la Biblioteca di via Senato mensile, anno v Milano n.12 – dicembre 2013 SUL “PRINCIPE” DI MACHIAVELLI Le rovine dello stato moderno di claudio bonvecchio Machiavelli e Moro: utopia e realismo di gianluca montinaro Il mercatante Machiavelli di vittore branca Machiavelli, sociologo ante litteram di carlo gambescia Niccolò Machiavelli, primo costituente di teodoro klitsche de la grange Niccolò Machiavelli in prima classe di giancarlo petrella SPECIALE V CENTENARIO 'PRINCIPE' DI MACHIAVELLI Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione la Biblioteca di via Senato – Milano MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO V – N.12/46 – MILANO, DICEMBRE 2013 Sommario 6 Sul Principe LE ROVINE DELLO STATO MODERNO di Claudio Bonvecchio 10 Sul Principe MACHIAVELLI E MORO: UTOPIA E REALISMO di Gianluca Montinaro 14 Sul Principe IL MERCATANTE MACHIAVELLI di Vittore Branca 18 Sul Principe MACHIAVELLI, SOCIOLOGO ANTE LITTERAM di Carlo Gambescia 22 Sul Principe NICCOLÒ MACHIAVELLI, PRIMO COSTITUENTE di Teodoro Klitsche de la Grange prima parte 26 Sul Principe NICCOLÒ MACHIAVELLI IN PRIMA CLASSE di Giancarlo Petrella 33 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – LO SCAFFALE a cura di Luca Pietro Nicoletti 50 Punture di penna CONSIGLI INTELLETTUALI PER IL VERO MAÎTRE À PENSER di Luigi Mascheroni 54 Il libro del mese LA PRIMA REPUBBLICA: UNO SGUARDO RETROSPETTIVO di Giuseppe Bedeschi 61 Editoria MONDADORI, EDITORE A VOLTE “NON VENALE” di Massimo Gatta terza parte 65 L’altro scaffale STORIA, SPIONAGGIO, POLITICA E MEMORIE NASCOSTE di Alberto Cesare Ambesi 68 Filosofia delle parole e delle cose LA VERITÀ DEFINITIVA E LA GIUSTIZIA ETERNA di Daniele Gigli 70 BvS: il ristoro del buon lettore FRA STENDHAL E I FARNESE di Gianluca Montinaro 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Fondazione Biblioteca di via Senato Biblioteca di via Senato – Mostre Biblioteca di via Senato – Edizioni Presidente Marcello Dell’Utri - Mostra del Libro Antico - Salone del Libro Usato Consiglio di Amministrazione Marcello Dell’Utri Giuliano Adreani Fedele Confalonieri Ennio Doris Fabio Pierotti Cei Fulvio Pravadelli Carlo Tognoli Organizzazione Ines Lattuada Margherita Savarese Redazione Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Ufficio Stampa Ex Libris Comunicazione Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Segretario Generale Angelo de Tomasi Coordinamento pubblicità Margherita Savarese Collegio dei Revisori dei conti Presidente Achille Frattini Revisori Gianfranco Polerani Francesco Antonio Giampaolo Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Referenze fotografiche Saporetti Immagine d’Arte - Milano Immagine di copertina Frontespizio della raccolta aldina delle opere di Niccolò Machiavelli, stampata a Venezia, dalla celebre tipografia Manuzio, nel 1540 (Milano, Biblioteca di via Senato) Stampato in Italia © 2013 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Editoriale G iusto 500 anni fa, nel dicembre del 1513, Niccolò Machiavelli terminava la stesura del Principe. Scrivendo all’amico Francesco Vettori, in una lettera datata 10 dicembre, dice di aver «composto uno opuscolo De principatibus» ove si descrive «che cosa è principato, di quale spezie sono, come si acquistano, come si mantengono e perché si perdono». A distanza di cinque secoli si può affermare come questo libro (amato e dibattuto) sia stato fondamentale nell’evoluzione del pensiero, della filosofia e dell’arte di governo. La Biblioteca di via Senato è quindi lieta di ricordare questo straordinario personaggio e i suoi scritti. Lo fa con questo numero della rivista, con una conversazione a più voci (Piero Ostellino, Giancarlo Petrella e Gianluca Montinaro) sulla sua eredità intellettuale e con una mostra delle principali edizioni antiche e moderne del Principe che si terranno entrambe il 9 dicembre in questa Biblioteca. 6 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 Sul Principe LE ROVINE DELLO STATO MODERNO Sull’inattualità della politica machiavelliana CLAUDIO BONVECCHIO P arlare oggi di Machiavelli e su Machiavelli è cosa ardua: inutile nasconderselo. Dopo secoli di studi, interpretazioni, precisazioni, adesioni, confutazioni, esaltazioni ed anatemi qualunque cosa si possa (o si voglia) dire sul grande fiorentino rischia di risolversi in una mera ripetizione di un “già detto” o, ancora peggio, in una banalità: spacciata per originalità, come spesso avviene. Oppure, si cade in un puro esercizio retorico che - come i “traduttor de’ traduttor d’Omero” di foscoliana memoria, ma al negativo, questa volta continua a ripetere, pedissequamente, ciò che già si conosce. Magari, spacciandolo per novità. E non farebbe meraviglia. Detto questo, si potrebbe chiudere definitivamente ogni aperçu su Machiavelli, dedicandosi ad altro. Il che è tanto plausibile quanto possibile. Eppure, qualche osservazione è Nella pagina accanto: Antonio Maria Crespi (1580 ca.– 1630), Ritratto di Niccolò Machiavelli, Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Sopra: Il Principe (in una edizione del 1842, stampata a Capolago, dalla Tipografia Elvetica), frontespizio (Milano, Biblioteca di via Senato) ancora lecito avanzarla. Non tanto su quello che ha scritto Machiavelli - c’è, in fondo, poco da dire - ma piuttosto se hanno ancora senso quelle idee da cui, bene o male, ha preso origine lo Stato moderno: quello che, anticipato da Machiavelli, sarà poi, in un certo senso, codificato da Hobbes. E che, con alterne sorti, è giunto sino a noi. Questo è il punto. Lo Stato così come ha iniziato a prefigurarlo Machiavelli - ossia libero da ipoteche morali e religiose e teso a conservarsi per il bene proprio e per il benessere dei suoi sudditi - è ancora lo Stato in cui viviamo? La risposta, senza troppe circonlocuzioni, è chiaramente negativa. Lo Stato quale lo pensava in nuce Machiavelli - libero e potente, forte, coraggioso e spregiudicato, come molti dei principati italiani dell’epoca - è, oggi, solo uno dei tanti sogni di “visionari spiegati coi sogni della metafisica”: come si potrebbe affermare, parafrasando Kant. Da tempo, lo Stato moderno è in agonia, se non è già morto del tutto: come ricordava, profeticamente, dopo il 1989, Gianfranco Miglio. Nel mondo occidentale - e l’Italia non fa certo eccezione - lo Stato, rinunciando alle sue 8 storiche prerogative machiavellico-hobbesiane, prima è diventato il braccio armato della borghesia, poi si è trasformato nel supporter dei Totalitarismo, infine si è trasformato nel terreno di scontro di bande ideologizzate e partitocratiche. Sono le tribù dei burocrati di ogni ordine e grado, dei magistrati (in Italia, soprattutto), dei banchieri, degli esponenti delle varie corporazioni, dei politici voraci e autoreferenziali. Sono tutti accomunati dalla protervia, dalla ignavia e dal desiderio di “assaltare la diligenza” rappresentata da quel che resta dello Stato: oramai simile al “cavaliere inesistente” dell’omonimo racconto di Calvino. Lo Stato è così paragonabile a un guscio vuoto che crede di essere pieno. I principi quali vagheggiava il segretario fiorentino sono da tempo scomparsi. Ma è scomparsa anche la giustizia, a cui Agostino affidava il difficile compito di garantire le basi etiche della statualità: «Remota justitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?». A entrambi si è sostituita la dittatura di una opinione pubblica vezzeggiata e manipolata da persuasori occulti che non assomigliano al “machiavellico” cardinale di Richelieu, ma a bottegai desiderosi di ampliare la clientela. E disposti, per questo, a qualsiasi spericolata manovra: pur di ottenere il risultato prefissato. Un risultato certo raggiunto grazie alla comunicazione di massa, all’audience televisiva e al sapiente utilizzo della propaganda. La grandiosa politica quale la pensava il Machiavelli - fatta da astute “golpi” e da forti “lioni” che si fronteggiavano in potlach di livello - non esiste più: da tempo. Si è ridotta ad un brulichio di topi nel formaggio: che cercano sempre di divorare quel che trovano e pronti ad abbandonare la nave al primo sentore di crisi. La sacralità dello Stato - quella che la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 bene o male era stata la base dello jus publicun aeropaeum e della modernità ad esso connesso - si è del tutto svaporata, insieme alla grande cultura che ne era il portato e il sostegno. Come è oramai noto, la cultura dello Stato moderno era quella borghese: una cultura che, proprio, appoggiandosi allo Stato aveva ridimensionato prima e distrutto poi la diade trono/altare su cui si basava l’ancien régime. E aveva anche costruito un modello in cui istruzione, etica e cultura erano il trinomio su cui articolare la ricerca del bonum commune: che è, poi, il fine ultimo della statualità. La sua scomparsa ha provocato (e provoca) un vero e proprio abisso culturale in cui precipita quello che resta dello Stato moderno o, meglio, parafrasando l’Angelus Novus di Walter Benjamin, le “sue rovine”. Ciò che ne emerge è una realtà che lascerebbe esterrefatto il povero Machiavelli perché, in un certo senso e in forma peggiorativa, riporta indietro l’orologio della storia. Riporta ad una condizione quasi pre-machiavellica, priva però di quella allure di grandiosità teologica che era il carattere precipuo dei regna medioevali e dell’impero. Infatti, lo Stato - più precisamente, quel che ne resta - sono diventati un disordinato coacervo di piccoli e grandi feudi in cui vassalli, valvassori e valvassini di un immaginario (e inesistente legittimo Signore) si contendono il potere o quello che si illudono essere il potere. In questo quadro, ha preso forza una dimensione para-spirituale che si estrinseca, per un verso in una “cupa religione della tecnica” - come la chiamava sprezzantemente Carl Schmitt - e per un altro verso nella altrettanto cupa religione del consumo: materiale, spirituale, etico e morale. Entrambe hanno i propri dogmi, la propria ecclesiologia, le proprie liturgie, dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 9 Sopra da sinistra: Incipit e frontespizio del Principe, da una rara raccolta di opere di Niccolò Machiavelli, stampata nel 1537, senza indicazioni editoriali. Nella pagina a sinistra: pagina finale del volume del 1537 (Milano, Biblioteca di via Senato) i propri precetti, i propri tribunali, i propri Santi e anche le proprie - e non certo meno crudeli del passato - istanze inquisitorie. Ad esse e alla legittimità che conferiscono fanno capo i nuovi feudatari che governano con mano ferrea i loro feudi, colpendo con l’ostracismo mediatico e con la spada della giustizia chi si pone in controtendenza. Allo Stato è rimasta la prerogativa di essere il loro contenitore: come un impero senza imperatore. O come la “terra desolata” dell’epopea del Graal, priva di un punto di riferimento perché priva di una vera sovranità. Detto questo - che è l’amara realtà - possiamo tran- quillamente tornare al vecchio Machiavelli e rileggendolo maturare la speranza che un “nuovo” Machiavelli possa consentirci di sperare in una rinascita e nel sorgere di una nuova statualità, migliore (si spera) della precedente. Certamente, però, se questo avverrà - e non è proprio il caso di illudersi - non sarà facile né a costo zero. Tutte le grandi trasformazioni storiche - come quelle che stanno avvenendo sotto i nostro occhi - sono come i parti alla “vecchia maniera” e non indotti: implicano cioè un lungo travaglio e grandi dolori. Non bisogna dimenticarlo. 10 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sul Principe MACHIAVELLI E MORO: UTOPIA E REALISMO Due modelli fra conservazione e libertà GIANLUCA MONTINARO F ra la stesura del De principatibus (1513) di Niccolò Machiavelli e la pubblicazione dell’Utopia (1516) di Tommaso Moro corrono solo tre anni. In tanti hanno “letto” queste due opere in antitesi fra loro. Da una parte il realismo del Segretario fiorentino, dall’altra l’idealismo del lord Cancelliere. Da un lato la spregiudicatezza rinascimentale, dall’altro l’afflato ancora umanistico. Su una sponda l’approccio laico alla politica, sull’altra la visione ancora religiosa della società. Nel corso dei secoli una sorte ben differente è toccata ai due estensori. Santificato Tommaso Moro, e assunta a modello di Stato giusto e perfetto la sua isola, demonizzato Machiavelli, e additato come opera di Satana il suo “aureo libretto”. Mandante occulto di stragi, fautore dell’eliminazione della classe nobiliare, ideatore del “diabolico calcolo principesco”, ispiratore dell’assolutismo reale, fino a giungere al “grave” teorico di totalitarismi e sanguinarie dittature, nessuna accusa è stata risparmiata a Machiavelli. Tutte queste, se ridotte a una, si possono condensare nell’essere l’empio propugnatore di una nuova politica che in nessun conto terrebbe la morale. È sufficiente però una citazione da un saggio del 1945 di Augusto Del Noce, Problemi della democrazia, per spazzare via buona parte dei perniciosi capi di imputazione: «Si parla di machiavellismo: ma Machiavelli si limita a dire che la ‘politica non ha rapporti con la morale’, mentre la formula di ogni totalitarismo, di destra come di sinistra, è piuttosto: ‘la politica determina la morale’». E allora eccoci di nuovo al punto di partenza. Perché a Machiavelli vengono caricate sì tante colpe? A ben vedere al De principatibus una sola accusa si può muovere: quella di guardare, per sua stessa ammissione, «la verità effettuale della cosa» piuttosto che «alla immaginazione di essa». Ma in fondo questa non può essere un addebito, se non per coloro che - in malafede - hanno paura della verità. Se non per coloro che la temono. Se non per coloro che, sulle fole e sull’inganno, costruiscono la propria (e spesso anche la altrui) esistenza. Il De principatibus è quindi un’opera che constata la realtà, ne tratteggia i contorni, ne fornisce una disillusa chiave di lettura, ne interpreta i protagonisti e i comprimari, disegnando un mondo, terribilmente reale (ma tutt’altro che diabolico), ove non esistono innocenti. Ove tutti sono “naturalmente” dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 11 Sopra da sinistra: Antonio Maria Crespi (1580 ca.– 1630), Ritratto di Niccolò Machiavelli, Milano, Pinacoteca Ambrosiana; frontespizio delle Historie di Niccolò Machiavelli (Venezia, Bindoni e Pasini, 1537) Milano, Biblioteca di via Senato. Nella pagina accanto: Hans Holbein il Giovane (1498–1543), Ritratto di Tommaso Moro, 1527, New York, Frick Collection tesi alla «preservazione» propria, pena «la ruina». Ove ognuno è, come sulla scena di un teatro greco, colpevole non per uno specifico delitto ma per propria parte, ovvero per propria stessa esistenza. Il principe è invitato a prendere atto di un mondo governato per metà dall’istinto di conservazione e, per l’altra metà, indipendentemente dall’uomo, dal fato. È invitato a conformare il proprio agire politico (che deve avere come fine ultimo la conservazione dello Stato) non supinamente alla morale ma alla scaltrezza, imparando anche «a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo necessità». Un’opera, il De principatibus, che non è fatta per i po- litici, che giocoforza abitano la menzogna e l’inganno, ma per i “grandi uomini”, i virtuosi, i megalandroi, per coloro che vivono senza paura nella verità. Un’opera quindi che è pura teoria. Un’opera, usando le parole di Giorgio Spini, «molto utopica e molto poco utopistica». Tanta differenza dal testo di Tommaso Moro? Forse no. Anche nel testo dello scrittore inglese si tratteggia una realtà fatta di chiaroscuri, eretta nella dicotomia fra l’Inghilterra d’inizio Cinquecento (con i suoi gravi problemi di povertà, di ingiustizia, di inaffidabilità delle strutture politiche) e la solare perfezione dell’isola di Utopia, un assoluto posto al 12 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Da sinistra: Frontespizio della prima edizione del Principe (Roma, Antonio Blado, 1532); frontespizio Mandragola (1537) di là di un mare tanto vasto quanto impraticabile. Così come il lord Cancelliere immagina nell’isola di Utopia una possibile soluzione ai vasti travagli dell’Inghilterra dei Tudor, anche il Segretario fiorentino teorizza un “principe nuovo” che possa attraversare sicuro il mondo infido e pericoloso. Due opere nate in contesti molto differenti fra loro ma che - entrambe - dalla analisi della realtà fattuale, sviluppano una analoga tensione propositiva. Tommaso Moro sapeva non esportabile sulla terraferma il modello utopiano. Ma la non realizzabilità nulla toglie al valore intrinseco del modello. Anzi, proprio in virtù di ciò, l’isola di Utopia poteva essere la fonte ispiratrice di quelle riforme (certo più parziali, umane e terrene) che avrebbero migliorato l’Inghilterra. Così il principe di Machiavelli: modello perfetto ma irraggiungibile: fonte di “utopica” ispirazione per coloro che - uomini di governo o comuni cittadini - vogliono (allora come ora) gettare uno sguardo, come dentro un cratere, sulla realtà più dura e più reale. Due opere che sono utopia pura. E che, rifuggendo la velleità deleteriamente utopistica di inveramento nella realtà, lasciano liberi gli uomini di accettare secondo gradi differenti le proposte dei modelli, di scegliere i modi e i tempi dell’ispirazione, di preferire una soluzione piuttosto che un’altra. Nella convinzione che l’utopia non sia un modello da erigere come un idolo ma una coraggiosa via di libertà individuale. 14 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sul Principe IL MERCATANTE MACHIAVELLI Una proposta di lettura per Il Principe VITTORE BRANCA «Fa che ogni in dì un’ora il meno tu istudi Vergilio, Boezio, Senaca e altri autori…; arai gran consolazione nell’anima tua, gran gaudio e gran dolcezza, isprezzerai il mondo, non arai pena di cosa che t’avvenga, sarai franco e saputo a’ rimedi salutiferi e buoni… Puoi pigliare sempre da un valente romano o altro valente che arai studiato. Ma non è possibile attingere da questi quanto da che vedi coll’occhio… in queste cose che noi abbiamo a usare noi, che sono più materiali…» N on solo consolazione e conforto spirituale, fra piccoli e grandi traffici, lo studio e la meditazione per questi borghesi fiorentini, come i Morelli e i Ruccellai e i Machiavelli. Sono anche regola di vita, fonte di azione e di opere: proprio come per Niccolò saranno «cibo che solum è mio e che io nacqui per lui» mentre scriverà Il Principe fra acquisti e vendite di «tordi», «legne», «buoi», fra i vini e i giochi popolari all’osteria («domandavali della ragione del- Presentiamo qui parte dell’introduzione di Vittore Branca alla prima edizione assoluta per l’Italia del “Principe di Niccolò Machiavelli, annotato da Napoleone Buonaparte” (Milano, 1992), terzo volume pubblicato nella collana «Biblioteca dell’Utopia», edita dalla Silvio Berlusconi Editore. Copie dell’edizione in brossura (pp. 270) sono disponibili al prezzo di 15 euro (spedizione compresa). Le richieste possono essere effettuate all’indirizzo: [email protected] le loro azioni» e «notava quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale»). Ma realisticamente quel solido mercatante che è Giovanni Morelli, accanto «alle antique corti degli antiqui uomini» pone - come poi Niccolò accanto alla «continua lezione delle antique» - soprattutto la esperienza diretta e sofferta di quelle «cose che noi abbiamo a usare noi che sono più materiali…» cioè la «lunga esperienza delle cose moderne». Sono proprio quelle che vivono e scontano Bernardo e suo figlio Niccolò, trenta-quaranta anni dopo, e che saranno poi spiegatamente richiamate introducendo Il Principe. Sotto il mantello di «panno garbo, tanè tintilano» già sembrano così vivere nel giovane Niccolò «due persone diverse quasi con impossibile coniuzione congiunte» (come poi lo stesso Machiavelli scriverà del Magnifico): il meditativo intellettuale e il realista spregiudicato e concreto tutto «cose… materiali», tutto «realtà effettuali». dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano L’uno continua a leggere e a osservare e a annotare i testi antichi (oltre Livio, Lucrezio e Giustino, pure Boezio e Cicerone e Virgilio, come il Morelli consigliava) anche alla luce delle tempestose vicende di quegli anni fra il tramonto del Magnifico, l’uragano della calata di Carlo VIII, le apocalittiche profezie del Savonarola, gli scontri delle fazioni cittadine. L’altro, prima nei piccoli commerci familiari e poi nella vita pubblica della Cancelleria fiorentina e nelle missioni presso il Valentino e l’imperatore Massimiliano e in Francia, osserva e registra, diviene conoscitore «e delli vizi umani e del valore». Fa, come prescrive- 15 Nella pagina accanto: Vittore Branca (1913-2004). Sopra da sinistra: Nicolò Machiavelli in un’incisione d’epoca (fine XIX secolo). Copertina dell’edizione in brossura del Principe (Milano, Silvio Berlusconi editore, 1993). Accanto: Carlo VIII di Francia, Scuola Francese del XVI secolo, Chantilly, Musée de Conde vano il Morelli e Giovanni Rucellai, diretta «esperienza delle cose moderne» che - dirà preludendo al Principe - avvedutamente confronta con la «lezione delle antique». E fa chiamare nel 1505, con spregiudicata Realpolitik, il più famigerato degli sgherri del Borgia, don Micheletto, nella speranza di consoli- 16 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sopra da sinistra: Stefano Ussi (1822-1901), Niccolò Machiavelli nello studio (1894), Roma, Ministero del Tesoro (fotografia d’epoca); Scuola Fiorentina del XVI secolo, Busto di Niccolò Machiavelli (terracotta policroma), Firenze, Palazzo Vecchio (fotografia d’epoca) dare con il suo spietato rigore le milizie cittadine e l’autorità dello stato fiorentino. Sono le situazioni e gli atteggiamenti che, com’è noto, si riflettono nelle sue opere maggiori, quando, dopo la fine della Repubblica per il ritorno dei Medici (1512), Niccolò è licenziato, carcerato, confinato a Sant’Andrea in Percussina, all’Albergaccio. È il podere paterno dei «caciolini» e del «vin vermiglio» della sua fanciullezza; e sul tavolo sono ancora quel Livio occhieggiato assiduamente sullo scrittoio paterno, e quei ricordi domestici annotati insistentemente nella sua schiatta e nei consorti Niccolini e Minerbetti e Nelli, fino a quelli vergati da Bernardo mentre sfogliava Livio e Virgi- lio e Giustino. Si immerge proprio allora Niccolò nella riflessione storico-politica e nella creazione delle sue opere più decisive, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Il Principe (o meglio, secondo il titolo originale, De principatibus). Nonostante le situazione mercatantesche e bancarie diverse dopo mezzo secolo, nonostante l’ostentato umanistico distacco dagli interessi economici, è sempre però presente in lui, accanto alle tradizioni classiche e letterarie, anche quella dei «ricordi» e delle «pratiche» e delle «ragioni» domestiche e mercantili accumulatesi lungo le tempeste politiche e economiche da metà Trecento in poi. Campeggiavano quelle procello- dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano se vicende, con straordinaria vivacità, oltre che negli storici venuti dopo i Villani (e studiati recentemente in relazione al Machiavelli dal Matucci), in quei ricordi familiari canonici e fitti della borghesia fiorentina fra XIV e XV secolo (e campeggiavano pure in quelli del padre Bernardo). Sono ispirati soprattutto - come rileva sonoramente il Morelli - dall’esperienza politica, economica, sociale più vissuta e più quotidiana e non da riflessioni intellettualistiche o astratte. È appunto in forza di questo realismo tutto attuale che accanto alla «ragion di mercatura» e alla «ragion di famiglia», dominanti fino ai primi del Quattrocento, va facendosi in qualche modo strada quella cinquecentesca «ragion di stato» teorizzata dal Botero ma che già chiaramente si profila nei ricordi di Bonaccorso Pitti (1354-1432) e del Rucellai. Il mercatante è sempre più teso al gioco politico da cui dipendono «monti»(titoli di debito pubblico) e «prestanze», tasse e contribuzioni, avvii a relazioni e a traffici europei e a concessioni di monopoli e privilegi. Potere economico e potere politico stanno compenetrandosi e condizionandosi. «Il Comune è più governato… negli scrittoi che nel Palagio» osservava a metà secolo Giovanni Cavalcanti nelle Istorie fiorentine. «La cura della città e dello Stato… accettai solo per conservazione delle… sustanze nostre, perché a Firenze si può mal vivere ricco senza lo Stato» annotava poi, aprendo i suoi Ricordi segreti e familiari, lo stesso Lorenzo de’ Medici. Il Comune è in piena crisi di fronte alle potenti schiatte e ai loro principi. Lo Stato ha ormai sostituito la grande famiglia di famiglie della borghesia «grassa» che costituiva e dirigeva l’antico Comune. E quella nuova «ragione», convergendo con quella della mercatura e del guadagno (ancora prioritaria nel Datini), balza rapidamente in primo piano e impone un protagonismo più assoluto, ormai da vero principe. È questa la figura che sempre più prepotentemente si affaccia come esemplare, non in senso astratto o eroico ma sull’esperienza diretta e sofferta della vita civile, persino nei riferi- 17 Pagina iniziale del Principe di Niccolò Machiavelli (Milano, Silvio Berlusconi editore, 1992) con l’indicazione della presenza, nell’opera, degli appunti di Napoleone, per la prima volta tradotti in Italia menti d’obbligo agli antichi: «se venisse a quello sommo grado [dello Stato] allora ti consiglio t’ingegnassi somigliare i nostri padri signori romani, ché come da loro siamo discesi per essenzia, così dimostrassimo in virtù e sustanzia» ammoniva fin dal 1440 il Morelli rivolgendosi al figlio. Tratto dal terzo volume della collana «Biblioteca dell’Utopia»: Il Principe di Niccolò Machiavelli, annotato da Napoleone Buonaparte, introduzione di Vittore Branca, commento di Ermanno Paccagnini, Milano, Silvio Berlusconi editore, 1992. 18 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sul Principe MACHIAVELLI, SOCIOLOGO ANTE LITTERAM Fra particolare politico e universale sociologico CARLO GAMBESCIA M achiavelli, sociologo ante litteram? A prima vista, può apparire una provocazione, almeno per due ragioni. In primo luogo, perché oggi il sociologo, quando non viene confuso con lo psicologo, è un signore, più o meno distinto, che si occupa di sondaggi o del recupero di “soggetti” a rischio. Quindi che c’entra Machiavelli con exit poll e tossicodipendenze? In secondo luogo, perché storia e preistoria della sociologia hanno perso interesse. Per dirla (quasi) con Sciascia, i “professionisti” delle scienze sociali navigano a vista estrapolando statistiche socioeconomiche. E che c’entra Machiavelli con l’ultimo censimento Istat? In realtà, le cose non sono sempre andate così male. Un tempo la sociologia, nata ufficialmente nell’Ottocento, volava alto in cerca delle grandi costanti sociali dell’ordine e del conflitto. E in tal senso può vantare padri illustri del calibro di Comte, Tocqueville, Weber, Durkheim, Pareto, ma anche, per così dire, di nonni, o precursori, altrettanto ferrati come Vico, Montesquieu, Hobbes e per l’appunto Machiavelli. Il Segretario fiorentino fu per lunghi anni funzionario della Repubblica antimedicea: un Kissinger in pectore, costretto a navigare in acque basse e melmose, più bravo, ça va sans dire, dell’epigono americano, tuttavia meno ambizioso e poco fortunato. Machiavelli fece però dell’osservazione partecipante - tipica arma bianca del sociologo di razza - il vero metro di un’esistenza trascorsa tra le turbinose vicende del tempo. E, stando ai biografi, iniziò ad aguzzare sguardo e ingegno già a nove anni, vedendo penzolare dalle finestre del Palazzo della Signoria, tra gli altri, il cadavere del congiurato Francesco de’ Pazzi… Fatte le dovute “presentazioni”, vorremmo sottolineare tre punti di rilievo sociologico. Innanzitutto, la sua capacità di ricondurre il particolare (politico) nell’alveo dell’universale (sociologico): dote che consente di inserire d’autorità Machiavelli nell’albero genealogico di una sociologia dalle ali di aquila. Si legga ad esempio qui: «È si conosce facilmente, per chi considera le cose pre- dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 19 Sopra da sinistra: Machiavelli in un’incisione d’epoca; Incipit dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Venezia, Manuzio, 1540), Milano, Biblioteca di via Senato. Nella pagina accanto: Leonardo da Vinci (1452-1519), schizzo dell’impiccagione di Bernardo di Bandino Baroncelli (1479), uno dei partecipanti alla congiura dei Pazzi senti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati, pensarne de’ nuovi, per la similitudine degli accidenti».1 In questo passo dei Discorsi, vero gioiello sociologico (forse più de Il Principe, opera grandiosa ma esclusivamente “politologica”), Machiavelli adombra la prevedibilità del comportamento sociale. Infatti, vi si parla di «similitudini degli accidenti», ossia di costanti o regolari- tà sociologiche capaci di riaffiorare nel tempo. Perché, come osserva, se è vero, quanto ai «rimedi» che si potrebbe «pensarne de’ nuovi», è altrettanto vero che «queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne séguita che sempre sono i medesimi scandoli in ogni tempo».2 Secondo punto. Che c’è “sotto” la prevedibilità delle azioni umane? Risponde direttamente Machiavelli: «Sendo […] gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere e volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di poterne conseguitarne poche; ne risulta continuamente una mala 20 contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione».3 Come risulta evidente, “sotto”, c’è un’antropologia negativa o realista (dipende dal punto di vista…), non molto lontana da quella hobbesiana. Che permette di collocare Machiavelli tra i principali teorici della scuola sociologica conflittualista, dove si pone l’uomo al centro di un infuocato divenire sociale, segnato da ricorrenti conflitti distributivi per l’acquisizione di risorse scarse. Solo per fare qualche nome, si pensi a studiosi come Spencer, Bagehot, Gumplowicz, Ratzenhofer, Sumner, Small, Oppenheimer e, per venire ai giorni nostri, Coser e Collins. Terzo punto. Il Machiavelli “conflittualista” si confronta con un grande tema sociologico, oggi accantonato. Quale? La possibilità di individuare un punto di equilibrio sociale tra ordine e progresso, questione che tanto appassionò precursori e padri della sociologia. La «mala contentezza», come visto, implica la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 continui conflitti. Di qui, scrive Machiavelli, «sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che le ragione non t’induce, t’induce la necessità: talmente che, avendo ordinata una repubblica atta a mantenersi, non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tôr via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto. Così dall’altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l’ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé sarebbono cagione della sua rovina».4 Insomma, per Machiavelli, il moto sociale, da sempre effetto di conflitti, impone trasformazioni che producono altri mutamenti istituzionali, e così via. Ma anche la stasi sociale non è da meno: la pace da cui nasce «l’ozio» non è che una modalità attraverso cui si manifesta, con altri mezzi («effeminatezze» e «divisioni»), l’inarrestabile moto della vita sociale. Di qui, la difficoltà di conseguire un equilibrio sociale statico, o definitivo, tra ordine e progresso: «Pertanto, non si potendo, come io credo, Da sinistra: Théodore Chassériau (1819-1856), Alexis de Tocqueville (1805-1859), Versailles, Museo di Versailles; Emile Durkheim (1858-1917) in un ritratto fotografico dell’epoca; Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu (1689-1755), in un disegno della fine del XVIII secolo (Nantes, Museo delle Belle Arti) dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 21 Sopra da sinistra: Frontespizio della prima edizione dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Roma, Antonio Blado, 1531); Incipit dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Roma, Antonio Blado, 1531). Libri conservati presso la Biblioteca di via Senato bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica, pensare alla parte più onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono, quello ch’elle avessono occupato, conservare».5 Machiavelli ipotizza l’equilibrio dinamico, incessante, segnato da conflitti, pieno di rischi e pericoli, dove è necessario muoversi con prudenza, prestando attenzione alla «mala contentezza» costitutiva degli uomini, ma anche alle giravolte della fortuna: fattore extraumano che in qualche misura in- tegra e corregge il suo determinismo. Comunque sia, un pensiero lontanissimo da qualsiasi pericolosa utopia perfettista. Ciò significa che il realismo sociologico, teorizzato da Machiavelli, non può non convolare a nozze con il conservatorismo illuminato. Il che non guasta. NOTE 2 1 3 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 39, in Tutte le opere, Firenze, Sansoni Editore, 1971, p. 122. Ibidem. Discorsi, cit., II, p.145. 4 Discorsi, cit., I, 6, p. 86. 5 Ibidem. 22 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sul Principe NICCOLÒ MACHIAVELLI, PRIMO COSTITUENTE Il Segretario fiorentino e il primato della politica TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE Prima parte on è stata dedicata soverchia attenzione alla ricorrenza del 500° anniversario del Principe. A dispetto del fatto che - a quanto sembra sia l’opera italiana più tradotta al mondo e che da quando fu scritta, nessuno, che si sia occupato di politica (filosofia, scienze, storia), abbia potuto fare a meno di confrontarvisi, si assiste a un anniversario celebrato con poca pompa e qualche nascosto imbarazzo. Scrive Aldo Di Lello che «non si tratta di un dettaglio, ma di un sintomo (certo uno dei tantissimi, pur sempre un sintomo) di caduta culturale e ideale».1 Che il pensiero di Niccolò Machiavelli dia fastidio, e lo dia all’establishement culturale e politico italiano, in particolare di sinistra, è evidente. Tutta la melassa delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, sintetizzata nel “buonismo” è proprio l’antitesi delle concezioni di Machiavelli. A servirsi di quelle di un suo epigono moderno, come Vilfredo Pareto, l’unica cosa che certe zuccherose e commoventi prediche attestano è lo stato di decadenza delle élites che le tengono e del popolo che le sta ad ascoltare. Il Segretario fiorentino ha, nei confronti di quelle, la funzione attribuitagli da N Ugo Foscolo, in sintesi: mostrare che il re è nudo. Dietro buoni propositi e discorsi edificanti c’è la ricerca e soprattutto la conservazione di un potere, ormai senescente e anche (e soprattutto) perciò buonista. Realismo politico significa demistificare il nucleo essenziale dell’apparato egemonico costruito, dal secondo dopoguerra in poi e specialmente negli ultimi vent’anni. Il pensiero di Machiavelli è infatti quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. A cominciare dal nucleo: «perché ogni uomo che voglia fare in tutte la parte professione di buono, conviene ruini intra tanti che non sono buoni»; da qui, dalla concezione “problematica” della natura umana, l’esigenza del realismo in politica e la ricerca della “verità effettuale della cosa” (cioè dell’approccio concreto). Le conseguenze del quale non si riflettono solo sulla politica (prassi e teoria) ma anche sul pensiero giuridico-istituzionale. Come esiste una condotta ispirata al Segretario fiorentino, c’è una concezione dello Stato e della costituzione fondata sui medesimi presupposti: pessimismo antropologico (almeno relativo), realismo politico, ricerca della “verità effettuale delle cose”.2 E del pari, Machiavelli si occupa dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 23 Nella pagina accanto: Santi di Tito (1536-1603), Niccolò Machiavelli, Firenze, Palazzo Vecchio. Sopra da sinistra: frontespizio dell’Arte della guerra di Niccolò Machiavelli (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550); frontespizio delle Historie di Niccolò Machiavelli (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550); Lettera dedicatoria a Clemente VII con la quale si aprono le Historie (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550); Milano, Biblioteca di via Senato più volte - anche se spesso implicitamente - del rapporto tra politico e diritto. Contrariamente a quanto ritenuto da molti nostri contemporanei, nel Segretario fiorentino la politica è decisiva e il diritto segue; il rapporto è acutamente inquadrato da Machiavelli nel primato della politica (e del politico). Nel XVIII capitolo del Principe scrive: «sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie». Tale espressione è stata in genere connessa allo specifico argomento lì trattato (quomodo fides a principibus sit servanda), in particolare sul rapporto tra astuzia (golpe) e forza (lione). Tuttavia l’espressione può essere interpretata anche in un altro senso; che è quello chiarito da Machiavelli subito dopo: che il principe, soprattutto il principe nuovo è «spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, con- tro alla carità, contro alle comunità, contro alla religione», enumera cose che per un uomo del suo, e anche del nostro tempo, sono più care e sacre del diritto, onde si può immaginare se il principe non possa anzi debba operare contro questo. Anche se nel pensiero nostro contemporaneo è il diritto a non poter essere mai violato (con le conseguenze più bizzarre e, peggio ancora, dannose). Perché, prosegue Machiavelli «nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati». In diverse parole qui come in altri passi del Principe e dei Discorsi, Machiavelli (fonda e) rivendica l’autonomia del politico, che non deriva da altra “essenza”, come scrive Julien Freund. Non c’è giudice del principe, e l’unico criterio di giudizio è se ha attinto il fine di conservare lo Stato: il 24 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sopra da sinistra: Firenze in un’incisione d’epoca (XVI secolo); vignetta tipografica in chiusura delle Historie di Niccolò Machiavelli (Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1550). Nella pagina accanto: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Venezia, Manuzio, 1540). La sontuosa legatura riporta l’emblema della nobile famiglia Ludovisi, contornato da uno stemma cardinalizio (Milano, Biblioteca di via Senato) che significa non solo il (di esso) potere, ma anche l’esistenza (e la “buona” esistenza) dei sudditi.3 Il rapporto tra politico e diritto (legge, ordine, organizzazione istituzionale) è confermato dal XXXIV capitolo del I libro dei Discorsi, dove Machiavelli tesse l’elogio della dittatura romana: nei frangenti eccezionali, il dittatore conserva lo Stato infrangendo il diritto e gli ordini (cioè l’ordinamento costituzionale - o, meglio, parte di esso) «perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle repubbliche hanno il moto tardo non potendo alcuno consiglio né alcuno magistrato per se stesso operare ogni cosa, ma avendo in molte cose bisogno l’uno dell’altro… E perciò le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo» e subito dopo «Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli». È l’ordinamento stesso che deve prevedere organi straordinari, do- tati anche della facoltà di sospendere, derogare, modificare il diritto vigente: «Talché mai fia perfetta una repubblica se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo». La Costituzione italiana è bellissima (come dice un noto attore) e quel che è peggio, è considerata così perfetta da non poter essere cambiata, onde è chiaro che il pensiero di Machiavelli è in contrasto con tali affermazioni, perché la stessa non prevede né competenza né misure per lo stato d’eccezione ed è quindi, date le affermazioni del Segretario fiorentino, imperfetta, e da cambiare (di corsa). Più in generale nella concezione di un certo costituzionalismo contemporaneo (e più in generale di teoria generale del diritto) s’inverte il rapporto tra diritto e politica. In Machiavelli la politica è autonoma, mentre il diritto è eteronomo, perché al di esso fondamento v’è la decisione politica. È il sovrano che decide se conservare, modificare, sospendere il diritto. È il pouvoir, a servirsi dei concetti (e dei ter- dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano mini) di Maurice Hauriou, a garantire l’ordre (anche) attraverso il droit. L’altro “punto” di eteronomia del diritto, ovvero rispetto alla morale, è talvolta anch’esso completamente omesso, talvolta travisato (o depotenziato). Tanto per farne un esempio (tra tanti) particolarmente rilevante della lontananza tra il pensiero di Machiavelli e quello di taluni nostri contemporanei: anche chi ammette un certo “tasso” di morale nel diritto v’include quasi esclusivamente ciò che rileva per lo stato sociale contemporaneo, ovvero in particolare, la distribuzione del reddito a favore delle classi e dei cittadini più disagiati. Non capita invece di leggere della connessione esistente tra diritti e doveri nelle costituzioni e agli Stati, anche contemporanei, né tra alcuni specifici doveri. Per essere chiari: il diritto di esercitare funzioni pubbliche (art. 51 Costituzione italiana vigente) cioè di partecipare a decidere il destino della comunità è strettamente correlato e quello di pagare le imposte (art. 53), ma ancor più a quello di difendere la Patria (art. 52). Anche per un lettore distratto di Machiavelli, è chiara l’importanza che questi da «al- 25 l’arme proprie» (v. per il solo Principe, i capp. XII-XIV).4 Ammoniva che «chi dice impero, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandano, cominciandosi dal primo grado e discendendo infine al padrone d’un brigantino, dice giustizia e armi»;5 senza queste è impossibile preservare la libertà, e ovviamente, l’esistenza politica. Per cui il rapporto tra morale (meglio sittlichkeit nel senso di Hegel) e diritto è essenzialmente (anche se non esclusivamente) quello segnato dall’adempimento dei doveri legati alle funzioni pubbliche esercitate o rivestite. Anche la concezione machiavelliana della virtù si muove nello stesso solco: al principe è necessaria virtù per sapere fronteggiare gli eventi, come per poterne approfittare. Quindi di “morale” si può parlare prendendo atto che si tratta di una morale che ha poco a che fare con quella che per ciò s’intende; il contributo di quest’ultima al diritto c’è, ma accanto (e sotto) a quello “dell’altra” morale (quella, per così dire, “pubblica” e non “privata”). Fine prima parte. La seconda parte sarà pubblicata sul numero di gennaio 2014 NOTE so, determinata sia dal richiamo costante di quella frase, che considera legge, forza e 1 «Area», maggio 2013. (e pieno) al libero arbitrio, (alla virtù che modi di combattere: che ambedue sono fi- 2 A chiarimento del carattere “proble- contiene la fortuna) e alla necessaria pru- nalizzati a creare l’ordine, a creare, mante- matico” e “pessimistico relativo” della na- denza che ne consegue che alla non ade- nere, aumentare il potere (comando/obbe- tura umana, l’uso di queste espressioni è fi- sione all’autoritarismo conseguente logi- dienza) ma il tutto esula dai limiti di questo nalizzato a distinguere le concezioni pessi- camente dal pessimismo agostiniano; così scritto. mistiche spesso identificate in due pensa- ben testimoniato da Lutero e da Calvino tori come S. Agostino e S. Tommaso. Più (ma anche da Bossuet) con la dottrina cioè capitoli, nonché in tante opere anche “oc- pessimista il primo, meno il secondo, come del “diritto divino soprannaturale”, per cui casionali”, come i discorsi per l’ordinamen- noto (e dibattuto). L’ascrizione di Machia- al cristiano non è consentito opporsi (resi- to della milizia fiorentina. velli al pessimismo antropologico “relati- stere) all’autorità costituita. vo” (o moderato o “tomista”) è, a mio avvi- 3 Si può desumere anche un altro senso 4 5 Ma ne tratta anche nel Principe in altri Si veda il Discorso dell’ordinare lo Sta- to di Firenze alle armi. 26 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sul Principe NICCOLÒ MACHIAVELLI IN PRIMA CLASSE Sulle prime edizioni del Segretario fiorentino GIANCARLO PETRELLA «T rovando io et con fatica che uno Andrea da Pistoia havea facto ristampare el vostro compendio, cursim et properanter andai ad el luogo ubi imprimebantur, menando etiam meco Thomaso Balducci comandatore; non uscii di quivi che ne havemo una, che non vi starò a dire la ribalda cosa che le sono: al tutto alla giuntesca, sanza spatio, e quinternucci piccin piccini, sanza bianco dinanzi o drieto, lettera caduca, scorrecta in più luoghi, come in questa metterò una notula et notativi dentro tutti gli errori. Entrai alli Otto con fare querela grande et meo et tuo nomine, diversis de causis: di me, del danno a ristamparmeli adosso dentro a 20 giorni». La tradizione a stampa delle opere di Machiavelli inizia con questa lettera, forse non sufficientemente nota. Firenze, 14 marzo 1506. Agostino Vespucci, notaio e umanista con ripetuta esperienza di segretario al seguito degli ambasciatori fiorentini, avverte Machiavelli di aver smascherato una brutta vicenda di contraffazione a danno della recentissima edizione del primo Decennale. La lettera, se correttamente intesa anche nei sottili ri- ferimenti bibliologici, è una miniera di informazioni necessarie a districare la matassa. Erano dunque passati all’incirca una ventina di giorni dalla stampa del Decennale promossa dal Vespucci (tecnicamente dunque l’editore) presso un’officina che non si sottoscrive (forse Bartolomeo de’ Libri?), che a Firenze i soci Andrea da Pistoia, alias Andrea Ghirlandi, e il fiorentino Antonio Tubini, cappellano della Misericordia, davano impunemente alle stampe una loro edizione. Il Vespucci, venutone a conoscenza, piomba come una furia in bottega e mette le mani su un esemplare della contraffazione. Segue descrizione particolareggiata. Che orrore! La contraffazione è stata condotta tutta al risparmio: testo poco interlineato, carta di formato più piccolo, nessuna pagina bianca all’inizio e alla fine, come si usa invece per le edizioni di qualità, e per di più scorrettissima nel testo, storpiato da una serie di refusi di cui Agostino consegna l’elenco all’autore in una notula apposita (oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, Filza Bargagli, N.A. 1004, c. 10)1. Si giunse infine a un accordo. La contraffazione venne quasi tutta sequestrata (ma nel frattempo la dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 27 Incipit del Principe (prima edizione aldina), dalla raccolta del 1540. Nella pagina accanto: frontespizio, con la celebre marca tipografica aldina, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Venezia, Manuzio, 1540); la cancellazione presente sul nome dell’autore è un’antica censura (Milano, Biblioteca di via Senato) vendita era già stata avviata e dunque alcune copie erano già in circolazione con danno per l’autore e per l’editore che vi aveva investito) e alla coppia Tubini-Ghirlandi è concesso di smerciare la loro edizione solo a patto di apportarvi tutte le correzioni richieste. La lettera, evidentemente, fornisce anche altre informazioni. La princeps non datata né sottoscritta del Decennale finanziata dal Vespucci, certo non senza il consenso di Machiavelli, è quindi assegnabile al febbraio 1506. Inoltre, l’identikit bibliologico suggerisce che prima e ultima carta debbano essere bianche. A questo punto si è autorizzati a riconoscere nell’esemplare della Houghton Library dell’Università di Harvard (Houghton *IC5 M1843 506d) l’unicum dell’edizione originale commissionata da Agostino Vespucci che infatti presenta c. a1r bianca, a eccezione dell’occhiello «Decemnale.» posizionato circa a metà della pagina, e ugualmente bianca anche l’ultima carta a12v. Al contrario, non può che riconoscersi uno degli esemplari della contraffazione nella copia conservata presso la British Library (C. 57.a.4) e in quella della Pierpont Morgan Library di New York (E2 48 A), quest’ultima appartenuta a Roberto Ridolfi: più modesta nell’impaginazione, ma con identica consistenza bibliologica (in 8°, cc. 12: quindi alla fine senza un reale risparmio di materia prima!), presenta infatti la lettera di dedica del Vespucci viris florentinis anticipata al recto della prima carta, l’incipit a c. a1v («Nicolai Malclauelli Florentini compendium reruu(m) dece(n)nio in Italia gestaruu(m), ad uiros flore(n)tinos incipit feliciter») con il testo che prosegue sino al verso dell’ultima carta.2 Non si tratta però, almeno nel caso dell’esemplare londinese, di una delle copie dell’edizione pirata infarcite di refusi viste dal Ve- spucci (non compaiono infatti quelli di cui avverte nella notula), ma evidentemente di una copia della nuova impressione forzatamente corretta dopo gli accordi. Dovettero passare una dozzina d’anni prima che Machiavelli conoscesse ancora l’onore della stampa. Ufficialmente la seconda edizione machiavelliana datata è il «Libro della arte della guerra» che recita al colophon «Impresso in Firenze per li Heredi di Philippo di Giunta nelli anni del Signore .M.D.XXI. adi .XVI. d’Agosto Leone .X. Pontifice», ossia la princeps del De re militari di cui gli eredi di Filippo Giunta hanno l’esclusiva, riproponendolo a catalogo almeno una seconda volta nel 1529.3 Il fondo antico della biblioteca di via Senato, nel qua- 28 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Sopra da sinistra: prima pagina della sesta tavola dell’Arte della guerra (Venezia, Manuzio, 1540) con l’immagine della corretta disposizione di un esercito. Settima tavola dell’Arte della guerra (Venezia, Manuzio, 1540) con l’immagine della corretta disposizione di un accampamento militare (Milano, Biblioteca di via Senato) le si rintraccia un interessante nucleo di edizioni machiavelliane, conserva una copia di entrambe, la seconda delle quali con ex libris del bibliofilo e valente bibliografo Giacomo Manzoni (1816-1889),4 poi passato fra le mani dell’antiquario Giuseppe Martini (1870-1944). L’opera, a dire il vero, già circolava manoscritta, ma l’edizione a stampa sicuramente ne accelerò la conoscenza con gratificanti ricadute anche sul suo autore: «ho visto diligentemente el libro vostro, il quale, quanto più l’ho considerato, tanto più mi piace, parendomi che al perfettissimo modo di guerreggiare antico habbiate aggiunto tutto quello che è di buono nel guerreggiar moderno» gli scrive il cardinale Salviati poche settimane dopo l’uscita dell’edizione dall’officina dei Giunta. Come si diceva, è però assai probabile che a quest’altezza la Mandragola già circolasse da un paio d’anni attraverso alcune modeste stampe prive di paternità tipografica. Stando ai dati oggi noti, si tratta di quattro edizioni distinte, una sola delle quali, pur non datata (ma circa 1526?) rivela quantomeno colophon esplicito «Stampata in Cese- na ad insta(n)tia de Hieronymo Soncino».5 Qui, e nella stampa sine notis assegnata alla tipografia romana di Francesco Minizio Calvo circa 1524,6 l’opera è tràdita con il titolo scelto dall’autore «Comedia facetissima intitulata Mandragola», a differenza di due edizioni, ancora sine notis ma probabilmente anteriori, che trasmettono invece la commedia del segretario fiorentino col titolo «Commedia di Callimaco e di Lucretia». È curioso che in entrambe si scegliesse, sicuramente per allettare l’acquirente, un’illustrazione al frontespizio che però, secondo una consuetudine assai comune all’editoria di larga circolazione, non rivela alcun legame col testo: nella prima, ricondotta a un’anonima bottega fiorentina circa 1520, il centauro Chirone maestro di musica inquadrato in una rozza cornice a festoni;7 nella seconda, assegnata invece a una coeva officina veneziana, un suonatore di viola da mento assiso su una pietra immerso in un contesto paesaggistico campestre.8 Non è improbabile che la vignetta di soggetto musicale dell’edizione fiorentina (a questo punto forse la presunta princeps) abbia poi condizio- 30 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Frontespizio dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Venezia, Bernardino de Vitali per Francesco e Michele Tramezzino, 1532). Nella pagina accanto: Incipit dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Venezia, Bernardino de Vitali per Francesco e Michele Tramezzino, 1532). Milano, Biblioteca di via Senato nato la scelta del collega veneziano. Tutto ciò mentre Machiavelli è ancora in vita. Solo dopo la morte, dalla cerchia degli amici e dei parenti filtrano invece le ben più impegnative opere politiche, consegnate contemporaneamente alla tipografia romana del Blado e a quella fiorentina dei Giunta che ne licenziarono una duplice prima edizione di fatto concorrenziale. Un ruolo di primo piano, come traspare dalla lettura degli apparati paratestuali, aveva giocato Giovanni Gaddi, fratello del cardinale Niccolò, chierico della Camera Apostolica e titolare di una ricca riserva libraria da cui aveva cavato un manoscritto con la traduzione in volgare della Ciropedia allestita da Jacopo Bracciolini data in stampa dai Giunta nel 1531. In poco più di un anno, tra il 1531 e il 1532 il Machiavelli maggiore è tutto a stampa, sottratto alla circolazione ristretta della cerchia umanistica fiorentina. A Roma il mantovano Antonio Blado, ottenuto da Clemente VII il privilegio decennale (in data 23 agosto 1531) per la stampa delle opere di Machiavelli (subito esibito al frontespizio «che intra il termino di X anni non si stampino ne stampati si vendino sotto le pene che in essi si contengono») brucia sul tempo i fiorentini e licenzia nel 1531 i «Discorsi di Nicolo Machiavelli cittadino et segretario fiorentino sopra la prima deca di Tito Livio»9 (volume che la Biblioteca di via Senato possiede) e, in rapida successione, l’anno successivo le «Historie di Nicolo Machiavegli cittadino et segretario fiorentino» e infine l’attesa edizione che raccoglie «Il principe di Niccholo Machiavello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici. La vita di Castruccio Castracani da Lucca … Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliverotto da Fermo … in Senigaglia». Contemporaneamente a Firenze anche Bernardo Giunta, con l’aperto consenso degli eredi del segretario fiorentino, aveva intrapreso la stampa delle tre opere, per le quali ottenne a sua volta, in data 20 dicembre 1531, analogo privilegio papale. L’edizione giuntina dei Discorsi fu licenziata, come da colophon, «nell’anno .M.D.XXXI. Adi .X. Novembre.»;10 le Historie escono in sorprendente concomitanza con l’edizione romana, se si presta fede ai colophones: il colophon del Blado è infatti datato 25 marzo 1532, la stampa fiorentina invece, in alcuni esemplari, «adi .XVI. del mese di Marzo» ma in altri «adi .XXVII» (come la dedica al duca Alessandro del «vigesimosettimo giorno di marzo dell’anno M.D.XXXII.»).11 Blado riesce invece a battere di qualche mese la concorrenza dei Giunta sul Principe, licenziando la propria edizione «a di .iiij. de Gennaio del’ .M.D.XXXII.», mentre l’edizione con la marca del giglio lascia la ti- dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano pografia solo «Adi .VIII. Maggio».12 La tipografia veneziana si sarebbe accontentata di ristampare a brevissima distanza le edizioni romano-fiorentine, contribuendo però a diffondere le opere del segretario fiorentino fino a saturarne il mercato con una serie di edizioni ravvicinatissime: nel 1531 lo Zoppino mette sotto i torchi la già diffusa Mandragola, mentre i fratelli Nicolini da Sabbio e Bernardino Vitali, quest’ultimo a istanza di Francesco e Michele Tramezzino, licenziano due edizioni dei Discorsi, una delle quali è nel patrimonio della Biblioteca di via Senato.13 Nel 1540 ancora ai Nicolini si rivolge Andrea Arrivabene all’insegna del Pozzo per l’ennesima edizione delle Historie,14 di cui la Biblioteca di via Senato possiede una copia passata nel secolo scorso nei cataloghi Martini, mentre Comin da Trino licenzia la sua edizione delle Historie (anch’essa presente nel fondo antico di via Senato)15 e l’Arte della guerra trova un tipografo ancora pronto a investire in un’edizione non sottoscritta ma datata Venezia 1540 (ancora presso la biblioteca di via Senato).16 Nello stesso anno Machiavelli finisce anche nel catalogo manuziano. Ci pensano gli eredi di Aldo a offrire la raccolta completa del Machiavelli storico-politico (Libro dell’arte della guerra, Discorsi, Historie, Il prencipe) in quattro agili e distinte edizioni in ottavo che ostentano al frontespizio la dicitura «Nuouamente corretti e con somma diligenza ristampati».17 La biblioteca di via Senato possiede, oltre all’edizione dei Discorsi, anche quelle del Principe e dell’Arte della guerra, entrambe con armorial book plate «Ex libris Liechtensteinhaus» che rimanda alla collezione dei principi di Liechtenstein. A partire dal 1559 la circolazione delle opere machiavelliane subisce quantomeno un rallentamento, complice l’inclusione di Machiavelli fra gli autori di prima classe, quelli cioè di cui erano proibiti gli opera omnia, assieme ai pestiferi luterani ed Erasmo, nel primo severissimo Indice di Paolo IV, come ricorda l’anonima nota manoscritta apposta al frontespizio, a esempio, dell’esemplare de Il libro 31 dell’arte della guerra, Firenze, eredi Giunta, 1529 conservato presso la biblioteca Alessandrina di Roma: «è proibito in prima classe».18 Ne è testimone Giovambattista Busini che nell’estate del 1561 così scrive al Varchi: «qui sono state vietate e proibite a vendersi tutte le opere del nostro Machiavello e voglion fare una scomunica a chi le tiene in casa, ma sino a qui nessun libraio ne può più vendere sotto gravi pene». Nell’impossibilità di stampare o smerciare liberamente Machiavelli, ci avrebbe pensato il mercato clandestino ad aprire una breccia nelle rigide maglie dei controlli, rifornendo i librai italiani di edizioni stampate Oltralpe, a conferma dunque che la richiesta era stata tutt’altro che messa a tacere dai rigori inquisitoriali. Nel 1560 i due transfughi Pietro Perna e Silvestro Tegli si rivolgevano al mercato europeo, e non più soltanto italiano, con la traduzione latina del Principe stampata nella perniciosissima Basilea, sentina di tutte le eresie («de princi- 32 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 pe libellus … nunc primum ex Italico in Latinum sermonem versus per Sylvestrum Telium Fulginatem»), di cui la biblioteca di via Senato possiede un esemplare.19 Chiaramente rivolta al mercato italiano era invece l’accorta politica editoriale nata in clandestinità dell’inglese John Wolfe che negli anni Ottanta del Cinquecento, complici ben avviati rapporti con colleghi italiani, organizzò la fragorosa beffa di stampare tutto Machiavelli (ma anche il pornografico Aretino) coll’espediente dei falsi dati tipografici. Tra il 1584 e il 1587 uscivano perciò dai torchi londinesi, ma con la falsa data topica «Palermo appresso gli heredi d’Antoniello degli Antonielli», i NOTE 1 Si veda SERGIO BERTELLI – PIERO INNOCENTI, Bibliografia machiavelliana, Verona, Valdonega, 1979, pp. X-XI. 2 S. BERTELLI – P. INNOCENTI n° 1-2. Non in EDIT16. 3 In 8°, cc. 124, fasc.: a-p8, q4, ill. (BERTELLI-INNOCENTI n° 3, 10; EDIT16 28762, 55352). EDIT16 69277 registra anche un’edizione dei Giunta datata 1524 (nota tramite un esemplare della Vaticana). 4 RITA CHIACCHELLA, Le vicende delle biblioteche Ansidei e Manzoni, in Biblioteche nobiliari e circolazione del libro tra Settecento e Ottocento. Atti del convegno nazionale di studio, Perugia, Palazzo Sorbello, 29-30 giugno 2001, a cura di Gianfranco Tortorelli, Bologna, Pendragon, 2002, pp. 249-261: 252 ss. 5 In 12°, cc. XXXII, fasc. A-E6 F2 (BERTELLIINNOCENTI n° 8 ne registrano tre esemplari, uno dei quali appartenuto al bibliofilo Ho- Frontespizio della raccolta aldina delle opere di Niccolò Machiavelli, stampata a Venezia, dalla celebre tipografia Manuzio, nel 1540 (Milano, Biblioteca di via Senato) Discorsi, il Principe e il Libro dell’arte della guerra (la Biblioteca di via Senato possiede le prime due edizioni). Le Historie si presentavano invece sotto altre mentite spoglie: «In Piacenza appresso gli heredi di Gabriel Giolito de Ferrari 1587». Per l’Asino d’oro, la Mandragola «con tutte l’altre sue operette» (edizione anch’essa presente in via Senato) l’intraprendente editore originario del Sussex sceglieva infine la più generica sottoscrizione «In Roma MDLXXXVIII».20 race Landau; EDIT16 CNCE 32802). 6 In 12°, cc. XXX, fasc.: A-E6 (BERTELLI-INNOCENTI n° 7; EDIT16 CNCE 54557). 7 In 8°, cc. [40], fasc.: A-K4 (BERTELLI-INNOCENTI n° 5; P. STOPPELLI, La Mandragola: storia e filologia. Con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 147-155; EDIT16 CNCE 77107). 8 In 8°, cc. [40], fasc.: A-E8 (BERTELLI-INNOCENTI n° 6; P. STOPPELLI, La Mandragola: storia e filologia, p. 156; EDIT16 CNCE 46931). 9 BERTELLI-INNOCENTI n° 11; EDIT16 CNCE 23997. 10 BERTELLI-INNOCENTI n° 12; EDIT16 CNCE 27962. 11 BERTELLI-INNOCENTI n° 16-17; EDIT16 CNCE 64104, 27967. 12 BERTELLI-INNOCENTI n° 18-19; EDIT16 CNCE 24013, 27970. 13 BERTELLI-INNOCENTI n° 13-15; EDIT16 CNCE 68017, 68018, 32295. 14 BERTELLI-INNOCENTI n° 50; EDIT16 CNCE 64102 registra soli 4 esemplari in Italia. 15 BERTELLI-INNOCENTI n° 52; EDIT16 CNCE 24513. 16 BERTELLI-INNOCENTI n° 53; EDIT16 CNCE 49088. 17 BERTELLI-INNOCENTI n° 44-47; EDIT16 CNCE 26687, 26690, 26692, 26695. 18 MARIO INFELISE, I libri proibiti. Da Gutenberg all’Encyclopédie, Roma-Bari, Laterza, 20045, p. 109 e ad indicem; UGO ROZZO, La letteratura italiana negli ‘Indici’ del Cinquecento, Udine, Forum, 2005, p. 102. 19 BERTELLI-INNOCENTI n° 130. 20 SALVATORE BONGI, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato stampatore in Venezia, Roma, 1890-1897, II, pp. 414-424; BERTELLI-INNOCENTI n° 170171, 177-178, 181. dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 33 inSEDICESIMO LE MOSTRE – LO SCAFFALE LA MOSTRA/1 ANTONELLO DA MESSINA Il pittore secondo Ferdinando Bologna a cura di luca pietro nicoletti n molti hanno pensato, quando si annunciò questa mostra, che riproporre una rassegna dedicata ad Antonello da Messina, a non molti anni di distanza dalla kermesse messa in piedi alle Scuderie del Quirinale nel 2006, potesse essere soltanto una ripetizione. Basta però visitare la piccola e preziosa rassegna del MART, luogo insolito e inaspettato per una mostra di arte antica, per avere conferma del contrario: la mostra di Rovereto, a sessant’anni esatti da quella di Palazzo Abatellis a Palermo con il leggendario allestimento di Carlo Scarpa, è fra i rari esempi di mostre che non soffrono di “ansia da capolavoro” (per quanto i capolavori ci siano) attorno a cui creare un’atmosfera di venerazione mistica. Le opere, anzi, sono strumenti per accompagnare il visitatore in un solido percorso di lettura critica che mette in luce gli snodi cruciali, i problemi, chiama in causa i maestri assenti e imbastisce un discorso per immagini basato sul confronto. Dietro la mostra di Rovereto, del resto, c’è un decano della migliore storia dell’arte italiana, Ferdinando Bologna, coadiuvato da Federico De I ANTONELLO DA MESSINA A cura di Ferdinando Bologna e Federico De Melis Melis per riannodare i fili di un problema storiografico che accompagna la carriera dello studioso per oltre sessant’anni. Se ne ha una chiara percezione nella lunga e serrata conversazione intervista fra i due che correda il catalogo della mostra: un vero e proprio racconto in cui Bologna traccia la fisionomia del pittore all’interno di una «vasta congiuntura mediterranea di base prospetticoluminosa». Bologna non aveva scritto, prima d’ora, un saggio espressamente dedicato ad Antonello, ma la sua idea sulla storia del pittore affiora all’interno delle rotte della pittura trattate in un suo volume fondamentale del 1977 (Napoli e le rotte mediterranee della pittura) che vedeva nel capoluogo campano il crocevia degli incontri con tutta la cultura figurativa affacciata sul Mediterraneo, da quella borgognona a quella spagnola a quella fiamminga. La mostra di Rovereto, dunque, serviva a ribadire una certa idea su come si sono svolti di fatti della vita e delle opere di Antonello e di un certo tratto della pittura del Quattrocento. Non si trattava dunque di semplici precisazioni cronologiche, come lo spostamento della data di nascita del pittore intorno al 1425 e non al 1430, o di ribadire ROVERETO, MART 5 ottobre 2013 12 gennaio 2014 Antonello da Messina, San Benedetto, olio su tavola, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Raccolta d’Arte Antica 34 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Antonello da Messina, Cristo alla colonna, olio su tavola, Parigi, Musèe du Louvre, dèpartement des peintures attribuzioni frettolosamente accantonate dalla critica recente -come per l’Annunciata dei musei civici di Como, attribuita dallo stesso Bologna ad Antonello nel 1977- ma di rileggere, a partire da questi dati di dettaglio, la cultura figurativa di questo maestro, a partire dalle tendenze fiammingoborgognone degli esordi (come nella Sant’Eulalia di collezione privata, con cui si apre la mostra, che risente del Trionfo della Morte di Palermo) per maturare a Napoli alla scuola di Colantonio, e qui aggiornarsi sui modelli centro-italiani, allora presenti nel vicereame, e carpire la novità di Piero della Francesca. Bologna è ben cosciente, naturalmente, che si tratta di un paradigma indiziario, che si muove su poche date certe e su testimonianze anche di decenni successive agli eventi (dell’alunnato presso Colantonio, ad esempio, parlerà l’umanista Pietro Summonte in una lettera del 1524), ma i confronti e i rimandi, talvolta le puntuali filiazioni fra opere geograficamente distanti danno ragione della fondatezza di questa ipotesi. Per questo, osserva lo studioso, «la ricostruzione delle influenze pierfrancescane, e non solo su Antonello, si fonda sulla necessità di recuperare almeno mentalmente opere perdute di Piero che anticipavano situazioni meglio evidenti, dal punto di vista stilistico, in fasi successive». È necessario, insomma, riconoscere dei prototipi di Piero necessari per spiegare taluni passaggi e talune precoci idee di Antonello, come nell’Annunciata di Como: Antonello, nella bottega di Colantonio a Napoli, avrebbe assorbito gli aspetti moderni di una pittura luminosa portata in città da un pittore francese, Jean Fouquet, sviluppando quel suggerimento in direzione di Piero. Si tratta di congiuntura fedele a un’idea di Roberto Longhi sulla forza di irradiazione dell’opera di Piero nella pittura del suo tempo, al crocevia fra Piero, il fatidico incontro con Giovanni Bellini e quello, altrettanto fondamentale, con Antonello. Per capirne la portata, ovviamente, non era sufficiente limitarsi al catalogo del pittore siciliano: una storia come questa, che non venera la monade del maestro, non poteva essere raccontata, in mostra, se non evocando una storia fatta di protagonisti e comprimari, mettendoli l’uno accanto all’altro, con reciproco arricchimento. A Napoli, per Mindshare Italia Assago (MI) Viale del Mulino, 4 Roma Via C.Colombo, 163 Verona Via Leoncino, 16 +39 02480541 +39 06518391 +39 0458057211 www.mindshare.it www.mindshareworld.com 36 Dall’alto: Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino benedicente (Madonna Contarini), olio su tavola, Venezia, Gallerie dell'Accademia Antonello da Messina, Ritratto dí uomo (Michele Vianello?), 1475 ca, olio su tavola, Roma, Galleria Borghese. Jan van Eyck, Uomo dal copricapo azzurro (o Ritratto di orafo), olio su tavola, Sibiu, Muzeul National Brukenthal esempio, si forma anche un bellissimo maestro abruzzese che Bologna, in un suo bellissimo saggio giovanile uscito nel 1950 su “Proporzioni”, battezzava Maestro di San Giovanni da Capestrano, e oggi identificabile in Giovanni di Bartolomeo dall’Aquila: il suo Sant’Antonio da Padova, oggi a Capodimonte, con il luminoso saio di cartone a larghe pieghe: «il risultato di un acutissimo scandaglio prospettico la cui attitudine a calibrare l’invaso del corpo dentro la guaina delle vesti si aggiusta in una mirabile moderazione della forma: tutte circostanze esemplate evidentemente sulle opere di Piero della Francesca, nel genere dei pannelli più antichi del polittico per la Misericordia di San Sepolcro, specialmente quelli apicali con l’Annunciata e il San Francesco». Basta poi vedere allineate le rocce mimetiche ma solide del «mineralismo» di Van Eyck, quelle scheggiate e visionarie di Colantonio, quelle più dolci e digradanti di Antonello, per capire il gradiente di poesia e di sensibilità che il messinese aggiunge a una tradizione, ma rinnovandosi nel solco di una lezione ben definita. Non poteva mancare, infine, un affondo sulla ritrattistica, il tema più noto e più frequentato delle indagini su Antonello. Per capire la specificità della la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 sua misteriosa e sbalorditiva galleria di ritratti era necessario richiamare, per confronto e per contrasto, il modello fiammingo, a cui sopperisce lo straordinario ritratto di orafo di Van Eyck conservato a Sibiu (Romania): Bologna, però, mette in guardia dall’appiattirlo sul modello fiammingo: Antonello, infatti, «non concepisce il ritratto come un fatto naturalistico da cui far emergere il dettaglio descrittivo o anche materico: dettaglio, invece, puntualmente rilevato e lumeggiato nella pittura fiamminga. I ritratti antonelliani non sono magie di pelle, puntigliose esplorazioni di accidenti fisiognomici, come […] l’affascinante Orafo di Van Eyck del museo di Sibiu, bensì presentazioni di un corpo elaborato plasticamente in maniera vigorosissima e concentrata». Ma questa pittura vigorosa e concentrata non poteva mancare di una ricaduta sociale, mostrando una nuova classe che sta salendo agli onori del ritratto: «i ritratti di Antonello, anche se restano anonimi (nessuno sforzo di identificazione ha mai raggiunto la certezza assoluta), vengono ad acquisire una sorta di statuto sociologico: messi uno accanto all’altro, appaiono come una rappresentazione viva e parlante della gens nova. […] A parte alcuni casi di rappresentanti conventuali che richiedono il tradizionale fondo oro e la carpenteria gotica, il ceto a cui Antonello fa capo è sempre stato lo stesso; egli si muove sin dal principio, già al Sud, nell’ambito della borghesia emergente di base mercantile, che faceva di Messina la città più dinamica dell’intera Sicilia». dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 37 LA MOSTRA/2 LA "BORSA" DELL'ARTE, A RATE, SU ROTOCALCO Arte e mercato negli anni Sessanta “QUADRI CHE COSTANO COME SPUTNIK”. Rotocalchi italiani e boom del mercato dell’arte in Italia nei primi anni Sessanta A cura di Mariella Milan MILANO, MUSEO DEL NOVECENTO 15 novembre 2013 9 marzo 2014 a tempo sappiamo che la storia delle forme non è sufficiente a comprendere a fondo le opere d’arte: oltre alla storia di chi le ha realizzate e alle sue idee, infatti, è importante tenere conto dell’ambiente in cui hanno preso vita e i canali che ne hanno consentito o meno la diffusione, e delle figure di mediazione che vi hanno contribuito. Ci si è resi conto, in questo modo, di quanto fosse importante la committenza prima e il mercato dell’arte poi. Resta però una domanda da porsi: quali canali di diffusione hanno portato, e in che modo, la conoscenza delle opere d’arte al grande pubblico? Un conto, infatti, è lo sguardo “interno” degli addetti ai lavori, ma non basta: una eco del mondo dell’arte, se non sempre le sue opere, arriva anche a chi non ha mai messo piede in una galleria, a chi si mostra magari diffidente nei confronti di un mondo in cui non si sente addentro e di cui non comprende i D meccanismi. Assai difficile, talvolta, è comprendere il peso e i modi di questo sguardo “esterno” rivolto alla storia dell’arte, anche a quella più recente. Proprio su questo punto si concentra l’interessantissima mostra ospitata nello spazio “Focus” del Museo del Novecento, abitualmente riservata a indagini mirate su opere o complessi di opere presenti nei depositi del museo. In questo caso, il pretesto è offerto dalla Figura d’uomo dipinta da Antonio Recalcati nel 1961, e nello stesso anno acquistata dal Comune di Milano in seguito alla segnalazione della giuria dell’XI Premio San Fedele. È una tela che fa parte del ciclo delle Impronte, in cui il giovane artista lasciava impressione del proprio corpo sulla tela, riprendendo e ritoccando poi alcuni punti dell’immagine ottenuta a Sotto e sopra: Giorgio Maiocchi, Compriamo a rate i capolavori, "Quattrosoldi", I (5), agosto 1961, pp. 62-69 (doppia pagina, originale, la rivista misura cm 27x21,5) pennello: un procedimento nuovo, del tutto eterodosso per chi era abituato a modi più canonici di intendere la creazione artistica. Ma la figura di Recalcati, in questo caso, viene rievocata non tanto per il suo valore intrinseco, ma per il fatto che all’epoca egli era considerato uno delle più brillanti promesse della giovane pittura milanese: il passare dei decenni ha 38 notevolmente ridimensionato questo giudizio, costruendo una diversa gerarchia di valori più conforme alla nostra idea attuale di come le cose siano andate in quel momento. La mostra curata da Mariella Milan, che da anni si occupa di questi temi, recupera invece un “occhio del tempo”, non privo di risultati sorprendenti, partendo da come l’arte contemporanea si presentava sui rotocalchi dell’epoca. Questi, scrive la Milan nel pieghevole che accompagna la mostra «offrono un filtro prezioso per esaminare, nell’ottica della ricezione da parte del grande pubblico, la situazione del mercato e l’immagine dell’artista in un arco cronologico breve ma intenso». In questo modo, infatti, è possibile risalire a cosa del mondo dell’arte arrivasse al grande pubblico, cosa da questo fosse la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 effettivamente visto, al contrario di vicende e personaggi a cui noi oggi attribuiamo grande valore, ma di cui all’epoca il pubblico meno accorto non percepì la portata e la presenza. Questo racconto per immagini, dunque, presenta «i modi e i formati attraverso i quali le riviste non specializzate informano e educano un pubblico di massa, ottimisticamente visto come potenziale serbatoio di aspiranti collezionisti, e lo mettono in guardia contro le insidie di un settore considerato inaffidabile. Nelle rubriche di critica si infittiscono le notazioni sul mercato, mentre sono frequenti, in quelle di gossip e costume, le notizie dal mondo dell’arte; concorsi a premi mettono in palio opere di maestri del Novecento e largo spazio trovano reportages e inchieste che illustrano ai lettori – con spirito didattico o polemico – la situazione del mercato, dalla rete delle gallerie al sistema di valutazione a punti, dai maestri storici ai giovani più quotati». Ecco quindi tornare alla ribalta, dalle pagine di “Epoca”, di “Panorama” e di altre testate di larga circolazione, le inchieste di Fabrizio Dentice sul mercato dell’arte (poi confluite in un volume, Denaro al muro, che meriterebbe ancora oggi di esser eletto), in piena espansione nel corso degli anni sessanta, o vicende dimenticate come quella di Ivanhoe Trivulzio, che balzò agli onori della cronaca per i suoi esperimenti di vendita rateale che, «secondo una visione democratica e utopica delle future prospettive del collezionismo, propone a un pubblico di operai e impiegati la sua “rateale del quadro”». 40 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 LA MOSTRA/3 UN VOLTO DEL NOVECENTO, IL VOLTO NEL NOVECENTO Opere dal Centre Pompidou di Parigi IL VOLTO DEL ‘900 DA MATISSE A BACON. CAPOLAVORI DAL CENTRE POMPIDOU MILANO, PALAZZO REALE 25 settembre 2013 9 febbraio 2014 www.ilvoltodel900.it n presenza di una crisi d’identità profonda come quella che ha attraversato il Novecento, interrogarsi sul significato del volto diventa un punto di passaggio critico cruciale: significa interrogarsi sulla soglia fra cosa si debba definire genericamente un volto e cosa possa ancora essere definito ritratto. È I possibile, in primo luogo, parlare di ritratto nel Novecento? O, meglio, è possibile coniugare crisi esistenziale con il crisma dell’individualità costituito dal ritratto? Ed è possibile, ancora, mettere d’accordo le esigenze di riconoscibilità che il ritrattato si aspetta dalla propria effige con le istanze dei linguaggi delle avanguardie? Seguendo il filo di questa dicotomia si può percorrere la mostra su Il volto del ‘900 apertasi a Palazzo Reale, che propone una rara selezione di opere delle collezioni del Centre Pompidou di Parigi poco viste negli ultimi anni. Tutta la mostra, nelle sue sezioni tematiche, oscilla infatti fra questi due termini, sollecitando di Sopra: Pablo Picasso, Ritratto di donna, 1938, olio su tela, © Centre Pompidou Sotto: Henri Matisse, Odalisca con i pantaloni rossi, 1921, olio su tela, © Centre Pompidou continuo il visitatore a interrogarsi su questi due termini ,volto e ritratto, e la miriade di sfaccettature a cui possono essere sottoposti. Tutti i paradossi che connotano diacronicamente il problema del ritratto, infatti, si squadernano nella loro ampiezza e anche nelle loro continue ibridazioni: una comune radice nel disagio e nella tragedia della memoria postbellica, in fondo, si trova a monte dell’autoritratto di Francis Bacon quando dietro il famoso volto fuso in bronzo dal pittore Jean Fautrier. Un volto, quello modellato da quest’ultimo, sconvolgente per la sua crudezza, come se la campata di un animale feroce ne avesse strappato un occhio, una guancia, lasciando dei solchi profondi come unghiate. Ma anche il pittore irlandese, quando ritrae l’amico Michel Leiris, non si fa scrupoli a sottoporre il volto del ritrattato a una serie di deformazioni, cancellazioni e 42 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 LA MOSTRA/4 A MONZA UNO SCULTORE RITROVATO PER L'AVVENTO La “Natività” di Aldo Buttini uando si spegne a Carrara, la mattina del 2 dicembre 1957, a soli cinquantanove anni, Aldo Buttini lasciava nel suo studio due monumentali rilievi di tema sacro. Erano opere realizzate in anni recenti, più o meno fra il 1953 e il 1957, probabilmente mai giunte a destinazione, su cui per cinque decenni è calato il silenzio fino a tempi recenti. Adesso, per merito di un generoso collezionista, viene presentato per la prima volta al pubblico il primo di questi due monumentali rilievi, che la Q Errò, Ritratto di Stravinsky, 1974, olio e vernice su tela di lino; © Centre Pompidou maltrattamenti che quasi ne cancellano i tratti somatici caratteristici: anche il ritratto, in questo caso, diventa l’emblema di una più estesa sensazione di malessere e di disagio. L’interesse dell’artista, del resto, è il più delle volte attratto più da un proprio interesse formale, che da una vera preoccupazione di soddisfare le esigenze del committente: quest’ultimo stesso, a sua volta, non è escluso che ricorra al ritratto pittorico o scultoreo, anziché alla fotografia, proprio per la curiosità di vedersi rivisitato dall’occhio e dall’estro dell’artista contemporaneo, con la speranza magari che questo ne riveli risvolti insospettati, o si presti a un più generico divertimento intellettuale. A questo punto, dunque, le distanze fra volto e ritratto, pur mantenendo un sottile confine di demarcazione, si avvicinano enormemente: anche il ritratto, talvolta, quando non diventa campo di sperimentazione linguistica, rimane più carne da macello, in fondo, che specchio dell’anima. ALDO BUTTINI. LA NATIVITÀ a cura di Wanna Allievi MONZA, CAPPELLA DI CORTE DELLA REGGIA DI MONZA Fino al 19 gennaio 2014 tradizione ha classificato come una “Natività” (nonostante la presenza dei tre Re Magi a fare da corona all’epifania sacra), che verrà ospitata per tutto il periodo natalizio nella cappella gentilizia della Villa Reale di Monza. Si tratta di un’opera di notevole dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 43 questo caso Buttini aveva portato una tecnica già in sé laboriosa a un livello di complessità assoluta. Alcuni di questi marmi sono facilmente riconoscibili, come il Giallo di Siena o il marmo di Trani, ampiamente usato per gli incarnati, o la trasparenza del rosa del Portogallo in cui è intagliato il corpo del Bambin Gesù, mentre altri sono meno noti e meno identificabili. Sta di fatto, però, che Buttini non si era accontentato, per esempio, di una sola Nella pagina accanto: Giuseppe e Maria (part.); a sinistra e sotto i Re Magi (part.); in basso a sinistra: un pastore adorante (part.) complessità, di spirito neorinascimentale, per la quale Buttini si è servito di ben trentasette qualità di marmi differenti, incastonati dentro un’unica cornice per dare vita alla sacra rappresentazione, raggiungendo un risultato tecnicamente virtuoso: il portare il mestiere al suo grado più alto e più nobile, del resto, era, per Buttini come per tutti gli scultori di formazione carrarina, una meta da perseguire con costanza e con tenacia, perché è nella perizia tecnica che risiede, sembra volerci dire, il vero segreto dell’arte. E in qualità di verde, ma aveva distinto le cromie servendosi del verde alpi, del verde isorie e del verde bottiglia; ancor più per i rossi, oltre al Porfido, si era servito del rosso di Francia, del rosso Levanto, del Rosso Collemandina, del Rosso d’Africa e del broccatello rosso Marosso per avere diverse sfumature di colore. Un ventaglio quindi di pietre pregiate, da maneggiare con cautela a fronte degli ingenti costi della materia prima e solo se si è confortati dalla certezza di un mestiere solido e consapevole. NO QUALCU INA CHE CUC UO? T AL POSTO POC O PER C TEMPO UCIN ARE? cucina per te ogni giorno i buoni piatti della cucina italiana Cukò cucina in autonomia risotti, paste e vellutate, grazie a 3 programmi automatici, e ti guida passo per passo nella preparazione di menu completi, dall’antipasto al dolce. 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Il metodo interpretativo dello spazio rinascimentale, non ancora esperito in Sicilia, lo guidava a un’impresa di complessa esecuzione, entro cui andavano coniugate, con i criteri del progetto di architettura, istanze locali di difficile complementarità. Eterodossia riformista e neoplatonismo trovavano un singolare accordo nella definizione progettuale, all’ombra di una mitologia della fondazione urbana. Tra l’esordio operativo e il suo ultimo atto nella Città dello Stretto correva un decennio di importanti innovazioni nella politica del viceregno. Tuttavia la sua ultima opera nasceva nell’intento di lanciare un vibrante monito in difesa delle origini talassiche della città, traendo ispirazione dal mito del mare omerico che i suoi occhi potevano rivivere in riva allo Stretto. La fonte di Nettuno avrebbe definito un modello destinato a fare scuola nella fiorentina Piazza della Signoria e ancora a Bologna, in Piazza Maggiore. Francesco Giambonini, “Bernardino Lanino ritrattista e l’ambiente artistico-politico del suo tempo”, Firenze, Olschki, 2013, pp. 340, 38 euro A latere della più vasta produzione sacra di Bernardino Lanino si situano alcuni significativi episodi di incursione nella ritrattistica. Francesco Giambonini analizza questo aspetto meno conosciuto dell’attività del pittore a partire dalle opere commissionategli da Cassiano Dal Pozzo, offrendo una lettura originale del Ritratto del giurista sulla scorta di una profonda conoscenza della cultura emblematica del Cinquecento e proponendo l’attribuzione di un secondo ritratto presente in collezione privata. Passa quindi a indagare i rapporti tra Lanino e la corte sabauda attraverso l’inedita interpretazione del Marte e Venere del Petit Palais come dipinto nuziale, dietro il quale si celerebbe un ritratto doppio di Emanuele Filiberto e della sposa Margherita. Bernardino Lanino sarebbe dunque stato coinvolto, al pari di più celebri colleghi quali Tiziano e l’Argenta, nella politica di Emanuele Filiberto di ricorso alle arti figurative come mezzo per consolidare il proprio potere. Completa il volume un catalogo cronologico di tutte le opere del pittore. Franco Marucci, “Joyce”, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 312, 16 euro Il libro parte da una ricollocazione dello scrittore nella tradizione del Rinascimento civile, politico e soprattutto culturale e letterario di fine Ottocento in Irlanda, e tocca quindi i rapporti di Joyce con contemporanei come Yeats, Lady Gregory, Synge, Moore, Shaw, O ’Casey, per passare poi a osservare come egli sfugga a questo contesto limitante e allarghi il suo raggio di azione assorbendo le più aggiornate posizioni avanguardistiche europee. Nei capitoli seguenti Franco Marucci (docente di Letteratura inglese all’università di Venezia) esamina la genesi dell’opera narrativa dello scrittore muovendo dai saggi critici e dalle note giovanili di estetica, e soprattutto dagli “scritti italiani”, pezzi giornalistici nella nostra lingua usciti su un quotidiano triestino, corrivi ma assai utili a capire le idee di 48 Joyce sulla letteratura nazionale, la sua politica e la sua ideologia, e a preannunciare svariati “nodi” della sua narrativa. Nei cinque capitoli dedicati alla sua opera maggiore, i quattro “romanzi” e un dramma vengono visti approfonditamente al tempo stesso come creazioni estetiche autonome e come soggetti a una escalation del polistilismo e poliglottismo joyciano, culminando nel “banchetto della lingua” di Finnegans Wake. Gianfranco Ravasi, “I Salmi nella Divina Commedia”, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 88, 10 euro Dante Alighieri ha riservato una particolare attenzione ai Salmi, il “libro di preghiere” della Bibbia, tra i più “popolari” dell’Antico Testamento, cui ha fatto molti riferimenti nella sua opera e in particolare nella Divina Commedia. In questo volume (edito dalla Salerno Editrice), il cardinale Gianfranco Ravasi, insigne biblista e studioso, ricostruisce quei richiami come testimonianze della fede di Dante, pubblicamente dichiarata nel canto XXIV del Paradiso. Enrico Malato, “Dante al cospetto di Dio (lettura del canto XXXIII del Paradiso)”, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 96, 7.90 euro La Divina Commedia narra, com’è noto, il viaggio salvifico di Dante, che, smarrito nella selva oscura del peccato, intraprende un viaggio di salvazione attraverso i tre Regni dell’oltretomba: l’Inferno, che accoglie i dannati; il Purgatorio, dove sono i peccatori la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 pentiti che scontano i loro peccati e si purificano per ascendere al cielo; il Paradiso, che accoglie i beati (coloro che hanno compiuto la purificazione purgatoriale), i santi e tutte le creature celesti che hanno meritato l’empireo. In questo breve e agile volume, Dante al cospetto di Dio, Enrico Malato (critico letterario, storico della letteratura, professore emerito di Letteratura italiana nell’Università di Napoli Federico II nonché coordinatore della «Nuova edizione commentata delle Opere di Dante » promossa dal Centro Pio Rajna) fornisce una lettura puntuale e chiara dell’ultimo canto della grande opera dantesca. Giuseppe Galasso, “Liberalismo e democrazia”, Roma, Salerno Editrice, pp. 100, 8.90 euro Esiste, fra “liberalismo” e “democrazia”, una forte distinzione storica e concettuale, ma esiste anche, comprovato dalla storia, un rapporto strettissimo fino alla reciproca sovrapposizione o integrazione. Due modelli di regimi di libertà, che la storia ha portato, pur nella distinzione delle rispettive forze promotrici, a una reciproca integrazione e al trionfo su tutti gli altri sistemi e forze del mondo moderno. Giuseppe Galasso (storico e professore emerito nella Università di Napoli Federico II), nel saggio Liberalismo e democrazia, ne analizza consonanze e differenze. Manlio Pastore Stocchi, “Il lume d’esta stella. Ricerche dantesche”, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 268, 19 euro Il volume di Manlio Pastore Stocchi, Il lume d’esta stella, raccoglie tredici saggi, distribuiti in due parti. Di queste, la prima è dedicata a ricerche su quegli aspetti fondamentali della propria cultura e della propria sensibilità di lettore che Dante mette in gioco e lascia in ogni parte della sua opera complessa e bilingue. La seconda parte propone la lettura di otto canti della Divina Commedia, ognuno interpretato in costante riferimento ai suoi presupposti culturali e dottrinali. La documentazione di base per questi studi, quasi tutta nuova e di prima mano, attinge essenzialmente al pensiero e alla letteratura patristica e del Medio Evo latino, nel presupposto che una sicura comprensione del poema (e in genere di tutti gli scritti danteschi) richieda un’approfondita conoscenza delle dottrine filosoficoscientifiche nonché della letteratura espresse da quella civiltà mediolatina da cui Dante stesso, pur avviandosi a uscirne, ha tratto nutrimento e impulso vitale. Tuttavia, nonostante il rigore storiografico e critico che le ispira, queste pagine, per buona parte concepite quali lecturae Dantis, hanno volutamente conservata sia l’originaria impostazione piana e didascalica del discorso, sia lo stile diretto e comunicativo richiesto dall’occasione per cui erano state dapprima composte, sia, infine, il proposito di rivolgersi con la stessa efficacia tanto agli specialisti quanto agli amatori della poesia dantesca. 50 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Punture di penna Consigli intellettuali per il vero Maître à penser Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte seconda LUIGI MASCHERONI ALFABETO UTILE (per autodefinirsi “intellettuale”): A come “anarchico” (tutti gli intellettuali sono un po’ anarchici), B come “barone” (tutti gli intellettuali sono un po’ baroni), C come “controverso”, D come “disorganico” (vedi anche O come “organico”), E come “eroe”, F come “fenomeno”, G come “guru”, H come “hipster”, I come “irregolare” (ma anche “impegnato”, naturalmente), L come “latino” (è sempre meglio saperlo almeno masticare…), M come “militante” ovviamente, ma anche “maestro” (e anche “maiale” per alcuni), N come “nuovo” (l’intellettuale dice sempre cose nuove), O come “organico” (vedi anche D come “disorganico”); P come “promessa” (ma anche “puttana”); Q come “quantum” (da cui la domanda: “Quanto mi dai…?”), R come “razza” (nel senso di “intellettuale di razza” ma anche “intellettuali brutta razza”), S come “stronzo”, T come “tassa” (“gli intellettuali non pagano Dirlo, prima di qualunque stronzata, fa generalmente un’ottima impressione. KUNDERA, MILAN “Confesso che da quando si è messo a scrivere in francese non lo leggo più…”. NEGAZIONISMO Argomento scivoloso. Evitare. Sopra: Luigi Mascheroni. Nella pagina accanto: James Gillray (1757-1815), A Little Music or the Dekight of Harmony (vignetta satirica, fine XVIII secolo) mai le tasse”, ma anche “gli intellettuali sono una tassa da pagare”), U come “utile” (ma anche “untuoso”), V come Valèry, Paul, che disse: “Intellettuali? Gente che attribuisce valore a ciò che ne è assolutamente privo”, Z come Zeitgeist, perché l’intellettuale, più di chiunque altro, sa cogliere lo spirito del tempo. Forse. “CONFESSO CHE…” FESTIVAL DI CANNES Dire di preferire Venezia. E se si parla di Venezia, il contrario. Disdegnare il Festival del film di Roma: “L’ha voluto Veltroni, ma non interessa a nessuno”. APPELLI Firmarli, tutti. PUBBLICO Il migliore è quello di nicchia. ESORDIRE E’ un po’ morire. CRISI Ricordare che in ci- nese lo stesso termine significa anche “opportunità”. dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano LARS VON TRIER Il suo cinema ormai non fa più per voi. Meglio i film del magrebino Abdellatif Kechiche. FAMA Più che altro fame. LIBRI Mai, ma mai, presta- re i libri: sono come le mogli, a lasciarle andare in giro si perdono. E soprattutto, se possibile non leggerli neppure, che si rovinano i dorsi e si sciupano le pagine. LIBRERIA DI CASA, COME ORGANIZZARLA 1) Le disposizioni classiche so- no: alfabetica, per aree del pensiero, per titoli, per autore… Persino per altezza dei volumi. In Inghilterra ultimamente va molto di moda la disposizione cromatica: uno scaffale per i libri rossi, uno per i gialli, uno per i blu… Comunque tutti gli Adelphi e gli Einaudi vanno sempre messi insieme, in prima fila, ben visibili. Averli letti, di per sé, è controproducente: spostandoli, si compromette l’armonia dell’insieme; 2) Il vero intellettuale non ha un metodo. Procede assolutamente a caso, impilando i libri uno sull’altro, man mano che li ac- 51 quista (o li ruba, evento che capita con una certa frequenza). L’unico modo per ritrovare i volumi che interessano, a questo punto, è la memoria. Dote della quale - a differenza della cultura - il vero intellettuale abbonda; 3) In caso di furto o devastazione della libreria, non rimanendo altro da fare, indossare una vestaglia di velluto rosso, accedere il rubinetto del gas e poi spararsi alla tempia con in mano una copia di Le feu follet di Drieu La Rochelle; 4) Mettere in ordine i libri è come riordinare le idee. Per quanto il solo pensiero sia terroriz- 52 zante, ogni tanto va fatto. Basta convincersi che, in fondo, è come incastrare pezzettini della propria vita, di forme e colori diversi. Un po’ come Tetris. Ricordarsi comunque che riordinare i libri, essendo il sapere assimilabile per osmosi, è un toccasana per la propria cultura. Sfogliando i libri, si impara; 5) Come rispondere a chi entrato in casa vostra, davanti alle pareti che grondano sapere, esclama: “Quanti libri! Li hai letti tutti?”. Alla domanda, mentre la mascella si irrigidisce e rivoli di sudore diaccio colano lungo la colonna vertebrale, in qualche modo occorre rispondere. Ad esempio. Uno: “No, ma sono a buon punto”. Due: “No, ma arredano”. Tre: “No, ma l’applicazione del Feng Shui impone di riempire la casa di libri così che riportino alla mente un’emozione positiva”. Quattro: “No, ma mi spiace buttarli via e sto cercando qualcuno a cui regalarli, basta che ne abbia letti altrettanti”. Cinque: “Sì li ho letti tutti, perché tu no?”. MODA Mai esserne schiavi. Anche se ogni tanto, però… la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 RADICAL CHIC Ad esempio: i pezzi di Concita De Gregorio, le camice a quadrettini di Gad Lerner, l’insalata di polpo con verdure crude, la Repubblica in generale, la parola hipster, gli hipster, quelli che “ah, io adoro gli hipster!”, tutto ciò che passa dalle pagine di Vanity Fair, la vanità, le fiere, le borse in pelle di vitello di Ralph Lauren (ma anche quelle in coccodrillo di Salvatore Ferragamo), le campagne contro l’infibulazione, Slow Food, le pashmine di Daria Bignardi, quelli che condannato Berlusconi ma condonano il soppalco, i film di Ferzan Ozpetek, quelli che esaltano la “decrescita felice” in uno chalet di Courmayeur, Otto e mezzo, Calzedonia (ma non Yamamay), le citazioni di Zygmunt Bauman, tutto quello che fa Alessandro Baricco, tutto quello che dice Michele Serra, il tg di La7, il salmone (ma solo se affumicato) e la rustisciada (ma solo con la polenta). NERO Va bene solo per gli abiti. RACCOMANDAZIONI SAPERE Una cosa da esibi- In editoria servono, eccome. REVIVAL L’intellettuale è sempre per il revival. re. DAVID FOSTER WALLACE Perentori: “Un gigante”. Ma se qualcuno lo dice prima di voi, rispondere: “Sopravvalutato”. GRASS, GÜNTER Si è davvero spinto troppo in là. Buttar lì che è un antisemita. PIFFERO Gli intellettuali lo suonano benissimo, da cui l’espressione: “Intellettuali del piffero”. Ma anche: “Non capiscono un piffero”. O: “Non valgono un piffero”. STALIN Non azzardare pa- ragoni con Hitler: “Sono due cose diverse”. PREMI LETTERARI Parlarne male, a meno che non ne avete vinto uno. QUALITÀ UTILI AL RUOLO (DI INTELLETTUALE) Faziosità, cortigianeria, invidia, vanità, frivolezza, saccenza. TABÙ Il vero intellettuale non ha tabù. Anche se sarebbe meglio non affrontare in modo critico l’omosessualità, le pari opportunità, il neo-femminismo, i valori della Resistenza, quelli della Costituzione, l’antiberlusconismo, il corpo delle donne, l’Islam, gli ebrei, il Tibet, gli indiani d’America, le persone “di colore”, l’aborto, il matrimonio gay, la “dolce morte”. E anche le droghe leggere. L’assunzione delle quali, peraltro, in dosi moderate, voi non disdegnate. MOSTRE L’intellettuale adora le mostre. Se c’è il buffet. 54 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Il libro del mese La prima Repubblica: uno sguardo retrospettivo Storia di una democrazia difficile GIUSEPPE BEDESCHI E nrico Berlinguer fece grandi sforzi per accreditare un’immagine democratica (nel senso delle democrazie liberali occidentali) del PCI: con l’ “eurocomunismo” egli affermò che la democrazia (costituita dalle libertà civili e politiche, dalla coesistenza delle più diverse opinioni politico-culturali e fedi religiose, dal diritto di espressione e di organizzazione dei più diversi movimenti e partiti, ecc.) era un valore universale, al quale i comunisti si sarebbero sempre ispirati nelle loro proposte di riforma e di trasformazione della società italiana. In una famosa intervista al giornalista Giampaolo Pansa, Berlinguer dichiarò che si sentiva più sicuro “da questa parte”, sotto l’ombrello della Nato (e così liquidava alcuni decenni di demonizzazione comunista della Nato). Nel 1981, quando il generale Jaruselski effettuò un colpo di Stato in Polonia, mise fuori legge il sindacato operaio Solidar- nosc e ne arrestò i capi, Berlinguer, in una famosa Tribuna politica televisiva, dichiarò sostanzialmente “esaurita” la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre (e il filosovietico Cos- Giuseppe Bedeschi, “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile”, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 352, 19 euro sutta definì questa dichiarazione un inammissibile “strappo” con l’Unione Sovietica). E tuttavia la maggioranza dell’opinione pubblica italiana non avvertì tutto questo come una “mutazione genetica” del PCI, come una sua completa “occidentalizzazione”. Ostavano a ciò alcuni elementi di grandissimo peso: Berlinguer continuava ad avere come obiettivo il superamento del capitalismo (sotto questo profilo egli conservava tutta la vecchia forma mentis marxista: in un colloquio con Ciriaco De Mita egli disse che per lui la proprietà privata era l’equivalente di quello che per i cristiani era il peccato originale).1 Da ciò discendeva il suo rifiuto delle socialdemocrazie, che avevano accettato il capitalismo, pur sforzandosi di riformarlo (attraverso la costruzione del Welfare State ecc.). Berlinguer dichiarava di voler percorrere una misteriosa “terza via”, di cui si poteva dire con chiarezza una sola cosa: che essa mirava dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 55 Roma, maggio 1977. Stretta di mano tra il segretario generale del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer (a sinistra), e il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro (a destra), i principali fautori del cosiddetto compromesso storico tra le due opposte forze politiche a sopprimere l’impresa capitalistica e il mercato. E infatti il leader comunista, mentre condannava e rifiutava i “tratti illiberali” dell’URSS e delle società comuniste, individuava questi “tratti illiberali” solo nella sfera politica (autocratica e dispotica), mentre celebrava le grandi conquiste sociali di quei paesi, in quanto essi avevano statizzato l’economia, abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, costruito una solida base socialista, la quale doveva essere solo, per cosi dire, democratizzata. Queste posizioni ideologico-politiche sancivano la sostanziale estraneità delle idee di Berlinguer al mondo occidentale e alla democrazia liberale. Sicché, sotto la segreteria del leader sardo il PCI non riuscì mai a rompere sino in fondo il proprio cordone ombelicale con la tradizione comunista (ha scritto un exdirigente del PCI, Emanuele Macaluso, che fu ai vertici del partito: “A quella identità [comunista] in definitiva lo stesso Berlinguer, con tutti gli strappi, non seppe e non volle rinunciare”).2 Del resto, era tutto il partito ad essere orientato (direi quasi “ispirato”) in questo senso: fino alla seconda metà degli anni Ottanta, nei congressi dei comunisti italiani la grande maggioranza dei delegati dichiarava di avere il modello sovietico come pro- pria stella polare. La vicenda ideologico-politica del PCI può essere vista in modo esemplare nella figura di un suo grande leader, considerato il capo della corrente di destra del partito: Giorgio Amendola. Nell’Intervista sull’antifascismo, pubblicata nel 1976, Amendola dichiarò: “il trentennio repubblicano ha permesso di conquistare le più alte condizioni di vita che il popolo italiano abbia mai conosciute. Io dico sempre nelle riunioni, alla presenza anche di giovani contestatori, una frase che assume un carattere provocatorio: gli italiani non sono mai stati tanto liberi come adesso”.3 Non era un riconoscimento da 56 poco da parte di chi aveva combattuto le scelte della DC e dei suoi alleati, per decenni, con la più grande asprezza. In realtà Amendola aveva sempre avuto posizioni innovatrici e coraggiose: come quando, nel 1964, proclamò la necessità di superare l’esperienza comunista e quella socialista, in un partito nuovo, riformista; o come quando respinse l’estremismo sessantottardo che era penetrato anche nel suo partito; o come quando proclamò che per combattere efficacemente il terrorismo, il PCI avrebbe dovuto fare un sincero esame di coscienza sul proprio passato; o come quando, fallita la politica di “solidarietà nazionale”, sostenne che il PCI doveva continuare a farsi carico dei problemi del Paese e non indulgere a una opposizione pregiudiziale e rancorosa. E tuttavia, nonostante tutto ciò, Amendola non rinunciò mai al legame di ferro con l’Unione Sovietica, e in momenti cruciali si ispirò a un intransigente filosovietismo. Così egli si dissociò, in modo stupefacente, dalla condanna pronunciata dal PCI contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Da Togliatti a Berlinguer, dunque, il PCI, in tutte le sue componenti, rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla democrazia occidentale. Il principale partito di opposizione (che nel 1984, sia pure per un istante, realizzò il la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Palmiro Togliatti durante un comizio ‘sorpasso’ elettorale sulla DC) restò sempre, sostanzialmente, un partito antisistema. E se a ciò si aggiunge che anche la destra missina rimase, durante tutta la Prima Repubblica, nostalgica e fascista, il carattere “bloccato” della nostra democrazia emerge in tutta la sua drammaticità. Democrazia “bloccata” significa democrazia senza alternanza. Ma l’alternanza è la grande, fondamentale risorsa dei sistemi liberaldemocratici. Si può dire che non esiste liberaldemocrazia senza alternanza, la quale è infatti il risultato di un continuo confronto di idee, di programmi, di esperienze politiche e di governo. Se un partito o un gruppo di partiti deludono i propri elettori, essi perdono la maggioranza e, nelle elezioni successive, vengono sostituiti al governo da un altro partito o da un altro gruppo di partiti. L’alternan- za è quindi anche un grande strumento di ricambio dei ceti politici, e perciò di un loro continuo irrobustimento ideale e pratico (nell’arte di governo). Nell’Italia della Prima Repubblica tutto questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito, la DC, e alcuni partiti suoi alleati, sono stati “condannati” a governare. Di qui una inamovibilità del ceto politico, dei suoi grands commis, dei suoi “esperti”, dei suoi tecnici, ecc. Di qui, anche, un continuo aumento della corruzione, grazie a quella inamovibilità. Questa è stata una delle tare più gravi della Prima Repubblica. Un’altra tara è stata costituita dalla cultura statalistica propria dei nove decimi delle forze politiche italiane. Statalisti erano il PCI e il PSI, per la loro concezione marxista della società. Statalistica era largamente la cultura della Democrazia Cristiana (“I democristiani - disse Ugo La Malfa - hanno un linguaggio per cui il capitalismo è un male. Non vedono i problemi se non con mentalità precapitalistica, puramente assistenziale”);4 statalistica era la destra, con la sola eccezione del piccolo Partito liberale. Ciò ha avuto le più gravi conseguenze. La politica economica liberistica di Einaudi, di Corbino, di Merzagora ecc. è durata pochi anni. Finito il centrismo, finita l’età degasperiana, lo statalismo prese subito 58 il sopravvento. Basti pensare alla svolta fanfaniana. Fanfani dovette trasformare la DC che aveva ereditato da De Gasperi, da partito di notabili, appoggiato dalla Chiesa e dalle organizzazioni cattoliche, in una macchina-partito, sul tipo di quella del PCI che doveva combattere: una organizzazione presente su tutto il territorio (città, paesi), con proprie sedi, propri funzionari (alcune migliaia), con manifestazioni di massa (comizi, feste), con giornali e pubblicazioni di propaganda. Un apparato di questo genere era molto costoso, e Fanfani trovò le risorse necessarie nel settore delle aziende pubbliche, che in Italia era già vasto, più vasto rispetto a qualunque paese europeo (basti pensare al gruppo IRI, creato dal fascismo per attutire gli effetti della grande crisi economica apertasi nel 1929, ed ereditato dalla Repubblica), e che, non a caso, dopo il fascismo diventò ancora più vasto (ENI, ecc.). Il settore pubblico dell’economia fu anche messo in grado di influire fortemente sulle relazioni industriali del settore privato. Infatti, quando nel dicembre 1956 fu votata la legge che istituiva il ministero delle Partecipazioni Statali, essa stabiliva anche lo “sganciamento” delle imprese pubbliche dalla Confindustria. Ciò portò alla conseguenza che i sindacati ottenevano contratti molto favorevoli nelle imprese pubbliche, che poi essi la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 cercavano di trasferire sul fronte delle imprese private, ormai ‘spiazzate’. Fanfani non ebbe nessuna difficoltà a svolgere questa politica di ampliamento e di potenziamento dell’economia pubblica: la sua formazione culturalepolitica era stata di tipo corporativistico durante il fascismo (aveva aderito con zelo al regime); la confluenza, dopo la guerra, nel gruppo democristiano dossettiano, aveva rafforzato in lui l’ispirazione antiliberale, antiprivatistica, antiindividualistica. Sotto questo profilo, Fanfani fu la personalità democristiana più adatta a presiedere il primo governo di centro-sinistra, col suo programma di nazionalizzazioni (l’Enel), di programmazione economica mirante (secondo l’intenzione di Riccardo Lombardi e del PSI) a mortificare l’iniziativa privata, a ridurne il ruolo, e ad esaltare, per contro, l’impresa pubblica, il settore pubblico dell’economia. L’ingresso dei socialisti nell’area del potere dal 1962 in poi, accentuò lo statalismo dei ceti politici al governo, i quali non elaborarono in nessun modo un concreto, realistico e fattibile programma di modernizzazione della società italiana. Dopo il “miracolo economico” (realizzato da centinaia e centinaia di piccoli e medi imprenditori) - che aveva fatto del Paese una grande economia industriale, e al tempo stesso aveva accumulato, per la massiccia emigrazione dal Meridione al Settentrione, gravissimi problemi sociali - la società italiana era estremamente bisognosa di case, di ospedali e di assistenza medica, di scuole, di trasporti, di servizi. Proprio qui il centro-sinistra fallì clamorosamente (secondo la testimonianza di un autorevole intellettuale socialista, Luciano Cafagna, mai si costruirono così poche case, scuole, ospedali, ecc., come durante il centro-sinistra, ma in compenso si discettò a lungo, e si battagliò tenacemente per le “riforme di struttura”). Il non aver affrontato per tempo le gravi carenze sociali che affliggevano l’Italia determinò il Sessantotto, “l’autunno caldo” del 1969, e l’intensità quasi rivoluzionaria di questi movimenti, nonché la loro durata nel tempo (da noi il Sessantotto durò parecchi anni, cosa che non accadde in nessun paese europeo). Senonché “l’autunno caldo” de- dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 59 Da sinistra: Amendola e Togliatti; Luigi Einaudi nel suo studio. Nella pagina accanto: Amintore Fanfani durante un comizio terminò aumenti troppo elevati dei salari, al di fuori di qualunque rapporto con la produttività, e una rigidità eccessiva del lavoro nelle fabbriche, quale non esisteva in nessun paese d’Europa. Di qui il fallimento di molte aziende, e le gravi difficoltà delle aziende che sopravvissero, le quali scaricarono sui prezzi i costi eccessivi. Di qui forti processi inflazionistici, che sarebbero stati aggravati da una amplissima spesa sociale nel decennio 1965-75 (per pensioni, sanità ecc.). A tutto ciò si aggiunsero gli effetti dello shock NOTE 1 C. De Mita, La storia d’Italia non è finita, Guida, Napoli, 2012, p. 84. 2 E. Macaluso, 50 anni nel PCI, Rubbet- petrolifero del 1973 e degli anni successivi. Fu il completo fallimento del centro-sinistra (dovuto alla cultura statalistica dei socialisti e a quella anticapitalistica della maggior parte della Democrazia Cristiana) a determinare il grandissimo aumento dei voti comunisti nel 1975-76. Nella gravissima crisi economico-sociale che si era determinata, che metteva in discussione il futuro del Paese, l’esperienza della “solidarietà nazionale” divenne inevitabile. Il PCI contribuì senza dubbio - con l’accettazione di energiche misure di risanamento - a superare l’emergenza economica. Ma tale esperimento (che Berlinguer si illuse fosse la prima fase di quel “compromesso storico” che avrebbe dovuto caratterizzare, secondo il suo progetto, una intera fase della storia italiana) era destinato a concludersi assai presto: il che sarebbe avvenuto comunque, anche senza l’assassinio di Aldo Moro (il principale interlocutore dei comunisti nella DC) a opera delle Brigate Rosse. tino, Soveria Mannelli 2003, p. 180; e v. p. 181. 3 G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 1. 4 U. La Malfa, Intervista sul non-governo, Laterza, Bari, 1977, p. 71. dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 61 Editoria Mondadori, editore a volte “non venale” Sui volumi fuori commercio della Mondadori MASSIMO GATTA – terza parte. La prima e la seconda parte sono state pubblicate sul numero di ottobre e novembre «I n tanti anni ho imparato che i lettori non si aspettano, ma vanno cercati, convinti, serviti», questa frase di Arnoldo Mondadori è alla base della nascita di alcune sue celebri Collane popolari38, anch’esse testimoniate da volumi ed opuscoli di notevole pregio39. Nel ‘33 nasce una delle collane di magNOTE 38 Su alcune celebri Collane mondadoriane segnalo l’utile catalogo antiquario della Libreria del Novecento, n. 4, s.d. (anni ’90), dedicato monograficamente a molte collane della Mondadori e di altri editori. 39 Tra gli ultimi segnalo l’utile ed elegante Scrittori italiani e stranieri 1999-2011, con uno scritto di Antonio Franchini, Milano, Mondadori, 2012. 40 Almanacco della «Medusa» 1934, con una nota dell’editore, 88 illustrazioni e una allegoria di Bruno Angoletta, Milano, Mondadori, dicembre 1933. Il volume contiene la bibliografia degli autori della Medusa, l’elenco dei traduttori, cenni sui primi 30 volumi della collana e giudizi critici sulla stessa. Per le illustrazioni di Bruno Angoletta rimando a Dalla A alla Ang. Bruno Angoletta giore prestigio, la «Medusa», che già l’anno successivo sarà celebrata in un elegante Almanacco 40 molto curato nell’impaginazione e nella grafica, arricchito da 88 illustrazioni e un’allegoria a colori, opere di Bruno Angoletta, il grande illustratore che tanta parte avrà nelle scelte grafiche della casa di Ostiglia. Si deve a lui infatti, nel ’33, il disegno del marchio della «Medusa», il celebre volto di donna alato, realizzato in stretto rapporto professionale con Enrico Piceni (Milano 19011986), critico letterario e d’arte, traduttore e responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice. Piceni compilò, inoltre, con Valentino Bompiani l’Almanacco Letterario. L’Almanacco della Medusa risulta esaurito già nel ’37, anche a causa del sequestro ordinato da Mussolini in persona il 21 maggio del ’38 con la motivazione che in esso «vi erano scritti di ebrei tedeschi»41. Di grande importanza prefessione illustratore, cit., pp. 20-21. 41 Su questa celebre collana cfr. Mauro Chiabrando, Uno sguardo alla “Medusa”. Storia e numeri di un progetto editoriale, «Charta», 61, novembre-dicembre 2002, pp. 32-37; cfr. inoltre Niccolò Gallo, Gli italiani della “Medusa”, in Id., Scritti letterari, Milano, Il Polifilo, 1975, pp. 121123. Sulla figura, al tempo stesso centrale e rimossa, di Niccolò Gallo rimando alla tesi di Emanuela Zandonai, Niccolò Gallo: critico-lettore per Mondadori (dal 1958 al 1971). L’uomo nell’ombra, rel. Mario Infelise, cor. Ricciarda Ricorda, Venezia, Università degli Studi Cà Foscari, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002; ma su Gallo cfr. anche Cesare Garboli, L’ultimo lettore, in Id., Falbalas, Milano, Garzanti, 1990, pp. 65-70. Per la “Medusa” segnalo invece Velania La Mendola, Per una storia della “Medusa”: contrabbando, consa- crazione e declino, in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in cento anni di Mondadori, cit., pp. 130-164; Guido Lopez, La signorina vestita di verde, «Epoca», v. VIII, 101, 13 settembre 1952, pp. 60-61, e dello stesso Lopez l’imprescindibile I verdi i viola e gli arancioni, Milano, Mondadori, 1972, dove i tre colori riguardavano tre celebri collane mondadoriane: il verde la “Medusa”, il viola i “Grandi narratori italiani” e l’arancione la “Medusa degli Italiani”. 42 Su questo curioso aspetto rimando a Enrico Mannucci, Quando Hemingway marchiava la Medusa, «WUZ», 8, ottobre 2003, pp. 28-29; cfr. anche Guido Lopez, I verdi i viola e gli arancioni, cit., p. 77. 43 Cfr. Simona Minicucci, «Guardare i libri di tutti i paesi con occhi italianissimi». Lavinia Mazzucchetti e la letteratura tedesca, in Stampa e 62 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 per la collana fu il rapporto con Hemingway; bizzarra l’abitudine dello scrittore di «marchiare» col proprio superlibros alcuni titoli della Medusa42. I ruoli editoriali all’interno della collana erano così distinti: Lavinia Mazzucchetti era responsabile dei volumi di letteratura tedesca43, Giacomo Prampolini di quelli di letteratura nordica, Enrico Piceni di quelli francesi e inglesi, il tutto coordinato dallo stesso Arnoldo Mondadori e dal condirettore generale della casa editrice Luigi Rusca. Altri opuscoli fuori commercio dedicati a questa collana furono quello stampato in occasione dei primi 500 numeri, con scritti e ricordi di molti scrittori, da Arbasino a Bernari, da Buzzati a Faulk- ner, da Parise a Soldati44; e infine una Guida illustrata alla lettura, che ha tra l’altro il pregio di riportare le schede bibliografiche degli scritti di ciascun autore pubblicato nella Medusa45. Altre collane storiche si susseguono nel giro di qualche decennio. Nel ‘29 in Francia nasceva la figura del commissario Maigret (in Pietr Le Letton), negli Stati Uniti faceva la sua comparsa Sam Spade, l’eroe di D. Hammett, Ellery Queen esordiva col romanzo The Roman Hat Mystery. In Italia, invece, Arnoldo Mondadori, con un vero colpo di genio intuendone tutte le potenzialità in termini di pubblico e commerciali, faceva tradurre, pubblicandolo come n. 1 della serie, The Benson Murder Case scritto da S.S. Van Dine tre anni prima. Con La strana morte del signor Benson, con una bella copertina disegnata da Alberto Bianchi, nascevano così I libri gialli, destinati ad una folgorante e longeva carriera. Preziosa appare quindi la recente pubblicazione della corrispondenza inedita intercorsa tra Arnoldo Mondadori e Lorenzo Montano sull’origine della collana giallistica e anche su altre collane46. Sia la serie gialla che il richiamo al commissario Maigret ci conducono direttamente sulle tracce di due grandi illustratori, a cui dobbiamo gran parte del successo iconografico della collana: Carlo Jacono e Ferec Pintér47. Nel ‘40 nasce la collezione Lo Specchio che agli piccola editoria tra le due guerre, a cura di Ada Gigli Marchetti e Luisa Finocchi, Milano, Franco Angeli, 1997, p. 236-258. 44 1933-1966 Cinquecento Meduse. Omaggio alla Medusa, Milano, Mondadori, s.d. [1966]. 45 I capolavori della Medusa. Guida alla lettura, con una introduzione non firmata, Milano, Mondadori, 1970. 46 Cfr. Claudio Gallo, Carteggio inedito tra Lorenzo Montano e Arnoldo Mondadori: alle origini del «giallo» e di alcune collane Mondadori, «Atti della Accademia Roveretana degli Agiati», CCLII, a.a. 2002, ser. VIII, vol. II A, Rovereto, 2002, pp. 181-226. La letteratura bibliografica su questa collana è molto ampia, mi limito a segnalare Catalogo generale dei Gialli Mondadori. Tutti gli autori e i titoli pubblicati dal 1929 ad oggi, Milano, Oscar Mondadori, s.d. [1996], pubblicato in occasione del numero 2500 della Collana; Il libro giallo in Italia: dalle origini al 1945, in Il giallo e il suo lettore. Libri polizieschi nelle biblioteche di Imola e di Forlì, a cura di Renzo Cremante e Lidia Mastroianni, Bologna, Compositori, 2005, pp. 81100; Loretta Eller, Il Giallo. Storia, personaggi, autori, illustratori, con una Cronologia mondado- riana, a cura di Pietro Tulelli, Roma, Palombi, 1996 [edizione amatoriale stampata in 700 copie in occasione della mostra dedicata all’illustratore Carlo Jacono]; Gianfranco Orsi, Lia Volpatti, Il giallo Mondadori dal 1929 al 1941, in Il Giallo degli anni Trenta, Atti del Convegno dell’Università di Trieste, Trieste, Lint, 1988, pp. 277-282; cfr. anche Piccola enciclopedia del giallo. Autori e personaggi dalle origini a oggi, Milano, Mondadori, 1979, volume realizzato in occasione del 50° anniversario dei gialli Mondadori (1929-1979); Silvano Rubino, I “Gialli”, in Libri giornali e riviste a Milano. Storia delle innovazioni nell’editoria milanese dall’ottocento ad oggi, cit., p. 136, Oreste Del Buono, La letteratura popolare: i “Libri verdi”, i “Libri azzurri”, i “Romanzi della Palma”, i “Libri gialli”, in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre (1920-1940), cit., pp. 93-97 e infine [Stefano De Laurentiis], A sfondo giallo. I colori del poliziesco (Dal 1929), in Diario Mondadori 1998. Le innovazioni, cit., senza numerazione di pagina. 47 Su Carlo Jacono, oltre al precedente volume della Eller, segnalo Jacono oltre il giallo. Carlo Jacono illustratore, a cura di Eric Balzaretti, Ferrara, Museo dell’Illustrazione, Multidea, 2002. Su Pin- ter rimando invece all’elegante volume Ferec Pintèr, scritti di Gavino Sanna, Santo Alligo, Beppe Peduzzi, Bepi Vigna, Torino, Segni&Disegni, s.d., stampato in 800 esemplari numerati e firmati da Pintér. Cfr. più in generale Maurizio Romanò, Il giallo e gli altri colori. Sessant’anni di romanzi gialli e di copertine illustrate, «Portfolio illustratori», 12, 1987, pp. 4-13. 48 Il cinquantennio editoriale di Arnoldo Mondadori 1907-1957, cit., p. 42. Sulla collana di poesia cfr. Silvia Santini, “Lo Specchio” Mondadori. Una collana tra narrativa e poesia: 1940-1950, rel. Roberto Cicala, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, a.a. 2004-2005 e infine Giordano Castellani, Uomini e libri dello Specchio: 19401982, in Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli, Bibliopolis, 1983, pp. 23-35. 49 Marzio Tosello, Avventure nello spazio e nel tempo. Da I romanzi di Urania a Urania, in Cartografia dell’inferno. 50 anni di fantascienza in Italia 1952-2002, a cura di Gianfranco de Turris, Verona, Biblioteca Civica, 2002, pp. 25-32. Cfr. anche Urania. Cinquant’anni di futuro, a cura di Giuseppe Lippi, disegni di Giuseppe Festino, contributi di U. Malaguti, G. Mongini, V. Curtoni, L. dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 63 inizi era divisa in tre sezioni, una per la narrativa, una per la prosa d’arte, una per la lirica, mentre in seguito diventerà la celebre collana esclusivamente dedicata alla poesia48. Alla stessa koiné editoriale dei Gialli appartiene invece la collana Urania. Agli inizi degli anni ’50 non esisteva ancora in Italia una rivista specifica dedicata alla fantascienza. In quell’anno Giorgio Monicelli, nipote di Arnoldo e grande appassionato del genere fantascientifico, scrittore, traduttore e collaboratore del settore editoriale, propone la creazione di una rivista di genere fantastico da affiancare alla collana simbolo della casa: i Gialli Mondadori. Solo nel ‘52, però, verrà distribuita, non una rivista, ma un’altra collana: I romanzi di Urania, prima uscita il 10 ottobre. Il primo novembre, tra il secondo e il terzo romanzo pubblicato, vedrà finalmente la luce il primo numero d’una nuova rivista: «Urania». Ma questa è tutta un’altra storia49. Altre due collane saranno il vessillo di questo editore: gli Oscar e I Meridiani. Impossibile quì dilungarsi su entrambe, diciamo solo che tutte e due nascono abbastanza tardi e riguardano in fondo il secondo periodo mondadoriano. Gli Oscar (Libri-transistor che fanno biblioteca, come veniva indicato sul retro della copertina) appaiono, infatti, il 27 aprile del ‘65, imponendosi nel giro di qualche anno come uno dei casi di maggior successo editoriale, anche per la scelta iconografica delle copertine50. Il primo titolo della collana è di Ernest Hemingway, premio Nobel 1954: Addio alle armi (A Farewell to arms) nella storica traduzione di Fernanda Pivano, un romanzo che vendette 210.000 copie in una settimana e quasi 400.000 nei due mesi seguenti51 Infine I Meridiani, collana di classici di ogni tempo e paese nata nel ‘69 e ancora in ottima salute52. Infine, a chiudere il cerchio, le collane Club degli Editori53, Biblioteca Moderna Mondadori54, Harmony55, Junior56, I Miti57. Fine terza parte. La quarta e ultima parte sarà pubblicata sul numero di gennaio 2014 Serra, M. Tosello, R. Valla, G. Lippi, Milano, Mondadori, 2002 [Urania speciale anniversario]. 50 «Vuole sapere quando è cominciato tutto?», chiede Alberto Lecaldano, direttore di ‘Progetto grafico’ e art director per la casa editrice Voland, «1965: quell’anno Bruno Binosi e Mario Tempesti misero sull’Oscar Mondadori di Addio alle armi un’illustrazione. Non fu la prima, ma fu un cambio di strategia», in Dario Olivero, I vestiti dei libri. Vince il look che non si vede, «la Repubblica», domenica, 17 giugno 2007, pp. 46-47 [46]. 51 Elena Rancati, Beatrice Porchera, La promozione degli «Oscar»: «aver fede costanza coraggio nelle imprese nelle quali si crede», in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in cento anni di Mondadori, cit., pp. 165-172. Agli Oscar è dedicato interamente il Diario Mondadori 2005. Gli Oscar, testi di G. Alberti, A.L. Cavazzuti, a cura della Direzione Relazioni Esterne e Comunicazione, con la collaborazione della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Mondadori, 2005 [ediz. fuori commercio a tiratura limitata non indicata]; Giovanni Peresson, Gli Oscar e gli altri, «Giornale della libreria», n. 2, 1989, pp. 7-11. Cfr. inoltre [Stefano De Laurentiis], Raggiungere i let- tori. Gli Oscar (Dal 1965), in Diario Mondadori 1998. Le innovazioni, Milano, Mondadori, 1998, senza numerazione di pagina. Agli Oscar erano anche dedicati una serie di Guida agli Oscar Mondadori, nel ’74, ’76, ’78, ’80 e successivamente, in occasione dei venticinque anni della collana, una Guida alla lettura Oscar ‘90, Milano, Mondadori, 1990 seguito l’anno dopo dalla Guida alla lettura Oscar ‘91, Milano, Mondadori, 1991 e anche dalla Guida alla lettura Oscar ‘92, Milano, Mondadori, 1992, di cui cfr. Gerardo Mastrulo, Ma il gioco vale la collana? Visti, rivisti, mai visti, «La rivisteria», n. 16, 1992, pp. 43-44; Leonardo Mondadori, Un oscar tutto d’oro, «Prima comunicazione», n. 83, 1981, pp. 14-15, Carlo Ruta, L’Oscar vestito di blu. Così Mondadori plagiò Sellerio, «Libri meridionali», n. 2-3, 1990, pp. 28-29, Paolo Soraci, Un catalogo da Oscar, «La rivisteria», n. 3, 1991, pp. 19-22. Cfr. infine la tesi di Federica Baroni, Dieci anni di Oscar Mondadori. Analisi delle copertine illustrate 1965-1975, rel. Gloria Binchino, Parma, Università degli Studi, a.a. 1999-2000. 52 Cfr. I Meridiani 1969-1999. La lettura da Ariosto a Zanzotto, a cura di Vincenzo Campo, Milano, Mondadori, 1999 e [Stefano De Laurentiis], Classici da leggere. I Meridiani (Dal 1969), in Diario Mondadori 1998. Le innovazioni, senza numerazione di pagina, cit. 53 [Stefano De Laurentiis], Fedeli alla lettura. Il Club degli Editori (Dal 1960), in Diario Mondadori 1998. Le innovazioni, senza numero di pagina, cit. 54 [Id.], Allargare il mercato. La Biblioteca Moderna Mondadori (1948-1966), ivi [senza numero di pagina]. Cfr. anche Il cinquantennio editoriale di Arnoldo Mondadori 1907-1957, cit., pp. 49-51, 58-59. 55 [Id.], Direttamente al cuore. Gli Harmony (Dal 1981), ivi [senza numero di pagina]. 56 [Id.], Piccoli e belli. Gli Junior (dal 1988), ivi [senza numero di pagina]. 57 [Id.], La nuova frontiera. I Miti (Dal 1995), ivi [senza numero di pagina]; cfr. anche la tesi di Micol Cadore, Il posizionamento della collana “I Miti” Mondadori, rel. Paola Dubini, cor. Luisa Finocchi, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2004-2005. Infine Renato Basilio, Affari e poesia (I Miti mondadoriani), «Il segnale», n. 44, 1996, pp. 21-23. MOMENTACT_168x216.indd 1 15/05/13 11:11 dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 65 L’altro scaffale Storia, spionaggio, politica e memorie nascoste Piccole ma preziose proposte di collezionismo ALBERTO CESARE AMBESI L’ anno? Il 1832. Il luogo? Palermo. L’editore? La Tipografia Abbate. L’opera meritevole di segnalazione? La prima edizione siciliana delle Memorie del dottor Francesco Carlo Antommarchi - Ovvero gli ultimi momenti di Napoleone. Un vivido insieme di ricordi concepito in due tomi, ma che può presentarsi anche in un solo volume, ripartito in due parti, rispettivamente di 312 e 302 pagine, come nel caso che qui menzionamo poiché si tratta, comunque, di una testimonianza diretta del medico che fu al fianco e al capezzale di Napoleone dal 19 dicembre 1819 sino al fatidico 5 maggio 1821. Comprensibile, dunque, che gli storici e i romanzieri dell’Ottocento e del Novecento si siano più volte rifatti alle sue pagine, quando chiamati a narrare la vita dell’Imperatore dei francesi. Una relativa popolarità che ha reso il testo un po’ difficile da rintracciarsi, per cui appare giustificato il prezzo di 250 euro, recentemente richiesto dalla Libre- Francesco C. Antommarchi (1780-1838), Maschera mortuaria di Napoleone, 1821 (copia in bronzo) ria La Fenice di Brescia per un esemplare, con qualche marginale difetto, della citata edizione palermitina. Di ciò fra breve. Vediamo, intanto, di ricordare che Francesco C. Antommarchi (1789-1838) fu corso di nascita, ma con una prevalente formazione culturale italiana. Specializzato in oftamologia, ebbe di sicuro qualche incertezza di troppo, e tuttavia non pochi meriti, nelle cure e nell’assistenza dell’illustre paziente. Sua la diagnosi, dopo l’autopsia, secondo la quale la morte di Napoleone era stata causata da un cancro allo stomaco. Si attribuisce inoltre alle di lui mani, con qualche incertezza, la fabbricazione della correlata maschera mortuaria, da tempo conservata presso il Musée de l’Armée di Parigi. Non sussistono dubbi, invece, come si è accennato, a proposito della validità, storica e letteraria, della rievocazione di Antommarchi, prematuramente scomparso a Santiago di Cuba, colpito dalla febbre gialla. Si dovranno quindi apprezzare tutte le caratteristiche, grafiche ed editoriali, della copia offerta dalla libreria bresciana, ma accettando anche i difetti che il caso e il tempo vi hanno sovrapposto. In concreto: l’opera si presenta con una bella rilegatura, di poco posteriore, in mezza pelle verde scuro, con titoli e fregi d’oro al dorso, piatti marmorizzati e tagli a spruzzo. Ha un curioso formato in 16° stretto e, in pratica, risulta 66 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 divisa in quattro parti. Il frontespizio mostra un minuscolo foro, dovuto ad una bruciatura, e macchie e fioriture, alquanto evidenti, disseminate anche nelle prime pagine, ma senza che la chiarezza del testo ne risulti alterata. Manlio Morgagni è un personaggio noto. La storia del giornalismo politico italiano ne ricorda la figura, con discordi perplessità, poiché, nella notte fra il 25 e il 26 luglio 1943, sconvolto dalla notizia dell’arresto di Mussolini, aveva scelto di togliersi la vita, appena quarantaquattrenne, non vedendo più futuro per sé e per l’Italia. Interventista e sansepolcrista, dall’8 aprile 1924 e fino a quel momento era stato l’efficiente presidente e direttore responsabile della «Stefani», l’agenzia stampa ufficiale del governo italiano, in effetti da lui portata a un elevato grado di autorevolezza, nell’ambito nazionale e inter- James Gillray (1756–1815), Napoleone impazzito a causa delle relazioni fra Francia e Inghilterra, vignetta satirica, 1803. Nella pagina accanto, Benito Mussolini nazionale. Qui, tuttavia, dobbiamo ricordarci di Manlio Morgagni, perché, nel 1922, fu cofondatore, con Arnaldo Mussolini (1885-1931) della «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» e poi suo direttore unico, dopo la morte del fratello del Duce. Certo, la pubblicazione forse fu di disegua- BLOCK NOTES APPUNTI ELEMENTARI DI BIBLIOLOGIA quinta puntata Principali abbreviazioni usate in sede di catalogo p./pp.: pagina/e. preg.: pregevole. qq.: qualche. ritr.: ritratto. s.d.: senza data. s. dati ed.: senza dati editoriali. s.l.: senza luogo di edizione. sottol.: sottolineature. sovr.-sovracc.: sovraccoperta, sovracopertina, per lo più plastificata, che riveste la legatura. stralcio (o estratto): saggio, articolo tratto da rivista o da pubblicazione più ampia. t.: tutta. t.pelle.: tutta pelle. t.tela.: tutta tela. le valore nei venti e più anni di vita, ma occorrerà pure riconoscere che non le furono neppure ignoti eccezionali esiti, come nel caso dell’edizione speciale del 1936 dedicata all’Italia imperiale. Un in folio (cm. 45 x 37) oggi posto in vendita dalla Libreria Antiquaria Cicerano di Napoli al prezzo di 800 euro. Richiesta ragionevole, poiché si tratta di un’opera in buono stato di conservazione, di 624 pagine (non numerate), ricca d’illustrazioni nel testo e fuori testo. Per la precisione: molte fotografie di validi collaboratori dell’Istituto L.U.C.E. e tavole a colori, applicate su cartoncino pesante, da disegni originali, fra gli altri, del pittore Mario Sironi (1885-1961) e dell’architetto Marcello Nizzoli (1887-1969). La sua legatura è in cellograf (cartone plastificato) ornata in bicromia con un fascio littorio. Non dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 67 INDIRIZZO E RECAPITI meno interessante è la componente scritta, imperniata sui contributi di autori rispondenti ai nomi di Arrigo Solmi (1873-1944), storico del diritto, Roberto Almagià (1884-1962), illustre geografo, Giovanni Agnelli (18661945), industriale e senatore del Regno. Più, come c’era da attendersi, una schiera degli esponenti più in vista del Regime, a cominciare da Mario Appelius, Luigi Federzoni e Achille Starace. Gli argomenti affrontati: quanto era offerto, in quell’anno, dalla storia e dall’attualità politica internazionale: storia del passato; l’Italia fascista; Versaglia (sic!) e Ginevra; precedenti del conflitto etiopico; la conquista militare dell’Abissinia; fondazione dell’Impero; l’economia imperiale… Su onda 31 Roma non risponde è il titolo enigmatico di un libro che non dovrebbe esistere. Nel 1957, difatti, fu sequestrato e distrutto prima ancora che uscisse. Tuttavia, è un testo piuttosto conosciuto e discusso, grazie a una ristampa anastatica, semiclandestina, pubblicata qualche decennio più tardi, in pochissimi esemplari. Ovviamente, senza che risulti la data di edizione e con un’indicazione, quanto meno complessa, del luogo di stampa: Taranto, Sindico-Montanaro. Chi ne sia stato l’autore non è un mistero, giacché se ne occupò perfino il «Corriere della Sera», il 28 gennaio 1996: Franco Tabasso, figlio di Aristide; quest’ul- LIBRERIA LA FENICE Via Solferino, 10/a 25122 Brescia Tel. e Fax. 030.430020 E-mail: [email protected] LIBRERIA ANTIQUARIA CICERANO Via Mariano D’Ayala, 9 80121 Napoli Tel. e Fax: 081.410001 E-mail: [email protected] LIBRERIA ANTIQUARIA PALATINA Via Stracciatella, 13 50125 Firenze Tel. e Fax: 055.218135 e-mail:[email protected] timo, peraltro, protagonista di un’intricata vicenda spionistica durante la seconda guerra mondiale e con ruoli duplici, se non tripli. Giusto come è puntigliosamente rievocato nel volume citato (328 pagine, in 8°), compreso il tratteggio dei tempi e dei luoghi che si sono volutamente mantenere in ombra. Ufficiale del servizio Informazioni e Sicurezza della Marina italiana, e poi capitano della Polizia, uomo di fiducia, nel pieno del conflitto, tanto dei servizi segreti inglesi quanto degli equivalenti uffici nazionali di Roma e di Salò (dunque monarchico e fascista, a un tempo?), ciò che rimane sicuro, o altissimamente probabile, è il dato di fatto che Aristide Tabasso ebbe in mano, per qualche tempo, il fantomatico (ma non troppo) carteggio Mussolini-Churchill, oltre a diversi, altri documenti, riguardanti la posizione politica e militare dell’Italia alla vigilia del suo contrastato ingresso in guerra. La provenienza di tali dossier? Le famose borse di Mussolini, già oggetto, nell’immediato dopoguerra, di un vivo interesse, sia di Londra sia degli apparati del Partito Comunista Italiano. Ma con un destino conclusivo forse irreale, forse sfumato nel regno delle conoscenze che non saranno mai rivelate. L’opera si conclude, infatti, con il racconto della consegna dei 40 chilogrammi di fascicoli e cartelle varie al re Umberto II, poco prima della sua partenza per l’esilio portoghese. Copia in buono stato dell’anastatica “fantasma”, con la brossura originale, di Su onda 31 Roma non risponde è stata posta in vendita dalla Libreria Antiquaria Palatina di Firenze a 350 euro. In altre sedi, il volume è offerto ad un prezzo anche maggiore, in considerazione della rara reperibilità e dell’intrigante carattere della sua rievocazione cronistorica. 68 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 Filosofia delle parole e delle cose La verità definitiva e la giustizia eterna Viene prima il diritto o la giustizia? DANIELE GIGLI D ove nascono, da quale regione misteriosa di noi originano le questioni etiche? Non quelle, o non solo quelle, che animano di tanto in tanto i dibattiti dei giornali per un giorno o due, ma le questioni spicciole, quelle in cui ci scopriamo addosso il desiderio, il bisogno, di ben agire, di «fare la cosa giusta». Un bimbo piange, e subito vien voglia di fargli una carezza, di rassicurarlo, di far sì che smetta di piangere. È un desiderio di bene che intuiamo per natura, poiché tutti percepiamo per istinto che il dolore è sì presente nell’esperienza dell’uomo, ma è al contempo estraneo alla sua natura ultima. Che cos’è perciò la carezza che portiamo al bimbo in lacrime, se non l’espressione riconosciuta di una natura? Il nostro atto etico, la carezza, nasce infatti da un riconoscimento on- tologico: che il pianto e il dolore non sono ciò per cui l’uomo è fatto. Li percepiamo come ingiusti e cerchiamo di riparare. Di esempi simili sono fitte tutte le nostre giornate, ed è da questi esempi - molto più che dalle affermazioni di principio su cui spesso guerreggiamo - che ci accorgiamo di come vi sia, al fondo di ogni questione etica, una questione ontologica: la percezione, cioè, che ogni cosa che ci troviamo per le mani possegga una sua natura da noi non alterabile e che esista pertanto un modo giusto e un modo non giusto di trattarla. Si potrebbe parlare altrimenti di un modo retto e di un modo non retto; e in questa quasi sinonimia si annida quella confusione dell’ordine degli eventi che ci fa credere la giustizia una convenzione e i diritti delle produzioni intellettuali senza nessi necessari con la materialità delle cose. Praticamente in tutte le lingue europee è possibile apprez- dicembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano Sopra: Piero Della Francesca (1415-1492), Re Salomone e la regina di Saba (1452-58 ca.), Arezzo, Basilica di San Francesco. Nella pagina accanto: Mihaly Munkacsy (1844-1900), Cristo davanti a Pilato (1881), Debrecen, Museo Deri zare la quasi identità tra le parole diritto, dritto e destra. Si tratta di uno di quegli esempi in cui più facilmente riscontriamo come alla base delle parole che usiamo ci sia una riflessione di sangue, una riflessione in atto che gli uomini fanno mentre vivono su come vivono. In nomina non sunt res, d’accordo, ma allo stesso modo i nomi non sono etichette intercambiabili del tutto estranei alla natura della cosa né, peggio, applicando le quali decidiamo la natura della cosa. Perciò se diciamo che andare dritto è andare bene (lo scorgiamo in tante espressioni metaforiche: «dritto come un fuso», «essere dritto», ecc.), è perché riconosciamo che la via giusta coincide con la via retta, tanto che ogni svolta è una devia-zione, un uscir fuori dalla via. Vediamo così come nel vivere prima venga la percezione del giusto e solo successivamente la sua codificazione in diritto. E quando, come sovente accade, le percezioni del giusto confliggono? Quando l’intuizione confusa della verità - quell’intuizione così repentinamente avuta e persa da non poterla definire altrimenti che donata - ci si fa di marmo nelle nostre costruzioni mentali, fino a farci discutere non più degli oggetti ma dei simulacri che ce ne facciamo? Abbiamo tutti esperienza di un simile scacco, ed è ancora una volta 69 il realismo del salmista a offrirci una traccia di lettura più ampia e descrittiva dell’esperienza umana richiamandoci all’origine del nostro desiderio di giustizia, a quella tensione alla pace e al bene che ogni uomo - prima o poi scopre inattesa in sé: «Al mattino fammi sentire la tua grazia, poiché in te confido. Fammi conoscere la strada da percorrere, perché a te si innalza l’anima mia./ Salvami dai miei nemici, Signore, a te mi affido./ Insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana./ Per il tuo nome, Signore, fammi vivere, liberami dall’angoscia, per la tua giustizia».1 La retta via, la giustizia, non possono che rivelarsi da un dialogo costante e mai finito dell’anima dell’uomo con le sue condizioni storiche e materiali, perché solo nel confronto con la realtà data i nostri moti spirituali possono chiarirsi anzitutto a noi stessi. La giustizia non è nostra. A noi tocca guardare la verità della terra e desiderare, quando arrivi, di riconoscere quella giustizia che solo il cielo può dare: «Misericordia e verità si incontreranno/ Giustizia e pace si baceranno// La verità sorgerà dalla terra/ E la giustizia si affaccerà dal cielo».2 NOTE 1 2 Salmo 142, 8-11. Salmo 84, 11-12. 70 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 BvS: il ristoro del buon lettore Fra Stendhal e i Farnese A Piacenza, all’Antica Osteria del Teatro GIANLUCA MONTINARO P iacenza. Una città avvinta a un fiume: il Po. Un luogo intrecciato a un altro: Parma. Uno Stato legato a una famiglia: i Farnese. Sembra essersi congelato, il tempo, a Piacenza. Come se nemmeno esso potesse emendare «tutte le umane sciocchezze compiute dalla morte di Luigi XIV in avanti». Strade, nobili palazzi, giardini. In un susseguirsi borghesiano senza fine. Fino a una mole, scura, imponente, sfrangiata. Dicono sia il palazzo dei Farnese. Ma Stendhal preferì immaginarlo (spostandolo a Parma) Torre: una piranesiana prigione ove rinchiudere il suo Fabrizio del Dongo, il protagonista della Certosa di Parma (volume che la Biblioteca di via Senato possiede in varie edizioni). Lo spirito di Stendhal continua ancora a permeare Piacenza: luogo prescelto da Fabrizio del Dongo «per correre incontro alla duchessa Sanseverina». Nell’ippodameo dedalo che avviluppa il centro, si incontra l’Antica Osteria del Teatro, oasi di pace e ristoro che certo a Fabrizio del Dongo sarebbe piaciuta. E che Stendhal avrebbe amato. Qui la «felicità è Ristorante Antica Osteria del Teatro Via Verdi, 16 – Piacenza Tel. 0523/323777 il solo interesse». Privilegio è abbandonarsi, fra soffuse luci, antichi soffitti intagliati e silenti tappeti, alle dolci cure di Filippo Chiappini Dattilo, cuoco fra i più valenti d’Italia, che ha fatto del rispetto e della modestia una scelta di vita. Abituato a ricevere nella sua Antica Osteria del Teatro personaggi di nobile lignaggio, sarebbe certo comparso nelle pagine stendhaliane. Magari a fianco al «conte Mosca della Rovere Sorezana, ministro della guerra, della polizia e delle finanze del famoso principe di Parma, Ernesto IV». Oppure, proprio insieme a quest’ultimo, regnante «dall’occhio penetrante e dominatore, nobiltà nel gesto, parola misurata e concisa». Tutti li avrebbe conquistati, Filippo Chiappini Dattilo. Con la sua terrina di fegato grasso d’anatra con cuore di pesche e i tortelli dei Farnese al burro e salvia, con il risotto mantecato con quaglia al profumo di rosmarino e le costolette d’agnello con cannolo di melanzane. Li avrebbe conquistati con una cantina che, da sola, vale la visita. Grande tempio dell’enologia, raccoglie, negli antichi sotterranei, il meglio della produzione italiana e francese. Chiuso nella Torre Farnese, speranzoso di scorgere l’amata Clelia Conti, Fabrizio del Dongo solo si doleva della mancanza «d’una bottiglia di nebiolo». Così potrebbe essere proprio un nebbiolo ad accompagnare i piatti dell’Antica Osteria del Teatro. Magari coltivato nei pressi di Barbaresco. Magari una bottiglia di Angelo Gaja. Magari un 2005. Con la sua morbidezza ed eleganza, unite a un ventaglio aromatico di ampiezza siderale, si confermerà degno delle tavole non solo di Fabrizio del Dongo, ma anche del conte Mosca e del principe regnante Ernesto IV. MAL DI GOLA? PUOI PROVARE ZERINOL GOLA. IL PRIMO IN PASTIGLIE A FARSI IN DUE. Mal di gola? Eccomi qui. Sono Zerinol, Zerinol Gola. Sono nato per svolgere due azioni contemporaneamente, infatti sono il primo in pastiglie a doppio effetto, anestetico e antinfiammatorio: rapido addormento il dolore e, nello stesso tempo, combatto l’infiammazione. E da oggi puoi trovarmi anche ai nuovi aromi limone e ribes nero. Insomma, quando hai bisogno puoi contare pure su di me. RAPIDO SOLLIEVO DAL MAL DI GOLA. È un medicinale per il mal di gola a base di Ambroxol, leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 18/07/2013 72 la Biblioteca di via Senato Milano – dicembre 2013 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO GIUSEPPE BEDESCHI CLAUDIO BONVECCHIO VITTORE BRANCA CARLO GAMBESCIA MASSIMO GATTA Giuseppe Bedeschi è professore emerito di Storia della filosofia nell’università La Sapienza di Roma. Innumerevoli sono le sue opere fra le quali le recenti: La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico italiano del Novecento (2002); Storia del pensiero liberale (2003); Introduzione a Marx (2007); Liberalismo vero e falso (2008); Introduzione alla Scuola di Francoforte (2008); Il rifiuto della modernità: saggio su Rousseau (2011). Collabora a quotidiani e riviste, fra i quali «il Giornale» e l’inserto domenicale de «Il Sole 24 ore». Claudio Bonvecchio è Professore Ordinario di Filosofia delle Scienze Sociali nell’Università degli Studi dell’Insubria (Varese) dove è anche Coordinatore del Dottorato in Filosofia delle Scienze Sociali e Comunicazione Simbolica. È Direttore Scientifico della rivista «Metabasis». Autore di innumerevoli saggi e pubblicazioni, è direttore di svariate collane editoriali per varie case editrici. È Member dell’Advisory Board della Eranos Foundation di Ascona (Svizzera). Vittore Branca (19132004) è stato uno fra i più grandi filologi e critici letterari del Novecento, e massimo studioso di Giovanni Boccaccio. Per decenni professore ordinario di Letteratura Italiana (fino a diventare “Emerito” presso l’Università di Padova), ha rivestito per alcuni anni la carica di rettore dell’ateneo di Bergamo. È stato anche membro, fino alla morte, del Consiglio d’Amministrazione della Biblioteca di via Senato. Autore di innumerevoli pubblicazioni (dedicate ai più grandi autori italiani) ha lasciato un segno indelebile negli studi filologici e letterari del nostro Paese. Carlo Gambescia è nato e risiede a Roma. Sociologo. Ha all’attivo tra testi scritti, curati e tradotti alcune decine di volumi. Collabora con pubblicazioni scientifiche italiane e straniere e non disdegna di scrivere, se capita, su quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi volumi:Metapolitica; A destra per caso; Centralità marginali; Liberalismo triste. Quando richieste, svolge consulenze editoriali. Nel tempo libero che gli resta, poco per la verità, scrive sul suo blog: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/ Massimo Gatta (1959) insegna presso l’Università Federico II di Napoli. Dal 2001 è bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE LUIGI MASCHERONI GIANCARLO PETRELLA DANIELE GIGLI GIANLUCA MONTINARO Luigi Mascheroni ha lavorato per «Il Sole24 Ore», «Il Foglio» e, dal 2001, per «il Giornale». Scrive soprattutto di Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Fra i suoi libri, il pamphlet Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi letterari e giornalistici. È fra i fondatori del blog “Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/. Dal 2011 ha un videoblog, primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni. Giancarlo Petrella insegna discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Si occupa di letteratura geografico-antiquaria fra Medioevo e Rinascimento (L’officina del geografo. La Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, 2004) e di storia del libro a stampa fra Quattro e Cinquecento in numerosi articoli e monografie (fra cui l’ultimo L’oro di Dongo ovvero per una storia del patrimonio librario del convento dei Frati Minori di Santa Maria del Fiume, 2012). Collabora con il «Giornale di Brescia» e con la «Domenica del Sole 24 ore». Daniele Gigli (Torino, 1978) lavora nella conservazione dei beni culturali. Studioso di T.S. Eliot, ne ha curato alcune traduzioni, tra cui quelle di The Hollow Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita. Ha pubblicato le plaquette Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro Fuoco unanime. Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013). Teodoro Klitsche de la Grange (Roma 1948), giurista, avvocato, direttore del trimestrale di cultura politica «Behemoth». Tra i suoi libri recenti: Il salto di Rodi (1999), Il doppio Stato (2001), Apologia della cattiveria (2003), L’inferno dell’intellettuale (2007), Intervista sullo Stato (2009). Ora è in uscita Funzionarismo (Liberilibri) anticipato su «la Biblioteca di via Senato». LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013).