Guido Cifoletti LINEAMENTI DI STORIA DELLA LINGUISTICA Se mi si permette, vorrei fare una premessa: personalmente non credo alla neutralità scientifica. Posso essere neutrale se assisto ad una partita di baseball, di cui non conosco le regole e che in realtà non m’interessa per nulla: ma se nelle materie di cui mi occupo ho acquisito una competenza tale da sedere dall’altra parte della cattedra (di fronte agli studenti), vuol dire che questo studio mi appassiona, e perciò avrò certamente le mie preferenze, avrò fatto sicuramente le mie scelte: e sarebbe ipocrita nascondere tutto questo. Peggio ancora, sarebbe controproducente: tra i miei compiti c’è anche quello di trasmettervi (se possibile) la mia passione per la materia che insegno, e come potrei farlo se esponessi tutto in modo neutro e impersonale? Anziché essere neutrale (che secondo me è impossibile), posso e desidero essere onesto, cioè non intendo occultare i dati che vadano contro le mie convinzioni; inoltre, dichiaro fin dal principio che non ho per nulla la pretesa che i miei allievi seguano le mi scelte. Se uno studente, magari in sede d’esame, mi raccontasse di abbracciare opinioni diametralmente opposte alle mie, per me sarebbe un fatto positivo: vorrebbe dire che non si è limitato ad imparare a memoria ciò che insegno, ma ci ha pensato sopra. Ed ancora: sarò grato allo studente che mi segnalerà degli errori. È evidente che non posso sempre controllare tutto ciò che scrivono le mie fonti, per lo più mi dovrò fidare di quanto hanno scritto gli altri, ma a volte questa fiducia è mal riposta: oppure può capitarmi di mettere qualche sbaglio per disattenzione, come mi è successo ad esempio nel disegnare degli schemi. Ed ora, è mia intenzione introdurre allo studio della linguistica facendo la storia di questa scienza. Non è per nulla un passo scontato: se in alcune discipline come ad esempio la filosofia un procedimento del genere risponde ad una prassi ormai secolare, in altri campi di ricerca nessuno si sognerebbe di farlo: valga per tutti l’esempio della storia della scienza, che non s’insegna nelle facoltà scientifiche, bensì è materia filosofica. In alcuni campi della ricerca scientifica si dà per scontato che l’apparire di un nuovo metodo renda superati i metodi precedenti, e questo genera in alcuni una mentalità relativista che porta ad affermazioni del tipo “la verità non esiste, esistono modelli interpretativi che durano finché valgono, poi si cambiano”, ma nulla di questo genere risponde all’esperienza del linguista. Nella nostra disciplina i diversi metodi elaborati successivamente per indagare su quel campo d’attività umana che è la lingua non si eliminano affatto, ma si sommano: dunque i metodi scoperti nel passato non sono per nulla superati, e vale la pena di studiarli ancora. Naturalmente anche i linguisti del passato sbagliavano, come tutti gli altri uomini, ed oggi siamo in grado di riconoscere molte loro ingenuità: ma si può dire che nel complesso sono esatti i fatti da loro osservati, come pure la maggior parte delle conclusioni a cui arrivarono, ed anche i metodi da loro elaborati meritano di essere conosciuti. Dunque, siccome il primo campo della linguistica che si sviluppò fu la linguistica storico-comparativa (soprattutto quella relativa alle lingue indoeuropee) comincerò a parlare proprio di questa, che di solito è materia di studio di un’altra disciplina, la glottologia. Ma in realtà un confine preciso tra la linguistica generale e la glottologia non esiste: s’intende che la prima si deve occupare maggiormente degli aspetti teorici, però anche la seconda ha delle basi teoriche ed un’esperienza pratica di cui il linguista deve essere al corrente; e d’altra parte il 1 glottologo deve pure avere conoscenza dei nuovi metodi di ricerca della linguistica, per applicarli appena può anche all’evoluzione delle lingue che è il suo abituale campo d’indagine. Va detto che, se si fa una storia della linguistica col fine di introdurre alla materia stessa, si rischia sempre di cadere in una storia di tipo “agiografico”: tutti gli errori, i passi falsi, le illusioni dei linguisti del passato, in questa prospettiva sono privi d’interesse, e quindi vengono tralasciati, perché ciò che importa maggiormente è indicare i punti fermi, i risultati che ancor oggi sono validi: in una certa misura tale deformazione è inevitabile, e spero che sia accettata anche dai lettori. È generalmente ammesso che la linguistica nacque all’inizio del XIX secolo: più precisamente la si fa iniziare nel 1816, con la pubblicazione del primo volumetto di grammatica comparata indoeuropea; solo a partire da quell’epoca si formò una scuola, si costituì cioè un gruppo di studiosi che dedicò tutta la vita a studiare le lingue sistematicamente, con metodi verificabili e sempre più raffinati: ed il progresso fu tale che già pochi decenni dopo si poteva guardare con sufficienza ai precursori, ai pochi che si erano occupati di linguistica nel secolo XVIII, quando questa scienza non possedeva ancora dei metodi sicuri e perciò produceva delle etimologie ad orecchio nelle quali, secondo un giudizio di Voltaire spesso ricordato, “les voyelles ne font rien et les consonnes font peu de chose”. In realtà nel Settecento si posero le basi di quello che sarebbe stato il sorprendente sviluppo dei decenni successivi: maturò in effetti un clima culturale che va spiegato. Soprattutto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo si era risvegliato un vivo interesse per le civiltà esotiche, per le loro tradizioni e di conseguenza anche per le loro lingue; e al tempo stesso cominciavano a svegliarsi i principali nazionalismi europei. L’interesse per le tradizioni extraeuropee coincideva in parte con la ricerca di una saggezza estranea alla tradizione cristiana: a quel tempo si pensava che le iscrizioni geroglifiche nascondessero un grande sapere, la Massoneria assunse fra i propri simboli qualche segno egiziano: qualche decennio dopo, quando Champollion decifrò effettivamente la scrittura geroglifica, fu una delusione il rendersi conto che quei testi non racchiudevano affatto la grande scienza che ci si aspettava. Ben altrimenti proficuo fu invece l’impatto con la civiltà dell’India antica. Nel XVIII secolo assunse sempre maggiore importanza in India la colonizzazione europea: prima i Portoghesi vi avevano impiantato alcune basi, poi li seguirono Inglesi e Francesi: la Compagnia delle Indie (inglese) a quel tempo non aveva un potere politico riconosciuto come tale, nominalmente regnavano sempre i sovrani della dinastia Moghul; ma poco alla volta la loro autorità si svuotava, e cresceva quella degli Europei. Alcuni di questi colonizzatori (nonché i missionari) riuscirono ad addentrarsi nella cultura locale, e così la poterono comunicare in Europa. La principale lingua letteraria del mondo indù era il sànscrito: ma sappiamo che non è una lingua originaria dell’India. In un’epoca imprecisata (gli Indiani non furono mai interessati alla storiografia, e perciò la loro storia ci è nota in modo lacunoso), forse un migliaio e passa di anni prima di Cristo, l'India fu invasa da tribù provenienti dalla zona iranica, che a quel tempo comprendeva anche i territori dell'attuale Turkestan (oggi solo uno degli Stati del Turkestan ex-sovietico, il Tagikistan, ha come lingua ufficiale un dialetto persiano; ma un tempo le lingue di questo tipo avevano una diffusione molto più ampia, come vedremo). A quanto sembra questi invasori prima si stanziarono nella valle dell'Indo, poi in quella del Gange, e successivamente si diffusero per la penisola indiana: le lingue degli antichi abitatori dell'India si mantengono tuttora, 2 soprattutto nelle regioni più meridionali (c’è il tamil, usato da una minoranza dello Stato di Sri Lanka, ma anche sulle coste sudorientali della penisola indiana; e poi il telugu, il canarese o kannad¢a, il malaya¤l¢am) ed appartengono al gruppo dravidico insieme col bra¤hu¤i¤, lingua minoritaria del Beluchistan; nelle regioni centro-orientali dell'India sopravvivono alcune minoranze che parlano lingue di ceppo diverso (le lingue mun¢d¢a, connesse da alcuni col Khmer della Cambogia), e che forse risalgono ad uno stanziamento ancora più antico. Fin dalla più remota antichità, questi invasori di ceppo iranico (in senso lato: sarebbe meglio dire indoario, perché è giusto precisare che i dialetti iranici, pur essendo strettamente imparentati, fin dalle prime attestazioni presentano alcuni caratteri diversi dalle lingue antiche dell’India) svilupparono un'estesissima letteratura orale: i più antichi poemi, i Veda (ed in particolare la sezione più antica, il Rgveda o Rigveda, composto di un migliaio di inni) furono tramandati a memoria con estrema precisione perché avevano (ed hanno) valore liturgico, e la loro recitazione esatta era considerata condizione indispensabile per la riuscita di qualsiasi cerimonia o sacrificio. A questo proposito si può far rilevare quanta importanza e quanta estensione possa avere l'uso della memoria nei contesti sociali in cui non esiste la scrittura; e non è certo il solo caso. Comunque, anche quando la scrittura fu introdotta in India e questi poemi furono messi per iscritto (non sappiamo con precisione a che epoca), la tradizione orale continuò parallelamente a quella scritta, un po' come avviene ancor oggi nei Paesi islamici per la recitazione del Corano. Oggi il sanscrito è la lingua letteraria a cui si rifanno tutti gli indù, anche quelli di origine dravidica o mun¢d¢a; i Veda ne costituiscono la fase più antica, e probabilmente si fondano su dialetti diversi (più occidentali) rispetto a quelli che stanno alla base del sanscrito classico, lingua codificata forse nel IV secolo a.C. dal grammatico Pa¤nin¢i in un'opera di esemplare esattezza e concisione: il libro consta di 8 capitoli (perciò il nome as¢t¢adhyayi, da as¢t¢au “otto”), e descrive tutta la lingua in circa 4000 regole, espresse però con una tale brevità che in un'edizione a stampa tutta l'opera occupa circa 35 pagine: è la più breve ed esauriente grammatica del mondo (ma non è la più chiara: per questo i grammatici indiani di età successiva ebbero il loro da fare a chiosarla e interpretarla). A questo punto non posso fare a meno di rimarcare una circostanza eccezionale, che favorì grandemente i linguisti del primo Ottocento: mentre oggi chi affronta una lingua esotica si trova quasi sempre in gravi difficoltà per la mancanza di una tradizione scritta indigena nonché di una standardizzazione1, i primi studiosi di quella che divenne poi la scienza del linguaggio si trovarono fra le mani non solo una lingua letteraria già codificata da un uso millenario, ma addirittura la grammatica elaborata dagli indigeni con una raffinatezza superiore a quella della tradizione classica che fino allora si perpetuava nelle scuole europee; ed infatti nei decenni successivi i metodi dei grammatici indiani furono applicati con successo anche al greco ed al latino. Tornando al sanscrito conviene dire che questa lingua, oltre ad averci tramandato le grammatiche a cui si è accennato, ci è attestata da una vastissima letteratura, molto più estesa di quella che possono vantare le principali lingue europee: basti dire che il principale poema epico dell'India antica, il Maha¤bha¤rata, consta di oltre 1 Come vedremo in seguito, questi elementi facilitano enormemente l'indagine linguistica: si veda G.R. CARDONA, Dall'oralità alla scrittura: la formazione delle lingue standard, in A. QUATTORDIO MORESCHINI, La formazione delle lingue letterarie, "Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia", Siena 16-18 aprile 1984, pp. 71-80. 3 centomila versi. Per avere un termine di paragone ricorderò che l'Iliade in greco ha 15693 versi, l'Odissea 12007; e inoltre il verso del Maha@bha@rata, lo çloka, è lungo circa come due versi omerici (cioè contiene 32 sillabe, mentre l'esametro omerico può andare dalle 12 alle 17 sillabe); facendo un paragone con l'italiano si può dire che la Divina Commedia contiene cento canti di circa 140 endecasillabi ciascuno, in altre parole occupa all'incirca un ventesimo del Maha@bha@rata. L'altro grande poema dell'India, il Ra¤ma¤yana, contiene circa ventimila çloka; in sanscrito furono scritti anche i Pura¤n¢a, grandi opere didattiche, delle quali si sono conservate 18 per un totale di 400.000 versi; esistono anche grandi opere filosofiche come le Upanis¢ad, risalenti addirittura al periodo vedico, e poi in sanscrito classico le opere della filosofia yoga, ed oltre a ciò possediamo drammi, poesia lirica, romanzi, ecc. ecc. Per oltre duemila anni il sanscrito fu usato soltanto come lingua scritta e letteraria, perché dev'essere uscito dall'uso parlato già qualche secolo prima di Cristo; in questo periodo in India si parlavano i pràcriti (prakr9ta bha¤sa o lingua naturale, a differenza della sam¢skr9ta bha¤sa o lingua perfetta). Per la verità si chiamano pracriti tutti i dialetti dell’India antica, ed in questo senso si può dire che alcuni influssi pracriti (cioè dialettali) si trovano già nel vedico: di certo accanto al sanscrito vissero altri dialetti dello stesso ceppo, che però non assunsero mai dignità letteraria; ma i pracriti assunsero maggiore importanza quando la lingua scritta si allontanò da quella parlata. Un pracrito ci è testimoniato già dalle iscrizioni del re Açoka (III sec. a.C.), altri furono usati (parcamente) in letteratura: il canone buddista è scritto in pa¤li@ (perché l’autore si voleva avvicinare alla lingua del popolo), il canone jaina in ardhama¤gadhi¤; in alcuni drammi antichi il re parla sanscrito, mentre i personaggi di bassa condizione parlano un pracrito (che poi divenne incomprensibile, e fu necessario aggiungergli una traduzione in sanscrito; del resto una traduzione sanscrita esiste anche per il canone buddista). Successivamente dai pracriti si svilupparono le lingue dell'India moderna: hindi, benga¤li¤, mara¤t¢hi¤, gujarati, panjabi, sindhi ecc. Il sanscrito, nel lunghissimo periodo in cui continuò ad essere usato come lingua letteraria pur essendo ormai del tutto svincolato dall'uso quotidiano, diede luogo ad uno stile difficile e lambiccato detto ka¤vya, tipico di grandissima parte della poesia indiana e che procura non poche difficoltà ai sanscritisti. Ora è meglio tagliar corto su questi argomenti perché non è certo mio compito disegnare qui un profilo storico della letteratura indiana: quel che m'importa è di far capire che si tratta di una tradizione ricchissima, molto antica e spesso estremamente affascinante (anche se naturalmente non mancano le opere mortalmente noiose). Alcuni Europei si accostarono già nel XVI secolo a questa cultura, la prima grammatica sanscrita scritta da un europeo (il missionario tedesco Heinrich Roth, morto nel 1668) è del secolo successivo, ma rimase manoscritta; solo alla fine del XVIII secolo il mondo scientifico europeo poté avere delle nozioni precise su questo argomento. Nel 1785 l'inglese C. Wilkins pubblicò una traduzione della Bhagavadgi@ta@ (il canto del beato) che è una sezione del Maha@bha@rata dal libro VI, in cui due degli eroi, Kr9s¢n¢a e Arjuna, prima di prendere le armi contro il nemico si mettono a discutere, ed il primo esorta il secondo a non esitare a combattere contro i cugini che, dopo avergli inflitto tanti torti, gli avevano sottratto il regno: il corpo dell'uomo è mortale e caduco, ma lo spirito è eterno ed immutabile (va detto che il Maha@bha@rata, pur avendo una trama complicatissima, dedica ben poco spazio agli avvenimenti e molto di più alle riflessioni ed alle considerazioni filosofiche e morali: si pensi che su un totale di 18 libri ben due, il 12 e il 13, sono 4 dedicati quasi interamente agli ammaestramenti dati dal guerriero Bhi@s¢ma in punto di morte). Nel 1790 il carmelitano austriaco Paolino di San Bartolomeo (il suo vero cognome era Wesdin) pubblicò a Roma la prima grammatica sanscrita nota in Occidente; nel 1805 Colebrooke pubblicò a Calcutta A Grammar of the Sanscrit Language che era la prima grammatica europea fondata su Pa¤nin¢i (la precedente si fondava piuttosto su grammatiche scritte in malaya@l¢am). In quegli stessi anni a Londra e anche a Parigi affluivano molti manoscritti indiani (non si dimentichi che anche i Francesi erano impegnati nella colonizzazione dell'India, sia pure con meno successo) e perciò si crearono le condizioni per studiare la lingua sui testi originali. In quello stesso periodo il mondo scientifico europeo venne a conoscenza di un'altra lingua antica, affine al sanscrito: il cosiddetto avestico (che allora era chiamato per lo più zendo, con un nome che oggi sembra inesatto, e probabilmente in origine designava piuttosto il commento). Si tratta di un dialetto (o meglio di alcuni dialetti, distinti geograficamente e cronologicamente) del persiano antico: è la lingua dell'Avesta, il libro sacro della religione mazdeista o zoroastriana. Zarathustra diffuse la sua dottrina agli albori della storia persiana, alla fine del VII secolo ed agli inizi del VI; ma poi gran parte del testo sembra essere opera di discepoli della tribù dei Magi, di epoca posteriore ed in un altro dialetto (nordoccidentale, mentre il dialetto di Zarathustra sembra essere stato orientale). Anche questo libro dapprima fu trasmesso oralmente e solo dopo molto tempo (forse addirittura un millennio) fu messo per iscritto, e pare che ce ne sia pervenuta solo una parte: la sua tradizione sembra molto più discontinua ed incerta che per i Veda. Comunque le parti più antiche, le gâthâ (inni), risalenti allo stesso Zarathustra, sono composte in una lingua notevolmente vicina al vedico (anche se spesso è poco comprensibile): secondo il glottologo G. Devoto, Le origini indoeuropee, p. 366, "i versi delle gathas dell'Avesta possono essere trasposti in versi vedici senza che si possa parlare di vera traduzione. Nello Yašt 10,1.6 dell'Avesta, si legge: t´m amavant´m yazat´m su@r´m, da@mo@hu s´višt´m, Miθr´m yaza@i zaoθra@byo@ 'questo forte potente angelo, alle creature beneficentissimo, Mithra, vogliamo onorare con libazioni'. In forma vedica sarebbe: tam amavantam yajatam su@ram, dha@masu savis¢t¢ham, Mitram yajai hotra@bhyas." Dopo che la Persia fu conquistata dagli Arabi, portatori d'una nuova religione, i seguaci della religione nazionale dovettero nascondersi: alcuni rimasero in Persia, altri emigrarono in India dove formarono la comunità dei Parsi, abbastanza numerosi soprattutto nel Gujarat; nel XVIII secolo il francese A.H. Anquetil Duperron poté conoscere in India i dotti parsi, fu iniziato da loro all'interpretazione tradizionale di quel libro e ne diede notizia nel 1775 pubblicando a Parigi una traduzione in 5 volumi: ZendAvesta, Ouvrage de Zoroastre, ... Prima di allora erano note altre lingue indoeuropee antiche: il greco ed il latino, per tradizione ininterrotta; e poi il gotico. Si tratta della lingua degli Ostrogoti e dei Visigoti: nel IV sec. il vescovo Ulfila, che stava nella Mesia (sul basso Danubio, nell'attuale Bulgaria orientale) tradusse quasi tutta la Bibbia per i Goti stanziati là come foederati dell'Impero romano. Era l'epoca delle migrazioni dei popoli, perciò il gotico era praticamente la stessa lingua per quei Goti del basso Danubio, per quelli stanziati nell'attuale Ucraina, e più tardi anche per gli Ostrogoti d'Italia e i Visigoti di Spagna (o almeno, quel che sappiamo è che queste popolazioni accettarono il gotico di Ulfila come lingua scritta). I manoscritti che tramandano il gotico furono composti quasi tutti in Italia, 5 anche se oggi stanno in biblioteche diverse: c'è il famoso Codex Argenteus di Upsala, che fu scoperto nella regione renana nel 1515, poi ci sono 5 codici alla Biblioteca Ambrosiana di Milano e frammenti in biblioteche tedesche. Complessivamente oggi leggiamo in gotico i tre quarti del Nuovo Testamento ed alcune parti del libro di Neemia; inoltre abbiamo parte d'un commento al Vangelo di Giovanni e qualche frammento sparso, tra cui un paio di contratti scritti a Ravenna verso il 551. Dunque la lingua gotica ci è conservata in modo alquanto lacunoso, ma è stata molto importante per gli studi di linguistica perché nel gruppo delle lingue germaniche è quella attestata più anticamente, prima che sopravvenissero i cambiamenti che in seguito differenziarono fortemente tra loro le lingue germaniche (complicandole oltremodo); perciò il gotico, che pure rappresenta un ramo estinto della famiglia germanica (nessuna lingua moderna è derivata da esso) è particolarmente vicino a quel che si suppone essere stato il germanico comune, e dunque ha grande interesse per la comparazione indoeuropea. La conoscenza del gotico nei secc. XVII e XVIII non fu certo molto diffusa, ma risvegliò comunque un certo interesse, soprattutto fra studiosi tedeschi. Altre lingue di tradizione letteraria (ma non indoeuropee) erano conosciute da tempo: così l'ebraico, l'arabo, ed anche il copto, lingua parlata in Egitto, che era l'ultima propaggine dell'antica lingua dei Faraoni. Questa lingua, prima codificata nella scrittura geroglifica (che in parte è ideografica, in parte consonantica), si sviluppò con l'andare dei secoli e dei millenni nel demotico, usato in età tolemaica, che differisce dal geroglifico sia come scrittura sia dal punto di vista più strettamente linguistico. Il copto rappresenta un'ulteriore evoluzione del demotico: a partire dal II-III sec, d.C. il popolo egiziano cominciò a scrivere la sua lingua in caratteri greci, visto che ormai nel Paese il greco era la lingua della cultura e dell'amministrazione; vi aggiunse però 7 caratteri dal demotico, per suoni consonantici non adeguatamente rappresentati dall'alfabeto greco. Dal IV sec. in poi si sviluppò una letteratura copta d'ispirazione cristiana (senza però che si formasse un unico standard letterario, per cui si parla oggi di copto Bohairico o settentrionale, di Alessandria, e copto Saidico o del sud, di Luxor); e ancora oggi il copto è usato come lingua liturgica dai Cristiani dell'Egitto, benché non lo si parli più da secoli. Alcune lingue semitiche dell'Oriente cristiano, come l'aramaico (specialmente il dialetto letterario di Edessa, chiamato siriaco) e l'etiopico antico o ge'ez, erano conosciute in Europa, anche se in ambiti molto ristretti. Altre lingue antiche, pure di origine indoeuropea, nei primi decenni dell'Ottocento furono trascurate dai linguisti: così l'armeno, attestato a partire dal V sec. d.C., che però è una lingua molto evoluta fin dai primi documenti, e fino al 1876 fu considerato un dialetto persiano; invece l'antico irlandese, anch'esso molto evoluto e complicato, all'inizio fu ritenuto lingua non indoeuropea.. Tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX era sorto un grande interesse verso il mondo "esotico": faceva parte della sensibilità del primo Romanticismo quest'apertura soprattutto verso le religioni e le filosofie esotiche. Mentre gli Illuministi discettavano di religione, ma poi in pratica conoscevano solo il Cristianesimo, i primi romantici cercarono di apprendere il più possibile delle religioni orientali, spesso per contrapporle alla religione cattolica; ma questa cultura si diffuse, al punto che anche un cattolico e alfiere della Restaurazione come de Maistre dissertò di un testo indiano, i detti di Manu; e Friedrich Schlegel (1772-1829) nel 1806 pubblicò un libro di successo, Über die Sprache 6 und Weisheit der Indier, in cui fra l'altro affermava la parentela di latino, greco, germanico, persiano e antico indiano, sulla base di confronti precisi. Non va taciuta la componente nazionalistica: già nel Settecento era stata lanciata la teoria scitica, che aveva avuto successo esclusivamente tra i dotti del Nord Europa. Gli Sciti erano una popolazione iranica che abitava anticamente nell'attuale Russia meridionale, in parte dell'attuale Ucraina, e nei vasti bassopiani attorno al Mar Caspio, in zone che nei primi secoli del Medioevo furono invase dai Turchi o si slavizzarono. L'ultima popolazione di origine scitica che oggi rimanga sono gli Osseti del Caucaso, che parlano ancora una lingua iranica, diversissima dal persiano moderno (si noti che in osseto don significa “fiume”, dunque furono quelle popolazioni a dare un nome ai fiumi della Russia meridionale). Secondo questa teoria scitica (che poi fu abbandonata ben presto) l'origine comune del latino, del greco, del celtico, delle lingue germaniche sarebbe da cercare fra questi Sciti: da essi sarebbero derivati quasi tutti i popoli dell'Europa. Questa teoria non incontrò nessun favore tra i dotti italiani, che vedevano scalfito il primato del latino a favore di qualche lingua più settentrionale che, secondo le idee di allora (divergenti fra i vari studiosi) avrebbe mantenuto più incontaminata l'eredità scitica. Schlegel di fatto formulò una versione riveduta e corretta della teoria scitica perché secondo lui il sanscrito sarebbe la madre di tutte le lingue europee: ma in questo modo, secondo le concezioni di allora, egli poneva in pratica come antenati degli Europei quegli stessi Indiani che avevano composto i Veda, le Upanis¢ad e le altre opere religiose e filosofiche tanto apprezzate in quel periodo. Va rilevato che per tutta la prima parte del secolo XIX, e specialmente agli inizi, la glottologia fu una scienza quasi interamente tedesca: poi a poco a poco si trovano dei linguisti d'altra origine, che per lo più si erano però formati in Germania o in ambienti di cultura tedesca; si può dire che la supremazia tedesca in questo campo sia durata per tutto il secolo. Perciò, sia pure a rischio di fare un'approssimazione eccessiva, penso non sia azzardato dire che in fondo questi studiosi erano animati anche dal desiderio di ricostruire le proprie origini nazionali, di dare al proprio popolo un passato antico e glorioso. Lo si può vedere meglio considerando la scarsa risonanza che ebbe la comparazione tra le lingue ugrofinniche: in realtà la linguistica comparata era stata inventata già qualche anno prima del 1816 da parte di Ungheresi: i dotti Sainovics János (un astronomo gesuita ungherese, che soggiornò in Lapponia per vedere certi fenomeni celesti) e Gyarmathi Sámuel, rispettivamente nel 1771 e 1799, avevano già pubblicato delle grammatiche comparate delle lingue ugrofinniche. È sorprendente soprattutto la vastità di conoscenze del secondo autore: mentre il primo aveva comparato l'ungherese solo col lappone e col finnico, l'altro vi aggiunse l'estone (molto vicino al finnico), le lingue ugrofinniche del Volga come mordvino e ceremisso, e perfino le lingue della Siberia occidentale, parlate nella zona del fiume Ob, come vogulo e ostiaco; e scoperse che proprio queste ultime, le più distanti, presentano le maggiori affinità con l'ungherese. Ma questi studi non ebbero grande diffusione e grande successo perché trattavano di lingue che nell'ottica di allora avevano poco interesse. Per questi motivi, è diventato ormai tradizionale far risalire l'inizio della linguistica storica (e praticamente l'inizio della linguistica tout court) al 1816, anno in cui a Francoforte sul Meno uscì il volume di Franz Bopp Über das Conjugationssystem der Sanskritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprachen (il sistema di coniugazione del sanscrito comparato con 7 quello del greco, latino, persiano e germanico). Questo Bopp (1791-1867) si era dedicato allo studio delle lingue orientali (ebraico, arabo, persiano) e per questo nel 1812 si recò a Parigi dove c'erano maggiori possibilità di studiarle. Frequentò i corsi di arabo di S. de Sacy, di persiano di A. de Chézy e studiò il sanscrito praticamente da solo, con l'aiuto della grammatica di Colebrooke, sui manoscritti che erano stati portati dall'India a Parigi. In soli 4 anni divenne un vero esperto di questa lingua difficilissima, e così nel 1816 pubblicò alcune traduzioni dal Maha@bha@rata e dal Ra@ma@yana, insieme con quell'opuscolo sul sistema della coniugazione. E' interessante notare che in questo modo egli trovò subito la strada giusta per affrontare il problema: non si attardò nella ricerca etimologica, per la quale ancora non era stato elaborato un metodo, e che potrebbe dare risultati ingannevoli: infatti le parole possono essere copiate da una lingua all'altra (in questo caso i linguisti parlano di prestiti), ad esempio la parola per "televisione" oggi è diffusa con suoni simili in moltissime lingue del mondo; ed anche nell'antichità si potevano verificare casi del genere, di parole che si diffondevano in lingue appartenenti a famiglie diverse. La parola per "toro" è nota in quasi tutte le lingue indoeuropee dell'Europa ed in tutte le lingue semitiche: in latino è taurus, in greco tau'ro" tauros, in osco taurom, in umbro turuf, toru "tauros" (per chi non lo sapesse, si precisa che l'osco era la lingua dei Sanniti, dei Sabini e della maggior parte degli antichi abitanti dell'Italia centro-meridionale, ed era strettamente collegato all'antico umbro), in gallico tarvos, in medio irlandese tarb, in antico slavo turu* "uro", in lituano tauras "bisonte", in antico prussiano (lingua baltica oggi estinta, affine al lituano) tauris "id.", in antico islandese þiorr, in olandese dialettale deur, in antico alto tedesco stior con l'aggiunta di s- iniziale; questa parola non ha corrispondenti nelle lingue indoeuropee fuori dell'Europa, ma in compenso la si ritrova in tutte le lingue semitiche: in accadico è suru, in arabo θawr, in ebraico šôr, in siriaco taura@, in etiopico (ge'ez) sor, in ugaritico θr (la scrittura indica solo le consonanti, il lettore deve immaginarsi le vocali: forse si pronunciava qualcosa come [θo:r] o [θaur]), in antico sudarabico epigrafico θwr (anche qui, le vocali non si scrivevano); in complesso si può ricostruire per il semitico una forma originaria *θawru (si mette l'asterisco davanti a tutte le forme non attestate), mentre per le lingue dell'Europa è più difficile ricostruire una forma unica; si è convinti che si tratta di una parola non indoeuropea, diffusa relativamente tardi, dopo lo spezzarsi dell’unità indoeuropea. Un geniale studioso danese di cui ci occuperemo fra poco, Rasmus Rask, diceva in quegli stessi anni che si debbono confrontare non parole come questa, che possono essere imitate da una lingua all'altra, ma parole che fanno parte del lessico fondamentale della lingua, come i nomi di parentela, i nomi dei numeri, ecc.; sostanzialmente aveva ragione (specie per quanto riguarda le lingue indoeuropee), però oggi sappiamo che anche il lessico della parentela può essere (almeno in parte) influenzato da altre lingue: senza andare a cercare in lingue esotiche, vediamo che l'ingl. uncle, aunt, grandfather, grandmother derivano in modo diretto o indiretto dal francese medioevale; quanto ai nomi dei numeri, anch'essi possono passare da una lingua all'altra: in swahili dopo i primi numeri di origine bantu si hanno numerali arabi. Invece le desinenze verbali, soprattutto quando c'è una ricca flessione come nelle lingue indoeuropee antiche, non si copiano da altre lingue ma si ereditano2: così per esempio 2 Pare che esista nel mondo un solo controesempio, l'aleuto dell'isola di Mednyj che avrebbe appiccicato ai 8 abbiamo il rumeno che contiene moltissime parole slave, ma se si guarda alla coniugazione si trova quel che segue (le vocali toniche sono sottolineate, la a* si pronuncia centralizzata, la t7 si pronuncia come una zeta sorda dell'italiano): (verbi a termina "terminare", a intra "entrare") eu termin eu intru tu termini tu intri el, ea termina* el, ea intra* noi terminam noi intram voi terminat7i voi intrat7i ei, ele termina* ei, ele intra* Dunque il rumeno si riconosce immediatamente come appartenente alla stessa famiglia linguistica dell'italiano, e diversissimo invece dal serbocroato o dal polacco. Vediamo ora le coniugazioni con cui ebbe a che fare il Bopp: inserisco anche l'antico slavo, che solo in un secondo tempo egli prese in considerazione. sanscrito greco latino gotico slavo sing. bhara@mi "io porto" fevrw phéro fero baira bero7 bharasi fevrei" phéreis fers bairis bereši bharati fevrei phérei fert bairiþ beretu* duale bhara@vas bairos bereve# bharathas fevreton phéreton bairats bereta bharatas fevreton phéreton berete plur. bhara@mas fevromen phéromen ferimus bairam beremu* bharatha fevrete phérete fertis bairiþ berete bharanti fevrousi phérousi ferunt bairand bero7tu* (dor. phéronti) Il verbo preso in considerazione corrisponde in tutte le lingue, ed ha ovunque il significato approssimativo di "portare": in latino è verbo irregolare, atematico, ma per un confronto non approfondito lo si può usare lo stesso. Quanto alla pronuncia, quella che si indicherà sarà in molti casi approssimativa e congetturale, trattandosi di lingue morte: comunque in sanscrito le consonanti seguite da h si pronunciano realmente come aspirate (cioè come b+h, t+h, g+h, ecc.); in greco, nel periodo più antico doveva esserci una pronuncia analoga (cioè [ph], [th], [kh]); ou del greco si pronuncia convenzionalmente [u], ma anticamente doveva essere una [o] lunga e chiusa; in gotico, ai probabilmente si pronunciava [e] lunga, þ era una spirante simile al th dell'ingl. thin; in antico slavo, le vocali col gancio sotto vanno pronunciate nasali, la e con la pipetta doveva essere lunga, i* ed u* dovevano essere due vocali brevissime che ben presto scomparvero. Siccome le lingue indoeuropee antiche possedevano un ricco sistema di casi, il confronto della morfologia può essere portato avanti anche riguardo alla declinazione: si prenda ad esempio la radice *ped- "piede" (in greco compare come pod-, per il fenomeno che i linguisti chiamano alternanza apofonica): verbi aleuti le desinenze del russo: cfr. S.G. THOMASON, T. KAUFMAN, Language Contact, Creolization, and Genetic Linguistics, Univ. of California Press 1988, pp. 233-238; ma anche questo è contestato 9 Sing. Nom. Acc. Genit. Dat. Locat. Plur. Nom. Genit. Dat. Locat. sanscrito pa@t pa@dam padas pade padi padas pada@m padbhyas patsu greco pouv" poús (da *pods) povda poda podov" podós Dativo podiv podí povde" pódes podw'n podôn latino pes (da *peds) pedem pedis pedi Ablat. pede pedes pedum pedibus Dativo posiv po(s)sí Va detto che il sanscrito mantiene alcuni casi, come lo strumentale ed il locativo, che il latino ed il greco hanno perso, ma le desinenze di questi casi a volte si sono mantenute anche in queste lingue, con valore diverso: così abbiamo visto che spesso il dativo greco continua un antico locativo. Già da questi piccoli esempi si può capire che mentre la somiglianza di queste forme è abbastanza evidente, il confronto preciso dell'una con l'altra e la spiegazione delle differenze che intercorrono richiede un notevole impegno: proprio a questo lavoro Bopp dedicò tutta la vita. Dai grammatici indiani egli aveva imparato ad analizzare le diverse forme grammaticali in radice-tema-desinenza, ed in questo modo scopriva altre coincidenze: ad esempio, se si analizzano due verbi latini di diversa coniugazione in radice e desinenza soltanto, si vede che le desinenze differiscono, pur somigliandosi: a laud-o, laud-as laud-at si contrappone hab-eo, hab-es, hab-et; riconoscendo invece la presenza di una vocale tematica (come facevano i grammatici indiani), si può scomporre laud-o, laud-a-s, laud-a-t che ha le stesse desinenze di hab-eo, hab-e-s, hab-e-t, e quel che cambia è solo la vocale tematica. Sostantivi come lupus, rex (da *reg-s), navis e manus hanno al nominativo la stessa desinenza in -s, e quel che fa la differenza è ancora la vocale tematica: in lupus è -o- (forme del tipo lupos nom. sing. sono attestate in latino arcaico), in rex manca, in navis è -i-, in manus è -u-; perciò in latino si parla oggi rispettivamente di temi in -o, in consonante, in -i, in -u. Proprio perché il sanscrito è tanto conservatore nella morfologia nominale, esso permette di spiegare molte particolarità del greco e del latino che prima erano indicate semplicemente come "eccezioni": così ad esempio esso conosce, come si è visto, un caso locativo che esce in i, che spiega automaticamente alcune parole isolate: lat. domi "a casa", ruri "in campagna", Romae (arcaico Romai) "a Roma"; in greco c'è oi[koi oíkoi "a casa" distinto per l'accento dal nominativo plurale oi\koi oîkoi "case". Il sanscrito è molto conservatore anche nel consonantismo, invece ha innovato il vocalismo (le antiche e ed o sono confluite in a), ma questo Bopp non lo sapeva, e fino all'ultimo quarto dell'Ottocento non lo si seppe: così tutti i linguisti s’immaginavano una lingua madre indoeuropea vicinissima al sanscrito. Negli stessi anni in cui Bopp cominciava i suoi studi un giovane linguista danese, Rasmus Rask (1787-1832) scriveva una dissertazione intitolata Undersögelse om det gamle Nordiske eller Islandske Sprogs Oprindelse (ricerche sull'origine della lingua antico-nordica o islandese), che era già pronta nel 1814, ma fu pubblicata solo nel 1818: in essa erano poste le basi della comparazione linguistica, si riconoscevano per la prima 10 volta le leggi fonetiche ed anzi si individuavano perfino le regole di corrispondenza tra le consonanti delle lingue germaniche e quelle della altre lingue indoeuropee; va notato che a quel tempo l'autore non conosceva il sanscrito e nondimeno giungeva a identificare chiaramente la famiglia linguistica indoeuropea, sulla base di raffronti etimologici precisi e metodologicamente esatti. Ma essendo scritta in danese quest'opera ebbe scarsa diffusione: invece fu molto più grande la risonanza che ebbe, subito dopo. la Deutsche Grammatik di Jakob Grimm, uscita in prima edizione nel 1819. Questo studioso (n. 1785, m. 1863) si era occupato a più riprese dell'antica poesia germanica, nel 1812 insieme col fratello Wilhelm aveva cominciato a pubblicare le Kinder- und Hausmärchen (le famose fiabe: il secondo volume uscì nel 1815, il terzo nel 1822), e più tardi diede alle stampe quello che è considerato ancor oggi il più completo lessico della lingua tedesca (Deutsches Wörterbuch, pubblicato a Lipsia dal 1852 in poi): come si vede i suoi interessi spaziavano su tutto quanto riguardasse le radici del popolo tedesco, e certamente lo si può considerare il più grande studioso di antichità germaniche della sua epoca. La sua Grammatica tedesca in realtà è una grammatica comparata delle lingue germaniche, uscì in diverse edizioni tra il 1819 e il 1837, e vi si trova esposta in modo chiaro la famosa "rotazione consonantica" delle lingue germaniche, regolata da quelle che si chiamarono poi "leggi di Grimm" [in realtà sappiamo che le aveva enunciate prima Rask, ma il nome è rimasto]. Ci si può soffermare di più su questo argomento, visto che fu la prima legge fonetica importante ad essere scoperta, ed ebbe un enorme impatto sulla linguistica dell'Ottocento. Secondo la prima di queste leggi, le consonanti occlusive sorde (che nelle lingue indoeuropee dell’Europa occidentale ci risulta che fossero *p, *t, *k, ed infine *kw scritta anche *qu) diventano in germanico delle spiranti, rispettivamente f, þ, h, hw. Esempi: sanscr. pitar- "padre" (al nom. pitá, negli altri casi c'è una radice pitar- o pitr-), lat. pater, gr. pathvr patér, gotico fadar [si vedrà poi per quale motivo all'interno c'è -d- quando ci aspetteremmo -þ-]; sanscr. paçu "bestiame", lat. pecus -oris "bestiame" (soprattutto le pecore: però il derivato pecunia indica gli averi), got. faihu "denaro, averi" (ma il ted. Vieh, della stessa radice, significa ancor oggi "animale, bestia"); sanscr. trayas "tre", gr. trei'" treis lat. tres, got. *þreis (è attestato il neutro þrija, corrispondente al lat. tria); lat. tego "copro", tegula, toga, ant. nordico þak "tetto" (in gotico, lingua che conosciamo solo parzialmente, questa parola non è attestata; il ted. medioev. dah e il ted. mod. Dach risentono della seconda rotazione consonantica, uno sviluppo tipico del tedesco centromeridionale); lat. centum (pron. /kentum/), gr. he-katón, sanscr. çatám, got. hund; lat. cor, cordis, gr. kardiva kardía, got. hairto; lat. caput, got. haubiþ; sanscr. kas, kim (pronomi interrogativi), gr. tís, tí, lat. quis, quid, got. hwa "perché", hwan "quando"; lat. que, sanscr. ca, gr. te te, got. -h in nih = lat. neque "né" [va detto che la q si conserva solo in latino, in sanscrito diventa k; in greco diventa t davanti a vocale palatale, e p nella maggioranza dei casi]. Le consonanti aspirate del sanscrito e del greco (che in latino ed in altre lingue indoeuropee sembrano essere state piuttosto delle spiranti) diventano occlusive sonore nelle lingue germaniche (ma si hanno fondati motivi di pensare che in gotico ed altre lingue germaniche antiche fossero in realtà delle spiranti sonore): in altre parole, si ha bh dh h (gh) in sanscrito, ph th kh in greco, a cui risponde il latino con f all'iniziale per *bh e *dh, ma all'interno di parola b o d; per *gh spesso in latino si trova h; nelle lingue 11 germaniche questi suoni diventano b, d, g; per l'indoeuropeo si ricostruisce anche un fonema *ghw che in germanico diventa gw e poi w. Riassumendo, quello che (con infinite riserve e dubbi) si ricostruisce come *bh, *dh, *gh, *ghw diventa in germanico b, d, g, w. Esempi: scr. bhra@tar- “fratello” (Nominat. bhra@ta@, negli altri casi si trova bhra@taro bhratr-), gr. fravthr phrater "membro d'una fratria", lat. frater, got. broþar; scr. bhara@mi "io porto", lat. fero, gr. fevrw phero, got. baira; gli esempi con *dh sono complicati dalla cosiddetta legge di Grassmann, per cui in sanscrito e greco quando ci sono due aspirate nella stessa parola una delle due (di solito la prima) si deaspira: scr. duhitr- (Nom. duhita) "figlia", gr. qugavthr thygáter, got. dauhtar (la forma base dev'essere stata *dhughter- o qualcosa di simile); da una radice *dheigh-, cfr. scr. dheks¢i "tu ungi", degdhi "egli unge" (in sanscrito la radice dev'essere stata in un primo momento *dhegh- e le desinenze di 2a e 3a persona rispettivamente -si e -ti; da *dhegh-si, per le note leggi di assimilazione consonantica del sanscrito, si arriva a dheks¢i; da *dhegh-ti invece si avrà prima *degh-ti, poi per la legge di Bartholomae degdhi: secondo questa legge, quando all'inizio di un gruppo di occlusive c'è una sonora aspirata, le consonanti si sonorizzano e l'aspirazione passa in fondo: un esempio famoso si ha dalla radice budh"illuminare", che al partic. pass. combinandosi col suffisso -ta fa buddha); sempre da questa radice *dheigh-, in gr. si ha tei'co" teikhos "muro", in lat. figulus "pentolaio", fingo "impasto, formo", in osco feíhúss "i muri (Acc.)", in got. deigan "impastare"; per la *gh, vediamo il gr. covrto" khortos "luogo cintato, corte", lat. hortus, got. gards "casa, cortile"; per *ghw si ha scr. gharmás, gr. qermov" thermós, lat. formus "caldo", a cui corrisponde in got. warmjan "scaldare", in ant. nordico varmr, ant. alto tedesco e ant. sassone warm "caldo". Le antiche consonanti occlusive sonore dell'indoeuropeo nel germanico comune diventano sorde: dunque *b, *d, *g, *gw diventeranno p, t, k, kw. In realtà la *b è rarissima e dubbia nelle parole comuni a tutte le lingue indoeuropee, per le quali si possa ragionevolmente supporre un antecedente nella lingua madre: in got. ci sono diverse parole con p, ma nessuna sembra appartenere al patrimonio ereditario della lingua. Quanto a d, si possono citare i seguenti esempi: scr. daça “dieci”, gr. devka déka, lat. decem, got. taihun; gr. deik-ny-mi "io mostro", lat. dico, got. ga-teihan "annunciare". Per la *g possono valere i seguenti esempi: scr. janati "egli sa", part. pass. jñatas, gr. gignwvskw gi-gno-sko "conosco" (radice *gno@- con raddoppiamento ed ampliamento in – sk-), lat. nosco (da *gnosco, che appare nel composto co-gnosco), got. kunnan "sapere"; scr. josati "egli gusta, ama", gr. geuvw geúo "gustare" (da *geuso), lat. gus-tus, got. kiusan "provare" (che in lingue germaniche. successive ha acquisito il valore di "scegliere, eleggere"). Quanto alla labiovelare *gw, si può citare scr. gurus "grave; maestro, guru", gr. baruv" barýs "pesante", lat. gravis, got. kaurus; scr. jigati "egli va" (radice raddoppiata), gr. baivnw baíno "io cammino" (da *banio<*gwan-io), lat. venio (da *gwenio), got. qiman "venire"3. E' opportuno qui che io faccia una precisazione: le forme indoeuropee ricostruite che 3 Per un'esposizione più completa della seconda rotazione consonantica si può vedere R. GUSMANI, Elementi di fonetica storica delle lingue indoeuropee, ed. Peloritana, Messina 1971, pp. 98-105. Una precisazione per gli studenti: ho ritenuto necessario esporre ed illustrare queste leggi per far capire il genere di problemi che trattavano i linguisti dell'Ottocento, ma non penso sia necessario, nell'economia del presente corso, impararle minuziosamente con tutti gli esempi.]. 12 presento non sono quelle che immaginavano i linguisti del primo Ottocento, ma quelle dei linguisti che al nostro tempo non accettano la teoria delle laringali (un'ipotesi sull'indoeuropeo che tuttora è controversa); come ho già avvisato prima, non credo che sia opportuno presentarvi, accanto alle intuizioni giuste, tutte le ingenuità dei linguisti di allora, che erano troppo affascinati dal sanscrito e lo vedevano, se non come la lingua madre di tutto il gruppo, certo come vicinissimo ad essa. Anche il nome di "rotazione consonantica" è dovuto ad un'inesattezza dei linguisti dell'Ottocento: educati alla terminologia dei grammatici greci, essi non parlavano di occlusive sorde, ma di "tenui"; le occlusive sonore erano "medie"; poi c'era le terza serie, le "aspirate", che per loro non erano ben distinte dalle spiranti. Per intenderci, una spirante è ad esempio la f; un'aspirata simile come luogo di articolazione è il suono ph, ad esempio nell'ingl. pipe. Spirante dentale sorda è il suono dell'inglese thin; l'aspirata dentale si sente bene nella pronuncia tedesca della parola Tier. Storicamente una simile terminologia si spiega con le condizioni della lingua greca antica: gli antichi grammatici distinguevano tra le tenui p, t, k, le aspirate ph, th, kh, e le medie (che cioè non erano né aspirate né tenui) b, d, g. Ma poi in età ellenistica le aspirate e le medie si spirantizzarono, arrivando a pronunce del tipo [f], [θ], [x] (quelle che prima erano aspirate) e [v], [D], [g] (quelle che erano dette le medie). Nella tradizione umanistica dell’Europa occidentale le aspirate del greco antico furono recepite alla bizantina, come spiranti sorde (in modo più o meno coerente, e sempre con forti influssi delle abitudini fonetiche di chi studiava questa lingua); invece le “medie” furono recepite come occlusive sonore, alla maniera antica. Questa tradizione culturale influenzò la linguistica delle origini e d’altra parte i linguisti di quel tempo sono da comprendere, erano dei pionieri che avevano studiato (spesso da autodidatti o quasi) sanscrito, avestico, gotico, lituano e chissà quante altre lingue, e forse proprio per questo non avevano ancora avuto il tempo di creare una terminologia adeguata; però oggi anche gli studenti di Linguistica o di Glottologia sono tenuti a distinguere fra aspirate e spiranti. Dunque i mutamenti fonetici del germanico erano visti come una rotazione: Tenui Aspirate Medie Si tratta di un cambiamento fonetico imponente, che coinvolge la maggior parte delle consonanti e modifica profondamente l'aspetto delle parole: già dai pochi esempi citati si trovano connessioni insospettate, come quella tra il ted. kommen, ingl. to come e l'it. venire; o quella tra l'it. gusto e l'ingl. to choose. Per decenni queste leggi ebbero un'importanza fondamentale nella ricerca linguistica, e non solo perché permettevano finalmente di fare delle etimologie non più semplicemente ad orecchio, ma con un metodo affidabile: non si deve dimenticare che esse riguardavano proprio le lingue germaniche, che in ultima analisi erano quelle che più importavano ai linguisti di allora. Questa componente nazionalistica non va intesa in senso negativo4: gli studiosi tedeschi 4 Anzi, sul nesso che la politica, molto più che la linguistica, volle fare tra lingua e razza, si veda l’ottimo 13 dell'Ottocento cercarono, è vero, le origini e le tradizioni della propria nazione (attività, fra l’altro, per nulla riprovevole, ma anzi meritoria), ma oltre a ciò erano uomini di grande cultura, e grandi umanisti. Vorrei che si comprendesse in che senso dico che erano uomini di cultura: negli ultimi decenni si è formata un’idea di cultura che è in qualche modo limitativa; so che dire così è esagerato e non rende giustizia a molti, ma mi sembra che in molte enunciazioni degli ultimi tempi la cultura faccia quasi la figura di una specie di trastullo intellettuale: e certamente non era così per questi studiosi tedeschi, che non erano soltanto degli eruditi ma cercavano la verità, ed avevano presente il precetto socratico “conosci te stesso”; perciò per uomini del genere la cultura era una finestra che li apriva alla conoscenza di se stessi e degli altri, ed infatti anche la loro curiosità intellettuale era amplissima. Sempre nel corso del XIX secolo altri studiosi tedeschi, praticamente dello stesso ambiente degli iniziatori dell’indoeuropeistica, si lanciarono a ricercare con la stessa foga le radici e le origini di altre nazioni: ad esempio il fondatore della filologia romanza è un altro tedesco, Friedrich Christian Diez (1794-1876); altri linguisti contribuirono a dare delle radici ad un popolo che altrimenti forse le avrebbe perdute, i Lituani; e gli slavisti tedeschi andarono perfino contro l'interesse della Germania, perché contribuirono alla rinascita della cultura ceca, e così finirono, consapevolmente o no, con l'alimentare un nazionalismo che ben presto si sarebbe rivolto contro di loro. Ho appena nominato la Lituania: i linguisti del XIX secolo si interessarono molto a questo piccolo Paese perché scoprirono che la sua lingua presenta singolarissimi tratti di arcaicità: pur essendo attestata solo in età moderna, conserva molti tratti indoeuropei (ci sono otto casi, manca solo l'ablativo; l'accento è libero e con due diverse intonazioni, come in greco antico; sono mantenute le quantità vocaliche; il lessico è particolarmente conservativo; i mutamenti fonetici sono relativamente scarsi, molto meno che nelle lingue slave). Nell'Ottocento alcune popolazioni lituane vivevano nel territorio dell'Impero tedesco, in Prussia orientale: perciò era particolarmente agevole per i linguisti studiare questi dialetti. Il linguista più notevole della seconda generazione, August Schleicher (1821-1868) pubblicò nel 1856-7 un Handbuch der litauischen Sprache che ebbe grande importanza non solo per la glottologia: infatti il maggiore letterato lituano, e padre della lingua lituana moderna, Jonas Jablonskis (1861-1930) nacque in territorio russo, ma vicinissimo al confine tedesco, e perciò parlava praticamente lo stesso dialetto codificato da Schleicher, quindi si fondò sulla sua grammatica per emendare la lingua lituana, elevando a lingua letteraria proprio quel dialetto. Va precisato che, trattandosi di una lingua senza tradizione letteraria ma affine al greco ed al latino, gli studiosi non incontrarono grosse difficoltà ad analizzarla: il punto su cui la grammatica di Schleicher fu manchevole riguarda i toni, cioè la distinzione di diversi toni nella sillaba accentata, che non è facile da individuare per chi non vi è abituato. Ma cerchiamo di rispettare la cronologia: lasciamo per un momento Schleicher e torniamo ai primi decenni dell'Ottocento: in quel periodo alcuni studiosi riuscirono a decifrare la scrittura geroglifica egizia (come pure la demotica) ed anche il cuneiforme persiano (più tardi, anche la scrittura cuneiforme assiro-babilonese). Forse sapete che fu il articolo di A. MORPURGO DAVIES, Razza e razzismo: continuità ed equivoci nella linguistica dell’Ottocento, in P. COTTICELLI KURRAS, G. GRAFFI, Lingue, ethnos e popolazioni: evidenze linguistiche, biologiche e culturali, “Atti del XXXII Convegno della Società Italiana di Glottologia”, ed. Il Calamo, Roma 2009, pp. 55-82. 14 francese Jean François Champollion a interpretare i geroglifici egizi, nel 1822; il cuneiforme persiano antico fu decifrato una prima volta da Georg Friedrich Grotefend (1775-1853) nel 1802, ma lo scopritore non poté portare avanti le sue ricerche e non le pubblicizzò a sufficienza, così che si dovette attendere alcuni decenni, finché l'ufficiale inglese Henry Rawlinson (1810-1895) si mise a studiare le grandi iscrizioni di Dario I a Behistun (o Bisutun). In questo modo si conobbe una nuova lingua indoeuropea, detta l'antico persiano: rispetto all'avestico si tratta di un altro dialetto, quello della Perside, oggi Fars, la regione dove si trovava Persepoli (oggi la città più importante di quella zona è Shiraz), nel sudovest; da questa lingua deriva il persiano moderno. Però le iscrizioni di Dario I erano tradotte anche in altre due lingue, l'elamico (lingua del Khuzistan, oggi estinta, non appartenente a nessun gruppo linguistico conosciuto) e l'assiro-babilonese (che si fa rientrare nell'accadico, cioè nel ramo orientale delle lingue semitiche). La decifrazione di quest'ultima lingua fu particolarmente faticosa perché la maggior parte dei segni è polifonica: per spiegare cosa significhi dirò che anche l'inglese oggi ha un buon grado di polifonia nel suo sistema ortografico: in questa lingua u a volte si legge /u/, a volte /ju/, a volte /ø/; in assiro-babilonese la cosa era più complicata perché i segni potevano avere diversi valori fonetici, ma potevano anche avere valori ideografici, e potevano essere usati per scrivere parole sumeriche intercalate in un testo accadico come ideogrammi; ancora oggi lo studio delle lingue semitiche di Mesopotamia richiede una solida preparazione specialistica, e difficilmente si concilia con altri tipi di ricerca. Torniamo ora a Bopp: nel 1821 egli ottenne a Berlino una cattedra di grammatica comparata, e passò tutta la sua vita in questo tipo di ricerche. A partire dal 1833 pubblicò a fascicoli una grammatica comparata che inizialmente prendeva in considerazione sanscrito, avestico, greco, latino, lituano, gotico e tedesco, poi egli riconobbe il carattere indoeuropeo di lingue come l'antico slavo, l'antico prussiano, l'albanese; questa grammatica fu completata nel 1852, ma subito dopo egli lavorò ad una seconda edizione riveduta, che uscì tra il 1857 ed il 1861; preparò anche la terza edizione, uscita postuma nel 1867. Dunque per un cinquantennio egli continuò a lavorare su questo argomento, dimostrando che con lo studio sistematico delle lingue, ed in particolare della grammatica comparativa, si poteva fare una nuova scienza; per la prima volta nella storia creò una scuola di studiosi professionali del linguaggio, e soprattutto per questo lo si può considerare il fondatore della linguistica. Alla sua morte era attiva una seconda generazione di linguisti, che continuò validamente la sua opera. Vediamo ora quali sono le lingue indoeuropee oggi conosciute: abbiamo menzionato il sanscrito (e le lingue neoindiane), poi vengono le lingue iraniche, che nella fase più antica erano strettamente affini alle parlate dell'India: un tempo esse avevano un'estensione territoriale molto maggiore di oggi, ma anche ora non si riducono affatto al territorio dell'Iran. Oltre al persiano moderno vero e proprio, lingua ufficiale dell'Iran, e che deriva dal persiano antico delle iscrizioni cuneiformi, esiste il tagico (parlato oltre che in Tagikistan anche in altre repubbliche dell’Asia centrale) che è una variante di persiano, come pure il cosiddetto dari dell’Afghanistan; altre lingue iraniche (ma più distanti) sono il curdo (usato soprattutto in zone di confine tra Iran, Turchia, Iraq), il baluchi (nella zona di confine tra Iran, Afghanistan e Pakistan), il pashto o pashtun (lingua ufficiale degli Afghani, ma diffuso anche in Pakistan), l'osseto del Caucaso, e molti altri dialetti isolati; delle lingue iraniche antiche conosciamo l'avestico e l'antico persiano epigrafico 15 (entrambe note in modo non completo a causa della scarsità di testi), poi nel Medioevo ci è tramandato il sogdiano (che fa parte dell’iranico orientale) ed altri dialetti, attestati attraverso manoscritti dei Manichei o dei Buddhisti stabiliti nell'attuale Turkestan cinese o Sinkiang. Nel tardo Ottocento ci si accorse che l'armeno non è un dialetto iranico, ma una lingua indoeuropea a sè: le prime attestazioni risalgono al V sec. d.C., con la cristianizzazione di quel popolo e la prima traduzione della Bibbia. Sono poi indoeuropee le lingue slave (russo, bielorusso, ucraino, polacco, ceco, slovacco, sloveno, bulgaro, croato, serbo ecc.): il più antico documento che possediamo è la traduzione della Bibbia di Cirillo e Metodio, del IX secolo d.C., in un dialetto bulgaro-macedone che però a quel tempo non doveva essere molto diverso da tutte le altre parlate slave. Le lingue baltiche indoeuropee oggi sono il lituano ed il lettone (l'estone invece è simile al finnico); fino al XVII secolo si parlava anche il prussiano, e ne rimane qualche documento, in opuscoli di argomento religioso scritti al tempo della Riforma protestante. Sono indoeuropee anche le lingue germaniche, divise in un gruppo orientale (estinto) rappresentato soprattutto dal gotico (ma sembra che parlassero dialetti affini anche Vandali, Eruli, Burgundi; una tribù di Goti si mantenne in Crimea almeno fino al XVI secolo), un gruppo occidentale che nel Medioevo comprendeva l'antico altotedesco (da cui deriva il tedesco moderno), l'antico sassone, il medio olandese, l'anglosassone, il frisone, nonché il basso tedesco o Plattdeutsch (rimasto sempre un dialetto anche se in alcuni secoli ebbe un ruolo notevolissimo); ed infine il gruppo nordico comprendente tutte le lingue scandinave, naturalmente eccetto il finnico ed il lappone. Un tempo erano diffusissime in Europa le lingue celtiche, che oggi sono tutte più o meno moribonde: in primo luogo l'irlandese gaelico, che ha una vasta letteratura ed oggi in Irlanda è insegnato a scuola, ma come lingua parlata ha un uso limitatissimo; il gaelico scozzese, confinato alle zone estreme della Scozia; il gallese, usato nel Galles da una minoranza sempre più ristretta; ed il bretone, in netto declino (queste ultime due lingue fanno parte del gruppo britannico nel celtico, contrapposto al gruppo gaelico). Sul gallico antico (anch’esso celtico) abbiamo scarse testimonianze. Queste lingue sono molto complicate (specialmente l'irlandese) e molto evolute rispetto alle altre lingue indoeuropee, per cui Bopp all'inizio non ritenne di doverle classificare in questa famiglia linguistica; solo dopo che nel 1853 uscì la Grammatica celtica di Johann Kaspar Zeuss si riconobbe appieno la loro giusta collocazione. Nell'Europa meridionale, è indoeuropeo il greco, lingua ben conosciuta e di cui si può seguire l'evoluzione per più di tre millenni, ora che sappiamo leggere i documenti di miceneo. Nell'Italia antica erano lingue indoeuropee il latino, l'osco-umbro, il venetico, il messapico, probabilmente anche il ligure ed il siculo; non era indoeuropeo invece l'etrusco. Inoltre, a partire dal 1915 si è cominciato a conoscere un altro gruppo di lingue indoeuropee antiche in Anatolia: l'ittito, il luvio, il licio, il lidio; invece il frigio, pure esso parlato in Anatolia nell'età classica, era anch'esso di origine indoeuropea, ma importato da popolazioni venute dalla Tracia. Si noti che l’ittito è la lingua indoeuropea più anticamente attestata, quella di cui possediamo i più antichi documenti scritti: ma per la ricostruzione si usa relativamente poco, sia perché la scrittura cuneiforme usata nei testi è talmente complessa ed imprecisa da fornirci solo un’idea molto approssimativa della lingua sottostante, sia perché la lingua stessa doveva essere notevolmente evoluta. Delle antiche parlate della penisola Balcanica, oltre al greco, sopravvive soltanto l'albanese che, pur molto evoluto e modificato profondamente da influssi di altre lingue, 16 nel suo nucleo risale ad una lingua indoeuropea non altrimenti conosciuta. Infine bisogna menzionare una lingua scoperta con grande sorpresa all'inizio del Novecento, in manoscritti medioevali buddhisti provenienti dal Turkestan orientale: si tratta del tocario (ma non si è sicuri che il popolo che la parlava fossero proprio i Tocarii, attestati da fonti classiche ed orientali), che è diviso in due dialetti, chiamati A e B, e non mostra particolari affinità con le lingue indoiraniche, che pure sono geograficamente le più vicine. Come si vede, alcune di queste lingue sono ben attestate, hanno una solida letteratura; altre invece sono pochissimo conosciute, perché i testi che ce le tramandano sono troppo scarsi, o troppo brevi, o ripetitivi. In una situazione del genere sono tutte le lingue del'Italia antica eccetto il latino, le lingue anatoliche (le quali, pur essendo attestate in epoca molto antica, appaiono evolute), il traco-frigio, il gallico, ecc. Riprendendo la storia della linguistica dovrò menzionare Wilhelm von Humboldt (1767-1835). Si tratta di un uomo politico importante nel regno di Prussia all'epoca napoleonica e nella Restaurazione: come ministro, fu proprio lui a fondare l'Università di Berlino, e vi chiamò ad insegnare Bopp. Si occupò di teoria del linguaggio in vari scritti, e fra l’altro si avvalse ampiamente di descrizioni di lingue esotiche lasciate da missionari (soprattutto gesuiti), ma l'opera che rappresenta meglio il suo pensiero (specie nell'introduzione) sembra Über die Kawisprache auf der Insel Jawa, pubblicata postuma dal 1836 al 1840. Questa lingua kawi è in realtà l'antica lingua letteraria dell'isola di Giava, usata fra il X e il XVI secolo; poi, col prevalere dell'Islàm, i seguaci degli antichi culti si rifugiarono a Bali dove continuarono le loro tradizioni. Questa letteratura giavanese è fortemente influenzata dal sanscrito: lo stesso nome kawi è parola sanscrita (nella traslitterazione ordinaria kavi) e significa "poeta", e kâvya significa "arte poetica" (ma per noi è quello stile artificioso tipico della poesia sanscrita tarda). Il kawi è una lingua colma di prestiti sanscriti, e la letteratura in questa lingua è quasi interamente di derivazione indiana: ma curiosamente si è molto radicata nel Paese, al punto che gli eroi del Maha@bha@rata come Arjuna furono ben presto creduti degli antichissimi re di Giava; e poi l'epica indiana non fu semplicemente tradotta, ad esempio il Ra@ma@@yana in kawi riprende una versione abbreviata in sanscrito (kâvya) del poema indiano, ma lo rifà completamente. Questo rifacimento, e questo appropriarsi dei poemi indiani, sono forse più evidenti nell'altro grande poema kawi, il Bharata Yuddha, che contiene la battaglia finale del Maha@bha@rata. In questo poema esistono lunghe (e per noi abbastanza noiose) descrizioni della natura che sembra partecipare all'azione nonché ai turbamenti degli eroi; ma la natura qui descritta è tipicamente giavanese, non certo indiana, le piante e gli uccelli sono quelli familiari a Giava. Tornando a Humboldt, possiamo dire che egli non si limitò al kawi, ma abbozzò una grammatica comparativa delle lingue maleo-polinesiache, che aveva in parte conosciuto nei suoi viaggi (una famiglia grandissima, con enorme estensione territoriale: ne fanno parte, oltre alle lingue dell'Indonesia ed al malese, le lingue delle Filippine, della Melanesia Micronesia e Polinesia, qualche lingua minoritaria del Vietnam, il Maori della Nuova Zelanda, alcune lingue della Nuova Guinea nella parte più orientale, ed infine il malgascio, lingua nazionale del Madagascar: in parte queste lingue si diffusero per emigrazioni, in parte furono adottate da popolazioni allogene); però, come del resto era logico, egli non partì da lingue puramente orali, ma dalla lingua di quel gruppo che aveva la più solida tradizione letteraria. Si può dire che quest’uomo 17 s’interessò di linguistica da diversi punti di vista: la linguistica descrittiva (oltre alla grammatica del kawi ne pubblicò una del basco, lingua che aveva studiato sul campo); fu il primo, si può dire, a trattare con competenza di linguistica teorica; parimenti iniziò gli studi sulla tipologia linguistica; ma si occupò anche di linguistica storico-comparativa, sia con la sua ricostruzione della famiglia maleo-polinesiaca, sia con alcuni contributi teorici alla ricerca in campo indoeuropeo. Leggendo il manuale della Morpurgo5, nel capitolo dedicato a questo autore si trovano esposte molte delle sue idee (notissima e molto citata l’idea che la lingua non è un ergon, ma una enérgeia; in altre parole non è un tutto in sé compiuto e concluso ma un’attività creativa, capace di rinnovarsi continuamente), che spesso si sono rivelate geniali e precorritrici, sostenute com'erano da una cultura eccezionalmente vasta e profonda, e concepite da un ingegno non comune. Ma va pure detto che non ebbe un grande seguito perché a quel tempo i risultati della ricerca linguistica non offrivano sufficiente materiale per proseguire sulla strada di considerazioni generali e di costruzioni teoriche: in pratica tutto quello che si poteva teorizzare in quegli anni fu già lucidamente esposto da lui, e per continuare la sua opera occorreva il lavoro di altre generazioni. Passiamo quindi alla seconda generazione di linguisti: nel campo indoeuropeo, il personaggio forse più rappresentativo è il già citato August Schleicher (1821-1868). Aveva studiato linguistica e filosofia a Bonn, e si era imbevuto di idee hegeliane; coltivò come seconda passione la botanica (qualcuno disse che la linguistica per lui era la moglie legittima, e la botanica l'amante), e aderì alle teorie di Darwin. La sua opera principale è il Compendium der vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen, Weimar 1861; è suo merito l'aver dato risalto alla fonetica, ed aver trattato di "suoni" anziché di "lettere" (cioè non diceva più, come i primi comparatisti, che alla lettera c- del latino corrisponde la lettera h- nelle lingue germaniche: diceva giustamente che il mutamento avvenne tra suoni); è suo anche il primo coerente tentativo di ricostruzione della lingua madre indoeuropea. Già Bopp aveva ipotizzato che doveva essere esistita una lingua madre da cui derivarono tutte le lingue indoeuropee storicamente conosciute; ma Schleicher si spinse oltre, tentò di ricostruire le parole indoeuropee, e scrisse perfino una favoletta in quello che per lui era l'indoeuropeo. Si può vedere l'inizio di questa favoletta, così come la scrisse lui: Avis akvasas ka avis, jasmin varna na a ast, dadarka akvams, tam, vagham garum vaghantam, tam, bharam magham, tam, manum aku bharantam. trad.: (una) pecora, sulla quale lana non era, vide cavalli, quello (un) carro pesante tirando, quello (un) peso grande, quello (un) uomo velocemente portando. Oggi le singole parole si ricostruirebbero diversamente: si è scoperto che è una legge fonetica del sanscrito, e non la situazione originaria, la riduzione di e ed o ad a; inoltre si è scoperto che le consonanti velari dovevano essere tripartite, dovevano cioè esistere delle velari pure, delle palatali (trascritte k$, g$, k$h, g$h), e delle labiovelari, cioè suoni del tipo qu-: queste ultime si trascrivono qu o kw o anche qw, kw (la sorda), gw, gu8, gw (la sonora), 5 Anna MORPURGO DAVIES, La linguistica dell’Ottocento, ed. Il Mulino, Bologna 1996. 18 e infine gwh, gu8h o gwh (la sonora aspirata). Perciò nel 1939 un altro indoeuropeista, Hermann Hirt, provò a riscrivere la favoletta nel modo seguente: ou8is ek$u8oses-que ou8is, jesmin u8l9na ne est, dedork$e ek$u8ons, tom, u8og$hom gW´rum u8eg$hontm9, tom, bhorom megam, tom, gh´monm§9 ok$u bherontm.9 Vediamo le singole parole: "pecora" in sanscr. è avis, in gr. oi'j" ois (da *owis: la -winterna è sparita senza lasciar traccia, come spesso accade in greco), in lat. ovis, in lit. avìs. Quanto alla parola per "cavallo", in scr. è açvas (dunque all’interno c’è una *k$ palatale + w), gr. i[ppoß (hippos), lat. equus, a. irl. ech, gall. epo-, got. aihwa-: la desin. di Nom plur. doveva essere in -es, ma forse in temi in -o come questo contraevano os-es in -o@s, e quindi forse è da ricostruire *ek$wo@s. Quanto alla congiunzione -que, la si ritrova tale e quale in lat., in scr. è diventata ca per note leggi fonetiche: in questa lingua la qu- diventa k-, poi davanti ad -e la k- si palatalizza, poi la -e cambia in -a (*kwe > *ke > *ce > ca, pronunciato come it. cia); il gr. ha te, perché in questa lingua una *qudavanti a vocale palatale (e, i) diventa t-. Quanto al pronome jasmin o iesmin, è ricostruito sulla base del scr. yasmin, locativo del pron. ya-: ma sulla base del gr. hJv (nom.) si potrebbe anche ricostruire *iei. La parola per "lana" in scr. è urna, in gr. lhnovß lenós (dor. lanovß lanós), lat. lana, got. wulla: si può ricostruire un *u8l9@na, se si ammette che nell'indoeuropeo esistessero sonanti lunghe, oppure in caso contrario *u8´l´na. Dubito che valga la pena di continuare a discutere tutte le singole parole del testo, tanto più che in seguito, più per gioco che per convinzione, altri linguisti provarono a riscrivere la stessa favoletta, secondo le loro teorie. Ma non ci si fa illusioni sulla possibilità di queste ricostruzioni, tanto più che in questo lavoro si rischia sempre di proiettare su un unico piano fatti linguistici che in realtà si sono verificati in epoche successive; la distanza fra le lingue indoeuropee attestate e la lingua madre è troppo grande perché si possa capire con sufficiente chiarezza come funzionava questa lingua, mentre invece si può parlare con molto più sicurezza di germanico comune, o di slavo comune, perché conosciamo lingue molto vicine a quella fase. Comunque oggi usiamo scrivere le parole di indoeuropeo ricostruito con un asterisco, come formulette comode per evitare di citare tutte le forme realmente attestate nelle lingue storiche. Di Schleicher è rimasto famoso un opuscolo, una lettera intitolata La teoria darwiniana e la linguistica (1863), in cui afferma che, come le specie animali o vegetali, anche le lingue hanno una vita, sorgono, crescono e poi invecchiano e muoiono (va detto che a quel tempo era convinzione comune che le lingue indoeuropee nel periodo della loro formazione non si fossero evolute con le stesse modalità osservate nelle lingue storiche: questa scuola di pensiero si dice antiunitaria); anche alle lingue secondo lui si possono applicare i concetti di "famiglia", anzi per la famiglia indoeuropea egli disegnò un vero e proprio albero genealogico, oggi non più accettabile: 19 b a l t ic o s l a v o c e l t ic o it a l ic o g r e c o a l b a n e s e ir a n ic o in d ia n o g e r m a n ic o l it u s l a v o n o rd e u ro p e o it a l o c e l t ic o gre c o a r io a r io g r e c o it a l o c e l t ic o in d o e u r o p e o Oggi non si crede più a questo albero genealogico per vari motivi: in molti casi si ha l'impressione che ci siano state delle migrazioni, per cui alcuni popoli indoeuropei che ora si trovano vicini possono non esserlo stati in un passato remoto; d'altra parte è certo che le lingue indoeuropee nelle loro sedi storiche si influenzarono reciprocamente: il caso più tipico riguarda le antiche lingue italiche le quali probabilmente (a differenza di quanto pensava Schleicher) in origine non formavano per nulla un gruppo all'interno dell'indoeuropeo, ma poi trovandosi vicine cominciarono ad imitarsi reciprocamente, ed infine risentirono tutte dell'influsso latino; sono poi noti gli antichi influssi iranici sullo slavo. Mi si permetta una digressione: abbiamo visto come i linguisti della prima generazione dipendevano dal clima romantico, e similmente i linguisti della seconda metà dell’Ottocento risentirono del clima positivistico. La pubblicazione dell’opera di Darwin On the Origin of Species (1859) ebbe un impatto enorme sulla cultura di quel tempo: fra l’altro, le conseguenze travalicarono di gran lunga il campo della biologia, a cui invece era opportuno che la ricerca si limitasse. Spiegandomi, dirò che per evoluzione si possono intendere almeno tre cose diverse: a) un processo, comprendente mutazioni genetiche casuali e selezione naturale, che era ed è una forza trainante nello sviluppo della vita sulla terra; b) un processo, comprendente mutazioni genetiche casuali e selezione naturale, che fornisce la spiegazione esauriente dello sviluppo della vita sulla terra, dai più semplici organismi viventi fino agli esseri umani; c) un processo, comprendente mutazioni genetiche casuali e selezione naturale, che fornisce la spiegazione esauriente dell’esistenza e della natura di tutti gli esseri viventi, compresi gli esseri umani. Nella formulazione a), l’evoluzione “darwiniana” oggi può essere accettata da tutti; nella formulazione b) è già più discussa, perché (a quanto sembra) numerosi fatti non quadrano; nella formulazione c) essa travalica certamente la biologia e addirittura abbandona il campo scientifico, invadendo il terreno della filosofia (e per soprappiù, Schleicher fece sì che il metodo darwiniano invadesse anche il campo della linguistica). Ma purtroppo nella seconda metà dell’Ottocento la versione più corrente e diffusa dell’idea evoluzionista era quella che faceva dell’uomo un puro prodotto biologico: se ne videro le conseguenze nel secolo che seguì, coi terribili massacri che le guerre e le ideologie provocarono. Comunque, in pochi anni dopo la morte di Schleicher il panorama delle cognizioni 20 riguardanti le lingue indoeuropee cambiò radicalmente. Ho già menzionato la legge di Grassmann: questo studioso la espose nel 1863, in un articolo sulla "Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung", come spiegazione di alcuni fatti del germanico che non si inquadravano nelle leggi di Grimm: infatti se si trovano parole come sanscr. bandhas "legame", bandhus "parente", il collegamento con il gr. penqerov" (pentherós) "suocero", e il got. bindan "legare" sembra impossibile: invece, sapendo che in greco e sanscrito, ogni volta che in una parola si trovavano due aspirate, la prima si deaspirava, si può agevolmente ricostruire alla base di tutti questi vocaboli una radice *bhendh-, in cui tutti rientrano perfettamente (per le leggi di Grimm, le cosiddette medie aspirate in gotico diventano medie). Una scoperta importantissima fu resa nota nel 1870, ad opera del goriziano Graziadio Isaia Ascoli: egli notò come in alcune parole un suono k rimanga inalterato in sanscr. e nelle lingue europee (ad es. sanscr. náktis "notte", gr. nuvkt- (nykt-), lat. noct-, got. nahts con rotazione consonantica; sanscr. kravi- "carne cruda", gr. krev(Ï)a" kré(w)as, lat. carn-), in altri si trovi ç in sanscr., altre sibilanti in iranico e baltoslavo, k nelle lingue europee (es. sanscr. çatam "cento", avest. sat´m, gr. eJkatovn hekatón, lat. centum, lit. šimtas; sanscr. daça "dieci", avest. dasa-, arm. tasn, gr. devka déka, lat. decem, a. irl. deich, got. taihun, lit. dešim-t, a. slavo dese-ti), ed in altri al contrario si abbia k (o c) in sanscrito, ma qu- in lat., p- o t- in gr., hw- in got.: ad es. sanscr. catvaras "quattro", arm. cork', gr. tevssare" téssares (omerico pivsure" písyres, beotico pevttare" péttares), lat. quattuor, umbro petur, lit. keturì, a. slavo cetyre (la forma che si ricostruisce è *quetwores). Perciò egli arrivò ad ipotizzare tre diverse serie di velari indoeuropee: le velari pure, continuate in tutte le lingue; le palatali, continuate in sanscrito, iranico, armeno, slavo, baltico, ma confuse con le precedenti nelle lingue dell'Europa nordoccidentale e in greco e latino-italico; e le labiovelari (suoni di tipo qu-), che in sanscr., iran., baltoslavo si confondono con le velari pure, ma restano distinte in lat., gr. (dove diventano dentali avanti i, e; velari in vicinanza di u; labiali negli altri casi; ma i dialetti eolici hanno labiali anche davanti a vocale palatale), in celtico (pur con differenze tra gaelico e britannico), in oscoumbro e germanico. Siccome quasi tutte le lingue distinguono solo due delle serie (hanno cioè o velari + labiovelari o palatali + velari, con le velari che si confondono con la serie andata persa), si parlò di lingue kentum (dal lat. centum) e lingue satem (dalla corrispondente forma avestica sat´m = 100). Alcune tracce di tutte e tre le serie sono conservate in armeno e albanese, ma entrambe le lingue sono molto evolute e servono poco per la ricostruzione; altre tracce (ma più sporadiche) di tutte e tre le serie si ritrovano in sanscrito e greco; le lingue anatoliche sembrano appartenere al gruppo centum, però presentano qualche forma satem; il tocario fa parte del gruppo centum, con qualche reminiscenza delle vecchie palatali. Nel 1873 fu dimostrato che, anche se il sanscrito confonde molto spesso (e più ancora nella fase vedica) le consonanti r, l mantenendo solo r, in realtà questa non è la situazione originaria, ma un'innovazione indoiranica, e la lingua madre doveva possedere un fonema /l/ perfettamente distinto da /r/. Nel 1876, Hermann Osthoff postulò l'esistenza nell'indoeuropeo primitivo di liquide sonanti, come in sanscrito. In questa lingua la r e la l possono aver funzione di apice sillabico, possono cioè fungere da vocali (secondo il padre della fonologia Trubeckoj queste non sarebbero mai delle vere vocali, ma secondo i grammatici indiani era il 21 contrario, e per semplicità possiamo seguire questi ultimi): nella scrittura indiana esistevano anzi due segni particolari per r9 ed l9 vocali, distinte da r ed l consonanti; esisteva anche una r9 lunga, e secondo i grammatici indiani perfino una l9 lunga. Osthoff, basandosi su equazioni del tipo: sanscr. pitr9s¢u = gr. patrási, sanscr. matr9s¢u = gr. matrasi, pensò che nel primitivo indoeuropeo dovessero esistere suoni di questo tipo, conservatisi in sanscrito e passati in greco a ra e la (in certe condizioni anche ar, al), in lat. a or, ol, in celt. a ri, li, in german. a ur, ul, in baltico a ir, il, in slavo a ri, li. Esempi: sanscr. mr9ti"morte", lat. mort-, lit. mirtis, a. slavo si*-mri*t, a. alto ted. mord "uccisione"; sanscr. mr9du"molle", gr. !amalduvnw amaldýno "ammollisco, indebolisco", lat. mollis, lit. mildus. Nel 1877 furono rese note alcune scoperte fondamentali in campo indoeuropeo: prima fra tutte la legge di Verner. Il danese Karl Adolph Verner si chiedeva come mai, in due parole gotiche simili da molti punti di vista come fadar "padre" e broþar "fratello", ci fosse stata un'evoluzione discorde: infatti, alla prima corrisponde il lat. pater (e parole analoghe nelle altre lingue), alla seconda il lat. frater: perché dunque una -t- interna dev'essersi evoluta in -þ- (regolarmente, secondo le leggi di Grimm) nel secondo caso, e invece in -d- nel primo? Avendo in mano la grammatica di Bopp in cui le parole sanscrite sono scritte con l'accento (tipico della fase vedica), notò come la prima sia pitá, la seconda bhra@!ta@; in greco, che pure conserva in parte l'antico accento indoeuropeo, si ha rispettivamente pathvr patér e fravthr phráter "membro d'una fratrìa". Si domandò se la diversa evoluzione fosse dovuta alla diversa posizione dell'accento: da altri casi trovò conferma, e così arrivò a formulare la sua legge: in germanico, le occlusive sorde dell'indoeuropeo evolvono regolarmente a spiranti sorde solo all'inizio di parola o quando l'accento indoeuropeo cadeva sulla vocale immediatamente precedente; ma all'interno, in posizione intervocalica, se l'accento cadeva sulla vocale seguente, mutano ancora diventando spiranti sonore (indicate nelle scrittura gotica semplicemente come delle sonore b, d, g). Così si vide che tutta una serie di fenomeni, che prima sembravano fare eccezione elle leggi di Grimm, in realtà cadevano sotto un'altra legge più minuziosa. Nell'anno 1877, Karl Brugmann postulò l'esistenza in indoeuropeo, accanto alle liquide sonanti, di nasali sonanti, cioè di m9 e n9 in funzione di apice sillabico (ovvero in funzione vocalica). L'evoluzione sarebbe verso a in greco e sanscr., verso em, en in lat., verso im, in nel celtico e baltico, verso um, un in germanico, verso e¶ in slavo. Così, postulando un indoeur. *dek$m9 "dieci", si ha sanscr. daça, gr. devka déka, lat decem, got. taihun ecc.; il prefisso privativo, che in gr. e sanscr. è a-, in lat. in-, nelle lingue german. un-, si trova così che risale ad un antico *n9-; per es. sanscr. a-mr9tas "immortale", gr. a[mbroto" á-mbrotos, lat. im-mortalis, o sanscr. a-jña¤tas "ignoto", gr. a[gnwto" á-gnotos, lat. ignotus (da *in-gnotus: sembra che in latino il gruppo gn- si pronunciasse Nn-), a. irl. in-gnat, got. un-kunþs. In questo modo si spiega anche la desinenza -a dell'accusativo nei temi in consonante del greco: desinenza normale di quel caso è -m, come in lat. lupu-m, sanscr. vr9ka-m, gr. luvkon lyko-n (in greco la -m finale non può stare e quindi normalmente cambia in -n); per i temi in consonante, il lat. ha ad es. leon-em, mentre il gr. ha levonta léonta: se si presuppone anche qui una –m9 sonante, si avrà *léont-m9 > léont-a (la parola in questione non ha origine indoeuropea, ma la desinenza può ugualmente essere assunta ad esempio). Ancora nel 1877, H. Hübschmann postulò l'esistenza del cosiddetto šva (o š´wa) 22 indogermanicum, vocale indistinta che gli studiosi scrivono di solito ´: in alcune parole, ad una -i dell'indoiranico corrisponde per lo più -a nelle lingue dell'Europa: così il più volte citato sanscr. pitar- "padre" trova corrispondenti nel gr. pathvr pater, lat. pater, ecc.; al sanscr. sthitás "posto" (part. pass.) corrisponde gr. statov" statós, lat. status, ecc. Tra il 1878 e il 1880 fu scoperta la legge di Collitz e Schmidt: si vide cioè che in sanscrito (a somiglianza dell'italiano) le velari palatalizzano davanti a -e, -i: così la parola corrispondente al lat. quid è cid, da *kid (non dimentichiamo che il sanscrito è lingua satem, dunque la qu- passa a k-). Ma anche dove l'antica -e non c'è più, perché passata ad -a, la palatalizzazione rimane: così alla congiunzione lat. -que "e" corrisponde ca, attraverso una trafila *que > *ke > *ce > ca, come si è visto prima. Si vide anche che in sanscrito doveva essere esistito un antico o, perché in alcuni casi in cui ha valore morfologico non cambia in a, ma in a@. Così in lat. esiste una radice menche in origine doveva avere il valore di "pensare": mens, mentis "mente", memini (forma raddoppiata) "ricordo", ed il verbo causativo moneo (con vocale –o-) "faccio pensare", quindi "ammonisco". In sanscr. doveva esistere una simile apofonia, si conosce manas "animo", manyase "tu pensi", e al causativo ma@nayati "egli fa pensare" (legge di Brugmann). Dunque l'indoeuropeo doveva conoscere e ed o, che anzi si opponevano morfologicamente col procedimento dell'apofonia, come in gr. leivpw - levloipa léipo lé-loipa "lascio - ho lasciato"6. [Cerchiamo ora di spiegare che cosa sono la metafonia e l’apofonia. Metafonia o metafonesi è in linea di principio uno sviluppo puramente fonetico, l’influsso di una vocale su un’altra non immediatamente vicina: ad esempio in alcuni dialetti veneti, come il padovano rustico, esiste una metafonia di chiusura, per cui una –i finale chiude la vocale della sillaba precedente: si ha allora bon “buono”, plur. buni; sposo, plur. spusi; tempo, plur. timpi; ninsóeo “lenzuolo”, plur. ninsúi, ecc. Ma fin qui la metafonia non ha risvolti grammaticali, perché la desinenza di plurale è conservata. Diverso è il caso dei dialetti emiliani e romagnoli, che hanno perso la –i finale e perciò distinguono il singolare dal plurale con la sola metafonia: fiaur “fiore”, pl. fiur (da *fior, *fiuri). Nei dialetti dell’Italia centro-meridionale si ha un’altra metafonia di chiusura, determinata anche da –u finale: in questi dialetti si distingue infatti tra –o ed –u finali del latino (tipo lat. canto “io canto” e cantus “il canto” che nell’Italia centromeridionale danno rispettivamente canto e cantu, mentre l’italiano ha canto per entrambi). Ma in molti di questi dialetti tutte le vocali finali sono passate oggi a -´; perciò il napoletano oggi distingue tra russ´ ”rosso”(da rossu>russu) e ross´ ”rossa”(da rossa), cioè la metafonia serve a distinguere il maschile dal femminile. Quindi nel napoletano odierno si hanno nuove formazione del tipo nfus´ ”bagnato” (regolare, da infu¤sus) che al femminile fa nfos´ in cui la –o- non è giustificata da alcuna ragione etimologica (dal latino infu¤sa si dovrebbe avere ancora *nfus´). Dunque in un caso del genere la metafonia è uscita dai suoi argini per diventare apofonia: l’alternanza della vocale interna ha acquistato valore morfologico, esattamente come nel verbo delle lingue germaniche, dove si ha ingl. to find, found, found o ted. finden, fand, gefunden. In queste lingue il procedimento dell’apofonia si è applicato anche a verbi che etimologicamente non dovrebbero averla, 6 Per una trattazione più approfondita di queste leggi fonetiche si veda R. GUSMANI, Elementi di fonetica storica delle lingue indoeuropee, cit., pp. 69-70, 106-109, 114-135. 23 come ted. schreiben, schrieb, geschrieben dal lat. scribere o ingl. to catch, caught, caught che attraverso il franco-normanno risale in ultima analisi al lat. captiare.] Con tutte queste scoperte susseguitesi in pochi anni, il panorama delle conoscenze in campo indoeuropeo cambiò profondamente: si è visto come la favoletta scritta da Schleicher (uscita nel 1868) sia profondamente diversa nell'aspetto delle parole da quella di Hirt pubblicata (postuma) nel 1939, e fin qui non ci sarebbe nulla di strano: è naturale che la scienza progredisca in un lasso di tempo così lungo. Un po’ più sorprendente è invece il constatare che praticamente tutte le leggi fonetiche che fanno la differenza tra le due siano state scoperte prima del 1880, e quindi in teoria già in quell’anno qualcuno avrebbe potuto riscriverla molto simile a quella di Hirt7; non solo, ma negli anni successivi si verificò una battuta d'arresto, sembrava che ormai tutto quel che si poteva dire di plausibile su questi argomenti fosse già stato detto. Comunque, negli anni "ruggenti" per così dire, tra il 1875 e il 1880, soprattutto all'università di Lipsia si sviluppò il movimento dei giovani studiosi detti Junggrammatiker, in italiano neogrammatici. Capiscuola erano i già citati Brugmann e Osthoff, principale teorico fu il germanista Hermann Paul: il principio che essi affermarono con la massima forza fu l'ineccepibilità delle leggi fonetiche: "ogni mutamento fonetico, in quanto procede meccanicamente, si compie secondo leggi senza eccezioni, cioè la direzione del movimento fonetico è sempre la stessa in tutti i componenti di una comunità linguistica, a meno che non subentri una divisione dialettale, e tutte le parole sulle quali il suono sottoposto al movimento fonetico appare in uguali condizioni sono, senza eccezioni, soggette al mutamento"8. Unica possibilità di deroga che i neogrammatici ammettevano alle leggi fonetiche era l’analogia: essa in effetti agisce all’interno di paradigmi, mantenendone l’unità anche contro la persistenza delle leggi suesposte. Un esempio evidente si ha nel passaggio dall’italiano al latino: è legge fonetica che la e* breve latina in sillaba aperta e accentata diventa ie, e nelle stesse condizioni la o* breve diventa uo. Così dal lat. de*cem si ha dieci, da ho*mo si ha uomo. Allo stesso modo, da no*vus deriva nuovo, dal verbo me*to si ha in italiano mieto. Ma in italiano abbiamo anche nuovissimo, o alla seconda persona plurale mietete, che sono forme analogiche: in questi casi (siccome si aggiungono dei suffissi, e l’accento si sposta) si dovrebbe avere secondo le leggi fonetiche novissimo (che in realtà esiste in toscano, ed esisteva nell’italiano antico, ma oggi non si usa più) e *metete, ma si preferisce regolarizzare secondo i normali paradigmi della lingua. In buona parte questa dichiarazione dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche era un atto di fede: a quel tempo, dopo che nel volgere di pochi anni si erano scoperte tante nuove leggi che rendevano il panorama della ricostruzione indoeuropea di gran lunga più razionale che in precedenza, era ragionevole sperare che anche le residue oscurità sarebbero state presto dissipate. Così non fu, e ad esempio in una lingua come il latino le leggi fonetiche, quando si riesce a formularle, ammettono sempre una quantità di eccezioni che non si riesce a spiegare. Si può aggiungere che queste prese di posizione suscitarono fra i contemporanei accese polemiche, su cui oggi si può anche sorvolare; è certo però che i neogrammatici portarono al massimo grado di raffinatezza il metodo della linguistica storico-comparativa, tanto che dopo di loro le novità di maggior rilievo 7 Va detto che lo stesso Hirt era un neogrammatico, ed anzi negli ultimi anni della sua vita, quando scrisse la revisione di quella favoletta, era ormai un sopravvissuto. 8 Cfr. C. Tagliavini, Glottologia, p. 175. 24 in campo indoeuropeo derivarono più dalla scoperta di nuove lingue appartenenti a questa famiglia (ittito, tocario, ecc.) che dalla ricerca di nuove leggi fonetiche: non che dopo il 1880 non si siano più trovate leggi fonetiche, anzi alcune risalgono ad anni recenti, ma nessuna di queste ha l'impatto di quelle del periodo neogrammatico. Il filone di ricerca inaugurato da Bopp, la comparazione indoeuropea, anche se non era del tutto esaurito (non lo è neppure oggi) cominciava a dar segni di stanchezza: nel frattempo però si era formato uno stuolo di linguisti, e questa scienza aveva assunto grande prestigio: nelle sue memorie, il grande linguista Trubeckoj scrisse di aver deciso di dedicarsi allo studio della linguistica perché “prima di tutto ero giunto alla convinzione che la linguistica sia l’unico ramo dell’antropologia che ha un metodo veramente scientifico, e che gli altri rami di questa scienza (folklore, storia delle religioni, storia della cultura) possono passare da uno stadio di sviluppo ‘alchimistico’ ad uno più elevato solo quando, in quanto a metodo, si indirizzeranno sul modello della linguistica.” Come si vede, era ben operante il complesso d’inferiorità degli umanisti di fronte alle cosiddette scienze esatte, e la linguistica dava invece l’impressione di avvicinarsi molto a quelle discipline: anche l’insistere dei neogrammatici sulle leggi fonetiche si capisce come lo sforzo di rendere sempre più esatta questa scienza. A mio avviso questi complessi d’inferiorità sono ingiustificati: nella mia esperienza di linguista, piuttosto che delle leggi ineccepibili (come le volevano i neogrammatici) ho trovato delle tendenze, perché la lingua è sempre un prodotto umano, e l’uomo è dotato di libero arbitrio, e perciò può scegliere se seguire l’onda od opporvisi. Se considerassimo scientifico solo ciò che è sottoposto a leggi ineccepibili, tutte le discipline che si occupano dell’uomo (inclusa la medicina) dovrebbero essere escluse dal novero delle scienze! Comunque, l’affievolirsi dell’interesse verso la ricerca in campo indoeuropeo provocò un ripensamento di tutta la materia, nel quale in Europa si segnalò soprattutto il ginevrino Ferdinand de Saussure. Brevi note aggiuntive a Saussure A p. 20 dell’edizione francese si comincia dicendo qual è la materia della linguistica; il capitolo seguente (p. 23) comincia chiedendosi qual è l'oggetto della linguistica. Che differenza fa Saussure tra materia ed oggetto? proverò a fare un paragone. Immaginiamo che un gruppo di persone si trovi per la prima volta di fronte ad un prato, e che tutti comincino a guardarlo. Il prato è la materia sottoposta alla loro attenzione, ma non tutti vedono le stesse cose. Se qualcuno di loro s’intende di botanica saprà riconoscere molte specie che gli altri non distinguono, forse troverà alcune specie rare o particolari forme di adattamento; se qualcuno è entomologo guarderà soprattutto gli insetti che popolano quel prato; se qualcuno fa incetta di erbe alimentari o medicinali cercherà solo quelle; se qualcuno ha la passione per i fiori vedrà innanzitutto quelli; chi non ha questi interessi o queste competenze potrà cercare nel prato soltanto un angolo per sdraiarsi a suo agio. Questi sono gli oggetti della ricerca: in altre parole, per conoscere l'oggetto d’una ricerca bisogna sapere che cosa si vuol cercare, ed in questo senso si dice che è il punto di vista che crea l’oggetto. Non credo invece che il Saussure sia così idealista da pensare che un oggetto materiale esista solo in virtù del punto di vista dell’osservatore. A p. 26 si accenna in modo ancora imperfetto al concetto di doppia articolazione del linguaggio, che sarà poi divulgato da un continuatore di Saussure, André Martinet (nei 25 suoi Elementi di linguistica generale, alle prime pagine). Secondo questo linguista il linguaggio umano ha la particolarità che ogni enunciato si può suddividere in unità minime di significato (come dice anche Saussure) e poi in unità minime di suono, cioè in fonemi (ed invece qui egli parla di sillabe). Per usare le parole dello stesso Martinet, § 1.8 dei suoi Elementi di linguistica generale, “se io soffro di dolori alla testa posso manifestare questo fatto con delle grida; queste […] possono essere anche più o meno volute e destinate a far conoscere le mie sofferenze a chi mi è vicino. Ma ciò non basta ancora perché si abbia una comunicazione linguistica; ogni grido è inanalizzabile e corrisponde all’insieme, inanalizzato, della sensazione dolorosa. La situazione è invece completamente diversa se pronuncio la frase ho mal di testa: qui nessuna delle unità successive ho, mal, di, testa corrisponde a qualcosa che il mio dolore ha di specifico, anzi ognuna di esse può trovarsi in contesti diversi per comunicare fatti d’esperienza diversi”. Teoricamente è immaginabile un sistema di comunicazione che utilizzi un enorme numero di grida un analizzabili per comunicare le più diverse situazioni e necessità: ma probabilmente sarebbe antieconomico, la nostra mente farebbe fatica ad immagazzinare tutti questi segni diversi, e comunque le nostre capacità espressive sarebbero limitate. Invece combinando alcune migliaia di unità come testa, ho, di, ecc. si riesce a comunicare di più e meglio che con milioni di grida inarticolate diverse. Questa è la prima articolazione del linguaggio: ma ognuna di queste unità è a sua volta scomponibile in altre unità di carattere fonico: il suono iniziale di testa è ad esempio lo stesso che compare all’iniziale di tenda, tamburo, ecc.; è questa la seconda articolazione. Per Martinet gli elementi di prima articolazione sono i monemi (che non corrispondono alle parole: ad esempio in andiamo ce ne sono due, la radice and- e la desinenza –iamo), che nella linguistica americana sono detti invece morfemi; le unità di seconda articolazione sono i fonemi. Il linguaggio umano in quanto tale possiede sempre questa doppia articolazione, vale a dire è scomponibile in unità minime di significato e poi in unità minime di suono; ma la doppia articolazione non comprende tutto il linguaggio, lo stesso Martinet osserva che esistono alcuni tratti soprasegmentali, che cioè non si prestano ad essere scomposti nello stesso modo: in italiano esiste ad esempio l’accento e l’intonazione di frase (si pensi alle frasi interrogative, che necessitano di un’intonazione particolare). Alle pp. 23-32 Saussure distingue, tra l’insieme dei fenomeni linguistici, il linguaggio, la lingua e la parole. Per linguaggio s’intende la capacità di parlare propria di tutti gli esseri umani: perciò si parla ancora oggi di universali del linguaggio, ovvero di leggi valide per tutte le lingue del mondo. Col termine lingua (in francese langue) egli designa una qualsiasi lingua storica; invece la parole è la manifestazione concreta della lingua. Secondo il traduttore di Saussure, Tullio De Mauro, questo termine parole è intraducibile, perché in italiano parola significa quasi sempre un solo vocabolo, eccetto in usi antichi o in locuzioni fisse come la parola di Dio, il dono della parola, dare o prendere la parola, ecc. Per parole Saussure intende la realizzazione pratica, materiale della lingua: dunque se la lingua è un codice, indispensabile perché si realizzi la facoltà di linguaggio propria di ogni uomo, la parole è il messaggio, è attuazione e messa in opera di quel codice. Detto in altro modo: la lingua in senso saussuriano (ma anche nel nostro parlare corrente) è qualcosa d’immateriale, non percepibile coi sensi: tutti i discorsi che facciamo o sentiamo sono atti di parole, cioè dei messaggi in lingua italiana, ma nessuno di essi costituisce la lingua italiana, e nemmeno la somma di tutti questi discorsi ci dà la lingua 26 italiana. Dunque il Saussure pone come oggetto principale della linguistica la lingua, intesa nel senso di cui sopra: il linguista, pur avendo sotto gli occhi soltanto la parole, nel suo studio deve mirare alla lingua. Alle pp. 97-103: va osservato che i curatori del Cours furono molto fedeli nel riportare le parole ed i concetti di questo linguista svizzero, ma non rispettarono affatto la disposizione degli argomenti: perciò in questo capitolo prima si afferma che la lingua non è una nomenclatura, ma poi (p. 100) ci si limita a dire che è arbitrario il legame tra significante e significato, e si trascura il fatto che è arbitrario anche il legame tra il concetto (o significato) e la realtà esterna, extralinguistica. Se fosse arbitrario solo il legame tra significante e significato, ma i significati fossero naturali (cioè non arbitrari), si tornerebbe alla concezione delle lingue come nomenclature, e certamente non era questo il pensiero di Saussure. Perciò, per completare quanto è scritto a p. 100, si può dire che non solo non esiste un rapporto interiore tra l'idea di "sorella" e la sequenza <soeur> [sör] che la rappresenta in francese; ma anche il significato di questa parola è arbitrario, ed infatti le due parole in francese ed italiano non corrispondono perfettamente: nella nostra lingua esiste il termine suora che ricopre alcuni significati (sia pur marginali) di soeur. Ma c'è di più: in altre lingue del mondo i concetti relativi ai termini di parentela sono suddivisi diversamente che nelle lingue principali dell’Europa. In turco un solo termine, kardeß, sta per “fratello” e “sorella”; in cinese per la stessa area semantica esistono quattro parole, perché xiõng significa “fratello maggiore”, dì “fratello minore”, zi “sorella maggiore”, mèi “sorella minore”; nel malese di Singapore i termini si riducono a tre, abang “fratello maggiore”, kakak “sorella maggiore”, e adik “fratello/sorella minore”9; nel Tok Pisin, pidgin della Nuova Guinea a base inglese, esistono le parole brata e susa, evidentemente derivate dall'ingl. brother e sister, che però, per influsso delle lingue indigene, hanno profondamente modificato il valore originario: brata significa "fratello (o sorella) dello stesso sesso", mentre susa si usa per "fratello (o sorella) di sesso opposto". Dunque una stessa realtà come quella dei rapporti di parentela (che si ritrova in qualsiasi comunità umana) può essere analizzata, in culture diverse, con concetti diversi e non sovrapponibili. [Sulla base di osservazioni di questo genere, negli anni Venti del Novecento i linguisti americani Whorf e Sapir elaborarono l’ipotesi secondo cui la percezione del mondo che noi possediamo sarebbe influenzata (o addirittura determinata) dalla nostra lingua nativa.] P. 114 ss., sincronia e diacronia: durante il XIX secolo la linguistica era stata quasi interamente assorbita dalla diacronia, cioè aveva studiato quasi soltanto le evoluzioni delle lingue nel tempo, e lo stesso Saussure si era impegnato in questa direzione. Ma in questo modo si era andati alla ricerca di mutamenti fonetici molto particolari, spezzettando così la ricerca e perdendo di vista l’insieme. In queste lezioni Saussure afferma con forza la priorità della sincronia negli studi linguistici: solo attraverso la sincronia si riesce a percepire nella sua realtà quel sistema che è la lingua. BLOOMFIELD 9 V. ORIOLES, Lingua e visione del mondo, “Notiziario dell’Università degli Studi di Udine” 1995, n. 4, pp. 34-43 27 Leonard Bloomfield (1887-1949) ebbe un enorme successo oltreoceano, tanto da diventare il massimo caposcuola della linguistica americana nella prima metà del XX secolo, e per decenni in America fu considerato il più grande linguista di tutti i tempi: al contrario in Europa non raccolse consensi, e di solito nelle storie della linguistica scritte da autori europei, quando non è omesso del tutto, è alquanto maltrattato10; ma penso che oggi, deposti gli entusiasmi e le animosità, sia opportuno cercare di capire i motivi del suo successo, comprendere che cosa apprezzassero in lui i contemporanei, passando oltre alla repulsione che ispirano anche a noi alcune sue affermazioni e certe sue crudezze. Fu allievo dei neogrammatici, e la sua opera capitale è il manuale intitolato Language, pubblicato una prima volta a New York nel 1933, e poi a Londra nel 1935 (con qualche modifica); lo si può leggere anche in traduzione italiana, Il Linguaggio, ed. Il Saggiatore, Milano 1974. Già nella prefazione alla prima edizione egli enuncia alcuni suoi princìpi fondamentali: "Questo libro è una versione rivista del mio Introduction to the Study of Language, apparso nel 1914 ... La nuova versione è assai più estesa della prima, perché nel frattempo la scienza del linguaggio è progredita e anche perché sia gli studiosi che il pubblico colto attribuiscono ora un maggior valore alla comprensione del linguaggio umano". Alcune righe più sotto, uno dei punti chiave: "nel 1914 ho basato questa fase dell'esposizione sul sistema psicologico di Wilhelm Wundt, allora largamente accettato. Ma da allora ci sono stati molti cambiamenti nella psicologia e, comunque, abbiamo imparato quel che uno dei nostri maestri sospettava già trent'anni or sono, e cioè che è possibile intraprendere lo studio del linguaggio senza far riferimento ad alcuna teoria psicologica; così facendo garantiamo i nostri risultati e li rendiamo più significativi per i ricercatori di discipline affini. In questo libro ho cercato di evitare una simile dipendenza: solo a fini di chiarimento ho indicato, qua e là, come differiscano nella loro interpretazione le due principali correnti psicologiche attuali. I mentalisti vorrebbero integrare i fatti linguistici dandone una versione in termini mentali, versione che varia a seconda delle varie scuole di psicologia mentalistica. I meccanicisti esigono che i fatti vengano presentati senza minimamente presupporre alcuno di questi fattori ausiliari. Ho cercato di soddisfare questa esigenza non soltanto perché credo che il meccanicismo sia la forma necessaria per il discorso scientifico, ma anche perché un'esposizione che si regga da sola è più solida e può essere esaminata più facilmente di un'altra che qui e là è puntellata da un'altra e mutevole teoria." Qui si fa allusione ad una teoria psicologica di Wundt (che probabilmente pochi di noi conosceranno) ed anche ad altre teorie concorrenti: cerchiamo di capire a cosa vuole arrivare il nostro autore. Lo psicologo Wundt (1832-1920) insegnò a Lipsia dal 1875 in poi, dunque fu collega di Brugmann e Osthoff, e nelle sue idee sentì l'influenza del clima culturale neogrammatico-positivista in cui operava; a loro volta i neogrammatici si avvalsero delle sue teorie ogniqualvolta dovettero spiegare con la psicologia alcuni fatti di linguaggio. Ma che bisogno c'è di citare una teoria psicologica (e di intervenire in una polemica tra scuole psicologiche) già 10 Si veda ad esempio quanto scrive G.C. LEPSCHY, La linguistica del Novecento, Bologna 1992, p. 76: “Oggi queste posizioni sono generalmente screditate e non risulta ben chiaro come sia stato possibile che, per quasi tre decenni, i linguisti abbiano seriamente pensato di dire qualcosa di interessante sul linguaggio, e sui fenomeni psicologici ad esso inestricabilmente pertinenti, in base a una impostazione quale sarebbe difficile immaginare più incongrua e disadatta all’oggetto studiato.” 28 nella prefazione ad un manuale di linguistica? Anche nelle prime pagine del Cours di Saussure (p. 21 e p. 30 del testo francese) si era presentato il problema di come separare la linguistica dalla psicologia: ma il grande linguista ginevrino l'aveva risolto con la sua distinzione di langue e parole, in cui la psicologia influenzerà soltanto le esecuzioni individuali, cioè i singoli atti di parole, ma non quel codice che è la lingua; perciò il linguista, operando sulla lingua, si affranca da ogni sudditanza verso gli psicologi. Una soluzione del genere non poteva essere accettata da Bloomfield, perché quest'ultimo aveva una mentalità fortemente materialista, e quindi gli poneva grosse difficoltà ammettere l'esistenza di un'entità non percepibile coi sensi quale è la lingua. Soffermiamoci su questo argomento: ciò che percepiamo coi sensi è sempre la parole, non la lingua: noi percepiamo (e produciamo) continuamente un grande numero di atti di parole in lingua italiana, ma la lingua italiana non è racchiusa in nessuno di questi atti, e nemmeno nella loro somma, perché se la lingua è un codice, la somma di infiniti messaggi non equivarrà mai al codice. Dunque noi non vediamo né sentiamo la lingua italiana, eppure essa esiste certamente, altrimenti non riusciremmo a capirci! Ma per un materialista convinto è difficile accettare tutto ciò: di conseguenza, Bloomfield cercò di costruire una linguistica fondandosi solo su ciò che è percepibile, cioè (in termini saussuriani) sulla parole. Aggiungo però che nella prefazione il nostro autore si contraddice, perché prima dichiara di non volersi appoggiare a nessuna teoria psicologica, ma poi appoggia la psicologia meccanicista: in realtà era un seguace del behaviourismo o comportamentismo, una corrente che voleva creare una psicologia oggettiva escludendo ogni ricorso all'introspezione, e fondandosi solo sul comportamento esterno, analizzato in termini di stimolo e risposta. Non è certo un caso isolato: in tutti i casi che conosco, chi proclama di voler fare una scienza neutra, in realtà (consapevole o no) ci vuole ammannire la sua visione del mondo spacciandola per scientifica. Comunque vediamo in che modo procede il nostro Autore: a p. 27 dell'edizione italiana egli comincia a proporre un esempio di avvenimento linguistico nei termini che seguono. "Immaginiamo che Jack e Jill [due nomi qualunque] stiano camminando lungo un sentiero. Jill ha fame, vede una mela su un albero, produce un rumore con la laringe, la bocca e le labbra. Jack salta lo steccato, si arrampica sull'albero, coglie la mela, la porta e gliela mette in mano. Jill mangia la mela." Poi Bloomfield fa di questo evento un'analisi che si può riassumere così: Jill sente uno stimolo, ha fame, le onde luminose della mela colpiscono i suoi occhi, desidera avere la mela: questo è lo stimolo S. Lo stimolo provoca una reazione: da sola Jill potrebbe forse cogliere la mela, ammesso che ne sia capace, e questo costituirebbe la reazione R (reazione concreta); tutti gli animali sono soggetti a stimoli e reazioni di questo tipo, ma se non sanno procurarsi il cibo restano affamati. Jill invece ha un'altra risorsa: chiedere la mela a Jack, e questa è detta da Bloomfield "reazione linguistica sostitutiva", r. Per chi ascolta, questo non è uno stimolo concreto S (come sarebbe il desiderare la mela), ma uno stimolo sostitutivo s, che può produrre una reazione non linguistica R (andare a prendere la mela). Perciò, anziché la reazione non linguistica S -----> R, si ha la reazione mediata dal linguaggio S ------> r ...... s ------> R. Così il linguaggio consente ad una persona di produrre una reazione R quando è un'altra persona a ricevere lo stimolo S. La divisione del lavoro, e con essa tutto il funzionamento della società umana, si deve quindi al linguaggio. Fin qui il nostro Autore: e francamente questo esempio ci lascia insoddisfatti, perché se il linguaggio fosse tutto qui, dovremmo 29 dire che molte specie animali sanno parlare, visto che per una comunicazione così elementare basta molto meno di quel che è il linguaggio umano. Anche un bambino di un anno è capace di indicare una mela e far capire che la vuole: eppure deve ancora imparare a parlare! Si ha la netta impressione che questo Autore svaluti di proposito l'uomo, non voglia riconoscere ad esempio la peculiarità del linguaggio umano di essere doppiamente articolato: alle pp. 32-33 scrive: "il linguaggio umano differisce dagli atti segnici degli animali, anche se questi usano la voce, per la sua grande differenziazione. I cani, per esempio, producono solo due o tre tipi di rumori - e cioè abbaiano, ringhiano, e guaiscono: un cane può indurre un altro ad agire servendosi soltanto di questi pochi segnali differenti. I pappagalli possono produrre un gran numero di suoni diversi, ma apparentemente non rispondono in modo diverso ai diversi suoni. L'uomo, invece, produce molti tipi di rumori vocali sfruttando appieno la loro varietà: sottoposto a determinati stimoli egli produce determinati suoni vocali, ed i suoi compagni, udendo questi suoni, reagiscono in modo appropriato. Per farla breve, nel linguaggio umano, suoni diversi hanno significati differenti." Anche nel gatto e nel cane suoni differenti hanno significati differenti, ma la loro diversità rispetto al linguaggio umano non è solo quantitativa (una minore varietà di suoni), è di organizzazione generale, perché questi suoni non sono scomponibili in unità minime di significato (quali sono le parole, o più precisamente i morfemi, che in italiano non sono solo i vocaboli con un significato lessicale, ma anche le desinenze) e unità minime di suono (i fonemi). Ma il punto culminante della meccanicizzazione bloomfieldiana dell'uomo si trova alle pp. 38-39: l'Autore, sempre interessato ad una spiegazione psicologica del linguaggio, afferma che non si riesce a prevedere gli atti linguistici: anche nell'episodio di Jack e Jill non si può predire se Jill parlerà, né quali parole dirà. Perciò, "questa immensa variabilità ha dato luogo a due teorie sul comportamento umano, compreso il linguaggio. La teoria mentalistica, che è di gran lunga la più antica e ancora prevale sia nella concezione corrente che tra gli scienziati, suppone che la variabilità del comportamento umano sia dovuta all'interferenza di un fattore non fisico, uno spirito, o volontà, o mente [...] che è presente in ogni essere umano. Questo spirito, secondo la concezione mentalistica, è completamente differente dalle cose materiali e, di conseguenza, è soggetto a un diverso tipo di causalità, o forse, non lo è affatto. Il fatto che Jill parli, e quali parole usi, dipende allora da qualche atto della sua mente o volontà, e siccome questa mente o volontà non segue i tipi di successione del mondo materiale (sequenze di cause e effetti), noi non siamo in grado di predire le sue azioni. La teoria materialistica (o, meglio, meccanicistica) suppone che la variabilità del comportamento umano, compreso il linguaggio, sia dovuta solo al fatto che il corpo umano è un sistema estremamente complesso. Le azioni umane, secondo la concezione materialistica, fanno parte di sequenze causali esattamente simili a quelle che osserviamo, per esempio, nella fisica e nella chimica. Il corpo umano, tuttavia, è una struttura così complessa che persino un mutamento relativamente semplice, come per esempio l'urto sulla retina di onde luminose provenienti da una mela rossa, può avviare catene di conseguenze molto complicate, e una differenza molto piccola nello stato del corpo può tradursi in una grande differenza nella risposta alle onde luminose. Saremmo in grado di predire le azioni di una persona (per esempio, se un certo stimolo la farà parlare, e, in caso affermativo, le parole esatte che pronuncerà) solo se conoscessimo l'esatta costituzione del suo corpo in quel 30 momento, o, il che è lo stesso, se conoscessimo esattamente la costituzione del suo organismo in qualche stadio precedente - per esempio alla nascita o prima - e se avessimo una registrazione di tutti i cambiamenti avvenuti in seguito in esso, compresi tutti gli stimoli che lo hanno colpito." In queste pagine Bloomfield ha travalicato di gran lunga i confini della linguistica: d'altra parte egli non fornisce dimostrazione di queste sue idee, e perciò quel che afferma si può definire un postulato, o un atto di fede (fede materialista, s’intende); ed è singolare che proprio lui, che si professa spavaldamente uomo di scienza e sembra disprezzare tutto ciò che non rientra nelle dimostrazioni scientifiche, sia poi tanto indulgente con se stesso da porre alla base della sua teoria un atto di fede. A distanza di tanti decenni da quando questa pagina fu scritta, appaiono fin troppo evidenti i limiti d’una simile impostazione. La teoria che egli enuncia potrebbe essere trattata con ironia: fra l'altro, in essa si nega il libero arbitrio, ed a questo proposito saremmo invogliati a mettere in atto il cosiddetto “esperimento di Koestler”: se qualcuno sostiene che non esiste il libero arbitrio, e che perciò non esiste responsabilità nelle azioni umane, provate a dargli un bel calcio negli stinchi: dalla sua reazione si capirà che anch’egli, pur negandolo, crede nel libero arbitrio (infatti se non esistesse il libero arbitrio non avrebbe senso prendersela con chi ci dà un calcio negli stinchi, sarebbe come arrabbiarsi con una tegola che cade); dunque tutti gli uomini, anche quelli che si dichiarano materialisti o deterministi, si comportano come se credessero nel libero arbitrio, e quindi nella volontà umana, nella responsabilità, in altre parole nell’anima. Lo stesso “esperimento” si potrebbe volgere in positivo: tutti noi cerchiamo l’affetto di altre persone, ma facendo questo presupponiamo l’esistenza del libero arbitrio: non avrebbe alcun senso cercare l’affetto di meccanismi determinati da leggi di causa ed effetto, come potrebbe essere un frigorifero o un computer. Potrei aggiungere che in tutte le società umane, dagli Eschimesi ai Baluba, e in tutte le epoche a noi conosciute, il comportamento umano ha sempre presupposto questo dato, la libertà umana, che non si riesce a dimostrare filosoficamente ma fa parte del sentire comune; è mai possibile che tutti gli altri uomini sbaglino, ed abbiano ragione questi pochi materialisti (o altri che come loro hanno la tendenza ad elucubrare teorie), che poi non dimostrano nulla neppure loro, e per di più non sono coerenti con se stessi? Già, perché ad essere maligni si potrebbe osservare che di solito sono proprio i materialisti quelli che più di tutti amano il potere: ma se non ammettono neppure una volontà e una personalità dell’uomo, come fanno ad ammettere che esista il potere, entità ancor meno materiale, che non si percepisce coi sensi e spesso è molto difficile da localizzare anche col ragionamento? Credo però che anziché dilungarsi a confutare affermazioni che esulano dalla linguistica e di cui Bloomfield non fornisce la dimostrazione sia meglio cercar di capire a cosa gli serva porre questi postulati. Da quanto scrive a p. 44 sembra che secondo lui sia possibile predire almeno statisticamente i comportamenti umani, e quindi anche il linguaggio: "se ne valesse la pena e risultasse possibile registrare tutte le espressioni foniche di una grande comunità, saremmo senza dubbio in grado di predire quante volte un dato enunciato come Buon giorno o Ti amo o Quanto costano le arance oggi? verrebbe pronunciato entro un numero fisso di giorni". Anche qui siamo ben lungi dall'essere soddisfatti, perché non ci sembra che si possa esagerare la portata della predicibilità statistica delle azioni umane: in fondo l'uomo, proprio perché intelligente, è capace di reagire in modo nuovo e inatteso, ma appropriato, a situazioni nuove in cui si venga a trovare, e queste situazioni nuove sono innumerevoli; 31 e poi un mondo in cui tutto il comportamento umano fosse strettamente prevedibile sarebbe un mondo agghiacciante, da suicidio, ed invece è proprio questa imprevedibilità che dà gusto alla vita. In realtà è opportuno soffermarsi su queste idee materialistiche di Bloomfield non tanto per approvarle o confutarle, ma soprattutto perché poi esse hanno grande importanza per capire il suo metodo. Va detto che queste premesse ideologiche (oltretutto, di un’ideologia che a quel tempo era “alla moda” e largamente condivisa: non a caso negli stessi anni in Europa fiorivano le ideologie totalitarie) occupano ben poco spazio nell'economia di questo libro: superate quelle poche pagine iniziali, il volume si rivela un eccellente manuale di tutta la linguistica degli Anni Trenta, spazia in tutti i campi, dalla ricostruzione indoeuropea alla geografia linguistica (cioè la compilazione di atlanti linguistici e problemi connessi), dalla dialettologia olandese alla sociolinguistica; porta esempi da un grandissimo numero di lingue, molte delle quali allora erano ben poco accessibili: tagalog (lingua principale delle Filippine), giavanese, molte lingue amerindie, ed anche i pidgin ed i creoli; tratta ampiamente e con buon metodo della fonologia (precede di alcuni anni i Fondamenti di fonologia di Trubeckoj e quindi, al paragone, è meno raffinato, ma pur sempre rispettabile), ed alla sintassi dedica molto più spazio di qualsiasi linguista europeo suo contemporaneo. Diciamo ora del suo metodo: va premesso che la preoccupazione fondamentale dei linguisti americani del suo tempo era di fissare per iscritto le lingue amerindie prima che scomparissero: ed era un compito urgente ed altamente meritorio, perché già alla fine dell’Ottocento molte di esse erano minacciate di estinzione, molte si sono spente nel XX secolo, moltissime hanno oggi un numero di parlanti estremamente scarso. Ma affrontare queste lingue "esotiche" offre difficoltà enormi, di cui tuttora anche i linguisti che non si sono cimentati in questo campo stentano a rendersi conto: nulla di simile alle difficoltà che s’incontrano con lavori su dialetti europei, o anche su lingue di stampo prettamente indoeuropeo come il lituano; era dunque necessario escogitare qualcosa di nuovo. Bloomfield cercava di descrivere una lingua partendo da dati esclusivamente esterni, usando il metodo della commutazione. Si può citare un esempio (tratto per la verità da un suo allievo, Zellig S. Harris): secondo lui, uno straniero che impara l'inglese può all'inizio non distinguere tra le vocali di man e men, le potrebbe interpretare come due varianti libere d'uno stesso fonema, però si accorgerà dello sbaglio inserendo la prima variante in parole come ten o pen, e vedrà che non figurano negli stessi contesti (questi studiosi non dicono “non hanno lo stesso significato” perché preferiscono evitare di ricorrere al significato, entità che non si presta ad una classificazione rigida: lo stesso Bloomfield a p. 106 scrive con rammarico: "finché l'analisi del significato rimarrà fuori delle possibilità della scienza, l'analisi e la registrazione delle lingue resteranno un'arte o un frutto d'abilità pratica"). Come esempio di analisi grammaticale si può citare il seguente, ricavato ancora da Harris: in una frase inglese come he is a gentlemanly fellow "egli è un tipo signorile", il segmento gentlemanly è in primo luogo determinato come appartenente alla classe A (cioè degli aggettivi) perché è sostituibile con fine, con narrow minded, ma non con largely o con well. Poi, tra le segmentazioni possibili di gentlemanly, quella in gentle + manly è respinta, anche se in inglese esistono sia gentle che manly, ed è invece accettata quella in gentleman + ly, unicamente in base al tipo di accentazione. Vedendo questi esempi, ad un linguista di scuola europea pare che si rendano troppo complicate le cose semplici: quale straniero si metterà a provare le presunte varianti di man e men in parole come ten? e 32 d'altra parte, proprio perché si sa che gentlemanly è aggettivo, è scontato in partenza che può essere sostituito da fine e non da well. Quanto alla segmentazione di gentlemanly, sappiamo da un pezzo che esiste in inglese questo suffisso -ly, che è presente nella coscienza dei parlanti, al punto che con esso si possono creare parole nuove. Ma per un bloomfieldiano non si può parlare di coscienza dei parlanti, anzi nemmeno di coscienza tout court: il linguista non potrà che esaminare le manifestazioni esterne del linguaggio (la parole di Saussure) e da queste trarre tutte le conclusioni. Dunque i linguisti di questa scuola cercavano di raccogliere un corpus di testi della lingua che studiavano, che fosse quanto più ampio possibile, e solo da questo cercavano di ricavare ogni notizia, sempre coi metodi commutativi che ho sommariamente indicato. Va detto che con le lingue esotiche non è un metodo disprezzabile (ed in effetti, questo metodo distributivocommutazionale era stato concepito soprattutto per queste lingue): prima, spesso i linguisti cercavano di imparare la lingua che volevano descrivere, e poi ne scrivevano la grammatica in base a quel che avevano imparato. Ma in questo modo essi finivano inconsciamente per cercare (e quindi trovare) in quella lingua le strutture grammaticali a cui erano abituati; e viceversa le strutture esistenti nella lingua indigena, ma inattese perché sconosciute alle lingue europee, finivano con lo sfuggire alla ricerca. Quando si affrontano lingue esotiche, di solito si trova che i parlanti non hanno un'idea della correttezza grammaticale quale potremmo avere noi: spesso la lingua esotica che si studia non è standardizzata, il più delle volte ha scarso prestigio anche agli occhi degli indigeni; perciò questi ultimi tendono ad approvare entusiasticamente qualsiasi tentativo dello straniero che cerca di parlare come loro, e il risultato è che poi questo non sarà incoraggiato a correggersi ed a migliorare le sue conoscenze della lingua. Un buon esempio che si può fare riguardo alle difficoltà che incontra il linguista nell'affrontare lingue esotiche, e nel trovare quindi strutture completamente inattese e insospettabili, è fornito dal somalo. In questa lingua esistono degli indicatori di fuoco, cioè particelle che indicano se il fuoco della frase sta nel sintagma nominale o nel sintagma verbale. Il fuoco della frase per i linguisti è l'informazione nuova che si fornisce pronunciando una certa frase: in italiano lo si può esprimere (facoltativamente) con l'ordine delle parole: così ad esempio non è esattamente lo stesso dire: "Giuseppe è arrivato" oppure "è arrivato Giuseppe"; la prima frase andrà meglio se stiamo proprio parlando di lui, magari lo stiamo aspettando, e la nuova informazione sta nel fatto che è arrivato. Se invece ad esempio stiamo aspettando numerosi ospiti, e qualcuno ha suonato al campanello, la nuova informazione sarà proprio dire "è arrivato Giuseppe" (non Carlo, non Maria). In somalo queste, che per noi sono sfumature di significato, sono espresse da particelle apposite, obbligatorie. Non sono grammaticali per i somali frasi come *wiilkii moos cunay, lett. "ragazzo-il banana ha-mangiato", oppure *wiilkii yimid, lett. "ragazzo-il èvenuto": è necessario aggiungere gli indicatori di fuoco, che sono baa o ayaa se il fuoco sta nel sintagma nominale, waa se il fuoco sta nel sintagma verbale. Perciò, dopo una domanda come waa yimid? "chi è venuto?" si risponderà wiilkii baa yimid “è venuto il ragazzo”, lett. “ragazzo-il FUOCO è-venuto”; se invece prima ci si è chiesti: wiilkii muxuu sameeyay? "il-ragazzo che-cosa ha-fatto?", la risposta sarà wiilkii moos waa cunay, "il ragazzo ha mangiato una banana", lett. “ragazzo-il banana FUOCO hamangiato”. A complicare le cose si aggiunga che in somalo questi indicatori di fuoco normalmente si contraggono con le parole vicine: baa e ayaa si fondono con la parola che 33 precede, riducendosi ad -aa (ma si contraggono anche coi pronomi suffissi, perdendo stavolta la vocale); invece waa si unisce solo ai pronomi, ad esempio col pronome di terza persona diventa wuu11. Non c'è da stupirsi se i primi studiosi di somalo hanno faticato molto prima di poter spiegare queste funzioni grammaticali; tanto più che generalmente i somali sono molto tolleranti con lo straniero che parla la loro lingua, ad essi sembra già un miracolo che qualcuno conosca i vocaboli essenziali, e non gli fanno rilevare gli errori fonetici o sintattici. Dunque in casi di questo genere è vero che non ci si può affidare alla coscienza dei parlanti perché in realtà il parlante (quello che scrive la grammatica) è un linguista, che in qualche modo sa esprimersi in una lingua esotica ma non ne ha una conoscenza nativa e quindi ciò che egli riesce a descrivere in base alle sue intuizioni è spesso poco attendibile: è molto più prudente fondarsi sui dati oggettivi che si trovano raccogliendo un corpus esteso. Raccolto questo corpus, si farà tabula rasa di tutti i nostri presupposti e di tutti i nostri schemi grammaticali, e si affronteranno i testi con un metodo che sia il più oggettivo possibile. Bisogna precisare che pubblicare dei testi in una lingua esotica pressoché sconosciuta è opera altamente meritoria (come si è detto), ma estremamente faticosa e ben poco gratificante; è storicamente comprensibile che, per spingere i colleghi ad un lavoro simile, Bloomfield abbia dovuto sostenere che solo questa è l’opera valida per un linguista. Certamente poi l’osservare una lingua in azione può riservare delle sorprese anche ai parlanti nativi: ricordo lo stupore con cui un mio collega, romano di nascita e dialettofono, mi raccontò di aver scoperto, tramite delle registrazioni, che in romanesco oltre al pronome dimostrativo sto, esiste un pronome so (che probabilmente non è solo una variante dell’altro, ma deriva dal lat. ipse, mentre l’altro è da iste); anche la coscienza linguistica del parlante nativo non è perfetta, già Saussure aveva osservato che la lingua nella sua interezza esiste soltanto nella massa. D’altra parte dubito che il metodo commutazionale sia applicabile integralmente ed in esclusiva: dalla mia esperienza risulta che un qualunque testo registrato su nastro in una lingua esotica, se non è immediatamente trascritto e tradotto letteralmente parola per parola con l'aiuto di informatori nativi, non è utilizzabile; solo dopo aver compiuto questo lavoro sul campo, si potranno cominciare le altre analisi (commutazionali o d'altro genere), in modo da ricavare norme grammaticali; ed anche così il lavoro che si svolge a tavolino non è per nulla facile. Quel che escludo è che si possa trattare una lingua esotica moderna come se fosse l'ittito o l'ugaritico, lingue scritte dell'antichità di cui possediamo un discreto corpus in iscrizioni o in tavolette: la lingua scritta è per sua natura più standardizzata, e quindi più abbordabile per il linguista, rispetto alla lingua parlata, soprattutto se quest’ultima è parlata da popoli esotici in cui la cultura orale è ancora viva. Per decenni, tra quanti facevano indagini linguistiche sul campo vi fu contrasto fra gli studiosi di scuola europea che partivano con un questionario (cioè facevano tradurre agli informatori parole o frasi stabilite in anticipo) e studiosi americani che si preoccupavano di raccogliere testi. Certo sono segnalati dei casi di società in cui il questionario è inapplicabile12; quando si vuole studiare invece un dialetto di cui è facile avere una buona 11 Cfr. A. PUGLIELLI, Sintassi della lingua somala, "Studi Somali" 2, Roma 1981, pp. 5 ss. P. MÜHLHÄUSLER, nel suo volume Pidgin & Creole Linguistics, Oxford 1986, a p. 41 descrive così il fallimento d'una sua inchiesta coi questionari: "when I first set out to undertake linguistic fieldwork on Tok Pisin of Papua New Guinea, I had carefully prepared a questionnaire designed to test speaker's intuitions about a number of constructions. These questionnaires ended up as a fire over which a billy of 12 34 competenza (ad esempio un dialetto italiano) il questionario può essere più d’impaccio che di aiuto; in generale si può comunque dire che è ragionevole cercar di usare entrambi i sistemi, raccogliere cioè dei testi liberi e insieme domandare come si traducono determinate parole o frasi; con informatori addestrati è possibile fare di più, ad esempio chiedere se è ben costruita o no una certa frase, se sono possibili determinate variazioni; ma anche in questi casi il confronto col materiale raccolto in testi liberi è consigliabile. CHOMSKY Quel che si dirà di Noam Chomsky in queste pagine non sarà certo sufficiente ad esporre in maniera sintetica il suo pensiero, né a far capire il suo metodo, né a dare un’indicazione delle principali sue tematiche: il fatto è che questo linguista, ritenuto il più grande fra i viventi, ha elaborato una teoria estremamente complessa, che è in evoluzione continua e perciò non è affatto conclusa. Per dare un’idea approssimativa del suo pensiero dovrei dedicargli l’intero corso, e forse non basterebbe: alcuni colleghi lo fanno, ma personalmente non mi pare che sia il caso, perché resto dell’opinione che metodologicamente sia meglio usare molta osservazione e poco ragionamento piuttosto che il contrario; e questo Autore, pur acutissimo, pare privilegiare invece proprio l’introspezione, la ricerca sulla lingua che si conosce meglio. Ma d’altra parte non posso negare il grande influsso di questo Autore sulla linguistica d’oggi, né l’acutezza di moltissime sue osservazioni; perciò, non potendolo trascurare, cercherò di sfiorare appena le sue principali tematiche del passato, e se qualcuno vorrà approfondire potrò indicare una bibliografia13. Questo linguista era allievo di Zelig S. Harris, uno dei più fedeli allievi di Bloomfield, e la sua formazione fu tutta bloomfieldiana, ma ben presto insorse contro i limiti della sua scuola, in aperta polemica. Notò infatti che con quel metodo non era possibile generare frasi, si poteva solo analizzare frasi costruite da altri; ma invece il parlante è perfettamente in grado di costruire nuove frasi. Contrariamente a quanto pensava Bloomfield, Chomsky osserva che il parlante di una lingua è perfettamente in grado di dire se una frase è ben formata o mal formata, anche se non l’ha mai sentita prima: secondo lui, è probabile che il parlante inglese nella sua vita normale non si sia mai imbattuto in frasi come: a) look at the cross-eyed elephant b) look at the cross-eyed kindness c) look at the cross-eyed from tea was made. I had come to realize that asking questions about decontextualized isolated sentences was no more regarded as a meaningful activity by my informants than asking random speakers in a Western speech community what colour skunks prefer. The main difference is that Western people feel obliged to answer even such questions, whereas most Papua New Guineans do not, unless they belong to a culture where question-answering is socially mandatory, in which case they tend to provide those answers they expect the researcher to want to hear." 13 Ad esempio A. RADFORD, La sintassi trasformazionale: introduzione alla teoria standard estesa di Chomsky, ed. Il Mulino, Bologna 1983. 35 eppure, chiunque è in grado di percepire che la prima frase è ben formata14, la seconda è molto strana, la terza è inconcepibile. D’altra parte negli anni Cinquanta, quando Chomsky cominciò a lavorare, prendevano consistenza le critiche alla teoria dell’apprendimento di Bloomfield: secondo quest’ultimo il bambino impara a parlare solo imitando, e continua a ripetere parole e frasi già sentite: ma la psicologa Berko fece un esperimento che provava il contrario. Su un pezzo di carta disegnò un animale immaginario, e disse ad un bambino che era un wug; poi ne disegnò altri due dello stesso tipo, chiese al bambino che cosa fossero, e questo rispose che erano wugs; fu capace cioè di formare il plurale di quella parola, anche se certamente non l’aveva mai sentito, semplicemente perché conosceva il paradigma dog-dogs, log-logs (ceppo-ceppi), ecc. Oggi a noi tutto ciò sembra fin troppo evidente, ma a quel tempo non era per nulla scontato; fu un’innovazione il fatto che Chomsky dicesse che il parlare è un’attività principalmente creativa. Il fine di questo autore non è solo il creare e sviluppare una teoria del linguaggio, ma anche una teoria dell’acquisizione linguistica: egli rovescia il rapporto di sudditanza che Bloomfield vedeva nei confronti della psicologia, ed afferma precisamente: “Vi sono numerose questioni che potrebbero indurre una persona ad intraprendere uno studio del linguaggio. Personalmente io sono affascinato soprattutto dalla possibilità di apprendere, attraverso lo studio del linguaggio, qualcosa che sveli proprietà intrinseche della mente umana”; a questo punto, la linguistica mira addirittura ad aiutare la psicologia nei suoi compiti specifici. Si noti poi che egli parla in modo esplicito di mente, che per Bloomfield era tabù; anzi egli si dichiara mentalista, e se ne vanta (Bloomfield parlava dei mentalisti ma a quel tempo probabilmente nessuno si definiva così, era solo un’etichetta che i comportamentisti mettevano su chi non la pensava come loro). Per lui, la grammatica di una lingua è il modello della competenza linguistica del parlante nativo di quella lingua: il parlante nativo sa che le frasi vanno composte in un certo modo, che vanno pronunciate in un certo modo; ma poi in qualche circostanza potrà sbagliare, potrà avere difetti di pronuncia, ovvero incorrere in qualche lapsus, oppure formare frasi troppo contorte a causa dell’accavallarsi dei pensieri, ecc.: questi si chiamano errori di esecuzione. Non è detto che una frase sia ben formata solo perché è stata effettivamente pronunciata: ne fanno prova, se mai ce ne fosse bisogno, delle raccolte apposite di strafalcioni e castronerie, o programmi televisivi che ripetono tutti i lapsus apparsi in televisione. Dunque per Chomsky il parlante nativo ha una competenza grammaticale che permette di capire se una frase è ben formata; ed una competenza pragmatica che permette di interpretare correttamente le frasi che vengono pronunciate. Ad esempio, una frase tipo “oggi è stato un disastro” è certo corretta grammaticalmente, ma va interpretata in un certo modo se chi la pronuncia è un tifoso di ritorno dalla partita, in altro modo se è uno studente che ha sostenuto un esame; potrebbe anche presentare difficoltà d’interpretazione se fosse pronunciata al di fuori di contesti che ne permettano un’interpretazione pragmatica, ad esempio se la pronunciasse uno che si sveglia la mattina. Ma il suo contributo alla pragmatica è scarso, quello che gli interessa è soprattutto la competenza grammaticale. Esiste dunque una competenza sintattica che fa riconoscere come ben formate, al parlante inglese, frasi come: I gave back the car to him 14 Così è secondo Chomsky: in realtà gli elefanti non hanno la visione binocolare, perciò secondo i nostri parametri sarebbero tutti strabici. 36 I gave the car back to him I gave him back the car I gave him the car back che significano tutte “io gli ho restituito l’auto”. Invece non sono grammaticali frasi come: *I gave the car to him back *I gave back him the car Sorge ora il problema di capire in che senso una frase può essere mal formata. La cattiva formazione può essere di tipo sintattico, per esempio in: *John very Mary passionately loves dove chiaramente l’ordine delle parole non funziona; ma le cose vanno meno lisce con le frasi in cui la cattiva formazione è di tipo semantico: spesso una di queste frasi può essere non mal formata, ma solo pragmaticamente strana. Per Chomsky è pragmaticamente strana una frase che urta in qualche modo le nostre convinzioni, pur essendo ben formata: ad esempio il sintagma un geranio onesto può farci qualche difficoltà nella vita reale, dove riteniamo che i fiori non abbiano virtù morali, ma potrebbe essere perfettamente appropriata in un contesto fiabesco. Così pure in inglese, dove esiste un pronome who per esseri umani distinto da which per esseri irragionevoli, frasi come the tree who we saw o the man which we saw dovrebbero essere mal formate: ma è possibile trovare dei contesti (fiabeschi, fantascientifici) in cui inserirle (ma naturalmente sarebbero mal formate se qualcuno le usasse in contesto normale). A questo punto però diventa difficile isolare delle frasi che sicuramente sono mal formate dal punto di vista semantico: quelle che egli riporta, come *I killed John, but he didn’t die *All my friends are linguists, but I have no friends non convincono troppo: in realtà sembra che i linguisti le reputino mal formate perché vìolano il principio di non contraddizione. Ma di frasi che vìolano la logica se ne trovano, non solo pronunciate ma addirittura scritte. Che dire dell’affermazione di Nietzsche secondo cui la verità non esiste? Si tratta di un’affermazione che si mangia la coda: se la verità non esistesse, nessuna affermazione potrebbe essere vera, dunque non sarà vero neppure che la verità non esiste. E che dire di Bertolt Brecht, che scriveva al figlio che il vero senso della vita è l’imbroglio? Non sono sicuro che l’abbia veramente scritto, perché l’ho letto in una citazione di seconda mano e non sono andato a controllare; quel che m’interessa è far notare la contraddittorietà di una simile affermazione: si tratta di un’aporia che già gli antichi avevano individuato, il cosiddetto paradosso del cretese, che si può esporre così: un cretese va dicendo che tutti i cretesi sono bugiardi. Domanda: è bugiardo anche lui? se lo è, allora non è vero quello che dice; ma se non è bugiardo, ugualmente ciò che dice non può essere vero, perché c’è almeno un cretese che non è bugiardo. Analogamente, ci si può chiedere: quando Brecht dichiarava che il senso della vita è l’imbroglio, stava imbrogliando? se imbrogliava, certo non è vera la sua affermazione; se invece (come è più probabile) era sincero nel dare al figlio questi precetti di (pretesa) saggezza, allora con ciò stesso dimostrava che anche per lui esisteva qualche altro senso della vita oltre all’imbroglio. Questa piccola rassegna di frasi celebri ed illogiche si può concludere col “non è vero ma ci credo” che Benedetto Croce sembra dicesse a proposito della iettatura; si potrà dire che queste frasi non vanno molto 37 d’accordo con la logica formale; si potrà anche non essere d’accordo con le opinioni di questi signori (personalmente penso ad esempio che non solo la verità esista, ma che l’uomo ne abbia assoluto bisogno, e che molti finiscano in cura dallo psicanalista proprio perché vivono in ambienti dove la verità è continuamente bistrattata), ma il solo fatto che si possa discutere di queste affermazioni ci fa capire che esse comunicano in qualche modo dei significati. Anche la frase di Chomsky “io uccisi John, ma egli non morì”, potrebbe avere un senso, se inserita in un determinato contesto: ad esempio nei videogiochi spesso i protagonisti godono di diverse vite (del resto, in particolari contesti è lecito anche giocare con la lingua: nota la frase di Tolkien, The Lord of the Rings, primo capitolo: “I don’t know half of you half as well as I should like; and I like less than half of you half as well as you deserve”). Riprendendo l’argomento, si può dire che per Chomsky il bambino interiorizza tutta una serie di regole per la formazione delle frasi (sintassi), altre regole per l’interpretazione delle frasi (semantica), e infine delle regole per la pronuncia delle frasi (fonologia): il linguaggio è governato da regole. Quindi l’apprendimento di una lingua comprende l’apprendimento di regole sintattiche, semantiche e fonologiche: le stesse che il parlante nativo ha interiorizzato. L’insieme delle frasi che si possono produrre è infinito, anche se si impara a produrle in un tempo finito, sulla base dell’osservazione di un numero finito di enunciati; e d’altra parte è infinita anche la lunghezza potenziale delle frasi che si possono produrre. Non esiste un limite superiore alla lunghezza delle frasi di una lingua: ciascuna frase può essere allungata a piacere, come in: John is a handsome man John is a dark, handsome man John is a tall, dark, handsome man John is a sensitive, dark, handsome man John is an intelligent, sensitive, dark, handsome man, ecc. o ancora: Debbie Harry is very attractive Debbie Harry is very, very attractive Debbie Harry is very, very, very attractive, ecc. o ancora: I chased the dog I chased the dog that chased the cat I chased the dog that chased the cat that chased the rat I chased the dog that chased the cat that chased the rat that chased the mouse, ecc. Secondo Chomsky una grammatica è adeguata al livello più alto (cioè esplicativamente adeguata) se riesce a prevedere correttamente quali frasi sono o non sono ben formate in una lingua, descrive correttamente la loro struttura, e inoltre fa questo nei termini di un insieme altamente ristretto di princìpi ottimalmente semplici, universali, e massimamente generali, i quali rappresentino dei princìpi naturali di calcolo mentale psicologicamente plausibili, e siano apprendibili dal bambino in un periodo di tempo limitato, sulla base di dati limitati. 38 DISPENSE DI FONETICA (Liberamente derivate da quelle del prof. Orioles) La fonetica è la scienza che studia e classifica i suoni del linguaggio articolato, analizzati "in quanto entità fisiche" (Mioni 1984). La fonetica si distingue in • fonetica articolatoria, che concerne le modalità di produzione dei suoni; • fonetica acustica, che prende in esame le modalità di trasmissione fisica del suono; • fonetica uditiva, che studia la percezione e la decodificazione da parte del parlante; • fonetica sperimentale o strumentale, dedicata ad un esame approfondito dei processi fisiologici che entrano in gioco all'atto della produzione delle unità foniche, verificata attraverso sofisticate strumentazioni. Possiamo poi distinguere due specializzazioni della fonetica: • fonetica descrittiva, che implica lo studio dell'assetto fonico di una determinata lingua, in un determinato momento storico, e cioè in una dimensione sincronica; • fonetica storica, che implica l'analisi dei mutamenti fonetici nel tempo, in una dimensione diacronica. Dalla fonetica va tenuta distinta la fonologia, finalizzata a studiare i suoni come unità funzionali e distintive, capaci di cioè di differenziare e opporre tra loro le unità significative (di prima articolazione) del linguaggio. Le unità di analisi della fonetica prendono il nome di suoni o foni; le unità di riferimento della fonologia si chiamano fonemi. L'APPARATO FONATORIO - IL MECCANISMO DELLA FONAZIONE II processo di fonazione ha alla base il meccanismo fisiologico dell'espirazione: un flusso d'aria egressivo proveniente dai polmoni (la cosiddetta corrente espiratoria) viene sospinto verso l'alto attraverso trachea e laringe. A quest'altezza, in corrispondenza del cosiddetto 'pomo d'Adamo', l'aria incontra la glottide e le corde vocali, due lamine membranose retrattili che, rilassate durante la respirazione, possono contrarsi ed avvicinarsi producendo vibrazioni. Nel successivo percorso verso l'esterno l'aria attraversa la faringe, che funge da cassa di risonanza (ma all’occorrenza si può anche restringere, producendo delle consonanti), e giunge nella bocca (cavità orale) per poi fuoriuscire; esiste anche, nel caso dei suoni nasali, un passaggio alternativo attraverso il naso (cavità nasale). L'accesso all'una o all'altra cavità è determinato dalla posizione del velo palatino (detto anche palato molle o velo pendulo): se il velo è sollevato, resta chiuso il passaggio tra faringe e cavità nasale e il flusso dell'aria viene incanalato attraverso la cavità orale; se invece il velo è abbassato l'aria può liberamente defluire sia attraverso la cavità nasale sia attraverso la cavità orale. Quando il flusso della corrente espiratoria fuoriesce liberamente verso l'esterno (e si hanno però vibrazioni della laringe) si producono le vocali; se invece l'aria incontra una qualsiasi forma di ostruzione o di restringimento del canale fonatorio, attraverso la particolare configurazione che volta per volta assumono gli organi articolatori, vengono prodotte le consonanti. ORGANI FONATORI Gli organi che intervengono a condizionare la produzione dei suoni, ossia gli organi fonatori, sono: 39 • le labbra, che producono foni labiali o labiodentali; • la lingua (distinta a sua volta in apice, lamina, dorso e radice), che concorre a determinare la gran parte dei suoni; • le corde vocali, che producono i foni glottidali; • la faringe, in suoni estranei alle lingue europee. TIPOLOGIA DEI SUONI: VOCALI E CONSONANTI Le unità toniche possono essere distinte in due grandi classi, le vocali e le consonanti. Le prime sono caratterizzate dal fatto di essere prodotte da un flusso d'aria che fuoriesce senza incontrare ostacoli ed inoltre dal fatto di essere sonore, ossia di essere accompagnate dalla vibrazione delle corde vocali (vocali bisbigliate, pronunciate cioè senza la voce, esistono come varianti libere o combinatorie in diverse lingue, ma non risulta che possano diventare fonemi autonomi). I fonemi consonantici si differenziano rispetto alle vocali per il fatto che la corrente espiratoria, nel fuoriuscire, incontra in ogni caso un ostacolo, il cui superamento determina la caratteristica articolatoria e l'effetto acustico proprio di ciascuna consonante; come ci indica il vocabolo stesso che li designa (lat. consonans, calco del greco symphonos), le consonanti devono la loro denominazione al fatto di appoggiarsi ad una vocale e di risuonare con essa. VOCALISMO Le vocali possono essere classificate secondo cinque principali parametri, quattro qualitativi e uno quantitativo. 1. PARAMETRI QUALITATIVI 1a. Le vocali possono essere differenziate innanzitutto a seconda del luogo di articolazione (è il punto più o meno avanzato della cavità orale verso il quale si dirige il dorso della lingua). In rapporto a tale caratteristica le vocali si distingueranno in: • anteriori o palatali (chiare): il dorso della lingua si orienta verso la parte anteriore del palato; • centrali: il dorso della lingua si orienta verso la regione mediana; • posteriori o velari (scure): il dorso della lingua si orienta verso la regione posteriore. 1b Un secondo paramentro classificatorio è la posizione della lingua: a seconda che la lingua si protenda verso l’alto o stia appiattita in basso il suono delle vocali differisce, perché è diverso il grado di apertura (ossia l'ampiezza dell'angolo diaframmatico o intermascellare) nel senso che più alta è la posizione della lingua nella cavità orale, più chiusa è la vocale. "La linguistica recente preferisce privilegiare la classificazione delle vocali in termini di altezza della lingua, in quanto l'apertura sembra essere un tratto tutt'al più subordinato all'altezza" (Mioni 1993, p. 121, n. 18). In funzione di tale criterio le vocali possono essere dunque classificate in: • alte (chiuse) • medioalte (semichiuse) • mediobasse (semiaperte) • basse (aperte) 1c. A seconda del coinvolgimento o meno delle labbra, il cui intervento comporta un tipico arrotondamento, le vocali possono essere infine essere classificate come • arrotondate (ovvero labializzate, o anche procheile) 40 • non arrotondate (aprocheile) In alcune lingue tale caratteristica è fonologicamente rilevante o distintiva, in quanto garantisce la distinzione tra serie vocaliche del medesimo grado di apertura (o altezza): è questo il caso del russo, dove la posizione della lingua è determinata dal contesto (perché si distinguono in questa lingua consonanti palatalizzate, in cui la lingua si sposta in avanti, e non palatalizzate, in cui la lingua sta indietro; dunque la posizione della lingua è determinata dalle consonanti vicine) e le vocali si distinguono solo per la posizione delle labbra. Diversa (ma analoga) la situazione del francese e del tedesco, che oppongono anteriori non arrotondate (tipo /i/, /e/) alle corrispondenti anteriori arrotondate (tipo /y/, /ø/). In italiano e spagnolo invece, il coinvolgimento delle labbra pare fonologicamente ridondante in quanto le vocali anteriori sono sempre non arrotondate e le posteriori sono sempre arrotondate. 1d. Le vocali si distinguono inoltre in orali e nasali; nell'articolare le prime la corrente espiratoria non incontra ostruzione; la realizzazione delle vocali nasali è invece condizionata da una ostruzione esercitata dal velo palatino, per effetto della quale l’aria si incanala nelle cavità nasali. Tra le lingue che dispongono di un sottoinsieme di vocali nasali distinte dalle corrispondenti orali ricordiamo il francese; la nasalizzazione di una vocale si indica con un particolare segno diacritico, la tilde, sovrapposta alla corrispondente vocale orale: ad es. /A)/. 2. PARAMETRO QUANTITATIVO La dimensione quantitativa riguarda la distinzione di durata vocalica, che oppone vocali lunghe e vocali brevi. E' noto in particolare che il latino possedeva un sistema simmetrico di dieci vocali, cinque con un valore lungo e cinque con il corrispondente breve: eioua e¤ i¤ o¤ u¤ a¤ La distinzione era così importante che si potevano formare coppie minime opposte solo da tale tratto: "venne" venit "viene" ve¤nit populus "popolo" po¤pulus "pioppo" rosa "la rosa" (nominativo) rosa¤ (ablativo) palus "palude" pa¤lus "palo" Ulteriori lingue che fanno valere tale distinzione sono il finnico (ad es. tuli "fuoco" si oppone a tuuli "vento") e l'estone, che presenta tre gradi di lunghezza: breve, lungo e lunghissimo. Anche in friulano giocano un certo ruolo le opposizioni di durata (che tuttavia, come spesso accade, interagiscono con opposizioni di timbro, perché le vocali brevi tendono ad essere più aperte): lat “latte” lât “andato” pas “passo” pâs “pace” nas “nasce” nâs “naso” pes “per le” pês “peso” mil “mille” mîl “miele” tos “tosse” tôs “tue” brut “brutto” brût “nuora” e “brodo” In altre lingue, come ad esempio l'italiano e lo spagnolo, la lunghezza vocalica non ha 41 rilevanza fonologica; in francese, almeno in alcuni parlanti, si distingue /e/ da /e:/; si vedrà più avanti la complessa situazione dell’inglese. CONSONANTISMO La chiusura o comunque la costrizione che contrassegna la produzione di suoni consonantici si attua con diverse modalità e in corrispondenza di diversi punti dell'apparato fonatorio. Sotto questo aspetto classificheremo pertanto le consonanti in funzione del modo e del luogo di articolazione: il modo di articolazione si riferisce al tipo di ostruzione che viene opposto al passaggio dell'aria; il luogo di articolazione, o punto articolatorio, indica il punto in cui gli organi dell'apparato fonatorio entrano in contatto totale o parziale tra loro. Inoltre le consonanti, almeno nelle lingue più studiate, presentano un terzo ulteriore elemento di differenziazione: • si definiscono sorde se vengono realizzate senza produrre vibrazioni delle corde vocali (es. p, t, k); • si definiscono sonore se la loro realizzazione è associata alla vibrazione delle corde vocali (es. b, d, g). Altre lingue distinguono invece consonanti aspirate e non aspirate, forti e leni (ovvero tese e rilassate), glottalizzate e non glottalizzate, ecc. Ciascuna unità fonica verrà definita in rapporto alla peculiare combinazione delle tre caratteristiche di modo, di luogo e di sonorità. Diremo ad esempio volta per volta che una /p/ costituisce una occlusiva bilabiale sorda; che una /z/ simboleggia una fricativa dentale sonora ecc. MODI DI ARTICOLAZIONE occlusive (plosive, ostruenti) Le occlusive devono il loro nome al fatto che si articolano producendo una chiusura completa del canale fonatorio in modo tale che il flusso espiratorio incontri un improvviso e brusco ostacolo cui fa seguito una altrettanto brusca riapertura. L'occlusione può avvenire in diversi punti dell'apparato fonatorio. fricative (spiranti, costrittive) Le fricative "sono prodotte con un restringimento del canale orale tale da causare una compressione dell'aria contro le pareti" (Mioni, Elementi di fonetica, p. 51); tale compressione provoca un tipico rumore di sfregamento dell'aria, che ne giustifica la denominazione. Sono dette anche costrittive per la costrizione cui va soggetta la la corrente espiratoria all'atto del suo passaggio attraverso il canale fonatorio. Un tipo particolare di fricative sono le sibilanti (/s/, /z/, /S/, /b/) che differiscono dalle altre per la forma assunta dalla lingua. approssimanti (ingl. approximant) Si definiscono approssimanti i suoni simili ai fricativi, nella realizzazione dei quali la frizione è però meno avvertibile. Sono approssimanti i fonemi prevocalici /j/ e /w/, tipici delle voci italiane ieri (approssimante palatale) e uovo (approssimante velare o labiovelare), e /5/ proprio del francese nuit (approssimante labiopalatale). Le si può chiamare anche semiconsonanti; in ogni caso questa tipologia di suoni non va confusa con le cosiddette semivocali con cui dobbiamo intendere i suoni che ricorrono come secondo elemento di dittongo discendente, come ad es. in it. faida e causa. Fricative e 42 approssimanti sono sottoinsiemi della classe delle continue. affricate Le affricate sono una modalità articolatoria composita, che risulta dalla combinazione di una componente iniziale di tipo occlusivo e di una finale di tipo fricativo omorganica (ossia dello stesso o affine luogo di articolazione); da qui la duplice notazione cui si fa ricorso per simboleggiarle: ad esempio /pf/, /v/, /w/. Nonostante si tratti di fonemi unitari a se stanti e non di sequenze biconsonantiche di occlusiva + fricativa, l'IPA non ha finora ritenuto di assegnare a tali suoni una serie autonoma ma si limita a riportarli nella tabella degli Altri simboli, sottolineandone la fusione mediante un segno di legamento. nasali A rigore si devono considerare le nasali come una sottospecie di occlusive, in quanto la loro realizzazione comporta un ostacolo completo alla fuoriuscita dell'aria. Le consonanti nasali si producono abbassando meccanicamente il velo palatino e lasciando così defluire la corrente espiratoria attraverso la cavità nasale; ciò ne determina la peculiare risonanza. Le nasali si distinguono a seconda del luogo di articolazione in labiali, dentali (alveolari), palatali e velari; sono comunque tutte sonore. laterali Le consonanti laterali devono il loro nome al fatto che il flusso d'aria, bloccato nella parte centrale della cavità orale, passa ai lati della lingua. Il punto articolatorio delle laterali può oscillare da dentale (in italiano e francese) ad alveolare (inglese), da palatale (ad es. italiano gli) fino a velare (allofonico in inglese; fonologicamente rilevante ad esempio in slovacco e croato). Di solito sono sonore: il gallese conosce una laterale sorda (una fricativa in cui l’aria passa da un solo lato della lingua), scritta ll. vibranti (ingl. trills) II modo di articolazione delle vibranti è rappresentato essenzialmente dalla /r/ tipica dell'italiano. Ma poiché i suoni trascritti come r presentano differenze anche vistose da una lingua all'altra è bene premettere un riepilogo sui principali tipi fonici. L'articolazione di una <r> può variare per modo e per luogo di articolazione. Secondo il modo si distinguono vibranti, fricative, approssimanti; secondo il punto articolatorio abbiamo realizzazioni apicoalveolari, postalveolari, uvulari. 1. vibranti A seconda se la vibrazione sia unica o ripetuta, i suoni vibranti si distinguono in: • monovibranti o flaps (come in sp. toro, pero, caro) • plurivibranti (come in sp. perro, carro e come in it.) le plurivibranti a loro volta possono essere: alveolari [r]: è la realizzazione normale della r italiana: l'articolazione si ottiene infatti facendo vibrare la punta della lingua all'altezza degli alveoli. uvulari [R] : si tratta della variante della r che si realizza in posizione iniziale sia in tedesco (ad es. Reich, rot) che in francese (ad es. quella di rose; è denominata r grasseyé): in questo caso l'organo che genera le vibrazione non è l'apice della lingua ma l'ugola. 2. fricative: è fricativa uvulare la realizzazione normale della r francese: si tratta della cosiddetta r parigina. Rispetto alla corrispondente vibrante, l'articolazione si differenzia perché, anziché comportare un contatto, implica un restringimento. 3. approssimanti: è approssimante postalveolare la realizzazione normale della r inglese 43 LUOGHI DI ARTICOLAZIONE I principali luoghi di articolazione delle consonanti sono i seguenti nove: 1. bilabiali Comportano un contatto tra labbro inferiore e labbro superiore (es. it. /p/ e /b/) 2. labiodentali Sono tali le consonanti articolate con il concorso del labbro inferiore e dei denti incisivi superiori. Ne sono un tipico esempio le fricative /f/ e /v/; esiste anche una nasale labiodentale /A/ realizzata ad es. in it. invio (qui comunque non è fonema indipendente ma variante combinatoria). A partire dai successivi luoghi di articolazione iniziano le consonanti apicali, pronunziate cioè con la punta (apice) della lingua; ma in alcuni casi è più esatto parlare di predorsali, consonanti cioè pronunciate con la parte anteriore del dorso della lingua. Distingueremo: 3. dentali, interdentali, alveolari e postalveolari Questa regione articolatoria è molto densa di unità foniche, appartenenti a vari modi di articolazione (occlusive, fricative, affricate, nasali, laterali, vibranti). Anche se i vari sottotipi sono trattati come un insieme unitario nella tabella IPA, vale comunque la pena richiamare alcune importanti differenziazioni. dentali A determinare l'ostacolo totale o parziale interviene l'apice della lingua che si accosta alla parte mediana degli incisivi superiori. Sono tali la t, la d e la n dell'italiano. In altre lingue (francese, tedesco) si preferisce chiamarle apicali perché sono realizzate con la punta (apice) della lingua. interdentali Consonanti articolate con l'apice della lingua che oltrepassa il bordo dei denti: costituisce ad esempio una fricativa interdentale la pronuncia del th inglese di thing (sorda) o they (sonoro); la fricativa interdentale sorda è posseduta anche dallo spagnolo, che la nota con c in cinco, e con z in zapato, juzgar. alveolari Le consonanti alveolari sono realizzate in corrispondenza degli alveoli dei denti superiori. Sono ad esempio alveolari le occlusive t e d dell'inglese, la cui articolazione è sensibilmente più arretrata rispetto ai corrispondenti suoni dell'italiano. postalveolari ( palatoalveolari) L'articolazione delle postalveolari, denominate in base a precedenti classificazioni palatoalveolari, è realizzata in una regione intermedia tra gli alveoli degli incisivi superiori e il palato duro. Sono prodotte come postalveolari ad esempio la fricativa di it. sciame e le corrispondenti affricate di cena e giovane; è tale anche la realizzazione dell'approssimante inglese /®/. 4. retroflesse Si tratta di fonemi articolati rovesciando all'indietro la punta della lingua in modo tale che la superficie inferiore di tale organo venga a toccare o a sfiorare la volta del palato duro e gli alveoli: è retroflessa la peculiare pronunzia di siciliano beddu "bello" e di analoghi suoni del sardo e delle lingue dell’India. Tradizionalmente vengono anche denominate cacuminali. 44 5. palatali Si chiamano palatali le consonanti articolate all'altezza del palato "duro". Si tratta di un punto di articolazione molto ampio e poco definito; per quanto riguarda le occlusive, ad esempio, "data l'ampiezza del contatto è difficile che si abbia un'occlusione completa", Possono avere una articolazione palatale: • le occlusive: sono tali i suoni friulani tradizionalmente scritti con cj e gj; • le fricative: ad es. /ç/ (cui corrisponde la grafia ch del ted. Milch, ich); • le affricate: ad es.la /w/ di it. cena e la /t/ di giro, rispettivamente sorda e sonora; ma per molti è meglio classificarle come postalveolari; • le nasali: /B/ come in it. legno • le laterali: /^/ come in it. paglia 6. velari Questo punto articolatorio comprende esecuzioni foniche effettuate col dorso della lingua nella zona del palato "molle" o velo palatino (da qui il nome di velari: ma altri linguisti le dicono dorsali). Oltre alle occlusive /k/ e /g/ si annoverano tra le velari le fricative rispettivamente sorda /x/, propria del tedesco (Nacht), dello spagnolo (trabajo) e del neogreco, e sonora /3/ propria del nederlandese e della realizzazione intervocalica della g spagnola (fuego). 7. uvulari L'articolazione di questi fonemi si esegue spostando la parte posteriore della lingua verso l'estremità del velo palatino o ugola (in latino uvula; da qui la denominazione). Le uvulari possono essere: • occlusive, simboleggiate con /q/ e /G/, articolate molto più indietro rispetto alle velari /k/ e /g/: il tipo sordo è presente nelle lingue semitiche e ricorre ad es. nella grafia q dei nomi arabi come Iraq, Qatar, al-Qaida; la /G/ è presente in persiano; • fricative; • vibranti: (per le fricative e vibranti uvulari si veda il commento in sede di analisi dei vari tipi di r) 8. faringali Le fricative faringali sono "prodotte con la radice della lingua spostata all'indietro verso la parete della faringe" (Mioni 2001, p. 60). Possono essere sorda /©/ e sonora /e/; ambedue i suoni sono presenti nelle lingue semitiche ed al profano danno l’impressione che ci sia di mezzo una a: così l’ebr. mašî© è stato reso con Messia (e del resto anche i Massoreti, quando vocalizzarono il testo ebraico della Bibbia, in parole del genere scrissero una a non fonologica, “furtiva”, tipo mašîay). In arabo la faringale sonora sta in alcuni nomi ben conosciuti: per es. all’inizio della parola /eira:q/ “Iraq”, o in mezzo alla parola /alqa:eida/ “al Qaida”. 9. glottidali La glottide non è un vero e proprio organo, ma è lo spazio laringeo compreso fra le corde vocali. Tra i suoni glottidali si possono avere: • l'occlusiva sorda /d/, realizzata mediante una brusca apertura della glottide. Questo suono in molte lingue precede la vocale iniziale di parola: ad es. ricorre in tedesco all'inizio di ogni parola cominciante per vocale (es. ein Apfel). In alcune lingue esistono consonanti glottalizzate, che sono solitamente delle occlusive (p,t,k) seguite da questo suono di occlusione glottale. 45 • la fricativa /h/, che è quella di ingl. have, ted. haben ed anche della pronunzia fiorentina di poco [poho]. Esiste una variante sonora /6/, presente in ceco e slovacco. RAPPORTO TRA GRAFIA E PRONUNCIA La scrittura può presentare una maggiore o minore aderenza alla realtà sonora: per quanto ne sappiamo, nessuna lingua è perfettamente rappresentata dalla scrittura che usa comunemente; ma in alcuni casi la distanza tra la realtà fonica e la rappresentazione grafica è molto grande, e la causa principale è la conservatività dell'ortografia, che in molti casi è rimasta ferma mentre la lingua si evolveva. In base a ciò possiamo dividere le lingue in due categorie: quelle che usano una scrittura (prevalentemente) fonetica, e quelle che ne usano una (prevalentemente) storica. Il caso, puramente ideale, di una perfetta aderenza tra evoluzione della lingua e scrittura, si potrebbe paragonare a uno specchio, che ogni giorno riflette la faccia sempre mutante di chi ci si guarda, mentre una totale storicità si paragonerebbe meglio a una fotografia, che rimane immutabile e sempre identica mentre il soggetto cambia cogli anni. Sistemi di trascrizione Per ovviare agli inconvenienti delle ortografie ufficiali che comportano incongruenze e discordanze sia all'interno di una stessa lingua sia tra lingua e lingua, gli studiosi fanno ricorso alla grafìa fonetica. La grafìa fonetica è un sistema di trascrizione che ha lo scopo di fissare graficamente i fonemi in modo univoco, in maniera tale cioè che ad ogni unità fonica corrisponda uno specifico simbolo. La grafìa fonetica può essere analfabetica, "se costituita da simboli che si discostano dalla comune norma della trascrizione alfabetica" (cfr. ad es. il Visibile Speech di M. Bell e poi di Potter-Kopp-Green) ovvero alfabetica, "costituita cioè da una serie di simboli che complessivamente formano un alfabeto convenzionale" (Gentile 1966). I principali sistemi di 'grafìa fonetica alfabetica', o alfabeti fonetici, sono il sistema di Böhmer, i criteri fatti valere da Graziadio Isaia Ascoli nell’Archivio Glottologico Italiano, perfezionati da Carlo Battisti nella Fonetica generale (Milano 1938); ha goduto poi di una certa fortuna nella scuola italiana il sistema di trascrizione proposto da Clemente Merlo e adottato dall’Italia dialettale (di questo periodico si vedano i voll. 1, 1925, p. 3 ss.; 3, 1927, pp. I-IV), al quale si rifa ad es. Heilmann 1955 (cfr. p. 12 ss. con tabella); ricordiamo ancora la trascrizione adottata da K. Jaberg e J. Jud nell'AIS (ovvero Atlante [linguistico] Italo-Svizzero); la cosiddetta scrittura laletica ideata da J. Forchhammer. Ma su tutti si è imposto il sistema codificato dalla International Phonetic Association ovvero l’International Phonetic Alphabet (noto con l’abbreviazione IPA). L'Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) II sistema messo a punto dall'Associazione Fonetica Internazionale, elaborato originariamente nel 1888, è stato assoggettato a successive revisioni, l'ultima delle quali di un certo peso è intervenuta nel 1996 con alcuni ulteriori ritocchi operati nel 1999. Per ulteriori dati sull'IPA può rivelarsi utile la consultazione del Handbook of thè International Phonetic Association: A guide to the use of the International Phonetic Alphabet, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. Forniamo ora, qui di seguito, una serie di prime indicazioni su siti intemet utili per acquisire familiarità con i prioncipi e con la simbolistica dell'IPA. 46 International Phonetic Association: http://www.arts.gla.ac.uk/IPA/ipa.html pagine principali: a) simboli IPA: http://www.arts.gla.ac.uk/IPA/ipachart.html (Tabella dei simboli IPA); b) materiali sonori: http://www.phon.ucl.ac.uk/home/wells/cassette.htm (è possibile ordinare l'audiocassetta o il CD dei suoni IPA); c) link alla pagina da cui scaricare i file audio relativi alle lingue illustrate nell’Handbook of the IPA: http://web.uvic.ca/ling/resources/ipa/handbook.htm Convenzioni che regolano la trascrizione Bisogna distinguere fra: • trascrizione stretta (ingl. narrow transcription) o trascrizione fonetica: indica i foni, le realizzazioni fisiche dei suoni, dando conto di tutte le varianti, anche marginali, a cui è soggetta una determinata unità fonica a seconda dei contesti in cui si trova calata. Le trascrizioni fonetiche si racchiudono tra parentesi quadre. • trascrizione larga (ingl. broad transcription) o trascrizione fonologica (o fonematica); indica i fonemi, le classi astratte omettendo di segnalare le specificità delle singole produzioni. Le trascrizioni fonologiche si racchiudono tra barre oblique. Proponiamo una serie di esempi: 1. it. anche; lingua trascrizione fonetica: ['aCke]; [’liCgwa] trascrizione fonologica /'anke/; /'lingwa/. Nelle due parole qui riportate la natura velare della nasale è segnalata solo in sede di trascrizione fonetica; per contro la trascrizione fonologica non ne rende conto, in quanto si tratta di una realizzazione automatica predicibile dal contesto, che non entra in opposizione con altra unità fonica. 2. it. tavolo trascrizione fonetica: ['ta:volo] trascrizione fonologica: /'tavolo/. Per quanto riguarda la differenza tra le due trascrizioni di tavolo, si osservi che la trascrizione fonetica rende conto della lunghezza vocalica, che è invece omessa in sede di trascrizione fonematica in quanto ridondante ai fini fonologici. • Notazione della lunghezza vocalica Per rappresentare la durata vocalica in sede di trascrizione fonologica, l'IPA non adotta alcun accorgimento per le vocali brevi mentre prevede di far seguire alla corrispondente vocale lunga il simbolo [:]. Esistono poi delle convenzioni che vengono tradizionalmente fatte valere per specifiche lingue: ad esempio abbiamo osservato che per il latino si impiegano un semicerchio e un trattino sovrapposto rispettivamente per la breve e per la lunga; per il friulano la vocale lunga (sempre tonica) viene notata con un accento circonflesso. • Notazione dell'accento L'accento va segnalato con un trattino verticale posto prima della sillaba tonica. SISTEMA FONOLOGICO ITALIANO Si dice che, a differenza di altre lingue di cultura (si pensi alla received pronunciation dell'inglese o alla norma del francese di Parigi), l'italiano non ha una pronuncia che possa essere indicata come standard; a nostro avviso ciò è vero solo in parte, perché nella realtà tutte le principali lingue del mondo ammettono notevoli 47 fluttuazioni di pronuncia, come si vedrà. Anche in italiano, non è per nulla scontato l'inventario dei fonemi: il punto di vista più diffuso (cfr. ad es. Lepschy 1964, p. 53) è quello che identifica nella lingua italiana 30 fonemi, ripartiti in 21 consonanti, 2 approssimanti o semiconsonanti e 7 vocali; ma secondo altri studiosi (fra cui il sottoscritto) le semiconsonanti /j/ e /w/ non sarebbero veri fonemi, bensì varianti delle vocali /i/ ed /u/, con un'occorrenza legata a regole complesse; qui saranno comunque elencate tra i fonemi. SISTEMA CONSONANTICO ITALIANO: tabella riepilogativa bilabiali labiodentali dentali alveolari postalveolari palatali velari occlusive p b fricative sibilanti td kg fv affricate sz S (b) v s wt n B laterali 1 ^ vibranti r nasali m CONSONANTISMO ITALIANO occlusive bilabiali: /p/ sorda pane, capo /b/ sonora bello, bambino dentali: /t/ sorda tana, lato /d/ sonora dare, modo velari: /k/ sorda cane, caldo, chi /ki/; /g/ sonora gallo, lago, ghiro /giro/ fricative labiodentali: /f/ sorda filo; /v/ sonora vela dentali: tradizionalmente le fricative dentali del tipo di quelle dell’italiano vengono denominate sibilanti; c’è la /s/ sorda sole, stato; /z/ sonora rosa /roza/, uso /uzo/, sbarrare [zbarrare], smontare [zmontare]. La varietà toscana è in realtà l'unica che opponga funzionalmente /s/ a /z/, ma solo in posizione intervocalica. Esempi di coppie minime: fuso [fu:so] "arnese per filare", opposto a fuso [fu:zo] part. pass. di fondere; chiese ['kjε:se] pass. rem. di chiedere opposto a chiese ['kjε:ze] pl. di chiesa. Sulla base di tali opposizioni del toscano, alcuni studiosi fanno valere la distinzione fonematica tra /s/ e /z/ per tutto l'italiano; a rigore, dato il basso rendimento funzionale dell'opposizione e la sua estraneità alle altre varietà di italiano, dovremmo postulare l’esistenza di due varianti in distribuzione complementare. palatali (propriamente sono postalveolari) /S/ sorda: scena /Sεna/, sciocco /S$ kko/ Si noti, per quanto riguarda la corrispondenza tra grafia e pronunzia, che il fonema è trascritto con il digramma sc davanti a e/i (oltre a scena, si pensi a scivolare); è trascritto con il trigramma sci davanti alle altre vocali (è appunto il caso sopra ricordato di sciocco in cui la i è 'muta', ossia assorbita dalla consonante che la precede). 48 Si osservi ancora che in posizione intervocalica la fricativa palatale nella pronuncia toscana è sempre doppia: coscienza [ko'SSεnva]; lasciare [la'SSare]. La corrispondente fricativa sonora /b/ si incontra in italiano solo nei prestiti dal francese (come ad es. garage) e nella realizzazione toscana della g intervocalica (come ad es. in cugino). affricate L'italiano conosce quattro affricate fonologicamente distintive: dentali: /v/ sorda: zio /vio/; forza /f$rva/; /dz/ sonora: pranzo /pranso/, zero /sεro/, zanzara /sansara/. Tra vocali sia la sorda /ts/ che la sonora /dz/ nella pronuncia toscana sono realizzate sempre come lunghe; in trascrizione tale allungamento viene notato ripetendo solo il primo simbolo del digramma: es. vizio /vitvjo/; stazione /statvjone/; azoto /ads$to/. In altre varietà d’italiano invece si pronunciano semplici o geminate a seconda della consuetudine grafica: in queste varietà si può opporre spazzi (/spatvi/, da spazzare) a spazi (/spavi/) pl. di spazio; gazza (/gadsa/) specie di uccello, a Gaza (/gasa/) città palestinese. In molte varietà d’italiano la distinzione tra /v/ e /s/ si neutralizza all’inizio di parola, dove compare sempre la sonora: zio, zona si dicono /sio/, /s$na/ mentre il toscano distingue tra /vio/ e /s$na/. Sono rare le coppie minime capaci di opporre /ts/ : /dz/. Ecco comunque un esempio: razza /'ratva/ " stirpe" : razza /'radsa/ "tipo di pesce". • palatali (propriamente sono postalveolari): /w/ sorda cena /wena/, falce /falwe/; /t/ sonora gente /tεnte/, giro /tiro/. Occorre ricordare che, davanti ad a, o, u, la sequenze grafiche ci, gi hanno valore monofonematico (equivalgono cioè ad un unico fonema); in altri termini la i costituisce un mero accorgimento grafico per segnalare il valore palatale di c, g. Esempi: ciao /wao/, giacca /takka/, bacio /bawo/, gioco /t$ko/ nasali (tutte sonore): /m/ bilabiale in mano, ama; /n/ dentale (ma per la precisione è alveolare) in neve, cane; /B/ palatale in gnomo. Lo standard italiano prevede che nel corpo di parola tra vocali la /B/ sia realizzata sempre come doppia: legna ['leBBa]; regno ['reBBo]; sogno ['soBBo], bagniamo /baBBamo/. Si osservi che nei verbi uscenti in gn (es. bagn-are e sogn-are), esiste qualche incertezza circa la grafìa da far valere davanti alle desinenze -iamo, iate /jamo/, /-jate/ (quelle di am-iamo, e di am-iate II pers. pl. del cong. pres.) in cui la nasale palatale viene a trovarsi davanti a /j/. La norma tradizionale prescriveva la grafìa con i (bagniamo, sogniate) in ossequio al principio morfologico anche se nella pronuncia la i viene assorbita. La nasale velare in italiano non è fonema autonomo, ma si può realizzare come allofono: anche [aCke] laterali /l/ alveolare: lana. Canepari 1979, p. 50 osserva che le realizzazioni 'normali' di /n/ ed /l// sono alveolari, tranne che in casi come tanto, alto dove si realizzano come dentali per assimilazione al luogo di articolazione della consonante che segue. /^/ palatale: gli /^i/. Nel corpo di parola tra vocali è realizzata sempre come doppia: figlio /fi^^o/, maglia /ma^^a/, famiglia /fami^^a/ vibrante /r/ alveolare: rana. Pur non essendo così forte come quello spagnolo (come in perro "cane"), il suono si caratterizza per la rapida vibrazione della punta della lingua. 49 APPROSSIMANTI (o semiconsonanti) /j/: iodio /j$dio/, piede /pjεde/. /w/: uovo /w$vo/; buono /bw$no/; quadro /kwadro/; eseguire /eze'gwire/ Come si accennava in premessa, non è pacifico lo statuto di unità fonematiche per tali entità foniche. In effetti il rendimento funzionale delle opposizioni che differenziano da una parte /j/ o /w/ e dall'altra i corrispondenti fonemi vocalici /i/ o /u/ è piuttosto basso in quanto sono poche e isolate le coppie minime che si possono costruire a partire da essi: ricordiamo per la distinzione /j/ : /i/ alleviamo come forma verbale di allevare, con i semiconsonantica, opposto all'omografo alleviamo riferito ad alleviare, spianti da spiantare e spianti, participio di spiare; per l'opposizione tra /w/ e /u/ qui vs. cui, la quale vs. lacuale. Per simili casi chi scrive sostiene che in realtà ciò che differenzia queste parole è il taglio sillabico: ovvero la differenza vera di pronuncia è tra [spjan-ti] (2 sillabe) e [spi-an-ti] (3 sillabe), o tra [la-kwa-le] (3 sillabe) e [la-ku-a-le] (4 sillabe). VOCALISMO ITALIANO II vocalismo italiano risulta abbastanza semplice e ben equilibrato. Abbiamo infatti a che fare con due serie simmetriche composte da tre vocali anteriori che si oppongono a tre posteriori (e arrotondate) dello stesso grado di apertura; a queste due serie si aggiunge una vocale /a/ di massima apertura e minima altezza che ha anche la prerogativa di essere l'unico fonema vocalico a non coincidere con la posizione delle vocali cardinali. SISTEMA VOCALICO ITALIANO: tabella riepilogativa i u e o ε $ a vocali della serie anteriore (non arrotondate) /i/ alta, chiusa: fini /e/ medio-alta, semichiusa: sete /ε/ medio-bassa, semiaperta: bello vocali della serie posteriore (arrotondate) /u/ alta, chiusa: fuga /o/ medio-alta, semichiusa: sotto /$/ medio-bassa, semiaperta: uomo /w$mo/, notte /n$tte/. Al di fuori di queste serie sta la /a/ vocale bassa, di massima apertura: lana. Come si può rilevare, la presenza di due timbri vocalici per e e per o genera discordanza tra numero di unità vocaliche dell'inventario fonologico (7) e numero dei grafemi (5). Si ricorre pertanto all'accorgimento grafico di distinguere le vocali aperte mediante accento grave (è, ò) e le corrispondenti chiuse mediante l'accento acuto (é, ó). • coppie minime che in toscano oppongono i due timbri vocalici: pèsca (frutto del pesco) : pésca (attività di pescare); vènti (pl. di "vento") : vénti (numero); accètta (verbo) : accétta (“ascia”); lègge (verbo) : légge (nome); affètto (sost.) : affétto (dal v. affettare); mènte (dal verbo mentire) : ménte (sost.); mènto (sempre da 50 mentire) : ménto (sost.); tèma (argomento) : téma (cong. di temere); èsse (la lettera) : ésse (plur. di essa); bòtte (le percosse) : bótte (recipiente per il vino); còlto (part. pass. di cogliere) : cólto "istruito"; còrso (della Corsica) : córso (da correre); fòro (di città romane) : fóro (buco); fòsse (plur. di fossa) : fósse (impf. cong. di essere); mòzzo “mutilo” : mózzo “ragazzo di nave”; pòrci "maiali" : pórci (dal verbo porre); pòse (plur. di posa) : póse (pass. rem. di porre); scòrsi (pass. rem. di scorgere) : scórsi (passati); sòrta (varietà) : sórta (part. pass. di sorgere); vòlto (part. pass. di volgere) : vólto "viso" • neutralizzazioni Dobbiamo ricordare che tale opposizione vige propriamente nel solo vocalismo tonico, mentre diversa è la configurazione del vocalismo atono; in sillaba non accentata, infatti, si ha una realizzazione media: si parla tecnicamente di neutralizzazione. • varianti regionali La maggior parte delle aree regionali dispongono di un vocalismo tonico diversamente strutturato rispetto alla standard a base toscana. In molte regioni meridionali (ed inoltre anche a Gorizia e Trieste) il sistema è pentavocalico, comprende cioè solo cinque timbri annullando la distinzione tra vocali semichiuse e vocali semiaperte. SISTEMA FONOLOGICO INGLESE II sistema fonologico inglese comprende: 21 fonemi consonantici; 3 approssimanti (o semiconsonanti); 12 fonemi vocalici. SISTEMA CONSONANTICO INGLESE bilabiali labiod interdentali alveolari postalveolari velari glottidali . occlusive pb td kg fricative fv h θδ sibilanti sz Sb affricate wt nasali m n C laterali l [;] vibranti [N] » [;] e [N] non entrano nel conteggio dei fonemi, in quanto varianti rispettivamente di /l/ e dell'approssimante postalveolare /»/. I fonemi consonantici restano dunque 21. CONSONANTISMO INGLESE occlusive L'inglese conta sei fonemi occlusivi: bilabiali: /p/ sorda forte pen /pen/; point; /b/ sonora lene bad /bæd/, back /bæk/. alveolari: /t/ sorda forte tea /ti:/, tight, little; /d/ sonora lene did /dId/, old, day Si noti che /t/ e /d/ hanno un'articolazione alveolare e non dentale come in italiano. velari: /k/ sorda (forte) cat /kaet/; call; /g/ sonora (lene) give /gIv/, go; il suono è prodotto dal contatto del dorso della lingua con il palato molle (o velo). In posizione iniziale e finale di parola /p/ /t/ /k/ presentano una aspirazione (non 51 fonematica, ma ridondante): tea [t’i:]; cup [k’Up’]. Tale aspirazione non interviene qualora preceda una s (dunque nelle combinazioni sp, st, sk), per cui si avrà steel [sti:l] "acciaio". L'aspirazione è presente, per quanto meno forte, anche all'interno di parola se la consonante è iniziale di sillaba tonica es. important. "Questo fenomeno è talmente automatico che la maggior parte dei parlanti d'inglese non si rende assolutamente conto che la loro lingua possiede delle consonanti aspirate, che invece in altre lingue, p. e. alcune lingue indiane, costituiscono fonemi separati. L'uso delle occlusive aspirate da quella particolare qualità a queste consonanti che il parlante italiano avverte; in effetti, quando vengono usate in italiano costituiscono uno degli elementi comunemente chiamati "accento inglese"". fricative labiodentali: /f/ sorda (forte) fall /f$:l/; fan, life; /v/ sonora (lene) voice /v$Is/; view. interdentali /θ/ sorda (forte) thing /θIC/, think, thin; /ð/ sonora (lene) this /ðIs/; father; then. alveolari: /s/ sorda so /s´U/, sister, sink, peace, use (sost.); /z/ sonora zoo /zu:/; quiz, zero, studies, use (verbo). /s/ e /z/ sono confrontabili con i corrispondenti fonemi italiani; ma si noti: - che la /z/ inglese può ricorrere anche ad iniziale di parola in prestiti quali zone; - che la /s/ rimane tale, a differenza dell'italiano, anche davanti a /m/ /n/ /l/: es. smile [smaIl]. postalveolari: /S/ sorda (forte) shoe /Su:/; ship, wash; optional, station, /b/ sonora (lene) vision /vibn/; casual, pleasure glottidali: /h/ sorda (forte) hat /hæt/; have, home, house; è anche il suono iniziale di who e whose. Questo fonema deve la propria denominazione alla glottide (lo spazio posto tra le corde vocali nella laringe); è definito anche glottale o laringale. affricate postalveolari /w/ sorda forte) chain "catena” /weIn/; church, child, nature; /t/ sonora lene jam /tæm/, cage "gabbia" /keIt/, jet, judge nasali (tutte sonore) /m/ bilabiale man "uomo" /mæn/; must /n/ alveolare no /n´U/. Si noti che in inglese il punto di articolazione, a differenza dell'italiano dove è dentale, è alveolare. /C/ velare sing /sIC/; king "re"; long "lungo" Mentre per l'inglese la nasale velare è fonema, in quanto capace di opporre coppie minime quali thing "cosa" /EIC/ : thin "sottile" /EIn/, in italiano la nasale velare costituisce solo una variante combinatoria. laterali (sonore) /l/ alveolare leg /leg/; light. In inglese dal punto di vista fonologico esiste una sola laterale, che comunque conosce un allofono velare [;], la cosiddetta 'dark' l, realizzata in posizione anteconsonantica (es. help) e in finale di parola (es. hill). approssimanti /»/ approssimante postalveolare sonora: si tratta della realizzazione più comune della r nell'inglese britannico, caratterizzata da basso livello di frizione e da una lieve retroflessione della lingua: red, rain. Si conoscono le seguenti varianti: • monovibrante [N], che ricorre tra vocali e dopo consonante interdentale: sì tratta di un 52 "voiced alveolar tap" (battito) ovvero di un "alveolar semi-trill": very, sorry; three. In posizione anteconsonantica e in finale assoluta la r è muta (almeno nella RP): horse /h$:s/, farm /fa:m/, ever /ev´/. La r dell'ingl. d'America è invece una approssimante "nettamente retroflessa" (Mioni). /j/ approssimante palatale sonora yes "sì" /jes/ /w/ approssimante (labio)velare sonora west /west/. VOCALISMO INGLESE La maggior parte degli studiosi concordano nell'assegnare all'inglese 12 fonemi vocalici, che formano un sistema lievemente dissimetrico caratterizzato da 4 vocali della serie anteriore, 5 della serie posteriore e 3 centrali. Le vocali inglesi sono anche in parte sensibili alla distinzione di lunghezza vocalica ed al tratto teso/rilassato. • vocali della serie anteriore, non arrotondate /i:/ chiusa, lunga, tesa sea "mare" /si:/; deep, leave, free, seat, key, beat /I/ meno alta e più centralizzata della precedente, breve, rilassata rich "ricco" /rIw/; bridge, sick, kit, bit. Coppie minime che oppongono questi due fonemi: reach : rich; sheep : ship; seat : sit /e/ articolata in una posizione intermedia tra semichiusa e semiaperta (meno chiusa di /e/ italiano) ten "dieci" /ten/; step, edge, neck. /æ/ realizzata tra semiaperta e aperta cat "gatto" /kæt/; bad, fat, back, badge, happy Coppie minime che oppongono queste due unità foniche: men : man; bed : bad si noti inoltre che i due fonemi non hanno esatto equivalente nella serie posteriore. • vocali della serie posteriore (le prime 4 sono arrotondate) /u:/ chiusa (alta), lunga, tesa fool "stupido" /fu:l/; too "troppo" /tu:/; shoot, view. /U / meno alta e più centralizzata della precedente, breve, rilassata full “pieno" /fUl/, put /pUt/; /$:/ articolata in una posizione intermedia tra semichiusa e semiaperta, lunga saw /s$:/; war "guerra" /w$:/; door, law, call, talk, lord, short. /$/ semiaperta, breve not /n$t/; body, copy, spot, lot, dog, cough, cross, song, long, sorry. /A:/ tra le posteriori è la più aperta (e bassa) ed è anche l'unica che non prevede protrusione delle labbra; è piuttosto allungata e tesa father /'fA:ð´/; ask /A:sk/ (in pronuncia britannica); car, large, start, calm, half. • vocali centrali /´:/ medio-bassa, lunga, tesa; sempre tonica bird /b´:d/; girl /g´:l/, word /w´:d/, learn, work, nurse. /´/ punto articolatorio vicino a quello della precedente, ma rilassata: inoltre sì realizza solo in sillaba non accentata about /´'baUt/; among, color, better, holiday. /\/ più bassa delle precedenti, si ottiene alzando il tratto mediano-centrale della lingua e aprendo le labbra in posizione neutra in maniera da allontanare le mascelle; è la corrispondente non arrotondata di /$/: cut "tagliare" /k\t/; love /l\v/; cup, but, just, rugby. Per l’inglese, come anche per il tedesco, si eviterà di trattare dei dittonghi, perché la discussione sul loro valore monofonematico o polifonematico ci porterebbe troppo lontano ed appesantirebbe eccessivamente la trattazione. Cenni di fonetica contrastiva anglo-italiana 53 Per quanto riguarda il consonantismo le occlusive sono sei in ambedue i sistemi fonologici, ma t/d variano come luogo di articolazione (dentali in italiano, alveolari in inglese); le fricative sono in numero maggiore in inglese, con la difficoltà posta dalle interdentali che non trovano riscontro in italiano; particolare attenzione per gli italofoni va posta poi nella realizzazione della r, articolata in inglese come approssimante postalveolare. Il vocalismo inglese si caratterizza per complessità e rispondenza a parametri in larga misura divergenti dalle abitudini articolatorie italiane; ad esempio fa valere, sia pure non sistematicamente, l'opposizione di durata; inoltre sfrutta uno spazio articolatorio ignoto all'italiano cioè quello delle vocali centrali. SISTEMA FONOLOGICO TEDESCO Come l’Italia, anche la Germania non ha una tradizione plurisecolare di Stato unitario e perciò non ha avuto un modello unitario di lingua: come lingua scritta si adottò quella della Bibbia di Martin Lutero (che era un compromesso fra diversi dialetti), e per la pronuncia si assunse a modello la pronuncia degli attori di teatro (Bühnenaussprache, pronuncia della scena), che pure era un compromesso fra varie pronunce regionali. Premesso questo, si può affermare che il sistema fonologico tedesco comprenda 20 fonemi consonantici, 1 approssimante (o semiconsonante), e 15 fonemi vocalici. SISTEMA CONSONANTICO TEDESCO bilabial labiod. dentali postalveolari palatali velari uvular glottidali occlusive p b td kg fricative [ç] [x] h fv sibilanti sz S affricate nasali laterali vibranti pffi m v n 1 [w] C R Le fricative [ç] e [x] sono in distribuzione complementare e dunque, fonologicamente, formano una sola unità. I fonemi consonantici restano dunque 20. CONSONANTISMO TEDESCO Si noti anzitutto che in tedesco la geminazione consonantica non è fonologicamente rilevante: si scrivono cioè consonanti doppie, e spesso anche le si pronuncia, ma in questi casi ciò che conta è la brevità della vocale che precede. occlusive Le consonanti occlusive del tedesco sono sei, analoghe a quelle italiane: ma va tenuto presente che, a differenza dell’italiano, qui il tratto distintivo non è la sonorità (o l’assenza di sonorità), bensì l’energia articolatoria: si parla dunque di consonanti forti e di leni. Le occlusive forti (sorde) ad iniziale di parola hanno come caratteristica non distintiva l'aspirazione. bilabiali /p/ forte sorda Paar [pha:r], kaputt lene sonora Bahn, loben alveolari /t/ forte sorda Tod "morte" [tho:t], Tasse /d/ lene sonora das, dünn “sottile”, 54 Mode velari (o dorsali) /k/ forte sorda Kohl, Acker /g/ lene sonora gelb "giallo"; morgen "mattino" Sotto il profilo del luogo di articolazione il tedesco sembrerebbe disporre di un settimo fonema occlusivo, realizzato come glottidale (o glottale o laringale) ed il cui simbolo è /d/. Si tratta del cosiddetto colpo di glottide (per realizzarlo "le corde vocali bloccano il passaggio dell'aria nella glottide"), che tuttavia, più che fonema, costituisce un segnale demarcativo. Il colpo di glottide si realizza automaticamente: • davanti ad ogni vocale iniziale di parola guten Abend [guten dabent]; er ist alt [der dist daltJ • davanti ad ogni vocale iniziale di morfema be-achten, er-arbeiten Il colpo di glottide è in grado di opporre coppie quali vereisen /ferdaizen/ "gelare" : verreisen /feraizen/ "mettersi in viaggio". fricative labiodentali: /f/ sorda Volk "popolo"; vier "quattro" /fi:r/, führen “guidare” /v/ sonora Wagen "vettura"; weiss “bianco” (sibilanti) alveolari /s/ sorda was, das, ist; lassen /z/sonora lesen. Ad iniziale di parola, davanti a vocale, è automatica la realizzazione della s come sonora (almeno nella pronuncia standard: non è così nelle pronunce regionali): Sonne "sole" [z$nne]; See "mare, lago" [ze:] Diciamo pertanto che l'opposizione /s/ : /z/ è neutralizzata in principio di parola a vantaggio della sonora. postalveolari: /S/ schön "bello"; mischen "mescolare"; waschen "lavare"; Schade. Davanti a consonante, all’inizio di parola o di morfema, la s si realizza automaticamente come postalveolare /S/, ad es. stehen “stare”, bestellen “ordinare” si dicono /Ste:n/, /beStεlen/, ma ist “è”, Kunst “arte” sono /ist/, /kunst/ (qui si vede come la Bühnenaussprache scelga il compromesso: in realtà nei dialetti meridionali la tendenza è verso una pronuncia sempre postalveolare di s anteconsonantica, tipo /iSt/, /kunSt/, mentre al Nord si tende ad una pronuncia sempre alveolare, tipo /ste:n/, /bestεlen/; si noti che la stessa tendenza si ha davanti a tutte le consonanti: così in tedesco si presentano le varianti Schnee /Sne:/ “neve” ma Sneewittchen “Biancaneve” (evidentemente questa fiaba è di regioni settentrionali). E' estraneo al sistema nativo tedesco il corrispettivo fonema sonoro /b/, presente solo in alcuni francesismi (garage ecc.) [x] velare sorda ~ [ç] palatale sorda Le due unità foniche figurano in distribuzione complementare: la prima, il cosiddetto ach-Laut, occorre dopo vocale non palatale; la seconda, il cosiddetto ich-Laut, prima e dopo vocali anteriori e dopo /r/, /1/,/n/. Esse, pertanto, non possono essere conteggiate come due fonemi distinti, ma come allofoni (cioè varianti) di uno stesso fonema: /x/ in Achtung "attenzione"; Nacht "notte"; /ç/ in ich "io"; Milch "latte"'; durch "attraverso". glottidale /h/ sorda haben "avere"; Hand "mano" affricate Sono due le affricate del tedesco alle quali si possa riconoscere statuto fonematico. /pffi/ labiodentale: il primo elemento è labiale il secondo implica la fricativa dentale: è prodotta accostando il labbro inferiore ai denti superiori. Pferd "cavallo"; Pfaffe 55 /v/ dentale sorda zehn "dieci”; Katze “gatto”. A prima vista il tedesco sembrerebbe conoscere anche le affricate palatoalveolari: si tratta della sorda [w], realizzata in parole quali Gletscher "ghiacciaio", peitschen “frustare”, e dell'omologa sonora [t], che compare in un numero limitato di prestiti. Tuttavia, secondo la maggior parte delle analisi, sono da considerarsi più che fonemi unitari, nessi bifonematici. nasali /m/ bilabiale mehr, Lampe /n/ alveolare Nacht, kann /C/ velare lang "lungo" /laC/; krank "malato”. E' dubbio se la nasale velare costituisca fonema autonomo; per alcuni studiosi si tratta di una semplice variante, realizzata davanti a occlusiva, della nasale alveolare. laterali (sonore) /l/ alveolare: lachen "ridere", Kohl “cavolo”. uvulari [R] Il fonema notato graficamente come r è soggetto in tedesco a variazione libera: può realizzarsi in particolare: • come vibrante uvulare [R] ad iniziale di parola: reden "leggere"; Rat “consiglio”, rot “rosso”. In alcune varietà di tedesco questo tipo di vibrante si usa in tutte le posizioni; • come fricativa uvulare [γ], ad esempio dopo vocale breve; • come r vocalizzato [A], dopo un apice sillabico: der, wir, dir, nur, Wurm, warten • come vibrante apicale [r] ; era tipica della Bühnenaussprache degli anni Trenta e Quaranta, ma oggi tale pronunzia appartiene solo ad alcuni dialetti. La realizzazione come fricativa uvulare è storicamente modellata sulla pronunzia parigina vigente al principio del XVIII secolo. coppie minime che implicano l'opposizione forte : lene p : b Pein “pena” : Bein “gamba” t : d Tank “serbatoio” : Dank “grazie” k : g Kunst “arte” : Gunst “favore” f : v fand “trovò” : Wand “parete” s : z reißen “strappare” : reisen “viaggiare altre coppie minime: f : pf fand “trovò : Pfand “pegno”, t : ts Tank “serbatoio” : Zank “lite”, z : S Sohn “figlio” : schon “già”, m : n mein “mio” : nein “no”, n : C sinnen “meditare” : singen “cantare”. APPROSSIMANTI Il tedesco conosce una sola approssimante articolata come palatale /j/ Jahr "anno" /jA:R/ VOCALISMO TEDESCO Il sistema vocalico tedesco comprende 15 fonemi vocalici così distribuiti: 5 vocali della serie anteriore, 4 vocali anteriori arrotondate, 4 vocali della serie posteriore, 2 vocali mediane. Secondo alcune descrizioni (Albano Leoni - Morlicchio 1988, p. 43; Handbuch IPA) possiederebbe statuto fonologico anche la vocale centralizzata che si realizza solo in sillaba non accentata, per es. nel prefìsso be- di be-lichten “esporre alla luce” o nella terminazione -e di Beute “bottino”). Durata vocalica e grado di apertura 56 Fra i suddetti quindici fonemi vocalici operano sette opposizioni di quantità associate ad un'opposizione di grado di apertura che funziona come tratto ridondante. Soltanto due delle vocali brevi, e cioè /a/ ed /ε/, hanno un corrispondente allungato del medesimo timbro (cfr. le coppie Bahn "via": Bann "bando"; schälen “sbucciare” : schellen “suonare il campanello”); le altre vocali si oppongono sia dal punto di vista della durata che del timbro, ossia del grado di apertura. Si hanno nel complesso 7 vocali brevi; 8 vocali lunghe. Notazione grafica La presenza di fonemi vocalici brevi è segnalata nella grafia per mezzo del raddoppiamento della consonante che segue; i fonemi vocalici lunghi vengono notati con più artifici grafici: con un h (ad es. Bahn), con un digramma vocalico (ad esempio ie di Wiese ecc.), mediante il ricorso ad una consonante scempia intervocalica. Ecco le cinque vocali della serie anteriore (palatali) /i:/ è la vocale anteriore più chiusa; è realizzata come lunga: Miete [mi:te] "affìtto"; bieten "offrire"; lieben "amare" /I/ più breve, della precedente, più bassa e centralizzata: Mitte "metà"; bitten "chiedere"; Kind "bambino" /e:/ zehn "dieci" /ε/ Bett "letto" /ε:/ ähnlich "simile"; Gewähr “garanzia”. Si tratta di un fonema vocalico ormai di impiego marginale. Esso funziona ad esempio nelle coppie minime: schälen “sbucciare” : schellen “suonare (campanello)”; zählen “contare” : zahlen “pagare”. Dato il suo carattere isolato e straordinario (è l’unica vocale aperta lunga), tale fonema è maggiormente esposto alla defonologizzazione, e manca in molte varietà di tedesco, che lo realizzano come [e:]. vocali anteriori arrotondate /y/ chiusa, lunga Hüte "cappelli"; lügen "mentire"; über /Y / più aperta della precedente, breve Hütte "capanna"; fünf "cinque"; lüften "ventilare" /ø:/ semichiusa, lunga lösen "risolvere, sciogliere"; Höhle "caverna"; /F/ semiaperta, breve können "potere"; Hölle "inferno"; möchte vocali della serie posteriore (sono anche arrotondate) /u:/ è la vocale posteriore più chiusa; è realizzata come lunga Mus "passato, puré"; Ruhm "fama" /U/ meno chiusa e un po' più accentrata rispetto alla precedente, breve Mutter, und, drucken /o:/ semichiusa, lunga, tesa Ofen "forno"; Brot "pane" /$/ semiaperta, breve, rilassata offen "aperto"; voll "pieno"; sollen "dovere" vocali aperte: /A:/ lunga e posteriore Staat "stato" /StA:t/; Bahn "strada" /bA:n/; bezahlen "pagare" /a/ breve e anteriore Stadt "città" /Stat/; Bann "scomunica" /ban/; fallen "cadere", lassen "lasciare", Mann "uomo" Cenni di fonetica contrastiva tedesco-italiana A differenza del vocalismo, segnato da una sua forte specificità e da una vistosa ricchezza di unità toniche, il consonantismo tedesco presenta una maggiore prossimità rispetto a quello italiano. Occorre tuttavia far notare che 57 • il tratto di tensione, che oppone consonanti tese e rilassate, è distintivo nel consonantismo tedesco, mentre è ridondante in quello italiano, dove invece opera in maniera distintiva la correlazione di sonorità, che non è funzionale invece nel tedesco (Muljacic 1977); • la distinzione sorda : sonora tende in tedesco ad essere neutralizzata in posizione finale, ciò che provoca alternanze del tipo Tag [tak] “giorno” : Tages [tages] “del giorno”; si tratta del fenomeno denominato Auslautsverhartung, applicato anche ai prestiti (Philippe 1974, p. 67). Altre particolarità del consonantismo: /p/ /t/ /k/ sono realizzate come aspirate davanti a vocale tonica e in finale assoluta, ma l'aspirazione non possiede valore distintivo; /s/ non si realizza mai in posizione iniziale, almeno nella pronuncia più corretta. SISTEMA FONOLOGICO FRANCESE II sistema fonologico francese comprende: 17 fonemi consonantici; 3 approssimanti (o semiconsonanti); 16 fonemi vocalici (di cui 12 vocali orali e 4 vocali nasali). SISTEMA CONSONANTICO FRANCESE bilabiali labiod. dentali alveolari postalveol. velari uvulari (palatali) occlusive p b td kg fricative sibilanti nasali laterali vibranti fv Sb sz m n 1 B R CONSONANTISMO FRANCESE occlusive Il francese conta sei fonemi occlusivi: bilabiali /p/ sorda père "padre"; pain; /b/ sonora bras, robe, bain dentali (o apicali): /t/ sorda table, vitesse, bibliothèque; /d/sonora dans, doigt, endroit La realizzazione francese della t e della d è più arretrata che nelle corrispondenti consonanti italiane, articolate come dentali. velari (o dorsali): /k/ sorda coup "colpo" /ku/; quatre, kilomètre; /g/sonora goût "gusto" /gu/; gare, grand fricative Il francese conta sette fonemi fricativi: labiodentali: /f/ sorda fruit, neuf; /v/ sonora vous, rève, vin alveolari: /s/ sorda douce "dolce (f.)" /dus/; salle, tasse, garçon, nation; /z/sonora douze "dodici" /duz/; maison "casa"; rose, zéro 58 postalveolari: /S/ sorda chaise “sedia” /Sε:z/; cheval, tache; /b/ sonora je, jour, jaune, page. Queste fricative alveolari e postalveolari sono tradizionalmente definite sibilanti. Diversamente da quanto accade in italiano, la presenza della palatoalveolare sonora rende equilibrata e completa la serie fricativa concorrendo a formare la correlazione sordasonora. uvulare /R/ Ferma restando la localizzazione uvulare, la r francese conosce più varianti: - la fricativa uvulare [R], che occorre ad inizio di parola e dopo consonante roi "re" [Rwa], livre "libro" [livR]; - l'approssimante uvulare [γ], la cui articolazione comporta un minore avvicinamento del dorso della lingua all'ugola rispetto al corrispondente suono fricativo (Canepari 1979, p. 68); si realizza dopo vocale e in finale di parola parler "parlare" /paγle/, lire "leggere"; - la vibrante uvulare (conosciuta come "r grasseyé"), realizzata "con l'ugola che batte contro la radice della lingua". Viene trascritta mediante [R]. La r del francese è in ogni caso molto diversa dalla vibrante apico-dentale italiana (definita "r roulé"), che si può trovare solo come variante regionale, propria del sud della Francia. In passato, invece, era proprio la vibrante la norma di realizzazione. nasali (tutte sonore) Sono tre i fonemi consonantici nasali del francese: /m/ bilabiale main "mano"; pomme “mela”. /n/ alveolare neuf "nuovo”; nous "noi"; dictionnaire "dizionario" Negli esempi sopra riportati la nasalizzazione viene bloccata e la n mantiene il suo valore alveolare in quanto segue una vocale. Quando sia preceduta da vocale della stessa sillaba, la consonante /n/ ne provoca la nasalizzazione, perdendo il suo valore consonantico per diventare una componente della vocale nasale: pendant /pA)dA)/, international /E)teRnasjonal/, onde /$)d/, Verdun /verdF)/. /B/ palatale agneau /aBo/ "agnello"; montagne, bagne Non ha rilevanza fonologica la nasale velare [C] in quanto avvertita come fonema straniero (è realizzata in anglicismi come parking, camping, caravaning). laterali II francese conosce un solo fonema laterale: /l/ alveolare aller "andare"; escalier, sol, mille APPROSSIMANTI II sistema fonologico francese comprende tre unità foniche, poste alla frontiera tra vocalismo e consonantismo, tradizionalmente denominate 'semiconsonanti'. Aderendo tuttavia alla terminologia dell'API preferiamo classificarle come approssimanti. /j/ approssimante palatale cahier "quaderno" /kaje/; pied "piede"; yeux, fìllette, soleil, paille /5/ approssimante labiopalatale, sempre davanti a i: huit "otto"; nuit "notte"; huile Si classifica questa unità fonica come labiopalatale in quanto l’articolazione coinvolge labbra e palato duro. /w/ approssimante (labio)velare oui /wi/ "sì"; roi /Rwa/ “re” schema riepilogativo delle approssimanti francesi palatale labiopalatale velare approssimanti j w 5 59 VOCALISMO FRANCESE II francese conosce in tutto sedici vocali toniche di cui dodici orali e quattro nasali. vocali orali 3 vocali collocate nella serie anteriore, non arrotondate /i/ chiusa il, livre, lit, ami; /e/ semichiusa blé, cahier, nez, pied, parler, sévérité; /ε/ semiaperta mère "madre", lait, première; alcuni distinguono /+/ breve di faite “fatta” da /+:/ lunga di fête “festa”. 3 vocali anteriori arrotondate /y/ tu, mur, lune (apertura corrispondente alla /i/); /ø/ feu "fuoco"; deux, ceux (corrisponde alla /e/); /F / fleur "fiore"; jeune "giovane"; heure (corrisponde alla /ε/). 3 vocali nella serie posteriore (labializzate) /u/ chiusa vous, nous, loup; /o/ semichiusa rose /roz/; eau "acqua" /o/; beau "bello"; tableau; /$/ semiaperta homme /$m/; port, lors 2 tipi di a, l'una anteriore /a/ e l'altra posteriore (ma non labializzata) /A/: [anteriore] arbre, table; [posteriore] bas, pas, âme "anima". l'opposizione tra le due a si è quasi perduta in francese; essa opera in un numero limitato di coppie minime tra cui le seguenti: patte "zampa" : pâte "pasta"; tache “macchia” : tâche “compito”; matin “mattino” : mâtin “mastino” ecc. 1 vocale centrale di timbro instabile [la cosiddetta e muette] /´/ le, je, fenètre vocali nasali La caratteristica del vocalismo francese è appunto la presenza di vocali nasali, dotate di valore fonematico (si tratta cioè di fonemi a tutti gli effetti): la presenza o l'assenza di risonanza nasale è il tratto su cui si fonda la distinzione nell'ambito di molte coppie minime, tra cui le seguenti : fait "il fatto" : fin "fino"; beau "bello" : bon "buono" Le vocali nasali del francese standard sono in numero di quattro. /A)/ langue "lingua" /lA)g/; lampe /lA)p/; grand "grande"; blanc "bianco"; dans /E)/ pain "pane", vin "vino" /vE)/; jardin /baRdE)/; plein "pieno"; bien, main /$)/ monde /m$)d/; rond "rotondo"; blond; nombre "numero"; bon, on /F)/ un "uno"; brun "bruno"; lundi "lunedì"; parfum "profumo" Grazie a un accorgimento mnemonico, i quattro tipi vocalici possono essere concentrati nella frase un grand pain rond [F) gRA) pE) R$)]. Nell'uso corrente, tuttavia, si coglie la tendenza a far convergere in una stessa pronunzia le vocali /ε)/ di pain e /F)/ di un, per cui l'inventario delle vocali nasali tende a ridursi a tre unità. Altri fenomeni tipici del francese sono l'accentuazione finale della parola e la cosiddetta liaison. Cenni di analisi contrastiva con l'italiano Se accostiamo il sistema fonologico francese al sistema italiano o a quello spagnolo, siamo immediatamente colpiti dalla straordinaria varietà delle vocali francesi: a fronte dei sette fonemi vocalici dell'italiano e dei soli cinque dello spagnolo, il francese possiede ben sedici diversi fonemi vocalici (Perini 1971, pp. 231-241). Del francese mancano all'italiano: • le tre vocali anteriori arrotondate /y/ di vu, /F/ di fleur, /ø/ di deux; • le quattro vocali nasali; • la cosiddetta e muta o instabile. 60 Inoltre il francese, almeno nel parlare dei più anziani, presenta due opposizioni vocaliche di durata: cfr. belle : bêle, "bella" e "bela" e tache : tâche "macchia" e "compito". Nell'ambito delle approssimanti è esclusiva del francese la labiopalatale /5/ Tra le differenze nel consonantismo segnaliamo la presenza in francese della fricativa palatale sonora /b/, assente dallo standard italiano, e viceversa la presenza solo in italiano della laterale palatale /^/ e delle affricate. Altre differenze si traducono in sostituzioni di foni (ad es. r è uvulare in francese invece che apicale), ossia in modifiche nelle modalità articolatorie piuttosto che in differenze di inventario. SISTEMA FONOLOGICO SPAGNOLO II sistema fonologico spagnolo comprende: 18 fonemi consonantici; 2 approssimanti (o semiconsonanti); 5 fonemi vocalici. SISTEMA CONSONANTICO SPAGNOLO bilabiali labiod dentali interdentali palatali occlusive p [b] t [d] fricative [z] f θ [δ] sibilanti s affricate nasali laterali vibranti m n 1 N r velari k [g] x [γ] w B ^ Le tre coppie di foni formate rispettivamente da [b] : [z]; [d] : [δ]; [g] : [γ] sono in distribuzione complementare e dunque, fonologicamente, contano ciascuna per una sola unità. Pertanto i fonemi consonantici dello spagnolo sono 18. CONSONANTISMO SPAGNOLO occlusive Lo spagnolo conosce solo tre “vere” occlusive: si tratta delle sorde, mentre le corrispondenti sonore sono talmente deboli da stare a metà tra occlusive e fricative. Inizieremo dunque a passare in rassegna le sorde. /p/ bilabiale capa “mantello” /t/ dentale tiempo /k/ velare cosa Le occlusive sonore [b], [d], [g] mantengono il loro modo di articolazione limitatamente alla posizione forte (ossia ad inizio di frase; dopo consonante nasale o liquida), mentre in posizione intervocalica (anche nel contesto di frase, se cioè precede una parola che termina in vocale) sono realizzate mediante le fricative del corrispondente luogo di articolazione, rispettivamente [z], [δ], [γ]. Si hanno dunque, per ciascun caso, due allofoni, uno occlusivo e l'altro fricativo, in distribuzione complementare: bilabiale [b] [z]: le due varianti possono essere rappresentate ora da b ora da v, ma i due grafemi non sono specializzati a indicare uno dei due allofoni; in altre parole una b della scrittura può indifferentemente indicare sia [b] che [z] [b] banco, bueno, vino, vista, 61 invasión, un vaso [um baso]; [z] saber, caballo; avion, Sevilla alveolare [d] [δ]: l'alternanza osserva le consuete regole di distribuzione; la variante occlusiva ricorre ad iniziale e dopo nasale o liquida; nelle altre posizioni si realizza la fricativa. La grafia è invece costantemente d. [d] dar, decir, mundo, buen dia /bwen dia/; [δ] venido, cada velare [g] [γ] La grafia è sempre g. [g] gusto, gato, guerra [γ] lago, fuego fricative Le fricative dello spagnolo aventi pertinenza fonologica sono quattro, tutte sorde: /f/ /θ/ /x/ /s/; le corrispondenti sonore delle prima tre, come abbiamo già visto, non hanno statuto fonologico, ma sono allofoni intervocalici delle corrispondenti occlusive. /f/ labiodentale fiesta /θ/ interdentale, ortograficamente rappresentato da c + e, i (es. hacer, ciento) oppure da z (es. caza "selvaggina"; pozo) /s/ alveolare paso, coser "cucire"; conosce una variante sonora [z] in vicinanza di consonante sonora: mismo [mizmo]; rasgo “tratto” /x/ velare, scritto come j (es. hijo "figlio" /ixo/) oppure g + e, i (es. gente, coger) affricate /w/ palatale sorda, ortograficamente rappresentata da ch: mucho, ocho, techo nasali Lo spagnolo conosce tre fonemi nasali (tutti sonori): /m/ bilabiale alma "anima" /n/ alveolare: lino, lana, leccion. Esiste una variante velare condizionata dall'occorrenza di una consonante velare che segua: es. cinco [θiCko] /B/ palatale, ortograficamente rappresentata da ñ: sueño /sweBo/ "sogno"; niño, pequeño. A differenza del corrispondente fonema italiano, che implica una articolazione rafforzata (cft. ad es. in bagno /baBBo/), è realizzata come semplice. laterali Lo spagnolo conosce due fonemi laterali (ambedue sonori): /l/ alveolare lana, lado, abril; /^/ palatale, ortograficamente rappresentata da ll: caballo [kaza^o] "cavallo"; calle /ka^e/"via". A differenza del corrispondente fonema italiano non è mai geminata. La distinzione fonematica della /^/ palatale rispetto alla /l/ alveolare è garantita da coppie minime quali loro “pappagallo” / lloro “pianto”; talar “disboscare” / tallar “intagliare”. La /^/ proviene da quattro diversi possibili antefatti latini: PL- (llano ), CL- (llave ), FL(llama ) e da -LL- (castillo). vibranti (sonore) Allo spagnolo si possono attribuire due tipi di vibrante, fonologicamente distinti, ambedue realizzati come alveolari: /N/ monovibrante, ortograficamente rappresentato da r; ne esiste una variante fricativa in posizione intervocalica o finale di parola /r/ plurivibrante ortograficamente rappresentato da rr. Esempi di coppie minime che oppongono i due tipi di vibrante: pero "però" : perro "cane"; coro “coro” : corro “gruppo, crocchio”. APPROSSIMANTI (semiconsonsonanti) Lo spagnolo conosce due approssimanti (semiconsonanti), una palatale e l’altra velare: 62 y tiene /tjene/, mayo, hierba /w/ cuatro /kwatro/, huevo “uovo” VOCALISMO SPAGNOLO II sistema fonologico dello spagnolo annovera, in sillaba tonica, cinque fonemi vocalici distribuiti in tre gradi di apertura (rispetto ai sette dell'italiano ordinati in quattro gradi di apertura): vocali anteriori /i/ ir, niño /e/ enero “gennaio”, cabeza vocali posteriori /u/ nunca /o/ rosa; non opera o comunque non ha rilevanza distintiva l'opposizione di timbro fra /ε/ /$/aperte e le corrispondenti chiuse /e/, /o/ tipica dell'italiano a base toscana. vocale centrale /a/ verdad Cenni di fonetica contrastiva rispetto all'italiano Non esistono in spagnolo, o perlomeno non hanno autonomia fonologica, la fricativa labiodentale sonora /v/, le fricative palatali, l'affricata palatale sonora /t/; più povero anche il sistema vocalico, che comprende solo cinque unità foniche. Per contro rappresentano un problema per l’apprendente italiano la fricativa interdentale /θ/ e la velare /x/, la duplicità dei fonemi vibranti oltre ai rilevanti fatti di allofonia che interessano le occlusive sonore. SISTEMA FONOLOGICO ARABO CLASSICO Va detto che fino a qualche decennio fa l’arabo classico era usato quasi esclusivamente come lingua scritta: nel parlato lo si sentiva solo in discorsi solenni, nelle prediche, oltre che nella recitazione del Corano e nel discorso di religione o di letteratura. Ora però si va diffondendo sempre più in quanto è diventato anche la lingua dei telegiornali, oltre che per i contatti sempre più frequenti tra Arabi di diversi Paesi. La pronuncia dell’arabo classico differisce a seconda delle varianti locali: qui si indicheranno alcune delle pronunce più prestigiose. Si può dire che l’arabo classico conosca 6 vocali e 28 consonanti. Per questa lingua non è possibile fare la distinzione tra consonati e approssimanti, perché il sistema fa una distinzione netta tra vocali e consonanti: ogni parola deve iniziare con una consonante, ed una sola; non sono ammesse più di due consonanti di seguito (o anche una consonante geminata), sempre all’interno o in fine di parola; non sono ammessi gruppi vocalici; le vocali lunghe sono calcolate quasi sempre come se fossero una vocale + un coefficiente consonantico, e perciò possono essere seguite da una sola consonante (fa eccezione la /a:/ che ammette dopo di sé una consonante doppia). SISTEMA CONSONANTICO ARABO postalveol. velari uvul. faringali glottidali bilabiali labiod dentali e interdentali (palatali) Occlusiv e b t d te de / k [g] q d 63 Fricative sibilanti Nasali Laterali Vibranti f szs m e xγ E δ δe ye h S [b] n 1 r occlusive si noti che l’arabo possiede /b/ ma non /p/, ed anche /f/ ma non /v/: per quanto strana, la stessa situazione si ritrova in molte lingue semitiche ed africane. Le occlusive dell’arabo sono dunque: bilabiale /b/: bi’r “pozzo”, ’ab “padre”, šubbâk “finestra” dentali: sorda /t/, sonora /d/: taraka “lasciò”, kuttâb “scuola coranica”, tuffây ”mele”; darb “strada”, dîn “religione”, šadîd “forte” palatale: solo la cosiddetta “lettera jîm“, che per la verità ha pronunce differenti a seconda dei Paesi. Etimologicamente deriva da una /g/ (velare) semitica, e questa è ancora la pronuncia prevalente in Egitto, in Oman, a Aden; i grammatici medioevali raccomandavano una pronuncia di occlusiva palatale /// che è tuttora diffusa nell’Egitto meridionale, in Sudan, in molte tribù beduine; c’è poi una pronuncia come affricata /t/, corrente in Iraq e Algeria, e raccomandata in alcune scuole; oggi la più diffusa pare essere la pronuncia come sibilante alveolare /b/, corrente nelle città della regione siropalestinese, in Tunisia, Marocco ecc. Qui si indica come se fosse “norma” la pronuncia palatale raccomandata dai grammatici, perché storicamente spiega gli sviluppi successivi. Si traslittera come j e compare ad esempio in jamal “cammello”, ’ajmal “più bello”, tâj “corona”, majd “gloria”, jayš “asinello” velare: /k/ kalb “cane”, kitâb “libro”, fakkara “pensò”. La velare sonora [g] è presente praticamente ovunque, anche se non ha una precisa codificazione nella scrittura: in Egitto corrisponde alla jîm, nei dialetti beduini corrisponde a q, altrove la si conosce come prestito da altri dialetti o da lingue europee. uvulare: /q/ qalb “cuore”, baqara “mucca”, baqqâr “pastore di bovini”. Nei dialetti beduini si pronuncia come velare sonora [g]; in molti dialetti cittadini è passata ad occlusione glottale /d/. glottidale: /d/ (traslitterata ’) ’axaδa “egli prese”, ya’xuδu “egli prende”, sa’ala “domandò”, wafâ’ “compimento d’una promessa”. È lettera debole e tende ad essere tralasciata, soprattutto in finale di parola o di sillaba; è l’unica consonante che non si presenta mai geminata. fricative labiodentale /f/ faras “cavalla”, fikr “pensiero”, xafîf “leggero”. interdentali, sorda /E/ Eaelab “volpe”; Eaqîl “pesante”, bayE “ricerca”; sonora /δ/ δi’b “lupo, sciacallo”, δahiba “egli andò”, hâδa “questo” velari, sorda /x/ xamr “vino, alcool”, xarîf “autunno”, faxr “vanto”, ’ax “fratello”; sonora /γ/ γarîb “strano, straniero”, γarb “Occidente”, γâlib “vincitore” faringali, sorda /y/ yimâr “asino”, yasan “bello”, ’aysan “più bello”, rûy “spirito”; sonora /e/ eâmil “lavoratore”, einab “uva”, sâea “ora” 64 laringale sorda: /h/ huwa “egli”, fahm “intelletto”, faqîh “esperto della legge coranica” sibilanti /s/, /z/: sirr “segreto”, fassala “confezionò su misura”, nâs “gente”, zanj “negro”, xazzân “serbatoio”, mumtâz “ottimo”; queste sibilanti si contrappongono praticamente in ogni posizione, ad esempio in yusn “bellezza” rispetto a yuzn “funerale”; di sibilante postalveolare l’arabo classico conosceva un tempo solo /S/, in šams “sole”, šariba “egli bevve”, šimâl “sinistra”; oggi in molte pronunce regionali (ma sarebbe meglio dire nazionali) esiste anche la corrispondente sonora, cioè una [b] come resa normale di jîm, ed anche negli altri Paesi questo fonema si è acclimatato per rendere parole straniere e di altri dialetti arabi. nasali: l’arabo distingue solo due fonemi: /m/, mâl “ricchezza”, maktab “ufficio” lawm “rimprovero”, fam “bocca”, ’umm “madre”; ed /n/, nâs “gente”, lawn “colore”, eunq “collo”. laterale: solo /l/, lisân “lingua”, lâzim “necessario”, jabal “monte”. vibrante: solo /r/, di articolazione simile a quella dell’italiano: rajul “uomo”, ra’s “testa”, bi’r “pozzo”. approssimanti: la labiovelare /w/ in ward “rosa”, ’awwal “primo”, walad “bambino”, ’awlâd “bambini”; e la palatale /j/ (traslitterata comunemente y): yawm “giorno”, ’ayyâm “giorni”, šayyâl “facchino” Resta da parlare ora delle enfatiche. In arabo esistono alcune consonanti dette enfatiche, caratterizzate da una simultanea costrizione faringale: così la /X/ (ovvero /te/, /t¢/) differisce dalla /t/ semplice, ad esempio in t¢în “fango” rispetto a tîn “fichi”. Le enfatiche dell’arabo classico sono le seguenti: /te/, enfatica della /t/: t¢araqa “egli batté”, t¢âlib “che domanda (la scienza); studente” [da cui, con plurale persiano e non arabo, t¢âlibân, gli studenti che presero il potere in Afghanistan], waqt¢ "tempo"; /δe/ enfatica della /δ/, (traslitterata normalmente z¢), in z¢ufr “unghia”, yafaz¢a “conservò, conobbe a memoria”, z¢uhr “mezzogiorno”; /se/ enfatica della /s/, in s¢abr “pazienza”, yis¢ân “cavallo”, eas¢r “epoca”, nas¢r “vittoria”; ed infine esiste la d¢âd, consonante che gli antichi grammatici descrivevano come difficilissima per gli stranieri, perché a quel tempo doveva essere un’enfatica interdentale sonora lateralizzata: ma oggi un suono simile si è perso (eccetto forse in due villaggi sauditi15), e le pronunce correnti sono due: 1) come /de/,enfatica della /d/; 2) uguale alla /δe/. Si usa in parole come d¢arb “colpo”, ’ard¢ terra”, fad¢d¢a “argento”. VOCALISMO ARABO Le vocali arabe sono tre brevi, /i/ /a/ /u/, e tre lunghe, /i:/, /a:/, /u:/. Le lunghe (come pure i dittonghi /ay/ ed /aw/ possono stare solo in sillaba aperta, o in sillaba finale chiusa da una sola consonante; fa eccezione la /a:/ che può essere seguita da consonante geminata, come in šâbb “giovane (sost.)”. In prossimità di consonanti enfatiche le vocali si modificano: i ed u (brevi o lunghe) assumono una pronuncia centralizzata (più aperta), mentre a si velarizza; al contrario, se non è vicina a consonanti enfatiche, la a tende a palatalizzarsi; 15 Cfr. l’articolo di Munira Al-Azraqi, Ad¢-d¢ d in Southwest Saudi Arabia as Described by Old Grammarians, in S. Procházka, V. Ritt-Benmimoun, Between the Atlantic and Indian Oceans. Studies on Cintemporary Arabic Dialects, Wien 2008, pp. 43-50. 65 si pronuncia centrale praticamente solo dopo q. Cenni di fonetica contrastiva rispetto all’italiano Il timbro delle vocali brevi in arabo può non essere importante, mentre è importante la distinzione fra lunghe e brevi; inoltre esistono diversi fonemi consonantici che non hanno alcun corrispondente in italiano, come le interdentali (presenti però in altre lingue europee), l’uvulare, le faringali, le glottidali nonché le enfatiche. Si consiglia di studiare a fondo, tra i sistemi fonologici esposti in queste pagine, quelli di due lingue a scelta STANDARDIZZAZIONE In passato, quando facevo ricerche sul campo e mi occupavo di begia (lingua cuscitica parlata fra il Nilo ed il Mar Rosso), più volte mi fu rivolta dagli abitanti del luogo (o addirittura dagli stessi informatori) la seguente obiezione: “questa non è una vera lingua, perché non ha una scrittura.” A queste parole i linguisti, di solito, rispondono sorridendo che una scrittura per il begia (o per altre lingue del genere) si può inventare subito16, e che del resto, su circa seimila lingue che si calcola esistano al mondo, solo per un migliaio si è inventata una scrittura, perché tutte le altre hanno un numero troppo scarso di parlanti, e non vale la pena di impiegarle in libri a stampa. Eppure, qualcosa mi dice che quell’obiezione che mi è stata fatta è una vera vox populi, e come tale non sbaglia. Vediamo in che senso si potrebbe affermare questo. Cerchiamo innanzitutto di capire cos’è la scrittura, che è stata singolarmente misconosciuta anche da grandi e grandissimi linguisti. A p. 45 del Cours de linguistique générale di Saussure si legge: “Langue et écriture sont deux systèmes de signes distincts; l’unique raison d’être du second est de representer le premier; l’objet linguistique n’est pas défini par la combinaison du mot écrit et du mot parlé; ce dernier constitue à lui seul cet objet. Mais le mot écrit se mêle si intimement au mot parlé dont il est l’image, qu’il finit par usurper le rôle principal ; on en vient à donner autant et plus d’importance à la representation du signe vocal qu’à ce signe lui-même. C’est comme si l’on croyait que, pour connaître quelqu’un, il vaut mieux regarder sa photographie que son visage.”17. E Leonard Bloomfield, alla fine del § 17.1 del suo Language, scriveva: “[la scrittura] è per il linguista, se si eccettuano alcuni particolari secondari, semplicemente un espediente esterno, come l’uso del fonografo, grazie al quale possono essere conservati alla nostra osservazione alcuni tratti del discorso del passato”. Non trovo condivisibile neppure l’affermazione di Giorgio Raimondo Cardona, che nel suo volume Antropologia della scrittura, Torino 1981, pp. 21-23 scriveva: “Quel che sorprende nel consultare le 16 Ed in effetti, nel frattempo una scrittura per il begia è stata inventata: si veda K. & Ch. WEDEKIND, Abuzeinab MUSA, A Learner’s Grammar of Beja (East Sudan), Köln 2007. 17 Se si prendesse alla lettera l’affermazione di Saussure che l’unica ragion d’essere della scrittura è rappresentare il parlato, si arriverebbe a risultati assurdi: come si può pensare che ad esempio l’Enciclopedia Treccani sia la trasposizione di un discorso parlato? Con ogni evidenza, in questo come in molti altri casi, si tratta di un testo (o piuttosto di un insieme di testi) concepito e progettato per la scrittura, inimmaginabile senza di essa. Ed ora pensiamo anche al computer: come sarebbe possibile utilizzarlo senza la scrittura? E di certo, l’uso della scrittura che si fa in informatica non ricalca il parlato. 66 numerosissime opere occidentali sulla scrittura è la presenza, più o meno evidente, di una tenace idea di fondo: che i vari sistemi si ordinino filogeneticamente lungo un percorso di crescente perfezionamento […]. Di questo percorso evolutivo già conosciamo l’ultima tappa, la scrittura alfabetica. Tutti gli altri sistemi si collocano, a maggiore o minore distanza, ad un qualche punto della scala; e per molti sistemi si può essere in dubbio se rappresentino una tappa quanto si vuole arretrata della evoluzione, o se non siano invece forme non omogenee alla scrittura, bensì di altro genere, pittoriche, espressive, ecc. […]. In una prospettiva antropologica e semiologia – verrebbe da dire laica – posto che l’ambito della scrittura sia la produzione e l’uso di sistemi grafici con fini (anche) comunicativi, non ha senso parlare di forme meno o più evolute in quanto ogni società esprimerà quei tipi di scrittura che le saranno congeniali o ne adotterà di esterni, per effetto di pressioni e spinte acculturativi, e in questo caso li integrerà negli altri suoi sistemi simbolici; ma potrà non esprimerne o non adottarne nessuno, e non per questo cadere nell’anarchia e nel disordine.” Personalmente obietto che se tutto ciò fosse vero, non saprei come spiegare l’affermazione che un giorno sentii fare da un ingegnere cinese: “Voi europei siete fortunati, perché imparate a leggere in un tempo ragionevole; da noi per riuscire a leggere il giornale bisogna arrivare all’università!” Su questo argomento avevo già scritto un articolo nel 199218 in cui affermavo che in realtà la pittografia, la scrittura ideografica, la scrittura consonantica e l’alfabeto si possono porre oggettivamente su una scala, che non sarà di maggiore o minore evoluzione19, ma di maggiore o minore appoggio a quell’altro codice che è la lingua: la pittografia ne prescinde in modo pressoché totale, la scrittura ideografica dovrà seguire per lo meno la sintassi d’una lingua reale (a parte il fatto che tutte le scritture ideografiche fanno largo uso di segni fonici20), la scrittura consonantica indica almeno l’ossatura delle parole, e l’alfabeto, in linea di principio, si fonda su qualcosa di molto simile alla doppia articolazione del linguaggio. In altre parole, con la pittografia si forniscono messaggi immediati e che si possono intendere anche senza conoscere la lingua di chi li ha scritti (e questo fa sì che la si possa utilizzare per le segnalazioni stradali, o in molti altri ambiti della nostra vita, come per esempio le etichette di manutenzione sui vestiti; ma questo è un settore in progresso, si veda quanto si sono sviluppati nel computer i caratteri Wingdings); gli ideogrammi possono servire anche a noi per alcuni concetti semplici (come osservava lo stesso Cardona, TV rispetto a televisione è praticamente un ideogramma) o anche per gli SMS; la scrittura consonantica, oltre ad essere stata inventata dai Fenici, è stata impiegata più di recente nella stenografia (ma in entrambi i casi, per leggere un testo bisogna sapere quello che c’è scritto; ed infatti le antiche iscrizioni fenicie non si capiscono mai a fondo, e d’altra parte l’attuale scrittura araba e quella ebraica, che pur derivano da quella fenicia, non sono puramente consonantiche); con l’alfabeto si indicano i fonemi di una lingua reale (anche se non conosco nessuna scrittura ufficiale che riproduca perfettamente tutti i fonemi d’una lingua), e con la 18 G. CIFOLETTI, Sulla “gerarchia” dei sistemi di scrittura, “Incontri Linguistici” 15 (1992), pp. 131-134. Va però ribadito che storicamente è vero che l’alfabeto è stato una conquista, arrivata dopo molti tentativi: ed anzi, come giustamente osservato nel volume di Abderrazzak BANNOUR L’écriture en Méditerranée (Édisud, Aix-en-Provence 2004), di solito i progressi si facevano quando era un nuovo popolo ad adattare la scrittura alla sua lingua. 20 Un po’ come in inglese oggi si può scrivere 2 per to, U per you, 4 per for, ecc. 19 67 divisione delle parole non si dividono certamente tutte le unità minime di significato, ma si introduce ugualmente un’articolazione utile per esprimere una qualunque idea. Perciò la scrittura alfabetica non ricalca pedissequamente la doppia articolazione del linguaggio, ma in qualche modo la imita; e dunque, appoggiandosi fortemente ad una lingua, riesce ad assumerne quasi tutte le capacità semiologiche21. Dunque la scrittura non serve a registrare una lingua, come pare supporre Bloomfield, ma serve a formare dei messaggi appoggiandosi su una lingua: i segni pittografici, che non si appoggiano su nessuna lingua, nel linguaggio corrente non ricevono il nome di scrittura. Detto così, pare dunque che la scrittura sia un sistema autonomo, che si appoggia sulla lingua, ma procede con mezzi propri e per strade autonome: e ciò sarà anche in parte vero, ma l’esperienza ci mostra che nella vita reale una lingua e la sua scrittura sono inestricabilmente intrecciate. Spesso è stato notato il grande influsso della scrittura sulla lingua, ed il più delle volte per deplorarlo: ma noi Italiani dovremmo invece pensare che proprio grazie alla scrittura abbiamo avuto una lingua nazionale, ed infatti non a caso nel Cinquecento si impose il modello di lingua propugnato da Pietro Bembo, che imitava gli scrittori fiorentini del Trecento: l’imitazione di un vernacolo sarebbe stata troppo difficile, in un tempo che non disponeva dei mezzi di comunicazione di oggi. Si dice che una conseguenza di questa storia sia il fatto che, nella lingua italiana, le caratteristiche non segnate nella scrittura, come la differenza tra e ed o aperte o chiuse, non sono state trasmesse correttamente, ed oggi in questo campo c’è una grande confusione; si sono introdotte delle distinzioni che nel fiorentino non esistevano, come la differenza tra le z semplici e geminate (ad es. tra spazi plur. di spazio e spazzi da spazzare); ma almeno disponiamo di una lingua comprensibile dalle Alpi al Lilibeo, nonostante la grande diversità che pur esiste nei dialetti. Però bisogna notare che la stessa situazione si ritrova un po’ dappertutto, a volte in lingue che non sono state sostenute da uno Stato unitario, ma anche in Paesi che possiedono una tradizione plurisecolare di unità, ed hanno sempre avuto un modello unico di lingua anche nel parlato: in arabo, dove normalmente non si scrivono le vocali brevi né la geminazione delle consonanti, alcune parole si leggono in modo diverso da un Paese all’altro22; ma anche per l’inglese sappiamo che convivono diverse pronunce tra le due sponde dell’Atlantico, ed entrambe praticamente accettate23; sulle diverse pronunce che ha il francese, e che sono coperte dalla grafia ufficiale, fece degli studi magistrali già il Martinet24; situazioni del genere rendono difficile qualsiasi riforma ortografica, perché si finirebbe sempre col metter “fuorilegge” delle pronunce fin qui tollerate. Lo stesso Saussure si faceva beffe di quanti sostenevano che un uomo politico avesse “salvato la lingua francese” perché in realtà ne aveva salvato l’ortografia25; abbiamo tutta 21 Nella scala precedente non ho contato la scrittura sillabica perché da questo punto di vista non si tratta di un insieme omogeneo: in questa categoria, da un lato c’è la lineare B del miceneo che riproduce questa lingua in modo molto imperfetto e lacunoso, ed all’estremo opposto abbiamo la devanagari del sanscrito, che è estremamente accurata. 22 Per esempio la feluca, piccola imbarcazione tipica, si dice in Egitto filûka e in Sudan fallûka; il vassoio al Cairo si può dire s¢iniyya ma anche s¢aniyya, la Palestina si dice filist¢în, filast¢în o falast¢în. 23 Per esempio la parola clerk è pronunciata [klA:k] in Inghilterra, [kl´:k] negli Stati Uniti. 24 Si veda soprattutto André MARTINET, La prononciation du français contemporain (sottotitolo: Témoignages recueillis en 1941 dans un camp d’officiers prisonniers), 2a ed., Genève 1971. 25 Cours, p. 46: “Gaston Deschamps ne disait-il pas de Berthelot qu’il avait préservé le français de la ruine 68 una tradizione linguistica che ci predica queste cose, e che di conseguenza svaluta la scrittura. Ma siamo sicuri che questi padri della nostra scienza abbiano sempre ragione? E se l’avessero, perché mai, nei processi di standardizzazione a cui abbiamo assistito nel corso del XX secolo, ci si è sempre preoccupati per prima cosa di mettere per iscritto la lingua che si voleva valorizzare? E che cosa è mai questa standardizzazione che si attua mettendo per iscritto quella che fino ad allora è stata una lingua orale? Giorgio Raimondo Cardona ha provato a porsi questa domanda, in un intervento breve ma denso di osservazioni26. Riassumendo, egli sosteneva che il percorso dell’oralità non è simmetrico a quello della scrittura: “basta, per rendersene conto, leggere ad alta voce un testo scritto, che tale rimane, o trascrivere dal nastro un testo orale, che – anch’esso – tale rimane. Eppure la situazione [nostra, di una società che conosce la scrittura da millenni] comporta già necessariamente un lungo allineamento reciproco dell’oralità sulla scrittura: […] potremmo dire oggi che quando parliamo sappiamo usare al meglio la modalità orale? Certo che no, se solo ci confrontiamo con una vera situazione I [di oralità senza scrittura], laddove ancora ci sia dato vederne; le capacità di esecuzione di un maestro della parola in una situazione del tutto orale non possono che lasciarci sconcertati; si pensi alle performances dei poeti somali o maliani o dei guaritori cuna, che sono in grado di padroneggiare migliaia di versi, per un lasso di varie ore di esecuzione, con il solo aiuto della memoria e della competenza tecnica”. In una situazione di pura oralità, la lingua “presenta numerosi livelli di discorso, quotidiano-colloquiale, metaforico-solenne, magico-operativo. […] La lingua non scritta può essere formalizzatissima, a n livelli, può essere al suo interno poetica, oratoria; può contenere arcaismi, può essere ricordata verbatim, può insomma avere tutte le caratteristiche che si attribuiscono alla sola lingua scritta”. Sempre il Cardona pare opporsi all’idea che la paratassi sia più adatta al discorso orale, e l’ipotassi a quello scritto: questa è una situazione frequente nelle lingue dell’Europa, ma altrove (a quanto mi risulta) sembra che siano le lingue con ordine SOV (soggetto-oggetto-verbo) ad avere una certa tendenza all’ipotassi. Egli nota poi come, quando si fissa una lingua per iscritto, le caratteristiche non tramandate dalla scrittura tendano a perdere di valore, in qualche caso fino alla sparizione: è noto che il somalo distingueva due diversi toni nella sillaba accentata, che però non vengono distinti nella grafia ufficiale, e perciò le giovani generazioni tendono a dimenticarli: mi è stato detto ad esempio che la parola walaal con un certo tono significhi “fratello”, con l’altro “sorella”, ma le generazioni più giovani oramai li distinguono solo mediante l’articolo: walaalka “il fratello”, walaasha “la sorella”. Il somalo scritto non fa neppure uso di ideofoni, che pure (almeno in teoria) sarebbe possibile scrivere: lo stesso Cardona ne cita due esempi, bise diigaa isa soo daayay, shalalalalalax “ma il sangue (diig-ga baa) schizzò fuori, splasc!”, oppure markaasuu cagaa wax ka deyay, babbabbabbabba “allora lui scappò via veloce, fiuuuum!”27. Il fatto è, come nota giustamente lo stesso Cardona, che l’ideofono “in genere usa anche il tono, la qualità della voce (falsetto, basso ecc.), fonemi specifici e parce qu’il s’était opposé à le réforme orthographique?” 26 G.R. CARDONA, dall’oralità alla scrittura: la formazione delle lingue standard, in A. MORESCHINI QUATTORDIO, La formazione delle lingue letterarie, “Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia”, Siena 16-18 aprile 1984, pp. 71-80. 27 Per leggere queste righe in somalo si fanno le seguenti precisazioni: le vocali ripetute sono lunghe, la lettera c indica la fricativa faringale sonora, la x la fricativa faringale sorda. 69 perfino correlati mimico-facciali o gestuali, ma soprattutto è la voce interiore di chi scrive che è monocorde”. Dalla mia personale esperienza, in Somalia ma soprattutto coi Begia, posso aggiungere questo: un conto è la situazione di una lingua orale quali sono i nostri dialetti, che possono non avere una solida tradizione scritta, ma certamente convivono da millenni con una lingua “ufficiale” che monopolizza i livelli più “alti” (e che prima è stata il latino, da un certo momento in poi l’italiano), un conto è invece la situazione di una lingua orale che non abbia questo “tetto”, e che quindi debba essere usata anche ai livelli “alti”, in un contesto quindi in cui l’analfabetismo sia pressoché generale, ma si senta ugualmente l’esigenza di trasmettere la cultura tradizionale. Quando ci si trova in queste condizioni, la memoria può prendere uno sviluppo insospettato: tra i Somali si racconta di “recitatori” che dopo aver ascoltato una sola volta una poesia lunga anche un centinaio di versi, erano capaci di ripeterla. Ma un’altra particolarità che ho notato è che la stessa grammaticalità delle lingue ne risente: quando una lingua non si impara a scuola, generalmente ammette al suo interno delle fluttuazioni sorprendenti. Un effetto lo si può scorgere nelle grammatiche (scritte da Europei) di molte lingue africane (o di lingue”esotiche” in generale): con i principi esposti nella grammatica, si riesce a formare ed a spiegare brevi testi, frasi staccate; ma quando si affrontano dei lunghi racconti, si vede che spesso tutte queste regole vanno in confusione; e così si arriva al paradosso che le regole grammaticali esposte da un linguista si contraddicono confrontandole coi testi che lo stesso linguista (onestamente) riporta. Concordo quindi perfettamente con l’ipotesi avanzata dallo stesso Cardona: “che il passaggio alla lingua scritta preveda necessariamente non una pidginizzazione ma una riduzione ad un sistema grammaticale ‘vero’, cioè del tipo che noi siamo abituati ad attribuire alle lingue; le quali invece, nella loro forma orale e naturale hanno un tipo di grammaticalità ben diversa, certo assai lontana da quella che noi possiamo oggi ravvisare in lingue standardizzate.” Ed ancora: “Vediamo dunque ancora una volta come il passaggio alla forma scritta, riducendo le convenzioni discorsive, renda inutili e quindi atrofizzi parti importanti della competenza comunicativa e della stessa capacità ideativi. È evidente che la lingua scritta nella lunga distanza creerà delle nuove strategia, e diventerà uno strumento conoscitivo insostituibile”: ed infatti egli stesso aveva in precedenza indicato alcuni tipi di testo (la lettera, il contratto) che si possono concepire soltanto con la scrittura; non solo, ma aveva citato un testo dal De bello civili di Cesare (I,21) di una complessità tale da ritenere che difficilmente lo si potrebbe immaginare nell’oralità. Dunque fissando una lingua con la scrittura, non ci si limita a registrare qualcosa che già esiste (come forse pensava Bloomfield), ma si interviene sulla lingua stessa, facendole assumere nuove potenzialità e dimenticandone altre; e però questo non è tutto, perché va aggiunto che la lingua ha sempre (almeno allo stato latente) delle valenze identitarie, che di solito finiscono con l’essere esaltate da un’operazione del genere. Anche in questo caso, non c’è nulla di obbligatorio: un’identità nazionale può benissimo sussistere nonostante la diversità linguistica, ad esempio sappiamo che gli Svizzeri non dispongono di una lingua comune (esiste lo schwyzertüütsch o svizzero-tedesco, ma in realtà si tratta di dialetti diversi, spesso poco comprensibili fra loro, e che comunque non s’imparano a scuola, perché chi nasce nella Svizzera francese o italiana normalmente studia il tedesco standard, non un dialetto svizzero) eppure si sentono uniti; al contrario una diversità etnica può mantenersi nonostante l’identità di lingua (ad esempio sappiamo 70 che gli Irlandesi non vogliono a nessun patto essere confusi con gli Inglesi). Ciononostante, nella maggioranza dei casi la nascita di una lingua è legata alla nascita di un popolo e viceversa. In molti casi nel corso del XX secolo si sono standardizzate delle nuove lingue, per popoli dell’Africa che avevano acquistato l’indipendenza: così è avvenuto per il somalo, dove si è preso come standard il dialetto delle tribù di pastori (perché questi ultimi avevano una tradizione di poesia e di eloquenza, che le tribù di agricoltori non possedevano). Anche in altri casi, i linguisti hanno fissato nelle loro grammatiche (e quindi standardizzato) dei dialetti che avevano già un prestigio, e che potevano di conseguenza essere accettati da tutto il popolo; ma anche qui non mancano dei controesempi, perché sappiamo che in alcuni casi dei missionari nel XIX secolo fissarono per iscritto il primo dialetto di cui avevano preso conoscenza, ed unicamente grazie al prestigio della scrittura e dei libri a stampa questo divenne poi la norma (ma a quel tempo non si andava per il sottile!). Anche in un passato più lontano vi furono delle standardizzazioni, non ad opera di linguisti: e questo fatto è interessante, perché ci consente di dire che anche le principali lingue letterarie hanno una data di nascita. Ad esempio, per quanto riguarda l’italiano, non è vero che esso sia derivato a poco a poco dal latino, con sviluppi talmente lenti e graduali che non si riesce, neppure con l’approssimazione del secolo, a fissare quando il latino abbia smesso di esistere e quando sia nato l’italiano28; se si guarda attentamente la storia, essa ci appare alquanto diversa. Dal latino non derivò l’italiano, ma una miriade di dialetti, talmente differenziati che è stato affermato a buon diritto che in nessun altro Paese d’Europa esiste una simile varietà dialettale: eccetto il toscano e pochi altri dialetti vicini, la maggior parte è più distante dalla lingua letteraria di quanto non sia lo spagnolo, e questa situazione probabilmente è antica di molti secoli, forse addirittura di un millennio. Se si fossero applicati all’Italia i criteri utilizzati nel XX secolo per standardizzare le lingue dell’Africa, sarebbe stato possibile distinguere almeno una dozzina di lingue: ma sappiamo che non andò così. Per nostra fortuna ci è pervenuto il trattato di Dante Alighieri De vulgari eloquentia, composto (sembra) fra il 1304 e il 1307: dalla sua lettura noi possiamo capire che gli Italiani di quel tempo, pur essendo divisi politicamente, pur essendo separati da dialetti che già allora dovevano avere una scarsa comprensione reciproca, avevano coscienza di essere un unico popolo ed aspiravano ad avere un’unica lingua. Pochi anni dopo, quando lo stesso Dante ebbe composto la Divina Commedia, gli Italiani non ebbero più dubbi sul modello di lingua comune a cui rifarsi: anche se riconosco che vi furono più cause concomitanti, come l’alto prestigio di Firenze, ed il fatto che il toscano fosse un dialetto piuttosto conservativo, quindi vicino al latino che aveva già il massimo prestigio. Analogamente, sappiamo che il tedesco moderno nacque con la Bibbia di Lutero; anche qui la nascita della lingua coincise con un risveglio nazionale. In alcune circostanze della 28 All’inizio di un’opera di grande diffusione e che suscitò grande scalpore (Roots of Language, Ann Arbor 1981), il creolista Derek BICKERTON sosteneva che solo i creoli hanno una data di nascita, a differenza delle lingue “normali”: “Modern Italian, for example, would be found to fade back into a maze of dialects derivating from Latin, which developed out of Indo-European, which sprang, presumably, from some antecedent language now wholly inaccessible to us; and at no point in the continuous transmission of language could we name a date and say, ‘Here Latin ended,’ or ‘Here Italian began’. But there is one class of languages for which we can point, with reasonable accuracy, to the year of birth: we can say that before 1530, there was no São Tomense; before 1650, no Sranan; before 1690, no Haitian Creole; and before 1880, no Hawaiian Creole. And yet two or three decades after those dates, those languages existed.” 71 storia si è visto che un popolo ha preso coscienza di essere tale, e si è messo alla ricerca di una lingua: negli anni Novanta del XX secolo lo abbiamo visto per i Croati, che appena raggiunta l’indipendenza hanno voluto crearsi una propria lingua, differenziandosi dai Serbi. Personalmente ho sentito molti colleghi esprimersi con scetticismo o riprovazione nei confronti di questa loro scelta: certamente si è trattato di una decisione politica, nel merito della quale non voglio entrare; mi interessa soltanto far notare che fatti del genere si sono verificati più volte nella storia. Anche il latino, come noi lo conosciamo, ebbe una standardizzazione all’epoca di Cicerone, in buona parte ad opera di Cicerone stesso: se guardiamo le iscrizioni anteriori a quest’epoca troviamo una sconcertante oscillazione tra diverse forme, come se esistessero vari modi paralleli di esprimersi in latino (troviamo ad esempio nominativi plurali della seconda declinazione in –e anziché –i, nominativi plurali della prima in –as, frequenti scambi i-u tipo nominus per nominis, come pure le varianti dedrot e dedro per dederunt): invece dai documenti successivi a quest’epoca si capisce che ormai esisteva uno standard, coincidente col latino che poi per millenni fu insegnato a scuola29. Quanto al greco, sappiamo che la prima standardizzazione fu costituita dalla lingua di Omero; successivamente si impose l’attico, a causa del grande successo della letteratura ateniese del V secolo30. Credo che in questo modo si cominci a capire come mai all’inizio della storia di molte lingue ci sia un grande poema: quando c’è un popolo alla ricerca d’una propria lingua, facilmente qualcuno compone un’opera di grande impegno, che venga assunta come simbolo dell’unità nazionale e funga da coagulante ed insieme da esempio prestigioso per tutti i parlanti e per quanti si possano identificare etnicamente. Conosco però un controesempio, una standardizzazione che, a quanto mi dicono, fu imposta dall’alto, senza che il popolo la richiedesse, e che ciononostante è riuscita: nel 1945, per negare che in Yugoslavia esistesse una minoranza bulgara, inventarono la lingua macedone. Il bulgaro è ben differente dal serbo, pur appartenendo alla stessa famiglia linguistica: possiede un articolo posposto (mentre il serbo non ha articoli), ed ha perso le declinazioni: i dirigenti yugoslavi inventarono questa nuova nazionalità, standardizzando quelli che fino ad allora erano considerati dialetti bulgari occidentali, ed imposero questa lingua a scuola, con la conseguenza che oggi i Macedoni si considerano un popolo a parte. Si può però aggiungere che questa manovra politica (forse inconsapevolmente) seguiva lo spirito del tempo, perché il XX secolo ha visto in Europa l’emergere di piccole etnie, piccole nazionalità che fino ad allora non si percepivano come tali: esemplare è il caso di Malta. Fino all’Ottocento quest’isola era considerata parte integrante dell’Italia, anche se i suoi abitanti parlavano uno strano dialetto che certamente non era italiano (si tratta infatti di un dialetto arabo); ma a quel tempo non si concepivano le piccole nazionalità, si capiva che non era possibile costruire una cultura su misura per una nazione tanto piccola, e d’altra parte i Maltesi, essendo cattolici, non si potevano identificare nella cultura araba; dunque la cultura di cui si sentivano partecipi era quella italiana. Gli Inglesi si impossessarono di Malta al tempo 29 Come tutte le regole, anche quelle della lingua latina furono spesso trasgredite dagli stessi parlanti; ma un conto è non seguire una norma pur sapendo che c’è, ed un altro conto è non conoscere nessuna regola. 30 Un’interessante testimonianza del prestigio che andava assumendo il dialetto di Atene ci è trasmessa da Plutarco, Vite parallele, Nicia, 29: diversi Ateniesi, finiti schiavi dei Siracusani dopo il disastro della spedizione in Sicilia, riacquistarono la libertà perché sapevano recitare i versi di Euripide, per il quale a Siracusa tutti andavano pazzi. 72 delle guerre napoleoniche, nel 1800, e ben presto trovarono che l’italianità dell’isola era di ostacolo al loro governo: ma per tutto il XIX secolo non presero serie misure contro l’uso della lingua italiana, fino agli anni ’30 del XX secolo quando, col pretesto delle mire espansionistiche del fascismo, imposero come lingue ufficiali il maltese e l’inglese, incontrando però delle forti resistenze nella popolazione. Ma dopo la seconda guerra mondiale queste opposizioni cessarono del tutto, ed oggi la nazionalità maltese è un fatto pacifico e incontestato31. In conclusione, penso si possa dire che la standardizzazione interviene di solito (non sempre, come abbiamo visto) quando un popolo si percepisce come tale, quando cioè gli uomini che ne fanno parte provano un senso di appartenenza, e vogliono cementarlo con una lingua comune che li distingua da tutti gli altri (mi dicono che in questi anni si sta cercando di fare qualcosa di simile in Marocco, con un processo di standardizzazione dell’arabo marocchino, la cui distanza dall’arabo classico è ormai al punto di rottura). In tutto questo interviene di solito anche la scrittura, essenziale per conferire dignità alla nuova lingua: non solo, ma con l’introduzione della scrittura (magari supportata da un insegnamento scolastico) la lingua acquista una regolarità ed una grammaticalità prima sconosciute: in altre parole, diventa una lingua “vera”, corrispondente cioè all’idea di lingua che noi abbiamo normalmente (ed in questo senso posso dar ragione alla vox populi di cui sopra). D’altra parte è giusto riaffermare che per il linguista, da un certo punto di vista, non esiste nessuna differenza tra lingua e dialetto, e neppure tra lingua orale e scritta: ad esempio, nell’ambito di ricerche sugli universali del linguaggio, è altrettanto legittimo prendere esempi ed argomenti dal più appartato dei dialetti come dalla maggiore delle lingue di comunicazione; ma è pure giusto prender coscienza del fatto che lingue orali e lingue scritte non vivono la stessa vita, spesso non funzionano allo stesso modo, e possono avere anche delle differenze grammaticali oltre che sociali. PIDGINS E CREOLI Cominciamo con qualche esempio di pidgin: partirò da quello che per me (e forse per i lettori italiani) è il più facile, la lingua franca barbaresca. Pochi sanno che nei cosiddetti Stati Barbareschi (cioè nelle reggenze di Algeri, Tunisi, Tripoli, dal XVI secolo al 1830) si usava un pidgin a base italiana: non era certo la lingua indigena, ma in pratica lo conoscevano tutti, almeno nelle città. All’inizio del XVI secolo la monarchia spagnola aveva cercato di impadronirsi di quelle regioni, stabilendo dei presidi a Orano, Bugia (Bijâya), Tripoli, conquistando Mahdia e (per qualche tempo) anche Jerba, ed esercitando una specie di protettorato sui traballanti emirati di Tlemcen e Tunisi. Ma la reazione islamica cominciò ben presto, con il dominio di avventurieri turchi (pirati) prima ad Algeri (dal 1516), poi a Tripoli (dal 1551), infine a Tunisi (conquistata nel 1574). Queste tre città divennero dei covi di pirati, che riconoscevano però l’autorità dal sultano di 31 Se finora ho insistito sul fatto che la standardizzazione di una lingua e l’introduzione di una scrittura generalmente possono servire a potenziare un’identità nazionale, devo però precisare che non se ne può in alcun modo dedurre che allora le lingue puramente orali e non standardizzate abbiano ipso facto una minore valenza identitaria: il problema è più complesso e andrebbe approfondito, anzi valutato caso per caso. 73 Costantinopoli; altri pirati musulmani (ma indipendenti) dominavano anche a Rabat, ovvero Salè. In queste città si usava l’arabo (soprattutto arabo dialettale) come lingua più diffusa; il turco era usato dalla classe dominante; ma siccome risiedevano là anche molti Europei, sia liberi sia schiavi (perché chi era catturato dai pirati veniva trattenuto come schiavo), con loro si usava la lingua franca. Il principale documento che ne possediamo è un piccolo manuale, stampato a Marsiglia nel 1830 per i soldati francesi che andavano a conquistare Algeri: riporto qui alcune pagine di dialoghi, che sono in francese e tradotti in lingua franca, scritta con grafia francesizzante. . N° 7 De l'Heure et du Temps. Quelle heure est-il? qué ora star? Quelle heure croyez-vous qu'il soit? qué ora ti pensar star? Je pense qu'il n'est pas trois heures. mi pensar non star tré ora. Il est bientôt quatre heures. poco poco star qouatr'ora. Il n'est pas tard. non star tardi. Voyez quelle heure il est à votre mirar qué ora star al orlogio di ti. montre. Elle ne va pas bien. non andar bonou. Elle avance, elle retarde. andar avanti, andar indiétro Quel temps fait-il? Comé star il tempo? Il fait beau temps. il tempo starbello. Il fait mauvais temps. il tempo star cativo. Il fait chaud. fazir caldo. Il fait froid. fazir frédo. Il fait du vent. fazir vento. Il pleut. cascar agoua. Il fait une chaleur étouffante. fazir caldo mouchou. N°8 Pour demander ce qu’il y a de nouveau Que dit-on de nouveau? qué nouova? Je n'ai rien entendu. mi non sentito nada. Que dit-on dans la ville? qué hablar in chità? On dit que nous avons la guerre. genti hablar tenir gouerra. La guerre, avec quelle nation? Gouerra, con qué natzion? Avec les Français. con Francis. Que peuvent faire les Français qué poudir counchar il Françis contre Alger? contra di Algieri? Par mer rien, mais par terre ils sont per maré nada, ma per terra il Francis star redoutables. mouchou forti. Si les Français débarquent Alger sé il Francis sbarkar, Algiéri star perso. est perdu. star perso. Je pense que les Algériens ne mi pensar l'Algérino non se batront pas. combatir. Le Pacha sera donc obligé de dounqué bisogno il Bacha demander la paix. quérir paché. Oui, s'il ne veut périr. si, sé non quérir morir. S'il veut la paix les Turcs feront sé quérir paché l'Yoldach fazir tapage. gribouila. Pour quoi ne fait-on pas la paix? perqué non counchar paché Parce que le Pacha est entêté. perqué il Bacha tenir fantétzia. 74 Con la conquista di Algeri da parte dei Francesi nel 1830, questa lingua perse la sua ragion d’essere: alcuni continuarono a parlare questa lingua (che i coloni francesi ribattezzarono sabir) ancora per una cinquantina d’anni, e poi si spense del tutto32. Vediamo ora il Pidgin English della Cina, usato in quel Paese per i contatti tra popolazioni locali ed Europei, soprattutto nella seconda metà del XIX secolo, ed ancora nel XX secolo fino alla seconda guerra mondiale. Il testo qui riportato è tratto dal volume di Robert A. Hall, jr, Pidgin and Creole Languages, Cornell University Press, Ithaca and London 1966, pp. 152-3 (fu il primo manuale di creolistica). Si tratta di un dialogo tra una dama europea ed un sarto. MISTRESS: tél´r, máj hæv kæci w´npisi plέnti hæns´m sílka. máj wOnci jú méki w´n nájs ivniŋdrέs. “Tailor, I have a very fine [piece of] silk. I want you to make a nice evening dress.” TAILOR: mísi hæv gát buk? “Has missy a [fashion] book?” MISTRESS: máj no hæv kæci buk. pémi sí jú buk. “I haven’t brought a book. Let me see your book.” TAILOR: máj buk blOŋ tú ól´. ”My book is too old.” MISTRESS: máski, jú pémi lúk-sí. “Never mind, let me see it”. TAILOR: máj sævi mísi no wOnci ðisfæš´n. s´pós mísi kæn kæci buk, máj kæn méki. s´pós mísi nó kæn kæci buk, máj nó kæn dú. mísi kæn k´m tumOlo? “I know missy doesn’t want this kind [of dress]. If missy can get a book, I can make it. If missy can’t get a book, I can’t. Can missy come tomorrow?” MISTRESS: tumOlo máj nó kæn k´m. máj lívi sílka ðíssaid, s´pós máj k´m tumOr´ nέks dé. “Tomorrow I can’t come. I’ll leave the silk the silk here, and possibly I’ll come day after tomorrow.” TAILOR: Orajt, mísi, tumOr´ nέks dé kæn dú. máj méki vέri pOpa fO jú. ”Very well, missy, day after tomorrow is all right. I’ll make it just right for you.” MISTRESS: jú méki w´npis ivniŋ-drέs fOr máj, háwm´c jú wOnci? “If you make an evening-dress for me, how much do you want?” TAILOR: spós blOŋ dænsiŋ-drέs, máj wOnci twέlv dOl´r. “If it is a dancing-dress, I want twelve dollars”. Si noterà una particolarità: siccome in cinese non è possibile collegare immediatamente i numerali col nome, ma è necessario aggiungere dei numerativi (una specie di classificatori), anche nel Pidgin English esistevano due numerativi: i nomi di persona andavano preceduti da fellow, ed i nomi di cosa da piece, almeno nel pidgin ottocentesco: col XX secolo prevalse piece. Passiamo ora al Tok Pisin. Nella seconda metà del XIX secolo, nelle piantagioni del Queensland (Australia) assoldarono dei lavoratori dalla Nuova Guinea e dalle isole melanesiane ed anche polinesiane; come lingua di scambio si dev’essere usato una specie di Pidgin English cinese, visto che i numerali sono sempre accompagnati da fellow. Più tardi questi lavoratori, una volta tornati nei loro Paesi, ebbero la possibilità di comunicare tutti fra di loro con questa nuova lingua che avevano imparato: la Nuova Guinea è uno dei Paesi al mondo dove si trova la maggiore varietà di lingue in uno spazio relativamente ristretto, e fino ad allora non esisteva nessun mezzo di comunicazione fra le tribù: con la diffusione di questo pidgin finalmente le tribù poterono comunicare: è stato notato che la 32 Si veda il volume di G. CIFOLETTI, La lingua franca barbaresca2, Roma 2011. 75 diffusione del Tok Pisin procedette di pari passo con la cristianizzazione33, e ciò non è casuale, perché con la nuova mentalità indotta dalla nuova religione questi uomini non si concepirono più soltanto come appartenenti a piccole tribù in guerra fra loro, ma si fece strada l’idea che tutti potevano costituire un popolo, un nuovo popolo (situazioni simili si verificarono nelle Isole Salomone, dove si usa ora praticamente lo stesso pidgin, ma scritto in modo più vicino all’inglese, ed a Vanuatu, dove il pidgin si chiama Bislama, dal vecchio nome di Beach-La-Mar). In Nuova Guinea questa lingua ha assunto i connotati di lingua nazionale, e coscientemente si è cercato di allontanarla dall’inglese: oggi è lingua ufficiale della repubblica di Papua-Nuova Guinea. Per quanto riguarda la descrizione di questa lingua, premetto che (purtroppo) chi scrive non ne ha alcuna esperienza diretta, e perciò potrebbero esserci delle inesattezze. Comunque, secondo la descrizione che ne fornisce Robert A. Hall (soprattutto nel volume Les langues dans le monde ancien et moderne, Afrique Subsaharienne, Pidgin set créoles, Ed. du CNRS, Paris 1981, pp. 649656), in questa lingua la pronuncia è fluttuante, perché nel sistema più semplice, ovvero basiletto (nei pidgins e creoli il livello più rozzo, che spesso coincide col più distante dalla lingua che ha fatto da modello, si chiama basiletto: il livello più vicino alla lingua di prestigio si chiama acroletto) si hanno solo 5 vocali, i e a o u, ma altri parlanti hanno un sistema più vicino all’inglese, con vocali tese e rilassate, e ed o aperte o chiuse, una vocale /æ/ ed una /´/. Analogamente per le consonanti, alcuni parlanti distinguono tra /p/ ed /f/, mentre altri pronunciano solo /p/; alcuni pronunciano /v/, che per altri si confonde con /b/; la /s/ in alcuni parlanti tiene il luogo di tutte le sibilanti ed affricate dell’inglese, mentre altri distinguono una /S/, una /w/, una /t/. Inoltre alcuni tendono a pronunciare, al posto delle occlusive sonore /b/ /d/ /g/, delle prenasalizzate /mb/, /nd/, /ŋg/; i gruppi consonantici fanno difficoltà ad alcuni parlanti. Perciò dal verbo ingl. to change si hanno delle varianti che vanno da [wεntIm] a [senisim] (il suff. –im indica che è un verbo transitivo). L’accento va di regola sulla prima sillaba. Il verbo si declina premettendo i pronomi personali, che sono: mi “io”, yu “tu”, em “egli, ella”, yumi “noi inclusivo”, ovvero “tu ed io”, mipela “noi esclusivo”, cioè “io ed altre persone escluso l’ascoltatore”, yupela “voi”, ol, em ol “essi”; i pronomi mipela, yupela hanno le varianti mifela, yufela, perché il suff. –fela deriva dal numerativo fellow che si usava nel Pidgin English cinese. Lo stesso suffisso si attacca a molti aggettivi e pronomi, nonché ai numerali, come dispela “questo”, sampela “qualche”, tripela “tre”, gudpela “buono”, naispela “bello”, bikpela “grande”; esistono però aggettivi (non monosillabici) che non lo prendono, come liklik “piccolo”; invece si ha il contrasto fra plenti “molto” e plentifela “molti”. L’ordine normale è Aggettivo-Nome, come in naispela meri “bella donna”, liklik buk “piccolo libro”; ma ci sono molte eccezioni, come botol bruk “bottiglia rotta”, tok giaman “discorso falso”, tok tru “discorso vero”, ples nogut “luogo brutto”, ecc. I termini di parentela sono i seguenti: papa “padre”, mama “madre”, tumbuna “nonno, nipote”, kandare “zio e zia materni”, smolpapa “zio paterno”, smolmama “zia materna”, brata “fratello (o sorella) dello stesso sesso”, sisa “fratello (o sorella) di sesso opposto”. Il suff. –im si attacca al verbo transitivo: mi ridim buk “io leggo un libro”, mi rid “io leggo”, mi ridim “io lo leggo”. Però il verbo kaikai “mangiare” prende –im solo quando è usato col 33 Cfr. Timo LOTHMANN, God i tok long yumi long Tok Pisin. Eine Betrachtung der Bibelübersetzung in Tok Pisin vor dem Hintergrund der sprachlichen Identität eines Papuia-Neuguinea zwischen Tradition und Moderne, Peter Lang, Frankfurt 2006. 76 significato di “mordere”, altrimenti ne fa a meno: famosa la frase (riportata da Hall nel suo volume Pidgin and Creole Languages) ol i save kaikai man “essi mangiano uomini (sono cannibali)” (fino al XX secolo il cannibalismo è stato diffuso in Nuova Guinea). Questo suffisso, attaccato a varie parole, le trasforma in verbi transitivi: raus “fuori”, rausim “espellere”, orait “bene”, oraitim “riparare” (ma va aggiunto che raus e orait possono significare anche “star fuori” e “star bene”: non esiste una chiara distinzione tra aggettivo e avverbio da una parte, verbo stativo dall’altra). Il verbo alla terza persona è preceduto da i. Sono molto usati i verbi seriali, per esempio il verbo pinis o finis “finire”: painim “cercare”, painim pinis “trovare”; boilim “bollire”, boilim pinis “sterilizzare”; bagarapim “danneggiare”, bagarapim pinis “distruggere”; promis “promettere”, promis pinis “mantenere la promessa”; rere “preparare”, rere pinis “essere pronto”; inoltre pinis aggiunto al verbo può indicare un’azione anteriore, come in tevel meri harim pinis “lo spirito donna aveva ascoltato”. Si noti la differenza di tempi e aspetti verbali tra em i go maket “egli va al mercato”, em i wok long go long maket “sta andando al mercato”, em i go long maket pinis “è appena andato (o andata) al mercato”, em i bin go long maket “è andato al mercato”, em bai go long maket “andrà al mercato”. Il verbo save “sapere” può indicare l’azione abituale (come nella frase citata prima ol i save kaikai man); il prefisso bai indica il futuro. Sono molto usati i composti: kamman “nuovo arrivato”, blakboi “lavoratore indigeno”, blakman “indigeno”, waitman “Occidentale (anche quando si tratta di un negro)”, bikples “terraferma, continente”, biknem “fama”. Le preposizioni sono essenzialmente due, bilong “di” e long “a” (ma il significato è molto più ampio: si dice per es. long solwara “sul mare”, go long bush “andare nel deserto”. Breve racconto: long taim bifo, ol wonem, wanpela ailan, draipela pik i save stap ia na em i save kaikai ol man. Nau, ol kisim kenu, ol stretim ol samting bilong ol, na i go painim nupela ailan. Na wanpela meri, pik, pik ia wonem, bin kaikai man bilong en bifo, na em wonem, i gat bel. “Once upon a time, uh, an island, a huge pig used to live (there) and it used to eat the people. Then, they took canoes, they fixed up all their stuff, and went to look for a new island. And a woman, the pig, uh, had eaten her husband before, and she, uh, was pregnant.”34 Dunque i pidgins sono una tipologia di lingue: da una lingua di prestigio si assume come modello una forma ridotta, perché non si può o non si vuole imitarla in toto. Sono note molte varietà di pidgin: oggi ha una notevole importanza il Wescos (West Coast) usato nel Camerun; a Juba (Sudan meridionale) si usa il cosiddetto arabo di Juba, che è una varietà pidginizzata di arabo sudanese; all’inizio del XX secolo in Norvegia si usava il Russenorsk, per i contatti tra pescatori russi e popolazione locale (ed in questo caso, cosa abbastanza rara, sembra che l’incontro sia avvenuto a metà strada, nel senso che le parole russe e quelle norvegesi sono abbastanza bilanciate in questa lingua, mentre di solito per i pidgin ed i creoli l’apporto lessicale proviene in grande maggioranza da una sola lingua, detta lessificatrice)35; si conoscono anche dei pidgin estremamente variabili da un parlante all’altro, e con capacità espressive ridotte. Una volta si diceva che quando il pidgin si nativizza, diventa cioè la prima lingua di una comunità, diventa creolo: oggi si 34 Cfr. Robert A. HALL, jr, Le Pidgin English mélanésien, nel volume Les langues dans le monde ancient et moderne (sous la direction de J: Perrot), éd. CNRS, Paris 1981, pp. 649-656. 35 Per il russenorsk, la fonte principale è il vecchio articolo di Olaf BROCH, Russenorsk, “Archiv für slavische Philologie” 41 (1927), pp. 209-262. 77 mette in dubbio anche questo, e se ne discuterà. Comunque i creoli sono abbastanza numerosi: famoso è il creolo haitiano a base francese: com’è noto, questo Stato è indipendente dal 1804, e la popolazione è composta quasi interamente da discendenti di schiavi, che formano la comunità creolofona forse più importante; altri creoli francesi si parlano in isole dell’Oceano Indiano come le Seychelles, Mauritius, Réunion; esiste anche un creolo francese (usato soprattutto da negri) della Louisiana e diversi creoli nelle Antille francesi. Nelle Antille olandesi (Curaçao, Aruba, Bonaire) si usa invece il papiamentu, creolo a base ispano-portoghese. Un creolo a base portoghese si usa nelle isole del Capo Verde, ed antichi creoli portoghesi sono segnalati in Malesia, a Macao, a Goa (India); un creolo a base inglese è lo Sranan del Surinam (Guyana ex-olandese), un altro si usa in Giamaica, altri in altre isole delle Antille. È noto anche un creolo a base araba: si tratta del nubi, usato da una tribù formatasi recentemente. Nella seconda metà del XIX secolo l’Egitto aveva conquistato il Sudan, ma il Sudan meridionale era una terra quasi inesplorata, ed in pratica era terreno di caccia per gli schiavisti che razziavano uomini per venderli schiavi in Egitto e nei Paesi dell’impero ottomano. Per le loro razzie, gli schiavisti si servivano di una truppa indigena: erano uomini delle tribù del sud, ma convertiti all’Islàm e che parlavano un pidgin arabo (probabilmente molto simile all’odierno arabo di Juba). Poi vi fu una ribellione nel Sudan settentrionale, i seguaci del Mahdi nel 1887 conquistarono Khartum togliendola al governo egiziano, e così la truppa degli schiavisti restò tagliata fuori dalle comunicazioni con l’Egitto. Allora essi, insieme con le loro famiglie, chiesero asilo nelle colonie inglesi di Uganda e Kenya, e là i loro discendenti continuano a vivere, usando come propria lingua un creolo arabo36. Di tutti questi creoli, fornisco solo un esempio di quello haitiano, da Hall (1966), p. 155: si tratta della favola liõ ak burik, “Il leone e l’asino”. lõ-tã liõ te-pè burik, paske li te-wè burik te-pi-gro nèg pase li. nu ju liõ di: “burik, mõ šè, ãn-ale fè yu ti-promnad.” yo pati, yo rive bò yu dlo. liõ fè yu sèl bõ, li traverse dlo-a. burik ki pa-vle rõt devã liõ šèše fè mẽm bagay ke li. li tõbe nã-dlo, kurã kõmãse trene li, dlo kõmãse ãtre nã-zorey li. li õki wè sa kuri ale wete li, o-lie-burik remèsi-l, li di-l hõ-sa: “mõ-šè, pĩga u jam fè mwẽ kõ-sa ãkò, u wè m-ap-peše pwasõ epi u vin kõtrarie-m.” Traduzione: molto tempo [fa], il leone aveva paura dell’asino, perché l’asino era uomo più grande di lui. Un giorno il leone disse: “asino, mio caro, andiamo a fare una passeggiata”. Essi partirono, essi arrivarono dove c’era una corrente. Il leone fece un salto, e traversò l’acqua. L’asino che non voleva perder la faccia davanti al leone cercò di fare lo stesso. Cadde nell’acqua, la corrente cominciò a trascinarlo, l’acqua cominciò a entrargli nelle orecchie. Il leone che lo vedeva, corse per andare ad aiutarlo, e l’asino anziché ringraziarlo gli disse così: “mio caro, non farmi un’altra volta così, hai visto che stavo pescando e poi sei venuto a impedirmelo.” Il fatto che si trovi una quantità di lingue, distanti fra loro geograficamente e come storia, ma accomunate dal fatto di rappresentare la semplificazione di altre lingue, ha dato luogo a una serie di ipotesi e teorie. La prima in ordine di tempo fu la teoria monogenetica: è tuttora interessante leggere l’appassionato articolo di Keith WHINNOM, The Origin of the European-based Creoles and Pidgins, in “Orbis 14,2 (1965), pp. 509527. Egli partiva affermando, a proposito del creolo haitiano, che non è vero che sia nato “de l’effort réciproque des colons et des esclaves africains pour entrer en rapport les uns 36 Cfr. Berndt HEINE, The Nubi Language of Kibera – An Arabic Creole, D. Reimer Verlag, Berlin 1982; Xavier LUFFIN, Un créole arabe: le kinubi de Mombasa, éd. Lincom Europa, München 2005. 78 avec les autres”, perché in realtà i Francesi non sono in grado di capire questa lingua: al contrario, il creolo haitiano è reciprocamente comprensibile (secondo lui) con gli altri creoli francesi, quello della Louisiana, di Martinique, della Guyana francese, di Mauritius e Réunion: dunque secondo lui ci dovrebbe essere un’origine comune. Egli stesso aggiunse di essere arrivato, tramite lo studio di alcuni creoli delle Filippine, ad un risultato sorprendente: questi creoli hanno un lessico quasi totalmente spagnolo, ma le parole grammaticali sono le stesse che si ritrovano nei pidgin e creoli portoghesi, ed hanno origine portoghese (cioè in passato il lessico di questi creoli era derivato dal portoghese); d’altra parte l’origine delle comunità che parlano questi creoli delle Filippine è ben nota: si tratta di gruppi di Cristiani partiti da isole dell’attuale Indonesia nel secolo XVII. Durante la loro espansione coloniale nel XVI secolo, i Portoghesi in un primo tempo si erano serviti d’interpreti, ma ben presto questo compito fu monopolizzato da Cristiani di origine indiana (in India esistevano, già prima dell’arrivo dei Portoghesi, alcune piccole comunità cristiane), che parlavano un pidgin portoghese (sopravvissuto come creolo a Goa, in Malesia, a Macao, ecc.). Questi gruppi di Cristiani asiatici, che seguivano i Portoghesi, quando l’Indonesia fu conquistata dall’Olanda si rifugiarono nelle Filippine, ed in seguito a ciò modificarono il loro creolo: il lessico divenne quasi totalmente spagnolo, da portoghese che era, però le strutture rimasero le stesse. D’altra parte è testimoniato che un pidgin portoghese si usava, sempre all’inizio del XVI secolo, sulle coste dell’Africa: dunque (secondo la sua ipotesi) i negrieri avrebbero usato questa lingua per comunicare con gli schiavi che trasportavano nel Nuovo Continente. Poi, nelle piantagioni, sarebbe prevalso il lessico della lingua dei padroni: ma anche in questo caso, mantenendo le strutture originarie del creolo. Secondo lui, la semplificazione operata dai creoli è la migliore che si sia mai escogitata: l’esperanto e le altre lingue artificiali sono più complicate dei creoli. Dunque, sempre secondo lui, basta aver “inventato” il creolo una volta sola, come per l’alfabeto: una volta che si sa come funziona l’alfabeto, se ne possono creare tanti altri a piacimento, e lo stesso si può fare col creolo, una volta che se ne conosca il meccanismo: sostituendo le parole (rilessificazione) con quelle di un’altra lingua, si creeranno dei creoli inglesi, francesi, spagnoli ecc., ma le strutture si conservano, e spesso anche le parole grammaticali. Uno dei casi più probanti per questa tesi è il Saramaccano: si tratta del creolo di una comunità di schiavi che fuggì e si rifugiò nelle foreste della Guyana olandese: i loro discendenti parlano questo creolo, dal lessico prevalentemente inglese come lo Sranan degli schiavi rimasti nelle piantagioni, ma con una forte componente portoghese; si pensava quindi che si fosse separato in un’epoca in cui il processo di rilessificazione era in atto. Questa tesi fu combattuta da molti studiosi: si obiettò che non è vero che i creoli francesi siano reciprocamente intelligibili (alcuni fra loro lo sono, ma altri no), ed anche che è ben difficile pensare che una lingua possa mantenere così bene le proprie caratteristiche grammaticali quando cambia il lessico; e poi che non è vero che i creoli siano sempre così semplici, anzi in molti casi succede come con le lingue esotiche e non standardizzate: i testi in creolo riportati da qualche linguista spesso smentiscono le teorie grammaticali che lo stesso linguista ha cercato faticosamente di mettere insieme. Ma l’obiezione più forte venne con Derek Bickerton, autore dell’ipotesi del bioprogramma37. 37 Esposta soprattutto nel suo volume Roots of Language, Ann Arbor 1981. 79 Negli anni ’70 del XX secolo egli si trovò a studiare la situazione linguistica delle Hawaii, in cui erano avvenute migrazioni all’inizio del secolo, ed in cui si era sviluppato un pidgin ed un creolo: ma le differenze tra i due erano sorprendentemente grandi. Il pidgin hawaiano era una lingua singolarmente difettosa, quello che si diceva un pidgin ineffabile, ovvero un pre-pidgin (in inglese lo si può chiamare anche jargon), cioè una lingua con la quale non si riesce ad esprimere qualunque concetto, ma che consente solo discorsi limitati: ed inoltre era molto variabile a seconda di chi lo parlava. I parlanti erano degli immigrati, di origine giapponese, filippina, cinese, coreana, portoricana, portoghese (ma pare che questi ultimi, più che dal Portogallo, provenissero dalle isole del Capo Verde): e le strutture delle lingue d’origine si riflettevano nel pidgin. Posso citare alcune frasi, pronunciate da immigrati giapponesi: as kerosin, plænteishan, wan mans, fo gælan giv “la piantagione ci dava quattro galloni di kerosene al mese”; sam pat dei dono andastæn, æswai dei go kweschin tu mi, no, sambadi-stei-tawking-taim “alcune parti essi non capiscono, così chiedono a me, quando qualcuno sta parlando [giapponese]” (detto da una madre a proposito dei suoi figli). Queste sono frasi a struttura prevalente SOV (soggetto-oggetto-verbo), mentre le frasi composte dagli immigrati filippini hanno soprattutto una struttura VSO (ad esempio hi kam gro da pæmili “the family was beginning to grow up”, oppure hi hælp da medisin “the medicine helps”: come si vede, anche la fonetica è variabile); oltre a risentire pesantemente delle lingue d’origine degli immigrati, questo pidgin aveva capacità espressive molto ridotte, nel senso che era difficile esprimere con esso dei pensieri appena appena complessi, come si può vedere dagli esempi sopra riportati e da altri che seguiranno. Invece il creolo parlato dai figli degli immigrati era uniforme (da come lo si parlava era impossibile decidere quale fosse l’origine del locutore), e funzionava come una vera lingua, era cioè in grado di esprimere qualsiasi pensiero. Ma quel che stupisce di più è che, benché il lessico sia quasi totalmente inglese, la sintassi non somiglia a quella inglese né a quelle delle lingue d’origine degli immigrati: somiglia invece a quella dei creoli, parlati a migliaia di chilometri di distanza, e che gli immigrati non conoscevano. Qualche esempio di frasi in pidgin e poi in creolo: now days, ah, house, ah, inside, washi clothes machine get, no? Before time, ah, no more, see? And then pipe no more, water pipe no more, che in creolo si traduce: those days bin get (there were) no more washing machine, no more pipe water like get (there is) inside house nowadays, ah? O anche: good, this one. Kaukau (food) any kind this one Pilipin island no good. No more money, che in creolo diventa: Hawaii more better than Philippines, over here get (there is) plenty kaukau (food), over there no can, bra (brother), you no more money for buy kaukau, ‘a’swhy (that’s why). Il creolo hawaiano ha una sintassi ben diversa da quella inglese, come si vede anche dagli esempi che seguono: how you expect for make pau you house? “how do you expect to finish your house?” o anche bin get one wahine she get three daughter “there was a woman who had three daughters”. Da queste osservazioni, Bickerton derivò la sua teoria: siccome il creolo fu “inventato” dai figli degli immigrati, i quali usavano una lingua estremamente variabile, senza una sintassi uniforme ed accettata, e partendo da questa, senza che nessuno li guidasse, arrivarono a formare un creolo simile in tutto agli altri creoli sparsi per il mondo, evidentemente le strutture del creolo sono innate per la mente umana: tutti i bambini cercano di parlare creolo, ma di solito l’ambiente circostante li corregge: invece in un ambiente dove la lingua d’uso è praticamente senza regole, essi possono esplicare 80 liberamente le loro tendenze. Perciò, secondo la sua teoria, il creolo è la struttura linguistica innata nella mente umana, in un certo senso la lingua originaria degli uomini (almeno per quanto riguarda la sintassi). Egli indicò pure quali sono le strutture che si ritrovano in tutti i creoli: anzitutto il sistema verbale di Tempo-Modo-Aspetto (TMA). Va detto che non esiste una morfologia verbale, il verbo si coniuga solo analiticamente, premettendo dei pronomi; la forma più semplice del verbo (quella non marcata) indica di solito il passato se si tratta di un verbo d’azione, ed il presente se si tratta d’un verbo stativo; poi esiste un prefisso temporale di Anteriorità, che premesso ad un verbo d’azione indica il trapassato, mentre con un verbo stativo indica il passato; il prefisso modale si usa per esprimere l’Irrealtà, ovvero qualcosa che al momento non c’è, quindi il futuro o il congiuntivo; i verbi d’azione fanno uso anche d’un prefisso aspettuale, che indica l’azione continuata (ed in italiano si traduce di solito col presente). Secondo l’esempio che faceva lo stesso Bickerton, si può produrre il seguente schema, coi verbi per camminare (azione) e amare (stato): hawaiano haitiano sranan traduzione italiana he walk he bin walk he go walk he stay walk li maché li tè maché l’av(a) maché l’ap maché a waka a ben waka a sa waka a e waka egli camminò egli aveva camminato camminerà, cammini cammina (camminava) he love he bin love he go love li rémé li té rémé l’av(a) rémé a lobi a ben lobi a sa lobi egli ama egli amò egli amerà, ami Una struttura dello stesso genere si trova anche in un creolo lontanissimo geograficamente e culturalmente come il Nubi, dove si ha: áána já “io venni”, lett. “io venire” (per la verità potrebbe anche riferirsi al presente, ma come sottolinea B. Heine, autore della prima grammatica di questa lingua38 “usually it refers to past, sometimes even to completed, actions”). Esiste poi una particella káan che forma il trapassato: úo káan já “he had come”, una particella bi per il futuro, tipo úo bi rúa saaba “he will go tomorrow”, ed una particella aspettuale gí, come in áána má gí já “I am not coming”. Non c’è corrispondenza perfetta, perché questa lingua conosce anche una particella kalás per il perfetto, che indica cioè l’azione appena compiuta: úo kalás ákulu lúguma “egli ha (appena) mangiato polenta”. Un’altra caratteristica dei creoli è la coincidenza tra il verbo che significa “avere” e quello che indica l’esistenza: come esempio Bickerton cita la frase c’è una donna che ha una figlia tradotta in creolo hawaiano, guyanese, haitiano, nonché in papiamentu (creolo delle Antille Olandesi, Curaçao Aruba e Bonaire, a base ispano-portoghese): get wan wahini shi get wan data dem get wan uman we get gyal-pikni 38 B. HEINE, The Nubi Language of Kibera-An Arabic Creole, Berlin 1982, p. 38. 81 gê yoû fam ki gê you pitit-fi tin un muhe cu tin un yiu-muhe Un’altra caratteristica è la distinzione di tre gradi di determinazione: a) con l’articolo definito, come nell’hawaiano I stay go da store for buy da shirt “vado al negozio a comprare la camicia (se questa è nota anche all’ascoltatore)”; b) con l’articolo di specificità, tipo I stay go da store for buy one shirt “vado al negozio a comprare una camicia (già nota al parlante, non all’ascoltatore)”; c) senza articolo, tipo I stay go da store for buy shirt “vado al negozio a comprare camicia (una o tante, senza precisare il numero)”. Ancora un’altra caratteristica è la distinzione fra l’intenzione realizzata e non realizzata: se in creolo hawaiano si dice John bin go Honolulu go see Mary “J. andò a Honolulu per vedere M.” s’intende che poi l’abbia vista, non è possibile aggiungere una frase correttiva del tipo “ma non la trovò”: se invece non sappiamo se l’abbia vista, dobbiamo dire John bin go Honolulu for see Mary39. La teoria di Bickerton, ovvero del bioprogramma, fu molto discussa: molti studiosi preferirono attenersi alla vecchia idea del sostrato, ovvero che i creoli fossero lingue miste, col lessico di una lingua (di solito europea) di prestigio, e la sintassi di lingue (di solito africane) di sostrato; anche se esprimendola in questo modo l’idea è poco verosimile (le lingue africane hanno di solito delle sintassi ben diverse da quelle dei creoli), questi studi servirono a mostrare la grande importanza che può avere il sostrato: ad esempio, si è visto che quando tutte le lingue di sostrato concordano su una caratteristica marcata, è molto facile che la si ritrovi nella lingua di contatto. Da tempo si sapeva che il Chinook, pidgin stabile fondato su dialetti amerindiani del Pacifico settentrionale, aveva un sistema consonantico fortemente marcato, con una serie di labiovelarizzate dorsali e labiovelarizzate uvulari, ed una marca di glottalizzazione che si applicava a quasi tutte le occlusive sorde: perciò si avevano dei fonemi insoliti in lingue di questo tipo, come /kw’/ e /qw’/ (evidentemente perché simili fonemi erano largamente diffusi nelle lingue di quella zona). Negli anni Ottanta si sono discussi altri casi, come i creoli a base portoghese del Golfo di Guinea, che hanno come sostrato lingue affini, dei gruppi Kwa e Bantu occidentale (entrambi della famiglia Niger-Congo): in questi creoli si trovano realizzazioni implosive di /b/ e /d/, ideofoni, palatalizzazioni e depalatalizzazioni condizionate da leggi tipiche di dialetti Kikongo, costruzioni negative con una particella preposta al verbo ed un’altra alla fine della frase, ecc.40. Sulla base di queste osservazioni arriva la conclusione di Thomason e Kaufman: “the bioprogram, if any – or, at least, universal structural tendencies based on markedness – will be important only where the structures of the substrate languages do not coincide substancially. Where the substrate language structures do coincide typologically, the shifting speakers will tend to retain them, unless pressure from a readily available target language pushes in another direction.41” Trovo invece poco condivisibile la seguente tesi, di alcuni creolisti soprattutto di 39 Piccola osservazione: purtroppo Bickerton non usa una grafia costante nel trascrivere il creolo hawaiano, e noi dobbiamo adeguarci alle sue incoerenze grafiche. 40 Si veda S.G. THOMASON and T. KAUFMAN, Language Contact, Creolization, and Genetic Linguistics, University of California 1988, pp. 157-8. 41 THOMASON and KAUFMAN, op. cit., p. 165. 82 scuola francese: siccome alcuni creoli a base francese (in particolare quello di Réunion) differiscono notevolmente dalle caratteristiche dei creoli fin qui descritte, e non per questo si avvicinano maggiormente al francese, essi evitano il problema di definire che cosa sia un creolo, e ne danno una definizione puramente storica: significativo quanto scrive Mufwene42: “je m’accorde en grande partie avec Chaudenson [che in realtà era più prudente nelle sue formulazioni] en considérant les vernaculaires créoles comme des variétés langagières qui se distinguent des autres variétés de langues modernes notamment par leur ‘unité de temps’ (la période coloniale européenne du XVIIe au XIXe siècles) et leur ‘unité de lieu’ (des colonies de peuplement insulaires ou côtières sous les tropiques, ayant comme industrie principale des plantations de canne à sucre, de café et de riz).” Secondo lui, “s’il n’y a pas de combinaisons de traits structuraux qui définissent un créole et s’il n’y a par conséquent pas non plus de processus de restructuration spécifique(s) au développement des créoles, il n’y a donc pas de critères linguistiques non sociohistoriques pour identifier comme ‘créoles’ des variétés langagières particulières.” Trovo metodologicamente aberrante che per definire una tipologia di lingue, peggio ancora una branca della linguistica, si ricorra a criteri che non sono linguistici, ma storici (o socio-storici, come dice lui): con gli stessi criteri, potremmo per esempio fare una “linguistica islamica” comprendente tutte le lingue dei popoli islamizzati, come arabo, persiano, urdu, turco, Bahasa Indonesia, somalo, berbero, curdo, begia, ecc.: è probabile che vi si trovino numerose somiglianze nel lessico, ma nessuna nella sintassi, cioè tutto il contrario della situazione che si riscontra nei creoli. Oppure, sempre con questi criteri socio-storici, si potrebbe fare una linguistica anti-islamica, comprendendovi tutte le lingue di popoli che si sono distinti per una lotta continua ed accanita contro l’Islàm: gli Armeni, i Georgiani, i Copti d’Etiopia, i popoli del Rajasthan, ecc.: ma è probabile che non vi si trovi alcun tratto comune. Perché invece si continua a parlare di lingue creole? Evidentemente perché queste lingue si somigliano, dunque una tipologia creola esiste, anche se siamo in difficoltà quando si tratta di definirla; ma forse dovremmo abituarci a ragionare in termini di tendenze, piuttosto che di leggi inderogabili. Vorrei ora partecipare alla discussione con un contributo personale. Riprendo la questione dall’inizio, cioè dalla prima lingua di cui ho trattato, la lingua franca: se rileggiamo i testi vediamo che era una lingua divertente, anzi ci può sembrare addirittura un po’ comica; non sbagliamo, perché in effetti fu usata più volte da commediografi europei a scopo di comicità: è notissimo l’intermezzo in lingua franca nel Bourgeois Gentilhomme di Molière, e sappiamo che la si ritrova in molte commedie di Goldoni (L’impresario delle Smirne, La Birba, I pettegolezzi delle donne, Le donne de casa sòa, Lucrezia romana a Costantinopoli, La Fiera di Sinigaglia, la famiglia dell’antiquario) nonché in numerose altre commedie italiane, francesi e spagnole. Giustamente è stato osservato che i pidgin ed i creoli, ben lungi dal nascere obbligatoriamente in ogni situazione di contatto linguistico, costituiscono un’eccezione: occorre anzitutto superare la sensazione di ridicolo che si produce parlando in quel modo “ridotto”. Nel caso della lingua franca, sappiamo per quale motivo la si superò: ci è preziosa la testimonianza del dott. Frank, medico francese che soggiornò a Tunisi all’epoca di Napoleone, quando in quella città regnava il bey H¢ammûda. A proposito di questo personaggio, egli scrive 42 Salikoko S. MUFWENE, Créoles, évolution sociale, évolution linguistique, éd. Harmattan, Paris 2005, pp. 54-5. 83 testualmente: “il parle, lit et écrit facilement l’arabe et le turc; la langue franque, c’est-àdire cet italien ou provençal corrompu qu’on parle dans le Levant, lui est également familière; il avait même voulu essayer d’apprendre à lire et écrire l’italien pur-toscan; mais les chefs de la religion l’ont détourné de cette étude, qu’ils prétendaient être indigne d’un prince musulman.43” Dunque la lingua franca non era nata solo per lo scambio, ma aveva anche la funzione di evitare ai musulmani di parlare una lingua di cristiani; e siccome nei porti di pirati barbareschi come Algeri, Tunisi, Tripoli risiedevano anche degli Europei trattenuti là in schiavitù, questa lingua divenne bilaterale ed ebbe un uso quotidiano, insomma divenne stabile. Un altro pidgin nato da motivi simili, al fine cioè di evitare di parlare la lingua dello straniero, sembra essere il Pidgin English della Cina: secondo Hall, “the English regarded the language of the ‘heathen Chinese’ as beyond any possibility of learning, and began to pidginize their own language for the benefit of the Chinese. The latter held the English, like all ‘foreign devils’, in extremely low esteem, and would not stoop to learning the foreigners’ language in its full form. They were willing, though, to learn what they perfectly well knew to be an ‘imperfect’ variety of English or of some other western tongue, and considered that this was abasing themselves less than learning ‘real’ English. In other words, the English wanted to hold the Chinese at arm’s length, and the Chinese wanted to do likewise to the English; Pidgin served the purpose admirably for both sides.”44. In generale, parlare una lingua implica sempre (anche in piccola misura) una qualche sorta d’identificazione col popolo a cui appartiene, e col sistema di valori e la cultura che tutto ciò rappresenta: ma se c’è un rifiuto sentimentale riguardo a tutto ciò, imparare quella lingua diventerà difficilissimo, quasi impossibile. Ne abbiamo una chiara testimonianza nell’Europa del XX secolo: quando il nostro continente era diviso in due, da una parte l’Ovest e dall’altra il mondo comunista, ad Est in tutte le scuole si era costretti a imparare il russo: ma spesso questo studio era inutile, moltissimi non arrivavano mai a padroneggiare quella lingua (specie nei Paesi come la Romania, dove la lingua locale è di ceppo diverso). È azzardato supporre che in situazioni di schiavismo si producesse la stessa difficoltà ad apprendere correttamente la lingua dei padroni? Anche qui, come nel caso della lingua franca e del Pidgin English, si ha a che fare con questioni di identità: apprendere interamente una certa lingua non è possibile, perché ci sarebbe una menomazione della propria identità, che non si può confondere con quella di chi parla la lingua in questione. Ma nel caso dei creoli si ha un problema identitario in più: non si deve solo evitare di identificarsi coi padroni, bensì occorre considerare che esiste un nuovo popolo, che si identifica come tale, e che vuole quindi dotarsi di qualcosa che lo distingua: una nuova lingua, creata imitando non già i padroni, ma qualche modello che normalmente si definirebbe substandard. Dal punto di vista linguistico, la schiavitù è connessa con la creolizzazione solo perché determina la formazione di uomini sradicati, che possono riconoscere un destino comune con altri uomini che si trovano nella stessa situazione: ma d’altra parte esiste spesso in loro l’esigenza di differenziarsi anche linguisticamente dal mondo circostante, e così si spiega l’adozione di modelli linguistici del tutto diversi da quelli usati nella normale trasmissione delle lingue. Il fatto poi che i creoli siano spesso ubicati nelle isole si spiega pure con un fatto identitario: chi sta in un’isola ha il proprio orizzonte chiaramente 43 44 CIFOLETTI, op. cit., p. 233. Robert A. HALL, jr, Pidgin and Creole Languages, London 1966, p. 8. 84 delimitato, e mentre in una regione del continente, o a maggior ragione in una grande città, la presenza di mezzo milione d’uomini sradicati può non bastare a far nascere una nuova identità, in una piccola isola potrebbero essere sufficienti cinquecento anime. Inoltre, mentre sul continente si trovano le regioni di confine, dove gli abitanti spesso provano un doppio senso di appartenenza, nell’isola tutto ciò non esiste. La nascita di un creolo è dunque un fatto identitario, come la standardizzazione di una nuova lingua: in entrambi i casi si osserva l’azione di un nuovo popolo che vuole affermare in questo modo la propria identità. La differenza sta nel fatto che con le normali standardizzazioni non si fa altro che assumere come modello una varietà linguistica già esistente (magari assumendola non in toto, mescolandola o modificandola), mentre con la creolizzazione si inventa qualcosa che si differenzia subito da tutti gli altri standard linguistici riconosciuti prima. Anche quando l’evoluzione linguistica va nel senso di una struttura analitica, è facile distinguerla dalla creolizzazione: sappiamo che il latino possedeva una perifrasi con de + ablativo, che poteva (sporadicamente) affiancarsi al genitivo; inoltre, per erosione fonetica (ovvero per la caduta di –m finale) l’ablativo a partire circa dal I secolo d.C. era praticamente uguale all’accusativo. Nei testi di epoca tarda questa costruzione diviene sempre più frequente, finché poi nelle lingue romanze sostituisce del tutto il genitivo: ma è un processo lunghissimo, della durata di molti secoli, come pure quello (parallelo) per cui la costruzione ad + accusativo sostituì il dativo: solo al termine ci si accorse che la lingua parlata stava diventando troppo diversa da quella scritta, e si pensò a nuove lingue nazionali. Invece la creolizzazione si realizza in un tempo breve, probabilmente nello spazio d’una generazione: e se questa evoluzione è così rapida è perché si ha la volontà di creare una nuova lingua, mentre il normale evolversi delle lingue avviene in modo pressoché inconscio e preterintenzionale. Letture indicate (da preparare per l’esame) Dall'edizione francese di Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, éd. Payot, Paris, leggere le pp. 13-35; 97-103; 114-119; 163-166; l’ottima traduzione italiana di Tullio De Mauro riporta a lato di pagina i numeri corrispondenti all'impaginazione dell'originale francese, ed occorre seguire quelli, anziché l’impaginazione normale. Notizie biografiche su Saussure si possono ricavare dalle pp. 319-358 (ma non è necessario studiarle approfonditamente). Nikolaj S. Trubeckoj, Fondamenti di fonologia, ed. Einaudi, Torino, pp. 5-21; definizione di fonema pp. 44-47; pp. 56-78; 88-100. Joseph H. Greenberg, Universali del linguaggio con particolare riferimento alle gerarchie dei tratti, ed. La Nuova Italia, pp. 7-60. Joseph H. Greenberg, Alcuni universali della grammatica con particolare riferimento all'ordine degli elementi significativi, nel volume curato da P. Ramat La tipologia linguistica, pp. 115-154; si studino soprattutto le pagg. iniziali (115-118) e poi gli universali 1-7, 13-19, 22, 24, 26-37. Bernard Comrie, Universali del linguaggio e tipologia linguistica, ed. Il Mulino, pp. 7789. 85 Avvertenza al lettore Scorrendo il testo ho notato diversi fastidiosi errori di battitura, che a volte posso far risalire al computer (che quando trova una parola non compresa nel suo vocabolario come per esempio inanalizzabile, tende a scomporla facendone due paroline, in analizzabile, che però non hanno senso), ma di cui a volte non so trovare l’origine (giuro che, scrivendo a mano, non metterei mai un’ con apostrofo davanti ad un maschile, ma nei testi digitati al computer mi è successo). Ripeto perciò quanto già affermato all’inizio: sarò grato allo studente che mi segnalerà questi ed altri svarioni. 86