la Biblioteca di via Senato
mensile, anno v
Milano
n.12 – dicembre 2013
SUL “PRINCIPE”
DI MACHIAVELLI
Le rovine dello
stato moderno
di claudio bonvecchio
Machiavelli
e Moro: utopia
e realismo
di gianluca montinaro
Il mercatante
Machiavelli
di vittore branca
Machiavelli,
sociologo
ante litteram
di carlo gambescia
Niccolò
Machiavelli,
primo
costituente
di teodoro klitsche
de la grange
Niccolò
Machiavelli
in prima classe
di giancarlo petrella
SPECIALE V CENTENARIO 'PRINCIPE' DI MACHIAVELLI
Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione
la Biblioteca di via Senato – Milano
MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO V – N.12/46 – MILANO, DICEMBRE 2013
Sommario
6 Sul Principe
LE ROVINE DELLO STATO
MODERNO
di Claudio Bonvecchio
10 Sul Principe
MACHIAVELLI E MORO:
UTOPIA E REALISMO
di Gianluca Montinaro
14 Sul Principe
IL MERCATANTE
MACHIAVELLI
di Vittore Branca
18 Sul Principe
MACHIAVELLI, SOCIOLOGO
ANTE LITTERAM
di Carlo Gambescia
22 Sul Principe
NICCOLÒ MACHIAVELLI,
PRIMO COSTITUENTE
di Teodoro Klitsche de la Grange
prima parte
26 Sul Principe
NICCOLÒ MACHIAVELLI
IN PRIMA CLASSE
di Giancarlo Petrella
33 IN SEDICESIMO – Le rubriche
LE MOSTRE – LO SCAFFALE
a cura di Luca Pietro Nicoletti
50 Punture di penna
CONSIGLI INTELLETTUALI
PER IL VERO
MAÎTRE À PENSER
di Luigi Mascheroni
54 Il libro del mese
LA PRIMA REPUBBLICA:
UNO SGUARDO
RETROSPETTIVO
di Giuseppe Bedeschi
61 Editoria
MONDADORI, EDITORE
A VOLTE “NON VENALE”
di Massimo Gatta
terza parte
65 L’altro scaffale
STORIA, SPIONAGGIO,
POLITICA E MEMORIE
NASCOSTE
di Alberto Cesare Ambesi
68 Filosofia delle parole e delle cose
LA VERITÀ DEFINITIVA
E LA GIUSTIZIA ETERNA
di Daniele Gigli
70 BvS: il ristoro del buon lettore
FRA STENDHAL
E I FARNESE
di Gianluca Montinaro
72 HANNO COLLABORATO
A QUESTO NUMERO
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Immagine di copertina
Frontespizio della raccolta aldina
delle opere di Niccolò Machiavelli,
stampata a Venezia, dalla celebre
tipografia Manuzio, nel 1540
(Milano, Biblioteca di via Senato)
Stampato in Italia
© 2013 – Biblioteca di via Senato
Edizioni – Tutti i diritti riservati
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11/03/2009
L’Editore si dichiara disponibile a regolare
eventuali diritti per immagini o testi di cui
non sia stato possibile reperire la fonte
Editoriale
G
iusto 500 anni fa, nel dicembre
del 1513, Niccolò Machiavelli
terminava la stesura del Principe.
Scrivendo all’amico Francesco Vettori,
in una lettera datata 10 dicembre, dice di aver
«composto uno opuscolo De principatibus»
ove si descrive «che cosa è principato,
di quale spezie sono, come si acquistano,
come si mantengono e perché si perdono».
A distanza di cinque secoli si può affermare
come questo libro (amato e dibattuto) sia stato
fondamentale nell’evoluzione del pensiero,
della filosofia e dell’arte di governo.
La Biblioteca di via Senato è quindi lieta
di ricordare questo straordinario personaggio
e i suoi scritti. Lo fa con questo numero della
rivista, con una conversazione a più voci
(Piero Ostellino, Giancarlo Petrella e Gianluca
Montinaro) sulla sua eredità intellettuale
e con una mostra delle principali edizioni
antiche e moderne del Principe che si terranno
entrambe il 9 dicembre in questa Biblioteca.
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Sul Principe
LE ROVINE DELLO
STATO MODERNO
Sull’inattualità della politica machiavelliana
CLAUDIO BONVECCHIO
P
arlare oggi di Machiavelli e su Machiavelli è
cosa ardua: inutile nasconderselo. Dopo secoli di studi, interpretazioni, precisazioni, adesioni, confutazioni, esaltazioni ed anatemi qualunque
cosa si possa (o si voglia) dire sul
grande fiorentino rischia di risolversi in una mera ripetizione
di un “già detto” o, ancora peggio, in una banalità: spacciata
per originalità, come spesso avviene. Oppure, si cade in un puro esercizio retorico che - come
i “traduttor de’ traduttor d’Omero” di foscoliana memoria,
ma al negativo, questa volta continua a ripetere, pedissequamente, ciò che già
si conosce. Magari, spacciandolo per novità. E
non farebbe meraviglia. Detto questo, si potrebbe
chiudere definitivamente ogni aperçu su Machiavelli, dedicandosi ad altro. Il che è tanto plausibile
quanto possibile. Eppure, qualche osservazione è
Nella pagina accanto: Antonio Maria Crespi
(1580 ca.– 1630), Ritratto di Niccolò Machiavelli, Milano,
Pinacoteca Ambrosiana. Sopra: Il Principe (in una edizione
del 1842, stampata a Capolago, dalla Tipografia Elvetica),
frontespizio (Milano, Biblioteca di via Senato)
ancora lecito avanzarla. Non
tanto su quello che ha scritto
Machiavelli - c’è, in fondo, poco
da dire - ma piuttosto se hanno
ancora senso quelle idee da cui,
bene o male, ha preso origine lo
Stato moderno: quello che, anticipato da Machiavelli, sarà
poi, in un certo senso, codificato
da Hobbes. E che, con alterne
sorti, è giunto sino a noi. Questo è il punto. Lo Stato così come ha iniziato a prefigurarlo
Machiavelli - ossia libero da
ipoteche morali e religiose e teso a conservarsi per il bene proprio e per il benessere dei suoi
sudditi - è ancora lo Stato in cui
viviamo? La risposta, senza troppe circonlocuzioni, è chiaramente negativa. Lo Stato quale lo pensava in nuce Machiavelli - libero e potente, forte,
coraggioso e spregiudicato, come molti dei principati italiani dell’epoca - è, oggi, solo uno dei
tanti sogni di “visionari spiegati coi sogni della
metafisica”: come si potrebbe affermare, parafrasando Kant. Da tempo, lo Stato moderno è in
agonia, se non è già morto del tutto: come ricordava, profeticamente, dopo il 1989, Gianfranco
Miglio. Nel mondo occidentale - e l’Italia non fa
certo eccezione - lo Stato, rinunciando alle sue
8
storiche prerogative machiavellico-hobbesiane,
prima è diventato il braccio armato della borghesia, poi si è trasformato nel supporter dei Totalitarismo, infine si è trasformato nel terreno di scontro di bande ideologizzate e partitocratiche. Sono
le tribù dei burocrati di ogni ordine e grado, dei
magistrati (in Italia, soprattutto), dei banchieri,
degli esponenti delle varie corporazioni, dei politici voraci e autoreferenziali. Sono tutti accomunati dalla protervia, dalla ignavia e dal desiderio di
“assaltare la diligenza” rappresentata da quel che
resta dello Stato: oramai simile al “cavaliere inesistente” dell’omonimo racconto di Calvino. Lo
Stato è così paragonabile a un guscio vuoto che
crede di essere pieno. I principi quali vagheggiava
il segretario fiorentino sono da tempo scomparsi.
Ma è scomparsa anche la giustizia, a cui Agostino
affidava il difficile compito di garantire le basi etiche della statualità: «Remota justitia, quid sunt regna
nisi magna latrocinia?». A entrambi si è sostituita la
dittatura di una opinione pubblica vezzeggiata e
manipolata da persuasori occulti che non assomigliano al “machiavellico” cardinale di Richelieu,
ma a bottegai desiderosi di ampliare la clientela. E
disposti, per questo, a qualsiasi
spericolata manovra: pur di ottenere il risultato prefissato. Un risultato certo raggiunto grazie alla comunicazione di massa, all’audience televisiva e al sapiente
utilizzo della propaganda. La
grandiosa politica quale la pensava il Machiavelli - fatta da astute “golpi” e da forti “lioni” che si
fronteggiavano in potlach di livello - non esiste più: da tempo.
Si è ridotta ad un brulichio di topi nel formaggio: che cercano
sempre di divorare quel che trovano e pronti ad abbandonare la
nave al primo sentore di crisi. La
sacralità dello Stato - quella che
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
bene o male era stata la base dello jus publicun aeropaeum e della modernità ad esso connesso - si è del
tutto svaporata, insieme alla grande cultura che ne
era il portato e il sostegno. Come è oramai noto, la
cultura dello Stato moderno era quella borghese:
una cultura che, proprio, appoggiandosi allo Stato
aveva ridimensionato prima e distrutto poi la diade
trono/altare su cui si basava l’ancien régime. E aveva
anche costruito un modello in cui istruzione, etica
e cultura erano il trinomio su cui articolare la ricerca del bonum commune: che è, poi, il fine ultimo della statualità. La sua scomparsa ha provocato (e provoca) un vero e proprio abisso culturale in cui precipita quello che resta dello Stato moderno o, meglio, parafrasando l’Angelus Novus di Walter Benjamin, le “sue rovine”. Ciò che ne emerge è una
realtà che lascerebbe esterrefatto il povero Machiavelli perché, in un certo senso e in forma peggiorativa, riporta indietro l’orologio della storia.
Riporta ad una condizione quasi pre-machiavellica, priva però di quella allure di grandiosità teologica che era il carattere precipuo dei regna medioevali e dell’impero. Infatti, lo Stato - più precisamente, quel che ne resta - sono diventati un disordinato coacervo di piccoli e
grandi feudi in cui vassalli, valvassori e valvassini di un immaginario (e inesistente legittimo
Signore) si contendono il potere
o quello che si illudono essere il
potere. In questo quadro, ha
preso forza una dimensione
para-spirituale che si estrinseca,
per un verso in una “cupa religione della tecnica” - come la
chiamava sprezzantemente Carl
Schmitt - e per un altro verso
nella altrettanto cupa religione
del consumo: materiale, spirituale, etico e morale. Entrambe
hanno i propri dogmi, la propria
ecclesiologia, le proprie liturgie,
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
9
Sopra da sinistra: Incipit e frontespizio del Principe, da una rara raccolta di opere di Niccolò Machiavelli,
stampata nel 1537, senza indicazioni editoriali. Nella pagina a sinistra: pagina finale del volume del 1537
(Milano, Biblioteca di via Senato)
i propri precetti, i propri tribunali, i propri Santi e
anche le proprie - e non certo meno crudeli del passato - istanze inquisitorie. Ad esse e alla legittimità
che conferiscono fanno capo i nuovi feudatari che
governano con mano ferrea i loro feudi, colpendo
con l’ostracismo mediatico e con la spada della giustizia chi si pone in controtendenza. Allo Stato è rimasta la prerogativa di essere il loro contenitore:
come un impero senza imperatore. O come la “terra desolata” dell’epopea del Graal, priva di un punto di riferimento perché priva di una vera sovranità.
Detto questo - che è l’amara realtà - possiamo tran-
quillamente tornare al vecchio Machiavelli e rileggendolo maturare la speranza che un “nuovo” Machiavelli possa consentirci di sperare in una rinascita e nel sorgere di una nuova statualità, migliore (si
spera) della precedente. Certamente, però, se questo avverrà - e non è proprio il caso di illudersi - non
sarà facile né a costo zero. Tutte le grandi trasformazioni storiche - come quelle che stanno avvenendo sotto i nostro occhi - sono come i parti alla
“vecchia maniera” e non indotti: implicano cioè un
lungo travaglio e grandi dolori. Non bisogna dimenticarlo.
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sul Principe
MACHIAVELLI E MORO:
UTOPIA E REALISMO
Due modelli fra conservazione e libertà
GIANLUCA MONTINARO
F
ra la stesura del De principatibus (1513) di Niccolò
Machiavelli e la pubblicazione dell’Utopia (1516) di Tommaso Moro corrono solo tre anni. In tanti hanno “letto” queste
due opere in antitesi fra loro. Da
una parte il realismo del Segretario fiorentino, dall’altra l’idealismo del lord Cancelliere. Da un
lato la spregiudicatezza rinascimentale, dall’altro l’afflato ancora umanistico. Su una sponda
l’approccio laico alla politica, sull’altra la visione ancora religiosa
della società.
Nel corso dei secoli una sorte ben differente è
toccata ai due estensori. Santificato Tommaso Moro, e assunta a modello di Stato giusto e perfetto la
sua isola, demonizzato Machiavelli, e additato come
opera di Satana il suo “aureo libretto”. Mandante
occulto di stragi, fautore dell’eliminazione della
classe nobiliare, ideatore del “diabolico calcolo
principesco”, ispiratore dell’assolutismo reale, fino
a giungere al “grave” teorico di totalitarismi e sanguinarie dittature, nessuna accusa è stata risparmiata
a Machiavelli. Tutte queste, se ridotte a una, si possono condensare nell’essere l’empio propugnatore
di una nuova politica che in nessun conto terrebbe la
morale. È sufficiente però una citazione da un saggio
del 1945 di Augusto Del Noce,
Problemi della democrazia, per
spazzare via buona parte dei perniciosi capi di imputazione: «Si
parla di machiavellismo: ma Machiavelli si limita a dire che la ‘politica non ha rapporti con la morale’, mentre la formula di ogni totalitarismo, di destra come di sinistra, è piuttosto: ‘la politica determina la morale’».
E allora eccoci di nuovo al
punto di partenza. Perché a Machiavelli vengono caricate sì tante
colpe?
A ben vedere al De principatibus una sola accusa si può muovere: quella di guardare, per sua stessa ammissione, «la verità effettuale
della cosa» piuttosto che «alla immaginazione di essa». Ma in fondo questa non può essere un addebito,
se non per coloro che - in malafede - hanno paura
della verità. Se non per coloro che la temono. Se non
per coloro che, sulle fole e sull’inganno, costruiscono la propria (e spesso anche la altrui) esistenza.
Il De principatibus è quindi un’opera che constata la realtà, ne tratteggia i contorni, ne fornisce
una disillusa chiave di lettura, ne interpreta i protagonisti e i comprimari, disegnando un mondo, terribilmente reale (ma tutt’altro che diabolico), ove non
esistono innocenti. Ove tutti sono “naturalmente”
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Sopra da sinistra: Antonio Maria Crespi (1580 ca.– 1630), Ritratto di Niccolò Machiavelli, Milano, Pinacoteca Ambrosiana;
frontespizio delle Historie di Niccolò Machiavelli (Venezia, Bindoni e Pasini, 1537) Milano, Biblioteca di via Senato.
Nella pagina accanto: Hans Holbein il Giovane (1498–1543), Ritratto di Tommaso Moro, 1527, New York, Frick Collection
tesi alla «preservazione» propria, pena «la ruina».
Ove ognuno è, come sulla scena di un teatro greco,
colpevole non per uno specifico delitto ma per propria parte, ovvero per propria stessa esistenza. Il
principe è invitato a prendere atto di un mondo governato per metà dall’istinto di conservazione e, per
l’altra metà, indipendentemente dall’uomo, dal fato. È invitato a conformare il proprio agire politico
(che deve avere come fine ultimo la conservazione
dello Stato) non supinamente alla morale ma alla
scaltrezza, imparando anche «a potere essere non
buono, et usarlo e non usare secondo necessità».
Un’opera, il De principatibus, che non è fatta per i po-
litici, che giocoforza abitano la menzogna e l’inganno, ma per i “grandi uomini”, i virtuosi, i megalandroi, per coloro che vivono senza paura nella verità.
Un’opera quindi che è pura teoria. Un’opera, usando le parole di Giorgio Spini, «molto utopica e molto poco utopistica».
Tanta differenza dal testo di Tommaso Moro?
Forse no. Anche nel testo dello scrittore inglese si
tratteggia una realtà fatta di chiaroscuri, eretta nella
dicotomia fra l’Inghilterra d’inizio Cinquecento
(con i suoi gravi problemi di povertà, di ingiustizia,
di inaffidabilità delle strutture politiche) e la solare
perfezione dell’isola di Utopia, un assoluto posto al
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Da sinistra: Frontespizio della prima edizione del Principe (Roma, Antonio Blado, 1532); frontespizio Mandragola (1537)
di là di un mare tanto vasto quanto impraticabile.
Così come il lord Cancelliere immagina nell’isola di Utopia una possibile soluzione ai vasti travagli dell’Inghilterra dei Tudor, anche il Segretario
fiorentino teorizza un “principe nuovo” che possa
attraversare sicuro il mondo infido e pericoloso.
Due opere nate in contesti molto differenti fra loro
ma che - entrambe - dalla analisi della realtà fattuale,
sviluppano una analoga tensione propositiva.
Tommaso Moro sapeva non esportabile sulla
terraferma il modello utopiano. Ma la non realizzabilità nulla toglie al valore intrinseco del modello.
Anzi, proprio in virtù di ciò, l’isola di Utopia poteva
essere la fonte ispiratrice di quelle riforme (certo più
parziali, umane e terrene) che avrebbero migliorato
l’Inghilterra. Così il principe di Machiavelli: modello perfetto ma irraggiungibile: fonte di “utopica”
ispirazione per coloro che - uomini di governo o comuni cittadini - vogliono (allora come ora) gettare
uno sguardo, come dentro un cratere, sulla realtà
più dura e più reale.
Due opere che sono utopia pura. E che, rifuggendo la velleità deleteriamente utopistica di inveramento nella realtà, lasciano liberi gli uomini di accettare secondo gradi differenti le proposte dei modelli, di scegliere i modi e i tempi dell’ispirazione, di
preferire una soluzione piuttosto che un’altra. Nella
convinzione che l’utopia non sia un modello da erigere come un idolo ma una coraggiosa via di libertà
individuale.
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sul Principe
IL MERCATANTE
MACHIAVELLI
Una proposta di lettura per Il Principe
VITTORE BRANCA
«Fa che ogni in dì un’ora il meno tu
istudi Vergilio, Boezio, Senaca e altri
autori…; arai gran consolazione nell’anima tua, gran gaudio e gran dolcezza, isprezzerai il mondo, non arai
pena di cosa che t’avvenga, sarai
franco e saputo a’ rimedi salutiferi e
buoni… Puoi pigliare sempre da un
valente romano o altro valente che
arai studiato. Ma non è possibile
attingere da questi quanto da che
vedi coll’occhio… in queste cose che
noi abbiamo a usare noi, che sono più
materiali…»
N
on solo consolazione e
conforto spirituale, fra
piccoli e grandi traffici,
lo studio e la meditazione per
questi borghesi fiorentini, come i
Morelli e i Ruccellai e i Machiavelli. Sono anche regola di vita,
fonte di azione e di opere: proprio come per Niccolò saranno
«cibo che solum è mio e che io
nacqui per lui» mentre scriverà Il
Principe fra acquisti e vendite di
«tordi», «legne», «buoi», fra i vini e i giochi popolari all’osteria
(«domandavali della ragione del-
Presentiamo qui parte
dell’introduzione di Vittore
Branca alla prima edizione
assoluta per l’Italia del “Principe
di Niccolò Machiavelli, annotato
da Napoleone Buonaparte”
(Milano, 1992), terzo volume
pubblicato nella collana
«Biblioteca dell’Utopia», edita
dalla Silvio Berlusconi Editore.
Copie dell’edizione in brossura
(pp. 270) sono disponibili al
prezzo di 15 euro (spedizione
compresa). Le richieste possono
essere effettuate all’indirizzo:
[email protected]
le loro azioni» e «notava quello di
che per la loro conversazione ho
fatto capitale»). Ma realisticamente quel solido mercatante che
è Giovanni Morelli, accanto «alle
antique corti degli antiqui uomini» pone - come poi Niccolò accanto alla «continua lezione delle
antique» - soprattutto la esperienza diretta e sofferta di quelle
«cose che noi abbiamo a usare noi
che sono più materiali…» cioè la
«lunga esperienza delle cose moderne». Sono proprio quelle che
vivono e scontano Bernardo e suo
figlio Niccolò, trenta-quaranta
anni dopo, e che saranno poi spiegatamente richiamate introducendo Il Principe.
Sotto il mantello di «panno
garbo, tanè tintilano» già sembrano così vivere nel giovane
Niccolò «due persone diverse
quasi con impossibile coniuzione
congiunte» (come poi lo stesso
Machiavelli
scriverà
del
Magnifico): il meditativo intellettuale e il realista spregiudicato
e concreto tutto «cose… materiali», tutto «realtà effettuali».
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
L’uno continua a leggere e a
osservare e a annotare i testi antichi (oltre Livio, Lucrezio e
Giustino, pure Boezio e
Cicerone e Virgilio, come il
Morelli consigliava) anche alla
luce delle tempestose vicende di
quegli anni fra il tramonto del
Magnifico, l’uragano della calata
di Carlo VIII, le apocalittiche
profezie del Savonarola, gli scontri delle fazioni cittadine. L’altro,
prima nei piccoli commerci
familiari e poi nella vita pubblica
della Cancelleria fiorentina e nelle missioni presso
il Valentino e l’imperatore Massimiliano e in
Francia, osserva e registra, diviene conoscitore «e
delli vizi umani e del valore». Fa, come prescrive-
15
Nella pagina accanto: Vittore Branca
(1913-2004). Sopra da sinistra:
Nicolò Machiavelli in un’incisione
d’epoca (fine XIX secolo). Copertina
dell’edizione in brossura del Principe
(Milano, Silvio Berlusconi editore,
1993). Accanto: Carlo VIII di Francia,
Scuola Francese del XVI secolo,
Chantilly, Musée de Conde
vano il Morelli e Giovanni
Rucellai, diretta «esperienza
delle cose moderne» che - dirà
preludendo al Principe - avvedutamente confronta con la «lezione delle antique».
E fa chiamare nel 1505, con spregiudicata
Realpolitik, il più famigerato degli sgherri del
Borgia, don Micheletto, nella speranza di consoli-
16
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sopra da sinistra: Stefano Ussi (1822-1901), Niccolò Machiavelli nello studio (1894), Roma, Ministero del Tesoro
(fotografia d’epoca); Scuola Fiorentina del XVI secolo, Busto di Niccolò Machiavelli (terracotta policroma), Firenze,
Palazzo Vecchio (fotografia d’epoca)
dare con il suo spietato rigore le milizie cittadine e
l’autorità dello stato fiorentino.
Sono le situazioni e gli atteggiamenti che, com’è noto, si riflettono nelle sue opere maggiori,
quando, dopo la fine della Repubblica per il ritorno
dei Medici (1512), Niccolò è licenziato, carcerato,
confinato a Sant’Andrea in Percussina, all’Albergaccio. È il podere paterno dei «caciolini» e del
«vin vermiglio» della sua fanciullezza; e sul tavolo
sono ancora quel Livio occhieggiato assiduamente
sullo scrittoio paterno, e quei ricordi domestici annotati insistentemente nella sua schiatta e nei consorti Niccolini e Minerbetti e Nelli, fino a quelli
vergati da Bernardo mentre sfogliava Livio e Virgi-
lio e Giustino. Si immerge proprio allora Niccolò
nella riflessione storico-politica e nella creazione
delle sue opere più decisive, i Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio e Il Principe (o meglio, secondo il titolo originale, De principatibus).
Nonostante le situazione mercatantesche e
bancarie diverse dopo mezzo secolo, nonostante
l’ostentato umanistico distacco dagli interessi
economici, è sempre però presente in lui, accanto
alle tradizioni classiche e letterarie, anche quella
dei «ricordi» e delle «pratiche» e delle «ragioni»
domestiche e mercantili accumulatesi lungo le
tempeste politiche e economiche da metà
Trecento in poi. Campeggiavano quelle procello-
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
se vicende, con straordinaria vivacità, oltre che
negli storici venuti dopo i Villani (e studiati
recentemente in relazione al Machiavelli dal
Matucci), in quei ricordi familiari canonici e fitti
della borghesia fiorentina fra XIV e XV secolo (e
campeggiavano pure in quelli del padre
Bernardo). Sono ispirati soprattutto - come rileva
sonoramente il Morelli - dall’esperienza politica,
economica, sociale più vissuta e più quotidiana e
non da riflessioni intellettualistiche o astratte.
È appunto in forza di questo realismo tutto attuale che accanto alla «ragion di mercatura» e alla
«ragion di famiglia», dominanti fino ai primi del
Quattrocento, va facendosi in qualche modo strada
quella cinquecentesca «ragion di stato» teorizzata
dal Botero ma che già chiaramente si profila nei ricordi di Bonaccorso Pitti (1354-1432) e del Rucellai. Il mercatante è sempre più teso al gioco politico
da cui dipendono «monti»(titoli di debito pubblico) e «prestanze», tasse e contribuzioni, avvii a relazioni e a traffici europei e a concessioni di monopoli
e privilegi. Potere economico e potere politico
stanno compenetrandosi e condizionandosi. «Il
Comune è più governato… negli scrittoi che nel
Palagio» osservava a metà secolo Giovanni Cavalcanti nelle Istorie fiorentine. «La cura della città e
dello Stato… accettai solo per conservazione delle… sustanze nostre, perché a Firenze si può mal vivere ricco senza lo Stato» annotava poi, aprendo i
suoi Ricordi segreti e familiari, lo stesso Lorenzo de’
Medici. Il Comune è in piena crisi di fronte alle potenti schiatte e ai loro principi. Lo Stato ha ormai
sostituito la grande famiglia di famiglie della borghesia «grassa» che costituiva e dirigeva l’antico
Comune. E quella nuova «ragione», convergendo
con quella della mercatura e del guadagno (ancora
prioritaria nel Datini), balza rapidamente in primo
piano e impone un protagonismo più assoluto, ormai da vero principe. È questa la figura che sempre
più prepotentemente si affaccia come esemplare,
non in senso astratto o eroico ma sull’esperienza diretta e sofferta della vita civile, persino nei riferi-
17
Pagina iniziale del Principe di Niccolò Machiavelli
(Milano, Silvio Berlusconi editore, 1992) con l’indicazione
della presenza, nell’opera, degli appunti di Napoleone,
per la prima volta tradotti in Italia
menti d’obbligo agli antichi: «se venisse a quello
sommo grado [dello Stato] allora ti consiglio t’ingegnassi somigliare i nostri padri signori romani, ché
come da loro siamo discesi per essenzia, così dimostrassimo in virtù e sustanzia» ammoniva fin dal
1440 il Morelli rivolgendosi al figlio.
Tratto dal terzo volume della collana
«Biblioteca dell’Utopia»: Il Principe di Niccolò
Machiavelli, annotato da Napoleone Buonaparte,
introduzione di Vittore Branca, commento di
Ermanno Paccagnini, Milano, Silvio Berlusconi
editore, 1992.
18
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sul Principe
MACHIAVELLI, SOCIOLOGO
ANTE LITTERAM
Fra particolare politico e universale sociologico
CARLO GAMBESCIA
M
achiavelli, sociologo
ante litteram? A prima
vista, può apparire una
provocazione, almeno per due ragioni.
In primo luogo, perché oggi
il sociologo, quando non viene
confuso con lo psicologo, è un signore, più o meno distinto, che si
occupa di sondaggi o del recupero di “soggetti” a rischio. Quindi
che c’entra Machiavelli con exit
poll e tossicodipendenze?
In secondo luogo, perché
storia e preistoria della sociologia
hanno perso interesse. Per dirla
(quasi) con Sciascia, i “professionisti” delle scienze sociali navigano a vista estrapolando statistiche
socioeconomiche. E che c’entra
Machiavelli con l’ultimo censimento Istat?
In realtà, le cose non sono
sempre andate così male. Un tempo la sociologia, nata ufficialmente nell’Ottocento,
volava alto in cerca delle grandi costanti sociali dell’ordine e del conflitto. E in tal senso può vantare padri illustri del calibro di Comte, Tocqueville, Weber, Durkheim, Pareto, ma anche, per così dire, di
nonni, o precursori, altrettanto ferrati come Vico,
Montesquieu, Hobbes e per l’appunto Machiavelli.
Il Segretario fiorentino fu
per lunghi anni funzionario della
Repubblica antimedicea: un Kissinger in pectore, costretto a navigare in acque basse e melmose, più
bravo, ça va sans dire, dell’epigono
americano, tuttavia meno ambizioso e poco fortunato. Machiavelli fece però dell’osservazione
partecipante - tipica arma bianca
del sociologo di razza - il vero metro di un’esistenza trascorsa tra le
turbinose vicende del tempo. E,
stando ai biografi, iniziò ad aguzzare sguardo e ingegno già a nove
anni, vedendo penzolare dalle finestre del Palazzo della Signoria,
tra gli altri, il cadavere del congiurato Francesco de’ Pazzi…
Fatte le dovute “presentazioni”, vorremmo sottolineare tre
punti di rilievo sociologico.
Innanzitutto, la sua capacità di ricondurre il
particolare (politico) nell’alveo dell’universale (sociologico): dote che consente di inserire d’autorità
Machiavelli nell’albero genealogico di una sociologia dalle ali di aquila. Si legga ad esempio qui: «È si
conosce facilmente, per chi considera le cose pre-
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
19
Sopra da sinistra: Machiavelli in un’incisione d’epoca; Incipit dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
(Venezia, Manuzio, 1540), Milano, Biblioteca di via Senato. Nella pagina accanto: Leonardo da Vinci (1452-1519),
schizzo dell’impiccagione di Bernardo di Bandino Baroncelli (1479), uno dei partecipanti alla congiura dei Pazzi
senti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i
popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In modo
che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e
farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati;
o, non ne trovando degli usati, pensarne de’ nuovi,
per la similitudine degli accidenti».1 In questo passo
dei Discorsi, vero gioiello sociologico (forse più de Il
Principe, opera grandiosa ma esclusivamente “politologica”), Machiavelli adombra la prevedibilità del
comportamento sociale. Infatti, vi si parla di «similitudini degli accidenti», ossia di costanti o regolari-
tà sociologiche capaci di riaffiorare nel tempo. Perché, come osserva, se è vero, quanto ai «rimedi» che
si potrebbe «pensarne de’ nuovi», è altrettanto vero
che «queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne séguita che sempre sono i
medesimi scandoli in ogni tempo».2
Secondo punto. Che c’è “sotto” la prevedibilità delle azioni umane? Risponde direttamente Machiavelli: «Sendo […] gli appetiti umani insaziabili,
perché, avendo, dalla natura, di potere e volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di poterne conseguitarne poche; ne risulta continuamente una mala
20
contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri;
ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione».3
Come risulta evidente, “sotto”, c’è un’antropologia negativa o realista (dipende dal punto di vista…), non molto lontana da quella hobbesiana. Che
permette di collocare Machiavelli tra i principali
teorici della scuola sociologica conflittualista, dove
si pone l’uomo al centro di un infuocato divenire sociale, segnato da ricorrenti conflitti distributivi per
l’acquisizione di risorse scarse. Solo per fare qualche
nome, si pensi a studiosi come Spencer, Bagehot,
Gumplowicz, Ratzenhofer, Sumner, Small, Oppenheimer e, per venire ai giorni nostri, Coser e Collins.
Terzo punto. Il Machiavelli “conflittualista” si
confronta con un grande tema sociologico, oggi accantonato. Quale? La possibilità di individuare un
punto di equilibrio sociale tra ordine e progresso,
questione che tanto appassionò precursori e padri
della sociologia.
La «mala contentezza», come visto, implica
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
continui conflitti. Di qui, scrive Machiavelli, «sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo
stare salde, conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che le ragione non t’induce, t’induce la necessità: talmente che, avendo ordinata una
repubblica atta a mantenersi, non ampliando, e la
necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tôr
via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto.
Così dall’altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe
che l’ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali
due cose insieme, o ciascuna per sé sarebbono cagione della sua rovina».4
Insomma, per Machiavelli, il moto sociale, da
sempre effetto di conflitti, impone trasformazioni
che producono altri mutamenti istituzionali, e così
via. Ma anche la stasi sociale non è da meno: la pace
da cui nasce «l’ozio» non è che una modalità attraverso cui si manifesta, con altri mezzi («effeminatezze» e «divisioni»), l’inarrestabile moto della vita
sociale. Di qui, la difficoltà di conseguire un equilibrio sociale statico, o definitivo, tra ordine e progresso: «Pertanto, non si potendo, come io credo,
Da sinistra: Théodore Chassériau (1819-1856), Alexis de Tocqueville (1805-1859), Versailles, Museo di Versailles;
Emile Durkheim (1858-1917) in un ritratto fotografico dell’epoca; Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu
(1689-1755), in un disegno della fine del XVIII secolo (Nantes, Museo delle Belle Arti)
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
21
Sopra da sinistra: Frontespizio della prima edizione dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
(Roma, Antonio Blado, 1531); Incipit dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Roma, Antonio Blado, 1531).
Libri conservati presso la Biblioteca di via Senato
bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del
mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica,
pensare alla parte più onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono, quello ch’elle avessono occupato, conservare».5
Machiavelli ipotizza l’equilibrio dinamico, incessante, segnato da conflitti, pieno di rischi e pericoli, dove è necessario muoversi con prudenza, prestando attenzione alla «mala contentezza» costitutiva degli uomini, ma anche alle giravolte della fortuna: fattore extraumano che in qualche misura in-
tegra e corregge il suo determinismo.
Comunque sia, un pensiero lontanissimo da
qualsiasi pericolosa utopia perfettista. Ciò significa
che il realismo sociologico, teorizzato da Machiavelli, non può non convolare a nozze con il conservatorismo illuminato. Il che non guasta.
NOTE
2
1
3
N. Machiavelli, Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio,
I, 39, in Tutte le opere, Firenze,
Sansoni Editore, 1971, p. 122.
Ibidem.
Discorsi, cit., II, p.145.
4
Discorsi, cit., I, 6, p. 86.
5
Ibidem.
22
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sul Principe
NICCOLÒ MACHIAVELLI,
PRIMO COSTITUENTE
Il Segretario fiorentino e il primato della politica
TEODORO KLITSCHE
DE LA GRANGE
Prima parte
on è stata dedicata soverchia attenzione alla
ricorrenza del 500° anniversario del Principe. A dispetto
del fatto che - a quanto sembra sia l’opera italiana più tradotta al
mondo e che da quando fu scritta,
nessuno, che si sia occupato di
politica (filosofia, scienze, storia), abbia potuto fare a meno di
confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca
pompa e qualche nascosto imbarazzo. Scrive Aldo
Di Lello che «non si tratta di un dettaglio, ma di un
sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un
sintomo) di caduta culturale e ideale».1
Che il pensiero di Niccolò Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico
italiano, in particolare di sinistra, è evidente. Tutta
la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio
l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Vilfredo Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e
commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le
sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei
confronti di quelle, la funzione attribuitagli da
N
Ugo Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni
propositi e discorsi edificanti c’è
la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai
senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il
nucleo essenziale dell’apparato
egemonico costruito, dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il
pensiero di Machiavelli è infatti
quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: «perché ogni
uomo che voglia fare in tutte la parte professione
di buono, conviene ruini intra tanti che non sono
buoni»; da qui, dalla concezione “problematica”
della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa”
(cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze
del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato
e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”.2 E del pari, Machiavelli si occupa
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
23
Nella pagina accanto: Santi di Tito (1536-1603), Niccolò Machiavelli, Firenze, Palazzo Vecchio. Sopra da sinistra: frontespizio
dell’Arte della guerra di Niccolò Machiavelli (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550); frontespizio delle Historie di Niccolò
Machiavelli (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550); Lettera dedicatoria a Clemente VII con la quale si aprono le Historie
(Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550); Milano, Biblioteca di via Senato
più volte - anche se spesso implicitamente - del
rapporto tra politico e diritto.
Contrariamente a quanto ritenuto da molti
nostri contemporanei, nel Segretario fiorentino
la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è
acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico).
Nel XVIII capitolo del Principe scrive: «sono
dua generazione di combattere: l’uno con le leggi,
l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie». Tale espressione è
stata in genere connessa allo specifico argomento
lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda),
in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il principe, soprattutto il principe nuovo è «spesso necessitato, per
mantenere lo Stato, operare contro alla fede, con-
tro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione», enumera cose che per un uomo del suo, e
anche del nostro tempo, sono più care e sacre del
diritto, onde si può immaginare se il principe non
possa anzi debba operare contro questo. Anche se
nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a
non poter essere mai violato (con le conseguenze
più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché,
prosegue Machiavelli «nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da
reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno
laudati». In diverse parole qui come in altri passi
del Principe e dei Discorsi, Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da
altra “essenza”, come scrive Julien Freund. Non
c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il
24
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sopra da sinistra: Firenze in un’incisione d’epoca (XVI secolo); vignetta tipografica in chiusura delle Historie di Niccolò
Machiavelli (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550). Nella pagina accanto: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio (Venezia, Manuzio, 1540). La sontuosa legatura riporta l’emblema della nobile famiglia Ludovisi, contornato
da uno stemma cardinalizio (Milano, Biblioteca di via Senato)
che significa non solo il (di esso) potere, ma anche
l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi.3
Il rapporto tra politico e diritto (legge, ordine,
organizzazione istituzionale) è confermato dal
XXXIV capitolo del I libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei
frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale - o, meglio, parte di esso)
«perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari.
Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né
alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa,
ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro… E perciò le repubbliche debbano intra loro
ordini avere uno simile modo» e subito dopo
«Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare,
o per non rovinare rompergli». È l’ordinamento
stesso che deve prevedere organi straordinari, do-
tati anche della facoltà di sospendere, derogare,
modificare il diritto vigente: «Talché mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e
dato il modo a governarlo».
La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata
così perfetta da non poter essere cambiata, onde è
chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto
con tali affermazioni, perché la stessa non prevede
né competenza né misure per lo stato d’eccezione
ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa).
Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale
di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra
diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso
fondamento v’è la decisione politica. È il sovrano
che decide se conservare, modificare, sospendere il
diritto. È il pouvoir, a servirsi dei concetti (e dei ter-
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
mini) di Maurice Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il
droit. L’altro “punto” di eteronomia
del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o
depotenziato).
Tanto per farne un esempio
(tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche
chi ammette un certo “tasso” di
morale nel diritto v’include quasi
esclusivamente ciò che rileva per
lo stato sociale contemporaneo,
ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a
favore delle classi e dei cittadini più disagiati.
Non capita invece di leggere della connessione
esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e agli
Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici
doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Costituzione italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le
imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere
la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di
Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da «al-
25
l’arme proprie» (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV).4 Ammoniva
che «chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini
che comandano, cominciandosi dal
primo grado e discendendo infine
al padrone d’un brigantino, dice
giustizia e armi»;5 senza queste è
impossibile preservare la libertà, e
ovviamente, l’esistenza politica.
Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e
diritto è essenzialmente (anche se
non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana
della virtù si muove nello stesso solco: al principe è
necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi,
come per poterne approfittare.
Quindi di “morale” si può parlare prendendo
atto che si tratta di una morale che ha poco a che
fare con quella che per ciò s’intende; il contributo
di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto (e sotto) a
quello “dell’altra” morale (quella, per così dire,
“pubblica” e non “privata”).
Fine prima parte. La seconda parte
sarà pubblicata sul numero di gennaio 2014
NOTE
so, determinata sia dal richiamo costante
di quella frase, che considera legge, forza e
1
«Area», maggio 2013.
(e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che
modi di combattere: che ambedue sono fi-
2
A chiarimento del carattere “proble-
contiene la fortuna) e alla necessaria pru-
nalizzati a creare l’ordine, a creare, mante-
matico” e “pessimistico relativo” della na-
denza che ne consegue che alla non ade-
nere, aumentare il potere (comando/obbe-
tura umana, l’uso di queste espressioni è fi-
sione all’autoritarismo conseguente logi-
dienza) ma il tutto esula dai limiti di questo
nalizzato a distinguere le concezioni pessi-
camente dal pessimismo agostiniano; così
scritto.
mistiche spesso identificate in due pensa-
ben testimoniato da Lutero e da Calvino
tori come S. Agostino e S. Tommaso. Più
(ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè
capitoli, nonché in tante opere anche “oc-
pessimista il primo, meno il secondo, come
del “diritto divino soprannaturale”, per cui
casionali”, come i discorsi per l’ordinamen-
noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machia-
al cristiano non è consentito opporsi (resi-
to della milizia fiorentina.
velli al pessimismo antropologico “relati-
stere) all’autorità costituita.
vo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avvi-
3
Si può desumere anche un altro senso
4
5
Ma ne tratta anche nel Principe in altri
Si veda il Discorso dell’ordinare lo Sta-
to di Firenze alle armi.
26
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sul Principe
NICCOLÒ MACHIAVELLI
IN PRIMA CLASSE
Sulle prime edizioni del Segretario fiorentino
GIANCARLO PETRELLA
«T
rovando io et con fatica che uno
Andrea da Pistoia havea facto ristampare el vostro compendio, cursim et properanter andai ad el luogo ubi imprimebantur, menando etiam meco Thomaso Balducci comandatore; non uscii di quivi che ne havemo una,
che non vi starò a dire la ribalda cosa che le sono: al
tutto alla giuntesca, sanza spatio, e quinternucci
piccin piccini, sanza bianco dinanzi o drieto, lettera
caduca, scorrecta in più luoghi, come in questa
metterò una notula et notativi dentro tutti gli errori. Entrai alli Otto con fare querela grande et meo et
tuo nomine, diversis de causis: di
me, del danno a ristamparmeli
adosso dentro a 20 giorni». La
tradizione a stampa delle opere
di Machiavelli inizia con questa
lettera, forse non sufficientemente nota. Firenze, 14 marzo
1506. Agostino Vespucci, notaio
e umanista con ripetuta esperienza di segretario al seguito degli ambasciatori fiorentini, avverte Machiavelli di aver smascherato una brutta vicenda di
contraffazione a danno della recentissima edizione del primo
Decennale. La lettera, se correttamente intesa anche nei sottili ri-
ferimenti bibliologici, è una miniera di informazioni necessarie a districare la matassa. Erano dunque
passati all’incirca una ventina di giorni dalla stampa
del Decennale promossa dal Vespucci (tecnicamente
dunque l’editore) presso un’officina che non si sottoscrive (forse Bartolomeo de’ Libri?), che a Firenze i soci Andrea da Pistoia, alias Andrea Ghirlandi, e
il fiorentino Antonio Tubini, cappellano della Misericordia, davano impunemente alle stampe una
loro edizione. Il Vespucci, venutone a conoscenza,
piomba come una furia in bottega e mette le mani su
un esemplare della contraffazione. Segue descrizione particolareggiata. Che orrore!
La contraffazione è stata condotta tutta al risparmio: testo poco
interlineato, carta di formato più
piccolo, nessuna pagina bianca
all’inizio e alla fine, come si usa
invece per le edizioni di qualità, e
per di più scorrettissima nel testo, storpiato da una serie di refusi di cui Agostino consegna l’elenco all’autore in una notula apposita (oggi conservata presso la
Biblioteca Nazionale di Firenze,
Filza Bargagli, N.A. 1004, c. 10)1.
Si giunse infine a un accordo. La
contraffazione venne quasi tutta
sequestrata (ma nel frattempo la
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
27
Incipit del Principe (prima edizione aldina), dalla raccolta
del 1540. Nella pagina accanto: frontespizio, con
la celebre marca tipografica aldina, dei Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio (Venezia, Manuzio, 1540);
la cancellazione presente sul nome dell’autore è un’antica
censura (Milano, Biblioteca di via Senato)
vendita era già stata avviata e dunque alcune copie
erano già in circolazione con danno per l’autore e
per l’editore che vi aveva investito) e alla coppia Tubini-Ghirlandi è concesso di smerciare la loro edizione solo a patto di apportarvi tutte le correzioni
richieste. La lettera, evidentemente, fornisce anche
altre informazioni. La princeps non datata né sottoscritta del Decennale finanziata dal Vespucci, certo
non senza il consenso di Machiavelli, è quindi assegnabile al febbraio 1506. Inoltre, l’identikit bibliologico suggerisce che prima e ultima carta debbano
essere bianche. A questo punto si è autorizzati a riconoscere nell’esemplare della Houghton Library
dell’Università di Harvard (Houghton *IC5 M1843
506d) l’unicum dell’edizione originale commissionata da Agostino Vespucci che infatti presenta c. a1r
bianca, a eccezione dell’occhiello «Decemnale.» posizionato circa a metà della pagina, e ugualmente
bianca anche l’ultima carta a12v. Al contrario, non
può che riconoscersi uno degli esemplari della contraffazione nella copia conservata presso la British
Library (C. 57.a.4) e in quella della Pierpont Morgan Library di New York (E2 48 A), quest’ultima
appartenuta a Roberto Ridolfi: più modesta nell’impaginazione, ma con identica consistenza bibliologica (in 8°, cc. 12: quindi alla fine senza un reale risparmio di materia prima!), presenta infatti la
lettera di dedica del Vespucci viris florentinis anticipata al recto della prima carta, l’incipit a c. a1v («Nicolai Malclauelli Florentini compendium reruu(m)
dece(n)nio in Italia gestaruu(m), ad uiros flore(n)tinos incipit feliciter») con il testo che prosegue sino
al verso dell’ultima carta.2 Non si tratta però, almeno
nel caso dell’esemplare londinese, di una delle copie
dell’edizione pirata infarcite di refusi viste dal Ve-
spucci (non compaiono infatti quelli di cui avverte
nella notula), ma evidentemente di una copia della
nuova impressione forzatamente corretta dopo gli
accordi.
Dovettero passare una dozzina d’anni prima
che Machiavelli conoscesse ancora l’onore della
stampa. Ufficialmente la seconda edizione machiavelliana datata è il «Libro della arte della guerra»
che recita al colophon «Impresso in Firenze per li
Heredi di Philippo di Giunta nelli anni del Signore
.M.D.XXI. adi .XVI. d’Agosto Leone .X. Pontifice», ossia la princeps del De re militari di cui gli eredi
di Filippo Giunta hanno l’esclusiva, riproponendolo a catalogo almeno una seconda volta nel 1529.3 Il
fondo antico della biblioteca di via Senato, nel qua-
28
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Sopra da sinistra: prima pagina della sesta tavola dell’Arte della guerra (Venezia, Manuzio, 1540) con l’immagine
della corretta disposizione di un esercito. Settima tavola dell’Arte della guerra (Venezia, Manuzio, 1540) con l’immagine
della corretta disposizione di un accampamento militare (Milano, Biblioteca di via Senato)
le si rintraccia un interessante nucleo di edizioni
machiavelliane, conserva una copia di entrambe, la
seconda delle quali con ex libris del bibliofilo e valente bibliografo Giacomo Manzoni (1816-1889),4
poi passato fra le mani dell’antiquario Giuseppe
Martini (1870-1944). L’opera, a dire il vero, già circolava manoscritta, ma l’edizione a stampa sicuramente ne accelerò la conoscenza con gratificanti ricadute anche sul suo autore: «ho visto diligentemente el libro vostro, il quale, quanto più l’ho considerato, tanto più mi piace, parendomi che al perfettissimo modo di guerreggiare antico habbiate
aggiunto tutto quello che è di buono nel guerreggiar moderno» gli scrive il cardinale Salviati poche
settimane dopo l’uscita dell’edizione dall’officina
dei Giunta. Come si diceva, è però assai probabile
che a quest’altezza la Mandragola già circolasse da
un paio d’anni attraverso alcune modeste stampe
prive di paternità tipografica. Stando ai dati oggi
noti, si tratta di quattro edizioni distinte, una sola
delle quali, pur non datata (ma circa 1526?) rivela
quantomeno colophon esplicito «Stampata in Cese-
na ad insta(n)tia de Hieronymo Soncino».5 Qui, e
nella stampa sine notis assegnata alla tipografia romana di Francesco Minizio Calvo circa 1524,6 l’opera è tràdita con il titolo scelto dall’autore «Comedia facetissima intitulata Mandragola», a differenza di due edizioni, ancora sine notis ma probabilmente anteriori, che trasmettono invece la commedia del segretario fiorentino col titolo «Commedia
di Callimaco e di Lucretia». È curioso che in entrambe si scegliesse, sicuramente per allettare l’acquirente, un’illustrazione al frontespizio che però,
secondo una consuetudine assai comune all’editoria di larga circolazione, non rivela alcun legame col
testo: nella prima, ricondotta a un’anonima bottega
fiorentina circa 1520, il centauro Chirone maestro
di musica inquadrato in una rozza cornice a festoni;7
nella seconda, assegnata invece a una coeva officina
veneziana, un suonatore di viola da mento assiso su
una pietra immerso in un contesto paesaggistico
campestre.8 Non è improbabile che la vignetta di
soggetto musicale dell’edizione fiorentina (a questo
punto forse la presunta princeps) abbia poi condizio-
30
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Frontespizio dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
(Venezia, Bernardino de Vitali per Francesco e Michele
Tramezzino, 1532). Nella pagina accanto: Incipit
dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
(Venezia, Bernardino de Vitali per Francesco e Michele
Tramezzino, 1532). Milano, Biblioteca di via Senato
nato la scelta del collega veneziano.
Tutto ciò mentre Machiavelli è ancora in vita.
Solo dopo la morte, dalla cerchia degli amici e dei
parenti filtrano invece le ben più impegnative opere politiche, consegnate contemporaneamente alla
tipografia romana del Blado e a quella fiorentina
dei Giunta che ne licenziarono una duplice prima
edizione di fatto concorrenziale. Un ruolo di primo
piano, come traspare dalla lettura degli apparati
paratestuali, aveva giocato Giovanni Gaddi, fratello del cardinale Niccolò, chierico della Camera
Apostolica e titolare di una ricca riserva libraria da
cui aveva cavato un manoscritto con la traduzione
in volgare della Ciropedia allestita da Jacopo Bracciolini data in stampa dai Giunta nel 1531. In poco
più di un anno, tra il 1531 e il 1532 il Machiavelli
maggiore è tutto a stampa, sottratto alla circolazione ristretta della cerchia umanistica fiorentina. A
Roma il mantovano Antonio Blado, ottenuto da
Clemente VII il privilegio decennale (in data 23
agosto 1531) per la stampa delle opere di Machiavelli (subito esibito al frontespizio «che intra il termino di X anni non si stampino ne stampati si vendino sotto le pene che in essi si contengono») brucia sul tempo i fiorentini e licenzia nel 1531 i «Discorsi di Nicolo Machiavelli cittadino et segretario
fiorentino sopra la prima deca di Tito Livio»9 (volume che la Biblioteca di via Senato possiede) e, in
rapida successione, l’anno successivo le «Historie
di Nicolo Machiavegli cittadino et segretario fiorentino» e infine l’attesa edizione che raccoglie «Il
principe di Niccholo Machiavello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici. La vita di Castruccio Castracani da Lucca … Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliverotto da Fermo … in Senigaglia». Contemporaneamente a Firenze anche Bernardo Giunta, con l’aperto consenso degli eredi del segretario fiorentino, aveva intrapreso la stampa delle tre opere, per le quali ottenne
a sua volta, in data 20 dicembre 1531, analogo privilegio papale. L’edizione giuntina dei Discorsi fu licenziata, come da colophon, «nell’anno
.M.D.XXXI. Adi .X. Novembre.»;10 le Historie
escono in sorprendente concomitanza con l’edizione romana, se si presta fede ai colophones: il colophon
del Blado è infatti datato 25 marzo 1532, la stampa
fiorentina invece, in alcuni esemplari, «adi .XVI.
del mese di Marzo» ma in altri «adi .XXVII» (come
la dedica al duca Alessandro del «vigesimosettimo
giorno di marzo dell’anno M.D.XXXII.»).11 Blado
riesce invece a battere di qualche mese la concorrenza dei Giunta sul Principe, licenziando la propria
edizione «a di .iiij. de Gennaio del’ .M.D.XXXII.»,
mentre l’edizione con la marca del giglio lascia la ti-
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
pografia solo «Adi .VIII. Maggio».12
La tipografia veneziana si sarebbe accontentata di ristampare a brevissima distanza le edizioni romano-fiorentine, contribuendo però a diffondere
le opere del segretario fiorentino fino a saturarne il
mercato con una serie di edizioni ravvicinatissime:
nel 1531 lo Zoppino mette sotto i torchi la già diffusa Mandragola, mentre i fratelli Nicolini da Sabbio e Bernardino Vitali, quest’ultimo a istanza di
Francesco e Michele Tramezzino, licenziano due
edizioni dei Discorsi, una delle quali è nel patrimonio della Biblioteca di via Senato.13 Nel 1540 ancora
ai Nicolini si rivolge Andrea Arrivabene all’insegna
del Pozzo per l’ennesima edizione delle Historie,14
di cui la Biblioteca di via Senato possiede una copia
passata nel secolo scorso nei cataloghi Martini,
mentre Comin da Trino licenzia la sua edizione
delle Historie (anch’essa presente nel fondo antico
di via Senato)15 e l’Arte della guerra trova un tipografo ancora pronto a investire in un’edizione non sottoscritta ma datata Venezia 1540 (ancora presso la
biblioteca di via Senato).16 Nello stesso anno Machiavelli finisce anche nel catalogo manuziano. Ci
pensano gli eredi di Aldo a offrire la raccolta completa del Machiavelli storico-politico (Libro dell’arte della guerra, Discorsi, Historie, Il prencipe) in quattro agili e distinte edizioni in ottavo che ostentano
al frontespizio la dicitura «Nuouamente corretti e
con somma diligenza ristampati».17 La biblioteca di
via Senato possiede, oltre all’edizione dei Discorsi,
anche quelle del Principe e dell’Arte della guerra, entrambe con armorial book plate «Ex libris Liechtensteinhaus» che rimanda alla collezione dei principi
di Liechtenstein.
A partire dal 1559 la circolazione delle opere
machiavelliane subisce quantomeno un rallentamento, complice l’inclusione di Machiavelli fra gli
autori di prima classe, quelli cioè di cui erano proibiti gli opera omnia, assieme ai pestiferi luterani ed
Erasmo, nel primo severissimo Indice di Paolo IV,
come ricorda l’anonima nota manoscritta apposta
al frontespizio, a esempio, dell’esemplare de Il libro
31
dell’arte della guerra, Firenze, eredi Giunta, 1529
conservato presso la biblioteca Alessandrina di Roma: «è proibito in prima classe».18 Ne è testimone
Giovambattista Busini che nell’estate del 1561 così
scrive al Varchi: «qui sono state vietate e proibite a
vendersi tutte le opere del nostro Machiavello e voglion fare una scomunica a chi le tiene in casa, ma sino a qui nessun libraio ne può più vendere sotto
gravi pene». Nell’impossibilità di stampare o smerciare liberamente Machiavelli, ci avrebbe pensato il
mercato clandestino ad aprire una breccia nelle rigide maglie dei controlli, rifornendo i librai italiani
di edizioni stampate Oltralpe, a conferma dunque
che la richiesta era stata tutt’altro che messa a tacere
dai rigori inquisitoriali. Nel 1560 i due transfughi
Pietro Perna e Silvestro Tegli si rivolgevano al mercato europeo, e non più soltanto italiano, con la traduzione latina del Principe stampata nella perniciosissima Basilea, sentina di tutte le eresie («de princi-
32
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
pe libellus … nunc primum ex
Italico in Latinum sermonem
versus per Sylvestrum Telium
Fulginatem»), di cui la biblioteca
di via Senato possiede un esemplare.19 Chiaramente rivolta al
mercato italiano era invece l’accorta politica editoriale nata in
clandestinità dell’inglese John
Wolfe che negli anni Ottanta del
Cinquecento, complici ben avviati rapporti con colleghi italiani, organizzò la fragorosa beffa di
stampare tutto Machiavelli (ma
anche il pornografico Aretino)
coll’espediente dei falsi dati tipografici. Tra il 1584 e il 1587 uscivano perciò dai torchi londinesi, ma con la falsa data topica «Palermo
appresso gli heredi d’Antoniello degli Antonielli», i
NOTE
1
Si veda SERGIO BERTELLI – PIERO INNOCENTI, Bibliografia machiavelliana, Verona,
Valdonega, 1979, pp. X-XI.
2
S. BERTELLI – P. INNOCENTI n° 1-2. Non in
EDIT16.
3
In 8°, cc. 124, fasc.: a-p8, q4, ill. (BERTELLI-INNOCENTI n° 3, 10; EDIT16 28762, 55352).
EDIT16 69277 registra anche un’edizione
dei Giunta datata 1524 (nota tramite un
esemplare della Vaticana).
4
RITA CHIACCHELLA, Le vicende delle biblioteche Ansidei e Manzoni, in Biblioteche nobiliari e circolazione del libro tra
Settecento e Ottocento. Atti del convegno
nazionale di studio, Perugia, Palazzo Sorbello, 29-30 giugno 2001, a cura di Gianfranco Tortorelli, Bologna, Pendragon,
2002, pp. 249-261: 252 ss.
5
In 12°, cc. XXXII, fasc. A-E6 F2 (BERTELLIINNOCENTI n° 8 ne registrano tre esemplari,
uno dei quali appartenuto al bibliofilo Ho-
Frontespizio della raccolta aldina
delle opere di Niccolò Machiavelli,
stampata a Venezia, dalla celebre
tipografia Manuzio, nel 1540
(Milano, Biblioteca di via Senato)
Discorsi, il Principe e il Libro dell’arte della guerra (la Biblioteca di
via Senato possiede le prime due
edizioni). Le Historie si presentavano invece sotto altre mentite
spoglie: «In Piacenza appresso
gli heredi di Gabriel Giolito de
Ferrari 1587». Per l’Asino d’oro, la
Mandragola «con tutte l’altre sue
operette» (edizione anch’essa
presente in via Senato) l’intraprendente editore originario del Sussex sceglieva infine la più generica
sottoscrizione «In Roma MDLXXXVIII».20
race Landau; EDIT16 CNCE 32802).
6
In 12°, cc. XXX, fasc.: A-E6 (BERTELLI-INNOCENTI n° 7; EDIT16 CNCE 54557).
7
In 8°, cc. [40], fasc.: A-K4 (BERTELLI-INNOCENTI n° 5; P. STOPPELLI, La Mandragola:
storia e filologia. Con l’edizione critica del
testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 147-155; EDIT16
CNCE 77107).
8
In 8°, cc. [40], fasc.: A-E8 (BERTELLI-INNOCENTI n° 6; P. STOPPELLI, La Mandragola:
storia e filologia, p. 156; EDIT16 CNCE
46931).
9
BERTELLI-INNOCENTI n° 11; EDIT16 CNCE
23997.
10
BERTELLI-INNOCENTI n° 12; EDIT16 CNCE
27962.
11
BERTELLI-INNOCENTI n° 16-17; EDIT16
CNCE 64104, 27967.
12
BERTELLI-INNOCENTI n° 18-19; EDIT16
CNCE 24013, 27970.
13
BERTELLI-INNOCENTI n° 13-15; EDIT16
CNCE 68017, 68018, 32295.
14
BERTELLI-INNOCENTI n° 50; EDIT16 CNCE
64102 registra soli 4 esemplari in Italia.
15
BERTELLI-INNOCENTI n° 52; EDIT16 CNCE
24513.
16
BERTELLI-INNOCENTI n° 53; EDIT16 CNCE
49088.
17
BERTELLI-INNOCENTI n° 44-47; EDIT16
CNCE 26687, 26690, 26692, 26695.
18
MARIO INFELISE, I libri proibiti. Da Gutenberg all’Encyclopédie, Roma-Bari, Laterza, 20045, p. 109 e ad indicem; UGO ROZZO, La letteratura italiana negli ‘Indici’ del
Cinquecento, Udine, Forum, 2005, p. 102.
19
BERTELLI-INNOCENTI n° 130.
20
SALVATORE BONGI, Annali di Gabriel
Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato
stampatore in Venezia, Roma, 1890-1897,
II, pp. 414-424; BERTELLI-INNOCENTI n° 170171, 177-178, 181.
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
33
inSEDICESIMO
LE MOSTRE – LO SCAFFALE
LA MOSTRA/1
ANTONELLO DA MESSINA
Il pittore secondo Ferdinando Bologna
a cura di luca pietro nicoletti
n molti hanno pensato, quando si
annunciò questa mostra, che
riproporre una rassegna dedicata ad
Antonello da Messina, a non molti anni
di distanza dalla kermesse messa in
piedi alle Scuderie del Quirinale nel
2006, potesse essere soltanto una
ripetizione. Basta però visitare la
piccola e preziosa rassegna del MART,
luogo insolito e inaspettato per una
mostra di arte antica, per avere
conferma del contrario: la mostra di
Rovereto, a sessant’anni esatti da
quella di Palazzo Abatellis a Palermo
con il leggendario allestimento di Carlo
Scarpa, è fra i rari esempi di mostre che
non soffrono di “ansia da capolavoro”
(per quanto i capolavori ci siano)
attorno a cui creare un’atmosfera di
venerazione mistica. Le opere, anzi,
sono strumenti per accompagnare il
visitatore in un solido percorso di
lettura critica che mette in luce gli
snodi cruciali, i problemi, chiama in
causa i maestri assenti e imbastisce un
discorso per immagini basato sul
confronto. Dietro la mostra di Rovereto,
del resto, c’è un decano della migliore
storia dell’arte italiana, Ferdinando
Bologna, coadiuvato da Federico De
I
ANTONELLO DA MESSINA
A cura di Ferdinando Bologna
e Federico De Melis
Melis per riannodare i fili di un
problema storiografico che
accompagna la carriera dello studioso
per oltre sessant’anni. Se ne ha una
chiara percezione nella lunga e serrata
conversazione intervista fra i due che
correda il catalogo della mostra: un
vero e proprio racconto in cui Bologna
traccia la fisionomia del pittore
all’interno di una «vasta congiuntura
mediterranea di base prospetticoluminosa». Bologna non aveva scritto,
prima d’ora, un saggio espressamente
dedicato ad Antonello, ma la sua idea
sulla storia del pittore affiora all’interno
delle rotte della pittura trattate in un
suo volume fondamentale del 1977
(Napoli e le rotte mediterranee della
pittura) che vedeva nel capoluogo
campano il crocevia degli incontri con
tutta la cultura figurativa affacciata sul
Mediterraneo, da quella borgognona a
quella spagnola a quella fiamminga. La
mostra di Rovereto, dunque, serviva a
ribadire una certa idea su come si sono
svolti di fatti della vita e delle opere di
Antonello e di un certo tratto della
pittura del Quattrocento. Non si
trattava dunque di semplici precisazioni
cronologiche, come lo spostamento
della data di nascita del pittore intorno
al 1425 e non al 1430, o di ribadire
ROVERETO, MART
5 ottobre 2013
12 gennaio 2014
Antonello da Messina, San Benedetto,
olio su tavola, Milano, Pinacoteca del
Castello Sforzesco, Raccolta d’Arte Antica
34
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Antonello da Messina, Cristo alla colonna,
olio su tavola, Parigi, Musèe du Louvre,
dèpartement des peintures
attribuzioni frettolosamente
accantonate dalla critica recente -come
per l’Annunciata dei musei civici di
Como, attribuita dallo stesso Bologna
ad Antonello nel 1977- ma di rileggere,
a partire da questi dati di dettaglio, la
cultura figurativa di questo maestro, a
partire dalle tendenze fiammingoborgognone degli esordi (come nella
Sant’Eulalia di collezione privata, con
cui si apre la mostra, che risente del
Trionfo della Morte di Palermo) per
maturare a Napoli alla scuola di
Colantonio, e qui aggiornarsi sui
modelli centro-italiani, allora presenti
nel vicereame, e carpire la novità di
Piero della Francesca. Bologna è ben
cosciente, naturalmente, che si tratta di
un paradigma indiziario, che si muove
su poche date certe e su testimonianze
anche di decenni successive agli eventi
(dell’alunnato presso Colantonio, ad
esempio, parlerà l’umanista Pietro
Summonte in una lettera del 1524), ma
i confronti e i rimandi, talvolta le
puntuali filiazioni fra opere
geograficamente distanti danno
ragione della fondatezza di questa
ipotesi. Per questo, osserva lo studioso,
«la ricostruzione delle influenze
pierfrancescane, e non solo su
Antonello, si fonda sulla necessità di
recuperare almeno mentalmente opere
perdute di Piero che anticipavano
situazioni meglio evidenti, dal punto di
vista stilistico, in fasi successive». È
necessario, insomma, riconoscere dei
prototipi di Piero necessari per spiegare
taluni passaggi e talune precoci idee di
Antonello, come nell’Annunciata di
Como: Antonello, nella bottega di
Colantonio a Napoli, avrebbe assorbito
gli aspetti moderni di una pittura
luminosa portata in città da un pittore
francese, Jean Fouquet, sviluppando
quel suggerimento in direzione di Piero.
Si tratta di congiuntura fedele a un’idea
di Roberto Longhi sulla forza di
irradiazione dell’opera di Piero nella
pittura del suo tempo, al crocevia fra
Piero, il fatidico incontro con Giovanni
Bellini e quello, altrettanto
fondamentale, con Antonello. Per
capirne la portata, ovviamente, non era
sufficiente limitarsi al catalogo del
pittore siciliano: una storia come
questa, che non venera la monade del
maestro, non poteva essere raccontata,
in mostra, se non evocando una storia
fatta di protagonisti e comprimari,
mettendoli l’uno accanto all’altro, con
reciproco arricchimento. A Napoli, per
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36
Dall’alto: Giovanni Bellini, Madonna con il
Bambino benedicente (Madonna Contarini),
olio su tavola, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Antonello da Messina, Ritratto dí uomo
(Michele Vianello?), 1475 ca, olio su tavola,
Roma, Galleria Borghese. Jan van Eyck, Uomo
dal copricapo azzurro (o Ritratto di orafo), olio
su tavola, Sibiu, Muzeul National Brukenthal
esempio, si forma anche un bellissimo
maestro abruzzese che Bologna, in un
suo bellissimo saggio giovanile uscito
nel 1950 su “Proporzioni”, battezzava
Maestro di San Giovanni da
Capestrano, e oggi identificabile in
Giovanni di Bartolomeo dall’Aquila: il
suo Sant’Antonio da Padova, oggi a
Capodimonte, con il luminoso saio di
cartone a larghe pieghe: «il risultato di
un acutissimo scandaglio prospettico la
cui attitudine a calibrare l’invaso del
corpo dentro la guaina delle vesti si
aggiusta in una mirabile moderazione
della forma: tutte circostanze
esemplate evidentemente sulle opere di
Piero della Francesca, nel genere dei
pannelli più antichi del polittico per la
Misericordia di San Sepolcro,
specialmente quelli apicali con
l’Annunciata e il San Francesco».
Basta poi vedere allineate le rocce
mimetiche ma solide del «mineralismo»
di Van Eyck, quelle scheggiate e
visionarie di Colantonio, quelle più dolci
e digradanti di Antonello, per capire il
gradiente di poesia e di sensibilità che il
messinese aggiunge a una tradizione,
ma rinnovandosi nel solco di una
lezione ben definita.
Non poteva mancare, infine, un
affondo sulla ritrattistica, il tema più
noto e più frequentato delle indagini su
Antonello. Per capire la specificità della
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
sua misteriosa e sbalorditiva galleria di
ritratti era necessario richiamare, per
confronto e per contrasto, il modello
fiammingo, a cui sopperisce lo
straordinario ritratto di orafo di Van
Eyck conservato a Sibiu (Romania):
Bologna, però, mette in guardia
dall’appiattirlo sul modello fiammingo:
Antonello, infatti, «non concepisce il
ritratto come un fatto naturalistico da
cui far emergere il dettaglio descrittivo
o anche materico: dettaglio, invece,
puntualmente rilevato e lumeggiato
nella pittura fiamminga. I ritratti
antonelliani non sono magie di pelle,
puntigliose esplorazioni di accidenti
fisiognomici, come […] l’affascinante
Orafo di Van Eyck del museo di Sibiu,
bensì presentazioni di un corpo
elaborato plasticamente in maniera
vigorosissima e concentrata». Ma
questa pittura vigorosa e concentrata
non poteva mancare di una ricaduta
sociale, mostrando una nuova classe
che sta salendo agli onori del ritratto:
«i ritratti di Antonello, anche se restano
anonimi (nessuno sforzo di
identificazione ha mai raggiunto la
certezza assoluta), vengono ad
acquisire una sorta di statuto
sociologico: messi uno accanto
all’altro, appaiono come una
rappresentazione viva e parlante della
gens nova. […] A parte alcuni casi di
rappresentanti conventuali che
richiedono il tradizionale fondo oro e
la carpenteria gotica, il ceto a cui
Antonello fa capo è sempre stato lo
stesso; egli si muove sin dal principio,
già al Sud, nell’ambito della borghesia
emergente di base mercantile, che
faceva di Messina la città più dinamica
dell’intera Sicilia».
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
37
LA MOSTRA/2
LA "BORSA" DELL'ARTE,
A RATE, SU ROTOCALCO
Arte e mercato negli anni Sessanta
“QUADRI CHE COSTANO
COME SPUTNIK”. Rotocalchi
italiani e boom del mercato
dell’arte in Italia nei primi
anni Sessanta
A cura di Mariella Milan
MILANO, MUSEO DEL NOVECENTO
15 novembre 2013
9 marzo 2014
a tempo sappiamo che la storia
delle forme non è sufficiente a
comprendere a fondo le opere
d’arte: oltre alla storia di chi le ha
realizzate e alle sue idee, infatti, è
importante tenere conto dell’ambiente
in cui hanno preso vita e i canali che ne
hanno consentito o meno la diffusione,
e delle figure di mediazione che vi
hanno contribuito. Ci si è resi conto, in
questo modo, di quanto fosse
importante la committenza prima e il
mercato dell’arte poi. Resta però una
domanda da porsi: quali canali di
diffusione hanno portato, e in che
modo, la conoscenza delle opere d’arte
al grande pubblico? Un conto, infatti, è
lo sguardo “interno” degli addetti ai
lavori, ma non basta: una eco del
mondo dell’arte, se non sempre le sue
opere, arriva anche a chi non ha mai
messo piede in una galleria, a chi si
mostra magari diffidente nei confronti
di un mondo in cui non si sente
addentro e di cui non comprende i
D
meccanismi. Assai difficile, talvolta, è
comprendere il peso e i modi di questo
sguardo “esterno” rivolto alla storia
dell’arte, anche a quella più recente.
Proprio su questo punto si
concentra l’interessantissima mostra
ospitata nello spazio “Focus” del Museo
del Novecento, abitualmente riservata a
indagini mirate su opere o complessi di
opere presenti nei depositi del museo.
In questo caso, il pretesto è offerto
dalla Figura d’uomo dipinta da Antonio
Recalcati nel 1961, e nello stesso anno
acquistata dal Comune di Milano in
seguito alla segnalazione della giuria
dell’XI Premio San Fedele. È una tela
che fa parte del ciclo delle Impronte, in
cui il giovane artista lasciava
impressione del proprio corpo sulla tela,
riprendendo e ritoccando poi alcuni
punti dell’immagine ottenuta a
Sotto e sopra: Giorgio Maiocchi, Compriamo
a rate i capolavori, "Quattrosoldi", I (5), agosto
1961, pp. 62-69 (doppia pagina, originale,
la rivista misura cm 27x21,5)
pennello: un procedimento nuovo, del
tutto eterodosso per chi era abituato a
modi più canonici di intendere la
creazione artistica. Ma la figura di
Recalcati, in questo caso, viene
rievocata non tanto per il suo valore
intrinseco, ma per il fatto che all’epoca
egli era considerato uno delle più
brillanti promesse della giovane pittura
milanese: il passare dei decenni ha
38
notevolmente ridimensionato questo
giudizio, costruendo una diversa
gerarchia di valori più conforme alla
nostra idea attuale di come le cose
siano andate in quel momento. La
mostra curata da Mariella Milan, che da
anni si occupa di questi temi, recupera
invece un “occhio del tempo”, non
privo di risultati sorprendenti, partendo
da come l’arte contemporanea si
presentava sui rotocalchi dell’epoca.
Questi, scrive la Milan nel pieghevole
che accompagna la mostra «offrono un
filtro prezioso per esaminare, nell’ottica
della ricezione da parte del grande
pubblico, la situazione del mercato e
l’immagine dell’artista in un arco
cronologico breve ma intenso». In
questo modo, infatti, è possibile risalire
a cosa del mondo dell’arte arrivasse al
grande pubblico, cosa da questo fosse
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
effettivamente visto, al contrario di
vicende e personaggi a cui noi oggi
attribuiamo grande valore, ma di cui
all’epoca il pubblico meno accorto non
percepì la portata e la presenza. Questo
racconto per immagini, dunque,
presenta «i modi e i formati attraverso i
quali le riviste non specializzate
informano e educano un pubblico di
massa, ottimisticamente visto come
potenziale serbatoio di aspiranti
collezionisti, e lo mettono in guardia
contro le insidie di un settore
considerato inaffidabile. Nelle rubriche
di critica si infittiscono le notazioni sul
mercato, mentre sono frequenti, in
quelle di gossip e costume, le notizie
dal mondo dell’arte; concorsi a premi
mettono in palio opere di maestri del
Novecento e largo spazio trovano
reportages e inchieste che illustrano ai
lettori – con spirito didattico o
polemico – la situazione del mercato,
dalla rete delle gallerie al sistema di
valutazione a punti, dai maestri storici
ai giovani più quotati». Ecco quindi
tornare alla ribalta, dalle pagine di
“Epoca”, di “Panorama” e di altre testate
di larga circolazione, le inchieste di
Fabrizio Dentice sul mercato dell’arte
(poi confluite in un volume, Denaro al
muro, che meriterebbe ancora oggi di
esser eletto), in piena espansione nel
corso degli anni sessanta, o vicende
dimenticate come quella di Ivanhoe
Trivulzio, che balzò agli onori della
cronaca per i suoi esperimenti di
vendita rateale che, «secondo una
visione democratica e utopica delle
future prospettive del collezionismo,
propone a un pubblico di operai e
impiegati la sua “rateale del quadro”».
40
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
LA MOSTRA/3
UN VOLTO DEL NOVECENTO,
IL VOLTO NEL NOVECENTO
Opere dal Centre Pompidou di Parigi
IL VOLTO DEL ‘900 DA
MATISSE A BACON.
CAPOLAVORI DAL CENTRE
POMPIDOU
MILANO, PALAZZO REALE
25 settembre 2013
9 febbraio 2014
www.ilvoltodel900.it
n presenza di una crisi d’identità
profonda come quella che ha
attraversato il Novecento,
interrogarsi sul significato del volto
diventa un punto di passaggio critico
cruciale: significa interrogarsi sulla
soglia fra cosa si debba definire
genericamente un volto e cosa possa
ancora essere definito ritratto. È
I
possibile, in primo luogo, parlare di
ritratto nel Novecento? O, meglio, è
possibile coniugare crisi esistenziale
con il crisma dell’individualità
costituito dal ritratto? Ed è possibile,
ancora, mettere d’accordo le esigenze
di riconoscibilità che il ritrattato si
aspetta dalla propria effige con le
istanze dei linguaggi delle
avanguardie?
Seguendo il filo di questa
dicotomia si può percorrere la mostra
su Il volto del ‘900 apertasi a Palazzo
Reale, che propone una rara selezione
di opere delle collezioni del Centre
Pompidou di Parigi poco viste negli
ultimi anni. Tutta la mostra, nelle sue
sezioni tematiche, oscilla infatti fra
questi due termini, sollecitando di
Sopra: Pablo Picasso, Ritratto di donna, 1938,
olio su tela, © Centre Pompidou
Sotto: Henri Matisse, Odalisca con i pantaloni
rossi, 1921, olio su tela, © Centre Pompidou
continuo il visitatore a interrogarsi su
questi due termini ,volto e ritratto, e la
miriade di sfaccettature a cui possono
essere sottoposti. Tutti i paradossi che
connotano diacronicamente il
problema del ritratto, infatti, si
squadernano nella loro ampiezza e
anche nelle loro continue ibridazioni:
una comune radice nel disagio e nella
tragedia della memoria postbellica, in
fondo, si trova a monte
dell’autoritratto di Francis Bacon
quando dietro il famoso volto fuso in
bronzo dal pittore Jean Fautrier. Un
volto, quello modellato da quest’ultimo,
sconvolgente per la sua crudezza, come
se la campata di un animale feroce ne
avesse strappato un occhio, una
guancia, lasciando dei solchi profondi
come unghiate. Ma anche il pittore
irlandese, quando ritrae l’amico Michel
Leiris, non si fa scrupoli a sottoporre il
volto del ritrattato a una serie di
deformazioni, cancellazioni e
42
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
LA MOSTRA/4
A MONZA UNO SCULTORE
RITROVATO PER L'AVVENTO
La “Natività” di Aldo Buttini
uando si spegne a Carrara, la
mattina del 2 dicembre 1957,
a soli cinquantanove anni,
Aldo Buttini lasciava nel suo studio due
monumentali rilievi di tema sacro.
Erano opere realizzate in anni recenti,
più o meno fra il 1953 e il 1957,
probabilmente mai giunte a
destinazione, su cui per cinque decenni
è calato il silenzio fino a tempi recenti.
Adesso, per merito di un generoso
collezionista, viene presentato per la
prima volta al pubblico il primo di
questi due monumentali rilievi, che la
Q
Errò, Ritratto di Stravinsky, 1974, olio e
vernice su tela di lino; © Centre Pompidou
maltrattamenti che quasi ne cancellano
i tratti somatici caratteristici: anche il
ritratto, in questo caso, diventa
l’emblema di una più estesa sensazione
di malessere e di disagio. L’interesse
dell’artista, del resto, è il più delle volte
attratto più da un proprio interesse
formale, che da una vera
preoccupazione di soddisfare le
esigenze del committente: quest’ultimo
stesso, a sua volta, non è escluso che
ricorra al ritratto pittorico o scultoreo,
anziché alla fotografia, proprio per la
curiosità di vedersi rivisitato dall’occhio
e dall’estro dell’artista contemporaneo,
con la speranza magari che questo ne
riveli risvolti insospettati, o si presti a
un più generico divertimento
intellettuale. A questo punto, dunque,
le distanze fra volto e ritratto, pur
mantenendo un sottile confine di
demarcazione, si avvicinano
enormemente: anche il ritratto,
talvolta, quando non diventa campo di
sperimentazione linguistica, rimane più
carne da macello, in fondo, che
specchio dell’anima.
ALDO BUTTINI. LA NATIVITÀ
a cura di Wanna Allievi
MONZA, CAPPELLA DI CORTE
DELLA REGGIA DI MONZA
Fino al 19 gennaio 2014
tradizione ha classificato come una
“Natività” (nonostante la presenza dei
tre Re Magi a fare da corona
all’epifania sacra), che verrà ospitata
per tutto il periodo natalizio nella
cappella gentilizia della Villa Reale di
Monza. Si tratta di un’opera di notevole
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
43
questo caso Buttini aveva portato una
tecnica già in sé laboriosa a un livello di
complessità assoluta. Alcuni di questi
marmi sono facilmente riconoscibili,
come il Giallo di Siena o il marmo di
Trani, ampiamente usato per gli
incarnati, o la trasparenza del rosa del
Portogallo in cui è intagliato il corpo
del Bambin Gesù, mentre altri sono
meno noti e meno identificabili. Sta di
fatto, però, che Buttini non si era
accontentato, per esempio, di una sola
Nella pagina accanto: Giuseppe e Maria (part.);
a sinistra e sotto i Re Magi (part.);
in basso a sinistra: un pastore adorante (part.)
complessità, di spirito
neorinascimentale, per la quale Buttini
si è servito di ben trentasette qualità di
marmi differenti, incastonati dentro
un’unica cornice per dare vita alla sacra
rappresentazione, raggiungendo un
risultato tecnicamente virtuoso: il
portare il mestiere al suo grado più alto
e più nobile, del resto, era, per Buttini
come per tutti gli scultori di formazione
carrarina, una meta da perseguire con
costanza e con tenacia, perché è nella
perizia tecnica che risiede, sembra
volerci dire, il vero segreto dell’arte. E in
qualità di verde, ma aveva distinto le
cromie servendosi del verde alpi, del
verde isorie e del verde bottiglia; ancor
più per i rossi, oltre al Porfido, si era
servito del rosso di Francia, del rosso
Levanto, del Rosso Collemandina, del
Rosso d’Africa e del broccatello rosso
Marosso per avere diverse sfumature di
colore. Un ventaglio quindi di pietre
pregiate, da maneggiare con cautela a
fronte degli ingenti costi della materia
prima e solo se si è confortati dalla
certezza di un mestiere solido e
consapevole.
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dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
47
LO SCAFFALE
Pubblicazioni recenti, fra libri, tomi
e volumi di piccoli e grandi editori
Nicola Aricò, “Architettura del
tardo Rinascimento in Sicilia.
Giovannangelo Montorsoli a
Messina (1547-57)”, Firenze,
Olschki, 2013, pp. 238, 28 euro
Lo scultore e
architetto fiorentino
Giovannangelo
Montorsoli giungeva
a Messina nel1547
per realizzare una fontana
monumentale davanti alla Chiesa
Maggiore della città. Si lasciava alle
spalle l’esperienza genovese al servizio
di Andrea Doria, seguita al tirocinio
fiorentino sotto la guida di
Michelangelo, nei lavori della Sacrestia
Nuova. Il metodo interpretativo dello
spazio rinascimentale, non ancora
esperito in Sicilia, lo guidava a
un’impresa di complessa esecuzione,
entro cui andavano coniugate, con i
criteri del progetto di architettura,
istanze locali di difficile
complementarità. Eterodossia
riformista e neoplatonismo trovavano
un singolare accordo nella definizione
progettuale, all’ombra di una mitologia
della fondazione urbana. Tra l’esordio
operativo e il suo ultimo atto nella
Città dello Stretto correva un decennio
di importanti innovazioni nella politica
del viceregno. Tuttavia la sua ultima
opera nasceva nell’intento di lanciare
un vibrante monito in difesa delle
origini talassiche della città, traendo
ispirazione dal mito del mare omerico
che i suoi occhi potevano rivivere in
riva allo Stretto. La fonte di Nettuno
avrebbe definito un modello destinato
a fare scuola nella fiorentina Piazza
della Signoria e ancora a Bologna, in
Piazza Maggiore.
Francesco Giambonini,
“Bernardino Lanino ritrattista
e l’ambiente artistico-politico
del suo tempo”, Firenze,
Olschki, 2013, pp. 340, 38 euro
A latere della più vasta produzione
sacra di Bernardino Lanino si situano
alcuni significativi episodi di incursione
nella ritrattistica. Francesco Giambonini
analizza questo aspetto meno
conosciuto dell’attività del pittore a
partire dalle opere commissionategli da
Cassiano Dal Pozzo, offrendo una
lettura originale del Ritratto del giurista
sulla scorta di una
profonda
conoscenza della
cultura emblematica
del Cinquecento e
proponendo l’attribuzione di un
secondo ritratto presente in collezione
privata. Passa quindi a indagare i
rapporti tra Lanino e la corte sabauda
attraverso l’inedita interpretazione del
Marte e Venere del Petit Palais come
dipinto nuziale, dietro il quale si
celerebbe un ritratto doppio di
Emanuele Filiberto e della sposa
Margherita. Bernardino Lanino sarebbe
dunque stato coinvolto, al pari di più
celebri colleghi quali Tiziano e l’Argenta,
nella politica di Emanuele Filiberto di
ricorso alle arti figurative come mezzo
per consolidare il proprio potere.
Completa il volume un catalogo
cronologico di tutte le opere del pittore.
Franco Marucci, “Joyce”,
Roma, Salerno Editrice, 2013,
pp. 312, 16 euro
Il libro parte da una ricollocazione
dello scrittore nella tradizione del
Rinascimento civile, politico e
soprattutto culturale e letterario di fine
Ottocento in Irlanda,
e tocca quindi i
rapporti di Joyce con
contemporanei
come Yeats, Lady
Gregory, Synge, Moore, Shaw, O ’Casey,
per passare poi a osservare come egli
sfugga a questo contesto limitante e
allarghi il suo raggio di azione
assorbendo le più aggiornate posizioni
avanguardistiche europee. Nei capitoli
seguenti Franco Marucci (docente di
Letteratura inglese all’università di
Venezia) esamina la genesi dell’opera
narrativa dello scrittore muovendo dai
saggi critici e dalle note giovanili di
estetica, e soprattutto dagli “scritti
italiani”, pezzi giornalistici nella nostra
lingua usciti su un quotidiano triestino,
corrivi ma assai utili a capire le idee di
48
Joyce sulla letteratura nazionale, la sua
politica e la sua ideologia, e a
preannunciare svariati “nodi” della sua
narrativa. Nei cinque capitoli dedicati
alla sua opera maggiore, i quattro
“romanzi” e un dramma vengono visti
approfonditamente al tempo stesso
come creazioni estetiche autonome e
come soggetti a una escalation del
polistilismo e poliglottismo joyciano,
culminando nel “banchetto della
lingua” di Finnegans Wake.
Gianfranco Ravasi, “I Salmi nella
Divina Commedia”, Roma, Salerno
Editrice, 2013, pp. 88, 10 euro
Dante Alighieri
ha riservato una
particolare
attenzione ai Salmi,
il “libro di preghiere”
della Bibbia, tra i più “popolari”
dell’Antico Testamento, cui ha fatto
molti riferimenti nella sua opera e in
particolare nella Divina Commedia. In
questo volume (edito dalla Salerno
Editrice), il cardinale Gianfranco Ravasi,
insigne biblista e studioso, ricostruisce
quei richiami come testimonianze della
fede di Dante, pubblicamente dichiarata
nel canto XXIV del Paradiso.
Enrico Malato, “Dante al cospetto
di Dio (lettura del canto XXXIII del
Paradiso)”, Roma, Salerno Editrice,
2013, pp. 96, 7.90 euro
La Divina Commedia narra, com’è
noto, il viaggio salvifico di Dante, che,
smarrito nella selva oscura del peccato,
intraprende un viaggio di salvazione
attraverso i tre Regni dell’oltretomba:
l’Inferno, che accoglie i dannati; il
Purgatorio, dove sono i peccatori
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
pentiti che scontano i loro peccati e si
purificano per ascendere al cielo; il
Paradiso, che accoglie i beati (coloro
che hanno compiuto la purificazione
purgatoriale), i santi e tutte le creature
celesti che hanno meritato l’empireo. In
questo breve e agile volume, Dante al
cospetto di Dio, Enrico Malato (critico
letterario, storico della letteratura,
professore emerito di Letteratura
italiana nell’Università di Napoli
Federico II nonché coordinatore della
«Nuova edizione commentata delle
Opere di Dante » promossa dal Centro
Pio Rajna) fornisce una lettura
puntuale e chiara dell’ultimo canto
della grande opera dantesca.
Giuseppe Galasso, “Liberalismo e
democrazia”, Roma, Salerno
Editrice, pp. 100, 8.90 euro
Esiste, fra
“liberalismo” e
“democrazia”, una
forte distinzione
storica e
concettuale, ma esiste anche,
comprovato dalla storia, un rapporto
strettissimo fino alla reciproca
sovrapposizione o integrazione. Due
modelli di regimi di libertà, che la storia
ha portato, pur nella distinzione delle
rispettive forze promotrici, a una
reciproca integrazione e al trionfo su
tutti gli altri sistemi e forze del mondo
moderno. Giuseppe Galasso (storico e
professore emerito nella Università di
Napoli Federico II), nel saggio
Liberalismo e democrazia, ne analizza
consonanze e differenze.
Manlio Pastore Stocchi, “Il lume
d’esta stella. Ricerche dantesche”,
Roma, Salerno Editrice, 2013,
pp. 268, 19 euro
Il volume di Manlio Pastore Stocchi,
Il lume d’esta stella, raccoglie tredici
saggi, distribuiti in due parti. Di queste,
la prima è dedicata a ricerche su quegli
aspetti fondamentali della propria
cultura e della propria sensibilità di
lettore che Dante mette in gioco e
lascia in ogni parte della sua opera
complessa e bilingue.
La seconda parte
propone la lettura di
otto canti della
Divina Commedia,
ognuno interpretato in costante
riferimento ai suoi presupposti culturali
e dottrinali. La documentazione di base
per questi studi, quasi tutta nuova e di
prima mano, attinge essenzialmente al
pensiero e alla letteratura patristica e
del Medio Evo latino, nel presupposto
che una sicura comprensione del
poema (e in genere di tutti gli scritti
danteschi) richieda un’approfondita
conoscenza delle dottrine filosoficoscientifiche nonché della letteratura
espresse da quella civiltà mediolatina
da cui Dante stesso, pur avviandosi a
uscirne, ha tratto nutrimento e impulso
vitale. Tuttavia, nonostante il rigore
storiografico e critico che le ispira,
queste pagine, per buona parte
concepite quali lecturae Dantis, hanno
volutamente conservata sia l’originaria
impostazione piana e didascalica del
discorso, sia lo stile diretto e
comunicativo richiesto dall’occasione
per cui erano state dapprima composte,
sia, infine, il proposito di rivolgersi con
la stessa efficacia tanto agli specialisti
quanto agli amatori della poesia
dantesca.
50
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Punture di penna
Consigli intellettuali per
il vero Maître à penser
Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte seconda
LUIGI MASCHERONI
ALFABETO UTILE (per
autodefinirsi “intellettuale”): A
come “anarchico” (tutti gli intellettuali sono un po’ anarchici), B come “barone” (tutti gli
intellettuali sono un po’ baroni),
C come “controverso”, D come
“disorganico” (vedi anche O come “organico”), E come “eroe”,
F come “fenomeno”, G come
“guru”, H come “hipster”, I come “irregolare” (ma anche “impegnato”, naturalmente), L come “latino” (è sempre meglio
saperlo almeno masticare…), M
come “militante” ovviamente,
ma anche “maestro” (e anche
“maiale” per alcuni), N come
“nuovo” (l’intellettuale dice
sempre cose nuove), O come
“organico” (vedi anche D come
“disorganico”); P come “promessa” (ma anche “puttana”); Q
come “quantum” (da cui la domanda: “Quanto mi dai…?”), R
come “razza” (nel senso di “intellettuale di razza” ma anche
“intellettuali brutta razza”), S
come “stronzo”, T come “tassa”
(“gli intellettuali non pagano
Dirlo, prima di qualunque stronzata, fa generalmente un’ottima
impressione.
KUNDERA, MILAN
“Confesso che da quando si è
messo a scrivere in francese non
lo leggo più…”.
NEGAZIONISMO Argomento scivoloso. Evitare.
Sopra: Luigi Mascheroni.
Nella pagina accanto: James Gillray
(1757-1815), A Little Music or the
Dekight of Harmony (vignetta satirica,
fine XVIII secolo)
mai le tasse”, ma anche “gli intellettuali sono una tassa da pagare”), U come “utile” (ma anche “untuoso”), V come Valèry,
Paul, che disse: “Intellettuali?
Gente che attribuisce valore a
ciò che ne è assolutamente privo”, Z come Zeitgeist, perché
l’intellettuale, più di chiunque
altro, sa cogliere lo spirito del
tempo. Forse.
“CONFESSO CHE…”
FESTIVAL DI CANNES
Dire di preferire Venezia. E se si
parla di Venezia, il contrario.
Disdegnare il Festival del film di
Roma: “L’ha voluto Veltroni,
ma non interessa a nessuno”.
APPELLI Firmarli, tutti.
PUBBLICO Il migliore è
quello di nicchia.
ESORDIRE E’ un po’ morire.
CRISI Ricordare che in ci-
nese lo stesso termine significa
anche “opportunità”.
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
LARS VON TRIER Il suo
cinema ormai non fa più per voi.
Meglio i film del magrebino
Abdellatif Kechiche.
FAMA Più che altro fame.
LIBRI Mai, ma mai, presta-
re i libri: sono come le mogli, a
lasciarle andare in giro si perdono. E soprattutto, se possibile
non leggerli neppure, che si rovinano i dorsi e si sciupano le pagine.
LIBRERIA DI CASA,
COME ORGANIZZARLA
1) Le disposizioni classiche so-
no: alfabetica, per aree del pensiero, per titoli, per autore…
Persino per altezza dei volumi.
In Inghilterra ultimamente va
molto di moda la disposizione
cromatica: uno scaffale per i libri rossi, uno per i gialli, uno per
i blu… Comunque tutti gli
Adelphi e gli Einaudi vanno
sempre messi insieme, in prima
fila, ben visibili. Averli letti, di
per sé, è controproducente:
spostandoli, si compromette
l’armonia dell’insieme;
2) Il vero intellettuale non ha un
metodo. Procede assolutamente a caso, impilando i libri uno
sull’altro, man mano che li ac-
51
quista (o li ruba, evento che capita con una certa frequenza).
L’unico modo per ritrovare i volumi che interessano, a questo
punto, è la memoria. Dote della
quale - a differenza della cultura
- il vero intellettuale abbonda;
3) In caso di furto o devastazione della libreria, non rimanendo
altro da fare, indossare una vestaglia di velluto rosso, accedere
il rubinetto del gas e poi spararsi
alla tempia con in mano una copia di Le feu follet di Drieu La
Rochelle;
4) Mettere in ordine i libri è come riordinare le idee. Per quanto il solo pensiero sia terroriz-
52
zante, ogni tanto va fatto. Basta
convincersi che, in fondo, è come
incastrare pezzettini della propria vita, di forme e colori diversi.
Un po’ come Tetris. Ricordarsi
comunque che riordinare i libri,
essendo il sapere assimilabile per
osmosi, è un toccasana per la propria cultura. Sfogliando i libri, si
impara;
5) Come rispondere a chi entrato
in casa vostra, davanti alle pareti
che grondano sapere, esclama:
“Quanti libri! Li hai letti tutti?”.
Alla domanda, mentre la mascella si irrigidisce e rivoli di sudore
diaccio colano lungo la colonna
vertebrale, in qualche modo occorre rispondere. Ad esempio.
Uno: “No, ma sono a buon punto”. Due: “No, ma arredano”.
Tre: “No, ma l’applicazione del
Feng Shui impone di riempire la
casa di libri così che riportino alla
mente un’emozione positiva”.
Quattro: “No, ma mi spiace buttarli via e sto cercando qualcuno a
cui regalarli, basta che ne abbia
letti altrettanti”. Cinque: “Sì li ho
letti tutti, perché tu no?”.
MODA Mai esserne schiavi.
Anche se ogni tanto, però…
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
RADICAL CHIC Ad esempio: i pezzi di Concita De Gregorio, le camice a quadrettini di
Gad Lerner, l’insalata di polpo
con verdure crude, la Repubblica
in generale, la parola hipster, gli
hipster, quelli che “ah, io adoro
gli hipster!”, tutto ciò che passa
dalle pagine di Vanity Fair, la vanità, le fiere, le borse in pelle di
vitello di Ralph Lauren (ma anche quelle in coccodrillo di Salvatore Ferragamo), le campagne contro l’infibulazione,
Slow Food, le pashmine di Daria
Bignardi, quelli che condannato Berlusconi ma condonano il
soppalco, i film di Ferzan Ozpetek, quelli che esaltano la “decrescita felice” in uno chalet di
Courmayeur, Otto e mezzo, Calzedonia (ma non Yamamay), le
citazioni di Zygmunt Bauman,
tutto quello che fa Alessandro
Baricco, tutto quello che dice
Michele Serra, il tg di La7, il
salmone (ma solo se affumicato)
e la rustisciada (ma solo con la polenta).
NERO Va bene solo per gli
abiti.
RACCOMANDAZIONI
SAPERE Una cosa da esibi-
In editoria servono, eccome.
REVIVAL L’intellettuale è
sempre per il revival.
re.
DAVID FOSTER WALLACE Perentori: “Un gigante”. Ma se qualcuno lo dice prima di voi, rispondere: “Sopravvalutato”.
GRASS, GÜNTER Si è
davvero spinto troppo in là.
Buttar lì che è un antisemita.
PIFFERO Gli intellettuali
lo suonano benissimo, da cui l’espressione: “Intellettuali del
piffero”. Ma anche: “Non capiscono un piffero”. O: “Non valgono un piffero”.
STALIN Non azzardare pa-
ragoni con Hitler: “Sono due
cose diverse”.
PREMI LETTERARI
Parlarne male, a meno che non
ne avete vinto uno.
QUALITÀ UTILI AL
RUOLO (DI INTELLETTUALE) Faziosità, cortigianeria, invidia, vanità, frivolezza,
saccenza.
TABÙ Il vero intellettuale
non ha tabù. Anche se sarebbe
meglio non affrontare in modo
critico l’omosessualità, le pari
opportunità, il neo-femminismo, i valori della Resistenza,
quelli della Costituzione, l’antiberlusconismo, il corpo delle
donne, l’Islam, gli ebrei, il Tibet, gli indiani d’America, le
persone “di colore”, l’aborto, il
matrimonio gay, la “dolce morte”. E anche le droghe leggere.
L’assunzione delle quali, peraltro, in dosi moderate, voi non
disdegnate.
MOSTRE L’intellettuale
adora le mostre. Se c’è il buffet.
54
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Il libro del mese
La prima Repubblica:
uno sguardo retrospettivo
Storia di una democrazia difficile
GIUSEPPE BEDESCHI
E
nrico Berlinguer fece
grandi sforzi per accreditare un’immagine democratica (nel senso delle democrazie liberali occidentali) del PCI:
con l’ “eurocomunismo” egli affermò che la democrazia (costituita dalle libertà civili e politiche, dalla coesistenza delle più
diverse opinioni politico-culturali e fedi religiose, dal diritto di
espressione e di organizzazione
dei più diversi movimenti e partiti, ecc.) era un valore universale, al quale i comunisti si sarebbero sempre ispirati nelle loro
proposte di riforma e di trasformazione della società italiana. In
una famosa intervista al giornalista Giampaolo Pansa, Berlinguer dichiarò che si sentiva più
sicuro “da questa parte”, sotto
l’ombrello della Nato (e così liquidava alcuni decenni di demonizzazione comunista della Nato). Nel 1981, quando il generale
Jaruselski effettuò un colpo di
Stato in Polonia, mise fuori legge il sindacato operaio Solidar-
nosc e ne arrestò i capi, Berlinguer, in una famosa Tribuna politica televisiva, dichiarò sostanzialmente “esaurita” la “spinta
propulsiva” della Rivoluzione
d’Ottobre (e il filosovietico Cos-
Giuseppe Bedeschi, “La prima
Repubblica (1946-1993). Storia
di una democrazia difficile”,
Soveria Mannelli, Rubbettino,
2013, pp. 352, 19 euro
sutta definì questa dichiarazione
un inammissibile “strappo” con
l’Unione Sovietica). E tuttavia la
maggioranza dell’opinione pubblica italiana non avvertì tutto
questo come una “mutazione genetica” del PCI, come una sua
completa “occidentalizzazione”. Ostavano a ciò alcuni elementi di grandissimo peso: Berlinguer continuava ad avere come obiettivo il superamento del
capitalismo (sotto questo profilo
egli conservava tutta la vecchia
forma mentis marxista: in un colloquio con Ciriaco De Mita egli
disse che per lui la proprietà privata era l’equivalente di quello
che per i cristiani era il peccato
originale).1 Da ciò discendeva il
suo rifiuto delle socialdemocrazie, che avevano accettato il capitalismo, pur sforzandosi di riformarlo (attraverso la costruzione
del Welfare State ecc.). Berlinguer dichiarava di voler percorrere una misteriosa “terza via”,
di cui si poteva dire con chiarezza una sola cosa: che essa mirava
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
55
Roma, maggio 1977. Stretta di mano tra il segretario generale del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer
(a sinistra), e il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro (a destra), i principali fautori del cosiddetto
compromesso storico tra le due opposte forze politiche
a sopprimere l’impresa capitalistica e il mercato. E infatti il leader comunista, mentre condannava e rifiutava i “tratti illiberali”
dell’URSS e delle società comuniste, individuava questi “tratti
illiberali” solo nella sfera politica
(autocratica e dispotica), mentre
celebrava le grandi conquiste sociali di quei paesi, in quanto essi
avevano statizzato l’economia,
abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, costruito una solida base socialista, la quale doveva essere solo, per cosi dire,
democratizzata.
Queste posizioni ideologico-politiche sancivano la sostanziale estraneità delle idee di Berlinguer al mondo occidentale e
alla democrazia liberale. Sicché,
sotto la segreteria del leader sardo il PCI non riuscì mai a rompere sino in fondo il proprio cordone ombelicale con la tradizione comunista (ha scritto un exdirigente del PCI, Emanuele
Macaluso, che fu ai vertici del
partito: “A quella identità [comunista] in definitiva lo stesso
Berlinguer, con tutti gli strappi,
non seppe e non volle rinunciare”).2 Del resto, era tutto il partito ad essere orientato (direi quasi
“ispirato”) in questo senso: fino
alla seconda metà degli anni Ottanta, nei congressi dei comunisti italiani la grande maggioranza dei delegati dichiarava di avere il modello sovietico come pro-
pria stella polare.
La vicenda ideologico-politica del PCI può essere vista in
modo esemplare nella figura di
un suo grande leader, considerato il capo della corrente di destra
del partito: Giorgio Amendola.
Nell’Intervista sull’antifascismo,
pubblicata nel 1976, Amendola
dichiarò: “il trentennio repubblicano ha permesso di conquistare le più alte condizioni di vita
che il popolo italiano abbia mai
conosciute. Io dico sempre nelle
riunioni, alla presenza anche di
giovani contestatori, una frase
che assume un carattere provocatorio: gli italiani non sono mai
stati tanto liberi come adesso”.3
Non era un riconoscimento da
56
poco da parte di chi aveva combattuto le scelte della DC e dei
suoi alleati, per decenni, con la
più grande asprezza. In realtà
Amendola aveva sempre avuto
posizioni innovatrici e coraggiose: come quando, nel 1964, proclamò la necessità di superare
l’esperienza comunista e quella
socialista, in un partito nuovo,
riformista; o come quando respinse l’estremismo sessantottardo che era penetrato anche
nel suo partito; o come quando
proclamò che per combattere efficacemente il terrorismo, il PCI
avrebbe dovuto fare un sincero
esame di coscienza sul proprio
passato; o come quando, fallita la
politica di “solidarietà nazionale”, sostenne che il PCI doveva
continuare a farsi carico dei problemi del Paese e non indulgere
a una opposizione pregiudiziale
e rancorosa. E tuttavia, nonostante tutto ciò, Amendola non
rinunciò mai al legame di ferro
con l’Unione Sovietica, e in momenti cruciali si ispirò a un intransigente filosovietismo. Così
egli si dissociò, in modo stupefacente, dalla condanna pronunciata dal PCI contro l’invasione
sovietica dell’Afghanistan.
Da Togliatti a Berlinguer,
dunque, il PCI, in tutte le sue
componenti, rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla democrazia occidentale. Il principale partito di
opposizione (che nel 1984, sia
pure per un istante, realizzò il
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Palmiro Togliatti durante un comizio
‘sorpasso’ elettorale sulla DC)
restò sempre, sostanzialmente,
un partito antisistema. E se a ciò
si aggiunge che anche la destra
missina rimase, durante tutta la
Prima Repubblica, nostalgica e
fascista, il carattere “bloccato”
della nostra democrazia emerge
in tutta la sua drammaticità.
Democrazia “bloccata” significa democrazia senza alternanza. Ma l’alternanza è la grande, fondamentale risorsa dei sistemi liberaldemocratici. Si può
dire che non esiste liberaldemocrazia senza alternanza, la quale
è infatti il risultato di un continuo confronto di idee, di programmi, di esperienze politiche
e di governo. Se un partito o un
gruppo di partiti deludono i propri elettori, essi perdono la maggioranza e, nelle elezioni successive, vengono sostituiti al governo da un altro partito o da un altro gruppo di partiti. L’alternan-
za è quindi anche un grande strumento di ricambio dei ceti politici, e perciò di un loro continuo
irrobustimento ideale e pratico
(nell’arte di governo). Nell’Italia
della Prima Repubblica tutto
questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito, la
DC, e alcuni partiti suoi alleati,
sono stati “condannati” a governare. Di qui una inamovibilità
del ceto politico, dei suoi grands
commis, dei suoi “esperti”, dei
suoi tecnici, ecc. Di qui, anche,
un continuo aumento della corruzione, grazie a quella inamovibilità. Questa è stata una delle tare più gravi della Prima Repubblica.
Un’altra tara è stata costituita dalla cultura statalistica
propria dei nove decimi delle
forze politiche italiane. Statalisti
erano il PCI e il PSI, per la loro
concezione marxista della società. Statalistica era largamente la
cultura della Democrazia Cristiana (“I democristiani - disse
Ugo La Malfa - hanno un linguaggio per cui il capitalismo è
un male. Non vedono i problemi
se non con mentalità precapitalistica, puramente assistenziale”);4
statalistica era la destra, con la
sola eccezione del piccolo Partito liberale. Ciò ha avuto le più
gravi conseguenze. La politica
economica liberistica di Einaudi, di Corbino, di Merzagora
ecc. è durata pochi anni. Finito il
centrismo, finita l’età degasperiana, lo statalismo prese subito
58
il sopravvento. Basti pensare alla
svolta fanfaniana.
Fanfani dovette trasformare la DC che aveva ereditato da
De Gasperi, da partito di notabili, appoggiato dalla Chiesa e dalle
organizzazioni cattoliche, in una
macchina-partito, sul tipo di
quella del PCI che doveva combattere: una organizzazione presente su tutto il territorio (città,
paesi), con proprie sedi, propri
funzionari (alcune migliaia), con
manifestazioni di massa (comizi,
feste), con giornali e pubblicazioni di propaganda. Un apparato di
questo genere era molto costoso,
e Fanfani trovò le risorse necessarie nel settore delle aziende pubbliche, che in Italia era già vasto,
più vasto rispetto a qualunque
paese europeo (basti pensare al
gruppo IRI, creato dal fascismo
per attutire gli effetti della grande
crisi economica apertasi nel
1929, ed ereditato dalla Repubblica), e che, non a caso, dopo il
fascismo diventò ancora più vasto
(ENI, ecc.). Il settore pubblico
dell’economia fu anche messo in
grado di influire fortemente sulle
relazioni industriali del settore
privato. Infatti, quando nel dicembre 1956 fu votata la legge
che istituiva il ministero delle
Partecipazioni Statali, essa stabiliva anche lo “sganciamento” delle imprese pubbliche dalla Confindustria. Ciò portò alla conseguenza che i sindacati ottenevano
contratti molto favorevoli nelle
imprese pubbliche, che poi essi
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
cercavano di trasferire sul fronte
delle imprese private, ormai
‘spiazzate’.
Fanfani non ebbe nessuna
difficoltà a svolgere questa politica di ampliamento e di potenziamento dell’economia pubblica: la sua formazione culturalepolitica era stata di tipo corporativistico durante il fascismo (aveva aderito con zelo al regime); la
confluenza, dopo la guerra, nel
gruppo democristiano dossettiano, aveva rafforzato in lui l’ispirazione antiliberale, antiprivatistica, antiindividualistica.
Sotto questo profilo, Fanfani fu la personalità democristiana più adatta a presiedere il
primo governo di centro-sinistra, col suo programma di nazionalizzazioni (l’Enel), di programmazione economica mirante (secondo l’intenzione di
Riccardo Lombardi e del PSI) a
mortificare l’iniziativa privata, a
ridurne il ruolo, e ad esaltare, per
contro, l’impresa pubblica, il
settore pubblico dell’economia.
L’ingresso dei socialisti nell’area del potere dal 1962 in poi,
accentuò lo statalismo dei ceti
politici al governo, i quali non
elaborarono in nessun modo un
concreto, realistico e fattibile
programma di modernizzazione
della società italiana. Dopo il
“miracolo economico” (realizzato da centinaia e centinaia di piccoli e medi imprenditori) - che
aveva fatto del Paese una grande
economia industriale, e al tempo
stesso aveva accumulato, per la
massiccia emigrazione dal Meridione al Settentrione, gravissimi
problemi sociali - la società italiana era estremamente bisognosa
di case, di ospedali e di assistenza
medica, di scuole, di trasporti, di
servizi. Proprio qui il centro-sinistra fallì clamorosamente (secondo la testimonianza di un autorevole intellettuale socialista,
Luciano Cafagna, mai si costruirono così poche case, scuole,
ospedali, ecc., come durante il
centro-sinistra, ma in compenso
si discettò a lungo, e si battagliò
tenacemente per le “riforme di
struttura”). Il non aver affrontato
per tempo le gravi carenze sociali
che affliggevano l’Italia determinò il Sessantotto, “l’autunno caldo” del 1969, e l’intensità quasi
rivoluzionaria di questi movimenti, nonché la loro durata nel
tempo (da noi il Sessantotto durò
parecchi anni, cosa che non accadde in nessun paese europeo).
Senonché “l’autunno caldo” de-
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
59
Da sinistra: Amendola e Togliatti; Luigi Einaudi nel suo studio. Nella pagina accanto: Amintore Fanfani durante un comizio
terminò aumenti troppo elevati
dei salari, al di fuori di qualunque
rapporto con la produttività, e
una rigidità eccessiva del lavoro
nelle fabbriche, quale non esisteva in nessun paese d’Europa. Di
qui il fallimento di molte aziende,
e le gravi difficoltà delle aziende
che sopravvissero, le quali scaricarono sui prezzi i costi eccessivi.
Di qui forti processi inflazionistici, che sarebbero stati aggravati
da una amplissima spesa sociale
nel decennio 1965-75 (per pensioni, sanità ecc.). A tutto ciò si
aggiunsero gli effetti dello shock
NOTE
1
C. De Mita, La storia d’Italia non è finita, Guida, Napoli, 2012, p. 84.
2
E. Macaluso, 50 anni nel PCI, Rubbet-
petrolifero del 1973 e degli anni
successivi.
Fu il completo fallimento
del centro-sinistra (dovuto alla
cultura statalistica dei socialisti e
a quella anticapitalistica della
maggior parte della Democrazia
Cristiana) a determinare il grandissimo aumento dei voti comunisti nel 1975-76. Nella gravissima crisi economico-sociale che
si era determinata, che metteva
in discussione il futuro del Paese,
l’esperienza della “solidarietà
nazionale” divenne inevitabile.
Il PCI contribuì senza dubbio -
con l’accettazione di energiche
misure di risanamento - a superare l’emergenza economica.
Ma tale esperimento (che Berlinguer si illuse fosse la prima fase di quel “compromesso storico” che avrebbe dovuto caratterizzare, secondo il suo progetto,
una intera fase della storia italiana) era destinato a concludersi
assai presto: il che sarebbe avvenuto comunque, anche senza
l’assassinio di Aldo Moro (il
principale interlocutore dei comunisti nella DC) a opera delle
Brigate Rosse.
tino, Soveria Mannelli 2003, p. 180; e v. p.
181.
3
G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Laterza,
Roma-Bari 1976, p. 1.
4
U. La Malfa, Intervista sul non-governo, Laterza, Bari, 1977, p. 71.
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
61
Editoria
Mondadori, editore
a volte “non venale”
Sui volumi fuori commercio della Mondadori
MASSIMO GATTA
– terza parte. La prima e la
seconda parte sono state pubblicate
sul numero di ottobre e novembre
«I
n tanti anni ho imparato che i lettori non si
aspettano, ma vanno
cercati, convinti, serviti», questa
frase di Arnoldo Mondadori è alla
base della nascita di alcune sue celebri Collane popolari38, anch’esse testimoniate da volumi ed opuscoli di notevole pregio39. Nel ‘33
nasce una delle collane di magNOTE
38
Su alcune celebri Collane mondadoriane
segnalo l’utile catalogo antiquario della Libreria
del Novecento, n. 4, s.d. (anni ’90), dedicato monograficamente a molte collane della Mondadori
e di altri editori.
39
Tra gli ultimi segnalo l’utile ed elegante
Scrittori italiani e stranieri 1999-2011, con uno
scritto di Antonio Franchini, Milano, Mondadori,
2012.
40
Almanacco della «Medusa» 1934, con una
nota dell’editore, 88 illustrazioni e una allegoria
di Bruno Angoletta, Milano, Mondadori, dicembre 1933. Il volume contiene la bibliografia degli
autori della Medusa, l’elenco dei traduttori, cenni
sui primi 30 volumi della collana e giudizi critici
sulla stessa. Per le illustrazioni di Bruno Angoletta rimando a Dalla A alla Ang. Bruno Angoletta
giore prestigio, la «Medusa», che
già l’anno successivo sarà celebrata in un elegante Almanacco 40
molto curato nell’impaginazione
e nella grafica, arricchito da 88 illustrazioni e un’allegoria a colori,
opere di Bruno Angoletta, il
grande illustratore che tanta parte avrà nelle scelte grafiche della
casa di Ostiglia. Si deve a lui infatti, nel ’33, il disegno del marchio
della «Medusa», il celebre volto
di donna alato, realizzato in stretto rapporto professionale con
Enrico Piceni (Milano 19011986), critico letterario e d’arte,
traduttore e responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice.
Piceni compilò, inoltre, con Valentino Bompiani l’Almanacco
Letterario.
L’Almanacco della Medusa
risulta esaurito già nel ’37, anche
a causa del sequestro ordinato da
Mussolini in persona il 21 maggio
del ’38 con la motivazione che in
esso «vi erano scritti di ebrei tedeschi»41. Di grande importanza
prefessione illustratore, cit., pp. 20-21.
41
Su questa celebre collana cfr. Mauro Chiabrando, Uno sguardo alla “Medusa”. Storia e numeri di un progetto editoriale, «Charta», 61, novembre-dicembre 2002, pp. 32-37; cfr. inoltre
Niccolò Gallo, Gli italiani della “Medusa”, in Id.,
Scritti letterari, Milano, Il Polifilo, 1975, pp. 121123. Sulla figura, al tempo stesso centrale e rimossa, di Niccolò Gallo rimando alla tesi di Emanuela Zandonai, Niccolò Gallo: critico-lettore per
Mondadori (dal 1958 al 1971). L’uomo nell’ombra, rel. Mario Infelise, cor. Ricciarda Ricorda, Venezia, Università degli Studi Cà Foscari, Facoltà di
Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002; ma su Gallo
cfr. anche Cesare Garboli, L’ultimo lettore, in Id.,
Falbalas, Milano, Garzanti, 1990, pp. 65-70. Per la
“Medusa” segnalo invece Velania La Mendola, Per
una storia della “Medusa”: contrabbando, consa-
crazione e declino, in Libri e scrittori da collezione.
Casi editoriali in cento anni di Mondadori, cit., pp.
130-164; Guido Lopez, La signorina vestita di
verde, «Epoca», v. VIII, 101, 13 settembre 1952, pp.
60-61, e dello stesso Lopez l’imprescindibile I verdi i viola e gli arancioni, Milano, Mondadori, 1972,
dove i tre colori riguardavano tre celebri collane
mondadoriane: il verde la “Medusa”, il viola i
“Grandi narratori italiani” e l’arancione la “Medusa degli Italiani”.
42
Su questo curioso aspetto rimando a Enrico
Mannucci, Quando Hemingway marchiava la
Medusa, «WUZ», 8, ottobre 2003, pp. 28-29; cfr.
anche Guido Lopez, I verdi i viola e gli arancioni,
cit., p. 77.
43
Cfr. Simona Minicucci, «Guardare i libri di
tutti i paesi con occhi italianissimi». Lavinia Mazzucchetti e la letteratura tedesca, in Stampa e
62
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
per la collana fu il rapporto con
Hemingway; bizzarra l’abitudine
dello scrittore di «marchiare» col
proprio superlibros alcuni titoli
della Medusa42. I ruoli editoriali
all’interno della collana erano così distinti: Lavinia Mazzucchetti
era responsabile dei volumi di letteratura tedesca43, Giacomo
Prampolini di quelli di letteratura
nordica, Enrico Piceni di quelli
francesi e inglesi, il tutto coordinato dallo stesso Arnoldo Mondadori e dal condirettore generale della casa editrice Luigi Rusca.
Altri opuscoli fuori commercio
dedicati a questa collana furono
quello stampato in occasione dei
primi 500 numeri, con scritti e ricordi di molti scrittori, da Arbasino a Bernari, da Buzzati a Faulk-
ner, da Parise a Soldati44; e infine
una Guida illustrata alla lettura,
che ha tra l’altro il pregio di riportare le schede bibliografiche degli
scritti di ciascun autore pubblicato nella Medusa45.
Altre collane storiche si susseguono nel giro di qualche decennio. Nel ‘29 in Francia nasceva la figura del commissario Maigret (in Pietr Le Letton), negli Stati Uniti faceva la sua comparsa
Sam Spade, l’eroe di D. Hammett, Ellery Queen esordiva col
romanzo The Roman Hat Mystery.
In Italia, invece, Arnoldo Mondadori, con un vero colpo di genio intuendone tutte le potenzialità in termini di pubblico e commerciali, faceva tradurre, pubblicandolo come n. 1 della serie, The
Benson Murder Case scritto da S.S.
Van Dine tre anni prima. Con La
strana morte del signor Benson, con
una bella copertina disegnata da
Alberto Bianchi, nascevano così
I libri gialli, destinati ad una folgorante e longeva carriera. Preziosa
appare quindi la recente pubblicazione della corrispondenza
inedita intercorsa tra Arnoldo
Mondadori e Lorenzo Montano
sull’origine della collana giallistica e anche su altre collane46. Sia la
serie gialla che il richiamo al commissario Maigret ci conducono
direttamente sulle tracce di due
grandi illustratori, a cui dobbiamo gran parte del successo iconografico della collana: Carlo Jacono e Ferec Pintér47. Nel ‘40 nasce
la collezione Lo Specchio che agli
piccola editoria tra le due guerre, a cura di Ada Gigli Marchetti e Luisa Finocchi, Milano, Franco Angeli, 1997, p. 236-258.
44
1933-1966 Cinquecento Meduse. Omaggio
alla Medusa, Milano, Mondadori, s.d. [1966].
45
I capolavori della Medusa. Guida alla lettura, con una introduzione non firmata, Milano,
Mondadori, 1970.
46
Cfr. Claudio Gallo, Carteggio inedito tra Lorenzo Montano e Arnoldo Mondadori: alle origini
del «giallo» e di alcune collane Mondadori, «Atti
della Accademia Roveretana degli Agiati», CCLII,
a.a. 2002, ser. VIII, vol. II A, Rovereto, 2002, pp.
181-226. La letteratura bibliografica su questa
collana è molto ampia, mi limito a segnalare Catalogo generale dei Gialli Mondadori. Tutti gli autori e i titoli pubblicati dal 1929 ad oggi, Milano,
Oscar Mondadori, s.d. [1996], pubblicato in occasione del numero 2500 della Collana; Il libro giallo in Italia: dalle origini al 1945, in Il giallo e il suo
lettore. Libri polizieschi nelle biblioteche di Imola
e di Forlì, a cura di Renzo Cremante e Lidia Mastroianni, Bologna, Compositori, 2005, pp. 81100; Loretta Eller, Il Giallo. Storia, personaggi, autori, illustratori, con una Cronologia mondado-
riana, a cura di Pietro Tulelli, Roma, Palombi,
1996 [edizione amatoriale stampata in 700 copie
in occasione della mostra dedicata all’illustratore
Carlo Jacono]; Gianfranco Orsi, Lia Volpatti, Il
giallo Mondadori dal 1929 al 1941, in Il Giallo degli anni Trenta, Atti del Convegno dell’Università
di Trieste, Trieste, Lint, 1988, pp. 277-282; cfr. anche Piccola enciclopedia del giallo. Autori e personaggi dalle origini a oggi, Milano, Mondadori,
1979, volume realizzato in occasione del 50° anniversario dei gialli Mondadori (1929-1979); Silvano Rubino, I “Gialli”, in Libri giornali e riviste a
Milano. Storia delle innovazioni nell’editoria milanese dall’ottocento ad oggi, cit., p. 136, Oreste
Del Buono, La letteratura popolare: i “Libri verdi”, i
“Libri azzurri”, i “Romanzi della Palma”, i “Libri
gialli”, in Editoria e cultura a Milano tra le due
guerre (1920-1940), cit., pp. 93-97 e infine [Stefano De Laurentiis], A sfondo giallo. I colori del
poliziesco (Dal 1929), in Diario Mondadori 1998.
Le innovazioni, cit., senza numerazione di pagina.
47
Su Carlo Jacono, oltre al precedente volume
della Eller, segnalo Jacono oltre il giallo. Carlo Jacono illustratore, a cura di Eric Balzaretti, Ferrara,
Museo dell’Illustrazione, Multidea, 2002. Su Pin-
ter rimando invece all’elegante volume Ferec
Pintèr, scritti di Gavino Sanna, Santo Alligo, Beppe Peduzzi, Bepi Vigna, Torino, Segni&Disegni,
s.d., stampato in 800 esemplari numerati e firmati da Pintér. Cfr. più in generale Maurizio Romanò,
Il giallo e gli altri colori. Sessant’anni di romanzi
gialli e di copertine illustrate, «Portfolio illustratori», 12, 1987, pp. 4-13.
48
Il cinquantennio editoriale di Arnoldo Mondadori 1907-1957, cit., p. 42. Sulla collana di poesia cfr. Silvia Santini, “Lo Specchio” Mondadori.
Una collana tra narrativa e poesia: 1940-1950,
rel. Roberto Cicala, Milano, Università Cattolica
del Sacro Cuore, a.a. 2004-2005 e infine Giordano Castellani, Uomini e libri dello Specchio: 19401982, in Studi di letteratura italiana offerti a
Dante Isella, Napoli, Bibliopolis, 1983, pp. 23-35.
49
Marzio Tosello, Avventure nello spazio e nel
tempo. Da I romanzi di Urania a Urania, in Cartografia dell’inferno. 50 anni di fantascienza in Italia 1952-2002, a cura di Gianfranco de Turris, Verona, Biblioteca Civica, 2002, pp. 25-32. Cfr. anche Urania. Cinquant’anni di futuro, a cura di
Giuseppe Lippi, disegni di Giuseppe Festino, contributi di U. Malaguti, G. Mongini, V. Curtoni, L.
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
63
inizi era divisa in tre sezioni, una
per la narrativa, una per la prosa
d’arte, una per la lirica, mentre in
seguito diventerà la celebre collana esclusivamente dedicata alla
poesia48.
Alla stessa koiné editoriale
dei Gialli appartiene invece la collana Urania. Agli inizi degli anni
’50 non esisteva ancora in Italia
una rivista specifica dedicata alla
fantascienza. In quell’anno Giorgio Monicelli, nipote di Arnoldo
e grande appassionato del genere
fantascientifico, scrittore, traduttore e collaboratore del settore
editoriale, propone la creazione
di una rivista di genere fantastico
da affiancare alla collana simbolo
della casa: i Gialli Mondadori. Solo
nel ‘52, però, verrà distribuita,
non una rivista, ma un’altra collana: I romanzi di Urania, prima
uscita il 10 ottobre. Il primo novembre, tra il secondo e il terzo
romanzo pubblicato, vedrà finalmente la luce il primo numero
d’una nuova rivista: «Urania».
Ma questa è tutta un’altra storia49.
Altre due collane saranno il
vessillo di questo editore: gli
Oscar e I Meridiani. Impossibile
quì dilungarsi su entrambe, diciamo solo che tutte e due nascono
abbastanza tardi e riguardano in
fondo il secondo periodo mondadoriano. Gli Oscar (Libri-transistor che fanno biblioteca, come veniva indicato sul retro della copertina) appaiono, infatti, il 27
aprile del ‘65, imponendosi nel
giro di qualche anno come uno
dei casi di maggior successo editoriale, anche per la scelta iconografica delle copertine50. Il primo
titolo della collana è di Ernest
Hemingway, premio Nobel
1954: Addio alle armi (A Farewell
to arms) nella storica traduzione
di Fernanda Pivano, un romanzo
che vendette 210.000 copie in
una settimana e quasi 400.000 nei
due mesi seguenti51 Infine I Meridiani, collana di classici di ogni
tempo e paese nata nel ‘69 e ancora in ottima salute52. Infine, a
chiudere il cerchio, le collane
Club degli Editori53, Biblioteca Moderna Mondadori54, Harmony55,
Junior56, I Miti57.
Fine terza parte. La quarta
e ultima parte sarà pubblicata
sul numero di gennaio 2014
Serra, M. Tosello, R. Valla, G. Lippi, Milano, Mondadori, 2002 [Urania speciale anniversario].
50
«Vuole sapere quando è cominciato tutto?»,
chiede Alberto Lecaldano, direttore di ‘Progetto
grafico’ e art director per la casa editrice Voland,
«1965: quell’anno Bruno Binosi e Mario Tempesti
misero sull’Oscar Mondadori di Addio alle armi
un’illustrazione. Non fu la prima, ma fu un cambio di strategia», in Dario Olivero, I vestiti dei libri.
Vince il look che non si vede, «la Repubblica», domenica, 17 giugno 2007, pp. 46-47 [46].
51
Elena Rancati, Beatrice Porchera, La promozione degli «Oscar»: «aver fede costanza coraggio
nelle imprese nelle quali si crede», in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in cento anni di
Mondadori, cit., pp. 165-172. Agli Oscar è dedicato interamente il Diario Mondadori 2005. Gli
Oscar, testi di G. Alberti, A.L. Cavazzuti, a cura della Direzione Relazioni Esterne e Comunicazione,
con la collaborazione della Fondazione Arnoldo e
Alberto Mondadori, Milano, Mondadori, 2005
[ediz. fuori commercio a tiratura limitata non indicata]; Giovanni Peresson, Gli Oscar e gli altri,
«Giornale della libreria», n. 2, 1989, pp. 7-11. Cfr.
inoltre [Stefano De Laurentiis], Raggiungere i let-
tori. Gli Oscar (Dal 1965), in Diario Mondadori
1998. Le innovazioni, Milano, Mondadori, 1998,
senza numerazione di pagina. Agli Oscar erano
anche dedicati una serie di Guida agli Oscar
Mondadori, nel ’74, ’76, ’78, ’80 e successivamente, in occasione dei venticinque anni della collana, una Guida alla lettura Oscar ‘90, Milano,
Mondadori, 1990 seguito l’anno dopo dalla Guida alla lettura Oscar ‘91, Milano, Mondadori,
1991 e anche dalla Guida alla lettura Oscar ‘92,
Milano, Mondadori, 1992, di cui cfr. Gerardo Mastrulo, Ma il gioco vale la collana? Visti, rivisti, mai
visti, «La rivisteria», n. 16, 1992, pp. 43-44; Leonardo Mondadori, Un oscar tutto d’oro, «Prima
comunicazione», n. 83, 1981, pp. 14-15, Carlo
Ruta, L’Oscar vestito di blu. Così Mondadori plagiò Sellerio, «Libri meridionali», n. 2-3, 1990, pp.
28-29, Paolo Soraci, Un catalogo da Oscar, «La rivisteria», n. 3, 1991, pp. 19-22. Cfr. infine la tesi di
Federica Baroni, Dieci anni di Oscar Mondadori.
Analisi delle copertine illustrate 1965-1975, rel.
Gloria Binchino, Parma, Università degli Studi,
a.a. 1999-2000.
52
Cfr. I Meridiani 1969-1999. La lettura da
Ariosto a Zanzotto, a cura di Vincenzo Campo,
Milano, Mondadori, 1999 e [Stefano De Laurentiis], Classici da leggere. I Meridiani (Dal 1969), in
Diario Mondadori 1998. Le innovazioni, senza
numerazione di pagina, cit.
53
[Stefano De Laurentiis], Fedeli alla lettura. Il
Club degli Editori (Dal 1960), in Diario Mondadori
1998. Le innovazioni, senza numero di pagina,
cit.
54
[Id.], Allargare il mercato. La Biblioteca Moderna Mondadori (1948-1966), ivi [senza numero di pagina]. Cfr. anche Il cinquantennio editoriale di Arnoldo Mondadori 1907-1957, cit., pp.
49-51, 58-59.
55
[Id.], Direttamente al cuore. Gli Harmony
(Dal 1981), ivi [senza numero di pagina].
56
[Id.], Piccoli e belli. Gli Junior (dal 1988), ivi
[senza numero di pagina].
57
[Id.], La nuova frontiera. I Miti (Dal 1995), ivi
[senza numero di pagina]; cfr. anche la tesi di Micol Cadore, Il posizionamento della collana “I Miti” Mondadori, rel. Paola Dubini, cor. Luisa Finocchi, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2004-2005. Infine Renato
Basilio, Affari e poesia (I Miti mondadoriani), «Il
segnale», n. 44, 1996, pp. 21-23.
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dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
65
L’altro scaffale
Storia, spionaggio, politica
e memorie nascoste
Piccole ma preziose proposte di collezionismo
ALBERTO CESARE AMBESI
L’
anno? Il 1832. Il luogo?
Palermo. L’editore? La
Tipografia Abbate. L’opera meritevole di segnalazione?
La prima edizione siciliana delle
Memorie del dottor Francesco Carlo
Antommarchi - Ovvero gli ultimi
momenti di Napoleone. Un vivido
insieme di ricordi concepito in
due tomi, ma che può presentarsi
anche in un solo volume, ripartito
in due parti, rispettivamente di
312 e 302 pagine, come nel caso
che qui menzionamo poiché si
tratta, comunque, di una testimonianza diretta del medico che fu al
fianco e al capezzale di Napoleone dal 19 dicembre 1819 sino al
fatidico 5 maggio 1821. Comprensibile, dunque, che gli storici
e i romanzieri dell’Ottocento e
del Novecento si siano più volte
rifatti alle sue pagine, quando
chiamati a narrare la vita dell’Imperatore dei francesi.
Una relativa popolarità che
ha reso il testo un po’ difficile da
rintracciarsi, per cui appare giustificato il prezzo di 250 euro, recentemente richiesto dalla Libre-
Francesco C. Antommarchi
(1780-1838), Maschera mortuaria
di Napoleone, 1821 (copia in bronzo)
ria La Fenice di Brescia per un
esemplare, con qualche marginale difetto, della citata edizione palermitina. Di ciò fra breve. Vediamo, intanto, di ricordare che
Francesco C. Antommarchi
(1789-1838) fu corso di nascita,
ma con una prevalente formazione culturale italiana. Specializzato in oftamologia, ebbe di sicuro
qualche incertezza di troppo, e
tuttavia non pochi meriti, nelle
cure e nell’assistenza dell’illustre
paziente. Sua la diagnosi, dopo
l’autopsia, secondo la quale la
morte di Napoleone era stata
causata da un cancro allo stomaco. Si attribuisce inoltre alle di lui
mani, con qualche incertezza, la
fabbricazione della correlata maschera mortuaria, da tempo conservata presso il Musée de l’Armée
di Parigi.
Non sussistono dubbi, invece, come si è accennato, a proposito della validità, storica e letteraria, della rievocazione di Antommarchi, prematuramente
scomparso a Santiago di Cuba,
colpito dalla febbre gialla. Si dovranno quindi apprezzare tutte le
caratteristiche, grafiche ed editoriali, della copia offerta dalla libreria bresciana, ma accettando
anche i difetti che il caso e il tempo vi hanno sovrapposto. In concreto: l’opera si presenta con una
bella rilegatura, di poco posteriore, in mezza pelle verde scuro,
con titoli e fregi d’oro al dorso,
piatti marmorizzati e tagli a
spruzzo. Ha un curioso formato
in 16° stretto e, in pratica, risulta
66
la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
divisa in quattro parti. Il frontespizio mostra un minuscolo foro,
dovuto ad una bruciatura, e macchie e fioriture, alquanto evidenti, disseminate anche nelle prime
pagine, ma senza che la chiarezza
del testo ne risulti alterata.
Manlio Morgagni è un personaggio noto. La storia del giornalismo politico italiano ne ricorda la figura, con discordi perplessità, poiché, nella notte fra il 25 e
il 26 luglio 1943, sconvolto dalla
notizia dell’arresto di Mussolini,
aveva scelto di togliersi la vita, appena quarantaquattrenne, non
vedendo più futuro per sé e per
l’Italia. Interventista e sansepolcrista, dall’8 aprile 1924 e fino a
quel momento era stato l’efficiente presidente e direttore responsabile della «Stefani», l’agenzia stampa ufficiale del governo italiano, in effetti da lui portata
a un elevato grado di autorevolezza, nell’ambito nazionale e inter-
James Gillray (1756–1815), Napoleone impazzito a causa delle relazioni fra Francia
e Inghilterra, vignetta satirica, 1803. Nella pagina accanto, Benito Mussolini
nazionale. Qui, tuttavia, dobbiamo ricordarci di Manlio Morgagni, perché, nel 1922, fu cofondatore, con Arnaldo Mussolini
(1885-1931) della «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» e poi
suo direttore unico, dopo la morte del fratello del Duce. Certo, la
pubblicazione forse fu di disegua-
BLOCK NOTES
APPUNTI ELEMENTARI
DI BIBLIOLOGIA
quinta puntata
Principali abbreviazioni usate
in sede di catalogo
p./pp.: pagina/e.
preg.: pregevole.
qq.: qualche.
ritr.: ritratto.
s.d.: senza data.
s. dati ed.: senza dati editoriali.
s.l.: senza luogo di edizione.
sottol.: sottolineature.
sovr.-sovracc.: sovraccoperta,
sovracopertina, per lo più
plastificata, che riveste la legatura.
stralcio (o estratto): saggio,
articolo tratto da rivista
o da pubblicazione più ampia.
t.: tutta.
t.pelle.: tutta pelle.
t.tela.: tutta tela.
le valore nei venti e più anni di vita, ma occorrerà pure riconoscere
che non le furono neppure ignoti
eccezionali esiti, come nel caso
dell’edizione speciale del 1936
dedicata all’Italia imperiale. Un in
folio (cm. 45 x 37) oggi posto in
vendita dalla Libreria Antiquaria
Cicerano di Napoli al prezzo di
800 euro. Richiesta ragionevole,
poiché si tratta di un’opera in
buono stato di conservazione, di
624 pagine (non numerate), ricca
d’illustrazioni nel testo e fuori testo. Per la precisione: molte fotografie di validi collaboratori dell’Istituto L.U.C.E. e tavole a colori, applicate su cartoncino pesante, da disegni originali, fra gli
altri, del pittore Mario Sironi
(1885-1961) e dell’architetto
Marcello Nizzoli (1887-1969).
La sua legatura è in cellograf (cartone plastificato) ornata in bicromia con un fascio littorio. Non
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
67
INDIRIZZO E RECAPITI
meno interessante è la componente scritta, imperniata sui contributi di autori rispondenti ai nomi di Arrigo Solmi (1873-1944),
storico del diritto, Roberto Almagià (1884-1962), illustre geografo, Giovanni Agnelli (18661945), industriale e senatore del
Regno. Più, come c’era da attendersi, una schiera degli esponenti
più in vista del Regime, a cominciare da Mario Appelius, Luigi
Federzoni e Achille Starace. Gli
argomenti affrontati: quanto era
offerto, in quell’anno, dalla storia
e dall’attualità politica internazionale: storia del passato; l’Italia
fascista; Versaglia (sic!) e Ginevra; precedenti del conflitto etiopico; la conquista militare dell’Abissinia; fondazione dell’Impero;
l’economia imperiale…
Su onda 31 Roma non risponde
è il titolo enigmatico di un libro
che non dovrebbe esistere. Nel
1957, difatti, fu sequestrato e distrutto prima ancora che uscisse.
Tuttavia, è un testo piuttosto conosciuto e discusso, grazie a una
ristampa anastatica, semiclandestina, pubblicata qualche decennio più tardi, in pochissimi esemplari. Ovviamente, senza che risulti la data di edizione e con
un’indicazione, quanto meno
complessa, del luogo di stampa:
Taranto, Sindico-Montanaro.
Chi ne sia stato l’autore non è un
mistero, giacché se ne occupò
perfino il «Corriere della Sera»,
il 28 gennaio 1996: Franco Tabasso, figlio di Aristide; quest’ul-
LIBRERIA LA FENICE
Via Solferino, 10/a
25122 Brescia
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50125 Firenze
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timo, peraltro, protagonista di
un’intricata vicenda spionistica
durante la seconda guerra mondiale e con ruoli duplici, se non
tripli. Giusto come è puntigliosamente rievocato nel volume citato (328 pagine, in 8°), compreso il tratteggio dei tempi e dei
luoghi che si sono volutamente
mantenere in ombra. Ufficiale
del servizio Informazioni e Sicurezza della Marina italiana, e poi
capitano della Polizia, uomo di
fiducia, nel pieno del conflitto,
tanto dei servizi segreti inglesi
quanto degli equivalenti uffici
nazionali di Roma e di Salò (dunque monarchico e fascista, a un
tempo?), ciò che rimane sicuro, o
altissimamente probabile, è il
dato di fatto che Aristide Tabasso
ebbe in mano, per qualche tempo, il fantomatico (ma non troppo) carteggio Mussolini-Churchill, oltre a diversi, altri documenti, riguardanti la posizione
politica e militare dell’Italia alla
vigilia del suo contrastato ingresso in guerra. La provenienza
di tali dossier? Le famose borse
di Mussolini, già oggetto, nell’immediato dopoguerra, di un
vivo interesse, sia di Londra sia
degli apparati del Partito Comunista Italiano. Ma con un destino
conclusivo forse irreale, forse
sfumato nel regno delle conoscenze che non saranno mai rivelate. L’opera si conclude, infatti,
con il racconto della consegna
dei 40 chilogrammi di fascicoli e
cartelle varie al re Umberto II,
poco prima della sua partenza
per l’esilio portoghese. Copia in
buono stato dell’anastatica “fantasma”, con la brossura originale, di Su onda 31 Roma non risponde è stata posta in vendita dalla
Libreria Antiquaria Palatina di
Firenze a 350 euro. In altre sedi,
il volume è offerto ad un prezzo
anche maggiore, in considerazione della rara reperibilità e dell’intrigante carattere della sua rievocazione cronistorica.
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
Filosofia delle parole e delle cose
La verità definitiva
e la giustizia eterna
Viene prima il diritto o la giustizia?
DANIELE GIGLI
D
ove nascono, da quale
regione misteriosa di
noi originano le questioni etiche? Non quelle, o non
solo quelle, che animano di tanto
in tanto i dibattiti dei giornali per
un giorno o due, ma le questioni
spicciole, quelle in cui ci scopriamo addosso il desiderio, il
bisogno, di ben agire, di «fare la
cosa giusta».
Un bimbo piange, e subito
vien voglia di fargli una carezza,
di rassicurarlo, di far sì che smetta di piangere. È un desiderio di
bene che intuiamo per natura,
poiché tutti percepiamo per
istinto che il dolore è sì presente
nell’esperienza dell’uomo, ma è
al contempo estraneo alla sua natura ultima. Che cos’è perciò la
carezza che portiamo al bimbo in
lacrime, se non l’espressione riconosciuta di una natura? Il nostro atto etico, la carezza, nasce
infatti da un riconoscimento on-
tologico: che il pianto e il dolore
non sono ciò per cui l’uomo è fatto. Li percepiamo come ingiusti
e cerchiamo di riparare.
Di esempi simili sono fitte
tutte le nostre giornate, ed è da
questi esempi - molto più che
dalle affermazioni di principio su
cui spesso guerreggiamo - che ci
accorgiamo di come vi sia, al fondo di ogni questione etica, una
questione ontologica: la percezione, cioè, che ogni cosa che ci
troviamo per le mani possegga
una sua natura da noi non alterabile e che esista pertanto un modo giusto e un modo non giusto
di trattarla. Si potrebbe parlare
altrimenti di un modo retto e di
un modo non retto; e in questa
quasi sinonimia si annida quella
confusione dell’ordine degli
eventi che ci fa credere la giustizia una convenzione e i diritti
delle produzioni intellettuali
senza nessi necessari con la materialità delle cose.
Praticamente in tutte le lingue europee è possibile apprez-
dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano
Sopra: Piero Della Francesca (1415-1492), Re Salomone e la regina di Saba
(1452-58 ca.), Arezzo, Basilica di San Francesco. Nella pagina accanto: Mihaly
Munkacsy (1844-1900), Cristo davanti a Pilato (1881), Debrecen, Museo Deri
zare la quasi identità tra le parole
diritto, dritto e destra. Si tratta di
uno di quegli esempi in cui più facilmente riscontriamo come alla
base delle parole che usiamo ci sia
una riflessione di sangue, una riflessione in atto che gli uomini
fanno mentre vivono su come vivono. In nomina non sunt res, d’accordo, ma allo stesso modo i nomi non sono etichette intercambiabili del tutto estranei alla natura della cosa né, peggio, applicando le quali decidiamo la natura della cosa. Perciò se diciamo
che andare dritto è andare bene
(lo scorgiamo in tante espressioni metaforiche: «dritto come un
fuso», «essere dritto», ecc.), è
perché riconosciamo che la via
giusta coincide con la via retta,
tanto che ogni svolta è una devia-zione, un uscir fuori dalla via.
Vediamo così come nel vivere
prima venga la percezione del
giusto e solo successivamente la
sua codificazione in diritto.
E quando, come sovente accade, le percezioni del giusto
confliggono? Quando l’intuizione confusa della verità - quell’intuizione così repentinamente
avuta e persa da non poterla definire altrimenti che donata - ci si
fa di marmo nelle nostre costruzioni mentali, fino a farci discutere non più degli oggetti ma dei simulacri che ce ne facciamo? Abbiamo tutti esperienza di un simile scacco, ed è ancora una volta
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il realismo del salmista a offrirci
una traccia di lettura più ampia e
descrittiva dell’esperienza umana richiamandoci all’origine del
nostro desiderio di giustizia, a
quella tensione alla pace e al bene
che ogni uomo - prima o poi scopre inattesa in sé: «Al mattino
fammi sentire la tua grazia, poiché in te confido. Fammi conoscere la strada da percorrere, perché a te si innalza l’anima mia./
Salvami dai miei nemici, Signore, a te mi affido./ Insegnami a
compiere il tuo volere, perché sei
tu il mio Dio. Il tuo spirito buono
mi guidi in terra piana./ Per il tuo
nome, Signore, fammi vivere, liberami dall’angoscia, per la tua
giustizia».1
La retta via, la giustizia,
non possono che rivelarsi da un
dialogo costante e mai finito
dell’anima dell’uomo con le sue
condizioni storiche e materiali,
perché solo nel confronto con la
realtà data i nostri moti spirituali possono chiarirsi anzitutto a
noi stessi. La giustizia non è nostra. A noi tocca guardare la verità della terra e desiderare,
quando arrivi, di riconoscere
quella giustizia che solo il cielo
può dare: «Misericordia e verità
si incontreranno/ Giustizia e
pace si baceranno// La verità
sorgerà dalla terra/ E la giustizia
si affaccerà dal cielo».2
NOTE
1
2
Salmo 142, 8-11.
Salmo 84, 11-12.
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
BvS: il ristoro del buon lettore
Fra Stendhal e i Farnese
A Piacenza, all’Antica Osteria del Teatro
GIANLUCA MONTINARO
P
iacenza. Una città avvinta
a un fiume: il Po. Un luogo intrecciato a un altro:
Parma. Uno Stato legato a una
famiglia: i Farnese. Sembra essersi congelato, il tempo, a Piacenza. Come se nemmeno esso
potesse emendare «tutte le umane sciocchezze compiute dalla
morte di Luigi XIV in avanti».
Strade, nobili palazzi, giardini.
In un susseguirsi borghesiano
senza fine. Fino a una mole, scura, imponente, sfrangiata. Dicono sia il palazzo dei Farnese. Ma
Stendhal preferì immaginarlo
(spostandolo a Parma) Torre:
una piranesiana prigione ove
rinchiudere il suo Fabrizio del
Dongo, il protagonista della
Certosa di Parma (volume che la
Biblioteca di via Senato possiede
in varie edizioni). Lo spirito di
Stendhal continua ancora a permeare Piacenza: luogo prescelto
da Fabrizio del Dongo «per correre incontro alla duchessa Sanseverina». Nell’ippodameo dedalo che avviluppa il centro, si
incontra l’Antica Osteria del
Teatro, oasi di pace e ristoro che
certo a Fabrizio del Dongo sarebbe piaciuta. E che Stendhal
avrebbe amato. Qui la «felicità è
Ristorante
Antica Osteria del Teatro
Via Verdi, 16 – Piacenza
Tel. 0523/323777
il solo interesse». Privilegio è
abbandonarsi, fra soffuse luci,
antichi soffitti intagliati e silenti
tappeti, alle dolci cure di Filippo
Chiappini Dattilo, cuoco fra i
più valenti d’Italia, che ha fatto
del rispetto e della modestia una
scelta di vita.
Abituato a ricevere nella
sua Antica Osteria del Teatro
personaggi di nobile lignaggio,
sarebbe certo comparso nelle
pagine stendhaliane. Magari a
fianco al «conte Mosca della
Rovere Sorezana, ministro della
guerra, della polizia e delle finanze del famoso principe di
Parma, Ernesto IV». Oppure,
proprio insieme a quest’ultimo,
regnante «dall’occhio penetrante e dominatore, nobiltà nel
gesto, parola misurata e concisa». Tutti li avrebbe conquistati,
Filippo Chiappini Dattilo. Con
la sua terrina di fegato grasso
d’anatra con cuore di pesche e i
tortelli dei Farnese al burro e
salvia, con il risotto mantecato
con quaglia al profumo di rosmarino e le costolette d’agnello
con cannolo di melanzane. Li
avrebbe conquistati con una
cantina che, da sola, vale la visita. Grande tempio dell’enologia, raccoglie, negli antichi sotterranei, il meglio della produzione italiana e francese. Chiuso
nella Torre Farnese, speranzoso
di scorgere l’amata Clelia Conti,
Fabrizio del Dongo solo si doleva della mancanza «d’una bottiglia di nebiolo». Così potrebbe
essere proprio un nebbiolo ad
accompagnare i piatti dell’Antica Osteria del Teatro. Magari
coltivato nei pressi di Barbaresco. Magari una bottiglia di Angelo Gaja. Magari un 2005. Con
la sua morbidezza ed eleganza,
unite a un ventaglio aromatico
di ampiezza siderale, si confermerà degno delle tavole non solo di Fabrizio del Dongo, ma anche del conte Mosca e del principe regnante Ernesto IV.
MAL DI GOLA? PUOI PROVARE ZERINOL GOLA.
IL PRIMO IN PASTIGLIE A FARSI IN DUE.
Mal di gola? Eccomi qui. Sono Zerinol,
Zerinol Gola. Sono nato per svolgere due
azioni contemporaneamente, infatti sono il primo
in pastiglie a doppio effetto, anestetico e
antinfiammatorio: rapido addormento il dolore
e, nello stesso tempo, combatto l’infiammazione.
E da oggi puoi trovarmi anche ai nuovi aromi
limone e ribes nero. Insomma, quando hai
bisogno puoi contare pure su di me.
RAPIDO SOLLIEVO DAL MAL DI GOLA.
È un medicinale per il mal di gola a base di Ambroxol, leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 18/07/2013
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la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
GIUSEPPE BEDESCHI
CLAUDIO BONVECCHIO
VITTORE BRANCA
CARLO GAMBESCIA
MASSIMO GATTA
Giuseppe Bedeschi è
professore emerito di Storia
della filosofia nell’università La Sapienza di Roma. Innumerevoli sono le sue opere fra le quali le recenti: La
fabbrica delle ideologie. Il
pensiero politico italiano
del Novecento (2002); Storia del pensiero liberale
(2003); Introduzione a Marx
(2007); Liberalismo vero e
falso (2008); Introduzione
alla Scuola di Francoforte
(2008); Il rifiuto della modernità: saggio su Rousseau
(2011). Collabora a quotidiani e riviste, fra i quali «il
Giornale» e l’inserto domenicale de «Il Sole 24 ore».
Claudio Bonvecchio è
Professore Ordinario di Filosofia delle Scienze Sociali
nell’Università degli Studi
dell’Insubria (Varese) dove è
anche Coordinatore del
Dottorato in Filosofia delle
Scienze Sociali e Comunicazione Simbolica. È Direttore
Scientifico della rivista
«Metabasis». Autore di innumerevoli saggi e pubblicazioni, è direttore di svariate collane editoriali per
varie case editrici. È Member dell’Advisory Board della Eranos Foundation di
Ascona (Svizzera).
Vittore Branca (19132004) è stato uno fra i più
grandi filologi e critici letterari del Novecento, e
massimo studioso di Giovanni Boccaccio. Per decenni professore ordinario
di Letteratura Italiana (fino
a diventare “Emerito” presso l’Università di Padova),
ha rivestito per alcuni anni
la carica di rettore dell’ateneo di Bergamo. È stato anche membro, fino alla morte, del Consiglio d’Amministrazione della Biblioteca di
via Senato. Autore di innumerevoli pubblicazioni (dedicate ai più grandi autori
italiani) ha lasciato un segno indelebile negli studi filologici e letterari del nostro
Paese.
Carlo Gambescia è nato e risiede a Roma. Sociologo. Ha all’attivo tra testi
scritti, curati e tradotti alcune decine di volumi.
Collabora con pubblicazioni scientifiche italiane
e straniere e non disdegna
di scrivere, se capita, su
quotidiani e riviste. Tra i suoi
ultimi volumi:Metapolitica;
A destra per caso; Centralità
marginali; Liberalismo triste. Quando richieste, svolge consulenze editoriali. Nel
tempo libero che gli resta,
poco per la verità, scrive sul
suo blog: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/
Massimo Gatta (1959)
insegna presso l’Università
Federico II di Napoli. Dal
2001 è bibliotecario presso
la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del
Molise dove ha organizzato
diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti
paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina
domenicale de «Il Sole 24
Ore» e al periodico «Charta».
È direttore editoriale della
casa editrice Biblohaus di
Macerata specializzata in
bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about
books), e fa parte del comitato direttivo del periodico
«Cantieri». Numerose sono
le sue pubblicazioni e i suoi
articoli.
TEODORO KLITSCHE
DE LA GRANGE
LUIGI MASCHERONI
GIANCARLO PETRELLA
DANIELE GIGLI
GIANLUCA MONTINARO
Luigi Mascheroni ha
lavorato per «Il Sole24
Ore», «Il Foglio» e, dal 2001,
per «il Giornale».
Scrive soprattutto di
Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di
Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano.
Fra i suoi libri, il pamphlet
Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli
una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi
letterari e giornalistici. È
fra i fondatori del blog
“Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/.
Dal 2011 ha un videoblog,
primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni.
Giancarlo Petrella insegna discipline del libro
presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Si occupa di letteratura geografico-antiquaria fra Medioevo e Rinascimento (L’officina del geografo. La Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, 2004) e
di storia del libro a stampa
fra Quattro e Cinquecento
in numerosi articoli e monografie (fra cui l’ultimo
L’oro di Dongo ovvero per
una storia del patrimonio librario del convento dei Frati
Minori di Santa Maria del
Fiume, 2012). Collabora
con il «Giornale di Brescia» e
con la «Domenica del Sole
24 ore».
Daniele Gigli (Torino,
1978) lavora nella conservazione dei beni culturali.
Studioso di T.S. Eliot, ne ha
curato alcune traduzioni,
tra cui quelle di The Hollow
Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita.
Ha pubblicato le plaquette
Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro
Fuoco unanime.
Gianluca Montinaro
(Milano, 1979) è docente a
contratto presso l’università IULM di Milano. Storico
delle idee, si interessa ai
rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali
del quotidiano «il Giornale».
Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000);
Il carteggio di Guidobaldo II
della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario
di Ludovico Agostini (2006);
Fra Urbino e Firenze: politica
e diplomazia nel tramonto
dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero
(2013).
Teodoro Klitsche de la
Grange (Roma 1948), giurista, avvocato, direttore
del trimestrale di cultura
politica «Behemoth».
Tra i suoi libri recenti: Il
salto di Rodi (1999), Il doppio Stato (2001), Apologia
della cattiveria (2003),
L’inferno dell’intellettuale
(2007), Intervista sullo
Stato (2009). Ora è in uscita Funzionarismo (Liberilibri) anticipato su «la Biblioteca di via Senato».
LUCA PIETRO NICOLETTI
Luca Pietro Nicoletti,
storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia
e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un
editore italiano a Parigi
(Macerata 2013).
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