FORME E TECNICHE DI ATTENZIONE RIVOLTA ALLA MORTE
Vito Ferri
Psicologo
Istituto "W. James"
INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, n° 32-33, pagg.78-85, settembre 1997
- aprile1998, Roma
Gli uomini che non comprendono la vita non amano parlare della morte.
Lev Tolstoj
1. L’attenzione nelle pratiche psicoterapeutiche
Le pratiche fondate sul controllo e sulla disciplina dell’attenzione, con lo scopo di liberare la persona da stati
penosi e patologici, non nascono con le psicoterapie moderne, ma vengono elaborate e strutturate nel corso dei
secoli, sia nella cultura occidentale, sia in quella orientale. L’attenzione rivolta ai sogni, alle fantasie, al proprio
corpo, al futuro, alle proprie emozioni e a quelle degli altri, ecc., è presente in gran parte, se non in tutti gli
approcci psicoterapeutici: cambia la struttura di sostegno teorico, cambia la focalizzazione su questo o
quell’oggetto, ma l’uso dell’attenzione in psicoterapia è comunque imprescindibile; non riguarda solo il paziente,
ma anche il terapeuta (si pensi all’attenzione fluttuante descritta da Freud). La teoria che orienta una
psicoterapia, addita l’oggetto, iltarget, il focus, l’obiettivo significativo da porre al centro dell’attenzione, mentre
la pratica "gestisce" e guida l’attenzione con varie tecniche, fissandola su quello che abbiamo genericamente
chiamato oggetto, oppure, a seconda dei casi, allontanandola da esso.
Uno dei più frequenti, ma al tempo stesso elusivi oggetti dell’attenzione, è da sempre e in tutte le culture la
morte.
2. La morte come oggetto dell’attenzione
La morte come oggetto dell’attenzione viene condotta al centro della riflessione umana attraverso tre canali, già
evidenziati da S. Freud (1915): la morte dell’altro (estraneo o nemico), la morte delle persone care e la morte
propria. Per quanto riguarda quest’ultima, se è vero che non è pienamente pensabile o "credibile", è però
possibile dirigere l’attenzione verso la sua possibilità più che sulla sua ineluttabilità o irreversibilità, se non
addirittura "essenza". In altre parole, si può pensare, e quindi farne oggetto dell’attenzione, non tanto alla
propria morte in senso lato, ma alla sua possibilità, concepita e concepibile attraverso la morte dell’estraneo, il
dolore per il lutto, la malattia, la carestia, la sofferenza, la vecchiaia, gli incidenti, il suicidio, l’aldilà, la rottura di
legami, la perdita di ciò che si possiede, le grandi questioni bioetiche, il rapporto col divino, ecc. Uno o più d’uno
di questi "fuochi" possono diventare oggetti privilegiati di attenzione entro un sistema strutturalmente coerente
(es. una religione; un approccio psicoterapeutico ecc.) e culturalmente (o sub-culturalmente) legittimato a tale
scopo. Pertanto, la morte (in senso lato), o un suo oggetto (in senso stretto), diventa di volta in volta tema di
meditazione, di riflessione filosofica, di pensiero focalizzato, di preghiera, di rappresentazione artistica, ecc.
Queste pratiche, disciplinando l’altrimenti morbosa, irrelata e "selvaggia" attenzione alla morte, aiutano a
"pensarla"; suscitano il vissuto che "qualcosa di sensato si può fare" di fronte alla morte; limitano al massimo le
forme di disagio e patologia che essa indurrebbe: ansia, ruminazione del pensiero, macerazione interiore,
pensiero ossessivo, fobie, aggressività, ecc. Se è vero che ci sono forme patologiche legate all’attenzione
morbosamente rivolta alla morte, è anche vero il contrario, ossia esistono patologie indotte da un incessante e
rigido allontanamento dell’attenzione da tutto ciò che ricorda, anche vagamente, la possibilità della propria
morte (Becker, 1982; Bauman, 1992). Molte difese psicologiche sono messe in atto per soffocare l’urlo sordo
dell’angoscia, e con esso il pensiero della possibilità della morte, dando origine a nevrosi (Meyer, 1973) o a
condotte quali: l’eroismo esaltato, la ricerca del piacere fine a se stesso, l’esposizione a pericoli, il "giocare" con
la vita degli altri, o, paradossalmente, alcune forme di suicidio.
Esaminiamo quindi alcune delle più significative discipline, pratiche, rituali o "tecnologie" dell’attenzione rivolta
alla morte, cercando di inserire ognuna di esse entro un orizzonte di significato o struttura simbolica dinamica,
culturalmente determinata, e identificando gli oggetti specifici dell’attenzione e lo scopo della pratica.
Limiteremo la nostra analisi alla cultura occidentale, anche se esempi di tecniche sofisticate di gestione e
focalizzazione dell’attenzione sulla morte, ci provengono dalle millenarie tradizioni delle religioni orientali (due
esempi tra i tanti sono la Marana-Sati: ossia contemplazione e consapevolezza della morte e il Bardo Thödol: "La
Grande Liberazione nell’Udire nel Bardo" detto anche "Libro tibetano dei morti").
La riflessione filosofica sulla morte
"Né il sole né la morte si possono guardar fissamente", ammoniva La Rouchefoucauld (Maximes, 26), ma forse
non c’è nulla da guardare, la morte in sé è un nulla, sosteneva Epicuro. Se restiamo sul piano della metafora di
La Rouchefoucauld, possiamo affermare che l’uomo ha escogitato dei sistemi per guardare il sole fissamente
usando cioè dei filtri e ha potuto anche guardarlo "indirettamente", fissando lo sguardo sui suoi confini (il cielo
circostante) e i suoi effetti (luce, calore, colori, ecc.). L’uomo ha escogitato filtri filosofici attraverso cui fissare la
morte (intesa come non-esserci-più, come nulla) e inoltre ha potuto esplorare ciò che le sta attorno: i processi
della vita, la malattia, i pericoli, e così via fino ad includere tutti quelli che abbiamo già definito come "oggetti
dell’attenzione alla morte". Nell’età classica latina, la speculazione filosofica degli stoici sulla morte, viene
tradotta in "pratica" da Lucio Anneo Seneca (4-65 d.C.). Questo filosofo sostiene che la paura della morte
sarebbe più o meno diretta responsabile di tutte le altre paure, liberandoci da essa otterremmo la liberazione da
ogni altra paura. L’attenzione alla propria morte è dunque una via di liberazione e Seneca traccia i sentieri che
tale pensiero deve percorrere: "non solo non c’è da temere la morte, ma la sua meditazione ci consente di non
temere più niente" (Epist. III, 24, 1-26). Bisogna pensare spesso alla propria morte, consiglia Seneca, tenendo
"l’anima sempre pronta a partire [...]. Non è incerta la morte: incerto è solo il tempo della morte. Andiamo
incontro ad essa senza pregare né temere né indietreggiare. Armiamoci contro questo timore che ci rende vili e
c’intossica e ci rovina la vita" (1980, p.95). Oggetto di attenzione può essere una malattia acuta o cronica che il
saggio utilizzerà come un’occasione per allenarsi a morire, in modo da essere pronto nel momento in cui
giungerà la morte (Epist., VI, 54, 1-7). La tecnica di Seneca mira a minimizzare la carica di emozioni negative
indotte dal pensiero della morte, rendendola familiare. Seneca suggerisce di pensare che la morte non è davanti a
noi, ma dietro, è il nostro passato, "moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita;
anche quando il nostro organismo cresce, la vita decresce" (ivi). Un’altra tecnica suggerita da Seneca, ma molto
diffusa alla sua epoca e, come vedremo, recuperata dal cristianesimo attraverso l’attenzione rivolta alla morte di
Cristo, dei martiri e dei santi, è quella di ricordare e prestare attenzione a "casi esemplari". Modelli preferiti da
Seneca sono ad esempio Catone l’Uticense e Cecilio Metello Scipione, morti suicidi con grande coraggio e dignità.
La tecnica dei casi esemplari da rievocare e imitare, era preferita anche da Michel de Montaigne (1533-1592) il
quale però prestava attenzione alle modalità bizzarre e inconsuete in cui la morte poteva accadere: "Eschilo,
minacciato dal crollo di una casa ha un bello stare all’erta: eccolo accoppato dal guscio di una tartaruga sfuggita
dagli artigli di un’aquila in volo. Un altro morì per un acino d’uva; [...] Emilio Lepido per aver inciampato nella
soglia dell’uscio di casa sua; [...] e fra le gambe delle donne, il pretore Cornelio Gallo, Tigellino; [...] Caio Giulio,
medico, mentre unge gli occhi di un paziente, ecco che la morte gli chiude i suoi. [...]" (Essais, I, 20). Per
Montaigne il nostro morire o la morte dei cari ci intossica la vita perché lo pensiamo come se si trattasse di un
incidente, di un eccezione, di un evento che non ci toccherà mai. Quando poi accade, per noi o per i nostri cari e
ci sorprende "all’improvviso e alla sprovvista, che tormenti, che grida, che dolore e che disperazione [...]!" (ivi),
dunque bisogna rendere incessante il pensiero della morte: "Togliamogli il suo aspetto di fatto straordinario,
pratichiamolo, rendiamolo consueto, cerchiamo di non aver niente così spesso in testa come la morte. Ad ogni
istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. All’inciampar di un cavallo, al cader
d’una tegola, alla minima puntura di spilla, mettiamoci immediatamente a rimuginare: "Ebbene, quand’anche
fosse la morte medesima?"; e a questo pensiero teniamoci saldi e facciamoci forza. In mezzo alle feste e alla gioia,
abbiamo sempre in mente questo ritornello del ricordo della nostra condizione, [...] così facevano gli Egizi che,
nel bel mezzo dei loro festini e delle loro gozzoviglie, facevano portare lo scheletro d’un morto, perché servisse di
ammonimento ai convitati" (ivi). Quest’ultimo riferimento di Montaigne all’oggetto di attenzione utilizzato dagli
Egizi, ci permette di introdurre un’altra tecnica di incanalamento dell’attenzione sul tema della morte, si tratta
dell’uso di raffigurazioni pittoriche, perlopiù di età barocca, riguardanti lacaducità di tutto ciò che riteniamo
solido e durevole: dalla gioventù, al fiore; dalla gioia, all’abito di lusso. Gli oggetti dell’attenzione questa volta
sono teschio e tibie, clessidra, armatura arrugginita e libro ingiallito. I simboli delle Vanità escono dai dipinti per
diventare monili e gioielli: "Savonarola raccomandava di portare su di sé una testina di morto in osso da
guardare spesso" (Ariès, 1977, p.382), oppure frasi da incidere o dipingere ben in vista sulle travi o sulle pareti
domestiche, del tipo:Memento mori; Respice finem; Dubia omnibus [hora] ultima; Per omnia vanitas.
In tempi recenti, la penna velenosa e spudorata del pensatore rumeno Emile Cioran (1911-1995), ha più volte
scritto, in forma aforistica, della necessità di pensare alla propria morte utilizzando immagini concrete e "crude"
(com’è nello stile dello stesso Cioran); citiamo un esempio: "Per vincere il panico o una inquietudine tenace non
c’è nulla di meglio che immaginare la propria sepoltura. Metodo efficace, alla portata di tutti. Per non dovervi
ricorrere troppo spesso durante la giornata, la cosa migliore sarebbe provarne il beneficio fin dal risveglio.
Oppure farne uso solo in momenti eccezionali, come il papa Innocenzo IX, il quale, avendo ordinato un quadro
che lo raffigurava sul letto di morte, vi gettava uno sguardo ogni volta che doveva prendere una decisione
importante" (1973, p.110). Non meno diretto e nichilista è Miguel De Unamuno (1864-1932) il cui terrore del
nulla non gli impedisce di praticare e consigliare la meditazione sulla morte: "Per quanto, sul principio, ci sia
angosciosa questa meditazione sulla nostra mortalità, ci risulta infine corroborante. Raccogliti in te stesso,
lettore, pensa al lento disfacimento di te stesso: la luce ti si spegne, le cose si fanno mute e non danno più suono
fasciandoti nel silenzio, ti si struggono tra le mani gli oggetti, ti scivola via il terreno da sotto i piedi, svaniscono
come in un deliquio i ricordi, tutto si va dissolvendo nel nulla e tu stesso ti dissolvi e non ti rimane neppure la
coscienza del nulla, sia pure come fantastico appiglio ad un’ombra. [...] Il rimedio è confrontarsi faccia a faccia,
fissando lo sguardo nello sguardo della sfinge; è così che si spezza il suo incantesimo" (1913, pp.46-47).
3. La meditazione cristiana sulla morte e l’ars moriendi
Il pensiero della morte è stato da sempre additato dal Cristianesimo come una via da seguire con perseveranza e
per tutto il corso della vita. Già nella Bibbia echeggia ripetutamente l’ingiunzione: "Ricordati che sei cenere e
che cenere diventerai" (Giobbe, 34,15) e Gesù invita alla vigilanza serena e attiva, a tenersi sempre pronti alla
morte: "Vigilate, dunque, poiché non sapete né il giorno né l’ora" (Mt, 25,13). La letteratura cristiana antica è
un intrecciarsi di insegnamenti, preghiere e tecniche di meditazione sulla morte; per Giovanni Crisostomo (IV
sec. d.C.) le parole di Qohelet, Vanità immensa: tutto è vanità (Qo 1,2) "andrebbero incise da ogni parte, sulle
mura, sugli abiti, in piazza, nelle case, nelle strade, sulle porte, negl’ingressi, e prima di tutto nella coscienza di
ciascuno, oggetto di riflessione. Gl’inganni, le finzioni e l’ipocrisia sembrano a molti verità; perciò ogni giorno, a
pranzo e a cena, nelle conversazioni, bisogna che ognuno di noi ricordi a chi gli sta vicino, e da lui ascolti a sua
volta, che "vanità delle vanità, tutto è vanità"" (pp.71-72). Potremmo continuare con citazioni di Sant’Agostino,
Sant’Ambrogio di Milano, Origene e altri Padri della Chiesa, alla fine ci accorgeremmo che c’è un filo comune
che attraversava i loro scritti, una preoccupazione più o meno esplicita, è come se l’attenzione portata
continuamente sulla propria condizione di "essere morente", di "vanità tra le vanità", mitigasse le pulsioni
sfrenate dell’"essere vivente", moderasse la cieca esplosione delle passioni e di ogni vizio, in una parola, limitasse
le spinte verso il peccato: "Ricorda la tua fine e cessa di odiare, pensa alla morte e alla corruzione e persevera nei
precetti", ammonisce l’Ecclesiastico (28, 6). Il peccato, insieme all’attenzione attratta da ciò che è caduco,
porterebbero l’uomo a illudersi di vivere eternamente, quando invece tutto è vano nel mondo, tutto è
impermanente. Il pensiero rischia di perdersi nella selva del peccato e quindi va salvato "addomesticandolo", va
reso docile e moderato attraverso il pensiero della morte. A tale proposito, frate Heitor Pinto (?-1584), uno dei
più importanti autori della letteratura religiosa portoghese, scrive nel suo Dialogo sul pensiero della morte: "Il
pensiero [...] devi tenerlo imprigionato come schiavo fuggitivo e tenerlo occupato in santi esercizi. Quando ti
sfugga, un buon rimedio per riprenderlo e metterlo a posto è precisamente il ricordo della morte [...]. Devi
riflettere e dire a te stesso: "Io cammino verso la morte, vado al giudizio, dovrò render conto della mia vita [...]".
Su queste cose devi spesso meditare e devi ogni giorno comportarti come se sapessi che debba essere l’ultimo
della tua vita: devi tenere sempre la tua fine innanzi agli occhi. Insomma, se vuoi essere chi devi essere, ricordati
di ciò che devi essere, perché il pensiero della morte ti farà considerare chi sei [...]. Conoscendo la natura delle
cose del mondo, viviamo senza conoscere noi stessi: ma, prendendo in mano lo specchio del pensiero della morte,
guardandolo, vediamo in esso noi stessi" (1572, pp.999-1000).
L’importanza della attenzione alla morte in ambito cristiano, trova la sua forma disciplinata e popolare nella
pratica codificata dell’Ars moriendi.
L’Ars moriendi è un genere letterario diffuso in Europa tra il basso Medioevo e il Rinascimento (con qualche
esempio più tardo anche nel ’600 e ‘700). Si contano circa trecento opere, "[...] opuscoli ascetico-spirituali,
originariamente in latino, contenenti esortazioni e preghiere, talvolta corredati anche di illustrazioni e didascalie,
per la preparazione alla morte" (Autiero, 1984, p.12). Tali "manuali" erano destinati sia al popolo che ai
letterati.
Si conoscono tre forme di Ars Moriendi: la prima riguarda le "cinque tentazioni" contro altrettante virtù (fede,
speranza, pazienza, umiltà e generosità). Se il morente fosse riuscito a superarle, si pensava che la sua anima
sarebbe stata portata in cielo dagli angeli.
La seconda forma è un insieme di preghiere e meditazioni sulla morte che devono recitare coloro che assistono il
morente.
La terza forma infine, è una serie di citazioni bibliche con commenti e considerazioni sulla morte.
Possiamo meglio comprendere l'importanza della diffusione di queste opere, se le collochiamo all'interno di una
più ampia moda letteraria in voga a quei tempi. Infatti allora si stampavano veri e propri manuali praticodidascalici (da cui il nome "ars") su modi di comportarsi in varie situazioni e vicende della vita: sul galateo, sul
corteggiamento, sull'istruzione, ecc. Quindi la morte diveniva oggetto di attenzione in quanto argomento da
manuale, e non è una battuta umoristica se si pensano i testi di Ars moriendi come veri e propri vademecum per i
morenti e per chi li assiste (non mancano a tale proposito esempi anche più recenti, come un libricino tascabile
del 1841, intitolato: Il sacerdote provveduto per l’assistenza dei moribondi). Dunque, può essere di sollievo non
tanto il fatto che si possono evitare le pene dell’inferno morendo bene, ma il fatto stesso che anche il morire può
divenire oggetto di apprendimento come il ben parlare e scrivere o il ben servire a tavola.
Tra i più importanti trattati italiani di Ars Moriendi ricordiamo: De modo bene moriendi (P. Barozzi,
1531), Dottrina del bene morire (Pietro di Lucca, 1520), De arte bene moriendi (S. Roberto Bellarmino,
1621), Peregrino della terra ovvero apparecchio per la buona morte, (V. Caraffa, 1645) e Apparecchio alla morte (S.
Alfonso M. De Liguori, 1762). Uno dei più autorevoli autori stranieri è Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Nella
sua famosa opera di Ars Moriendi: De praeparatione ad mortem, del 1534, egli cita due "rimedi" contro la paura
della morte. Il primo invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della vita per rendersi conto della sua
caducità e di quanto essa sia piena di preoccupazioni e dolori. "L'infanzia innocente, la fuggevole adolescenza, la
gioventù bruciata, la precoce vecchiaia: cos'è tutto ciò se non un punto rispetto a quell'eternità verso la quale
andremo se saremo vissuti pienamente, o che ci sarà negata se saremo vissuti empiamente? La seria riflessione su
tutte queste cose è un gran rimedio contro la paura della morte" (p.51).
Il secondo rimedio si basa maggiormente sulla fede in Dio che "[...] ha trasformato la morte, che prima era
passaggio agli inferi, [...] ora è ingresso a celesti delizie. [...] Cristo ha reso certissima la speranza che i nostri
corpi risorgeranno nell'ultimo giorno e che, glorificati, riceveranno ognuno la propria anima, per il loro eterno
gaudio" (ibidem).
L’Ars Moriendi propone anche rimedi per liberarsi dalla paura della "seconda morte", la morte spirituale, che
conduce alle pene eterne dell'inferno. Per superare questa paura bisognerebbe vivere seguendo i comandamenti
divini, e ciò rende chiara la finalità dell’Ars moriendi come educazione alla vita: Ars vivendi.
Considerazioni psicologiche
Le tecniche fin qui descritte, rappresentano un minuscolo frammento della varietà di strategie per "pensare la
morte" che la nostra cultura ha saputo realizzare; non è escluso che in futuro ne crei di nuove o modifichi quelle
esistenti in funzione delle sempre più magmatiche riconfigurazioni a cui va incontro la cultura occidentale postmoderna. Rileggendo le tecniche tradizionali di attenzione alla morte, possiamo formulare alcune considerazioni
di carattere psicologico o psicodinamico.
Possiamo iniziare osservando la presenza del processo del modellamento alla base di molte tecniche di
spostamento dell’attenzione sulla morte: si tratta di modelli positivi da imitare (es. meditare sulla morte di Gesù)
o negativi da evitare (es. un criminale giustiziato pubblicamente). Appare altresì chiaro il processo
di desensibilizzazione: a lungo andare il reiterato pensiero circa la possibilità della propria morte, diventa
familiare, emotivamente neutro, e quindi accettabile e meno ansiogeno; cioè accettando il "pensiero" si finisce
per accettare la "morte" o comunque, la si crede effettivamente pensabile o affrontabile. La familiarizzazione si
può raggiungere anche attraverso la visione prolungata e culturalmente "disciplinata" di cadaveri (come avviene
in alcune meditazioni del Buddhismo tibetano) o attraverso continui pellegrinaggi alle tombe di santi le cui
spoglie a volte sono visibili attraverso un cristallo o partecipando a riti funebri o a feste tradizionali (carnevale,
Halloween, ecc.). Non è escluso che una progressiva familiarizzazione con morte, possa essere raggiunta da molti
narratori o saggisti proprio scrivendo opere sulla morte e il morire. In questo caso la scrittura sarebbe una
tecnica per tener ferma l’attenzione sul tema della morte. Scrivere sulla morte, anche se si scrive un trattato per
dimostrare che essa è impensabile e che non può essere oggetto di attenzione, è esso stesso un esercizio di
attenzione alla morte! A rigore di logica, chi è fermamente convinto che la morte sia impensabile o comunque
che sia un aspetto della vita a cui è meglio non pensare, non scriverà mai un libro su di essa.
La riflessione sulla morte consente di riconoscerla come costitutiva della vita e non solo come l’evento finale, di
cui non faremo mai pienamente esperienza. La morte mette in primo piano la temporalità della vita. Riflettere
sulla morte è riflettere sul tempo e sulla natura temporale dell’essere umano. L’attenzione alla morte è
attenzione al proprio futuro, e il futuro è una dimensione fondamentale per la propria vita, per ogni condotta,
per ogni motivazione. La morte come evento biologico è la fine di ogni futuro, tracciandone i confini, la morte lo
rende visibile, lo rende figura, lo feconda e impreziosisce. La dimensione futura diventa dimensione escatologica
in chi crede in una vita dopo l’evento morte, e anche in questo caso, ma in un contesto di fede religiosa, la vita
diventa la preparazione al futuro che la seguirà.
Minore è la possibilità di condividere socialmente tematiche relative alla morte, maggiore è l’angoscia; più il
singolo si sente solo di fronte alla morte, più è angosciato; il pensiero della possibilità della propria morte rischia
sempre di arenarsi sulle secche del solipsismo, perché la propria morte non è esperienza condivisibile: "sono io
che muoio", ed ogni uomo è solo di fronte alla propria morte. Pensare alla possibilità della propria morte o al
processo del morire proprio o altrui è molto più semplice se avviene in un contesto di gruppo o di comunità:
dagli aderenti a un culto religioso, agli spiritisti in seduta medianica; dagli studenti di medicina attorno al
cadavere sezionato, alla folla che assiste a una decapitazione in piazza. Pensiamo all’usanza di costruire tombe di
famiglia o alla volontà espressa da molti di farsi seppellire accanto al proprio coniuge e ci convinceremo
ulteriormente della forza del gruppo, della necessità di un mit-Dasein, esserci-con-qualcuno per affrontare la
crisi della morte. Persino chi, in seguito a un grave pericolo per la propria vita, ha vissuto la cosiddetta
"esperienza di pre-morte", dopo aver vissuto il "distacco" dal proprio corpo viene colto da stupore e lacerante
solitudine, incontra degli "esseri di luce" irradianti amore.
La forza dei miti e dei rituali collettivi sulla morte, socialmente condivisi e culturalmente legittimati, sta nella
loro natura profondamente sociale e nella loro capacità di disciplinare e guidare l’attenzione alla morte,
offrendole oggetti, reti simboliche e orizzonti di significato socialmente condivisi e "negoziati".
In psicoterapia di gruppo o in gruppi di auto-aiuto o d’incontro, è nota l’efficacia "terapeutica" dell’attenzione
gruppale rivolta a tematiche ed emozioni riguardanti la morte propria o altrui. In questo caso è presente un
contesto (il setting terapeutico) e una tecnica (legata ad un approccio teorico) in grado di contenere e controllare
l’altrimenti "selvaggia" e ansiogena attenzione alla morte. A tale proposito sono state ideate e sviluppate svariate
tecniche, come ad esempio: scrivere le proprie ultime volontà o il testamento; simulare la comunicazione di una
diagnosi infausta; visualizzare il proprio funerale; meditare sulle pause del ciclo di respirazione; esercitare il
silenzio; esplorare emozioni e vissuti legati all’"assenza", al pensiero del non-esserci-ancora che precedeva la
nascita; disegnare la lapide della propria tomba completa di epitaffio; visitare in gruppo il cimitero;
drammatizzare un dialogo con una persona cara defunta; visualizzare il momento della propria morte ecc.
Questi esercizi di attenzione alla morte, possono essere preceduti e/o seguiti da una seduta di rilassamento e
inoltre sarebbe consigliabile procedere per gradi, da un minimo a un massimo di coinvolgimento, secondo la
tecnica psicoterapeutica di desensibilizzazione sistematica (Tausch e Conte, 1988; Kuiken e Madison, 1987-88).
Lo scopo di questi esercizi non necessariamente è quello di abbassare il vissuto di paura nei confronti della morte
o di ciò che ad essa si riferisce, ma quello di offrire la possibilità di acquisire maggiore consapevolezza circa la
vita e circa i bisogni che spesso si nascondono dietro l’atteggiamento verso la morte. La stessa paura della morte,
quando è intesa in senso biologico come cessazione dei processi vitali, è adattiva. La paura in generale è una
reazione di allerta dell’organismo che si sente minacciato. Non va eliminata, ma circoscritta e controllata. Sapere
ciò che si teme quando si dice di avere la generica, panica e quindi elusiva "paura della morte", aiuta a vivere
meglio la vita, a riconoscere i pericoli concreti o solo immaginati e a farvi fronte. Ecco dunque che l’attenzione
alla morte può essere considerata come una delle espressioni del bisogno di sicurezza: "se sto attento, se vigilo,
mi salvo". Non si tratta però solo di semplice e istintivo pre-occuparsi della morte al fine di preservare la vita,
nell’uomo accade qualcosa di più complesso. Le millenarie tecniche di attenzione e meditazione sulla morte
stanno ad indicare un bisogno umano di mantenere l’ordine mentale e sociale, di controllare e contenere
l’angoscia, di "sentirsi" e riscoprirsi quotidianamente vivi e alla ricerca continua di un senso. Una cultura che
nega la morte, frustra un bisogno, non lo riconosce, lo confonde con altri bisogni o lo tabuizza e ciò può
contribuire all’insorgere di uno stato di disagio esistenziale, di inquietudine del pensiero, di ricerca di illusorie
certezze, fino alla nevrosi. La "psicologia esistenziale" ha ben compreso l’importanza della attenzione alla
propria morte: "solo l’integrazione del concetto della morte nel proprio sé -scrive Herman Feifel- rende possibile
un’esistenza autentica e genuina. Negando la morte si paga con un’angoscia indefinita e con l’autoalienazione.
Per capire completamente se stesso l’uomo deve affrontare la morte, deve essere consapevole della propria
morte" (Feifel, 1969).
L’attenzione indisciplinata fugge dal pensiero della morte, non lo tollera, ma non può liberarsene totalmente, la
morte è il tarlo che rode dentro, direbbe William James. La fuga è impossibile e si finisce per oscillare tra i due
poli della tanatofobia e della "pornografia della morte", disperato tentativo, quest’ultimo, di inflazionarla, di
spettacolarizzarla, di sfidarla, di "esportarla" verso gli altri esseri viventi, di abbracciarla come un pugile in
difficoltà abbraccia il suo invincibile avversario con la speranza di non finire K.O. L’intolleranza verso il
pensiero della morte può essere strumentalizzata da chi detiene il potere, per dirigere l’attenzione delle masse
dove ha interesse che questa si focalizzi. L’attenzione disciplinata alla morte è una via possibile per vivere
autenticamente, accrescere la consapevolezza e la libertà "nella" vita: "Tu muori proprio perché sei un essere
pensante, cosciente, libero", sostiene Feuerbach (1830) collegandosi al pensiero di Hegel (1817), per il quale
l'uomo, proprio in virtù del suo essere mortale, diventa creatore di storia e dialetticamente rivoluzionario, ciò
non è invece vero per l'animale: l’uomo muore, l’animale finisce!
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