peso attorico di Luigi Vestri, uno dei capostipiti del
fenomeno — detto “del grande attore” — che nel corso dell’Ottocento e più o meno fino al
fascismo dominerà completamente il teatro italiano.
Mario Apollonio, uno dei fondatori degli studi teatrali italiani, uno dei primi a interessarsi alla
specificità dello spettacolo rispetto al problema dei testi, è stato anche uno dei pochi che del
fenomeno del grande attore hanno tentato di rendere il peso, analizzando la concretezza dei mezzi e
l’oscurità di certi effetti sul pubblico.
La visibilità e la concretezza dei metodi d’arte e di battaglia con il pubblico del grande attore
hanno fatto sì che spesso se ne preservassero descrizioni fisiche in dettaglio, minuziose e fresche.
Ritorniamo un attimo su Vestri, ad esempio, per ascoltare la descrizione che ne fece, negli ultimi
anni dell’Ottocento, uno dei primi grandi raccoglitori di notizie sugli attori italiani, Luigi Rasi:
A vederlo, pareva che la natura lo avesse creato non ad altro che al genere comico: era pingue nella persona, aveva il
ventre sporgente innanzi: alto, però, quanto si conveniva, non notavi nelle sue membra alcuna increscevole
sproporzione. Piacevole fisionomia; negli occhi, nelle labbra e nella fronte, potenza di esprimere le più interne
commozioni dell’animo, senza stento nella severità o nella tenerezza, senza sconcezze nel ridicolo; sì che più volte, non
proferendo parola, non movendo mano, seppe con un sol sguardo scuotere la moltitudine attonita, atterrirla o rallegrarla
secondo che dimandassero le trattate passioni 2.
Il grande attore della tradizione ottocentesca è l’attore creatore, autore dello spettacolo non meno
dello scrittore. È un fenomeno non solo italiano, ma diffuso in tutta l’Europa occidentale, in Russia,
negli Stati Uniti, fiorito dai primi anni dell’Ottocento (in Italia, un po’ in ritardo, verso la metà del
secolo), fino all’inizio del Novecento e all’avvento della regia. Malgrado la sua importanza
coreutica e culturale, il teatro dell’attore-creatore è oggi spesso dimenticato, come se avesse poca
parte nella storia del teatro. La fama dei grandi attori è spesso ricordata con diffidenza, quasi fosse
una fama usurpata, nata da un’infatuazione episodica e superficiale da parte degli spettatori, e dallo
strapotere dell’attore e dalla mancanza di quella unificazione dello spettacolo (il “regista”) in grado
di gareggiare con l’attore, restituendolo a più giuste dimensioni.
Il teatro del grande attore ottocentesco non è però teatro di abusi e di mancanze. È un’arte
diversa, complessa, che in Italia era stata protagonista dello spettacolo anche in altri momenti storici
(nel Cinque e nel Seicento, con la Commedia dell’Arte), che in altri periodi era sembrata quasi
1
Mario Apollonio, Storia del teatro italiano [1938-50], Sansoni, Firenze 1981, pp. 58-9.
Luigi Rasi, I cornici italiani. Biografia, Bibliografia, Iconografia, Fratelli Bocca (e poi Francesco Lumachi), Firenze
1897-1905, sv.
2
nascondersi, e che nell’Ottocento trovò le condizioni opportune per svilupparsi con particolare forza
e prepotenza, condizioni che erano quelle, pratiche e organizzative, fornite dalla struttura che si è
chiamata “per compagnie”. Il grande attore, in Italia, fu un fenomeno anche numericamente
imponente, completamente inserito, quasi previsto dal contesto teatrale, mentre all’estero assunse
più l’aspetto di una serie di eccezioni, necessariamente in attrito con le istituzioni esistenti
(l’esempio migliore è il contrasto con la Comédie Française da cui si sviluppò il caso Sarah
Bernhardt).
Questo cosiddetto “grande attore” in Italia s’era formato e, potremmo dire, era stato partorito, dalla lotta per la
sopravvivenza. Nella prima metà dell’Ottocento, le condizioni dell’attore drammatico in Italia erano tra le più misere
d’Europa. Coinvolto nel fallimento delle grandi compagnie stabili dell’età napoleonica, soverchiato dalla concorrenza
del melodramma e del balletto, privo d’un repertorio nazionale decente, ostacolato dalle censure, l’attore italiano a metà
del secolo è costretto a compiere una serie di scelte che condizioneranno la nostra vita teatrale per quasi un secolo. Le
scelte sono: abbandono degli schemi letterari e culturalistici adottati e promossi dalla Compagnia Reale Sarda; apertura
al repertorio straniero, meno costoso perché non si pagavano diritti, e più sicuro; accantonamento dell’idea di Stabile;
riorganizzazione del nomadismo e della compagnia basata sui ruoli, ripresa delle tournées all’estero 3.
La prima generazione dei “grandi attori” italiani è quella di Gustavo Modena (1803-1861) e di
Carlotta Marchionni (1796-1861) (quasi il carattere di precursori ebbero figure di qualche anno
precedenti, quella di Antonio Morrocchesi (1768-1838), primo grande interprete alfieriano, o di
Luigi Vestri (1781-1841), il più grande attore della sua epoca). Le altre generazioni si succedettero
a intervalli regolari: Adelaide Ristori (1822-1906), Antonio Petito (1822-1876), Tommaso Salvini
(1829-1915), Ernesto Rossi (1827-1896) erano di quasi trent’anni più giovani. Altri trent’anni ci
vollero per il formarsi della terza generazione, il cui vertice è rappresentato da Eleonora Duse
(1858-1924), da Ermete Zacconi (1857-1948) e da Ermete Novelli (1851 -1919), e fra i dialettali
Eduardo Scarpetta (1853-1925). Poi quella di Ruggero Ruggeri (1871-1953), di Angelo Musco
(1872-1937), di Emma (1875- 1965) e Irma Gramatica (1870-1962). Gli ultimi esponenti, ormai alla
fine del teatro di tradizione, furono Maria Melato (1885-1950), Gilberto Govi (1885 -1966), Ettore
Petrolini (1886-1936), Raffaele Viviani (1888-1950), Memo Benassi (1891-1957). Ognuna di
queste generazioni cercava di differenziarsi dalla precedente nello stile recitativo e nelle scelte di
repertorio: doveva quindi attendere che i vecchi fossero realmente fuori gioco per poter cominciare
ad affermarsi. Segno della potenza dell’abitudine a teatro, ma segno, soprattutto, della forza dei
protagonisti, superiore a quella della moda.
Nonostante la presenza dei precursori, e nonostante la genialità delle personalità successive, fu
la prima generazione a porre le fondamenta per la tradizione italiana dell’attore.
Dell’arte ereditata questi innovatori accentuarono soprattutto il “gioco di scena” illustrativo: riempirono emotivamente
lo spazio, facendo “parlare il corpo” per contrapposizioni plastiche e ritmiche (gesto/voce, occhi/capelli,
passo/controgesto, ecc.), e inventarono memorabili soluzioni a sorpresa (tipici i passaggi dalle composizioni armoniche
alle insensatezze prossemiche). Ma il grande attore fu soprattutto un risolutore. Primo: con l’arte del movimento si
appropriò degli spazi scenici concepiti per il melodramma, che avevano costituito un fattore di inferiorità per i
precursori. Secondo: professando il primato del personaggio e l’interpretazione come “incarnazione”, il grande attore
tolse legittimità alla fedeltà accademica al testo. Terzo: articolando il personaggio “incarnato” per momenti di
enigmatica riconoscibilità e procedendo per soluzioni empiriche “logicoanalitiche”, stimolò il pubblico —
tradizionalmente distratto — a un atteggiamento partecipativo, di autoproiezione. Quarto: esibendosi nell’atto di
sciogliere dei nodi interpretativi “insolubili”, mostrandosi capace di superare certe resistenze fisiche e agendo da
inimitabile, egli arrivò a creare un culto durevole della propria persona e a prevalere così sulle incertezze della fortuna
scenica 4.
Benché le differenze generazionali fossero importanti, si può tuttavia parlare dell’arte del grande
attore come di un “discorso ininterrotto”, condizionato molto più dalle necessità di sviluppare e
3
Alessandro d’Amico, L’attore italiano tra Otto e Novecento, in Petrolini. La maschera e la storia, a cura di Franca
Angelini, Laterza, Bari 1984, pp. 26-7.
4
Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze 1984.
variare le linee interpretative da una generazione all’altra di attori, che da stretti legami con le
poetiche di cui si facevano portavoce i testi teatrali 5.
I grandi attori rappresentarono anche il vertice decisionale ed economico del teatro: erano infatti
il richiamo più potente per il pubblico (di gran lunga più potente di quello di qualsiasi autore) in un
teatro che viveva di incassi; esercitavano un’influenza determinante nell’organizzazione e nella
scelta dei testi all’interno di ogni compagnia; svolgevano un’importante funzione pedagogica —
fatta di esempi e di consigli — nei confronti delle nuove leve; avevano nelle loro mani quasi tutto il
potere economico.
Questo loro peso nel teatro fece sì che si moltiplicassero le biografie, i libri di memorie (da cui
bisogna distinguere le monografie: gli esempi migliori sono probabilmente quella di Luigi Bonazzi,
Gustavo Modena e l’arte sua, Perugia 1863; e La Duse, di Luigi Rasi, Firenze 1901). Nascono
anche opere complessive, come la raccolta di Luigi Rasi, I comici italiani, [...], come pure [...] di
quelle che sono forse le due testimonianze successive più interessanti, l’opera di Silvio d’Amico e
quella di Mario Apollonio. Questo filone di studi ha continuato a svilupparsi anche dopo la
sparizione del fenomeno, sia come tentativo di un riordinamento complessivo6 sia come
ricostruzione dell’arte di un particolare attore 7. Dal 1979, inoltre, la rivista del Museo dell’attore di
Genova, “Teatro Archivio”, pubblica studi e materiali sull’attore. Più rari e più frammentari sono i
tentativi di studiare specificamente le tecniche di recitazione 8.
I comici stessi molto frequentemente, e con molta competenza, hanno scritto di sé. Si tratta non solo
di libri di memorie, ma anche di studi artistici in cui affrontano con serietà e acume i problemi
connessi alle loro o altrui interpretazioni, vere e proprie discussioni critiche (Giovanni Emanuel, ad
esempio, scrive un opuscolo sulle interpretazioni shakespeariane sue e di altri grandi attori 9). Un
documento unico rimane l’opera di Edward Tuckerman Mason10, in cui viene minutamente
ricostruita l’interpretazione del grande attore Tommaso Salvini. Il fatto stesso che un libro del
genere sia stato possibile mostra come la drammaturgia dell’attore fosse una vera composizione,
elaborata con gli anni, che rimaneva intatta nelle diverse messinscene, quali che fossero gli altri
interpreti. La drammaturgia dell’attore ottocentesco può appoggiarsi a ciò che Meldolesi 11 ha
chiamato la “sfasatura”, cioè una forma di attualizzazione politica (per Modena) o psicologica (per
la Ristori) del testo. Essa può anche basarsi su di un’opera di composizione autonoma dell’attore,
che aggiunge al testo altre ricerche secondo una vera e propria opera di drammaturgia (Luigi
Bonazzi, nel suo Gustavo Modena e l’arte sua, Perugia 1865, ricorda ad esempio come Modena si
servisse, per l’interpretazione del Saul, più dell’Antico Testamento che del testo di Alfieri; e
Adelaide Ristori nei suoi Ricordi e studi artistici, Torino 1887, parla di un lungo lavoro sui quadri e
sui libri di storia — e non certo solo sul testo di Schiller, ma anzi perfino in contrapposizione ad
5
Cfr. in particolare D’Amico, L’attore italiano tra Otto e Novecento, cit.
Cfr. in particolare Vito Pandolfi, Antologia del grande attore, Laterza, Bari 1954, e Giovanni Calendoli, L’attore.
Storia di un’arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1959. Cfr., inoltre, per un panorama complessivo non solo italiano,
Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1991; e Roberto
Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988.
7
Cfr. Claudio Meldolesi, Profilo di Gustavo Modena. Teatro e rivoluzione democratica, Bulzoni, Roma 1971; Cesare
Molinari, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli, Bulzoni, Roma 1985; Mirella Schino, Il
teatro di Eleonora Duse, Il Mulino, Bologna 1992.
8
Ferdinando Taviani, Alcuni suggerimenti per lo studio della poesia degli attori nell’Ottocento, in “Quaderni di teatro”,
21-22, agosto-novembre 1983; e Cesare Molinari, Teorie della recitazione: gli attori sull’attore. Da Rossi a Zacconi, in
AA.VV., Teatro dell’Italia Unita, Il Saggiatore, Milano 1980; di nuovo Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit.
9
Giovanni Emanuel, Rossi o Salvini, Bologna 1880, pubblicato con lo pseudonimo John Weelman di Terranova. Cfr.,
inoltre, Adelaide Ristori, Ricordi e studi artistici, Torino 1887; Ernesto Rossi, Studi drammatici e lettere
autobiografiche, Firenze 1885, e Quarant’anni di vita artistica, Firenze 1887-89; Tommaso Salvini, Ricordi; aneddoti
ed impressioni, Milano 1895; Ermete Zacconi, Ricordi e battaglie, Milano 1946. Cfr. anche i trattati di recitazione di
due attori dai particolari interessi pedagogici, Alemanno Morelli, Note sull’arte drammatica rappresentativa, Milano
1862; e Luigi Rasi, L’arte del comico, Milano 1890.
10
Edward Tuckerman Mason, The Othello of Tommaso Salvini, New York-London 1890.
11
Meldolesi, Gustavo Modena cit.
6
esso — da cui era scaturita la sua realizzazione della Maria Stuarda). La drammaturgia dell’attore
implica una forma di personalizzazione della parte, trasformata in materiale per una creazione
coerente e artisticamente personalizzata (sono elementi, questi, che ritornano tutti, amplificati,
anche nel grande filone degli attori dialettali). L’autonomia creativa dell’attore è spesso anche
autonomia ideologica o personale.
Spesso gli attori furono legati ai movimenti risorgimentali. La biografia certo più significativa è
quella di Gustavo Modena, il quale aprì la serie dei grandi attori italiani. Il suo esempio fu
fondamentale, la sua influenza determinante. Certamente i suoi successori non seguirono i suoi
insegnamenti, ma senza di lui sarebbe mancato loro l’esempio da cui differenziarsi, il primo nucleo
di una tradizione da arricchire 12. Modena fece scuola, anche in senso stretto: nel 1843, senza tener
conto di possibilità più immediatamente vantaggiose (più tardi rifiuterà anche un’offerta della più
grande attrice dei suoi tempi, Adelaide Ristori) organizzò una compagnia di giovani, formata da
elementi scelti, esperienza che ripeté nel 1847 (alcuni di questi giovani, Tommaso Salvini, Fanny
Sadowsky, Ernesto Rossi, divennero poi altrettanti capiscuola e attori famosi). Anche questa
propensione alla pedagogia, soprattutto nei confronti dei futuri attori, fu un tratto fondamentale
della tradizione italiana.
Gustavo Modena fu anche un esempio, raro in Italia, di attore colto e impegnato politicamente
(mazziniano e combattente, rimase molti anni in esilio, lontano dall’Italia). Tuttavia i drammi in cui
più frequentemente si propose al pubblico (Luigi XI, di Delavigne; Bianca Cappello e Spazzacamini
della Valle d’Aosta, di Sabbatini; La calunnia, di Scribe, e perfino i “concerti” in cui recitava brani
della Divina Commedia) non sono a prima vista le scelte che ci si aspetterebbe da questa cultura e
da questo impegno. Si può dire (malgrado l’eccezione rimarchevole del Saul e Filippo di Alfieri e
del Maometto di Voltaire) che non entrò a far parte del suo repertorio nulla di quello che un uomo
colto interessato al teatro avrebbe considerato l’antologia della letteratura drammatica più degna e
rappresentativa per l’Italia. Non entrarono a far parte del repertorio di Modena neppure testi politici,
o da lui notoriamente amati (ad esempio si cimentò una sola volta in Shakespeare, nell’Otello).
Essendo certamente da escludersi, nel suo caso, motivazioni commerciali, Modena diventa forse il
miglior esempio di come il grande attore fosse cosciente (ed agisse di conseguenza) di una profonda
spaccatura tra i propri gusti personali, di lettore, e magari di spettatore, e le proprie esigenze di
attore.
L’attività politica di Modena ebbe un’influenza certamente importante, ma più mediata, sulle sue
scelte artistiche. L’abitudine a un secondo interesse, più pressante ancora del teatro, favorì
probabilmente il suo rifiuto di ogni ricezione passiva dei suggerimenti che gli fornivano la
tradizione o il testo. Cominciò a svilupparsi in questo modo, come un atteggiamento mentale di
rifiuto, uno dei fulcri dell’arte del grande attore: l’imprevedibilità, l’autonomia, la mancanza di
docilità anche in scena13. Modena creò una recitazione basata su di una composizione quasi
musicale di toni e di frammenti, del tutto indipendente (e anzi perfino contraddittoria) rispetto al
testo (questa sarà una linea fondamentale per il grande attore: Eleonora Duse la sviluppò fino ai suoi
limiti estremi, sfasando il ritmo anche della singola frase, e sfruttando soprattutto pause “alogiche”
e silenzi). Fondò, per l’attore, un tipo di atteggiamento forte e non consenziente, fatto di autonomia
dalla tradizione, dal pubblico, dai gusti e dalle tendenze correnti, che sarà poi tipico dei più
interessanti tra i grandi attori.
Usò il suo notevole e riconosciuto talento per la scrittura per prendere le distanze dalle abitudini
teatrali correnti: mentre gli attori scrivevano abitualmente memorie, o trattati di recitazione, o brevi
scritti di tono ameno, Modena si limitò testardamente alle lettere e ad articoli d’intervento.
L’attore dell’Ottocento era innanzitutto indipendente. In senso stretto non lo si potrebbe neppure
definire un interprete. Sulla sua recitazione influiva più l’insieme delle parti (il modo in cui diversi
12
Claudio Meldolesi, Modena rivisto, in “Quaderni di teatro”, 21-22, agosto-novembre 1983, numero monografico: La
poesia dell’attore ottocentesco.
13
Ibid.
personaggi, immaginati da autori diversi, entravano in reciproca relazione all’interno del repertorio)
che non i singoli testi. Le scelte in base alle quali veniva composto un repertorio non erano scelte di
gusto letterario, ma non erano né casuali né dettate da vanità o da ragioni di opportunità.
Rispondevano sì alle esigenze commerciali, ma anche a quelle professionali dell’attore.
Esercitandosi con continuità nell’ambito di uno stesso “ruolo”, in un repertorio ben assortito, egli
acquistava l’esperienza per “creare” la sua parte mediante accostamenti inaspettati di toni forti e
morbidi, mediante richiami e associazioni, mediante caratterizzazioni diverse e impreviste anche
dall’autore. Lo spettacolo, l’attrattiva per il pubblico, nasceva proprio dall’intreccio di queste
diverse drammaturgie parallele.
Ma questa mancata sottomissione a ciò che spesso è considerato il materiale nobile del teatro, il
testo letterario, spesso fa sì che si parli in termini negativi, con incomprensione, del mestiere
dell’attore. Un modo di guardare al teatro dell’Ottocento che si è trasmesso fino ai nostri giorni e
per cui l’attore creatore è spesso confuso con il “mattatore”. Nell’affermare l’esigenza critica dello
spettacolo come opera d’arte unitaria (e cioè il moderno concetto di regia) si è parlato con fastidio
crescente dei “vizi” del palcoscenico italiano, senza rendersi conto di come arte e vizi fossero le due
facce di uno stesso fenomeno: l’autonomia creativa dell’attore che implica una produzione e una
organizzazione teatrale diversa, ma non per questo inferiore, nel gusto e nel modo di produzione, a
quella che passerà nel Novecento.
A questo difficile e non di rado distruttivo passaggio sono dedicati gli studi di Gigi Livio
raccolti in La scena italiana 14, che abbracciano un arco di tempo che va da Gustavo Modena a
Petrolini; e il volume di Roberto Alonge 15, che significativamente, dopo il capitolo dedicato al
“grande attore”, intitola un capitolo al passaggio Dall’industria dello spettacolo allo spettacolo
dell’industria per significare «l’avvento della regia».
14
15
Gigi Livio, La scena italiana. Materiali per lo spettacolo dell’Otto e Novecento, Mursia, Torino 1989.
Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, cit.
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