1 giugno 2011
La nuova Voce Giuliana
1
COME FOSSE IERI
Come fosse ieri,
sono folate di sentimenti, di sensazioni
e di colloqui con genitori, parenti,
amici, anzitempo rapiti dalla mala sorte,
nella terra che ci nutrì.
E venne la guerra,
ma prigionieri della nostra giovinezza
ovattata e spensierata,
ignari del nostro fato
la sentivamo lontana,
come non ci riguardasse.
Improvvisamente il brusco risveglio,
e fummo prede
di forze avverse
in balia di eventi e di anni ostili.
Cambiò la nostra vita
e fu il triste epilogo di un destino
che spezzò la nostra giovinezza,
fu il duro impatto
con la realtà ingrata
dell’Esule in patria.
Antonio Zappador (Treviso)
CORDOGLIO PER LA SCOMPARSA DI
MARIO DASSOVICH
Nostro malgrado, in
questo ultimo periodo
ci sentiamo in obbligo di segnalare sul
nostro quindicinale la
dipartita di molti personaggi che sono stati
importanti sostenitori
della nostra Associazione, sia per le cariche
rivestite nell’ambito
delle singole Comunità aderenti, sia per le
eccellenti ed impagabili collaborazioni sul
giornale “La nuova
Voce Giuliana”.
Ogni volta queste
tristi notizie ci lasciano
costernati con grave
sgomento nell’animo
e nella incredibilità di
sentirsi quasi come figli
abbandonati e privati
da un sostegno ideale e
morale, perché la loro presenza ci
ha sempre accompagnato in tanti
anni di operosità.
A metà dello scorso mese di maggio, anche il dott. Mario Dassovich
ha varcato la soglia di questa vita
terrena per raggiungere le sfere
eterne del Cielo.
Nell’ultimo Consiglio Direttivo
dell’Associazione delle Comunità
Quindicinale
La nuova Voce Giuliana n. 241 - 1 giugno 2011
Editrice Associazione delle Comunità Istriane
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Periodico pubblicato con il contributo dello Stato italiano ex legge 296/2006
Pedena, panorama (foto di C. Ballarin)
Istriane, con commozione, è stato
ricordato con un eloquente minuto
di silenzio da parte di tutti.
Egli ci lascia migliaia di pagine
dedicate alla sua Fiume e all’Adriatico Orientale, nelle quali ha raccolto testimonianze, riflessioni,
ricerche e studi che Lo hanno
sempre impegnato intensamente
nell’ampia letteratura storica delle
nostre
Terre.
Così lo
abbiamo
conosciuto ed
a p p re z zato per
il Suo carattere schivo e combattivo, rigoroso e puntuale nell’analisi
storica di questa Parte Orientale
cui apparteneva per nascita, formazione e scelta.
Non è passato molto tempo
da quando ho ricevuto, in modo
amichevole e confidenziale, un
breve biglietto (qui riprodotto)
che accompagnava un opuscolo di
studi e ricerche su “Il vescovato di
Pedena ed i punti oscuri della storia
di Tarsica e dell’origine di Fiume”
perché ne potessi pubblicare sul
giornale, magari in più volte.
Con mestizia e deferenza ossequio un desiderio di un amico.
Il Direttore
IL VESCOVATO DI PEDENA ED I
"PUNTI OSCURI" DELLA STORIA DI TARSATICA
E DELL'ORIGINE DI FIUME
Estratto da: Scritti in onore di Ruggero Fauro Rossi
La notorietà di Pedena nei secoli
“è dovuta al fatto che è stata scelta
a sede vescovile”.
Così avrebbe scritto nel 1991
mons. Luigi Parentin – che in
quell’occasione non avrebbe voluto
“indulgere a citazioni pedanti” –,
precisando fra l’altro che la storia
di Pedena “si riannoda alla Contea
dell’Istria e alla Signoria di Pisino”,
ed ancora che Pedena era stata “la
più piccola diocesi istriana” anche
se un tempo comprendeva forse pure
“Albona e Fiume”.
Molto più brevemente di mons. Parentin, nel 1879 Carlo De Franceschi
Anno XI
aveva proposto alcuni suoi cenni sul
vescovado di Pedena, ed in particolare:
su un’antica tradizione (non suffragata
da alcun documento storico) relativa
ad una istituzione di quella diocesi su
iniziativa di Costantino Magno; su una
menzione di Pedena in una ricerca del
Kandler riguardante le estensioni delle
giurisdizioni ecclesiastiche sulla base
degli antichi “scompartimenti politici
romani”; sull’incorporazione di Pedena nella diocesi di Trieste nel 1788.
Dario Alberi nel 1997, da par suo,
avrebbe iniziato le sue sei pagine
dedicate alla località di Pedena con
queste parole:
“In Italia, al
tempo di Carlo
Magno, vi erano circa duecento diocesi
ecclesiatiche,
che aumentarono o furono
soppresse durante i secoli.
L’Episcopus
Petenensis, ossia la diocesi
petinate, non
solo fu la più
piccola al mondo ma anche
Fiume, le rive la più povera
ed era composta da sole dodici parrocchie”.
Nella ricca bibliografia proposta
dall’Alberi troviamo fra le altre le
opere di mons. Parentin, del De
Franceschi, del Kandler. Non vengono invece segnalati dall’Alberi,
ad esempio, i contributi del Kobler e
del Depoli (Guido): e proprio a questi
due ultimi Autori sembra lecito qui
fare un breve riferimento.
Anzitutto delle affermazioni del
Kobler potrebbero essere ricordate
per lo meno le seguenti:
“Nulla si può dire di certo”
sull’antica estensione della diocesi
di Pedena.
Il suo impoverimento deve datare
da tempi remoti, poiché nelle Indicazioni del Dr. Kandler si legge “che già
nell’anno 1238 il vescovato era ridotto
in sì misero stato che appena vi manteneva un canonico, e che il vescovo
abitava nel monastero di S. Michele
presso Pisino” (un documento di quell’anno, reperibile nella raccolta del
Bianchi, “dice che allora si trattava
di far cessare il vescovato”).
Il Kandler “in un opuscolo edito
nell’anno 1847 e nelle sue Indicazioni metteva che “nel 1028 Albona
e Fiume passarono dalla diocesi di
Pedena a quella di Pola”.
(continua)
COMMENTI & OPINIONI
Vale l’uno o vale l’altro?
A Trieste batte un cuore istriano, fiumano e dalmato:
il ruolo del Comune
È il tema contemplato venerdì 20 maggio scorso nella sala Zodiaco dell’Hotel Savoia Excelsior con la presenza dei due concorrenti a sindaco, Roberto
Antonione e Roberto Cosolini, usciti dalla prima tornata elettorale ed ora
prossimi al ballottaggio di fine mese.
L’incontro, voluto dalla FederEsuli, introdotto dal Presidente Renzo Codarin, ha inteso mettere a confronto, in un pubblico dibattito, i due candidati
al Comune di Trieste per sensibilizzare il loro interesse nei confronti della
nostra realtà cittadina stratificata in gran parte da elettori di origine istriana
fiumana e dalmata.
La Federazione degli Esuli, secondo quanto è emerso, non intende anteporsi
sia agli interessi dell’intera collettività che ai programmi socio-economici
cittadini, ma rivendica quel minimo di attenzione finalizzata alla risoluzione
di alcune questioni pur sempre irrisolte nell’ambito comunale.
Poiché l’uscita del giornale non permette con tempestività di conoscere il
risultato del ballottaggio, esprimiamo al neo-eletto Sindaco di Trieste ed alla
sua Giunta i migliori auguri di buon lavoro.
La Redazione
Sommario
Cordoglio per la scomparsa di Mario Dassovich.
Il vescovato di Pedena ed i "punti oscuri" della storia
di Tarsatica e dell'origine di Fiume.
Commenti e Opinioni.
Manifestazioni associative.
"L'Unità d'Italia secondo l'opinione pubblica inglese".
Raduno annuale dell’ANA: Tenacia – Fierezza –
Orgoglio.
Arte & Cultura.
Il poeta della Dalmazia perduta.
Geografando.
Prime Visioni.
La parola ai lettori.
Cognomi istriani: Furiàn.
Sportivamente.
Istria, Fiume e Dalmazia - profilo storico.
1 giugno 2011
La nuova Voce Giuliana
2
MANIFESTAZIONI ASSOCIATIVE
ASSOCIAZIONE DELLE COMUNITÀ ISTRIANE
COMUNITÀ DI
VISIGNANO D'ISTRIA
DICHIARAZIONI DEI REDDITI
DESTINAZIONE DEL CINQUE PER MILLE A SOSTEGNO DEL VOLONTARIATO,
DELLE ORGANIZZAZIONI NON LUCRATIVE DI UTILITÀ SOCIALE, DELLE
ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE SOCIALE, DELLE ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI
Informiamo i lettori de “La nuova Voce Giuliana” che con la scheda per la scelta della destinazione del
5°/°° dell’IRPEF (mod. CUD o con la scheda allegata al Mod. 730 o all’UNICO), si può far attribuire
l’importo alla nostra Associazione scrivendo nell’apposito spazio (Sostegno del volontariato, ecc.) la
propria firma e segnando il codice fiscale dell’Associazione.
A tal fine indichiamo il codice fiscale dell’Associazione delle Comunità Istriane, riportato in testata
del giornale, che è 80018190324.
Con gratitudine esprimiamo la nostra riconoscenza a coloro che, negli anni precedenti, hanno inteso
devolvere la quota del 5°/°° alla nostra Associazione.
Come già comunicato in precedenza, dette quote sono state utilizzate totalmente per coprire gli alti
costi per la spedizione a domicilio del giornale.
COMUNITÀ DI CAPODISTRIA
Festa della Madonna di Semedella
Domenica 8 maggio i caveresani in esilio, come da
tradizione, per rinnovare la loro devozione alla Beata
Vergine delle Grazie che veniva venerata nella chiesetta
votiva di Semedella, si sono ritrovati nella chiesa della
Madonna del Mare di Piazzale Rosmini, per assistere alla
Santa Messa celebrata dal padre francescano Alessandro
Maria Apollonio (fio de Ciano, al quale vanno i nostri più
sentiti auguri di guarigione). Il sempre dinamico Nicolò
Urlini ha diretto il coro che ha accompagnato tutta la sacra
liturgia. Al termine della cerimonia religiosa l’officiante ha
benedetto due panieri di “buzzolai” che sono stati distribuiti
agli intervenuti sul sagrato della chiesa.
La festa è continuata nella sala don Bonifacio dell’Associazione delle Comunità Istriane, addobbata per l’occasione
con l’enorme bandiera di Capodistria, il sole che ride in
campo azzurro, dove era allestito un ricco rinfresco. Gli ospiti
sono stati ricevuti dal presidente dell’Associazione Lorenzo
Rovis e dal vicepresidente e responsabile della comunità
Il presidente Rovis porge il saluto ai capodistriani presenti all'incontro
di Capodistria Nicolò Novacco con un breve saluto al
quale si è unito il presidente della Fameia capodistriana
dell’Unione degli Istriani Piero Sardos Albertini.
L’affluenza è stata veramente notevole e tra ciacole,
ricordi e nostalgia, dolcetti, stuzzichini, bibite varie e
un bon bicer de bianco istrian l’incontro si è concluso
con la soddisfazione di tutti i presenti.
Mi corre l’obbligo di ringraziare per la loro collaborazione tutte quelle persone che, assieme al presidente
dell’Associazione Lorenzo Rovis, hanno collaborato
per la buona riuscita della festa ed in particolare:
Loredana Ulcigrai Novacco, Gianfranco Novacco,
Irene Lonzar Bon, Alessandra Norbedo, Anita Derin,
Ugo Nobile.
Un grazie a tutti gli intervenuti e… ci vediamo il
prossimo anno, a Dio piacendo.
Nico
Guglielmo Reiss Romoli
Giorgio Reiss Romoli
Davanti alla maxibandiera di Capodistria Alessandra Norbedo,
Lorenzo Rovis, Loredana e Nicolò Novacco
COMPAGNIA TEATRALE "I CONTASTORIE"
L’Associazione
delle Comunità
Istriane ha ospitato, il 7 maggio
scorso nella propria sede, la compagnia teatrale
“I Contastorie”.
L’esibizione è
stata perfetta e
alquanto divertente per l’accentuazione interpretativa in
forma dialettale
che ha divertito
non poco il pubblico presente,
coinvolgendolo
in una gioiosa e
farsesca trama
famigliare.
A cinquant’anni
d a l l a s c o m p a rsa di Guglielmo
Reiss Romoli, la
Comunità di Visignano d’Istria
in esilio, il giorno
16 giugno 2011,
commemorerà i
Santi Patroni SS.
Quirico e Giulitta
e renderà omaggio
nell’ex casa profughi di Borgo San
Mauro (Sistiana)
deponendo una
corona d’alloro
davanti ai busti di
Guglielmo, grande
benefattore dei
profughi istriani
e di suo fratello
Giorgio.
Alla domenica
successiva, 19 giugno, i Visignanesi
assisteranno alla
Santa Messa nella
chiesa di Santa
Croce intitolata
ai Santi Quirico e
Giulitta.
Premio letterario “Gen. Loris Tanzella”
XI Edizione 2012
Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia
COMITATO DI VERONA
PREMIO LETTERARIO “GEN. LORIS TANZELLA”
XI EDIZIONE 2012
Il Comitato Provinciale di Verona dell’ A.N.V.G.D. bandisce
il Premio Letterario “Gen. Loris
Tanzella”, giunto al traguardo
della sua
XI EDIZIONE
ricordando così la figura del Generale che in vita ha testimoniato, con
il suo amor di patria ed encomiabile
impegno, la causa Giuliano-Dalmata nella difesa dei diritti storici
e morali delle popolazioni d’Istria,
Fiume e Dalmazia.
Il Premio, istituito dal Comitato di Verona, ha registrato, in
particolare nelle ultime edizioni,
una significativa partecipazione
di esuli e loro discendenti fino
alla terza generazione e di autori
che, pur non avendo alcun legame
con le terre del confine orientale,
hanno presentato opere di pregio
e qualità.
Sono ammessi al concorso lavori,
in lingua italiana e/o nei linguaggi
dialettali dell’Istria, di Fiume e
della Dalmazia, con testi letterari
in prosa, raccolte di poesie (almeno
10 componimenti), tesi di laurea,
ricerche sul patrimonio storico,
artistico, linguistico e culturale
delle nostre terre. Alle opere più
meritevoli saranno assegnati premi
in denaro e riconoscimenti vari
in base al giudizio insindacabile
espresso dalla Giuria del Premio.
I lavori dovranno pervenire rigorosamente in 8 copie entro il
30 NOVEMBRE 2011. Gli autori
dovranno inviare le loro opere
corredate dal curriculum personale,
dall’indirizzo, dai recapiti telefonici ed eventuali e-mail e/o fax,
presso il seguente indirizzo:
GIOSEFFI LOREDANA,
Via Giovanni Pascoli, 19
37038 SOAVE (VR)
La premiazione avverrà in Verona, durante il mese di aprile 2012 (la
data e la sede saranno successivamente indicate), in caso di mancato
ritiro del riconoscimento, il Comitato provvederà a farlo pervenire
all’interessato. Si specifica che il
Premio non può essere attribuito
al medesimo concorrente consecutivamente per due anni.
Per ulteriori informazioni e/o comunicazioni rivolgersi ai seguenti
numeri telefonici:
tel. 0457680417
cell. 3385228509.
Indirizzo e-mail:
[email protected]
La Presidente della Giuria del
Premio Letterario
“Gen. Loris Tanzella”
Prof.ssa Loredana Gioseffi
1 giugno 2011
La nuova Voce Giuliana
"L'UNITÀ D'ITALIA
(continua dal n° 240)
Mazzini giunse a Londra nel gennaio
del 1837, espulso dalla Svizzera dove
si era rifugiato.
Accogliendolo, l’Inghilterra dava
asilo a un personaggio di primo
piano del movimento rivoluzionario
europeo, assai pericoloso, anche se
la sua strategia, che prevedeva piena
autonomia dall’influenza francese,
poteva farlo apparire non in contrasto
completo con la politica estera britannica. L’impatto con la società inglese
non fu semplice per l’esule genovese.
Quando sbarcò nell’isola, Mazzini era
in preda a una grave crisi depressiva
causata dal fallimento dei suoi tentativi rivoluzionari, dall’ abbandono di
numerosi adepti che cominciavano a
nutrire dubbi sull’efficacia dei suoi
metodi rivoluzionari, dal senso di colpa
3
SECONDO L'OPINIONE PUBBLICA
PUBBLICA INGLESE"
di Antonio Zappador (Treviso)
di attualità e integrare i suoi magri
guadagni e le rimesse della famiglia.
Dovette allargare ovviamente le sue
conoscenze relative ai problemi più
attuali del mondo anglosassone, il che
gli permise di acquistare con i suoi
articoli grande notorietà nei settori più
influenti dell’opinione pubblica britannica. In definitiva, senza il soggiorno
londinese la vita di Mazzini sarebbe
stata profondamente diversa. E anche
il Risorgimento italiano.
Lo stesso non si può dire di Garibaldi. Il rapporto in questo caso appare in
senso unico. L’Inghilterra non esercitò
alcuna influenza significativa nella sua
formazione politica e sul suo destino
personale. La sua idea che esistesse
una legittimità nazionale del popolo in
armi, ossia dei suoi volontari, in nome
del quale egli era convinto di avere il
Londra
per il sangue versato da una gioventù diritto di prendere iniziative, anche a
che si era votata alla causa italiana prescindere dal governo parlamentare,
fino al sacrificio della vita. A ciò si non era certamente di derivazione
aggiungeva, con l’abbandono della anglosassone. La sua prima visita a
Svizzera, l’ulteriore allontanamento Londra avvenne all’inizio del 1854
dagli affetti familiari e, soprattutto, e durò qualche mese. La seconda per
dall’unico grande amore della sua pochi giorni, dal 3 al 22 aprile 1864.
vita, Giuditta Sidoli, dalla quale aveva Furono entrambe importanti, ma non
dovuto separarsi nel giugno 1833 dopo per la diffusione della sua immagine
una convivenza di poco più di un anno. presso l’opinione pubblica inglese.
Incontrò gravi disagi per l’alto costo Nel 1854, infatti, il suo mito era stato
della vita, ma anche per un’oggettiva in gran parte e da tempo già diffuso.
difficoltà di stabilire rapporti umani Massimo artefice ne era stato lo stesso
in una società il cui sviluppo appa- Mazzini, il quale, dopo l’adesione di
riva prevalentemente fondato sulla Garibaldi al suo programma politico,
componente economica e materiale. ne aveva seguito le gesta e aveva colto
Il liberismo rappresentò sempre per le enormi potenzialità propagandistiMazzini la più compiuta espressione che che la sua figura offriva ai fini
dell’egoismo e la negazione di ogni della causa italiana. Durante il primo
principio di solidarietà e di altruismo soggiorno a Londra la sua popolarità
che erano invece componenti basilari si consolidò notevolmente e gli giodel suo universo etico. Non si sentì mai varono particolarmente gli incontri
a suo agio. Ne subì tuttavia l’influenza politici, ma il soggiorno fu importante
feconda e per molti aspetti positiva, soprattutto perché nei colloqui con
perché fu in Inghilterra che Mazzini Mazzini emerse per la prima volta in
capì l’importanza delle prime forme modo chiaro il dissenso in merito alla
associative del movimento operaio a strategia politica di quest’ultimo, in
difesa delle condizioni di vita presso- quanto Garibaldi mirava ormai a un
ché insopportabili degli immigrati, e rapporto costruttivo con la monarchia
in particolare di quelli italiani.
sabauda, che invece Mazzini cercò
Ne derivò un senso di solidarietà sempre di evitare. Tale dissenso portò
talché nel 1841 utilizzò anche le ri- a una aperta rottura nell’agosto 1854,
messe della madre e creò una scuola che si ricompose nel 1864, quando
serale per fanciulli poveri nella quale ritornò a Londra, acclamato da una
lui stesso insegnò per tre anni, cu- folla festante in Trafalgar Square. Una
rando ovviamente nei partecipanti lo ricomposizione che sancì formalmente
sviluppo del senso di appartenenza una convergenza di vedute riguardo
a una comunità nazionale, in
alle possibili soluzioni di forza
cerca di una realizzazione
del problema veneto e di
a livello politico. Tra il
quello romano.
1840 e il 1843 pubIl ruolo di Garibaldi
blicò “l’Apostolato
nel guadagnare simpopolare” con fipatie al movimento
nalità abbastanza
nazionale italiano
simili e poi creò
fu molto grande
l’Unione degli
nell’opinione
Operai Italiani
pubblica ingleche segnò un
se e conseguenmomento di
temente nei
grande imporcircoli politici
tanza nella stosoprattutto per
ria delle classi
la componente
lavoratrici. Il
emotiva, legasoggiorno ingleta all’immagine
se fu importante
mitica dell’eroe
per Mazzini anpronto a batterche in una visuale
si ovunque per la
di ampliamento dei
causa della libertà
suoi interessi culturali
dei popoli oppressi.
che lo misero in grado
Conclusasi l’impresa dei
di collaborare a riviste
Mille, apparve evidente
Giuseppe Mazzini
anche il suo spessore politico, dato che,
ai fini del compimento del disegno
unitario, egli non solo aveva avuto più
senso politico di Mazzini, ma aveva
mostrato un’intuizione superiore a
quella di Cavour nel cogliere la possibilità di un’annessione immediata del
Mezzogiorno proprio quando il conte
la riteneva ancora impossibile. Inoltre
a Risorgimento concluso, fu evidente
che Garibaldi era stato l’unico grande
generale italiano espresso dall’epopea
risorgimentale. Tuttavia, nonostante
questo successo, rimase sempre chiaro
per gli Inglesi il dislivello di cultura
e di capacità di elaborazione teorica
che lo separava da Mazzini. E solo a
pochi sfuggiva che le sue gesta militari vincenti avrebbero probabilmente
avuto altra sorte senza tutta la precedente azione politica e diplomatica di
Cavour. Dunque l’unità d’Italia fu il
risultato delle doti convergenti di tre
uomini: Cavour il politico, Mazzini il
teorico, Garibaldi la mente militare,
l’eroe combattente.
Il successo e l’importanza di Garibaldi in Inghilterra e in Europa furono
dovuti pertanto al suo coraggio personale in battaglia e alla grande idealità
patriottica che sempre alimentò la sua
azione, il che costituì un elemento
fondamentale – anche politicamente –
per conferire credibilità all’immagine
del Risorgimento in Europa. Garibaldi
smentiva infatti il “cliché”, lo stereotipo, il luogo comune, consolidatosi dai
tempi di Machiavelli, dell’italiano che,
con la crisi dei liberi Comuni e l’avvento delle milizie mercenarie aveva
perso lo spirito bellico del cittadino
soldato e si era rivelato quasi sempre
incapace di difendere, armi alla mano,
il destino della Patria. Un “cliché”
che, grazie al carisma di Garibaldi, fu
smentito anche da tutti i volontari che
accorsero a combattere al suo seguito.
Scriveva allora Cavour a Costantino
Nigra, diplomatico e segretario di
D’Azeglio, nell’agosto 1860, che
Garibaldi aveva il merito inestimabile
di aver dimostrato all’Europa che gli
italiani sapevano battersi e morire sui
campi di battaglia per riconquistare
una patria. Ciò significava avere svolto
un ruolo fondamentale per la costruzione del movimento nazionale italiano
alla quale, in caso contrario, sarebbe
mancata una componente essenziale
agli occhi dell’opinione pubblica
britannica: quella di sapersi battere e
rischiare la vita per le proprie idee. È
significativa, l’accoglienza entusiastica della folla plaudente che egli ebbe
a Londra nell’aprile del 1864.
In tale occasione, il poeta James
Thomson, appassionato, ammiratore
di Leopardi, compone un ode inneggiante all’arrivo di Garibaldi:
Arise, arise Italia! One and free!
Risorgi, risorgi Italia! Una e libera!
Ma non solo lui innalza versi vibranti
di simpatia al Risorgimento italiano.
Ci sono le anche le anime nobili da
Gladstone a Swinburne, da Carlyle a
Browning che vedevano con simpatia
la resurrezione d’Italia. Memorabili
sono i versi di Browning, che possiamo
leggere su una iscrizione lapidaria di
Palazzo Rezzonico a Venezia:
Italy, my Italy
Open my heart and you will see
Graved inside of it Italy.
Italia, mia Italia!
Apri il mio cuore e vedrai
Inciso in esso Italia.
Dunque Mazzini e Garibaldi contribuirono in maniera decisiva, attraverso l’opinione pubblica, a indurre i
politici inglesi a seguire con simpatia
e benevolenza gli avvenimenti italiani.
Le ragioni furono anzitutto politiche.
Palmeston, Gladstone,
Clarendon e Russell, vale a dire gli
uomini politici dell’epoca, ebbero una
parte importante nella vicenda del
Risorgimento perché ritennero che
l’apparizione di uno Stato nuovo nel
Mediterraneo avrebbe frenato le ambizioni francesi, favorito gli equilibri
europei e giovato in ultima analisi agli
interessi della Gran Bretagna. Ma vi
fu anche, nella loro politica italiana,
un impalpabile quid, un qualcosa di
umano e culturale. Come molti loro
connazionali credettero nel Risorgimento perché il vecchio stereotipo
italiano, diffuso nelle isole britanniche
fin dallo scisma di Enrico VIII, si era
rovesciato nel suo contrario. Al posto
del cortigiano intrigante, machiavellico, papista, corrotto era apparso
un patriota nobile, generoso pronto a
sacrificarsi per la libertà del suo Paese
e del genere umano. Nella società
inglese di metà Ottocento, l’italiano
non ha più i lineamenti sfuggenti e
l’opportunismo del politico “Francia
o Spagna, basta che se magna”. Ha gli
occhi azzurri e i capelli biondi di Garibaldi, lo sguardo profondo e intenso di
Mazzini, gli occhi penetranti di Cavour,
l’orgoglio di Vittorio Emanuele II, 1°
Re d’Italia.
(continua)
Giuseppe Garibaldi
RADUNO ANNUALE DELL’ANA:
TENACIA – FIEREZZA – ORGOGLIO
A primavera la natura si desta dal
lungo sonno invernale, dapprima timidamente, poi in un crescendo di colori e
di profumi, con foglie, fiori e frenetici voli
di uccelli, e con il trionfo della luce. È un
rito che si rinnova ogni anno a ricordarci
che la vita non si ferma mai.
Anche per un certo tipo di uomini,
parlo di quelli che portano un singolare
copricapo con una lunga penna nera, si
ripropone un evento, in questo periodo,
un appuntamento a cui non possono
mancare: l’Adunata dell’Associazione
Nazionale Alpini, quest’anno fissata
a Torino per la seconda domenica di
maggio, in occasione del 150° dell’Unità
d’Italia.
Ogni volta mio marito si prepara spazzolando con gesti amorevoli il cappello,
vecchio di circa sessant’anni, custode dei
ricordi della lontana giovinezza. Poi parte per il luogo dell’incontro. Io lo seguo e,
se un tempo avevo subìto il fascino delle
piume al vento dei bersaglieri, per i racconti dei miei famigliari di come Michele
Miani (Sindaco di Trieste nel secondo
dopoguerra) nel novembre 1918 avesse
guidato i fanti piumati alla redenzione
di Visignano (suo paese natale), e per
come mi fu caro mio zio Bruno De Cleva, maresciallo appunto dei bersaglieri,
caduto nel maggio 1945 a difesa della
sua Istria, in seguito, per matrimonio,
mi sono lasciata avvincere dallo spirito
alpino della lunga penna nera.
Così anche quest’anno siamo partiti
per Torino e, dopo un lungo monotono
percorso nella pianura padana, abbiamo
attraversato in treno le risaie
del vercellese. E qui una storia
istriana della mia famiglia è
riaffiorata proponendo alla
memoria una spada custodita
nella soffitta della mia nonna
materna. Era appartenuta a
uno degli antenati che nella
seconda Guerra d’Indipendenza (1859) militava nell’esercito
austriaco, sotto il comando del
generale Gyulai che guidò le
sue truppe allo scontro con i
franco-piemontesi, i quali per
fermare l’avanzata nemica allagarono le risaie. Così questo
antenato (che non ho conosciuto) si trovò impantanato col
suo cavallo e, di conseguenza,
vinto, iniziò con questo escamotage l’offensiva che portò alla
liberazione della Lombardia.
Dicono che in vecchiaia egli
ogni tanto sbuffasse: “Ah, quel
Gyulai che ne ga cojonà!”.
Il soggiorno a Torino è stato travolgente per la folla immensa (in
quei giorni partiva da lì anche il Giro
d’Italia), i tricolori, l’aria di festa che
animava l’eleganza austera, ma statica,
della città sabauda. Per mio marito, e
per me, è stata anche l’occasione di
rivedere vecchi amici provenienti da
varie regioni d’Italia, con un po’ di
malinconia, però. Tante adunate fa,
li avevo conosciuti giovani, vigorosi,
prestanti… Ora il tempo ha lasciato il
segno per la normale parabola dell’esistenza, sebbene lo spirito, la grinta e la
voglia di vivere (nonostante…) non si
siano smorzati. La conversazione tra
noi e loro si è avviata su vari argomenti
d’attualità, per me interessanti poiché i
giudizi giungevano da ambienti diversi
per esperienze ed estrazioni. Quest’anno eravamo curiosi del racconto di un
generale che da anni sverna in Tunisia,
dalla quale rientra proprio in tempo
per l’Adunata. Ho avuto la conferma
di quanto già pensavo: a parte i primi
disordini per rovesciare il tiranno, tutto
era tornato tranquillo con la formazione del nuovo governo. Quindi non è
spiegabile la fuga dei giovani tunisini
da un luogo che ha buone prospettive turistiche e artigianali e dove il costo della
vita è molto basso. Il discorso allora si
è allargato all’accoglienza, in genere,
dei migranti, certamente lacunosa per
l’imprevedibilità dell’evento, ma non
giustificatrice delle manifestazioni di
protesta, della pretesa di non chiari
diritti, e degli atti di vandalismo avvenuti in molti campi di raccolta sparsi
in Italia (la televisione testimonia) da
parte di tali ospiti.
A queste parole, si è risvegliata in me
l’appartenenza istriana, il ricordo dei
campi profughi a volte cintati di filo di
ferro spinato e l’umiliante mancanza
di considerazione per il nostro stato di
esuli, vittime di decisioni internazionali
imposteci impietosamente.
L’ho fatto presente agli amici aggiungendo che noi però non eravamo mai
Penne nere a Trieste (La Domenica del Corriere)
scesi in piazza a inveire, a reclamare,
né mai ci eravamo abbandonati ad atti
violenti per protesta; avevamo invece
subìto il nostro avverso destino, impegnandoci a farci accettare e stimare
nei luoghi dell’esilio. Per un attimo
mi sono accorta di essere al centro di
una pensosa attenzione, nel silenzio,
fino a quando uno dei presenti non ha
esclamato: “È vero, è vero!”. Ed ha
aggiunto: “Altra cultura”.
Giuliana Zelco
La nuova Voce Giuliana
4
1 giugno 2011
Arte & Cultura
"Itinerari"
DI
MARIA VATOVA VEDOVATO
Gli “Itinerari” che danno il titolo
alla raccolta poetica di Maria Vatova
Vedovato sono soprattutto percorsi
dell’anima. È la stessa autrice infatti a
definire la sua poesia “modulata sotto
la spinta del sentimento, con ricerca
di parole suono e che si dirama in
itinerari che seguono stagioni, ricordi,
rammarichi, contemplazioni”. Dopo
l’apprezzato libello “Elegie istriane”
anche in “Itinerari” la poetessa istriana, nata a Rovigno ed esule a Venezia
dal 1944, riprende il tema caro al
cuore della propria terra, dei ricordi
dolceamari legati ad essa toccando
appena, in modo lieve, i momenti
più tragici e dolorosi del distacco
dall’amata patria. Ed è proprio questa
serena leggerezza del canto la motivazione del primo premio per la sezione
poesia a “Itinerari” nell’edizione
2011 del Premio letterario “Generale
Loris Tanzella”, bandito dal Comitato
provinciale di Verona dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e
Dalmazia e assegnato all’autrice
nell’ambito delle iniziative culturali
per il Giorno del Ricordo con queste
parole: - “Il verso, nella sua levità,
anche musicale, esprime sentimenti
che con la loro intensità evocano
immagini sempre vive nella memoria
e il ricordo della terra natia, mai
doloroso, si trasfigura con la forza
di una pur sofferta serenità”. I versi
liberi di Maria Vatova Vedovato,
suddivisi in molteplici sezioni dai
nomi suggestivi, partono dalle prime
pagine piano, piano come suoni in
omaggio alla musica prediletta o,
meglio, come “Note”, parafrasando il titolo di una lirica, “vengono,
attraversano l’aria, la riempiono di
sogni, circondano, incantano...”.
Forte poi nei componimenti è il
richiamo alle tematiche del distacco
e dell’abbandono, come in “Fogli
strappati”: Una deserta notte/ solo
deboli luci,/ un sospiro di luna./ Non
c’è nessuno,/ tutti andati,/ scivolata
via/ ogni cosa… Anche lo sguardo
attento sul passare delle stagioni e
la descrizione della loro alternanza
accomuna essere umano e Natura in un
profondo senso di tenera malinconia,
nonostante il fiorire della Primavera,
gli echi della giovinezza e il ritorno
luminoso dell’Estate. Dominano poi
nella parte centrale del libro le rime
dedicate al ricordo di chi non c’è più
(siano essi amici, vecchi, bambini o
anche valorosi alpini) nello smarrimento creato dal declinare del giorno
e, con esso, della vita come in “Vaghi
sentori”: ”Non torna nulla/ quando
declina il giorno”, oppure come in
“Ho sognato”: “…E già notizie tristi
arrivano,/ e già pesa il vivere,/ e c’è
l’angoscia di partenze/ e l’ineluttabile
finire/ di ogni cosa”. Nucleo centrale
di “Itinerari” resta però il devoto e
commosso omaggio alla terra d’Istria,
alla sua perdita: “E penso ad affetti/
presto perduti,/ a quella terra,/ la mia,
rossa/ per sua natura/ e per vicende”
(“Ricordo a volte”); al suo mare:
“Mare,/ aroma di mare,/ azzurro di
mare” (“Mare”) e al suo lontano
cielo (“Lontano cielo d’Istria”). “La
terra perduta/ posseduta ora/ dalla
mente del cuore…” (“Ora riflessi di
luna”) diventa per l’autrice quasi un
luogo magico, evocato e trasfigurato
dalla bellezza del lontano ricordo,
ormai così diverso dal posto attuale
sconosciuto agli occhi, anche se non
al proprio cuore (“La mia Istria”).
Vedovato decide, però, di lasciare in
disparte la tristezza e dedica l’ultima
sezione della sua opera poetica, dal
titolo “prima che tutto sbiadisca”, a
rime ricche di colori accesi: il rosso
vivo, il bruno, il verde pallido, il
giallo, il rosa, il viola, il giallo arancio dominano incontrastati la scena
delle descrizioni di paesaggi noti e
frequentati. I colori della vita dunque
trionfano alla fine sulle vecchie ombre
del passato, spazzando via come fosse
polvere l’opaca, residua infelicità e
dando nuova luce alla memoria.
Virna Balanzin
Itinerari, Maria Vatova Vedovato,
Supernova Ed. srl, 2010, pp. 142
La testimonianza prevale sulla memoria
Non leggo spesso libri di memorialistica, perché mi pare di averne fatto
il pieno in una certa epoca della mia
vita. Inoltre ritengo che non sia facile
scrivere memorie perché mi pare che
per questo sia necessario un equilibrio
emotivo non da poco, e che forse
non è lecito richiedere a nessuno che
abbia visto la guerra o, dalle nostre
parti, il dopoguerra. E d’altra parte è
indispensabile che anche chi legge sia
equilibrato e capace di distacco, perché
non resti invischiato a considerare il
caso singolo e non rimanga impastoiato
a considerare le circostanze più vicine
(ricordo ai più giovani che le pastoie
erano corde o catene che costringevano
i bovini ad andare lentamente – n.d.r.)
ma, pur tenendone conto, abbia lo
sguardo sufficientemente ampio da
considerare molte più situazioni e persone, avendo presente l’epoca di cui si
tratta, ma anche il tempo precedente e
gli accadimenti seguenti. Forse anche,
in fondo in fondo, mi pare che chi scrive
deve pensare a far star bene chi legge,
se non nell’immediato, in prospettiva. Il
che significa portare a pensieri grandi e
buoni, ed è difficile per chi ha trascorsi
turbolenti e pieni di disumanità come
quelli legati alle guerre.
Con queste premesse, dunque,
accetto di aprire qualcuno dei libri di
memorie che mi capitano sottomano,
ma ho un’attenzione particolare, ultimamente, a quelli freschi di penna (o,
più raramente, di computer) perché si
stanno diradando in gran fretta quelli
che possono scrivere memorialistica
della Venezia Giulia in prima persona,
essendo la gran parte nel mondo dei più.
Così mi sono trovata in mano il volume La… liberazione di Zara,
convinta dal nome dell’autore,
Tullio Vallery, che ho conosciuto
brevemente di persona, conservandone un ricordo positivo, in
occasione di qualche convegno
o presentazione di pubblicazione
dell’IRCI… nell’altro secolo!
Non mi sono sbagliata: il libro
è di quelli che valgono perché
più che di memorie, si tratta
di una testimonianza vivace e
brillante di un periodo di Zara –
dell’ultimo periodo di Zara, direi
– niente affatto vivace e tutt’altro
che brillante, dal 1944 al 1948,
e la testimonianza è quella di un
ragazzo, studente universitario,
poco più che ventenne.
Lo stile è sciolto e scorrevole,
le centottanta pagine si leggono
d’un fiato anche se non si è
appassionati di questo genere,
quasi come un racconto di avventure, che avvince anche se già
se ne conosce la fine infausta.
Piacciono i quadri familiari
perché così li si immagina in
molte case istriane e dalmate: arriva
la cartolina-precetto per il figlio, il
padre va in cerca dei suoi contatti per
evitare la partenza, la madre si rabbuia
in viso ogni ora di più, la via è
senza scampo; poi, talvolta, qualcosa di inaspettato accade. Poi,
spesso, chi vive in prima persona
le tragiche situazioni del tempo di
guerra o di occupazione nemica,
si ritrova una forza e un coraggio
inaspettati e anche certi frangenti
si rivelano incredibilmente non
dannosi: una partita a scacchi negli
uffici dell’OZNA, uno spiegare la
scelta del tricolore nella riunione
del “fronte della gioventù italoslava”, un vero e proprio servizio
fotografico sulle macerie di Zara
nell’imminenza della partenza…
E sono proprio le foto scattate
in quell’occasione così mesta
(dall’autore il 2 giugno 1948) e
portate via e conservate con abilità
da 007 – nel tubo del dentifricio! – a
connotare con estrema eloquenza
la distruzione della città e pari pari
quella della comunità italiana. La
didascalia dice “Calle San Demetrio” e ci si aspetta una via stretta
tra le case, ma invece è uno slargo
occupato da macerie; lo stesso per
“Calle e piazzetta San Rocco”.
Sulle rovine del Liceo-Ginnasio
e delle scuole elementari “Cippico”
ancor più ci sarebbe da protestare,
contro quelle bombe, contro quella fine.
Ma, con il Liceo, il pensiero va ora a
quel ragazzo che non è più tale ma che
ha descritto con freschezza e lucidità,
senza mai indulgere in piagnistei e
recriminazioni, una parte della sua vita
che è rimasta basilare.
Tullio Vallery nasce a Zara nel 1923 e
dal 1948 è esule a Venezia, dove assume
importanti incarichi nelle associazioni
degli esuli ed è ben conosciuto come
cultore di storia, promotore culturale e
pubblicista, i cui studi e articoli vengono
pubblicati su vari giornali e riviste.
È per 40 anni Cancelliere della Scuola
Dalmata di Venezia e Guardian Grande
dal 1992.
Nel 1978 è stato insignito dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine
al Merito della Repubblica Italiana.
Autore di numerose pubblicazioni,
l’ultima apparizione di un certo livello
sui giornali risale a un anno fa, quando
ha ricevuto una targa e una medaglia
d’oro dal Comitato ANVGD di Venezia
per “l’impegno e la dedizione profusa
alla difesa dei diritti e alla diffusione
della cultura giuliano-dalmata”.
Chiara Vigini
La… “liberazione” di Zara 1944-1948,
Tullio VALLERY, stp. sotto gli auspici
della Società dalmata di Storia Patria,
Venezia, aprile 2011, pp. 189, con foto
inedite dell’autore.
Zara, il campanile del duomo oltre le macerie
Il poeta della Dalmazia perduta
DI
Per opera della scrittrice Marianna
Deganutti è stato pubblicato sulla
Rivista Friulana di Cultura “La Panarie”, un intenso lavoro letterario
e di ricerca dedicato al conterraneo
e nostro collaboratore Luigi Miotto,
che abbiamo l’onore di riscrivere sul
nostro quindicinale oltre a diffondere
il valore dell’Autrice e la spiccata
sensibilità del personaggio trattato.
Il luogo dell’anima di un
poeta in esilio
Leggendo i versi dell’Ulisse, poesia
che Saba dedica ai viaggi giovanili tra
isolotti che affiorano scivolosissimi
eppure “belli come smeraldi” quando
l’alta marea si ritrae, il lettore a malincuore deve constatare che rimangono
tra i pochi che il poeta triestino rivolge
alla Dalmazia. Scorrendo Mediterranee e più in generale il Canzoniere,
infatti, si vorrebbe ancora veleggiare
al largo nelle giornate di bora, come
in quelle di calma piatta, lontano dagli
scogli, dove solo raramente qualche
uccello si posa alla ricerca di cibo.
Questa “terra di nessuno”, dove amava inoltrarsi lo spirito sabiano, con i
dirupi che profumano di rosmarino ed
agrumi, mentre le barche fioriscono
in golfi sempre più azzurri, è però il
luogo centrale della produzione di
Luigi Miotto, poeta spalatino esule
a Trieste dopo il secondo conflitto
mondiale.
Sul filo della memoria Miotto scrive di Dalmazia, terra ormai lontana e
perduta, che invece di scolorire negli
anni, sbiadendosi in ricordi sempre più
vaghi, si rafforza in immagini vividissime e tenaci, con un ritmo incalzante
che sa di canto
e talvolta di
preghiera. Per
“tornare con la
mente laggiù,
per vederla ancora quella terra, è necessario
un messaggero
che sia in grado
di sorvolarla. È
così che nella
sestina ripetuta
della prima lirica di Una terra nell’anima,
sarà proprio un
gabbiano col
MARIANNA DEGANUTTI
suo stridio a richiamare alla mente del
poeta la traccia indelebile di un mondo
sedimentato: “Sarà un gabbiano/che
si leverà dalla memoria,/sarà un gabbiano/che mi ricorderà ancora/fiorito
il mare/e odoroso il vento”.
Il veleggiatore per eccellenza, lo
stesso che in Cardarelli trova la grande
quiete marina in contrapposizione alla
burrascosa vita degli uomini, rappresenta forse la pace invocata, quella che
permetterà di inoltrarsi nella pagina
bianca per ricostruire un discorso
interrotto.
Chiudendo gli occhi nasce una città
che si affaccia sul mare cosparso di
barche, le cui vele sbocciano nelle
mani dello scirocco. In questa terra
arida, “predata dai calabroni” aggiunge
Miotto, di una bellezza selvaggia e
travolgente, i cui fari illuminano le
rotte notturne dei pescatori, prende
forma un microcosmo, composto da
elementi animati da sentire umano.
È il caso della personificazione del
mare, che si addormenta sotto lo sco-
glio d’agavi consolandolo, oppure di
quella del vento che vanga la liquida
distesa, cogliendone i fiori. La natura
quindi vive, soffre, ama, nel costante
intreccio di terra e di mare, che non di
rado vengono fusi. Il mare diventa allora campo da mietere o vigneto: “una
grande campagna/che si vendemmia/è
sempre il mare”, ma anche verde pascolo o prato fiorito, solcato da piccole
imbarcazioni. Queste ultime non sono
i grandi bastimenti o i vapori di Biagio
Marin “neri entro gli orizzonti vuoti
della vecchiaia, quando davanti a Grado non ci sono neanche più le barche
dalle vele colorate, simili a farfalle”.
Leggeri sembrano piuttosto bragozzi,
trabaccoli e le vele bianche ‘piantate’
dall’uomo, che scivolano sull’acqua
con la delicatezza del petalo e della
corolla. Nelle parole di Miotto: “e
il mare/ ha bianchi fiori di vele”, ma
anche: “o sereni cieli/sopra quella
terra/dove gli uomini trovano/campi
di mare/e seminano vele”.
(continua)
1 giugno 2011
La nuova Voce Giuliana
Natura e geologia dell'Istria, della Carsia Giulia e della Dalmazia
Geo-grafando
a cura di Stefano Furlani ([email protected])
5
PRIME VISIONI
THE TREE OF LIFE
L'ALBERO DELLA VITA
di Terrence Malick
ANTICHI ROMANI
A PESCA
Brad Pitt nel ruolo di Mr. O'Brien con uno dei suoi figli
Tempesta a Punta Grossa
La peschiera sommersa sull’isola dalmata di Svršata
L’impatto antropico sulle zone
costiere non è sicuramente una novità
dei giorni nostri, anche se in molti casi
oggi assume proporzioni drammatiche. Pesca e altre attività costiere,
sulle nostre coste, erano conosciute
già duemila anni fa. Numerose sono
infatti le prove che testimoniano
l’utilizzo, anche intensivo dei litorali
adriatici: moli romani, strutture di
attracco, porti, molere e, non ultime
come importanza, le peschiere. E le
peschiere nostrane sono talmente
particolari che gli archeologi parlano
di “peschiere adriatiche”, definendo
quindi una tipologia costruttiva ben
precisa, diversa dalle peschiere del
resto Mediterraneo. Gli impianti di
itticoltura istriani e dalmati infatti
si differenziano dalle peschiere tirreniche sia per dimensioni che per
tecnica costruttiva e probabilmente
anche per la destinazione d’uso. Più
specificamente, le caratteristiche di
queste strutture sono state recentemente delineate nell’ambito di una
serie progetti archeologici italiani,
sloveni e croati, che hanno permesso
di eseguire dei rilievi di dettaglio e
degli scavi. Interessante, a questo
proposito, quanto contenuto nel
Volume “Terre di mare”, a cura di
Rita Auriemma, dell’Università di
Lecce, e Snježana Karinja, del Museo
del mare di Pirano.
La prima importante domanda
è relativa al loro utilizzo: a cosa
servivano le peschiere? Si tratta
di strutture costiere che venivano
utilizzate per l’allevamento o l’ingrassamento dei pesci, che in questo
modo potevano essere consumati
freschi. Solitamente si tratta di complessi costituiti da bacini contigui,
ovvero si parla di “peschiere a vasche
adiacenti”, con strutture esterne di
notevoli dimensioni. Il perimetro
esterno, inoltre, poteva essere
utilizzato come molo di attracco o
banchina di camminamento, sia per
la manutenzione della struttura, che
per i servizi di imbarco dei pesci
raccolti all’interno dei bacini. Questi
ultimi potevano avere dimensioni di
alcune migliaia di metri quadrati. In
alcune di queste strutture attraccavano
imbarcazioni che avevano notevoli
capacità di carico. A differenza delle
peschiere tirreniche che venivano in
genere scavate nella roccia, e solo la
loro parte alta era in cementizio, quelle
adriatiche venivano realizzate con il
sistema della gettata di pietre sciolte,
un modello costruttivo subacqueo
diffuso in tutte le epoche, ed utilizzato
per costruire grandi antemurali ed
opere di difesa costiera. Considerando
il fatto che queste strutture dovevano
garantire un certo ricambio idrico, in
modo da ossigenare l’acqua all’interno dei bacini e allo stesso tempo
dovevano evitare che gli “ospiti”
potessero uscire, si può capire che si
tratta di strutture davvero importanti
per studiare le variazioni del livello
marino, problema per altro più volte
trattato in questa rubrica. Recentemente infatti, alcuni studiosi capeggiati
da Erica Florido hanno pubblicato
un interessante lavoro su Quaternary
International in cui hanno calcolato le
variazioni del livello marino desunto
dalle quote delle peschiere. Il lavoro si
è focalizzato in particolare su cinque
strutture, in particolare San Bartolomeo, sul confine Italia-Slovenia,
Fisine, vicino Portorose, Catoro,
Cervera e Svršata, alle Incoronate.
La profondità di queste strutture
indica che il livello relativo del
mare è attualmente più alto di circa
un metro e mezzo rispetto all’epoca
romana.
Non tutte le peschiere si adeguavano strettamente a questa tipologia
edilizia: la peschiera di Svršata, alle
Incoronate, ha degli allineamenti
molto più sottili, con fianchi verticali non a scarpa, realizzati con
pietrame quasi cementato di piccole
dimensioni, tanto da far pensare ad
una gettata del tipo “a cassone”. La
stessa peschiera di Pomer, a Promontore, è costruita allo stesso modo
e costituisce un valido termine di
comparazione attuale. Più complesso
invece rimane il problema dell’attribuizione temporale delle strutture:
sebbene le informazioni a riguardo
siano piuttosto scarne, sembra che il
loro impianto sia relativo alla prima
età imperiale, per correlazione con
le altre strutture costiere spesso associate, come le villae o i moli.
La peschiera di San Bartolomeo (immagine tratta da Google Earth)
Fresco vincitore della Palma d’Oro quale miglior film al festival di Cannes
2011, “The Tree of Life” viene osannato quale capolavoro assoluto della
storia del cinema. Il celebre critico Enrico Ghezzi parla di una sorta di panico
che lo avrebbe colto dopo la prima mezz’ora di proiezione al pensiero che,
dopo questo film, non si sarebbe più potuto girare nulla degno di nota.
Registriamo con interesse questo entusiasmo perchè denota, a nostro modesto parere, l’infaticabile ricerca del senso della vita che connota l’esistenza
di ogni uomo e donna ad ogni latitudine terrestre.
Il problema rimane il fatto che, quando a livello artistico ci si confronta con
temi così decisivi, si corre il rischio di andare fuori misura. Lo straordinario
talento visivo di Malick, così apprezzabile ad esempio ne “La sottile linea
rossa”, risulta messo qui al servizio di una (non) storia che vuole più evocare
che spiegare. Solo che poi, per oltre metà della pellicola, ci viene chiesto
di seguire da vicino la storia di Jack (interpretato da adulto da Sean Penn),
stanco uomo d’affari che rievoca la propria infanzia segnata da un padre
molto severo (Brad Pitt) e da una madre un po’ sottomessa ma sognatrice e
legata alla bellezza della natura (Jessica Chastain). Alla fine, dunque, il film
è un lungo flash-back visto dalla prospettiva di Jack intervallato da sequenze
apparentemente slegate che mostrano l’origine della Terra e di varie forme
di vita, sia acquatiche che terrestri (inclusi alcuni dinosauri).
Queste due parti del film sono apparentemente slegate tra loro e, benchè
la fotografia risulti straordinaria e la musica accattivante, lasciano perplessi.
Particolarmente insistita è la volontà del regista di mescolare tra loro piani
temporali diversi, ma anche questo espediente narrativo risulta un po’ sprecato perchè fine a se stesso. Per fare un parallelo un po’ azzardato, il grande
regista russo Andrej Tarkovskij tentò qualcosa di simile nell’autobiografico
“Lo specchio” con la differenza che, in quella pellicola, si respirava un’atmosfera sofferta ma tesa alla ricerca della salvezza dell’anima, mentre in
questa di Malick il grande sfoggio di maestria stilistica sembra portare al
vuoto o, al massimo, ad un Dio impersonale e panteista. Un Dio che manifesta la sua bellezza negli spettacoli della natura ma poi appare disincarnato
e assente dalla vita dei protagonisti. Con l’aggravante che il personaggio di
Mr. O’Brien, cioè il padre di Jack, “va a messa tutte le domeniche” (come
tiene a sottolineare) ma sembra non capirne il motivo.
La svolta decisiva, se così si può dire, è data dal fallimento delle aspettative
professionali del padre di Jack e, poi, dalla morte di uno dei suoi tre figli. Questi
eventi lo mettono in crisi e lo costringono a rendersi conto che ha sprecato parte
della sua esistenza. Sembra quasi pentirsi dello stile di vita che ha imposto alla
sua famiglia ma, forse, è tardi per recuperare il rapporto con Jack. Tuttavia
questa non ci sembra una trama eccessivamente originale e la sensazione
conclusiva è che Malick sia supportato da un talento enorme che non sempre riesce
a concretizzare in
maniera
efficace.
Anche
perché in
circa quarant’anni
di carriera
ha fatto in
tutto cinque film
dei quali,
a nostro
avviso, il
migliore
rimane il
Sean Penn nel ruolo di Jack da adulto
già citato
“La sottile linea rossa”, dolente riflessione sulla guerra e sulle tragedie
legate ad essa.
Rimane nel contempo interessante, ed è forse la cosa più importante
nell’opera di Malick, lo sforzo di rivolgersi ad un pubblico il più vasto
possibile anche se con il rischio di cadere in un certo sincretismo religioso.
Brad Pitt, intervistato sul suo rapporto con il regista, ha rilasciato dichiarazioni interessanti: “Con Malick abbiamo avuto alcuni dibattiti teologici,
direi che lui riesce a chiudere la sua natura cristiana in un compartimento e
dare spazio a un punto di vista universale quando gira. Ecco perché credo
che ‘The Tree of Life’ sia un film in grado di parlare a tutte le culture, una
di quelle pellicole che sottolinea le domande spirituali sulle quali tutti noi
ci interroghiamo”.
Nella nostra personale memoria cinematografica, però, questo “albero
della vita” non riesce a scalzare quello filmato dalla regista russa Larisa
Shepitko per il suo film incompiuto “Addio a Matiora” (per i più curiosi si
suggerisce la visione di un breve frammento tratto dal documentario “Larisa”
all’indirizzo http://youtube.com/watch?v=ASAZy_mjeSo&hl=it).
Carlo Zivoli
La nuova Voce Giuliana
6
La parola
parola ai
ai lettori
lettori
La
Riceviamo dagli Stati Uniti e proponiamo ai lettori quanto segue:
Salve,
sono una studentessa di storia a Chicago. Faccio della ricerca sulla Seconda Guerra Mondiale. Specificamente, la
storia della Venezia Giulia.
Vorrei fare delle interviste a degli esuli (qui negli Stati Uniti) e rimasti (in Italia) della zona dell’esodo di queste
persone. Vorrei tanto intervistare persone che sono: Goriziani, Triestini, Fiumani, Quarnerini (isole di Cherso, Veglia e
di Lussino), Zaratini, e tutta la gente delle isole dalmate della costiera Adriatica orientale che sono diventati profughi.
Vorrei fare delle interviste con gli esulati e quelli che sono rimasti. Io ho bisogno di conoscere le loro storie personali
per poter condividerle con il mondo. Sarebbe un peccato perdere quest’opportunità perché dalle loro storie individuali,
noi possiamo imparare molto e poi per me, per lo scopo di conservare queste storie che poi possono aiutarci a capire
meglio la storia più ampia del loro popolo. Io sto lavorando per fare una compilazione di storie per arricchire la mia
ricerca storica formale.
Vorrei chiederle gentilmente il Suo aiuto per mettermi in contatto con queste persone. Se Lei e la sua organizzazione
poteste darmi i nomi della gente e l’informazione per contattarli e poi io potrei mettermi in contatto con loro o loro
potrebbero mettersi in contatto con me, questo mi aiuterebbe molto. Ecco il mio sito di Fiume con la mia informazione
dettagliata: www.remeberfiume.com (sito); [email protected] (e-mail); 847 899 9300 (tel).
Io sono disposta a fare il più che possibile per trovare queste persone e quello che sia più facile per la gente. Il mio
scopo è di trovare queste persone e dunque sono molto contenta di fare quello che posso per realizzare lo scopo delle
interviste.
So che queste persone sono molto anziane a questo tempo e allora è urgente che io trovi queste persone al più presto
possibile. Dunque, spero che Lei capisca l’importanza della mia richiesta.
Vorrei mettere una pubblicità nella sua rivista: è possibile? Quanto costerebbe per inserirla nella sua rivista?
Per concludere, apprezzerei molto se 1.) Lei potesse aiutare a darmi dei contatti che potrei intervistare 2.) Vorrei
mettere una pubblicità nella sua rivista, Voce Giuliana. Posso pagare per la pubblicità.
La ringrazio in anticipo. Scusi se ci siano degli sbagli in italiano perché non sono nativa e ho imparato questa bella
lingua all’università.
Cordiali saluti,
Victoria Spiering
Ecco la pubblicità:
È stato colpito dai cambiamenti dei confini alla fine della Seconda Guerra Mondiale quando l’Italia e la Iugoslavia
sono state divise nella regione?
Una studentessa che sta finendo la sua laurea di storia a Chicago vorrebbe tanto intervistare persone che sono: Goriziani, Triestini, Fiumani, Quarnerini (isole di Cherso, Veglia e di Lussino), Zaratini, e tutta la gente delle isole dalmate
della costiera Adriatica orientale che sono diventati profughi. Vorrebbe fare queste interviste per la sua tesi con gli esuli
o con le persone rimaste in Italia dopo il cambiamento del confine. Se qualcuno vuole condividere una sua storia, può
andare al sito www.rememberfiume.com o può telefonarle negli Stati Uniti a 847 899 9300 o telefonarle sullo skype
(MsToriStory).
PIPPO
La strada che stava percorrendo a
Giuseppe sembrava più lunga quella
sera: la bufera lo faceva proseguire
lentamente e con fatica. Arrivato
sotto un portale si fermò per riprendere fiato. Era lì, sotto quel portale,
che aveva baciato la prima volta la
Gigetta, ricordò.
– Gigetta... – gemette.
Al suo gemito rispose un debole
“bau” d’un cane randagio che gli si era
avvicinato e stava per accovacciarsi
ai suoi piedi: Giuseppe gli lanciò
un’occhiata obliqua.
– Sembri uno scheletro ambulante,
con quelle costole
le che ti fanno da
appendino alla ppelle!...
ellle!... – esclamò,
cacciando la mano
n in tasca in cerca
no
d’un biscotto. Quando
uando glielo porse,
ua
mancò poco che iill l’animale non gli
azzannasse anche
hee il guanto, tanto
avidamente lo addentò.
dddeentò.
– Che razza di fa
ffame...
ame... – mugugnò
Giuseppe. Scuotendo
ennddo la testa si rimise
a camminare. Il ca
cane
an
ne gli venne dietro
fino al portone dii ccasa.
asa. Vedendo che
tremava dal freddo,
doo,, Giuseppe lo fece
entrare. Appenaa dentro,
d
gli versò
subito in una cioo-tola il latte che gli
lii
era avanzato nellaa
bottiglia: il cane lo
o
ingoiò in un amen,
n,
poi leccò anche lee
gocce cadute sul
ul
pavimento.
Non avendo vo-glia di mangiare,
e,
Giuseppe gli diede
dee
anche la sua cena.
a..
Mentre gliela staa-va versando nella
l
ciotola, tutto roteò davanti ai suoi
occhi e perse i sensi. Quando riprese
conoscenza, più che per il fatto di
essere svenuto, ed era la prima volta
che ciò gli accadeva, si meravigliò di
vedere il cane raggomitolato sopra di
sè e del calore che quel mucchietto di
ossa riusciva a emanare. Con fatica
si rimise in piedi.
– È meglio che andiamo a letto! – disse a voce alta.
Indicando al cane lo zerbino steso
vicino alla porta, aggiunse:
– Bello! Tu dormirai qui, su
questo zerbino questa notte. Ma
DI
solo per questa notte! Hai capito? –
Il cane lo guardò con occhi umidi. A orecchie basse e la coda fra
le gambe esso andò a stendersi
sul tappetino. E lì rimase. Senza più
muoversi.
Verso l’una di notte Giuseppe si
svegliò. Gli sembrava che una mano
con unghie adunche gli attanagliasse
il petto.
– Che male... – si lamentò, accendendo la luce. Non finì nemmeno di parlare che il cane era già
con le zampe anteriori sopra il
suo letto. Lo stava fissando. E
muoveva nervosamente la coda.
Quando Giuseppe emise
un secondo lamento,
esso si mise ad
abbaiare.
NADA
ADA ORSINI DEGANUTTI
si precipitò a chiamare il medico.
– Se non fosse stato per il cane, a
‘sta ora... forse... – farfugliò il portiere guardando il medico che stava
riempendo una siringa. Dopo aver
iniettato il farmaco il medico asserì:
“Io sono dell’avviso che tutte le persone che vivono da sole dovrebbero
possederne uno!”.
Come se avesse capito quanto egli
aveva detto, il cane gli leccò la mano
che lo stava accarezzando. Poi andò
a stendersi sullo zerbino.
Quando il medico se ne andò, Giuseppe lo chiamò con un fischio.
pp
–
Senti... ti chiamerò Pippo.
Ti piace? – gli chiese,
dandogli una grattatina dietro
l’orecchio.
1 giugno 2011
Avvenimenti
Avvenimenti lieti
lieti
Laurea
Complimenti vivissimi!!!
Lo scorso aprile si
è laureato con 110 e
lode in ingegneria
civile Stefano Maraston, figlio di Guido,
segretario della Comunità di Visinada.
A l n e o i n g e g n e re
felicitazioni e tanti
auguri per il suo futuro dagli amici tutti
e dalla Redazione
de "La nuova Voce
Giuliana".
COGNOMI ISTRIANI: Furiàn
Furian è antico cognome cinquecentesco di Pirano, il cui capostipite è un
Nicolò Furian nato nel 1530, sposatosi
nel 1558 con tale Margherita che gli
ha dato tre figli, ossia Filippo (1560),
Bortolo (1565) e Tommaso (1570),
i quali hanno avuto discendenti fino
a noi.
Tra i successori di Tommaso (1570),
Paron Nicolò Furian, nato nel 1716,
nel 1746 era proprietario di una delle
60 brazzere di Pirano per il trasporto
del sale, mentre un secondo cugino –
Paron Filippo Furian – era padrone
di una delle 15 barche di Pirano per
il trasporto di merci (AMSI95°, 1995,
p. 188).
Al ceppo di Tommaso (1570) appartiene pure Teresa Furian, nata a
Pirano nel 1833 (coniugata con Pietro
Fonda detto Dante), che il 16/12/1933
era ancora vivente, definita appunto La
centenaria di Pirano nel quotidiano
triestino Il Piccolo del 16/12/1933.
Uno dei due fratelli di Teresa (1833)
– Lorenzo Furian (1834) – architetto
e ingegnere, costruttore di alcuni importanti edifici a Trieste e della Villa
Furian a Portorose, è stato uno dei dieci
maggiorenti piranesi (due imprenditori,
quattro possidenti, un ingegnere, un
avvocato, un notaio e un medico),
che nel 1890-91 diedero inizio allo
sviluppo di Portorose (a 2,5 km da
Pirano), costruendovi il primo albergo
e il primo stabilimento balneare.
Dal figlio secondogenito di Nicolò Furian (1530) – Bortolo (1565)
– discendeva invece il padre Gian
Domenico Furian, nato nel 1641,
frate piranese che viveva nel convento di San Francesco di Pirano (ove
venne sepolto quando morì), scultore
e pittore.
Le ultime cinque famiglie Furian
che c’erano a Pirano nel 1945 sono
esodate a Trieste, e l’ultimo Furian
maschio di nascita piranese vivente a
Trieste è Lucio Furian nato nel 1926 a
Pirano, ove lavorava assieme al padre
Giovanni Furian (1900) sul loro trabaccolo Buona Maria.
Oggi vi sono quindici famiglie Furian di origine piranese a Trieste, ove
già nel 1857 troviamo un Nicolò Furian
nato nel 1814 a Pirano, facchino, vivente
con la moglie, due figlie e un figlio
Pietro Furian nato nel 1843 a Pisino,
intagliatore, quindi Pietro Furian nato
nel 1827 a Pirano, coniugato, rigattiere,
i fratelli Lorenzo Furian (1816), sarto,
celibe, e Giovanni Battista Furian
(1830), tecnico, coniugato, oltre a
un Nicolò Furian nato nel 1793 a
Capodistria, battellante, vivente con
la moglie rovignese.
Il cognome piranese Furiàn (alterato
a Trieste in Furian con l’accento su u;
si veda l’artista triestino di stirpe piranese Flavio Fùrian), deriva dal nome
Furiàn (attestato a Pirano nel 1272 nel
femminile Furiàna), variante popolana
di Floriàn cioè Floriàno, dal personale
latino Florianus, comprovato a Capodistria il 3/12/1082 (CDI).
Marino Bonifacio
Abbreviazioni:
AMSI: Atti e Memorie della Società
Istriana di Archeologia e Storia Patria, Parenzo-Pola-Venezia-Trieste
dal 1885.
CDI: Codice Diplomatico Istriano
(in 5 volumi), di Pietro Kandler, Trieste
1862-1865.
Sportiva-mente
Lo sport giuliano-dalmato a Roma in settembre
Al terzo lamento il cane cominciò
a raspare con le unghie sulla porta
d’entrata e ad abbaiare così forte che
più d’una persona del caseggiato si
svegliò. Alcune finestre si illuminarono. Qualcuno cominciò a gridare.
Il più isterico urlò “fate tacere quel
cagnazzo o chiamo la polizia!”.
Il portiere della casa, che aveva le
chiavi anche di quell’appartamento,
dopo poco entrò tutto agitato nella
stanza di Giuseppe.
– Cos’è tutto ‘sto baccano? – chiese
con voce alterata. Ma appena notò il
viso di Giuseppe sudato e cianotico,
Il cane mugolò. Avrebbe voluto dirgli che qualsiasi nome gli
piaceva. Anche “gattapelata”
poteva chiamarlo, se voleva, purché non lo cacciasse di nuovo in
strada.
Quando Giuseppe spense la luce,
Pippo ritornò a stendersi sullo zerbino. Sul “suo zerbino” perché ormai
era certo che ci avrebbe dormito sopra
tutti i giorni a venire. Appoggiò la
testa sulla zampa, cacciò un profondo
sospiro e si addormentò. Ma di un
sonno leggero. Pronto a scattare al
primo rumore.
Saranno due giorni di eventi dedicati allo sport istriano, fiumano e dalmato sotto il Tricolore, quelli di Roma a fine estate. Mercoledì 21 settembre
torneranno in campo dopo 70 anni le squadre calcistiche di Pola, Fiume e
Zara, scioltesi alla fine del secondo conflitto mondiale a causa della cessione
di quei territori alla Jugoslavia. Allo Stadio dei Marmi si confronteranno
in un incontro rievocativo gli eredi di quei calciatori che hanno indossato anche le maglie di numerosi team di serie A, segnando bel 687 reti. I
discendenti degli Esuli giuliano-dalmati provenienti da Italia, Stati Uniti,
Canada, Argentina, Sudafrica e Australia vestiranno gli antichi colori delle
squadre del F.C. Grion Pola, della U.S. Fiumana e della A.C. Dalmazia.
Alla loro guida tre tecnici come Sergio Vatta, Lucio Mujesan e Pierluigi
Pizzaballa. Il risvolto benefico sarà rappresentato dalla raccolta di fondi in
favore della FONDAZIONE STEFANO BORGONOVO, il calciatore che
lotta contro la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) e che dedica la sua vita
alla ricerca di una cura per tutti coloro che si trovano e si troveranno nelle
sue condizioni.
Anvgd Sede nazionale
1 giugno 2011
Note tristi
tristi
Note
Nessuno muore finché vive
nel cuore di chi lo ama
La nuova Voce Giuliana
23 maggio 1984 – 23 maggio 2011
Gemma Crevatin
in Mendicovich
da Villanova di Parenzo
Il giorno 26 aprile 2011, all’età di
89 anni è mancato improvvisamente
all’amore dei suoi cari
A ventisette
anni dalla sua
scomparsa,
con immenso
amore la ricordano i figli
Aldo e Lucio,
i fratelli, la
cognata e i nipoti.
Oliviero Furlan
nato a Buie d’Istria
lo piangono
la moglie, i
figli Roberto,
Rosanna, il
fratello Giordano, la nuora, il genero
e parenti tutti
e tutti coloro
che lo hanno
stimato e voluto bene.
La famiglia
sente il dovere di ringraziare tutti
coloro che hanno partecipato al suo
funerale; al ricordo del caro Oliviero
si unisce il Circolo Buiese “Donato
Ragosa”.
29 maggio 1992 – 29 maggio 201l
cav. Giovanni Mendicovich
da Antignana d’Istria
A diciannove anni dalla
scomparsa,
con infinito
amore lo ricordano i figli
Aldo e Lucio,
la sorella, i
cognati ed i
nipoti.
Ricordiamoli
Ricordiamoli
1 giugno 2002 – 1 giugno 2011
Nono anniversario
Mariuccia Bologna
Con amore
e gratitudine i
fratelli Annamaria e Giacomo, il cognato
Edoardo Fabbri e i nipoti
la ricordano a
quanti l’hanno
conosciuta ed
apprezzata, affidandola alle
preghiere di
suffragio. Si associa l’amica Erminia
Dionis che sempre rammenta il suo
dolce sorriso.
---------Il 19 maggio 2011 ricorreva il tredicesimo anniversario della scomparsa di
---------Il 6 giugno 1993, lontano dalle sue
terre e da Capodistria, si spegneva
serenamente
Vincenzo
Novacco
Nella dolorosa ricorrenza i figli
Nicolò e
Gianfranco,
le nuore e gli
adorati nipoti
lo ricordano
con immutato
affetto.
----------
Livio Travan
da Visignano d’Istria
deceduto a Lodi, New Jersey (USA)
Il 4 maggio
2011 ricorreva
il ventitreesimo anniversario del triste
doloroso distacco terreno.
La moglie Ida
lo ricorda con
lo stesso amore e affetto di
sempre a parenti ed amici.
Stefano Lonza
“Caro Stefano, il tempo
non cancella
il dolore per
il grande bene
perduto, resterai sempre nel
cuore di chi
ti ha voluto
bene”.
La moglie
Elia, Walter
e Tiziana, le
nipoti Alessia, Federica e Veronica.
---------24/5/2009 – 24/5/2011
----------
Virginia
Ritossa
ved. Razza
5 giugno 1998 – 5 giugno 2011
Proteggimi all’ombra delle tue ali
io per la giustizia contemplerò il tuo
volto, al risveglio mi sazierò della
tua presenza.
Nel tredicesimo anniversario della
scomparsa di
Nel secondo
anniversario
della morte,
la ricordano i
figli, le sorelle
e il fratello.
Vittorio Zanevra
da Baredine
Lo ricordano con immutato affetto,
con rimpianto
e nostalgia la
moglie Maria, la figlia
Gabriella con
Ciro e l’adorata nipote
Martina con
Daniele.
Una Santa
Messa di suffragio sarà celebrata il 6
giugno alle ore 19 nella chiesa dei SS.
Pietro e Paolo di via Cologna.
---------Nel settimo
anniversario
della scomparsa di
Patricia
Nota
McSoley
La mamma
Germana Buttignoni Nota
la ricorda con immutato affetto unitamente agli indimenticabili cugini
Jole, Fulvia e Piero.
6 maggio 2011
Sono trascorsi ventisei anni dalla
scomparsa a Padova dell’albonese
Marco Palisca
La moglie
Maria, i figli,
la nuora, i nipoti ed i parenti ricordano con affetto
e rimpianto il
loro caro.
La Società Operaia di
Mutuo Soccorso – Comunità di Albona
si unisce alla famiglia con particolare
solidarietà.
Elargizioni
Nell’ultima quindicina ci sono
pervenute le seguenti elargizioni:
Furlan Giordano in memoria del
fratello Oliviero euro 10,00 a favore
del Circolo buiese “Donato Ragosa”
7
ed euro 10,00 a favore de “La nuova
Voce Giuliana”;
Annamaria Bologna in memoria di
Mariuccia Bologna euro 50,00 a favore de “La nuova Voce Giuliana”;
Elia Barzilai in memoria del marito Stefano Lonza euro 20,00 a favore
de “La nuova Voce Giuliana”;
Palisca Tommaso Marco in
memoria di Marco Palisca euro
30,00 a favore de “La nuova Voce
Giuliana”;
Ida Travan in memoria del
marito Livio Travan dollari USA
200,00 a favore de “La nuova Voce
Giuliana”;
Gemma Ritossa in memoria della
sorella Virginia euro 20,00 a favore
de “La nuova Voce Giuliana”;
Germana Buttignoni Nota in
memoria della figlia Patricia e dei
cugini Jole, Fulvia e Piero dollari
USA 100,00 a favore de “La nuova
Voce Giuliana”;
Maria Zanevra in memoria del
marito Vittorio euro 30,00 a favore
de “La nuova Voce Giuliana”;
Aldo e Lucio Mendicovich in
memoria dei propri genitori euro
20,00 a favore de “La nuova Voce
Giuliana”;
Guido Maraston in occasione
della laurea del figlio Stefano euro
50,00 a favore de “La nuova Voce
Giuliana”;
Pasqua Baldini euro 30,00 a favore della Comunità di Cittanova;
Lidia Agostinis per ricordare il
marito Renato Tulliani euro 15,00 a
favore della Comunità di Cittanova;
Gisella Antonini in memoria dei
propri defunti euro 10,00 a favore
della Comunità di Buie Circolo
“D.Ragosa” ed euro 10,00 a favore
de “La nuova Voce Giuliana”;
Annamaria Kalebich euro 50,00 a
favore de “La nuova Voce Giuliana”;
Luigia Perossa euro 30,00 a favore
de “La nuova Voce Giuliana”;
Marino Sain euro 50,00 a favore
de “La nuova Voce Giuliana”;
Adriana Baccara euro 30,00 a favore de “La nuova Voce Giuliana”;
Giuseppe Livraghi euro 80,00 a favore de “La nuova Voce Giuliana”.
Elargizioni pervenute direttamente alla Comunità di Buie pro
calendario:
Gisella Antonini;
Gemma Druscovich in Moratto.
Si ringraziano sentitamente i
generosi oblatori.
VOLONTARI GIULIANI DA RICORDARE
NEL 150° DELL'UNITÀ D'ITALIA
CARLO STUPARICH
Nato a Trieste il 3 agosto 1894, studente in “belle lettere”, aderente
al movimento di riscossa letteraria che faceva capo alla “Voce” di
Firenze, si stava rivelando come una vera promessa in questo
campo. Suo fratello Giani raccolse molti suoi scritti nel volume
“Cose e ombre di uno”, rivelandone la magnifica vena.
E proprio col fratello Giani, con Scipio Slataper e con altri triestini, si arruolò a Roma, il 29 maggio 1915, nel 1° Reggimento
Granatieri, nel quale raggiunse il grado di sottotenente.
Il 30 maggio dell’anno dopo, sul Monte Cengio, assediato
dagli austriaci, dopo aver visto distrutto quasi tutto il suo
reparto, piuttosto di cadere vivo in mano al nemico, si dette
la morte. Il suo corpo non venne ritrovato e alla sua memoria
venne decretata la medaglia d’oro al valor militare, con la seguente motivazione: “Nobilissima tempra di soldato, volontario
dall’inizio della guerra, si votò con entusiasmo alla liberazione
della terra natia. Comandante di una posizione completamente
isolata, di fronte a forze nemiche soverchianti, accerchiato da tutte
le parti, senza recedere di un passo,
sempre sulla linea del
fuoco, animò e incitò i dipendenti, fulgido
esempio di valore, finché, rimasti uccisi o feriti
quasi tutti
i suoi uomini e finite le munizioni, si diede la morte per non cadere
nemico nelle mani dell’odiato avversario” – Monte Cengio 30
maggio 1916.
EDOARDO TIENGO
Nato a Pola il 12 ottobre 1893, di professione tappezziere,
si arruolò volontario il 24 maggio 1915 al 27° Reggimento
Fanteria, passando poi al 44°. Cadde a Plava il 2 giugno
1916 meritando la croce di guerra.
GUIDO BRUNNER
Figlio di Rodolfo, nacque a Trieste il 19 febbraio 1893.
Studente, splendida e audace figura di patriota, si arruolò
volontario il 24 maggio 1915 nel “Lancieri Firenze” passando
poi al 20° Cavalleria Roma. Cadde l’8 giugno 1916
a Montefior, al comando
di un
plotone della Brigata Sassari,
ma la
sua
salma non poté essere
recuperata.
Per il suo contegno sul Carso,
nel novembre
1915 era già stato decorato con la medaglia di bronzo (motivazione: “Quale ufficiale d’ordinanza, in ripetute azioni disimpegnava il suo mandato con entusiastico slancio, sprezzo del
pericolo e profondo sentimento di abnegazione, riuscendo a
coadiuvare con efficacia il comando e dimostrando elevatissimo sentimento del dovere”); per l’azione di Montefior gli
venne assegnata la medaglia d’oro al VM, con la seguente
motivazione: “Comandante di plotone nella difficile e contrastatissima difesa di Monte Fior – conscio della suprema
importanza del momento – resistette impavido, sulla linea
del fuoco per dodici ore, dirigendo ed animando del suo
entusiasmo il proprio reparto ed altri rimasti senza ufficiali,
sempre audace, sereno, instancabile, finché, colpito al cuore,
cadde gridando: “Qui si vince o si muore, viva l’Italia!”.
A Guido Brunner è intitolata la scuola secondaria di 1° grado di
Roiano, che fa parte dell’Istituto Comprensivo in cui si trova anche
quella di Gretta, che ricorda invece il nome di Piero Addobbati, morto
per l’italianità di Trieste nel novembre del 1953.
MARCO CARVIN
Nato a Cherso il 25 aprile 1894, studente, si arruolò volontario il 29 maggio 1915 al 47° Reggimento Fanteria.
Passato poi in Artiglieria e nominato sottotenente, fu trasferito al 21° Reggimento Artiglieria da campagna. Cadde
sul S. Michele il 6 giugno 1916. Ottenne la croce al merito di guerra.
La nuova Voce Giuliana
8
1 giugno 2011
Istria, Fiume e Dalmazia
profilo storico
Premessa
Con la Legge 30 marzo 2004 n.
92, «La Repubblica riconosce il 10
febbraio quale Giorno del Ricordo al
fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle foibe, dell’esodo
dalle loro terre degli istriani, fiumani
e dalmati nel secondo dopoguerra e
della più complessa vicenda del confine orientale».
La data del 10 febbraio è stata scelta
per ricordare il giorno in cui a Parigi,
nel 1947, venne firmato il Trattato di
pace in conseguenza del quale venne
sancita la cessione di buona parte della
Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito
e l’abbandono di numerose città della
sponda orientale dell’Adriatico dove
l’elemento italiano era percentualmente maggioritario.
La situazione geo-politica attuale
La situazione geopolitica attuale
dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia
deriva dalla dissoluzione della
Jugoslavia, avvenuta gradualmente a partire
dal 1991, con la
conseguente nascita delle nuove
Repubbliche di
Slovenia e di
Croazia, le quali
si dichiararono
Stati sovrani ed
indipendenti il
25 giugno 1991,
ma ottennero il
riconoscimento
della comunità
internazionale
solo l’anno successivo. L’Italia
riconobbe ufficialmente le
due nuove Repubbliche il 15
gennaio 1992. La maggior parte dei
territori ex italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia appartiene oggi
alla Croazia, mentre solo una piccola
parte dell’Istria settentrionale è sotto
la sovranità slovena. La nascita dei
due nuovi Paesi ha perciò portato alla
creazione di un nuovo confine in Istria,
dividendo in due distinti tronconi un
territorio che ha avuto per secoli una
storia comune.
I. L’epoca romana
Le regioni situate intorno alla fascia
costiera dell’Adriatico settentrionale
ed orientale iniziarono ad essere abitate
in maniera stanziale diverse migliaia
di anni prima di Cristo. La posizione
geografica dell’area altoadriatica, a
cavallo tra l’Italia e la penisola balcanica, rappresentò un punto d’incontro
tra genti e culture diverse che nel corso
dei secoli si sono stratificate sul territorio. La presenza, in epoca preromana,
di popolazioni paleovenete, nonché
degli Istri, dei
Giapidi, dei Celti, degli Illiri e dei
Liburni contribuì
a determinare la
peculiarità della
zona.
Roma si affacciò gradualmente nell’Adriatico
settentrionale ed
orientale verso il III secolo
a.C., con i primi
contatti con le
popolazioni locali degli Istri
e dei Liburni.
Nel 221 a.C. una
prima spedizione
militare romana
giunse in Istria
e nei decenni
successivi, con
altre campagne
di guerra (le più
importanti nel
178-177 a.C.), la
conquista dell’intera regione venne completata.
La fondazione
di Aquileia (181 a.C.) e delle successive colonie di Tergeste (Trieste) e di
Pola posero le basi per la profonda
romanizzazione dell’intera Italia
nord-orientale, che ai tempi di Augusto venne nominata «Decima Regio
Venetia et Histria». La Dalmazia è
provincia romana a pieno titolo dal 33
a.C. I traffici ed i commerci tra l’Istria
e le altre terre romane divennero via
via fiorenti e ben presto gli abitanti
della costa settentrionale ed orientale
dell’Adriatico assorbirono gli usi,
le consuetudini, i culti e la lingua di
Roma. Notevole tracce architettoniche
della presenza romana sono visibili
ancora oggi in Istria, come l’Arena, il
Tempio di Augusto, Porta Gemina e
l’Arco dei Sergi a Pola, l’Arco Romano
L'Arena romana di Pola
a Fiume e in Dalmazia con il foro di
Zara, con le imponenti rovine di Salona e con il Palazzo di Diocleziano
a Spalato.
II. L’epoca medievale
Caduto nel 476 d. C. l’Impero Romano d’Occidente, l’Istria finì, come
gran parte dell’Italia, sotto i Goti di
Teodorico. Essa fu poi bizantina dal
538 al 778, quando subentrarono i
Franchi di Carlo Magno.
Nel periodo successivo la penisola
istriana si configurò come un’area di
scambio e di incontro tra il mondo
mediterraneo e quello alpino e centroeuropeo. Nei secoli a cavallo del Mille
le cittadine della costa occidentale
dell’Istria, che nel tempo si costituirono in Comuni, dovettero, oltre
che difendersi
dalle incursioni
dei pirati saraceni e narentani, confrontarsi
politicamente
con il crescente
potere di Venezia (che diventò
dominante dopo
l’anno Mille con
la campagna navale del doge
Pietro Orseolo
II) e con le varie
casate germaniche feudatarie
dell’Impero.
La caduta, negli anni 14201421, del potere
temporale del
patriarcato di
Aquileia, stabilizzò la situazione politica
dell’Istria, ripartita da quell’epoca tra un predominante
dominio veneziano nella parte costiera
ed occidentale e quello imperiale
asburgico esercitato nella parte interna
ed orientale della penisola.
Fiume, durante il Medioevo, fu un
piccolo borgo marittimo posto ai limiti
del feudo e poi capitanato di Castua,
piccola signoria acquisita anch’essa
dagli Asburgo alla fine del Quattrocento. La città si sviluppò, nei secoli
successivi, acquisendo una crescente
importanza commerciale.
La Dalmazia subì l’invasione slava
tra i secoli VI e VII d. C., riducendosi
alle sole città della costa ed alle isole,
dove ci fu una certa continuità politica
bizantina fino al XII secolo. Le città
distrutte furono ricostruite in luoghi
più sicuri. Così fu per Salona, la
seconda città dell’Adriatico, distrutta
nel 614, che diede vita a Spalato nel
vicino palazzo di Diocleziano.
Attorno all’anno Mille anche i Comuni dalmati si svilupparono come
nella dirimpettaia penisola italiana e,
per tutelare la propria autonomia, si
destreggiarono tra la Repubblica di
Venezia e il Regno di Ungheria (che
aveva conquistato la Croazia nel 1102),
che prevalse solo dal 1358 al 1409. Fra
quest’ultimo anno e il 1432 i veneziani
acquisirono in maniera stabile la costa
e le isole dalmate, attraverso gli atti
di dedizione delle città, ad eccezione
della Repubblica di Ragusa, che restò
indipendente fino al 1808.
Durante la seconda metà del Quattrocento, alla controparte ungherese
subentrò quella ottomana, che cercava
di raggiungere il mare per invadere poi
la penisola italiana. La lotta tra Venezia
e l’impero turco durò più secoli e le
città dalmate – fortificate dai migliori
architetti del Rinascimento – rappresentarono il vero antemurale della
Cristianità. Alla battaglia di Lepanto
presero parte numerose loro galee. Nel
frattempo Venezia accoglieva nei suoi
testi e immagini di Guido Rumici
Pola, Tempio di Augusto
possedimenti popolazioni cristiane di
origine slava, che fuggivano le persecuzioni ottomane. Nel Settecento
il conflitto si attenuò, la Repubblica
veneta acquisì anche territori della
Dalmazia interna e vi introdusse i primi
elementi di una riforma agraria.
III. L’epoca veneziana
Fra il IX e il X secolo d. C. il nascente
Stato veneziano inizia
a far sentire la sua
influenza sulle coste
orientali dell’Adriatico.
La potenza di Venezia fu prevalentemente
commerciale e le coste
dell’Istria e della Dalmazia divennero ben
presto indispensabili
per i suoi traffici mercantili verso il Levante.
Venezia estese gradualmente il suo dominio
alle principali località
dell’Adriatico Orientale
e dell’interno dell’Istria.
Molte cittadine dapprima furono obbligate
ad un vero vincolo
di vassallaggio (come
Capodistria nel 932);
poi, successivamente,
prestarono giuramento di fidelitas verso la
Serenissima (come
Pola nel 1145). Nel
tempo il rapporto tra
Venezia e le città della
costa istriana assunse
la forma di protettorato, che si estese
anche verso le zone
dell’entroterra.
Nel 1267 la dedizione di Parenzo sancì
l’ulteriore penetrazione politica e militare
di Venezia in Istria,
che si estese ancor di
più nel 1420 con la
dedizione di Albona,
Muggia e Fianona. La
Serenissima governò
l’Istria e la Dalmazia
per altri quattro secoli,
fino alla caduta della
Repubblica e al trattato di Campoformido
(1797). I segni della
presenza veneziana
sono ancora oggi evidenti in tutto l’Arco
Adriatico: i palazzi pubblici e privati,
le piazze e le calli, le fortificazioni e il
Leone di San Marco è ancora visibile
in molte località istriane e dalmate.
IV. Il periodo austroungarico (17971918)
Dopo la pace di Campoformido
(siglata tra Napoleone e gli Asburgo), che segnò la fine della secolare
presenza veneziana in Istria e in
Dalmazia, iniziò l’epoca austriaca,
che andò dal giugno 1797 all’ottobre
1918, con una piccola parentesi napoleonica tra il 1806 ed il 1813.
L’arrivo degli austriaci in Istria,
peraltro già presenti nella parte più
interna della penisola, portò diverse
trasformazioni sociali ed amministrative. Il centro di gravità della regione
si spostò da Venezia a Trieste, che
ne ereditò tutte le funzioni. Dopo la
battaglia di Austerlitz, nell’ambito
della pace di Presburgo (1805), il Veneto, l’Istria e la Dalmazia passarono
dal dominio asburgico a quello di
Napoleone, imperatore dei Francesi.
Nel marzo 1806 Napoleone aggregò
ufficialmente l’Istria e la Dalmazia al
Regno d’Italia. Dopo alterne vicende, i
francesi rimasero sulla costa orientale
dell’Adriatico sino al 1813, quando
gli austriaci ripresero il controllo
della penisola istriana e della costa
dalmata.
La nuova amministrazione asburgica portò un’efficiente burocrazia
e un senso dello Stato che si innestò
sul substrato civile e culturale lasciato
dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Verso la metà del secolo XIX
divenne tuttavia irreversibile la presa
di coscienza nazionale di strati sempre
più ampi delle popolazioni italiane,
slovene e croate residenti all’interno
dell’impero asburgico, che nel 1867
si trasformò nella duplice monarchia
austro-ungarica.
I fatti del 1848-1849, la nascita
del Regno d’Italia (1861), la terza
guerra d’indipendenza, la mutata
politica di Vienna verso le diverse
nazionalità, furono alcuni dei fattori
che contribuirono a creare tensioni
tra le etnie italiane, croate e slovene,
in precedenza vissute in un clima di
tranquilla convivenza. Di fatto, nella
seconda metà dell’Ottocento, le lotte
nazionali riguardarono soprattutto
le élite politiche e culturali italiane
e slave mentre, in buona parte della
popolazione istriana e dalmata, il
rispetto dell’autorità costituita e
dello Stato, il culto della giustizia,
l’attaccamento alle tradizioni locali e religiose attutirono il livello
dello scontro che stava iniziando a
delinearsi.
(continua)
Veglia
La nuova Voce Giuliana
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n. 241 - 1 giugno 2011