Sara Shepard Giovani, carine e bugiarde Tre persone possono tenere un segreto, se due di loro sono morte. BENJAMIN FRANKLIN A JSW COME È INIZIATA Immaginate che tutto abbia avuto inizio un paio di anni fa, nell'estate tra la seconda e la terza media: abbronzate per il sole preso sul bordo della vostra piscina, con indosso un paio di pantaloncini Juicy nuovi di zecca (vi ricordate quando andavano tanto di moda?), fantasticate sull'ultima cotta per quel ragazzo che frequenta un istituto privato di cui non faremo il nome e che ripiega jeans da Abercrombie al centro commerciale. State mangiando Choco Krispies, proprio come piacciono a voi - immersi nel latte scremato - quando notate la faccia di quella ragazza stampata sul cartone del latte. SCOMPARSA. È carina - probabilmente più di voi - e ha un'espressione arrogante negli occhi. Così pensate:Hmm, forse anche a lei piacciono i Choco Krispies.Di sicuro, anche a lei il ragazzo di Abercrombie sembrerebbe un gran figo. E vi chiedete come sia possibile che qualcuno così... be', così simile a voi sia scomparso. In effetti, avete sempre pensato che a finire sui cartoni del latte fossero soltanto ragazze da copertina. Be', ripensateci. Aria Montgomery affondò la faccia nel prato all'inglese della sua migliore amica, Alison DiLaurentis. «Deliziosa», mormorò. «Stai annusando l'erba?», le chiese Emily Fields spuntando da dietro, mentre chiudeva la portiera della Volvo di sua madre con il lungo braccio lentigginoso. «Sa di buono», disse Aria, togliendosi dagli occhi un ciuffo rosa e respirando l'aria tiepida del primo pomeriggio, «come l'estate». Emily rivolse alla madre un cenno di saluto e si tirò su degli anonimi jeans che le pendevano dai fianchi spigolosi. Nuotatrice agonistica sin dai tempi della Tadpole League1 , sebbene in costume olimpionico sfoggiasse un fisico niente male, Emily non indossava mai niente di attillato né di carino, al contrario di tutte le altre ragazze di seconda. Questo perché i genitori continuavano a ripeterle che la personalità si forgia interiormente (anche se Emily era abbastanza certa che essere costretti a nascondere la propria tshirt con su scritto "Le ragazze irlandesi lo fanno meglio" in fondo al cassetto della biancheria, non significasse esattamente migliorare la propria personalità). «Ehi, ragazze!». Alison volteggiò nel cortile davanti casa; portava i capelli raccolti in una coda spettinata e indossava ancora il gonnellino da hockey su prato che aveva messo quel pomeriggio alla festa di fine anno della squadra. Alison era l'unica ragazza di seconda a far parte della squadra delle JV2e per questo veniva spesso accompagnata a casa dalle ragazze più grandi della Rosewood Day School, che sparavano Jay-Z a tutto volume dai loro Cheerokee, e inondavano Alison di profumo prima di farla scendere perché nessuno si accorgesse che avevano fumato. «Mi sto perdendo qualcosa?», chiese Spencer Hastings, scivolando attraverso un buco nella siepe di Ali. Spencer viveva nella casa accanto. Spostò di scatto la lunga, splendente coda biondo cenere dalla spalla e bevve una gran sorsata dalla sua borraccia rossa Nalgene. Spencer non era riuscita a superare le qualificazioni che si erano tenute in autunno per essere ammessa alla JV assieme a Ali, ed era quindi stata costretta a restare nella squadra di seconda. Si era allenata duramente per un intero anno sul campo da hockey per perfezionare la sua tecnica, e le ragazze sapevano che prima di arrivare si era esercitata nel dribbling nel cortile dietro casa. Spencer non sopportava che qualcuno fosse migliore di lei in nessun campo, soprattutto Alison. «Aspettatemi!». Le ragazze si girarono e videro Hanna Marin scendere dalla Mercedes della madre e inciampare nella propria sacca, agitando le braccia paffute. Da quando l'anno precedente i suoi genitori avevano divorziato, Hanna aveva iniziato ad aumentare di peso in modo costante, senza più riuscire a entrare nei suoi vestiti. Ali alzò gli occhi al cielo, mentre le altre fecero finta di non accorgersi di niente, come fanno le migliori amiche. Alison, Aria, Spencer, Emily e Hanna erano diventate grandi amiche l'anno prima, quando i loro genitori le avevano proposte per lavorare come volontarie all'iniziativa di beneficenza che era organizzata ogni sabato pomeriggio dalla Rosewood Day School. Solo Spencer si era offerta spontaneamente. Alison poteva sapere qualunque cosa delle altre quattro, loro di sicuro sapevano tutto di lei. Alison era perfetta. Bella, intelligente, alla moda. E amata da tutti. I ragazzi desideravano baciarla, mentre le ragazze persino le più grandi - volevano essere lei. Per cui, la prima volta in cui Ali aveva riso a una delle battute di Aria, chiesto a Emily informazioni sul nuoto, detto a Hanna che indossava una maglietta fantastica o commentato che Spencer aveva una calligrafia di gran lunga più precisa della sua, loro non avevano potuto fare altro che, be'... che restarne ammaliate. Prima dell'arrivo di Ali, le ragazze si erano sentite come un paio di jeans a vita alta della mamma, imbarazzanti e vistosi per tutte le peggiori ragioni, ma poi Ali le aveva fatte sentire come i più impeccabili abiti di Stella McCartney, quelli che nessuno può permettersi. A distanza di più di un anno, giunte ormai all'ultimo giorno di scuola, non erano soltanto migliori amiche, erano diventatele ragazze della Rosewood Day, e tante cose erano successe perché ciò accadesse. Ogni notte passata a casa delle altre, ogni gita scolastica che avevano fatto erano state delle nuove avventure. Quando erano assieme, ogni momento tra una lezione e l'altra si poteva considerare memorabile (il giorno in cui avevano letto all'altoparlante un imbarazzante bigliettino scritto dal capitano della squadra universitaria alla sua tutor di matematica era ormai entrato nella leggenda alla Rosewood Day). Tuttavia, erano successe anche altre cose che tutte avrebbero voluto dimenticare. E c'era un segreto del quale non riuscivano neanche a parlare. Ali diceva che i segreti le avrebbero legate come migliori amiche per l'eternità. Se così era, sarebbero rimaste amiche per tutta la vita. «Sono così felice che la giornata sia finita». Alison sospirò prima di spingere gentilmente Spencer attraverso il buco nella siepe. «Il tuo fienile». «Io sono così felice che la seconda media sia finita», disse Aria, mentre assieme a Emily e Hanna seguiva Alison e Spencer verso il fienile trasformato in residenza per gli ospiti in cui la sorella maggiore di Spencer, Melissa, aveva vissuto durante gli anni del liceo. Fortunatamente, Melissa si era appena diplomata e avrebbe trascorso l'estate a Praga, per cui quella notte il posto sarebbe stato a loro completa disposizione. All'improvviso sentirono una voce stridula. «Alison! Ehi Alison! Ehi Spencer!». Alison si voltò verso la strada. «Non questo», sussurrò. «Non questo», si affrettarono a ripetere Spencer, Emily e Aria. Si trattava di un giochetto che Ali aveva imparato da suo fratello Jason, che ormai frequentava l'ultimo anno alla Rosewood Day. Jason e i suoi amici lo facevano durante le feste della scuola preparatoria, intenti a squadrare le ragazze. Pronunciare per ultimi le parole "non questo" voleva dire essere costretti a intrattenere la bruttina di turno per tutta la serata, mentre gli altri si divertivano con le sue amiche carine, come ad ammettere, di fatto, di essere goffi e poco attraenti quanto lei. Nella versione di Ali, le ragazze dicevano "non questo" tutte le volte in cui compariva qualcuno di brutto, fuori moda o sfigato. Quella volta, il "non questo" era rivolto a Mona Vanderwaal - una stupida che abitava in fondo alla strada e il cui passatempo preferito era quello di cercare di guadagnarsi l'amicizia di Spencer e Alison e alle sue due strambe compagne, Chassey Bledsoe e Phi Templeton. Chassey era nota per essere riuscita a entrare nel sistema informatico della scuola per poi andare a dire al preside come renderlo più sicuro, mentre Phi Templeton girava dappertutto con il suo yoyo, e non aggiungeremo altro. Le tre erano rimaste ferme in mezzo alla tranquilla stradina del quartiere a fissare le ragazze. Mona stava appollaiata sul suo scooter Razor, Chassey su una mountain bike nera e Phi a piedi, con in mano il suo yo-yo, naturalmente. «Ragazze, vi andrebbe di venire a vedere Fear Factor3con noi?», chiese Mona. «Mi dispiace», rispose Alison con un sorriso affettato, «siamo davvero occupate». Chassey aggrottò le sopracciglia. «Non volete vedere quando mangiano i vermi?». «Che schifo!», sussurrò Spencer ad Aria, che iniziò a fare finta di mangiare pidocchi invisibili dalla testa di Hanna, come una scimmia. «Be', vorremmo tanto poter venire», rispose Alison chinando la testa, «ma abbiamo organizzato questa serata da un sacco di tempo. Magari la prossima volta...». Mona abbassò lo sguardo verso il marciapiede. «Ok, va bene». «Ci vediamo». Alison si voltò alzando gli occhi al cielo, imitata dalle altre. Entrarono dalla porta sul retro di Spencer. Alla loro sinistra si trovava il giardino di Alison, dove i genitori stavano facendo costruire un gazebo per i loro sontuosi picnic all'aperto. «Grazie a Dio non ci sono gli operai», disse Alison, gettando lo sguardo su un caterpillar giallo. Emily s'irrigidì di colpo. «Ti hanno infastidita di nuovo?» «A cuccia, killer!», disse Alison, facendo ridacchiare le altre. Talvolta chiamavano Emily "killer" come se fosse il pitbull personale di Ali. Un tempo anche Emily lo trovava divertente, ma negli ultimi tempi non rideva più tanto. Ormai erano giunte davanti al fienile. Si trattava di un edificio piccolo e appartato, con un'ampia finestra che dava sulla vasta, irregolare fattoria di Spencer, con annesso mulino a vento. A Rosewood, Pennsylvania, un piccolo sobborgo a venti miglia da Philadelphia, era molto più facile abitare in una fattoria di venti stanze dotata di piscina rivestita in mosaico, come quella di Spencer, piuttosto che in una villetta prefabbricata. D'estate, Rosewood odorava di lillà e di erba tagliata, mentre d'inverno si diffondeva il profumo della neve candida e delle stufe a legna. Era circondata di pini alti e rigogliosi, acri di fattorie a conduzione familiare e attraversata dalle volpi e dalle lepri più graziose. Vi si trovavano negozi fantastici e proprietà risalenti al periodo coloniale, assieme a parchi in cui organizzare compleanni, feste di laurea e per ogni altra occasione. I ragazzi di Rosewood, poi, erano favolosi, con quel portamento fiero e forte, come fossero appena usciti da un catalogo di Abercrombie. Rosewood, che sorgeva sulla principale linea ferroviaria in partenza da Philadelphia, era abitata da antiche famiglie nobili; ricchezze ancora più antiche e scandali il cui ricordo si perdeva nella notte dei tempi. Appena raggiunto il fienile, le ragazze sentirono delle risatine provenire dall'interno. Qualcuno strillò: «Ti ho detto di smetterla!». «Oddio», sospirò Spencer, «che cosa ci fa lei qui?». Non appena ebbe avvicinato l'occhio alla serratura, riuscì a scorgere Melissa, la sua castigata e rispettabile sorella maggiore, impeccabile in ogni attività, lottare sul divano con Ian Thomas, il suo attraente fidanzato. Spencer spinse la porta con il tacco, forzandone l'apertura. La rimessa odorava di muschio e popcorn leggermente bruciato. Melissa si girò. «Ma che dia.?», chiese. Poi si accorse delle altre e sorrise. «Oh, ciao ragazze». Le quattro si voltarono verso Spencer. Lei si lamentava continuamente del fatto che Melissa fosse un'infida troietta, per cui si sorprendevano sempre quando si mostrava dolce e amichevole. Ian si alzò stiracchiandosi e rivolgendo un sorrisetto a Spencer. «Ehi». «Ciao Ian», replicò lei con un tono di voce molto più squillante, «non sapevo che fossi qui». «Sì che lo sapevi», rispose Ian con un sorriso malizioso, «ci stavi spiando». Melissa si ricompose i lunghi capelli biondi e la fascia di 15 seta nera, fissando sua sorella. «Dunque, che succede?», chiese con tono leggermente accusatorio. «Be', ecco... non intendevo intromettermi...», borbottò Spencer, «ma stanotte il fienile doveva essere a nostra disposizione». Ian le diede un buffetto sul braccio. «Ti stavo solo prendendo in giro», disse in tono canzonatorio. Spencer avvampò. Ian aveva biondi capelli arruffati, occhi languidi color nocciola e un petto pieno di muscoli che gridavano "toccami!". «Wow», disse Ali in un tono di voce troppo alto, tanto da far girare tutti verso di lei. «Melissa, tu e Ian siete proprio una bella coppia; lo penso da sempre, anche se non ve l'ho mai detto. Non sei d'accordo, Spencer?». Spencer ammiccò. «Uhm», disse piano. Melissa fissò Ali per un attimo con aria perplessa, poi si rivolse di nuovo a Ian. «Puoi venire fuori un momento? Devo parlarti». Ian finì di scolarsi la sua Corona, osservato dalle ragazze, che bevevano soltanto di nascosto dalle bottiglie chiuse negli armadietti dei liquori dei loro genitori. Posò la bottiglia vuota e rivolse loro un largo sorriso di congedo.«Adieu, ladies», disse ammiccando, prima di chiudersi dietro la porta. Alison si sfregò le mani. «Un altro problema risolto da Ali D. Adesso mi ringrazierai Spencer, vero? ». Spencer non rispose. Era troppo occupata a guardare fuori dalla finestra. Alcune lucciole avevano iniziato a illuminare il cielo violaceo. Hanna si diresse verso la ciotola di popcorn abbandonata, afferrandone una generosa manciata. «Ian è così figo. Direi che è ancora più figo di Sean». Sean Ackard, uno dei ragazzi più carini della loro classe, era oggetto di fantasie costanti da parte di Hanna. «Sai che cosa ho sentito dire?», chiese Ali, lasciandosi cadere sul divano. «A Sean piacciono un sacco le ragazze che amano mangiare». Lo sguardo di Hanna s'illuminò. «Davvero?» «No», sbuffò Alison. Hanna ripose lentamente la manciata di popcorn nella ciotola. «Dunque, ragazze», disse Ali, «conosco il modo perfetto per passare il tempo». «Spero proprio che tu non ci chieda di nuovo di metterci a correre nude», ridacchiò Emily. Lo avevano già fatto un mese prima, rabbrividendo nel freddo gelido, e sebbene Hanna si fosse rifiutata di togliersi anche la canottiera e le mutandine con su scritto il giorno della settimana, le altre avevano attraversato completamente nude un vicino campo di granturco ormai secco. «A te è piaciuto un po' troppo», borbottò Ali. Il sorriso sulle labbra di Emily si spense. «Ma no, si tratta di una cosa che ho lasciato appositamente per l'ultimo giorno di scuola. Ho imparato a ipnotizzare la gente». «Ipnotizzare?», le fece eco Spencer. «Mi ha insegnato la sorella di Matt», rispose Ali, osservando le foto di Melissa e Ian sul caminetto. Il suo ragazzo della settimana, Matt, aveva gli stessi capelli biondo oro di Ian. «E come si fa?», chiese Hanna. «Mi spiace, le ho giurato di non dirlo a nessuno», rispose Ali, voltandosi. «Vi va di vedere se funziona?». Aria aggrottò le sopracciglia, sedendosi su un pouf color lavanda. «Non saprei.». «Perché no?». Lo sguardo di Ali si posò su un pupazzetto di stoffa a forma di maiale che faceva capolino dalla sacca rossa di Aria fatta ai ferri. La ragazza era solita portarsi dietro 17 strani oggetti a forma di animale, pagine strappate a caso da vecchi romanzi, cartoline di posti che non aveva mai visto. «Ma l'ipnosi non ti fa dire cose che non avresti mai voluto confessare?», chiese Aria. «C'è forse qualcosa che non puoi dirci?», ribatté Ali. «E poi, perché continui a portarti ovunque quel pupazzetto?», chiese indicandolo. Aria alzò le spalle e tirò fuori il pupazzo dalla borsa. «Mio padre mi ha comprato Pigtunia in Germania; mi dà consigli sulla mia vita sentimentale». Infilò la mano nella marionetta. «Le stai ficcando la mano su per le chiappe!», strillò Ali, mentre Emily ridacchiava. «E poi, intendi davvero portarti dietro qualcosa che ti ha datotuo padre?»«Non è divertente», sbottò Aria, girandosi di scatto per guardare in faccia Emily. Rimasero tutte in silenzio per alcuni secondi, guardandosi l'un l'altra con occhi interrogativi. La scena si era ripetuta diverse volte negli ultimi tempi. Qualcuno (di solito Ali) diceva qualcosa e qualcun altro ne rimaneva turbato, ma erano tutte troppo timide per chiedere che cosa stesse accadendo. Spencer ruppe il silenzio. «Essere ipnotizzati. mi sembra un po' ridicolo». «Ma se tu non ne sai un bel niente», rispose di botto Alison. «Avanti, potrei ipnotizzarvi tutte assieme» . Spencer iniziò a sfilacciare l'orlo della sua t-shirt. Emily sibilò rumorosamente tra i denti. Aria e Hanna si scambiarono un'occhiata. Ali tirava sempre fuori qualcosa di nuovo da fare: l'estate passata le aveva convinte a fumare dei semi di tarassaco per capire se avessero un effetto allucinogeno, mentre in autunno erano andate a nuotare a Pecks Pond, sebbene una volta vi fosse stato scoperto un cadavere. Ma il fatto era che spesso non avevano alcuna voglia di fare ciò che diceva Ali. Tutte quante l'amavano alla follia, ma talvolta, allo stesso tempo, si ritrovavano a odiarla per il potere che esercitava su di loro e perché le comandava a bacchetta. Certe volte, in presenza di Ali, non si sentivano reali, non nel vero senso della parola. Si sentivano come delle specie di marionette nelle mani di lei. Ciascuna di loro avrebbe voluto riuscire a dire di no a Ali almeno una volta. «Per favoooreee...?», chiese Ali. «Emily, a te va di farlo, non è vero?» «Uhm.», rispose Emily con voce tremolante. «Be'.». «Io voglio farlo», s'intromise Hanna. «Anch'io», replicò Emily subito dopo. Spencer e Aria fecero cenno di sì con la testa, riluttanti. Soddisfatta, Alison spense tutte le luci in un colpo solo e accese diverse candele dal delicato profumo di vaniglia che si trovavano su un tavolino, poi si rimise seduta e si schiarì la voce. «Ok, adesso rilassatevi», disse in tono salmodiante, mentre le ragazze si sistemavano in cerchio sul tappeto. «Il battito del vostro cuore inizia a rallentare. Concentratevi su pensieri rilassanti. Conterò alla rovescia da cento, e non appena vi avrò toccate, cadrete in mio potere». «Inquietante», ribatté Emily, scossa da una risata. Alison iniziò. «Cento. novantanove. novantotto.». Ventidue. Ventidue. Undici. Cinque. Quattro. Tre. Toccò Aria sulla fronte con il palmo della mano. Spencer distese le gambe. Aria mosse il piede sinistro di scatto. «Due.». Lentamente toccò Hanna, poi Emily e infine si avvicinò a Spencer. «Uno». Spencer aprì gli occhi prima che Alison potesse raggiungerla. Saltò in piedi e corse verso la finestra. «Che cosa stai facendo?», sussurrò. «Stai rovinando l'atmosfera». «È troppo buio qui dentro». Spencer allungò le braccia e aprì le tende. «No». Alison la fermò. «Deve essere buio. È così che funziona». «Andiamo, non è vero». La serranda oppose resistenza e Spencer grugnì nel tentativo di liberarla. «Sì che lo è». Spencer si mise le mani sui fianchi. «Voglio più luce. Forse anche le altre lo vogliono». Alison guardò le altre. Erano tutte immobili, con gli occhi chiusi. Spencer continuò: «Non deve sempre andare come vuoi tu, sai?». Alison esplose in una risata. «Chiudile!». Spencer alzò gli occhi al cielo. «Oddio, datti una calmata». «Pensi che sia io a dovermi dare una calmata?», chiese Alison. Spencer e Alison rimasero a fissarsi per alcuni secondi. Era una di quelle stupide dispute che avrebbe potuto nascere su chi avesse visto per prima il nuovo abito Lacoste da Neiman Marcus o sul fatto che i colpi di sole color miele apparissero troppo forti. Invece, riguardava qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di più grande. Alla fine, Spencer indicò la porta. «Vattene». «D'accordo». Alison se ne andò a grandi passi. «Bene!». Dopo pochi secondi, però, Spencer la seguì. L'atmosfera bluastra della sera era immobile, e da casa sua non proveniva alcuna luce. Tutto era avvolto nel silenzio, non si sentivano neppure i grilli, e Spencer poteva distinguere il suono del suo stesso respiro. «Aspetta un attimo!», gridò subito dopo, chiudendosi la porta alle spalle. «Alison!». Ma Alison se ne era già andata. Al rumore della porta che sbatteva, Aria aprì gli occhi. «Ali?», chiamò. «Ragazze?». Nessuna risposta. Si guardò attorno. Hanna ed Emily erano sedute sul tappeto, immobili, mentre la porta era aperta. Aria si diresse in veranda. Non c'era nessuno. In punta di piedi, arrivò fino al confine della proprietà di Ali. Davanti a lei si estendeva il bosco e tutto era silenzioso. «Ali?», sussurrò. Niente. «Spencer?». All'interno, Hanna ed Emily si stropicciarono gli occhi. «Ho fatto un sogno davvero strano», disse Emily. «Voglio dire, credo che fosse un sogno. È stato brevissimo. Alison cadeva in un pozzo senza fine, pieno di piante gigantesche». «Anch'io ho fatto lo stesso sogno!», disse Hanna. «Lo stesso?»,chiese Emily. Hanna annuì. «Be', una specie. C'era una pianta enorme. E penso di aver visto anche Alison. Forse era la sua ombra, ma era sicuramente lei». «Wow», sussurrò Emily. Rimasero a fissarsi, con gli occhi sgranati. «Ragazze?». Aria entrò, pallida in viso. «Ti senti bene?», chiese Emily. «Dov'è Alison?». Aria corrugò la fronte. «E Spencer?» «Non lo sappiamo», disse Hanna. Subito dopo, Spencer irruppe in casa, facendo sobbalzare tutte quante. «Che succede?», chiese. «Dov'è Ali?», chiese Hanna con voce calma. «Non saprei», sussurrò Spencer. «Pensavo che. non lo so». Tra le ragazze cadde il silenzio. L'unico rumore che si poteva avvertire era quello dei rami che strisciavano contro le finestre, come lo stridere di unghie affilate sul metallo. «Penso sia meglio andare a casa», disse Emily. Il mattino successivo, nessuno aveva ancora saputo niente di Alison. Le ragazze si chiamarono a vicenda, in una conversazione a quattro e non più a cinque, come succedeva di solito. «Pensate che sia arrabbiata con noi?», chiese Hanna. «Si è comportata in modo strano per tutta la serata». «Probabilmente è da Katy», disse Spencer. Katy era una delle compagne di hockey di Ali. «O forse è con Tiffany, quella ragazza del campeggio», suggerì Aria. «Sono sicura che si trova da qualche parte a divertirsi», disse Emily con tono sereno. Una a una, furono contattate dalla signora DiLaurentis, che chiedeva se avessero saputo qualcosa di Ali. All'inizio, tutte cercarono di coprirla: avevano sempre coperto Emily, quando nel fine settimana rientrava di soppiatto dopo il coprifuoco delle 11; avevano nascosto la verità quando Spencer aveva preso in prestito il giaccone di Melissa e poi l'aveva dimenticato sul sedile del treno, e così via. Quella volta però, dopo avere riagganciato con la signora DiLaurentis, ognuna di loro sentì una profonda amarezza correrle giù per lo stomaco, una sensazione orribile. Quel pomeriggio la signora DiLaurentis chiamò di nuovo, stavolta in preda al panico. Prima di sera, i DiLaurentis avevano già chiamato la polizia; il mattino successivo, il loro prato inglese, un tempo immacolato, era invaso da auto della polizia e giornalisti. Era il sogno proibito della TV locale: una ricca e bella ragazza scomparsa in una delle più sicure cittadine borghesi del Paese. Hanna chiamò Emily dopo avere ascoltato il primo notiziario notturno su Ali. «Sei stata interrogata dalla polizia, oggi?» «Sì», sussurrò Emily. «Anch'io. Non avrai parlato di.». Fece una pausa. «Dell''Affare Jenna,spero?» «No!». Emily ebbe un sussulto. «Perché? Pensi che sappiano qualcosa?» «No... come potrebbero?», sussurrò Hanna dopo un secondo. «Siamo le uniche a sapere. Noi quattro e. Alison». La polizia interrogò le ragazze, così come praticamente ogni altro abitante di Rosewood, dall'insegnante di educazione fisica di Ali in seconda elementare al ragazzo che una volta le aveva venduto delle Marlboro da Wawa. Era l'estate prima della terza media, e le ragazze avrebbero dovuto passarla flirtando con ragazzi più grandi ai party in piscina, mangiando pannocchie in giardino l'una ospite delle altre e trascorrendo intere giornate a fare shopping al King James Mall. Invece, trascorrevano il tempo piangendo da sole nei loro letti a baldacchino o fissando con sguardi vacui le pareti tappezzate di foto. Spencer si gettò a capofitto nella pulizia frenetica della camera, ripensando a quale fosse realmente stata la questione centrale della lite con Ali e riflettendo su alcune cose di Ali che sapeva soltanto lei. Hanna trascorreva ore e ore sul pavimento della sua stanza, nascondendo sacchetti vuoti di patatine al formaggio sotto il materasso. Emily non riusciva a smettere di tormentarsi per via di una lettera che aveva spedito a Ali prima della scomparsa. Ali l'aveva mai ricevuta? Aria restava seduta alla scrivania con Pigtunia. Lentamente, le ragazze iniziarono a chiamarsi sempre meno. Erano tutte assillate dagli stessi pensieri, ma non avevano più nulla da dirsi. L'estate finì per dare inizio all'anno scolastico, che a sua volta si concluse l'estate successiva. Di Ali, ancora nessuna notizia. Le ricerche della polizia proseguivano, ma senza clamore. I media persero interesse, tuffandosi a capofitto su un triplo omicidio avvenuto nel centro città. I DiLaurentis lasciarono Rosewood circa due anni e mezzo dopo la scomparsa di Alison, mentre anche in Spencer, Aria, Emily e Hanna cambiò qualcosa. Ormai, se passavano nella strada in cui abitava Ali e guardavano la sua vecchia casa, non scoppiavano più a piangere; iniziarono, invece, ad avvertire una sensazione nuova. Sollievo. Certo, Alison era Alison.Era la spalla su cui piangere, l'unica alla quale avreste potuto chiedere di chiamare il ragazzo per cui avevate preso una cotta per sapere che cosa ne pensasse di voi, l'unica a poter dire l'ultima parola su come i vostri nuovi jeans facessero risaltare il fondoschiena. Eppure, le ragazze ne avevano anche paura. Ali sapeva più cose di loro di chiunque altro, inclusi gli avvenimenti più torbidi che tutte desideravano nascondere, come fossero un cadavere. Era orribile pensare che Ali potesse essere morta, ma. in tal caso, almeno i loro segreti sarebbero stati al sicuro. E lo rimasero. Almeno, per tre anni. Campionato scolastico annuale di nuoto per ragazzi dai 9 ai 12 anni (N.d.T.). 2Le Junior Varsity teams sono squadre organizzate dagli stessi istituti scolastici in sport diversi per ragazzi e ragazze fino ai 14 anni (N.d.T.). 3Reality show, in onda negli Stati Uniti dal 2001, in cui i concorrenti, suddivisi in squadre, sono sottoposti a prove di coraggio estreme per aggiudicarsi il premio finale in denaro (N.d.T.). 1 1 ARANCE, PESCHE E LIME, OH MIO DIO! «Alla fine, qualcuno ha comprato la vecchia casa dei Di Laurentis», disse la madre di Emily Fields. Era sabato pomeriggio e la signora Fields stava seduta al tavolo di cucina a controllare con calma i conti, con un paio di bifocali ap-puntati sul naso. Emily sentì la Coca alla vaniglia che stava bevendo sfrigolarle su per il naso. «Penso che ci si sia trasferita un'altra ragazza della tua età», continuò la signora Fields. «Pensavo di portar loro quel cesto oggi pomeriggio. Vuoi farlo tu al posto mio?», chiese, indicando un raccapricciante oggetto incellofanato posato sul bancone della cucina. «Oddio, mamma, no», replicò Emily. Da quando, l'anno precedente, era andata in pensione e aveva lasciato il suo posto di insegnante alla scuola elementare, la madre di Emily era diventata la Lady Benvenuto non ufficiale di Rosewood, Pennsylvania. Di solito, riuniva un milione di oggetti d'ogni tipo - frutta secca, quegli aggeggi piatti di gomma che si usano per aprire i barattoli, polli di ceramica (la madre di Emily era ossessionata dai polli), una guida alle locande di Rosewood, insomma, un po' di tutto dentro un enorme cesto di benvenuto. Era la quintessenza della madre di provincia, ma senza il SUV, che riteneva pomposo e inquinante, per cui guidava una pratica Volvo station wagon. La signora Fields si alzò in piedi e passò le dita tra i capelli bruciati dal cloro di Emily. «Ti disturberebbe molto andarci, tesoro? Forse dovrei mandarci Carolyn?». Emily gettò uno sguardo verso sua sorella Carolyn, più grande di lei di un anno, che se ne stava comodamente distesa sulla poltrona del soggiorno a guardareDr. Phil.,e scosse la testa. «No, va bene. Ci andrò io». È vero, Emily talvolta si lamentava e alzava gli occhi al cielo, ma in realtà, se era sua madre a chiederglielo, avrebbe fatto qualsiasi cosa. Prima della classe, quattro volte campionessa di stile farfalla della Pennsylvania, figlia superobbediente; per lei rispettare regole e richieste era una cosa naturale. Inoltre, era come se in fondo al cuore desiderasse trovare una ragione per rivedere di nuovo la casa di Alison. Mentre tutti gli abitanti di Rosewood sembravano avere superato la scomparsa della ragazza, avvenuta ormai tre anni, due mesi e dodici giorni prima, Emily non c'era riuscita. Persino adesso non era in grado di guardare il suo diario di seconda media senza provare il desiderio di raggomitolarsi su se stessa. Talvolta, nei giorni di pioggia, Emily rileggeva ancora i vecchi appunti di Ali, che teneva in una scatola di Adidas nascosta sotto il letto. Era arrivata persino a conservare, su una stampella di legno, un paio di pantaloni di velluto a coste che Ali le aveva prestato, anche se ormai non le stavano più. Aveva trascorso gli ultimi anni a Rosewood in solitudine, alla ricerca di un'altra amica come Ali, che probabilmente non avrebbe mai trovato. Non era stata un'amica perfetta, ma, nonostante tutti i suoi difetti, Ali era quasi impossibile da sostituire. Emily si alzò ricomponendosi e afferrò le chiavi della Volvo sfilandole dal gancio accanto al telefono. «Sarò di ritorno tra poco», gridò chiudendosi la porta alle spalle. La prima cosa che vide avvicinandosi alla vecchia casa in stile vittoriano di Alison all'inizio della strada alberata fu un'enorme pila di cianfrusaglie sul marciapiede e un cartello con su scritto "Gratis!". Gettando uno sguardo furtivo, si rese conto che vi erano contenute anche alcune cose di Ali; riconobbe infatti la vecchia poltrona di velluto imbottita che la ragazza teneva in camera. Erano passati almeno nove mesi da quando i DiLaurentis si erano trasferiti. Evidentemente, avevano deciso di lasciare qualcosa. Parcheggiò dietro un enorme furgone per traslochi e scese dalla Volvo. «Wow», mormorò, cercando d'impedire che il labbro inferiore le tremasse. Sotto la poltrona erano impilati numerosi libri pieni di polvere. Emily si chinò e dette un'occhiata alle coste. Il segno rosso del coraggio. Il principe e il povero. Si ricordò di averlo letto durante il corso di letteratura inglese del signor Pierce in seconda media, parlando di simbolismo, metafore ed epiloghi. Sotto erano nascosti molti altri libri, alcuni dei quali sembravano essere semplici taccuini. Accanto, giacevano delle scatole, contrassegnate con le scritte "Vestiti di Alison" e "Vecchie scarpe di Alison". Da una cassa faceva capolino un nastro rosso e blu. Emily lo tirò un po' fuori: era una medaglia di prima media che aveva lasciato a casa di Alison quando un giorno avevano fatto un gioco chiamato "Le dee olimpiche del sesso". «Lo vuoi?». Emily sobbalzò. Vide una ragazza alta e magra dalla pelle scura e i capelli ricci, di un nero corvino. Indossava una canottiera sportiva gialla: una bretellina era scesa, lasciando intravedere quella verde e arancio del reggiseno. Benché non ne fosse sicura, Emily pensò di avere lo stesso reggiseno a casa. Era un Victoria's Secret tempestato di arance, pesche e lime su tutte, ehm. su tutte le tette. La medaglia di nuoto le scivolò dalle mani e cadde a terra. «Ehm, no», disse, chinandosi goffamente per raccoglierla. «Puoi prendere tutto quello che vuoi. Hai visto il cartello?» «No, davvero, grazie». La ragazza alzò la mano. «Maya St. Germain. Mi sono appena trasferita». «Io.». La voce le si ruppe in gola. «Emily», riuscì a dire alla fine, stringendole la mano. Sembrava un gesto talmente formale quello di stringere la mano a una ragazza, che Emily non si ricordava neanche di averlo mai fatto prima. Si sentiva un po' confusa. Forse a colazione non aveva mangiato abbastanza cereali al miele e nocciole? Maya indicò gli oggetti accatastati a terra. «Tutta questa roba era ammucchiata nella mia nuova camera. Ci crederesti? Ho dovuto spostarla tutta da sola. Che schifo». «Sì, apparteneva tutta a Alison», disse Emily, con un filo di voce. Maya si chinò per osservare alcuni libri, tirandosi su la bretella della canottiera. «È una tua amica?». Emily fece una pausa. È? Forse Maya non sapeva niente della scomparsa di Ali? «Uhm, lo era. Molto tempo fa. Assieme ad altre ragazze che vivono nei dintorni», le spiegò Emily, tralasciando la parte del rapimento, omicidio, o di qualunque altra cosa fosse accaduta e che non osava neppure immaginare. «In seconda media. Adesso frequenterò la terza superiore alla Rosewood Day». La scuola sarebbe iniziata subito dopo il weekend, così come le lezioni di nuoto, il che avrebbe significato tre ore di vasche al giorno. Emily non osava neanche pensarci. «Anch'io andrò alla Rosewood!», disse Maya con un largo sorriso, sprofondando nella vecchia poltrona di velluto di Alison e provocando un gran stridio di molle. «Durante il volo per venire qua, i miei genitori non hanno fatto altro che ripetermi quanto fossi fortunata a venire alla Rosewood e quanto questa fosse diversa dalla mia vecchia scuola in California. Voglio dire, scommetto che voi ragazzi non mangiate cibo messicano, giusto? O in ogni caso, cibo messicano davvero buono, tipo quello che si trova in California. A noi ce lo davano a mensa ehmm,era fantastico. Dovrò abituarmi ai Taco Bell. I loro gorditas1mi fanno vomitare». «Oh». Emily sorrise. Quella ragazza parlava davvero un sacco. «Sì, il cibo fa abbastanza schifo». Maya saltò su dalla poltrona. «Forse ti sembrerà una domanda assurda dato che ci siamo appena conosciute, ma non è che mi aiuteresti a portare le ultime cose nella mia stanza?». Si diresse verso alcuni scatoloni appoggiati accanto al furgone. Emily sgranò gli occhi. Entrare nella vecchia stanza di Alison? Ma sarebbe sembrata davvero maleducata se avesse rifiutato, no? «Uhm, certo», rispose con tono incerto. L'atrio odorava ancora di Dove e potpourri, proprio come quando ci vivevano i DiLaurentis. Emily si fermò sulla porta, aspettando che Maya le dicesse cosa fare, anche se sapeva benissimo che avrebbe potuto trovare la vecchia stanza di Ali a occhi chiusi, proprio in fondo al corridoio al piano superiore. Ovunque erano sparse scatole piene di roba, e due esili levrieri italiani guairono da dietro un cancelletto in cucina. «Ignorali», le disse Maya, mentre si dirigeva su per le scale verso la sua stanza, bloccando la porta aperta con l'anca ben visibile; Maya indossava un paio di pantaloncini di spugna. Wow, sembra che tutto sia rimasto uguale,pensò Emily entrando nella stanza. Eppure non lo era: Maya aveva posizionato il suo enorme letto in un angolo diverso, sulla scrivania aveva sistemato un enorme PC a schermo piatto e aveva atipiche piadine di farina di mais, simili ai più notitacos, con ripieni di vario genere (salsiccia, carne tritata, patate, formaggio) (N.d.T.). Attaccato poster ovunque, ricoprendo la vecchia carta da parati floreale di Alison. Eppure qualcosa era rimasto immutato, come se la presenza di Alison vi aleggiasse ancora. Emily si sentì girare la testa e si appoggiò al muro per sostenersi. «Mettile dove vuoi», le disse Maya. Emily fece appello a tutte le proprie energie per non cadere, posò la scatola ai piedi del letto e si guardò attorno. «Mi piacciono i tuoi poster», disse. Erano principalmente di gruppi musicali: MIA, Black Eyed Peas, Gwen Stefani in uniforme da cheerleader. «Adoro Gwen», aggiunse. «Già», rispose Maya. «Il mio ragazzo ne è totalmente ossessionato. Si chiama Justin. Anche lui è di San Francisco, come me». «Oh, anch'io ho un ragazzo», disse Emily. «Si chiama Ben». «Ah sì?». Maya si sedette sul letto. «E com'è?». Emily cercò di ricordare i tratti di Ben, con cui stava da quattro mesi. L'aveva visto due giorni prima, quando avevano guardato Doom in DVD a casa di lei. La madre, naturalmente, era rimasta nell'altra stanza, facendo capolino di tanto in tanto per chiedere se avessero bisogno di qualcosa. Erano stati buoni amici per un po', facendo parte delle squadre di nuoto dello stesso anno. Tutti i loro compagni avevano insistito perché uscissero insieme, e alla fine era successo. «È carino». «Allora, perché le tue amiche non frequentano più la ragazza che abitava qui?», chiese Maya. Emily si sistemò i capelli rossicci dietro le orecchie. Wow. Dunque Maya non sapeva davvero niente di Alison. Se Emily avesse iniziato a parlare di Alison, però, avrebbe potuto iniziare a piangere, il che sarebbe sembrato strano. Conosceva appena quella Maya. «Be', crescendo mi sono allontanata da tutte le mie vecchie amiche di seconda media. Siamo cambiate tutte moltissimo, credo». In effetti, ciò che aveva appena detto era alquanto riduttivo. Delle vecchie migliori amiche di Emily, Spencer era diventata iperperfezionista, peggio di quanto già fosse; la famiglia di Aria si era improvvisamente trasferita in Islanda l'autunno dopo la scomparsa di Ali, mentre l'amorevole sempliciotta Hanna era diventata l'esatto contrario di ciò che era allora, una vera puttana. Hanna e la sua attuale migliore amica, Mona Vanderwaal, si erano totalmente trasformate nell'estate tra la terza media e la prima superiore. La madre di Emily, che aveva di recente visto Hanna entrare da Wawa, il negozio di casalinghi locale, le aveva detto che Hanna sembrava «una sgualdrina persino peggiore di quella Paris Hilton». Emily non aveva mai sentito la madre pronunciare la parola "sgualdrina" prima di allora. «So che cosa significhi allontanarsi», disse Maya, che continuava a saltellare su e giù sul letto da quando si era seduta. «Come il mio ragazzo: ha paura che lo molli, adesso che vivo sulla costa opposta. È un tale ragazzino». «Io e il mio ragazzo facciamo parte della squadra di nuoto, per cui ci vediamo sempre», rispose Emily, cercando un posto in cui sedersi. Forse troppo,pensò. «Nuoti?», le chiese Maya, squadrandola dall'alto in basso e facendola sentire un po' fuori luogo. «Scommetto che sei davvero brava. Hai le spalle adatte». «Be', non saprei». Emily arrossì e si appoggiò alla scrivania in legno bianco di Maya. «Certamente!». Maya sorrise. «Ma allora. da atleta professionista, pensi che mi ucciderai se mi fumo un po' di erba?» «Cosa? Adesso?». Emily sgranò gli occhi. «E i tuoi genitori?» «Sono andati a fare la spesa. E mio fratello, be', è qui in giro, ma a lui non importa nulla». Maya allungò la mano sotto il materasso alla ricerca di una scatola di mentine. Sollevò la finestra che si trovava proprio accanto al letto, tirò fuori una canna e l'accese. Il fumo volò fuori nel cortile, avvolgendosi in una nube indistinta attorno a una grossa quercia. Maya la ritirò dentro. «Vuoi fare un tiro?». Emily non aveva mai fumato marijuana in tutta la sua vita. Aveva sempre pensato che i suoi genitori lo avrebbero in qualche modo saputo, annusando l'aria o costringendola a fare pipì in una tazza, o roba così. Ma non appena Maya ebbe allontanato l'erba con grazia dalle labbra ricoperte di glitter alla ciliegia, le sembrò sexy. Anche Emily voleva sembrare sexy. «Ehm, ok». Emily scivolò vicino a Maya e prese la canna. Le loro mani si sfiorarono e gli sguardi si incontrarono. Gli occhi di Maya erano verdi, con alcune striature di giallo, come quelli di un gatto. La mano di Emily tremò. Si sentiva nervosa, ma avvicinò comunque la sigaretta alle labbra e aspirò profondamente, come se stesse succhiando della Coca alla vaniglia da una cannuccia. Il sapore, però, non era quello; d'un tratto, si sentì come se avesse inalato un intero barattolo di spezie andate a male, e scoppiò in una tosse da vecchio fumatore incallito. «Wow», disse Maya, riprendendosi l'erba. «Prima volta?». Non riuscendo a respirare, Emily si limitò ad annuire, boccheggiando. Ansimò ancora per un po', nel tentativo di far entrare un po' d'aria nel petto, finché finalmente non riuscì a sentire di nuovo l'ossigeno penetrarle nei polmoni. Non appena Maya girò il braccio, Emily scorse una pallida e lunga cicatrice scenderle giù fino al polso. Wow. Sulla pelle abbronzata, le sembrò che strisciasse giù come un serpente albino. Dio mio, forse era già completamente fatta. Improvvisamente, si udì un forte rumore metallico. Emily sobbalzò. Poi udì di nuovo lo stesso rumore. «Che cos'è?», sibilò. Maya aspirò ancora e scosse la testa. «Gli operai. Siamo qui da un giorno e i miei genitori hanno già dato il via ai lavori», rispose con un ghigno. «Sei agitatissima, come se stesse arrivando la polizia. Sei già stata beccata qualche volta?» «No!». Emily scoppiò in una risata; era un pensiero talmente ridicolo. Maya sorrise ed espirò. «Devo andare», disse Emily con voce stridula. Il viso di Maya si fece triste. «Perché?». Emily si trascinò giù dal letto. «Ho detto a mia mamma che mi sarei fermata soltanto per qualche minuto. Ma ci vediamo a scuola martedì». «Perfetto», disse Maya. «Forse potresti farmi fare un giro?». Emily sorrise. «Certo». Maya accennò un sorriso e fece un cenno di saluto a tre dita. «Sai come uscire?» «Penso di sì». Emily dette un'altra occhiata alla stanza di Ali. di Maya, e scese rumorosamente dalle scale tanto familiari. Fu soltanto dopo avere scrollato la testa all'aria aperta, attraversato tutta la roba di Alison sul marciapiede ed essere rimontata sulla macchina dei suoi genitori che Emily si rese conto del cesto sul sedile posteriore. Fottiti, pensò, infilandolo tra la vecchia poltrona di Alison e le scatole di libri. Chi ha bisogno di una guida alle locande di Rosewood? Maya già vive qui. Ed Emily ne fu improvvisamente felice. 1Tipiche piadine di farina di mais, simili ai più noti tacos, con ripieni di vario genere (salsiccia, carne tritata, patate, formaggio) (N.d.T.). 2 LE ISLANDESI (E LE FINLANDESI) SONO FACILI «Ommioddio, alberi. Non sapete quanto sia contento di vedere dei grossi, grassi alberi». Il fratello quindicenne di Aria Montgomery, Michelangelo, spenzolò la testa fuori del finestrino come un golden retriever. Aria, i suoi genitori, Ella e Byron (volevano che i figli li chiamassero per nome) e Mike stavano tornando in macchina dall'aeroporto internazionale di Philadelphia, appena scesi da un volo in arrivo da Reykjavik, Islanda. Il padre di Aria era un professore di storia dell'arte, e l'intera famiglia aveva trascorso gli ultimi due anni in Islanda, dove lui aveva lavorato a un documentario televisivo sull'arte scandinava. Ora che erano tornati, Mike osservava incantato il paesaggio campestre della Pennsylvania. E ciò significava. Ogni. Singolo. Elemento. La locanda in pietra del XVIII secolo che vendeva vasi in ceramica decorata; le vacche nere che, da dietro uno steccato, osservavano con sguardo assente la loro macchina passare lungo la strada; il centro commerciale in pieno stile New England che si era ingrandito durante la loro assenza e persino lo sbiadito Dunkin' Donuts, che ormai aveva venticinque anni. «Diavolo, non vedo l'ora di farmi una granita al caffè!», esclamò Mike. Aria grugnì. In Islanda, Mike aveva trascorso un paio di anni in solitudine (si lamentava che tutti i ragazzi islandesi fossero «femminucce che cavalcano piccoli cavalli gay»), Aria, al contrario, era sbocciata. Un nuovo inizio era proprio ciò di cui aveva bisogno all'epoca, per cui fu felice quando suo padre annunciò che la famiglia si sarebbe trasferita. Era l'autunno dopo la scomparsa di Alison, e le ragazze si erano allontanate, lasciandola senza alcuna vera amica, solo una scuola piena di gente che conosceva ormai da una vita. Prima di partire per l'Europa, Aria si era accorta che talvolta i ragazzi la osservavano da lontano incuriositi, ma che poi voltavano lo sguardo. Con la sua figura vivace da ballerina, i lisci capelli neri e le labbra carnose, Aria sapeva di essere carina. La gente glielo ripeteva continuamente; allora, perché non aveva ricevuto alcun invito alla festa di primavera di seconda media? Una delle ultime volte in cui lei e Spencer erano uscite (una di quelle festicciole imbarazzanti dell'estate subito dopo la scomparsa di Ali), Spencer le aveva detto che avrebbe potuto ricevere un sacco di inviti, se soltanto avesse cercato di ambientarsi un po' di più. Ma Aria non sapeva come fare ad ambientarsi. I suoi genitori le avevano inculcato la convinzione di essere un individuo ben distinto, non una qualunque pecora del gregge, e che perciò doveva essere se stessa. Il problema era che Aria non sapeva chi fosse realmente Aria: da quando aveva compiuto undici anni, aveva recitato l'Aria punk, l'Aria intellettualoide, l'Aria da documentario e, poco prima che si trasferissero, persino l'Aria ragazza ideale di Rosewood, un fantino con la polo dotata di borsa di cuoio, quintessenza di tutto ciò che i ragazzi di Rosewood adoravano, ma anche di tutto ciò che Aria non era. Grazie al cielo, si erano trasferiti in Islanda a due settimane da quel disastro, e lì, tutto, tutto, ma proprio tutto,era cambiato. Suo padre aveva ottenuto quel lavoro quando Aria aveva appena iniziato la terza media, e la famiglia aveva fatto le valigie. Aria aveva sospettato che fossero partiti così in fretta a causa di un segreto riguardante il padre che solo lei e Alison DiLaurentis conoscevano, ma si era ripromessa di non pensarci più non appena decollata sull'aereo dell'Iceland air, e così fu: dopo avere vissuto per alcuni mesi a Reykjavik, Rosewood si era trasformata in un pallido ricordo. I suoi genitori sembravano essersi innamorati di nuovo e persino il fratello, da provinciale incallito quale era, aveva imparato l'islandese e il francese. E Aria si era innamorata. diverse volte, a dire il vero. Dunque, che importava se i ragazzi di Rosewood non riuscivano a capire l'eccentrica Aria? I ragazzi islandesi - i ricchi, mondani, affascinanti ragazzi islandesi - di sicuro ci riuscivano. Non appena si erano trasferiti, aveva incontrato un ragazzo di nome Hallbjorn, un DJ diciassettenne con tre pony e il più strabiliante fisico che avesse mai visto, che si offrì di portarla a vedere i geyser e, subito dopo averne visto uno gorgogliare ed esplodere in una larga nube di vapore, l'aveva baciata. Dopo Hallbjorn c'era stato Lars, a cui piaceva giocherellare con il suo vecchio pupazzo, Pigtunia (quello che le dava consigli sulla vita sentimentale), e che la portava alle più belle feste al porto. In Islanda, si sentiva adorabile e sexy. Là era diventata Aria l'islandese, la migliore Aria di sempre, che aveva trovato un proprio stile, un look a metà tra l'hippy e il bohémien fatto di abiti a strati, stivali allacciati e jeans APC comprati durante un viaggio a Parigi. Leggeva i grandi filosofi francesi e viaggiava in treno per tutta Europa munita solo di una mappa e un cambio di biancheria. Adesso, invece, ogni angolo di Rosewood che le appariva fuori dal finestrino le ricordava un passato che avrebbe voluto dimenticare. C'era Ferra's Cheesesteaks, dove aveva trascorso ore con le sue amiche alle medie; c'era il country club, con il suo ingresso in pietra (i suoi genitori non lo sapevano, ma c'era andata con Spencer, e una volta, in un impeto di coraggio, si era diretta verso il ragazzo per cui aveva preso una sbandata, Noel Kahn, per chiedergli se voleva condividere un gelato con lei. Lui le aveva risposto un secco no, naturalmente. Infine, apparve la luminosa strada alberata in cui viveva Alison DiLaurentis. Non appena la macchina si fermò all'incrocio, Aria sgranò gli occhi: riusciva a scorgerla, seconda casa dall'angolo. A parte un mucchio d'immondizia sul marciapiede, la casa appariva ordinata e quieta. Riuscì a osservarla per poco prima di doversi coprire gli occhi. In Islanda, passavano giorni in cui arrivava quasi a dimenticarsi di Ali, dei loro segreti e di ciò che era successo. Tornata a Rosewood da meno di dieci minuti, ad Aria sembrava quasi di sentire la voce di Ali a ogni curva della strada e di vederla riflessa in ogni finestra. Sprofondò nel sedile, cercando di non piangere. Suo padre proseguì per pochi isolati e si diresse verso la loro vecchia casa, una cupa scatola marrone postmoderna con una sola finestra squadrata proprio al centro; un'enorme delusione in confronto alla casa a schiera dipinta di un azzurro tenue con vista sul mare in cui abitavano in Islanda. Sentì Mike, appena sceso, rispondere al cellulare e lo vide agitare le mani tra i granelli luccicanti di polvere che aleggiavano nell'aria. «Mamma!». Mike attraversò di corsa la porta. «Ho appena parlato con Chad, mi ha detto che le prime selezioni di lacrosse sono oggi». «Lacrosse?». Ella emerse dalla sala da pranzo. «Proprio ora?» «Sì», disse Mike. «Vado!». Salì di corsa le scale in ferro battuto dirigendosi nella sua vecchia stanza. «Aria, tesoro?». La voce della madre la fece girare. «Puoi accompagnarlo agli allenamenti?». Aria accennò una risatina. «Che cosa, mamma? Non ho la patente». «E allora? A Reykjavik guidavi sempre. Il campo di lacrosse è solo a un paio di miglia, no? La cosa peggiore che ti possa capitare è di investire una mucca. Ti chiedo solo di aspettare che abbia finito». Aria fece una pausa. La madre sembrava già esaurita. Aveva sentito il padre aprire e chiudere gli armadietti della cucina, borbottando fra i denti. I suoi genitori sarebbero riusciti ad amarsi come in Islanda? Oppure le cose sarebbero tornate come prima? «D'accordo», mugugnò. Lasciò cadere con un tonfo le sue borse sul pianerottolo, afferrò le chiavi della macchina e scivolò sul sedile anteriore. Suo fratello si sedette accanto a lei, sorprendentemente già in divisa. Sistemò la rete all'estremità della mazza e le fece un sorriso sadico e furbesco. «Felice di essere tornata?». Per tutta risposta, Aria emise solo un sospiro. Per tutto il tragitto, Mike tenne le mani attaccate al finestrino, gridando frasi del tipo: «Ecco la casa di Caleb! Hanno demolito la rampa da skate!» e «La cacca di mucca ha sempre la stessa puzza!». Arrivati all'ampio, curato campo di gioco, Aria non fece in tempo a fermare la macchina che Mike aprì lo sportello e scappò via. Aria si accasciò sul sedile osservando il tettuccio apribile e sospirò.«Entusiastadi essere tornata», mormorò. Una mongolfiera galleggiava placida tra le nuvole. Di solito era bello vederle, ma quel giorno la fissò con intensità, chiuse un occhio e fece finta di farla scoppiare tra pollice e indice. Un gruppo di ragazzi in tshirt bianche della Nike, pantaloncini larghi e cappellini da baseball bianchi indossati al contrario sfilò lentamente accanto alla macchina, diretto verso gli spogliatoi.Visto? Ogni ragazzo di Rosewood era una fotocopia dell'altro. Aria sbatté le palpebre: uno di loro indossava persino la stessa t-shirt Nike della University of Pennsylvania che indossava sempre Noel Kahn, il ragazzo del gelato di cui si era innamorata in seconda media. Dette uno sguardo furtivo ai capelli neri e mossi del ragazzo. Era forse. lui? Oddio. Era lui davvero. Aria non riusciva a credere che indossasse ancora la stessa maglietta di quando aveva tredici anni. Probabilmente, era una sorta di portafortuna, o forse lo faceva per qualche altra strana superstizione da giocatore. Noel la guardò con aria interrogativa, poi si avvicinò alla macchina e bussò al finestrino. Lei lo abbassò. «Tu sei quella ragazza che si era trasferita al Polo Nord. Aria, giusto? Eri l'amica di Ali D?», proseguì Noel. Aria si sentì un nodo in gola. «Uhm», disse. «No, scemo». James Freed, il secondo ragazzo più figo della Rosewood, fece capolino dietro di lui. «Non è andata al Polo Nord, è andata in Finlandia. Sai, da dove viene quella modella, Svetlana. Quella che somiglia a Hanna». Aria si grattò la fronte. Hanna? Cioè, Hanna Marin?Si udì un fischio, e Noel si allungò dentro la macchina per toccare il braccio di Aria. «Resti qui a guardare gli allenamenti, vero Finlandia?» «Uhm.ja», disse Aria. «Che cosa sarebbe, un grugnito sexy in finlandese?», sogghignò James. Aria alzò gli occhi al cielo. Era abbastanza certa chejasignificasse sì in finlandese, ma naturalmente quei ragazzi non lo sapevano. «Divertitevi a giocare a palla», disse, sorridendo con aria stanca. I ragazzi si spintonarono l'un l'altro e poi corsero via, facendo guizzare le loro mazze da lacrosse ancora prima di toccare il campo. Aria rimase a guardare dal finestrino. Che ironia. Quella era stata la prima volta in cui aveva flirtato con un ragazzo di Rosewood - Noel per giunta - e neanche le interessava. Attraverso gli alberi riusciva a malapena a scorgere la guglia della cappella dell'Hollis College, la piccola scuola d'arte dove insegnava il padre. Sulla strada principale della Hollis c'era un bar, Snookers. Mise la schiena dritta e guardò l'orologio. Le due e mezza. Doveva essere aperto. Avrebbe potuto andare a farsi un paio di birre e divertirsi un po'. Forse, un po' di alcol le avrebbe persino fatto sembrare carini i ragazzi di Rosewood. Mentre i bar di Reykjavik odoravano di birra chiara appena fermentata, legno vecchio e sigarette francesi, Snookers sapeva di un misto tra carne in putrefazione, hot dog marci e sudore. Snookers, come ogni altro angolo di Rosewood, portava con sé dei ricordi: un venerdì sera, Alison DiLaurentis aveva sfidato Aria a entrare e ordinare un orgasmo strillante. Aria aveva aspettato in coda a un gruppetto di collegiali di buona famiglia, e quando il buttafuori all'entrata non l'aveva lasciata passare, aveva urlato: «Ma il mio orgasmo strillante è lì dentro!». Poi, realizzando cosa aveva detto, era scappata dalle sue amiche, accucciate dietro a una macchina nel parcheggio. Stavano tutte ridendo a crepapelle, fino a farsi venire il singhiozzo. «Amstel», disse al barista dopo aver superato la porta d'ingresso a vetri (evidentemente, non c'era bisogno di buttafuori alle due e mezza di sabato pomeriggio). Il barista la guardò con aria interrogativa, poi le servì un boccale e si allontanò. Aria buttò giù una sorsata, insipida e annacquata, e la risputò nel bicchiere. «Tutto bene?». Aria si girò. Tre sgabelli più avanti stava seduto un ragazzo 40 dai capelli biondicci e arruffati e occhi da husky siberiano. Stava mescolando qualcosa in un bicchierino. Aria aggrottò le sopracciglia. «Sì, avevo dimenticato il sapore della birra da queste parti. Ho vissuto in Europa per due anni. La birra è meglio laggiù». «Europa?». Il ragazzo sorrise. Aveva un sorriso davvero carino. «Dove?». Aria contraccambiò il sorriso. «Islanda». Gli occhi del ragazzo s'illuminarono. «Una volta ho trascorso alcune notti a Reykjavik al ritorno da Amsterdam. Avevano organizzato un'enorme, fantastica festa al porto». Aria strinse il boccale tra le mani. «Sì», disse ridendo, «lì danno le feste migliori». «Hai visto l'aurora boreale?» «Certo», rispose Aria. «E anche il sole di mezzanotte. Facevamo delle feste da sballo in estate, con la musica migliore». Guardò il bicchiere del ragazzo. «Che cosa stai bevendo?» «Scotch», rispose lui, facendo segno al barista. «Ne vuoi uno?». Lei fece cenno di sì con la testa. Il ragazzo si avvicinò di tre sgabelli. Aveva delle belle mani, con dita lunghe e unghie leggermente irregolari. Sulla giacca di velluto indossava una piccola spilla con scritto "Le donne intelligenti votano!". «Quindi hai vissuto in Islanda?». Sorrise ancora. «Tipo, per un anno di studi all'estero?» «Be', no», rispose Aria. Il barista le versò lo scotch. Fece una generosa sorsata, come se fosse birra, e gola e petto iniziarono a bruciarle. «Sono stata in Islanda perché.». Si fermò. «Sì, è stato il mio. be', il mio anno all'estero». Che pensasse ciò che voleva. «Forte», annuì lui. «E prima dove abitavi?». Aria alzò le spalle. «Be', qui a Rosewood», disse sorridendo, e subito dopo aggiunse, «ma l'Islanda mi piaceva molto di più». Il ragazzo annuì. «Ero davvero triste di dover tornare negli Stati Uniti dopo Amsterdam». «Io ho pianto durante l'intero tragitto verso casa», ammise Aria, sentendosi per la prima volta se stessa (la nuova, migliore Aria l'islandese) da quando era tornata. Non solo stava parlando dell'Europa con un ragazzo carino e intelligente, ma probabilmente stava parlando con l'unico ragazzo di Rosewood che non la conosceva come l'Aria di Rosewood, l'amica sciroccata della bella ragazza che era scomparsa. «Dunque, vai a scuola qui?», chiese. «Mi sono appena diplomato». Si pulì la bocca con un tovagliolo e si accese una Camel. Ne offrì una ad Aria, ma lei scosse la testa. «Adesso voglio dare un po' di lezioni». Aria bevve un altro sorso di scotch e si accorse di averlo finito. Wow. «Mi piacerebbe insegnare, credo. Una volta finita la scuola. O insegnare, o scrivere commedie teatrali». «Davvero? Commedie? In che cosa ti stai specializzando?» «Uhm, letteratura?». Il barista le versò un altro scotch. «Io insegno letteratura!», disse il ragazzo, mettendole una mano sul ginocchio; Aria sobbalzò dalla sorpresa e per poco non si versò il drink addosso. Il ragazzo ritirò la mano, mentre Aria arrossì. «Scusami», disse con tono imbarazzato. «Comunque, io mi chiamo Ezra». «Aria». All'improvviso il suo nome le sembrò divertente e iniziò a ridere, perdendo l'equilibrio. «Ehi». Ezra l'afferrò per il braccio, tenendola stretta. Tre scotch dopo, Aria ed Ezra avevano scoperto di aver conosciuto lo stesso vecchio marinaio barista al Borg bar di Reykjavik, di adorare il modo in cui l'usanza di fare il bagno nelle fonti bollenti della laguna blu, ricca di minerali, li faceva sentire assonnati, e di trovare piacevole l'odore di uova marce che si sprigionava dalle fonti d'acqua termale. Gli occhi di Ezra diventavano via via più azzurri. Aria avrebbe voluto chiedergli se aveva una ragazza; sentiva caldo dentro ed era abbastanza sicura che non fosse soltanto colpa dello scotch. «Devo andare in bagno», disse con aria stordita. Ezra sorrise. «Posso accompagnarti?». Be', questa era già un'ottima risposta alla domanda sulla ragazza. «Voglio dire, be'.». Si strofinò la base del collo. «È troppo ardito da parte mia?», chiese, alzando lo sguardo da sotto le sopracciglia ben disegnate. Ad Aria ronzava la testa. Avere una relazione con uno sconosciuto non era proprio sua abitudine almeno, non in America. Ma non aveva detto di voler essere l'Aria l'islandese? Si alzò e lo prese per mano. Si guardarono negli occhi per tutto il tempo impiegato a raggiungere il bagno delle signore. Sul pavimento c'era carta igienica sparsa ovunque, e l'odore era persino peggiore che nel resto del bar, ma Aria non ci fece caso. Mentre Ezra la sollevava sul lavandino e lei gli cingeva i fianchi con le gambe, tutto ciò che riuscì a sentire fu il suo profumo, un misto tra scotch, cannella e sudore, e niente aveva mai avuto un odore più dolce. Come dicono in Finlandia, o forse da qualche altra parte,ja. 3 IL BRACCIALETTO DI HANNA «E così sembra che stessero facendo sesso nella camera dei genitori di Bethany!». Hanna Marin stava fissando la sua migliore amica, Mona Vanderwaal, dall'altro lato del tavolo. Mancavano ormai solo due giorni all'inizio della scuola, e le due se ne stavano sedute sulla terrazza del caffè in stile francese del King James Mall, il Rive Gauche, a bere vino, mettere a confronto «Vogue» con «Teen Vogue» e spettegolare. Mona conosceva sempre i segreti più intimi di tutti. Hanna bevve un altro sorso di vino e notò un tizio sulla quarantina che le osservava con sguardo lascivo.Il solito Humbert Humbert, pensò Hanna, senza dirlo ad alta voce. Mona non avrebbe certo colto la citazione letteraria, ma solo perché Hanna era la ragazza più ricercata della Rosewood Day, ciò non significava che non fosse capace, di tanto in tanto, di leggere i libri consigliati per l'estate, specialmente quando prendeva il sole a bordo piscina senza niente da fare. Oltretutto Lolitasembrava deliziosamente osceno. Mona si voltò per capire chi Hanna stesse osservando. La bocca le si piegò in un sorriso cattivello. «Facciamogli vedere». «Al tre?». Hanna spalancò gli occhi. Mona annuì. Al tre, le ragazze sollevarono lentamente l'orlo delle minigonne già vertiginose, mostrando gli slip. Humbert sgranò gli occhi, versandosi il bicchiere di pinot nero sul cavallo dei pantaloni. «Merda!», strillò, prima di schizzare in bagno. «Ben fatto», disse Mona. Gettarono i tovaglioli nelle insalate ancora intatte e si alzarono per andarsene. Erano diventate amiche durante l'estate tra la terza media e la prima superiore, quando erano state entrambe scartate alle selezioni per entrare a far parte delle cheerleader della Rosewood. Decise a entrare in squadra l'anno successivo, si erano impegnate a perdere diversi chili in modo da diventare come quelle ragazze carine e tutto pepe che i ragazzi lanciavano in aria. Una volta magre e splendide, però, avevano deciso che diventare cheerleader era un'ambizione ormai sorpassata e che le cheerleader erano delle perdenti, per cui non avevano mai riprovato a entrare in squadra. Da allora, Hanna e Mona avevano condiviso tutto. be', quasi tutto. Hanna non aveva mai confessato a Mona in che modo fosse riuscita a perdere peso così velocemente, era troppo volgare per parlarne. Mentre seguire una dieta rigida era sexy e ammirevole, non c'era niente, assolutamente niente di attraente nel mangiare una tonnellata di schifezze grasse, unte e ripiene di formaggio per poi rivomitarle tutte. In ogni caso, Hanna aveva ormai superato quella brutta abitudine, per cui non aveva più molta importanza. «Hai visto che quel ragazzo stava avendo un'erezione?», sussurrò Mona, rimettendo le riviste in pila. «Che cosa ne penserà Sean?» «Riderà», disse Hanna. «Oh, non penso». Hanna alzò le spalle. «Potrebbe». Mona sbuffò. «Già, mostrare le mutande agli estranei si sposa perfettamente con un voto di castità» . Hanna abbassò lo sguardo, fissandolo sulle scarpe firmate Michael Kors. Il voto di castità. Il ragazzo di Hanna, l'incredibilmente popolare e straordinariamente sexy Sean Ackard, quello che aveva desiderato fin dalla seconda media, negli ultimi tempi si stava comportando in modo strano. Era sempre stato un perfetto boy scout americano: era volontario alla casa di riposo e serviva tacchino ai senza tetto per il giorno del Ringraziamento. Ma durante l'ultima serata trascorsa insieme, mentre Hanna, Mona e un gruppetto di altri ragazzi bevevano Corona di nascosto nell'idromassaggio in legno di cedro di Jim Freed, Sean aveva espresso al massimo il boy scout che era in lui; aveva infatti annunciato, con una punta di orgoglio, di aver fatto un voto di castità e di aver promesso di non fare sesso prima del matrimonio. Tutti quanti, Hanna inclusa, erano rimasti troppo sbalorditi per replicare. «Non fa sul serio», disse Hanna in tono confidenziale. Come avrebbe potuto? Un gruppo di ragazzi aveva fatto lo stesso voto; Hanna aveva pensato che si trattasse di una moda passeggera, come i braccialetti di Lance Armstrong o lo yogilates. «Pensi davvero?». Mona fece un sorrisetto compiaciuto, spostandosi la lunga frangia dagli occhi. «Vediamo che cosa accadrà alla festa di Noel la prossima settimana». Hanna digrignò i denti. Era come se Mona stesse ridendo di lei. «Voglio andare a fare shopping», disse, alzandosi. «Che ne pensi di Tiffany?», chiese Mona. «Fantastico». Fecero un giro nella nuova ala del King James Mall, tra le vetrine di Burberry, Tiffany, Gucci e Coach, che odorava dell'ultimo profumo di Michael Kors e pullulava di graziose ragazzine pronte al ritorno a scuola, con le loro bellissime mamme. Alcune settimane prima, durante una sessione di shopping in solitaria, Hanna aveva scorto la sua vecchia amica Spencer Hastings sgattaiolare dentro Kate Spade, e si era ricordata di come solitamente facesse un ordine speciale di borse a tracolla in nylon da New York, per l'intera collezione stagionale. A Hanna era sembrato divertente conoscere certi dettagli riguardanti qualcuno di cui non era più amica e, mentre la osservava esaminare accuratamente la valigeria in pelle di Kate Spade, si era chiesta se Spencer stesse pensando ciò che pensava anche lei: che la nuova ala del centro commerciale era proprio quel tipo di posto che Ali DiLaurentis avrebbe adorato. Hanna pensava spesso a tutto ciò che Ali si era persa: il falò di ritorno a casa dell'anno precedente, la deliziosa festa data da Lauren Ryan per i suoi sedici anni nella casa di famiglia, il ritorno delle scarpe a punta tonda, le ultime custodie per iPod nano firmate Chanel. e l'iPod nano, in generale. La cosa più grande che si era persa Ali? Ma la trasformazione di Hanna, naturalmente. ed era una tale delusione. A volte, piroettando davanti al suo specchio, Hanna immaginava che Ali fosse seduta dietro di lei, intenta a criticare i suoi completini, come faceva di solito. Hanna si era persa davvero tanti anni da sfigata cicciona e appiccicosa, ma le cose erano così diverse ormai. Assieme a Mona procedette veloce verso Tiffany; era pieno di vetrine e luci bianche che facevano brillare ancora di più gli splendidi diamanti. Mona iniziò la caccia tra le teche e poi alzò lo sguardo verso Hanna. «Che ne dici di una collana?» «E di un braccialetto con pendenti?», sussurrò Hanna. «Perfetto». Si avvicinarono alla custodia e osservarono il braccialetto in argento e il classico ciondolo a forma di cuore. «È davvero carino», sospirò Mona. «Le interessa?», chiese un'elegante commessa. «Oh, non saprei», rispose Hanna. «Le starà sicuramente benissimo». La donna aprì la teca e infilò la mano per afferrare il braccialetto. «È in tutte le riviste». Hanna dette una gomitata a Mona. «Provalo». Mona porse il polso. «È davvero bello». La commessa si voltò verso un altro cliente. Subito, Mona fece scivolare il braccialetto dal polso alla tasca. Semplicemente. Hanna strinse le labbra e fece segno a un'altra commessa, una ragazza dai capelli biondi e un bel rossetto color corallo. «Potrei provare quel braccialetto, quello con il pendente rotondo?» «Certo!», rispose la ragazza, che aprì la vetrinetta. «Anch'io ne ho uno identico». «Potrei vedere anche gli orecchini abbinati?», chiese Hanna indicandoli. «Certo». Mona intanto si era spostata verso il reparto diamanti. Hanna teneva il braccialetto e gli orecchini in mano; il completo costava 350 dollari. Improvvisamente, uno sciame di ragazze giapponesi si accalcò davanti al bancone, indicando in massa un altro braccialetto con pendente rotondo nella vetrinetta. Hanna scrutò il soffitto per individuare eventuali telecamere e metal detector alle porte. «Hanna, vieni a vedere il Lucida!», chiamò Mona. Hanna si fermò un attimo. Il tempo sembrò rallentare. Fece scivolare il braccialetto sul polso e poi sotto la manica, e infilò gli orecchini nel portamonete di Louis Vuitton con monogramma e ciliegia. Il cuore iniziò a batterle forte. Quella era la parte migliore dell'intera situazione: la sensazione prima che tutto avvenisse, che la faceva sentire eccitata e viva. Mona le sventolò davanti agli occhi un solitario. «Non mi sta benissimo?» «Andiamo». Hanna l'afferrò per il braccio. «Andiamo da Coach». «Non vuoi provare nulla?», chiese Mona imbronciata. Temporeggiava sempre quando sapeva che Hanna aveva finito il suo lavoretto. «No.», disse Hanna. «Le borsette ci stanno chiamando». Sentì la catena d'argento del braccialetto premerle dolcemente sul braccio. Doveva uscire mentre le giapponesi erano ancora affaccendate al bancone. La commessa non aveva neanche rivolto di nuovo lo sguardo verso di lei. «D'accordo», disse Mona con fare drammatico. Porse l'anello, tenendolo dal diamante - cosa che persino Hanna sapeva non si doveva mai fare - alla commessa. «Questi diamanti sono troppo piccoli», disse. «Mi dispiace». «Ne abbiamo altri», abbozzò la commessa. «Andiamo», ripetè Hanna, afferrando Mona per il braccio. Il cuore le batteva all'impazzata mentre si allontanavano da Tiffany. Il ciondolo le tamburellava sul braccio, ma tenne la manica abbassata. Hanna era ormai un'abile professionista in materia; prima erano state le caramelle sfuse da Wawa, poi i CD da Tower, infine le magliette da Ralph Lauren, e ogni volta si sentiva sempre più forte e determinata. Chiuse gli occhi e attraversò la soglia, tenendosi forte per l'eventuale scattare degli allarmi. Ma non successe niente. Erano fuori. Mona le strinse la mano. «Ne hai preso uno anche tu?» «Certo», rispose, mostrandole rapidamente il braccialetto al polso. «E questi». Aprì il portamonete e mostrò a Mona gli orecchini. «Merda». Mona sgranò gli occhi. Hanna sorrise. C'era qualcosa di esaltante nel superare la propria migliore amica. Per scaramanzia, sgattaiolò via da Tiffany e tese l'orecchio per sentire se qualcuno le stesse inseguendo. L'unico rumore era il gorgogliare della fontana e una versione diOops! I did it againrielaborata da Muzak. Già, l'ho fatto di nuovo, pensò Hanna. 4 SPENCER PERDE ANCORA «Tesoro, non dovresti mangiare le cozze con le mani, non è educato». Dall'altro lato del tavolo, Spencer Hastings guardò sua madre Veronica passarsi nervosamente le mani tra i capelli biondi con colpi di sole perfetti. «Mi spiace», disse, afferrando la ridicola forchettina da molluschi. «Non penso proprio che Melissa debba vivere con tutta quella polvere in casa», disse la signora Hastings rivolta al marito, ignorando le scuse di Spencer. Peter Hastings roteò il collo. Quando non si occupava di diritto, pedalava furiosamente per tutte le stradine secondarie di Rosewood con addosso magliette aderenti e colorate e pantaloncini da ciclista, imprecando contro le macchine in corsa. Tutto quel pedalare gli procurava un'infiammazione cronica alle spalle. «Tutto quel martellio ! Non credo proprio che riuscirà a studiare», proseguì la signora Hastings. Spencer e i suoi genitori erano seduti da Moshulu, un ristorante a bordo di un clipper nel porto di Philadelphia, aspettando Melissa per pranzo. Si trattava di un grande pranzo di festa, perché Melissa si era appena laureata all'University of Pennsylvania con un anno di anticipo ed era entrata alla Wharton School of Business. La casa di città a Philadelphia era in fase di ristrutturazione, come regalo dei suoi genitori. Dopo soli due giorni, Spencer avrebbe riniziato la scuola, arrendendosi a un programma stracolmo di materie: cinque corsi base, corso di formazione direzionale, organizzazione delle iniziative di beneficenza, pubblicazione dell'annuario scolastico, prove teatrali, allenamenti di hockey; oltre a tutto ciò, avrebbe anche dovuto inviare al più presto le domande per il programma estivo, visto che tutti quanti sapevano che il miglior modo per entrare in una Ivy1 era quello di far parte di uno dei loro campi estivi precollege. C'era però anche un'altra cosa a cui Spencer avrebbe dovuto pensare quell'anno: trasferirsi nel fienile adattato ad abitazione, che si trovava al confine della proprietà di famiglia. Secondo i suoi genitori, era il modo perfetto per prepararsi al college; bastava pensare a come aveva funzionato bene per Melissa! Bleah... In questo caso, però, Spencer era felice di seguire le orme di sua sorella, visto che l'avrebbero condotta nella tranquilla dépendance inondata di luce in cui avrebbe potuto trovare riparo dai suoi genitori e dai loro fastidiosi labrador. Le due sorelle vivevano da sempre una silenziosa Le due sorelle vivevano da sempre una silenziosa rivalità, in cui Spencer risultava sempre perdente: alle elementari, Spencer aveva vinto il Presidential Physical Fitness Award quattro volte, Melissa cinque; Spencer era arrivata seconda alla gara di spelling di geografia in seconda media, Melissa prima; Spencer faceva parte dello staff redazionale dell'annuario e di tutte le recite scolastiche, e quest'anno avrebbe seguito cinque corsi superiori; Melissa aveva fatto esattamente le stesse cose durante lo stesso anno, oltre a lavorare al maneggio di sua madre e ad allenarsi per la maratona di Philadelphia per la ricerca sulla leucemia. Non importava quanto fosse alta la media di Spencer, né quante materie ex L'IvyLeague è costituita dalle otto più prestigiose università degli Stati Uniti: la Brown University, la Columbia, la Cornell, la Dartmouth College, la Harvard, la Princeton, la University of Pennsylvania e la Yale(n.d.t). tracurriculari riuscisse a inserire nel proprio programma; non avrebbe comunque raggiunto il livello di Melissa. Spencer afferrò con le dita un'altra cozza e la succhiò rumorosamente. Suo padre adorava quel ristorante dalle pareti di legno, spessi tappeti orientali e l'inebriante odore di burro, vino rosso e aria salmastra. Sedersi tra alberi e vele dava la sensazione che bastasse un salto per passare sulla banchina del porto. Spencer guardò fuori, oltre il fiume Schuylkill, verso la cupola tondeggiante dell'acquario di Camden, New Jersey. Un'enorme nave decorata a festa con luci di Natale li superò. Qualcuno lanciò un fuoco d'artificio giallo sul ponte principale; su quella nave si stavano sicuramente divertendo molto di più che sulla loro. «Non mi ricordo come si chiama l'amico di Melissa.», bisbigliò sua madre. «Credo Wren», rispose Spencer, aggiungendo mentalmente,come scricciolo.2 «Mi ha detto che sta studiando per diventare medico», disse la madre in estasi, «all'University of Pennsylvania». «Ovviamente», aggiunse piano Spencer con tono canzonatorio. Morse con forza un pezzo di guscio, facendo un'espressione di dolore. Melissa avrebbe portato a pranzo quello che da due mesi era il suo ragazzo. La famiglia non l'aveva ancora conosciuto (era stato via per andare a trovare la propria, o qualcosa del genere), ma tanto i ragazzi di Melissa erano tutti uguali, da manuale: carini, ben educati, giocatori di golf. Melissa non era una tipa fantasiosa, ed evidentemente cercava la stessa prevedibilità nei suoi ragazzi. «Mamma!». Si udì una voce familiare urlare alle loro spalle. Melissa piombò dall'altro lato del tavolo, dando a entrambi i genitori un enorme bacio. Il suo aspetto non era cambiato: aveva un caschetto biondo cenere, un velo di fondotinta sul 2 Il nome comunewrenha il significato di "scricciolo", "foramacchie"(n.d.t). viso e indossava uno sciatto vestito giallo dalla scollatura squadrata, un cardigan rosa con un bottone a forma di perla e un paio di scarpe quasi carine con il tacco a rocchetto. «Tesoro!», esclamò sua madre. «Mamma, papà, lui è Wren». Melissa strattonò qualcuno vicino a lei. Spencer cercò di non spalancare la bocca dallo stupore. Non era uno scricciolo pelle e ossa, né tantomeno un ragazzo da manuale. Alto e allampanato, indossava una camicia Thomas Pink dal taglio perfetto. Aveva lunghi capelli neri, trascurati e spettinati, una pelle splendida, zigomi alti e occhi a mandorla. Wren strinse la mano ai suoi genitori e si sedette al tavolo. Melissa chiese alla madre a quale indirizzo l'idraulico avrebbe dovuto inviare la fattura, mentre Spencer aspettava di essere presentata; nel frattempo, Wren fingeva di essere davvero interessato a un enorme calice da vino. «Io sono Spencer», disse infine, chiedendosi se l'alito non le odorasse di cozze, «l'altra figlia». Spencer fece un cenno con la testa dall'altra parte del tavolo. «Quella che tengono in cantina». «Oh», ridacchiò Wren, «figo». Era forse un accento inglese, quello che Spencer aveva sentito? «Non ti sembra strano che non ti abbiano chiesto niente di te?», disse indicando i genitori, che adesso stavano parlando di fornitori e del legno migliore da usare per il pavimento del soggiorno. Wren alzò le spalle. «Abbastanza», bisbigliò, strizzando l'occhio. Improvvisamente Melissa gli afferrò la mano. «Oh, vedo che avete già fatto conoscenza», disse in tono amorevole. «Già». Wren sorrise. «Non mi avevi detto di avere una sorella». Figuriamoci se l'aveva fatto. «Dunque, Melissa», iniziò la signora Hastings. «Papà e io stavamo discutendo di dove ti potresti sistemare durante i lavori, e mi è venuta un'idea: perché non torni a Rosewood e vieni a stare da noi per qualche mese? Potresti fare la pendolare tra qui e l'università, sai che non è poi così difficile». Melissa arricciò il naso. Ti prego, di' di no, di' di no, pensò Spencer. «Be'». Melissa si aggiustò la bretellina dell'abito giallo. Più Spencer l'osservava, più il colore sembrava dare a Melissa un aspetto da malata. Melissa si girò verso Wren. «Il fatto è che. Wren e io abbiamo intenzione di trasferirci a Philadelphia... insieme». «Oh!» Sua madre sorrise a entrambi. «Be'. suppongo che anche Wren potrebbe stare con noi. che cosa ne pensi, Peter?». Spencer dovette stringersi forte il petto per impedire che il cuore le schizzasse fuori. Volevano andare a vivere insieme? Sua sorella aveva davvero le palle. Poteva solo immaginare cosa sarebbe successo se fosse stata lei a lanciare una bomba del genere: sua madre l'avrebbe letteralmente relegata in cantina, o forse nella stalla. Avrebbe potuto metter su bottega accanto alla capra che faceva compagnia ai cavalli. «Be', penso che non ci sia alcun problema», disse il padre. Incredibile! «Io di sicuro non vi disturberò. Mamma lavora nella stalla tutto il giorno e Spencer naturalmente sarà a scuola». «Vai a scuola?», chiese Wren. «Dove?» «Va al liceo», interruppe Melissa, osservando a lungo Spencer come a volerla misurare, dall'attillato abitino sportivo Lacoste color écru ai lunghi, mossi capelli neri, fino agli orecchini con solitari da due carati. «Lo stesso liceo che ho frequentato io. Ho dimenticato di chiedertelo Spencer, sei rappresentante di classe quest'anno?» «Vice», rispose Spencer a bassa voce. Era assolutamente impossibile che Melissa non lo sapesse. «Oh, e non sei incredibilmente contenta?», chiese Melissa. «No», rispose Spencer laconica. Si era candidata in primavera, ma era stata battuta e aveva dunque dovuto accettare il ruolo di vice. Odiava perdere, in qualunque ambito. Melissa scosse la testa. «Non capisci, Spencer, avrebbe significato talmentetaaaaaantolavoro in più. Quando ero rappresentante non avevo praticamente più tempo per altro!». «Hai già abbastanza attività, Spencer», commentò a bassa voce la signora Hastings. «C'è l'annuario, e tutte quelle partite di hockey». «Oltretutto, Spencer, potrai sempre diventare rappresentante, se quello attuale, be'. muore». Melissa le fece l'occhiolino, come se si fossero intese sulla battuta, ma non era così. Melissa si girò verso i genitori. «Mamma, ho appena avuto un'idea migliore. Che ne pensi se io e Wren ci sistemassimo nel fienile? Così non vi staremmo fra i piedi». Spencer si sentì come se qualcuno l'avesse appena colpita all'altezza delle ovaie.Il fienile?La signora Hastings si appoggiò il dito dalla frenchmanicure perfetta sulla bocca impeccabilmente disegnata con il rossetto. «Hmm», iniziò, poi si voltò con sguardo indagatore verso Spencer. «Potresti aspettare alcuni mesi, tesoro? Il fienile sarebbe tutto tuo». «Oh!». Melissa posò la forchetta. «Non sapevo che ti stessi trasferendo lì, Spencer! Non voglio causare problemi». «È tutto a posto», interruppe Spencer, afferrando il bicchiere e buttando giù un bel sorso d'acqua. Era decisa a non lasciare trasparire alcuna rabbia davanti ai suoi genitori e a Melissa la Perfetta. «Posso aspettare». «Davvero?», chiese Melissa. «È così carino da parte tua!». La madre posò la fredda, magra mano su quella di Spencer e sorrise. «Sapevo che avresti capito». «Potete scusarmi?». Spencer spostò la sedia dal tavolo e si alzò. «Torno subito». Attraversò il pavimento in legno della barca e le scale ricoperte di moquette, fino all'entrata principale. Aveva bisogno di raggiungere la terraferma. Dal molo del porto, il cielo di Philadelphia sembrava brillare. Spencer si sedette su una panchina e praticò alcuni respiri di fuoco yoga, poi tirò fuori il borsellino e si mise a sistemare i soldi. Girò tutti i pezzi da uno, da cinque e da venti nella stessa direzione e li sistemò in ordine alfabetico, secondo la lunga combinazione di lettere e numeri stampata in verde agli angoli. Questa pratica la faceva sempre sentire meglio. Una volta finito, si voltò verso il ponte del ristorante; i suoi genitori le davano le spalle, per cui non potevano vederla. Rovistò nella borsa marrone firmata Hogan alla ricerca del pacchetto di Marlboro di emergenza, e si accese una sigaretta. Aspirò tiro dopo tiro. Soffiarle il fienile era già abbastanza crudele, ma farlo in un modo tanto educato era in perfetto stile Melissa. Melissa sembrava una ragazza carina, ma in realtà era orrenda e nessuno era mai riuscito a capirlo, nessuno tranne Spencer. Era riuscita a vendicarsi di Melissa soltanto una volta, alcune settimane prima della fine della seconda media. Una sera, Melissa e il suo ragazzo di allora, Ian Thomas, stavano studiando per gli esami finali. Quando Ian se n'era andato, Spencer l'aveva seguito fuori fino al suo SUV, parcheggiato dietro la fila di pini del giardino di casa. Non aveva molta intenzione di flirtare (Ian stava ormai perdendo tutto il suo carisma, a forza di stare con la sua sorellina dalle stucchevoli ballerine color vaniglia), per cui gli aveva dato un bacetto di saluto sulla guancia. Quando lui, però, l'aveva spinta contro lo sportello del lato passeggero, lei non aveva cercato di scappare. Avevano smesso di baciarsi soltanto quando era scattato l'allarme della macchina. Quando Spencer lo aveva raccontato a Alison, Ali le aveva detto che era stato abbastanza sciocco da parte sua, e che avrebbe dovuto dirlo a Melissa. Spencer aveva sospettato che Ali fosse scocciata perché stavano facendo a gara a chi, in tutto l'anno, fosse andata con più ragazzi grandi, e baciare Ian avrebbe fatto schizzare Spencer al primo posto. Inspirò con forza. Odiava ricordare quel periodo della sua vita. Tuttavia, la vecchia casa dei DiLaurentis era proprio accanto alla sua, e una delle finestre della camera di Ali dava proprio su una di quelle di Spencer; era come se Ali la perseguitasse ventiquattr'ore su ventiquattro. Bastava che Spencer guardasse fuori dalla finestra, ed ecco apparire la Ali di seconda media, intenta ad appendere la sua divisa da hockey proprio dove Spencer poteva vederla o a gironzolare per la stanza chiacchierando al cellulare. Spencer preferiva pensare di essere cambiata molto da allora. Erano state tutte così crudeli, e Alison in particolare, manon solo Alison. E il ricordo peggiore di tutti era quell'affare. l'Affare Jenna. Pensarci faceva sentire Spencer tanto male da farle desiderare di poterlo cancellare dalla mente come in quel film,Se mi lasci ti cancello. «Non dovresti fumare, sai». Spencer si girò e vide Wren in piedi accanto a lei; lo guardò con aria sorpresa. «Che cosa ci fai qui?» «Stavano.». Aprì e chiuse le mani l'una sull'altra, come bocche intente a chiacchierare. «E poi mi è arrivata una email». Tirò fuori un BlackBerry. «Oh», disse Spencer. «Viene dall'ospedale? Ho sentito dire che sei un medico molto importante». «Be', no, veramente sono soltanto uno studente al primo anno di medicina», rispose Wren, poi indicò la sigaretta. «Ti spiace se faccio un tiro?». Spencer storse gli angoli della bocca. «Mi avevi detto che non fumavi», disse, passandogliela. «Sì, be'». Wren inspirò profondamente. «Tutto bene?» «Più o meno». Spencer non aveva voglia di confidarsi con il nuovo convivente di sua sorella che le aveva appena soffiato il fienile. «Allora, da dove vieni? » «Londra nord. Mio padre però è coreano; si è trasferito in Inghilterra per frequentare Oxford e ha finito per restarci. Me lo chiedono tutti». «Oh, io non l'avrei fatto», rispose Spencer, sebbene effettivamente ci avesse pensato. «Come vi siete conosciuti, tu e mia sorella?» «Da Starbucks», rispose. «Era in fila davanti a me». «Oh», disse Spencer. Che circostanza incredibilmente stupida. «Stava ordinando un caffè macchiato», aggiunse Wren, dando calci al parapetto di pietra. «Carino». Spencer nel frattempo stava giocherellando con il pacchetto di sigarette. «È successo qualche mese fa». Fece un altro tiro profondo, con la mano leggermente tremolante e lo sguardo che guizzava da un punto all'altro. «Mi piaceva davvero prima che ricevesse questa casa in città». «Giusto», disse Spencer, realizzando che sembrava un po' nervoso. Forse era in tensione per l'incontro con i genitori. O forse era l'idea di andare a convivere con Melissa che lo turbava? Se Spencer fosse stata un maschio e avesse dovuto vivere con lei, piuttosto si sarebbe gettata nello Schuylkill dalla piattaforma di Moshulu. Wren le rese la sigaretta. «Spero non sia un problema farmi restare a casa vostra». «Uhm, già. Affatto». Wren si leccò le labbra. «Forse potrei aiutarti a smettere di fumare». Spencer s'irrigidì. «Non sono dipendente». «No, certo», rispose Wren, sorridendo. Spencer scosse la testa. «No, non lascerei mai che accadesse». Ed era vero. Spencer odiava perdere il controllo. Wren sorrise. «Be', sembra proprio che tu sappia ciò che stai facendo». «Infatti». «Sei sempre così?», le chiese Wren, con gli occhi che gli brillavano. C'era qualcosa nel modo leggero e canzonatorio in cui lo disse che fece titubare Spencer. Stavano forse. flirtando? Si guardarono negli occhi per qualche secondo, fino a quando un folto gruppo di persone non scese in strada dalla barca. Spencer abbassò lo sguardo. «Che ne dici, torniamo su?», chiese Wren. Spencer esitò e guardò la strada piena di taxi pronti a portarla ovunque avesse desiderato. Avrebbe voluto chiedere a Wren di salire su uno di quei taxi con lei per andare a vedere una partita di baseball al Citizens Bank Park, dove avrebbero potuto mangiare hot dog, inveire contro i giocatori e contare gli strikeout messi a segno dal primo lanciatore del Philadelphia. Avrebbero potuto usare i posti in tribuna di suo padre (che, in ogni caso, rimanevano perlopiù inutilizzati) e Wren avrebbe sicuramente accettato, poteva scommetterci. Perché tornare dentro, dove la sua famiglia avrebbe semplicemente continuato a ignorarli? Un taxi si fermò al semaforo, a pochi passi da loro. Spencer lo guardò, poi si voltò verso Wren. Ma no, sarebbe stato sbagliato. E poi, chi avrebbe ricoperto il ruolo di vice rappresentante, se lui fosse morto e lei fosse stata uccisa da sua sorella? «Dopo di te», disse Spencer, tenendogli la porta aperta per tornare a bordo. 1L’Ivy League è costituita dalle otto più prestigiose università degli Stati Uniti: la Brown University, la Columbia, la Cornell, la Dartmouth College, la Harvard, la Princeton, la University of Pennsylvania e la Yale (N.d.T.). 2Il nome comune wren ha il significato di “scricciolo”, “foramacchie” (N.d.T.). 5 IL PROFESSOR FITZ «Ehi, Finlandia!». Era martedì, primo giorno di scuola, e Aria si stava dirigendo con passo veloce verso la classe di letteratura inglese per seguire la prima ora di lezione. Si voltò e vide Noel Kahn, in uniforme e cravatta della Rosewood Day, avanzare lentamente verso di lei. «Ehi», fece cenno Aria con la testa, senza fermarsi. « L'altro giorno sei scappata via», proseguì Noel, scivolandole accanto. «Ti aspettavi che restassi a guardare gli allenamenti?». Aria lo scrutò con la coda dell'occhio; era rosso in viso. «Già. Ce le siamo date. Ho segnato tre goal». «Sono felice per te», disse Aria con tono impassibile. Avrebbe forse dovuto rimanere impressionata? Proseguì lungo il corridoio della Rosewood, che sfortunatamente aveva ricordato troppe volte quando era in Islanda. Sopra di lei si snodava lo stesso soffitto bianco a volte, mentre in basso ritrovò lo stesso accogliente pavimento in legno da casa di campagna. Ai lati erano appese le solite foto incorniciate di alunni con lo sguardo tronfio, mentre a sinistra si estendevano lunghe file di armadietti di metallo ammaccato. Persino la stessa canzone,l'Ouverture 1812,risuonava dagli altoparlanti: alla Rosewood si diffondeva musica classica perché ritenuta "mentalmente stimolante". Accanto a lei passavano le stesse identiche persone che conosceva da anni. e tutte quante la fissavano. Aria chinò la testa. L'ultima volta in cui tutti l'avevano vista era stato nel gruppo di ragazze distrutte dal dolore per la scomparsa della loro migliore amica. A quei tempi, ovunque andasse, tutti parlavano di lei. Poi, si era trasferita in Islanda. Adesso, era come se non se ne fosse mai andata, e sembrava quasi che Ali fosse ancora lì. Ad Aria si fermò il cuore non appena vide una coda bionda sparire in un lampo dietro l'angolo, diretta verso la palestra; quando girò l'angolo oltre l'aula di ceramica, dove incontrava sempre Ali tra un'ora e l'altra per chiacchierare, le sembrò quasi di udirla urlare: «Ehi, aspetta!». Si premette la mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre. «Allora, qual è la tua prima lezione?», chiese Noel, che teneva il passo. Aria lo guardò sorpresa, poi consultò l'orario. «Letteratura». «Anch'io. Il professor Fitz?» «Sì», mormorò lei. «Com'è?» «Non lo so. È nuovo. Ho sentito dire che ha «Com'è?» «Non lo so. È nuovo. Ho sentito dire che ha vinto una Fulbright, comunque». Aria lo osservò con sospetto. Da quando Noel Kahn s'interessava delle credenziali di un insegnante? Girò l'angolo e vide una ragazza in piedi davanti alla porta dell'aula di inglese: aveva un aspetto familiare ed estraneo al contempo. Fisico da modella, lunghi capelli rossicci, indossava una gonna blu a scacchi della Rosewood, un paio di zeppe viola e un braccialetto con pendente di Tiffany. Il cuore iniziò a batterle forte. Si era sempre preoccupata di come avrebbe potuto reagire nel rivedere le sue vecchie amiche, ed ecco apparire Hanna. Ma cosa le era successo? «Ehi», disse Aria con un filo di voce. Hanna si girò e la squadrò dall'alto in basso, dai lunghi capelli spettinati alla maglietta bianca della Rosewood, agli spessi bracciali di Bachelite, fino agli stivaletti marroni coi lacci, ormai consumati. «Ommioddio!», esclamò Hanna. Almeno, la voce squillante era rimasta la stessa. «Ma come. dov'eri finita? Cecoslovacchia?» «Uhm, sì», rispose Aria. C'era andata abbastanza vicina. «Figo!». Hanna le rivolse un sorriso tirato. «Kirsten ha l'aria di una che è appena tornata da South Beach», interruppe una ragazza vicino a Hanna. Aria chinò la testa di lato, nel tentativo di riconoscerla. Mona Vanderwaal? L'ultima volta che l'aveva vista, Mona stava guidando il suo scooter con in testa un miliardo di treccine da ragazzina. Adesso sembrava persino più attraente di Hanna. «Perché, non l'ha fatto?», annuì Hanna. Poi alzò le spalle e rivolgendosi ad Aria e Noel, che era sempre in piedi lì accanto, disse: «Mi spiace ragazzi, potete scusarci?». Aria entrò in classe e occupò il primo banco libero. Abbassò la testa e fece una serie di respiri profondi, ansiosi. «L'inferno sono gli altri», recitò. Era la sua citazione preferita del filosofo francese Jean-Paul Sartre, un mantra perfetto per Rosewood. Si dondolò avanti e indietro per qualche secondo, come sotto l'effetto di una droga. L'unica cosa che la faceva sentire meglio era il ricordo di Ezra, il ragazzo che aveva incontrato da Snookers. Al bar, Ezra l'aveva seguita in bagno, le aveva afferrato la faccia e l'aveva baciata. Le loro bocche combaciavano perfettamente, non avevano battuto i denti neanche una volta. Le sue mani l'avevano accarezzata lungo la schiena, la pancia, le gambe. Si era formato un talelegametra di loro. Be', ok, alcuni avrebbero potuto dire che era stato solo. un legame di lingue. ma Aria sapeva che si trattava di qualcosa di più. La notte precedente, si era sentita così pervasa dal pensiero di quanto era successo da dedicare un haiku a Ezra per esprimere i suoi sentimenti; gli haiku erano il suo genere preferito di poesia. Poi, soddisfatta di come era venuto, l'aveva digitato sul suo cellulare e spedito al numero che Ezra le aveva lasciato. Aria si lasciò sfuggire un sospiro sofferto e si guardò attorno. La classe odorava di libri e di detersivo per pavimenti. Le enormi finestre, rivolte a sud, davano sul giardino e, oltre, sulle verdi e dolci colline. Alcuni alberi avevano iniziato a ingiallirsi. Accanto alla lavagna era appeso un grande cartellone con diverse citazione shakespeariane, e un adesivo con su scritto "La gente meschina puzza", che qualcuno aveva attaccato al muro. Sembrava che il bidello avesse cercato di staccarlo, per poi rinunciare a metà dell'opera. L'avere spedito quel messaggio a Ezra alle due e mezza del mattino sarebbe forse sembrato un gesto disperato? Ezra ancora non aveva risposto. Aria cercò a tentoni il cellulare in borsa e lo tirò fuori. Sullo schermo lesse " 1 nuovo messaggio". Lo stomaco sembrò precipitarle e risalire, facendola sentire eccitata e nervosa al tempo stesso. «Mi scusi, non può usare il cellulare in classe». Aria coprì il cellulare con le mani e alzò lo sguardo. Chiunque l'avesse detto (il nuovo insegnante, almeno così sembrava) stava in piedi spalle alla classe, intento a scrivere alla lavagna. "Professor Fitz" era tutto ciò che aveva scritto fino a quel momento. Teneva in mano un blocco con il logo della Rosewood in copertina. Da dietro, sembrava giovane. Alcune delle altre ragazze della classe gli gettarono un'occhiata di apprezzamento mentre si sistemavano ai loro posti. La nuova, favolosa Hanna si permise persino di fischiare. «So di essere quello nuovo», proseguì, scrivendo "Letteratura inglese" sotto il suo nome, «ma ho ricevuto questo comunicato dalla segreteria. Roba del tipo "Niente cellulari in classe"». L'opuscolo gli cadde di mano. Ad Aria si seccò immediatamente la bocca. Di fronte alla classe c'era Ezra, il ragazzo del bar. Ezra, il destinatario dell'haiku. Ilsuo Ezra, dall'aspetto allampanato e adorabile in giacca e cravatta della Rosewood, con i capelli ordinati, i bottoni allacciati correttamente e un registro rivestito di pelle sotto il braccio sinistro, in piedi davanti alla lavagna a scrivere... "Professor Fitz, Letteratura inglese". Ezra la fissò, impallidendo. «Merda». L'intera classe si girò per capire a chi si riferisse. Aria non voleva guardarli, per cui si chinò per leggere il testo del messaggio. Aria: sorpresa! Mi chiedo che cosa direbbe il tuo maialino di peluche di tutto questo... A Merda, davvero. 6 ANCHE EMILY È FRANCESE! Martedì pomeriggio, dopo il suono della campanella, Emily era in piedi di fronte al suo armadietto, su cui erano sempre attaccati i vecchi adesivi dell'anno precedente - USA Swimming, Liv Tyler truccata da elfa Arwen e un magnete con su scritto "farfallina nuda". Il suo ragazzo, Ben, le gironzolava intorno. «Vuoi fare un salto da Wawa?», le chiese. La giacca della squadra di nuoto della Rosewood gli penzolava lungo il corpo dinoccolato e muscoloso, mentre i capelli biondi erano un po' spettinati. «No, sono a posto», rispose Emily. Dato che gli allenamenti iniziavano alle tre e mezza dopo la scuola, i nuotatori in genere rimanevano alla Rosewood e spedivano qualcuno da Wawa a prendere panini imbottiti, tè freddo, barrette di riso soffiato o noccioline caramellate prima di affrontare un milione di vasche. Un gruppetto di ragazzi si fermò per salutare Ben, prima di dirigersi verso il parcheggio. Spencer Hastings, che l'anno precedente frequentava lo stesso corso di storia di Ben, fece un cenno con la mano; Emily rispose con un cenno, prima di realizzare che Spencer si stava rivolgendo a Ben, non a lei. Era difficile credere che, dopo tutto quello che avevano passato insieme e tutti i segreti che avevano condiviso, adesso si comportassero come estranee. Dopo che tutti se ne furono andati, Ben si girò di nuovo verso di lei e aggrottò le sopracciglia. «Ti sei messa la giacca. Non ti alleni oggi?» «Uhm». Emily chiuse l'armadietto e inserì la combinazione. «Sai quella ragazza che ho portato in giro oggi? La riaccompagno a casa, visto che è il suo primo giorno» Ben fece un sorrisetto compiaciuto. «Be', ma che dolce che sei. I genitori degli studenti nuovi di solito pagano per fargli fare un giro, ma tu lo fai gratis». . «Figurati!». Emily sorrise, un po' a disagio. «Sarà una camminata di dieci minuti appena». Ben la guardò, annuendo per un po'. «Che c'è? Sto solo cercando di essere gentile». «È carino», rispose lui, sorridendo. Distolse gli occhi da lei per posarli su Casey Kirschner, il capitano della squadra maschile universitaria di wrestling. Maya spuntò un minuto dopo che Ben era sceso dalle scale laterali per raggiungere il parcheggio degli studenti; indossava un giubbotto di jeans bianco sopra la maglietta della Rosewood e infradito Oakley, le unghie dei piedi senza smalto. «Ehi», disse. «Ehi». Emily cercò di apparire allegra, ma in realtà non si sentiva a suo agio. Forse avrebbe dovuto semplicemente andare agli allenamenti con Ben. Era davvero così strambo accompagnare Maya a casa e tornare indietro? «Pronta?», chiese Maya. Le ragazze attraversarono il campus, che di fatto era costituito da un pugno di edifici vecchissimi che si snodavano lungo una tortuosa stradina secondaria di Rosewood. C'era persino una torre dell'orologio in stile gotico che batteva le ore. Per prima cosa, Emily le aveva mostrato tutte le dotazioni standard di una scuola privata, facendole vedere poi le cose carine della Rosewood Day che di solito avresti dovuto scoprire da solo, come la pericolosa toilette delle ragazze nei bagni del primo piano che talvolta schizzava tipo geyser, il posto segreto sulla collina dove i ragazzi andavano quando saltavano la scuola (non che Emily l'avesse mai fatto) e l'unica macchinetta della Rosewood che distribuiva Coca alla vaniglia, la sua preferita. Avevano persino fatto una battuta sulla castigata modella raffigurata con il sedere scoperto sui poster antifumo appesi fuori dall'infermeria. Era piacevole condividere di nuovo una battuta con qualcuno. Mentre tagliavano attraverso un campo di mais abbandonato dirette verso il quartiere di Maya, Emily esaminò ogni singolo dettaglio della sua faccia, dal naso all'insù alla pelle color cioccolato, al modo in cui la collana non riusciva a adattarsi al suo collo. Le loro mani iniziarono a battere l'una con l'altra quando allargavano le braccia. «Qui è tutto così diverso», disse Maya, annusando l'aria. «Sa di detersivo per la casa!». Si tolse il giubbotto di jeans e si tirò su le maniche della camicia. Emily si toccò i capelli, desiderando di averli scuri e ondulati come quelli di Maya, invece che danneggiati dal cloro e di un biondo rossiccio tendente al verdastro. Emily prese inoltre un po' più coscienza del proprio corpo di quanta ne avesse di solito; un corpo forte e muscoloso, non più esile come in passato. Di solito non si sentiva tanto consapevole di se stessa, neanche quando era in costume, ossia praticamente nuda. «Tutti quanti hanno qualcosa da cui sono davvero presi», proseguì Maya, «tipo quella ragazza, Sarah, nel mio corso di fisica. Sta cercando di mettere su un gruppo e mi ha chiesto di partecipare!». «Davvero? Che cosa suoni?» «La chitarra», rispose Maya. «Mi ha insegnato mio padre. Veramente mio fratello suona molto meglio di me, ma comunque.». «Wow», disse Emily, «fantastico». «Ommioddio!». Maya le afferrò il braccio; Emily ebbe un sussulto, poi si calmò. «Dovresti entrare nel gruppo anche tu! Sai come sarebbe divertente? Sarah dice che faremo le prove tre volte alla settimana, dopo la scuola. Lei suona il basso». «Ma io so suonare soltanto il flauto», rispose Emily, rendendosi conto di avere usato lo stesso tono di Ih-Oh inWinnie the Pooh. «Il flauto sarebbe fantastico!». Maya batté le mani. «E la batteria!». Emily fece un sospiro. «Non posso davvero. Ho gli allenamenti di nuoto praticamente tutti i giorni, dopo la scuola». «Hmm», disse Maya. «Non potresti saltare un giorno? Scommetto che saresti bravissima alla batteria». «I miei genitori mi ucciderebbero». Emily inclinò la testa per osservare il vecchio ponte di ferro della ferrovia che correva sopra di loro. Il ponte era ormai in disuso, ed era usato solo dai ragazzi che ci andavano per ubriacarsi senza che i genitori lo sapessero. «Perché?», chiese Maya. «Dov'è il problema?». Emily fece una pausa. Che cosa avrebbe dovuto dire? Che i suoi genitori si aspettavano che continuasse a nuotare perché i tecnici sportivi di Stanford tenevano già sott'occhio i progressi di Carolyn? Che suo fratello maggiore Jake e sua sorella maggiore Beth adesso frequentavano entrambi l'University of Arizona, prendendo parte a tutte le gare di nuoto? Che qualsiasi cosa di minimamente inferiore a una borsa di studio per il nuoto per un qualsiasi istituto di eccellenza sarebbe stato considerato un fallimento in famiglia? Maya non aveva paura di farsi le canne quando i suoi genitori erano a fare la spesa. I genitori di Emily, in confronto, sembravano dei vecchi provinciali conservatori, intenzionati a tenere sotto controllo l'intera East Coast. Ed era vero, sebbene fossero tranquilli. «Questa è una scorciatoia per casa». Emily indicò oltre la strada, verso l'ampio giardino dell'abitazione coloniale attraverso il quale lei e le sue amiche tagliavano durante l'inverno per arrivare a casa prima di Ali. Passarono per il prato, evitando un innaffiatore in funzione per le siepi di ortensie. Non appena riuscirono a oltrepassare i rami pungenti degli alberi e arrivarono nel cortile posteriore di Maya, Emily si fermò di colpo. Un lieve rumore gutturale le uscì dalla gola. Erano secoli che non metteva piede in quel posto - il vecchio cortile di Ali. Lì, al lato opposto, si trovava il piano di tek su cui lei e Ali avevano giocato infinite volte a "sputo". E c'era ancora la macchia di erba logora su cui tante volte avevano collegato l'iPod bianco di Ali agli altoparlanti durante le feste. Alla sua sinistra si ergeva la nodosa quercia ormai familiare. La casetta sull'albero era scomparsa, ma incise nella corteccia sul tronco si leggevano ancora le iniziali: EF + AD - Emily Fields + Alison DiLaurentis. La faccia le diventò paonazza. All'epoca, Emily non sapeva perché avesse inciso i loro nomi sulla corteccia; voleva soltanto mostrare a Ali quanto fosse felice della loro amicizia. Maya, che nel frattempo aveva proseguito oltre, si guardò indietro. «Tutto bene?». Emily infilò le mani nelle tasche della giacca. Per un attimo pensò di dire a Maya tutto su Ali, ma un colibrì le passò accanto, facendole perdere il coraggio. «Sto bene», disse. «Vuoi entrare?», chiese Maya. «No. io. io devo tornare a scuola», rispose Emily. «Agli allenamenti di nuoto». «Oh». Maya strizzò gli occhi. «Non avresti dovuto accompagnarmi a casa, scema». «Lo so, ma non volevo che ti perdessi». «Sei davvero carina». Maya strinse le mani dietro la schiena e dondolò i fianchi avanti e indietro. Emily si chiese che cosa intendesse per carina. Era forse un'espressione californiana? «Be', allora divertiti a nuoto», proseguì Maya. «E grazie per avermi portato in giro, oggi». «Certo». Emily fece un passo avanti e i loro corpi si strinsero in un abbraccio. «Hmm», disse Maya, stringendo più forte. Le ragazze fecero un passo indietro e rimasero a guardarsi per un secondo, poi Maya si chinò e baciò Emily su entrambe le guance. «Smack, smack!», disse. «Come i francesi». «Be', allora sarò francese anche io». Emily ridacchiò, dimenticando per un secondo Ali e l'albero. «Smack!». Baciò la guancia sinistra e soffice di Maya. Poi Maya la baciò di nuovo sulla guancia destra, solo un po' più vicino alla bocca. Questa volta, non ci fu nessuno smack. La bocca di Maya sapeva di gomma da masticare alla banana. Emily sobbalzò all'indietro, afferrando la borsa da nuoto prima che le cadesse dalla spalla. Quando rialzò lo sguardo, Maya stava ridacchiando. «Ci vediamo», disse Maya. «Stammi bene». Dopo gli allenamenti, Emily ripiegò l'asciugamano nella borsa. L'intero pomeriggio era solo un ricordo sfocato. Dopo che Maya era entrata in casa, Emily era tornata a passo veloce a scuola, come se correre potesse aiutarla a sbrogliare la matassa di sentimenti che sentiva dentro. Dopo essere scivolata in acqua, nel fare una vasca dopo l'altra aveva continuato a vedere quelle iniziali sull'albero che la perseguitavano. Quando l'allenatrice aveva fischiato per provare partenze e virate, aveva avvertito l'odore di gomma alla banana di Maya e udito la sua risata facile e divertita. Davanti all'armadietto, fu abbastanza certa di essersi lavata i capelli due volte. La maggior parte delle altre ragazze era rimasta nelle docce comuni a chiacchierare, ma Emily era troppo stralunata per unirsi a loro. Nel prendere jeans e maglietta, accuratamente ripiegati sulla mensola dell'armadietto, notò un biglietto volare via. Davanti c'era scritto il suo nome, in una scrittura chiara ma sconosciuta, e non riconobbe neanche la carta. Lo raccolse dal pavimento freddo e umido. Ehi Em, sob! Sono stata sostituita! Hai trovato un'altra amica da baciare! A Emily arricciò le dita dei piedi sul pavimento dello spogliatoio e smise di respirare per un attimo. Si guardò attorno. Nessuno la stava guardando. Era vero? Osservò il biglietto e cercò di riflettere razionalmente. Lei e Maya erano all'aperto, ma non c'era nessuno nei dintorni. E . Sono stata sostituita? Un'altra amica da baciare?Le mani iniziarono a tremarle. Osservò di nuovo la firma. Le risate degli altri atleti rimbombavano sulle pareti. Emily aveva baciato soltanto un'altra amica. Era stato due giorni dopo aver inciso le iniziali sulla quercia, e solo una settimana e mezzo prima della fine della seconda media. Alison. 7 IL RIGIDO (DELTOIDE) POSTERIORE DI SPENCER «Guardagli il culo!». «Zitta!». Spencer colpì la sua amica Kirsten Cullen sul parastinchi con il bastone da hockey. Avrebbero dovuto allenarsi in difesa, ma come il resto della squadra - erano troppo occupate a osservare il nuovo viceallenatore. Si trattava nientedimeno che di Ian Thomas. Spencer sentiva la pelle bruciare. Che fosse il destino? Si ricordò che Melissa le aveva detto che Ian si era trasferito in California, ma poi, tante persone impensabili erano tornate a Rosewood. «Tua sorella è stata una vera stupida a lasciarlo», disse Kirsten. «È così figo». «Zitta!», rispose Spencer, ridacchiando. «E comunque, mia sorella non l'ha lasciato. È lui che ha lasciato lei». Furono richiamate all'ordine dal fischietto. «Datevi una mossa!», le apostrofò Ian, sgusciando oltre. Spencer si chinò per legarsi la scarpa, come se non le interessasse. Sentì i suoi occhi su di sé. «Spencer?Spencer Hastings?». Spencer si alzò lentamente. «Oh, Ian, giusto?». Ian le rivolse un sorriso tanto largo che Spencer si sorprese che le guance non gli si strappassero. Aveva ancora quell'aspetto da giovane americano rampante, capace di ereditare la ditta del padre a venticinque anni, sebbene adesso i suoi capelli ricci fossero un po' più lunghi e spettinati. «Sei cresciuta!», strillò. «Lo spero». Spencer scrollò le spalle. Ian si passò la mano dietro al collo. «Come sta tua sorella?» «Uhm, sta bene. Laureata da poco. Andrà alla Wharton». Ian chinò la testa verso il basso. «E i suoi ragazzi, continuano a provarci con te?». Spencer restò a bocca aperta. Prima che riuscisse a rispondere, l'allenatrice, la signora Campbell, fischiò per richiamare Ian. Non appena Ian si fu girato, Kirsten afferrò Spencer per il braccio. «Sei completamente cotta di lui, vero?» «Sta zitta!», rispose di botto Spencer. Mentre correva verso il centrocampo, Ian gettò un'occhiata dietro di sé. Spencer inspirò e si chinò per osservarsi le scarpette. Non voleva che capisse che lo stava fissando. Quando tornò a casa, le faceva male ogni singola parte del corpo, dal sedere alle spalle al mignolino del piede. Aveva trascorso tutta l'estate a organizzare comitati, a studiare sodo per i test di ammissione al college e a recitare nella parte principale in tre diversi spettacoli al Muesli, il teatro comunale di Rosewood: Jean Brodie inLa strana voglia di Jean, Emily inPiccola Città e Ofelia nell'Amleto.In tutto ciò, non aveva avuto tempo per mantenersi in forma per l'hockey, e adesso ne risentiva molto. Tutto ciò che desiderava era salire al piano di sopra e infilarsi a letto, senza pensare al domani e a quanto avrebbe dovuto lavorare per riuscire a eccellere: colazione al club francese, lettura degli annunci del mattino, cinque corsi principali, prove di teatro, una breve apparizione al comitato per l'annuario e un altro, snervante allenamento di hockey con Ian. Aprì la cassetta della posta in fondo al vialetto privato di casa, sperando di trovarci i punteggi dei test di ammissione. Avrebbero dovuto arrivare in quei giorni, e aveva un buon presentimento al riguardo; un presentimento migliore, in effetti, di quello che aveva mai avuto su ogni altro test. Sfortunatamente, c'era solo una pila di bollette, informazioni sugli investimenti di suo padre e una brochure indirizzata alla signora Spencer J (che stava per Jill) Hastings dall'Appleboro College di Lancaster, Pennsylvania. Sì, come se fosse andatalì. Una volta entrata in casa, appoggiò la posta sulla penisola di marmo della cucina, si massaggiò la spalla ed ebbe un'idea: la vasca idromassaggio nel cortile posteriore. Un bagno rilassante.Ooooooossì. Salutò Rufus e Beatrice, i due labrador adorati, e lanciò un paio di King Kong giocattolo in giardino per farglieli inseguire, poi si trascinò lungo il sentiero di pietra verso lo spogliatoio della piscina. Mentre sostava davanti alla porta, pronta a farsi la doccia e a indossare il bikini, si disse: "Ma chi se ne importa?". Era troppo stanca per cambiarsi, e la casa era deserta. Per giunta, la vasca idromassaggio era circondata da roseti. Mentre si avvicinava, l'acqua iniziò a gorgogliare, come ad anticipare il suo arrivo. Si spogliò restando in reggiseno, slip e calzini alti da hockey, fece una profonda flessione in avanti per sciogliere la schiena e scivolò nella vasca fumante. Adesso andava meglio. «Oh». Spencer si girò. In piedi accanto alle rose c'era Wren, a petto nudo, con indosso gli slip Polo più sexy che avesse mai visto. «Ops», disse, coprendosi con un asciugamano. «Scusa». «Saresti dovuto arrivare qui domani», si lasciò sfuggire Spencer, sebbene fosse assolutamente chiaro ormai che si trattava evidentemente dioggi,e non di domani. «Infatti, ma io e tua sorella eravamo da Frou», rispose Wren, facendo una faccetta. Frou era quel borioso negozio a qualche paesino di distanza in cui vendevano federe singole per circa un migliaio di dollari. «Doveva fare un'altra commissione e mi ha detto di rimanere qui a giocare da solo». Spencer si augurò che si trattasse di una qualche bizzarra espressione inglese. «Oh», disse. «Sei appena rientrata?» «Ero agli allenamenti di hockey», disse Spencer, piegandosi all'indietro e rilassandosi un po'. «Primo allenamento dell'anno». Spencer si osservò il fisico indistinto dentro l'acqua. Oddio, aveva ancora addosso i calzini. E le mutande super consumate e sudaticce e il reggiseno da sport della Champion! Si prese a cazzotti per non essersi messa il bikini giallo della Eres che aveva appena comprato, ma poi capì quanto fosse assurdo. «Be', io pensavo di farmi un bagno, ma se vuoi restare da sola va benissimo», disse Wren, «andrò dentro a guardare la TV». Fece per voltarsi. Spencer sentì una minuscola fitta di disappunto. «Uhm, no», disse. Lui si fermò. «Puoi entrare, non è un problema». Con una mossa fulminea, mentre lui era ancora girato, si sfilò i calzini e li tirò nei cespugli, dove atterrarono con uno tonfo molle. «Solo se sei sicura, Spencer», disse Wren. Spencer adorava il modo in cui pronunciava il suo nome, con quel suo accento inglese. Spen.aah. Wren entrò timidamente nella vasca. Spencer si tenne ben lontana, dal proprio lato, incrociando le gambe. Wren piegò la testa all'indietro sul piano di cemento e sospirò. Spencer fece lo stesso, cercando di non pensare alle gambe che lentamente si rattrappivano e indolenzivano in quella posizione. Nel tentativo di sgranchirsi un po', finì per toccare il polpaccio muscoloso di Wren. Tirò via la gamba. «Scusami». «Figurati», rispose Wren. «Hockey su prato, allora? Io ho fatto parte della squadra di canottaggio di Oxford». «Davvero?», disse Spencer, sperando di non apparire troppo esuberante. Il suo panorama preferito, passando in auto dal centro di Philadelphia, era quello delle squadre maschili della Penn and Temple che vogavano nello Schuylkill. «Già», rispose lui. «Mi piaceva molto. A te piace l'hockey su prato?» «Uhm, non proprio». Spencer si sciolse la coda e agitò la testa, chiedendosi poi se Wren non l'avrebbe trovato estremamente repellente e ridicolo. Forse le era tornata in mente la scintilla che era scattata tra di loro fuori da Moshulu. Dopo tutto, però, Wren era entrato nella vasca con lei. «Allora, se non ti piace l'hockey su prato, perché ci giochi?», le chiese Wren. «Perché fa un bell'effetto su una domanda di ammissione al college». Wren si tirò su, facendo ribollire l'acqua. «Ah sì?». «Uhm, già». Spencer si mosse e fece una smorfia di dolore quando avvertì i muscoli della spalla procurarle un crampo al collo. «Tutto bene?», chiese Wren. «Sì, non è niente», rispose Spencer, avvertendo un'inspiegabile, schiacciante ondata di disperazione. Era soltanto il primo giorno di scuola, ed era già distrutta. Pensò a tutti i compiti che doveva fare, alle liste da stilare e ai versi di poesie da imparare a memoria. Era troppo impegnata per agitarsi, ma quella era l'unica cosa che le impediva di farlo. «È la spalla?» «Penso di sì», rispose Spencer, cercando di rotearla. «Nell'hockey su prato si passa talmente tanto tempo chinati in avanti, e non capisco se l'ho stirata o altro.». «Scommetto di potertela rimettere a nuovo». Spencer lo fissò. Avvertì l'impulso improvviso di infilargli le dita tra i capelli ispidi. «Non ti preoccupare. Grazie, comunque». «Davvero», proseguì lui. «Prometto di non morderti». Spencer odiava la gente che tirava fuori quell'espressione. «Sono un medico», continuò Wren, «e scommetto che si tratta del deltoide posteriore». «Uhm, ok.». «Il muscolo della spalla». Le fece cenno di avvicinarsi. «Avvicinati. Davvero. Hai solo bisogno di sciogliere il muscolo». Spencer cercò di non leggere tra le righe. Dopo tutto, era un medico. E si comportava come tale. Si spostò lentamente verso di lui, che le premette le mani al centro della schiena. I suoi pollici scavavano fino ai muscoli più piccoli, lungo la colonna vertebrale. Spencer chiuse gli occhi. «Wow. È fantastico», mormorò. «È solo un po' di liquido sinoviale che si è accumulato nell'articolazione», le disse. Spencer cercò di non ridacchiare alla parola "sinoviale". Quando s'infilò sotto il reggiseno per arrivare più in profondità, Spencer deglutì a fatica; cercò di pensare a cose lontane dal sesso, come i peli del naso di suo zio Daniel, l'aspetto costipato che sua madre assumeva nel cavalcare, le volte in cui il suo gatto, Kitten, riportava talpe morte dal torrente sul retro e le lasciava in camera sua.È un medico, si disse.E questo è quello che fanno i medici. «Anche i pettorali sono un po' contratti», disse Wren e, lasciandola atterrita, mosse la mano sulla parte anteriore del corpo. Infilò le dita di nuovo sotto il reggiseno, massaggiando proprio sopra il seno, e improvvisamente la spallina le scivolò dalla spalla.È roba da medici,cercò di ripetersi. Ma poi le tornò in mente: Wren era uno studente al primo anno di medicina.Sarebbe diventato un medico,si corresse. Un giorno. Fra circa dieci anni. «Uhm, dov'è mia sorella?», chiese a bassa voce. «In quel negozio. Wawa, giusto?» «Wawa?». Spencer si allontanò da Wren e si rialzò la spallina del reggiseno. «Wawa è soltanto a un miglio da qui! Se sta andando lì, sarà solo per prendere delle sigarette o roba simile. Tornerà fra pochissimo!». «Non credo che fumi», disse Wren, inclinando la testa con fare dubbioso. «Sai che cosa intendo!». Spencer si alzò nella vasca, afferrò l'asciugamano Ralph Lauren e iniziò ad asciugarsi i capelli con violenza. Sentiva un caldo incredibile. La sua pelle, le ossa, persino gli organi interni e i nervi sembravano essersi cotti alla brace nella vasca idromassaggio. Saltò fuori e schizzò in casa, alla ricerca di un bicchierone d'acqua. «Spencer», chiamò Wren, correndole dietro. «Non volevo. stavo solo cercando di aiutarti». Ma Spencer non lo ascoltò. Corse su nella sua stanza e si guardò attorno: la sua roba era ancora nelle scatole, impacchettata per essere trasferita nel fienile. Improvvisamente, desiderò che tutto fosse organizzato. Il portagioielli doveva essere ordinato per tipo di pietra. Il suo computer era sommerso da vecchi compiti di letteratura di due anni prima, che, sebbene all'epoca avessero ottenuto tutte A, forse erano ormai imbarazzanti e pessimi, e avrebbero dovuto essere distrutti. Osservò i libri nelle scatole. Dovevano essere ordinati per argomento, non per autore. Ovviamente. Li tirò fuori e iniziò a riporli sugli scaffali, iniziando da "Adulterio", conLa lettera scarlatta. Giunta a "Utopie non realizzate", però, non si sentì per niente meglio. Accese dunque il computer e si premette il mouse senza fili, decisamente fresco, sul retro del collo. Aprì la casella email e vide un messaggio non letto. L'oggetto eraVocab. TEST.Curiosa, ci cliccò sopra. Spencer, "bramare" ha un significato semplice: quando si brama qualcosa, la si desidera e agogna. Di solito si tratta di qualcosa che non si può avere. E tu hai sempre avuto questo problema, no? A. Lo stomaco le si chiuse. Si guardò intorno. Chi. Cazzo. Aveva. Potuto. Vederla? Aprì la finestra più grande della camera, ma il vialetto circolare degli Hastings era vuoto. Si guardò attorno. Alcune macchine passarono stridendo. Il giardiniere dei vicini stava rifinendo una siepe vicino alla porta d'ingresso, mentre i loro cani si stavano rincorrendo a vicenda nel giardino laterale. Alcuni uccelli volarono in cima a un palo del telefono. cima a un palo del telefono. Poi, qualcosa catturò la sua attenzione, dietro la finestra al primo piano dei vicini: l'immagine sfuggente di capelli biondi. Ma la nuova famiglia non era di colore? Un brivido gelato le corse lungo la schiena. Quella era la vecchia finestra di Ali. 8 MA DOVE DIAVOLO SONO LE SCOUT QUANDO HAI BISOGNO DI LORO? Hanna sprofondò ancora di più nei cuscini morbidi del divano di casa, cercando di sbottonare i jeans di Sean. «Wow», disse Sean. «Non possiamo.». Hanna fece un sorrisetto enigmatico e si premette un dito sulle labbra, poi iniziò a baciarlo sul collo. Odorava di dopobarba e, stranamente, di cioccolato. Hanna adorava il modo in cui il suo nuovo taglio a spazzola metteva in risalto tutti gli angoli più sexy del suo volto. Lo amava da quando era in seconda media, e lui non aveva fatto altro che diventare sempre più bello. Mentre si baciavano, la madre di Hanna, Ashley, aprì la porta principale ed entrò, chiacchierando al suo LG. Sean indietreggiò sui cuscini del divano. «Ci vedrà!», sussurrò, infilandosi velocemente la sua polo Lacoste celeste. Hanna fece spallucce. Sua madre li salutò con un cenno assente e proseguì nell'altra stanza; di solito, faceva più attenzione al proprio BlackBerry che a Hanna. Per via del suo orario di lavoro, lei e Hanna non erano particolarmente unite, a eccezione di alcuni controlli periodici dei compiti, delle informazioni su quali negozi facessero i saldi migliori e dei promemoria sul fatto che Hanna avrebbe dovuto pulire la sua stanza nel caso in cui alcuni dirigenti intervenuti ai cocktail party avessero voluto utilizzare il bagno al piano superiore. Ma a Hanna perlopiù tutto questo andava bene. Dopo tutto, il lavoro della madre serviva a finanziare la sua American Express (non è che comprasseproprio tutto), e le costose lezioni private alla Rosewood Day. «Devo andare», mormorò Sean. «Che ne dici di tornare sabato?», disse Hanna facendo le fusa. «Mia madre sarà tutto il giorno alla spa». «Ci vediamo venerdì alla festa di Noel», ribatté Sean. «E sai che sarà dura abbastanza». Hanna emise un suono lamentoso. «Nondeve essere tanto dura», uggiolò. Lui si chinò per baciarla. «A domani». Dopo che se ne fu andato, Hanna affondò la faccia nel cuscino. Incontrare Sean era ancora un sogno. Prima, quando Hanna era goffa e imbranata, adorava quanto fosse alto e atletico, quanto fosse sempre così carino con gli insegnanti e i ragazzi meno attraenti, e come si vestiva bene, non come uno snob senza alcun gusto. Non aveva mai smesso di piacerle, neanche quando era ormai riuscita a perdere anche gli ultimi chili e aveva imparato a districare i capelli. Così, l'anno scolastico precedente aveva casualmente rivelato a James Freed nell'aula studio che le piaceva Sean, e Colleen Rink le aveva detto, tre ore più tardi, che Sean l'avrebbe chiamata quella sera stessa dopo calcio. Era stato un altro momento a cui Hanna avrebbe voluto che Ali assistesse. Stavano insieme ormai da sette mesi e Hanna lo amava più di prima. Non gliel'aveva ancora detto - in fondo, se l'era tenuto dentro per anni - ma adesso era abbastanza sicura che anche lui l'amasse. E non era forse il sesso il modo migliore per esprimere il proprio amore? Ecco perché quel voto di castità non aveva alcun senso. Se i genitori di Sean fossero stati dei bacchettoni, sarebbe stato diverso; in questo modo, invece, andava contro qualsiasi idea che Hanna si era fatta sui ragazzi. Nonostante il suo aspetto passato, Hanna doveva riconoscerlo: con i suoi capelli corvini, il fisico pieno di curve e una pelle perfetta (mai avuto brufoli), era estremamente attraente. Chi non si sarebbe innamorato perdutamente di lei? A volte si chiedeva se Sean non fosse gay (in effetti, aveva un sacco di vestiti carini), o se avesse una sorta di paura della vagina. Hanna chiamò il suo pincher nano, Dot, invitandolo a saltare sul divano. «Ti sono mancata oggi?», squittì, mentre Dot le leccava la mano. Aveva chiesto il permesso di portare Dot a scuola nella sua maxi borsa Prada (dopo tutto, ogni ragazza di Beverly Hills lo faceva), ma alla Rosewood Day avevano rifiutato. Così, per scongiurare ogni possibile ansia da separazione, Hanna aveva comprato a Dot la più coccolosa cuccia di Gucci che si potesse acquistare e la mattina lasciava acceso il televisore in camera sua sul canale dello shopping. Sua madre irruppe in soggiorno, con ancora indosso il tailleur di tweed e le décolleté marroni con il tacco a rocchetto. «C'è del sushi», disse la signora Marin. Hanna alzò lo sguardo. «Involtinitoro?» «Non saprei. Ho un sacco di cose da fare». Hanna s'infilò in cucina, osservando il portatile e l'LG che vibrava della madre. «Che cosa c'è adesso?», strillò la signora Marin al telefono. Dietro Hanna si sentì il ticchettio delle zampette di Dot. Dopo aver frugato nel sacchetto, Hanna tirò fuori un pezzo di sashimi di tonno, un involtino di anguilla e una piccola scodella di zuppa di miso. «Be', stamani ho parlato con il cliente», proseguì sua madre.«Sembravacontento». Hanna inzuppò delicatamente il suo involtino di tonno in una specie di salsa di soia e iniziò a sfogliare con disinvoltura un catalogo di J. Crew. Sua madre era vicedirettrice dell'agenzia pubblicitaria McManus & Tate di Philadelphia, ma aspirava a diventare la prima presidente donna della società. Oltre a essere estremamente realizzata sul lavoro e ambiziosa, la signora Marin era quello che la maggior parte dei ragazzi della Rosewood Day avrebbe definito unamilf :1aveva lunghi capelli biondi, una pelle di velluto e un corpo incredibilmente agile, grazie al suo rituale giornaliero di Vinyasa Yoga. Hanna sapeva bene che sua madre non era perfetta, ma ancora non capiva perché i suoi genitori avessero divorziato quattro anni prima, o perché suo padre avesse ben presto iniziato a vedersi con un'infermiera di aspetto mediocre in puro stileERdi Annapolis, Maryland, di nome Isabel. Era come se si fosse semplicemente accontentato di qualcosa di inferiore. Isabel aveva una figlia adolescente, Kate, e la signora Marin aveva detto a Hanna che l'avrebbe semplicemente adorata.Alcuni mesi dopo il divorzio, suo padre aveva invitato Hanna ad Annapolis per il fine settimana. Nervosa per l'incontro con la sua quasi sorellastra, Hanna aveva implorato Ali di andare con lei. «Non ti preoccupare, Han», le aveva assicurato l'amica, «supereremo di gran lunga questa Kate, chiunque sia». Quando Hanna l'aveva guardata con fare incerto, Ali le aveva ricordato la frase che apponeva sempre sotto la firma: "Sono Ali e sono fantastica!". Adesso sembrava quasi sciocco, ma all'epoca Hanna poteva soltanto immaginare che cosa significasse essere tanto sicuri di sé. Avere Ali era come portarsi dietro una coperta di Linus che le assicurasse di non essere una perdente e che suo padre non volesse semplicemente liberarsi di lei. Quella giornata si era comunque rivelata un disastro. Kate era la ragazza più carina che Hanna avesse mai conosciuto, e suo padre l'aveva praticamente definita una scrofa davanti a lei. Certo, aveva immediatamente fatto marcia indietro, assicurando che si trattava solo di uno scherzo, ma quella era stata l'ultima volta che l'aveva visto. e la prima volta che si era indotta il vomito. Hanna odiava comunque ripensare a quegli eventi passati, per cui lo faceva raramente. Per di più, adesso, osservava con sguardo languido gli uomini con cui usciva sua madre in modo non proprio simile a quello di chi cerca una nuova figura paterna. Suo padre le avrebbe forse permesso di rimanere fuori fino alle 2 di notte e di bere vino, come faceva la madre? Ne dubitava. Sua madre chiuse il cellulare con un colpo secco e puntò gli occhi verde smeraldo su Hanna. «Quelle sono le scarpe che hai scelto per il primo giorno di scuola?». Hanna smise di masticare. «Sì». La signora Marin annuì. «Ti hanno fatto molti complimenti?». Hanna girò il fianco per guardarsi le zeppe viola. Troppo spaventata per fronteggiare la sicurezza di Saks, le aveva pagate. «Sì». «Ti spiace se le prendo in prestito?» «Uhm, certo. Se vuo.». Il telefono di sua madre suonò ancora. Gli piombò sopra. «Carson? Sì. Ti ho cercato per tutta la notte. che diavolo sta succedendo?». Hanna si soffiò sulla frangetta e gettò a Dot un pezzo di anguilla. Mentre Dot lo sputava sul pavimento, suonò il campanello. Sua madre non accennò alcuna reazione. «Ne hanno bisognostanotte», proseguì parlando al telefono. «È il tuo progetto. Devo forse venire lì a tenerti la mano?». Il campanello suonò di nuovo. Dot iniziò ad abbaiare e sua madre si alzò per andare ad aprire. «Saranno di nuovo quelle scout». Le scout erano venute per tre giorni di fila, cercando di vendere loro biscotti all'ora di cena. In quel quartiere, erano particolarmente accanite. Dopo pochi secondi tornò in cucina, seguita da un giovane ufficiale di polizia dai capelli castani e gli occhi verdi. «Questo signore dice di voler parlare con te». Una spilla dorata appuntata sulla taschino della sua uniforme riportava la scritta "Wilden". «Con me?». Hanna indicò se stessa. «È lei Hanna Marin?», chiese Wilden. Il walkietalkie attaccato alla cintura emise un rumore. All'improvviso, Hanna si ricordò chi fosse: era Darren Wilden. Frequentava l'ultimo anno alla Rosewood quando lei era ancora in seconda media. Il Darren Wilden che si ricordava si diceva fosse stato a letto con l'intera squadra di tuffi femminile e per poco non era stato cacciato da scuola per avere rubato la Ducati del preside. Quel poliziotto era decisamente la stessa persona: quegli occhi verdi erano difficili da dimenticare, anche se ormai erano passati quattro anni dall'ultima volta che li aveva visti. Hanna si augurò che fosse soltanto uno spogliarellista mandato da Mona per farle uno scherzo. «Di che cosa si tratta?», chiese la signora Marin, guardando il suo cellulare nostalgicamente. «Perché c'interrompe all'ora di cena?» «Abbiamo ricevuto una chiamata da Tiffany», disse Wilden. «L'hanno riconosciuta dai video mentre sottraeva alcuni articoli dal loro negozio. Altre videocamere della sicurezza del centro commerciale l'hanno ripresa mentre si allontanava sulla sua macchina. Abbiamo rintracciato la targa». Hanna iniziò a premersi il palmo della mano con le unghie; lo faceva sempre, quando sentiva di aver perso il controllo della situazione. «Hanna non farebbe mai una cosa simile», urlò la signora Marin. «Non è vero, Hanna?». Hanna aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a emettere alcun suono. Il cuore le batteva all'impazzata. «Ascolti». Wilden incrociò le braccia sul petto. Hanna notò la pistola che portava appesa alla cintura. Sembrava un giocattolo. «Ho solo bisogno che venga con me alla centrale. Forse è una cosa da niente». «Ne sono certa!», disse la signora Marin. Poi tirò fuori il suo borsellino di Fendi dalla borsa coordinata. «Quanto serve perché ci lasci cenare in pace?» «Signora», disse Wilden con tono esasperato, «è sufficiente che veniate con me, d'accordo? Non ci vorrà tutta la notte. Prometto». Fece quel sorriso sexy tipico di Darren Wilden che probabilmente l'aveva salvato dall'espulsione. «D'accordo», disse la madre di Hanna. Lei e Wilden si guardarono a vicenda per un interminabile momento. «Mi lasci prendere la borsa». Wilden si girò verso Hanna. «Dovrò ammanettarla». Hanna ebbe un sussulto. «Ammanettarmi?». Ok, quello era davvero assurdo. Suonava come un gioco, qualcosa che avrebbero potuto dirsi i due gemellini di sei anni della porta accanto. Wilden, invece, tirò fuori un paio di vere manette d'acciaio e gliele chiuse con delicatezza ai polsi. Hanna si augurò che non notasse che le stavano tremando le mani. Se solo in quel momento Wilden avesse incatenato Hanna alla sedia, messo su quella vecchia canzone anni '70,Hot stuff,e iniziato a togliersi i vestiti. Sfortunatamente, non lo fece. La stazione di polizia odorava di caffè bruciato e legno vecchio, perché, come la maggior parte degli edifici comunali di Rosewood, era stata realizzata all'interno dell'ex dimora di un ufficiale ferroviario. I poliziotti le passavano accanto rispondendo al telefono, riempiendo moduli e scivolando in lungo e in largo sulle loro sedie con le rotelle. Hanna si aspettava quasi di trovarci anche Mona, con la stola di Dior di sua madre gettata sui polsi. Dalla panca vuota, però, sembrava che Mona non fosse stata beccata. La signora Marin sedeva rigidamente accanto a lei. Hanna si sentiva morire; sua madre di solito era estremamente indulgente, ma è anche vero che non era mai stata beccata al centro commerciale, né severamente redarguita o altro. Poi, la madre si chinò silenziosamente verso di lei. «Che cosa hai preso?» «Eh?», chiese Hanna. «Il braccialetto che hai indosso?». Hanna abbassò lo sguardo.Perfetto. Aveva dimenticato di toglierlo; il braccialetto le pendeva al polso in bella vista. Lo spinse su lungo la manica. Si tastò le orecchie per sentire se aveva addosso anche gli orecchini; sì, aveva messo anche quelli. Che stupida! «Dammeli», sussurrò sua madre. «Cosa?», squittì Hanna. La signora Marin le mostrò il palmo. «Dammeli, me la vedrò io». Con fare riluttante, Hanna lasciò che la madre le slacciasse il braccialetto dal polso, poi si sfilò gli orecchini e glieli passò. La signora Marin non accennò neanche una smorfia. Infilò semplicemente i gioielli in borsa e serrò le mani sulla chiusura di metallo. La biondina di Tiffany che aveva aiutato Hanna con il braccialetto entrò nella stanza; non appena vide Hanna, seduta con aria afflitta alla scrivania e ancora ammanettata, annuì. «Sì, è lei». Darren Wilden guardò Hanna con occhio torvo, mentre sua madre si alzò. «Penso che ci sia stato un errore». Si avvicinò alla scrivania di Wilden. «L'ho fraintesa prima, a casa. Quel giorno ero con Hanna. Abbiamo comprato quelle cose. Ho la ricevuta a casa». La commessa di Tiffany strizzò gli occhi, incredula. «Sta forse insinuando che sono una bugiarda?» «No», disse dolcemente la signora Marin, «penso solo che si sia confusa». Che cosa stava facendo? Hanna fu pervasa da una sensazione sdolcinata, sgradevole, quasi un senso di colpa. «E come spiega i video della sorveglianza?», chiese Wilden. Sua madre fece una pausa. Hanna vide un piccolo muscolo fremergli sul collo. Poi, prima che Hanna riuscisse a fermarla, infilò le mani in borsa e tirò fuori il bottino. «È stata tutta colpa mia», disse. «Hanna non c'entra». La signora Marin si girò verso Wilden. «Hanna e io abbiamo litigato per questi gioielli. Le ho detto che non poteva averli, spingendola a questo. Non lo farà mai più. Ne potete stare certi». Hanna rimase impietrita, stordita. Non aveva mai discusso con sua madre per Tiffany, tanto meno di cosa potesse o non potesse avere. Wilden scosse la testa. «Signora, penso che a sua figlia farebbero bene dei lavori socialmente utili. Di solito è questa la pena». La signora Marin ammiccò con aria innocente. «Non potremmo lasciar cadere la cosa? Per favore?». Wilden la guardò a lungo, con un angolo della bocca piegato diabolicamente verso l'alto. «Si sieda», disse infine. «Mi lasci vedere che cosa posso fare». Hanna volse lo sguardo ovunque, tranne che verso la madre. Wilden si piegò sulla scrivania; sopra verso la madre. Wilden si piegò sulla scrivania; sopra vi erano poggiati una figurina del Capitano Winchester deiSimpsone una molla giocattolo di metallo. Si leccò la punta del dito per girare le pagine del modulo che stava compilando. Hanna sussultò. Di che genere di carte si trattava? I giornali locali non riportavano forse i reati commessi? Era una brutta storia. Molto brutta. Iniziò a dondolare il piede nervosamente; aveva un bisogno impellente di mentine. O forse di anacardi. Anche gli snack salati sulla scrivania di Wilden sarebbero andati bene. Riusciva a immaginarselo perfettamente: tutti l'avrebbero scoperto, e lei sarebbe rimasta contemporaneamente senza amici né ragazzo. A quel punto, sarebbe ritornata a essere la tonta Hanna di seconda media, in una sorta di regresso. Si sarebbe svegliata con i capelli di nuovo di un castano schifoso, stinto. I denti le si sarebbero storti e si sarebbe dovuta rimettere l'apparecchio. Non sarebbe più riuscita a entrare nei jeans. Il resto sarebbe venuto di conseguenza. Avrebbe passato la vita da ragazza paffuta, bruttina, miserabile e trasandata, proprio com'era in passato. «Ho della crema, se ti irritano i polsi», le disse la signora Marin, indicando le manette e frugando in borsa. «Sto bene», rispose Hanna, tornando al presente. Singhiozzando, tirò fuori il suo BlackBerry. Era difficile con le manette, ma voleva convincere Sean che sarebbe dovuto andare a casa sua quel sabato. Improvvisamente volevaassicurarsi che sarebbe venuto. Mentre osservava lo schermo vuoto, comparve una e-mail nella casella di posta. La aprì. Ehi Hanna, dato che il cibo della galera t'ingrassa, sai che cosa dirà Sean? Non questo! A Ne fu talmente spaventata da schizzare in piedi, pensando che qualcuno la stesse osservando dall'altro lato della stanza. Ma non c'era nessuno. Chiuse gli occhi, cercando di pensare a chi avesse potuto vedere la macchina della polizia fuori da casa sua. Wilden alzò lo sguardo dalle carte. «Tutto bene?» «Uhm», disse Hanna, «sì». Si rimise lentamente a sedere. "Non questo"? Ma che diavolo? Verificò di nuovo l'indirizzo e-mail del mittente, ma era solo un insieme confuso di lettere e numeri. «Hanna», mormorò la signora Marin pochi istanti dopo. «Nessuno dovrà saperlo». Hanna ammiccò. «Oh, certo, sono d'accordo». «Bene». Hanna deglutì a fatica. Eccetto il fatto che. qualcunogiàsapeva. Espressione gergale americana, diffusasi nel linguaggio giovanile dopo il successo del film American Pie di Paul e Chris Weitz(1999), come acronimo di Mother I’d Like to Fuck (letteralmente, madre che mi piacerebbe farmi), a indicare una donna non più giovanissima, ma ancora estremamente attraente (N.d.T.). 1 9 UN COLLOQUIO STUDENTE INSEGNANTE FUORI DAL COMUNE Mercoledì mattina, il padre di Aria, Byron, si strofinò i folti capelli neri e fece segno con la mano dal finestrino della Subaru che stava per svoltare a sinistra. Le frecce avevano smesso di funzionare la sera prima, così, dopo avere accompagnato Aria e Mike a scuola, avrebbe portato l'auto in officina. «Allora ragazzi, siete felici di essere di nuovo in America?», chiese Byron. Mike, che sedeva accanto ad Aria sul sedile posteriore, sogghignò. «L'America trema». Poi tornò a schiacciare in modo ossessivo i minuscoli tasti della sua PSP, che emise un rumore fastidioso, e Mike esultò, alzando un pugno. Il padre di Aria sorrise e proseguì attraverso il ponte di pietra a una corsia, salutando con un cenno un vicino che passava. «Ok, d'accordo. E perché trema?» «L'America trema perché ha il lacrosse», disse Mike, senza distogliere lo sguardo dalla PSP. «E le ragazze più belle. E un Hooters1al King of Prussia2». Aria rise. Come se Mike fosse mai stato da Hooters. A meno che. oddio, c'era stato? Rabbrividì nella sua giacca di alpaca verde, alzò le spalle e guardò fuori dal finestrino, nella fitta nebbia. Una donna con indosso un lungo giaccone sportivo rosso con cappuccio con su scritto "Mamma di serie A" stava cercando di tenere a bada il suo pastore tedesco, lanciato all'inseguimento di uno scoiattolo in mezzo alla strada. All'angolo, due bionde con passeggini di ultima generazione stavano in piedi a chiacchierare. C'era una sola parola per descrivere la lezione di letteratura del giorno prima: brutale. Dopo che Ezra si era lasciato sfuggire di bocca quel "Merda!", l'intera classe si era girata a guardare lei. Hanna Marin, che sedeva davanti a lei, sussurrò non proprio a bassa voce: «Sei andata a letto con il professore?». Aria pensò per un attimo che poteva essere stata Hanna a scriverle quel messaggio su Ezra; Hanna era una dei pochi a sapere di Pigtunia. Ma perché l'avrebbe fatto? Ezra. ehm, il professor Fitz, aveva sedato velocemente le risate, porgendo le più vive scuse per aver imprecato in classe. Aveva detto, e Aria se l'era stampato nella mente: «Temevo che mi fosse entrata un'ape nei pantaloni e che mi pungesse, per questo ho strillato terrorizzato». Quando poi Ezra aveva iniziato a parlare del contenuto di cinque paragrafi e del programma di studi della classe, Aria non era riuscita a concentrarsi. E ralei l'ape che gli era volata nei pantaloni. Non riusciva a smettere di guardare i suoi occhi selvaggi e la sua bocca meravigliosamente rosa. Quando lui aveva sbirciato furtivamente nella sua direzione con la coda dell'occhio, lei aveva sentito il cuore farle due salti mortali e mezzo dal trampolino alto e atterrarle nello stomaco. Ezra era il ragazzo giusto per lei, e lei la ragazza giusta per lui, ne era certa. Sì, era il suo insegnante, e allora? Ci doveva essere un modo per far funzionare quella storia. Suo padre attraversò l'ingresso della Rosewood. Aria notò in lontananza un vecchio maggiolino Volkswagen azzurro polvere parcheggiato nell'area insegnanti. Aveva già visto quell'auto da Snookers: era quella di Ezra. Guardò l'orologio: quindici minuti alla lezione. Mike schizzò fuori dalla macchina. Anche Aria aprì lo sportello, ma suo padre la fermò, toccandole il braccio. «Aspetta un attimo», le disse. «Ma devo.». Guardò con desiderio il maggiolino di Ezra. «Solo un minuto». Suo padre abbassò il volume della radio. Aria si abbandonò nuovamente sul sedile. «Mi sei sembrata un po'.». Torse il polso avanti e indietro con fare incerto. «È tutto a posto?». Aria alzò le spalle. «Riguardo a cosa?». Suo padre sospirò. «Be'. non saprei. Per il ritorno a casa. E non ne parliamo. sai, da un po' di tempo». Aria iniziò a giocherellare con la zip della giacca. «Che cosa c'è da dire?». Byron s'infilò in bocca una sigaretta che aveva rollato prima di uscire di casa. «Non riesco neanche a immaginare quanto sia stato difficile. Mantenere il silenzio, voglio dire. Ma ti voglio bene. Lo sai, vero?». Aria guardò di nuovo il parcheggio. «Sì, lo so», disse. «Devo andare. Ci vediamo alle tre». Prima che il padre potesse rispondere, Aria uscì dalla macchina, sentendo il sangue affluirle alle orecchie. Come poteva essere Aria l'islandese, che si era lasciata il passato alle spalle, se uno dei peggiori ricordi che conservava di Rosewood continuava ad affiorare in superficie? Era successo nel maggio della seconda media. Alla Rosewood Day, gli studenti erano andati in vacanza prima per via dei consigli d'istituto; Aria e Ali avevano quindi deciso di andare da Sparrow, il negozio di musica dell'Hollis campus, per comprare dei nuovi CD. Mentre tagliavano per una strada secondaria, Aria aveva notato la sagoma familiare dell'Honda Civic marrone tutta ammaccata di suo padre parcheggiata in una piazzola appartata di un parcheggio vuoto. Non appena Aria e Ali si erano avvicinate per lasciare un biglietto, avevano notato che dentro c'era qualcuno: il padre di Aria, Byron, assieme a una ragazza sui vent'anni, che lo stava baciando sul collo. Proprio in quel momento, Byron aveva alzato gli occhi e visto Aria; questa era scappata via per non vedere altro, prima che lui riuscisse a raggiungerla. Ali l'aveva seguita fino a casa, senza tuttavia cercare di fermarla quando le aveva detto di voler restare da sola. Più tardi, quella stessa sera, Byron era entrato nella stanza di Aria per darle delle spiegazioni. Non era come sembrava, le aveva detto. Ma Aria non era stupida. Ogni anno il padre invitava i suoi studenti a casa per dei cocktail di conoscenza reciproca, ed era stato in un'occasione simile che Aria aveva già visto quella ragazza. Si chiamava Meredith; Aria se lo ricordava perché Meredith si era ubriacata e aveva scritto il suo nome con le lettere magnetiche sul frigorifero. Quando Meredith se n'era andata, invece di stringere la mano a suo padre come gli altri ragazzi, gli aveva dato un lungo bacio sul collo. Byron aveva supplicato Aria di non dirlo alla madre, promettendo che non sarebbe mai più successo. Aria aveva deciso di dargli fiducia e di mantenere il segreto. Lui non l'aveva mai detto, ma Aria credeva che Meredith fosse la ragione per cui suo padre si era preso il suo anno sabbatico.Ti eri ripromessa di non pensarci più, si disse Aria, guardandosi indietro. Suo padre stava facendo segno di volere svoltare a sinistra fuori dal parcheggio della Rosewood. Aria entrò nello stretto corridoio dell'ala della facoltà. L'ufficio di Ezra si trovava in fondo al corridoio, vicino a una piccola, intima panca sotto la finestra. Si fermò sulla porta e lo guardò mentre batteva qualcosa al computer. Alla fine, decise di bussare. Gli occhi azzurri di Ezra si spalancarono non appena la vide. Era adorabile, con la sua camicia bianca con il colletto a punta, la giacca blu della Rosewood, i pantaloni di velluto a coste verdi e i mocassini neri ormai lisi. Gli angoli della bocca gli si arricciarono nel sorriso più piccino e timido del mondo. «Ehi», disse. Aria rimaneva sulla porta. «Posso parlarti?», chiese, con un tono leggermente squillante. Ezra esitò, spostandosi un ciuffo di capelli dagli occhi. Aria notò un cerotto di Snoopy al mignolo sinistro. «Certo», rispose lui in tono pacato. «Vieni». Aria entrò nell'ufficio e chiuse la porta. Era spoglio. C'erano solo un'ampia e pesante scrivania di legno, due sedie pieghevoli e un computer. Si sedette sulla sedia vuota. «Dunque, ehm», disse Aria. «Ciao». «Dunque, ehm», disse Aria. «Ciao». «Ciao di nuovo», rispose Ezra, ridacchiando. Abbassò gli occhi e bevve un sorso dalla sua tazza con lo stemma della Rosewood Day. «Ascolta», iniziò. «Per quanto riguarda ieri», disse Aria allo stesso tempo. Risero entrambi. «Prima le signore». Ezra sorrise. Aria si grattò il retro del collo, dove i capelli le si riunivano in una coda di cavallo. «Io, be', volevo parlarti di. noi». Ezra annuì, ma non disse nulla. Aria si agitò sulla sedia. «Be', penso sia abbastanza scioccante il fatto che io sia. ecco. una tua alunna, dopo che, sai... dopo Snookers. Ma se a te non importa, non importa neanche a me». Ezra avvolse le mani attorno alla tazza. Aria ascoltò l'orologio a muro della scuola battere i secondi. «Io. non penso che sia una buona idea», disse lui piano. «Mi avevi detto di essere più grande». Aria rise, non del tutto sicura di quanto fosse serio. «Non ti ho mai detto quanti anni ho». Abbassò gli occhi. «L'hai solo ipotizzato». «Sì, ma tu non avresti dovuto lasciarmelo credere», rispose Ezra. «Tutti mentono sull'età», disse Aria con tono calmo. Ezra si passò una mano tra i capelli. «Ma. tu.». Incontrò gli occhi di lei e sospirò. «Ascolta, io. io penso che tu sia fantastica Aria, davvero. Ti ho incontrata in quel bar, e mi sono detto. wow, chi è questa? È talmente diversa da qualunque altra ragazza che abbia mai incontrato». Aria abbassò lo sguardo, sentendosi al contempo lusingata e un po' preoccupata. Ezra si avvicinò alla scrivania e gli toccò per un attimo la mano; era calda, ferma. «Ma tutto questo non può esistere, lo sai? Perché, be', perché sei una mia allieva, e potrei finire in un sacco di guai. E tu non vuoi che io finisca nei guai, vero?» «Non lo saprebbe nessuno», disse Aria timidamente, sebbene non riuscisse a smettere di pensare a quello strano messaggio del giorno prima, e al fatto che forse qualcuno già sapeva. A Ezra ci volle un bel po' di tempo per riuscire a rispondere. Ad Aria sembrò che stesse cercando di prendere una decisione, e lo guardò piena di speranza. «Mi spiace Aria», borbottò alla fine, «ma penso che te ne dovresti andare». Aria si alzò, con le guance in fiamme. «Naturalmente». Avvolse le mani attorno allo schienale della sedia; era come se nelle viscere le rimbalzassero dei carboni ardenti. «Ci vediamo a lezione», sussurrò Ezra. Aria chiuse la porta con attenzione; nel corridoio, gli altri chiuse la porta con attenzione; nel corridoio, gli altri insegnanti le passavano accanto sfiorandola per raggiungere le proprie aule. Decise di raggiungere il suo armadietto tagliando per il cortile; aveva bisogno di un po' d'aria fresca. Fuori, sentì echeggiare una risata femminile familiare e restò impietrita per un attimo. Quando avrebbe smesso di sentire Alison dappertutto? Decise di non arrancare sul sentiero in pietra, come avrebbe fatto normalmente, ma di passare attraverso il prato. La nebbia mattutina era tanto densa da consentirle a malapena di vedersi le gambe. Le impronte svanivano nell'erba fangosa non appena fatte. Perfetto. Era proprio l'atmosfera adatta per svanire del tutto. Catena di fast food statunitense, nota per la presenza di cameriere in abiti discinti (N.d.T.). 2Il King of Prussia Mall è uno dei più grandi e noti centri commerciali di Philadelphia, nonché dell’intera East Coast (N.d.T.). 1 10 LE RAGAZZE SINGLE SI DIVERTONO MOLTO DI PIÙ Quel pomeriggio, Emily era ferma nel parcheggio studenti, persa nei suoi pensieri, quando qualcuno le coprì gli occhi con le mani, facendola sobbalzare e spaventare. «Ehi, calmati! Sono io!». Emily si girò facendo un sospiro di sollievo. Era soltanto Maya. Emily si sentiva completamente confusa e paranoica per via del messaggio trovato il giorno prima. Stava per aprire la macchina (sua madre aveva permesso a lei e Carolyn di prenderla per andare a scuola a condizione "che guidassero piano e chiamassero non appena arrivate") per prendere il borsone da nuoto. «Scusami», disse. «Pensavo, niente.». «Mi sei mancata oggi», disse Maya sorridendo. «Anche a me». Emily contraccambiò il sorriso. La mattina aveva provato a chiamare Maya per offrirle un passaggio a scuola, ma la madre le aveva risposto che era già uscita. «Allora, come stai?» «Be', potrebbe andare meglio». Quel giorno, Maya si era legata i capelli corvini, tanto indisciplinati, con due adorabili fermagli a forma di farfalla rosa iridescente, lasciando scoperta la faccia. «Ah sì?». Emily inclinò la testa. Maya arricciò le labbra e sfilò un piede dal sandalo Oakley. Il secondo dito era più lungo dell'alluce, proprio come quello di Emily. «Mi sentirei meglio se tu venissi in un posto con me. Adesso». «Ma adesso ho nuoto», disse Emily, sentendo di nuovo Ih-Oh fare capolino nella sua voce. Maya le prese la mano, dondolandola. «E se ti dicessi che il posto a cui mi riferisco implica in qualche modo il nuoto?». Emily aggrottò le sopracciglia. «Che cosa significa?» «Ti devi fidare di me». Sebbene fosse stata molto vicina a Hanna, Spencer e Aria, tutti i ricordi più belli di Emily erano legati alle giornate trascorse da sola fuori con Ali, come quando si erano infilate degli ingombranti pantaloni da neve per percorrere Bayberry Hill con lo slittino, avevano parlato del loro ragazzo ideale o pianto per l'Affare Jenna in seconda media, consolandosi a vicenda. Quando erano da sole, emergeva una Ali meno perfetta, e forse proprio per questo ancora più perfetta, mentre Emily sentiva di poter essere davvero se stessa. Era come se fossero trascorsi giorni, settimane,anni, senza che Emily riuscisse a essere se stessa. Adesso pensava che avrebbe potuto di nuovo sentirsi così con Maya; le mancava una migliore amica. In quel momento, probabilmente Ben e gli altri ragazzi si stavano cambiando, schiaffeggiandosi il sedere a vicenda con gli asciugamani. La coach Lauren stava scrivendo i set di allenamento sulla grande lavagna e preparando pinne, boe e tavolette necessarie. Le ragazze, invece, si stavano probabilmente lamentando perché avevano le loro cose tutte assieme. Avrebbe osato perdersi il secondo giorno di allenamenti? Emily schiacciò il portachiavi a forma di pesce. «Forse potrei dire a Carolyn che dovevo dare ripetizioni di spagnolo a qualcuno», mormorò. Emily sapeva che Carolyn non se la sarebbe bevuta, ma probabilmente non avrebbe neanche fatto la spia. Dopo essersi assicurata che nessuno in giro le stesse spiando, Emily sorrise e aprì la macchina. «D'accordo, andiamo». «Io e mio fratello abbiamo esplorato questo posto nel fine settimana», disse Maya, mentre Emily parcheggiava in uno spiazzo ricoperto di ghiaia. Emily scese dalla macchina stiracchiandosi. «Mi ero dimenticata di questo posto». Si trovavano sulla pista del Marwyn, lunga circa cinque miglia, che costeggiava un profondo corso d'acqua. Lei e le sue amiche ci andavano sempre in bicicletta; Ali e Spencer pedalavano furiosamente nella volata finale, arrivando insieme e fermandosi al piccolo snack bar vicino all'area balneabile per comprare barrette al cioccolato e Coca Light. Mentre seguiva Maya su un pendio fangoso, questa l'afferrò per il braccio. «Oh! Ho dimenticato di dirtelo. Mia madre ha detto che la tua è venuta a casa nostra ieri mentre eravamo a scuola. Ha portato dei brownies». «Davvero?», rispose Emily, confusa, chiedendosi perché sua madre non le avesse detto niente a cena. «I brownies erano deliziosi. Io e mio fratello ce li siamo spolverati tutti ieri sera!». Raggiunsero la pista di terra battuta, riparandosi sotto una volta di querce. L'aria aveva quel tipico odore di legna fresca e la temperatura sembrava più bassa di almeno venti gradi. «Ancora non ci siamo». Maya la prese per mano e la condusse sul sentiero verso un ponticello di pietra. Pochi metri sotto, la corrente si allargava. Le acque calme scintillavano alla luce del sole pomeridiano. Maya proseguì fino al bordo del ponte e si spogliò, lasciandosi addosso solo la biancheria rosa pallido. Gettò i vestiti l'uno sull'altro, fece una linguaccia a Emily e si tuffò. «Aspetta!». Emily corse verso il parapetto. Maya sapeva quant'era profondo? Dopo una pausa interminabile di qualche secondo, Emily udì un tonfo. La testa di Maya riaffiorò. «Ti avevo detto che il nuoto c'entrava! Muoviti dài, spogliati!». Emily dette un'occhiata alla pila di vestiti di Maya. Odiava profondamente spogliarsi davanti agli altri, persino davanti alle ragazze della squadra di nuoto, che la vedevano tutti i giorni. Si sfilò piano piano la gonna a pieghe della Rosewood, incrociando le gambe l'una sull'altra perché Maya non si accorgesse delle sue cosce nude e muscolose, poi iniziò a sfilarsi la canottiera sportiva che indossava sotto la giubba dell'uniforme, decidendo alla fine di lasciarsela. Guardò giù dal parapetto verso il torrente, si fece coraggio e saltò. Un attimo dopo, era avvolta dall'acqua. Era piacevolmente calda e densa, non fredda e limpida come quella della piscina. Il reggiseno le si riempì d'acqua. «È come fare la sauna qui», disse Maya. «Già». Emily arrancò fino alla zona poco profonda in cui stava Maya e, accortasi di riuscire a vedere i capezzoli di Maya attraverso il reggiseno, distolse lo sguardo. «Andavo sempre a tuffarmi con Justin quando stavo ancora in California», disse Maya. «Lui rimaneva in piedi sul punto più alto e restava lì a pensarci per tipo dieci minuti prima di decidersi a saltare. Tu invece non ha minimamente esitato, mi sei piaciuta». Emily sorrise, facendo il morto. Non riusciva a non farlo: divorava i complimenti di Maya come fossero un cheesecake. Maya iniziò a schizzarla. Alcuni schizzi le finirono dritti in bocca. L'acqua del torrente aveva un sapore dolciastro e quasi metallico, niente a che vedere con l'acqua piena di cloro della piscina. «Penso che io e Justin ci lasceremo», disse Maya. Emily nuotò verso la riva e si alzò in piedi. «Davvero? Perché?» «La distanza è troppo stressante. Mi chiama in continuazione. Me ne sono andata soltanto da qualche giorno e mi ha già spedito due lettere!». «Ah», rispose Emily, setacciando l'acqua torbida con le dita. Poi le venne in mente una cosa. Si voltò verso Maya. «Ehm, per caso mi hai lasciato un biglietto nell'armadietto dello spogliatoio ieri?». Maya aggrottò le sopracciglia. «Quando, dopo la scuola? No. mi hai accompagnata a casa, ricordi?» «Già». Non pensava davvero che Maya avesse scritto quel biglietto, ma le cose sarebbero state molto più semplici se fosse stato così. «Che cosa c'era scritto sul biglietto?». Emily scosse la testa. «Non importa, niente di che». Si schiarì la voce. «Sai, penso che anch'io potrei rompere con il mio ragazzo». Wow. Emily non sarebbe rimasta più sorpresa se dalla bocca le fosse volato via un uccello azzurro. «Davvero?», disse Maya. Emily batté le palpebre per liberarsi dall'acqua. «Non lo so. Forse». Maya allungò le braccia sopra la testa, ed Emily poté nuovamente scorgere quella cicatrice sul polso. Guardò altrove. «Be', fanculo gli alci», disse Maya. Emily sorrise. «Che?» «È una frase che ripeto di tanto in tanto», disse Maya. «Vuol dire. al diavolo tutto quanto!». Si voltò e alzò le spalle. «È stupido, lo so». «No, mi piace», disse Emily. «Fanculo gli alci!». Ridacchiò. Trovava sempre divertente dire delle parolacce, come se sua madre potesse sentirla dalla cucina, a dieci miglia di distanza. «Comunque dovresti davvero rompere con il tuo ragazzo», le disse Maya. «E sai perché?» «Perché?» «Perché così saremmo entrambe single». «E questo che cosa significa?», chiese Emily. La foresta era particolarmente silenziosa e immobile. Maya le si avvicinò. «E questo significa. che. possiamo. spassarcela!». Afferrò Emily per le spalle e la spinse sott'acqua. «Ehi!», strillò Emily. Schizzò Maya a sua volta, sbattendo l'intero braccio in acqua e creando un'onda gigante. Poi prese Maya per una gamba e iniziò a farle il solletico sotto le dita del piede. «Aiuto!», urlò Maya. «I piedi no! Soffro il solletico!». «Ho trovato il tuo punto debole!», esultò Emily, trascinandola furiosamente verso la cascata. Maya riuscì a liberare il piede, balzando addosso a Emily da dietro. Le mani di Maya si spostarono sui fianchi di Emily, poi giù verso lo stomaco, dove iniziò a farle il solletico. Emily strillò. Alla fine riuscì a spingere Maya in una piccola ansa nella roccia. «Spero che non ci siano pipistrelli qua dentro!», gridò Maya. I raggi del sole filtravano attraverso le strette aperture della grotta, creando un'aureola attorno alla testa grondante di Maya. «Devi entrare qui dentro!», disse Maya, tenendole la mano. Emily rimase in piedi accanto a lei, avvertendo le mura gelide e lisce della grotta. Il suono del suo respiro echeggiava lungo le pareti strette. Si guardarono l'un l'altra e risero. Emily si morse le labbra. Era un momento di amicizia perfetto, che la faceva sentire malinconica e nostalgica al contempo. Maya abbassò gli occhi, preoccupata. «C'è qualcosa che non va?». Emily fece un respiro profondo. «Be'. sai quella ragazza che abitava nella tua casa? Alison?» «Sì». «È scomparsa, proprio alla fine della seconda media. E non è mai stata ritrovata». Maya rabbrividì leggermente. «Avevo sentito dire qualcosa». Emily si strinse le braccia al corpo; anche lei iniziava a sentire freddo. «Eravamo molto amiche». Maya si avvicinò a Emily e le mise il braccio attorno alle spalle. «Non avevo capito». «Già». A Emily iniziò a tremare il mento. «Volevo soltanto che lo sapessi». «Grazie». Trascorsero alcuni momenti interminabili; Emily e Maya continuarono ad abbracciarsi. Poi, Maya indietreggiò. «Prima ho quasi mentito. Riguardo al perché voglio chiudere con Justin». Emily alzò un sopracciglio, curiosa. «Non. non sono sicura che mi piacciano i ragazzi», disse Maya con tono calmo. «È strano. Li trovo carini, ma quando mi trovo da sola con loro, non voglio starci. Preferirei stare con qualcuno, ecco. qualcuno più simile a me». Fece un sorriso sghembo. «Capisci?». Emily si passò le mani sulla faccia e tra i capelli. All'improvviso, lo sguardo di Maya le appariva troppo intenso. «Io.», iniziò. No, lei non capiva. I cespugli sopra di loro si mossero. Emily sobbalzò. Sua madre non sopportava quando andava in quel posto; non si sa mai che genere di rapitori o assassini si nascondano in luoghi come quello. Il bosco restò immobile per un attimo, ma poi uno stormo di uccelli si disperse senza ordine nel cielo. Emily si appiattì contro la roccia. Qualcuno forse le stava osservando? Di chi erano quelle risate? Avevano un'aria familiare. Poi avvertì un respiro pesante. Con la pelle d'oca, spiò fuori dalla grotta. C'era soltanto un gruppo di ragazzi. Improvvisamente, irruppero nell'insenatura, brandendo dei bastoni come se fossero spade. Emily si allontanò da Maya e uscì dalla cascata. «Dove stai andando?». Emily guardò Maya, poi volse lo sguardo verso i ragazzi, che, abbandonati i bastoni, si stavano tirando addosso delle pietre. Uno di loro era Mike Montgomery, il fratello minore della sua vecchia amica Aria. Era cresciuto un bel po' da quando l'aveva visto l'ultima volta. Un momento, Mike andava alla Rosewood. Avrebbe potuto riconoscerla? Emily uscì dall'acqua e iniziò a correre precipitosamente sulla collina. Si voltò nuovamente verso Maya. «Devo tornare a scuola prima che Carolyn finisca gli allenamenti». S'infilò la camicia. «Vuoi che ti passi i vestiti?» «Fa lo stesso». A quel punto, scese dalla cascata e attraversò il torrente, con gli slip trasparenti appiccicati alle chiappe. Maya risalì la china lentamente, senza neanche coprirsi la pancia o il seno con le mani. I novellini si fermarono a guardare. E, sebbene Emily non volesse, non poté comunque fare a meno di guardare anche lei. 11 SE NON ALTRO, LE PATATE DOLCI SONO RICCHE DI VITAMINA A Lei, sicuramente», sussurrò Hanna, indicando con il dito. «Ma no, sono troppo piccole!», rispose piano Mona. «Ma guarda come sono gonfie! Sono assolutamente finte», ribatté Hanna. «Penso che quella signora là in fondo si sia fatta rifare il sedere». «Volgare». Hanna arricciò il naso e si passò le mani ai lati del sedere tonico, ben disegnato, per assicurarsi che fosse ancora perfetto. Era il tardo pomeriggio di mercoledì, a soli due giorni dalla festa annuale di Noel Kahn, e lei e Mona stavano oziando sulla terrazza esterna di Yam, il caffè biologico del country club dei genitori di Mona. Sotto di loro, un gruppo di ragazzi stava giocando una partitina di golf prima di pranzo, mentre Hanna e Mona si divertivano con un altro tipo di gioco: "Indovina chi ha le tette finte". O qualunque altra cosa finta, visto che in giro era pieno di falsi. «Sì, sembra proprio che il chirurgo l'abbia rovinata», mormorò Mona. «Credo che giochi a tennis con mia madre. Chiederò». Hanna osservò di nuovo la donna sulla trentina con l'aspetto da folletto e un sedere troppo perfetto rispetto al resto dell'esile corpo. «Preferisco morire, piuttosto che rifarmi». Mona giocherellava con il pendente del suo braccialetto di Tiffany (quello che, evidentemente, non aveva dovuto restituire). «Pensi che Aria Montgomery se le sia rifatte?». Hanna alzò lo sguardo, stupita. «Perché?» «Be', è davvero magra, e sono troppo perfette», disse Mona. «È stata in Finlandia o giù di lì, no? Ho sentito dire che in Europa ti puoi rifare le tette a prezzi stracciati». «Non penso che siano finte», rispose Hanna a bassa voce. «Etucome fai a saperlo?». Hanna masticò la cannuccia. Le tette di Aria erano sempre state al loro posto; lei e Alison erano state le uniche due ad avere avuto bisogno del reggiseno in seconda media. Ali si pavoneggiava sempre delle proprie, mentre l'unica volta in cui Aria era sembrata accorgersi diaveredelle tette era stata quando aveva realizzato a maglia i reggiseni da regalare a tutte per Natale, e per sé era stata costretta a farlo di una taglia più grande. «Non sembra il tipo, ecco tutto», rispose Hanna. Parlare con Mona delle sue vecchie amiche era imbarazzante. Hanna si sentiva ancora a disagio per il modo in cui con Ali e le altre erano solite prendere in giro Mona in seconda media, ma ormai sembrava sempre tutto troppo strano da rievocare. Mona la guardò. «Ti senti bene? Oggi sembri diversa». Hanna fece una smorfia. «Sì? In che senso?». Mona le fece un sorrisetto. «Wow! Nervosetta, eh?» «Non sono nervosa», ribatté Hanna seccamente. Lo era, invece: da quando, la sera precedente, era stata portata alla stazione di polizia e aveva ricevuto quella e-mail, le erano rimasti i nervi a fior di pelle. Quel mattino, i suoi occhi apparivano più di un marrone cupo che verdi, e le braccia sembravano noiosamente paffute. Avvertiva la terribile sensazione che avrebbe subito una lenta, spontanea metamorfosi e sarebbe tornata a essere quella che era in seconda media. Una cameriera bionda e allampanata le interruppe. «Avete deciso?». Mona dette un'occhiata al menu. «Io prenderò l'insalata esotica di pollo, senza condimento». Hanna si schiarì la voce. «Io, invece, prendo un'insalata senza condimento né cavoletti di Bruxelles, e un piattone generoso di patate dolci fritte. Da asporto, per favore». Non appena la cameriera ebbe preso i loro menu, Mona si aggiustò gli occhiali da sole. «Patate dolci fritte?» «Per mia madre», rispose secca Hanna. «Ne va matta». Giù nel campo da golf, un gruppo di ragazzi più grandi stava iniziando una nuova partita, assieme a un giovane di bell'aspetto in pantaloncini. Sembrava un po' fuori luogo, con i capelli castani spettinati, i pantaloni con tasche laterali e. era forse. una ma-glietta della polizia di Rosewood? Oh no. Lo era. Wilden osservò la terrazza e annuì freddamente non appena vide Hanna. Lei evitò lo sguardo. «Chi èquello?»,chiese Mona, miagolando. «Uhm.», Hanna mormorò, mezza nascosta sotto al tavolo. Darren Wilden giocava a golf? Ma dài. Al liceo, era il tipo di ragazzo che avrebbe dato fuoco ai ragazzi della squadra di golf della Rosewood. Adesso tutti avrebbero saputo di lei? Mona le lanciò uno sguardo furtivo. «Aspetta un attimo, non veniva alla nostra scuola?». Ridacchiò. «Oddio. È il ragazzo della squadra femminile di tuffi. Hanna, vecchia porca! Com'è che lo conosci?» «Be', lui è.». Si fermò, passandosi la mano sulla cintura. «L'ho conosciuto alla pista del Marwyn un paio di giorni fa, quando sono andata a correre. Ci siamo fermati insieme alla fontanella». «Forte», disse Mona. «Lavora da queste parti?». Hanna fece un'altra pausa. Voleva in ogni modo sviare il discorso. «Uhm. Se non sbaglio, mi ha detto di essere un poliziotto», disse con aria indifferente. «Mi prendi in giro?». Mona tirò fuori il suo lucidalabbra Shu Uemura dalla borsa blu di pelle e si picchiettò leggermente il labbro inferiore. «Quel tizio è abbastanza figo da comparire su un calendario di poliziotti. Già me lo immagino: Mister Aprile. Sentiamo se ci fa vedere il manganello!». «Zitta!», sibilò Hanna. Portarono le insalate. Hanna poggiò il contenitore con le patate fritte da un lato e addentò dei pomodori sconditi. Mona si chinò, avvicinandosi. «Scommetto che riusciresti a uscirci insieme». «Chi?» «Mister Aprile! E chi sennò?». Hanna sbuffò. «Già». «Assolutamente. Dovresti portarlo alla festa dei Kahn. Ho sentito dire che l'anno scorso sono venuti dei poliziotti. Ecco perché non si fanno mai beccare». Hanna si appoggiò allo schienale. La festa dei Kahn era una tradizione a Rosewood. I Kahn vivevano su un terreno di venti acri, e i figli dei Kahn (Noel era il più giovane) tenevano ogni anno una festa per celebrare il ritorno a scuola. I ragazzi razziavano le scorte ben fornite di liquori che i loro genitori tenevano in cantina, e succedeva sempre qualche scandalo. L'anno passato, Noel aveva sparato al suo migliore amico, James, sul sedere nudo con una pistola a salve perché James ci aveva provato con l'allora ragazza di Noel, Alyssa Pennypacker. Erano entrambi talmente ubriachi che avevano riso per tutto il viaggio fino al pronto soccorso, senza riuscire a ricordarsi come fosse successo. L'anno precedente, dei fumatori accaniti si erano fatti talmente tante canne da cercare di far fare un tiro dalla pipa ad acqua anche ai cavalli Appaloosa del signor Kahn. «No», rispose Hanna, mordendo un altro pomodoro. «Penso che ci andrò con Sean». Mona aggrottò la fronte. «Perché rovinarsi una festa perfetta con Sean? Ha fatto un voto di castità, probabilmente non si presenterà neanche!». «Solo perché fai un voto non significa che tu smetta anche di frequentare le feste». Hanna inghiottì un grossa foglia d'insalata, sgranocchiando le verdure secche e insipide. «Be', se non vuoi chiedere a Mister Aprile di venire da Noel, lo farò io». Mona si alzò. Hanna l'afferrò per il braccio. «No!». «Perché no? Andiamo, sarà divertente». Hanna piantò le unghie nel braccio di Mona. «Ho detto di no». Mona si risedette e chiuse il becco. «Perché no? ». Il cuore di Hanna andava a mille. «D'accordo. Dopo tutto, non potresti dirlo a nessuno». Fece un respiro profondo. «L'ho incontrato alla stazione di polizia, non alla pista. Sono stata convocata per l'affare Tiffany. Ma non è niente. Non mi hanno beccata». «Mio Dio!», strillò Mona. Wilden alzò nuovamente lo sguardo verso di loro. «Shhh!», bisbigliò Hanna. «Stai bene? Com'è andata? Raccontami tutto», sussurrò Mona. «Non c'è molto da dire». Hanna gettò il tovagliolo sul piatto. «Mi hanno portata alla stazione di polizia, mia madre è venuta con me e siamo rimaste lì sedute per un po'. Mi hanno lasciata andare con un ammonimento. O roba del genere. L'intera faccenda è durata una ventina di minuti». «Porca miseria». Mona guardò Hanna con un'espressione indecifrabile. Hanna si chiese per un attimo se non fosse uno sguardo di pietà. «Non è stato drammatico o cose del genere», disse Hanna a propria discolpa, con la gola secca. «Non è successo niente. 110 La maggior parte dei poliziotti era al telefono. Ho scritto messaggi sul cellulare per tutto il tempo». Si fermò, riflettendo se fosse il caso o meno di raccontare a Mona del messaggio sul "non questo" che aveva ricevuto da A, chiunque fosse A. Ma perché sprecare fiato? Alla fine, non avrebbe significato molto, no? Mona bevve un sorso di Perrier. «Pensavo che non ti avrebbero mai beccata». Hanna deglutì a fatica. «Sì, be'.». «Tua madre ti ha uccisa?». Hanna distolse lo sguardo. Tornando a casa, la madre le aveva chiesto se aveva avuto davvero intenzione di rubare il bracciale e gli orecchini. Quando lei aveva risposto di no, la signora Marin aveva risposto: «Bene, allora è tutto risolto». Poi aveva aperto il cellulare per fare una telefonata. Hanna fece spallucce e si alzò. «Mi sono appena ricordata che devo portare fuori Dot». «Sei sicura di stare bene?», chiese Mona. «Hai come delle macchie sulla faccia». «Non è niente». Baciò Mona e si voltò verso la porta. Uscì dal ristorante a passo lento, a proprio agio, ma una volta raggiunto il parcheggio, iniziò a correre. Montò sulla sua Toyota Prius, che la madre si era comprata per sé l'anno prima ma che aveva passato a Hanna perché le era venuta a noia, e si guardò la faccia nello specchietto retrovisore. Aveva la guance e la fronte ricoperte di chiazze rosse. Dopo la sua trasformazione, Hanna era stata attenta in modo maniacale non soltanto ad apparire sempre perfetta, ma anche aessere sempre perfetta. Terrorizzata all'idea che il più piccolo errore potesse invertire la sua vertiginosa ascesa, aveva curato ogni minimo dettaglio, dalle piccole cose, come l'immagine del profilo dei vari social network, alle cose più grandi, come il giusto gruppo di persone da invitare alle feste, al ragazzo perfetto con cui uscire - che, fortunatamente, era lo stesso che amava ormai dalla seconda media. Essere stata beccata per furto in un negozio macchiava l'immagine della perfetta, controllata,ùberfiga Hanna che tutti ormai conoscevano? Non era stata capace di decifrare lo sguardo di Mona quando aveva detto "porca miseria". Intendeva forse,Porca miseria, comunque niente di grave o forse,Porca miseria, che perdente? Si chiese se avesse fatto bene a raccontare tutto a Mona. Ma tanto, qualcun altro già sapeva. A. "Sai che cosa dirà Sean? Non questo!". Il campo visivo di Hanna iniziò a offuscarsi. Strinse il volante per un attimo, poi girò la chiave nell'accensione e uscì dal parcheggio del country club, diretta verso una stradina sterrata senza uscita a pochi metri dalla via principale. Si sentiva il cuore pulsare nelle tempie mentre spegneva il motore e faceva dei respiri profondi. Il vento odorava di fieno e di erba appena tagliata. Hanna chiuse gli occhi, stringendoli forte. Quando li riaprì, fissò il contenitore di patate fritte.Non farlo, pensò. Una macchina passò lungo la strada principale. Hanna si asciugò le mani sui jeans, poi dette un'altra sbirciatina al contenitore. Le patatine avevano un profumo delizioso.Non farlo, non farlo, non farlo. Allungò la mano e aprì il coperchio. L'odore dolciastro e caldo delle patate le arrivò dritto in faccia. Prima di riuscire a fermarsi, iniziò a metterne in bocca una manciata dopo l'altra. Le patatine erano talmente bollenti da bruciarle la lingua, ma non le importava. Era un tale sollievo; l'unica cosa che la faceva sentire meglio. Non si fermò prima di averle finite tutte e di avere persino leccato dai lati del contenitore il sale che si era depositato sul fondo. All'inizio si sentì molto, molto più calma, ma non appena si fu rimessa in strada, i vecchi e ormai ben noti sentimenti di panico e vergogna si fecero strada dentro di lei. Hanna era stupita di come, sebbene fossero passati anni da quando lo faceva, le sensazioni fossero rimaste esattamente identiche. Lo stomaco le faceva male, i pantaloni le stringevano e l'unica cosa che desiderava era liberarsi di tutto quello che aveva dentro. Ignorando i guaiti eccitati di Dot che provenivano dalla sua camera, Hanna corse verso il bagno al piano di sopra e, sbattendo la porta, si lasciò cadere sul pavimento. Grazie a Dio sua madre non era ancora tornata da lavoro; almeno, non avrebbe sentito quello che Hanna stava per fare. 12 HMM, ADORO IL PROFUMO DEI RISULTATI DEI TEST APPENA FATTI Ok. Spencer doveva darsi una calmata. Mercoledì pomeriggio, aveva appena infilato la sua Mercedes Classe C cinque porte (la macchina smessa di sua sorella, che si era presa un nuovo,pratico SUV Mercedes) nel vialetto di casa. Il consiglio studentesco era andato per le lunghe e aveva dovuto guidare nervosamente nelle strade buie di Rosewood. Per tutto il giorno si era sentita come se qualcuno la stesse osservando, come se chiunque avesse scritto quella e-mail potesse aggredirla in qualunque momento. Spencer continuava a pensare a quella coda di cavallo così familiare che aveva visto apparire nella camera di Alison. Il pensiero le tornava sempre a Ali, e a tutto quello che Ali sapeva di lei. No, era folle. Alison era scomparsa - e molto probabilmente morta - tre anni prima. E poi, in quella casa ormai viveva un'altra famiglia, giusto? Corse alla cassetta della posta e tirò fuori una pila di lettere, rimettendo dentro quello che non era per lei. Improvvisamente, la vide. Era una busta dalla forma allungata, non troppo spessa, non troppo sottile, con il suo nome stampato a chiare lettere nella finestrella. L'indirizzo del mittente recitava "Commissione universitaria". Era arrivata. Spencer strappò la busta e scorse la pagina. Lesse i risultati degli esami sei volte prima di convincersi. Aveva ottenuto 2350 punti su 2400. «E vaiiiii!», urlò, stringendo i fogli talmente forte da accartocciarli. «Wow! Qualcuno sembra proprio felice!», disse una voce proveniente dalla strada. Spencer alzò lo sguardo. Affacciato al finestrino del conducente di una Mini Cooper nera c'era Andrew Campbell, spilungone lentigginoso dai capelli lunghi che aveva battuto Spencer alle elezioni del rappresentante di classe. Erano numero uno e due in praticamente ogni materia. Prima però che Spencer riuscisse a vantarsi del punteggio ottenuto - cosa che l'avrebbe fatta sentire tanto bene - lui se l'era già svignata.Che tipo strampalato.Spencer si diresse verso casa. Mentre saltellava eccitata, qualcosa la fermò: si ricordò del punteggio quasi perfetto ottenuto da sua sorella e fece una rapida conversione mentale tra i 1600 punti utilizzati all'epoca e i 2400 attualmente usati dalla Commissione universitaria. Erano 100 punti in meno rispetto a quelli di Spencer. E non avrebbero anche dovuto essere più difficili di prima? Be', allora chi era il genioadesso?Un'ora dopo, Spencer se ne stava seduta al tavolo di cucina a leggere Middlemarch,un libro presente nella lista di quelli suggeriti per letteratura inglese, quando iniziò a starnutire. «Melissa e Wren sono qui», le disse la signora Hastings entrando in cucina e portando la posta che Spencer aveva lasciato nella cassetta delle lettere. «Hanno portato tutti i loro bagagli per il trasloco!». Aprì di colpo il forno, controllando il pollo e le crocchette ai cinque cereali della rosticceria, poi iniziò a darsi da fare in soggiorno. Spencer starnutì ancora. La madre era sempre preceduta da una nuvola di Chanel n. 5, anche quando aveva trascorso l'intera giornata a lavorare con i cavalli, e Spencer era sicura di essere allergica. Pensò di dirle dei risultati dei test, ma una voce squillante proveniente dall'atrio la bloccò. «Mamma?», chiamò Melissa, entrando in cucina insieme a Wren. Spencer fece finta di osservare la noiosa copertina di Middlemarch. «Ehi», le disse Wren. «Ehi», rispose lei freddamente. «Che stai leggendo?». Spencer esitò un attimo. Era meglio tenersi alla larga da Wren, soprattutto adesso che stava per trasferirsi lì. Melissa passò senza salutare e iniziò a spacchettare dei cuscini viola da una busta di Pottery Barn. «Questi sono per il divano nel fienile», disse, praticamente strillando. Spencer rabbrividì di disgusto. A quel gioco si poteva benissimo giocare in due. «Oh, Melissa!», strillò. «Mi sono dimenticata di dirtelo! Non indovinerai mai in chi mi sono imbattuta!». Melissa continuò a spacchettare i cuscini. «Chi?» «Ian Thomas ! Adesso dirige la mia squadra di hockey su prato!». Melissa si raggelò. «Lui. che cosa? Lui è? È qui? Ha chiesto di me?». Spencer fece spallucce e finse di pensarci. «No, non mi pare». «Chi è Ian Thomas?», chiese Wren, allungandosi sull'isola di marmo della cucina. «Nessuno», tagliò corto Melissa, tornando a occuparsi dei cuscini. Spencer chiuse di botto il libro e schizzò in sala da pranzo. Ecco. Adesso si sentiva meglio. Si sedette al lungo tavolo in stile refettorio da casa colonica, passando il dito sul bicchiere da vino senza gambo che Candace, la governante, aveva appena riempito di vino rosso. Ai suoi genitori non importava se i loro figli bevevano quando loro erano in casa, fintanto che nessuno doveva guidare, per cui afferrò il bicchiere con entrambe le mani e fece una afferrò il bicchiere con entrambe le mani e fece una generosa sorsata. Quando alzò lo sguardo, Wren le stava sorridendo dall'altro lato della tavola, con la schiena ben diritta sulla sedia. «Ehi», disse. Per tutta risposta, Spencer si limitò ad alzare le sopracciglia. Melissa e la signora Hastings si sedettero, mentre il padre di Spencer aggiustò il candeliere, per poi sedersi anche lui. Per un attimo, restarono tutti in silenzio. Spencer toccò i risultati dei test che aveva in tasca. «Indovinate che cosa mi è successo», iniziò. «Io e Wren siamo così felici che ci lasciate stare qui!», disse Melissa contemporaneamente, afferrando la mano di Wren. La signora Hastings le sorrise. «Sono sempre felice quando la famiglia è tutta qui riunita». Spencer si morse il labbro, con lo stomaco che le gorgogliava nervosamente. «Stavo dicendo, papà, che ho ricevuto i...». «Oh», interruppe Melissa, osservando i piatti che Candace aveva appena portato dalla cucina. «Abbiamo qualcosa di diverso dal pollo? Wren vorrebbe evitare di mangiare carne». «Nessun problema», si affrettò a dire Wren, «il pollo va benissimo». «Oh!». Il signor Hastings fece per alzarsi. «Non mangi carne? Non lo sapevo! Penso che in frigo ci sia un po' di pasta fredda, anche se nel condimento ci potrebbe essere del prosciutto.». «Davvero, va benissimo». Wren si toccò la testa nervosamente, raddrizzandosi a ciuffi i capelli già spettinati. «Oh, sono davvero mortificata», disse la signora Hastings. Spencer alzò gli occhi. Quando l'intera famiglia era riunita, sua madre pretendeva che tutti i pasti, persino i cereali inzuppati a colazione, fossero perfetti. Il signor Hastings guardò Wren con fare sospetto. «Io sono un uomo da bistecca». «Assolutamente». Wren alzò il bicchiere con tale foga che un po' di vino schizzò fuori, finendo sulla tovaglia. Quando il padre posò la forchetta, Spencer pensò che fosse arrivato il momento giusto per fare il suo annuncio. «Ho un'idea fantastica. Dato che siamo tutti qui, perché non giochiamo a Star Power?» «Ti prego, papà», disse Melissa, «no». Il padre sorrise. «Invece sì. Ho passato una giornata orrenda a lavoro, ti straccerò». «Che cos'è Star Power?», chiese Wren con aria interrogatoria. Un brivido nervoso corse lungo lo stomaco di Spencer. Star Power era un gioco che i suoi genitori avevano inventato quando lei e sua sorella erano piccole, gioco che lei aveva sempre sospettato che piccole, gioco che lei aveva sempre sospettato che avessero mutuato da qualche casa di riposo. Era semplice: ognuno doveva condividere il più bel traguardo raggiunto durante il giorno e la famiglia avrebbe scelto il vincitore, la star. Sarebbe dovuto servire a far sentire tutti orgogliosi e appagati, ma nella famiglia Hastings serviva solo a far diventare tutti spietatamente competitivi. Tuttavia, se c'era un modo perfetto con cui Spencer avrebbe potuto annunciare i risultati dei test, quello era proprio Star Power. «Lo capirai Wren», disse il signor Hastings. «Comincio io. Oggi, ho preparato una difesa talmente convincente per un mio cliente che questo si è offerto di pagarmi di più». «Impressionante», disse sua moglie, mordendo un piccolo boccone di barbabietola. «Adesso tocca a me. Stamani ho battuto a tennis Eloise dopo una serie di set vincenti consecutivi». «Eloise è un osso duro!», esclamò il marito, prima di bere un altro sorso di vino. Spencer sbirciò furtivamente Wren dall'altra parte della tavola: stava accuratamente spellando il pollo, per cui non poté accorgersi del suo sguardo. Sua madre si pulì la bocca con il tovagliolo. «Melissa?». Melissa intrecciò le dita dalle unghie tozze. «Be', hmm. Ho aiutato gli operai a piastrellare l'intero bagno; l'unico modo per fare un lavoro perfetto era farlo da sola». «Bravissima, tesoro!», le disse il padre. Le gambe di Spencer tremavano nervosamente. Il signor Hastings finì il vino. «Wren?». Wren alzò lo sguardo con un sussulto. «Sì?» «Tocca a te». Wren iniziò a giocherellare con il bicchiere. «Non saprei che cosa dire.». «Stiamo giocando a Star Power», cinguettò la signora Hastings, come se Star Power fosse un gioco comune quanto Scarabeo. «Quale traguardo meraviglioso hai raggiunto oggi, signor Dottore?» «Oh». Wren sbatté le palpebre. «Be', hmm. a dire la verità, nessuno in particolare. Oggi non avevo lezione né tirocinio in ospedale, per cui sono andato al pub con alcuni vecchi amici a guardare la partita del Philadelphia». Silenzio. Melissa lo fulminò con un'occhiata delusa. «Penso sia fantastico», si sacrificò Spencer. «Il modo in cui giocano, è talmente terribile che è una vera impresa restare a guardarli per tutto il giorno». «Già, giocano di merda, vero?». Wren le sorrise grato. «Be', comunque», interruppe la signora Hastings. «Melissa, quando iniziano i corsi?». «Aspetta un attimo», disse Spencer con voce «Aspetta un attimo», disse Spencer con voce acuta. Non si stavano mica dimenticando di lei? «Anche io ho qualcosa da dire per Star Power». Sua madre restò con la forchetta da insalata sollevata a mezz'aria. «Scusa». «Ops!», disse suo padre con tono scherzoso. «Prosegui, Spencer». «Ho ricevuto i risultati dei test», disse. «E, be', ecco». Tirò fuori i punteggi e li passò al padre. Non appena lui li prese, Spencer già sapeva che cosa sarebbe successo. Non sarebbe importato a nessuno. In fondo, che importanza avevano i test di ammissione? Sarebbero tornati al loro Beaujolais, a Melissa e a Wharton, e sarebbe finita lì. Si sentiva le guance in fiamme. Perché si era presa il disturbo? Suo padre posò il calice e si mise a osservare i fogli. «Wow», disse passandoli alla signora Hastings. Quando questa li vide, sussultò. «Non avresti potuto prendere un punteggio più alto di questo, vero?», chiese a Spencer. Anche Melissa allungò il collo per vedere. Spencer riusciva a malapena a respirare. Melissa la guardò di là dal centrotavola di peonie e lillà con uno sguardo tale da farle sospettare che fosse stata lei a scriverle quella e-mail il giorno prima. Quando però incrociò i suoi occhi, Melissa sorrise. «Hai studiato sul serio, allora?». «È un buon punteggio?», chiese Wren, sbirciando i fogli. «È un punteggio fantastico!», sbraitò il signor Hastings. «È meraviglioso!», strillò la signora Hastings. «Come pensi di festeggiare, Spencer? Una cena in centro? Avevi già pensato a qualcosa?». «Quando ho ricevuto i miei risultati, mi avete regalato una prima edizione di Fitzgerald acquistata all'asta, vi ricordate?». Melissa sorrise radiosa. «È vero!», trillò la signora Hastings. Melissa si voltò verso Wren. «Ti sarebbe piaciuto molto; era così divertente fare offerte!». «Be', perché non ci pensi un po' su», disse la signora Hastings, rivolta a Spencer. «Pensa a qualcosa di indimenticabile, come quello che abbiamo fatto per Melissa». Spencer si alzò lentamente. «Be', in realtà ho già qualcosa in mente». «Di che cosa si tratta?». Il padre si chinò in avanti per sentire meglio. Ci siamo,pensò Spencer. «Be', quello che vorrei veramente adesso, nel giro di pochi mesi, è trasferirmi nel vecchio fienile». «Ma.», iniziò Melissa, prima di interrompersi. Wren si schiarì la voce. Suo padre aggrottò le sopracciglia. «Davvero èquestoche vuoi veramente?» «Sì», rispose Spencer. «Ok», disse la signora Hastings, guardando suo marito. «Be'.». Melissa posò la forchetta con violenza. «E che ne sarà di Wren e me?» «Be', hai detto tu stessa che i lavori non sarebbero durati per molto». La signora Hastings si posò la mano sul mento. «Penso che voi ragazzi possiate stare nella tua vecchia camera». «Ma c'è un letto a castello», disse Melissa con una strana vocina infantile. «Per me non è un problema», si affrettò a dire Wren. Melissa lo guardò imbronciata. «Potremmo spostare il letto grande dal fienile alla stanza di Melissa e mettere nel fienile il letto di Spencer», suggerì il signor Hastings. Spencer non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Davvero lo fareste?». La signora Hastings inarcò le sopracciglia. «Melissa, tu puoi sopravvivere, vero?». Melissa si spostò i capelli dalla faccia. «Credo di sì», disse. «Voglio dire, personalmente ho ricevuto molto di più con l'asta e la prima edizione, ma ero io». Wren bevve un sorso di vino con aria discreta. Quando Spencer incontrò il suo sguardo, lui le strizzò l'occhio. Il signor Hastings si voltò verso Spencer. «Ok, allora è fatta». Spencer saltò in piedi e abbracciò i genitori. «Grazie, grazie, grazie!». Sua madre sorrise radiosamente. «Dovresti trasferirti domani». «Spencer, sei sicuramente la Star». Suo padre sollevò i test, macchiati di vino rosso. «Dovremmo incorniciarli per ricordo!». Spencer ridacchiò. Non aveva bisogno di incorniciare niente. Avrebbe ricordato quel giorno per il resto della sua vita. 13 ATTO PRIMO: RAGAZZA SI FA DESIDERARE DA RAGAZZO «Ti va di venire con me a un vernissage alla galleria Chester Springs il prossimo lunedì sera?», chiese Ella, la madre di Aria. Era giovedì mattina ed Ella era seduta di fronte ad Aria, intenta a fare le parole crociate del «New York Times» con una penna nera che sbavava e a mangiare una ciotola di Cheerios. Aveva appena ripreso a lavorare parttime alla galleria d'arte contemporanea Davis sulla strada principale di Rosewood, e poteva godere di ogni beneficio. «Papà non ti accompagna?», chiese Aria. La madre strinse le labbra. «Ha un sacco di lavoro da fare per le sue lezioni». «Oh». Aria tirò un filo di lana dai guanti senza dita che si era fatta a maglia durante un lungo viaggio in treno verso la Grecia. Era forse una punta di sospetto quella che aveva avvertito nella voce di sua madre? Aria temeva sempre che Ella scoprisse di Meredith e che non la perdonasse per aver mantenuto il segreto. Chiuse gli occhi e li strinse.Non ci starai pensando,si disse, versandosi un po' di succo d'uva in un bicchiere. «Ella?», chiese. «Ho bisogno di un consulto amoroso». «Consulto amoroso?», la canzonò sua madre, fissandosi la crocchia nero corvino con una bacchetta cinese rimasta sul tavolo. «Sì», disse Aria. «C'è un ragazzo che mi piace, ma è. come dire. irraggiungibile. Non so più come fare per convincerlo che gli piaccio». «Sii te stessa!», rispose Ella. Aria grugnì. «Ci ho provato». «E allora esci con uno più raggiungibile!». Aria alzò lo sguardo al cielo. «Mi vuoi aiutare o no?». «Oddio, qualcuno qui è proprio sensibile!». Ella sorrise, poi schioccò le dita. «Ho appena letto questo studio sul giornale». Prese il «Times». «Si tratta di un sondaggio su ciò che gli uomini ritengono più attraente in una donna. E sai che cosa c'è al primo posto? L'intelligenza. Ecco, guarda, adesso lo ritrovo.». Iniziò a sfogliare il giornale e poi lo porse ad Aria. «Ad Aria piace un ragazzo?». Mike entrò con passo altero in cucina, afferrando una ciambella glassata dalla scatola sull'isola. «No», si affrettò a rispondere Aria. «Be', comunque a qualcuno piacitu»,disse Mike. «Disgustoso». Emise un finto conato di vomito. «A chi?», chiese Ella con voce eccitata. «Noel Kahn», rispose Mike, afferrando e masticando un enorme boccone di ciambella. «Noel Kahn?», fece eco Ella, volgendo lo sguardo da Mike ad Aria e viceversa. «E chi è? Era qui tre anni fa? Lo conosco?». Aria grugnì e alzò gli occhi al cielo. «Non è nessuno». «Nessuno?». Mike sembrava disgustato. «Ma se è il ragazzo più figo del tuo anno». «Pazienza», disse Aria, baciando la madre sulla fronte. Si avviò verso il corridoio, osservando il giornale. Ad alcuni uomini piaceva il cervello? Be', Aria l'islandese sarebbe sicuramente stata intelligente. «Perché non ti piace Noel Kahn?». La voce di Mike la fece sussultare. Stava in piedi a pochi metri da lei con in mano un cartone di succo d'arancia. «È l'uomo ideale». Aria grugnì. «Se ti piace così tanto, perché non ci esci tu con lui?». Mike bevve direttamente dal cartone, poi si asciugò la bocca e restò a osservarla. «Ti comporti in modo strano. Sei fatta per caso? Non è che potresti darmene un po'?». Aria sbuffò. In Islanda, Mike cercava continuamente di trovare roba ed era sempre fatto, fino a quando, un giorno, alcuni tipi al porto gli avevano venduto una dose da dieci dollari di erba. La roba si era rivelata una truffa, ma lui l'aveva coraggiosamente fumata lo stesso. Mike iniziò ad accarezzarsi il mento. «Credo di sapere perché ti comporti in modo tanto strano». Aria si girò verso il ripostiglio. «Dici solo stronzate». «Dici?», rispose Mike. «Non credo. E sai che cosa? Voglio scoprire se i miei sospetti sono fondati». «Buona fortuna, Sherlock». Aria prese la giacca. Sebbene sapesse che probabilmente Mike stava davvero dicendo un sacco di stronzate, si augurò che non avesse notato il tremolio nella sua voce. Mentre gli altri studenti si dirigevano verso l'aula d'inglese - la maggior parte dei ragazzi con una barba corta e ispida di qualche giorno, la maggior parte delle ragazze con indosso un paio di sandali con zeppa in perfetto stile Hanna&Mona e braccialetti con pendenti - Aria rivedeva la sua pila di note appena scarabocchiate. Quel giorno avrebbero dovuto presentare una relazione orale su una pièce teatrale intitolataAspettando Godot.Aria adorava le relazioni orali (aveva la voce perfetta, sexy e profonda) e casualmente conosceva molto bene lo spettacolo. Una volta, a Reykjavik, aveva trascorso un'intera domenica in un bar a discutere animatamente con una specie di sosia di Adrien Brody sull'argomento, sorseggiando deliziosi Martini alla vodka alla mela e facendo piedino sotto il tavolo. Quindi, non solo quella era un'occasione eccellente per diventare un super studente, ma era anche un'incredibile opportunità per mostrare a tutti chi fosse Aria l'islandese. Ezra entrò. Aveva un'espressione sgualcita, da bibliotecario, insomma, da morsi. Batté le mani. «Ok, ragazzi», disse. «Abbiamo un sacco di argomenti da trattare oggi. Sedetevi». Hanna Marin si girò e fece un sorrisetto compiaciuto ad Aria. «Che tipo di biancheria pensi che indossi oggi?». Aria rispose con un sorriso appena accennato. Boxer rigati di cotone, naturalmente. poi guardò di nuovo Ezra. «Bene». Ezra si girò verso la lavagna. «Avete fatto tutti i compiti per oggi, no? Tutti avete preparato una relazione? Chi vuole iniziare?». Aria alzò la mano ed Ezra le fece cenno con la testa. Aria si alzò e si diresse verso la pedana di fronte alla classe, si sistemò i capelli neri sulle spalle in modo da assumere un'aria super sexy e assicurarsi che la spessa collana di corallo non rimanesse nascosta sotto il colletto della maglia. Rilesse velocemente le prime frasi. «L'anno scorso ho assistito a una rappresentazione diAspettando Godot a Parigi», iniziò. Si accorse che Ezra aveva leggermente alzato le sopracciglia. «Era un piccolo teatro lungo la Senna, e l'aria odorava dei panini al formaggio che venivano sfornati nel negozio accanto». Fece una pausa. «Immaginatevi la scena: una lunga coda di persone in attesa di entrare, una donna con in braccio i suoi due piccoli barboncini bianchi, la Tour Eiffel all'orizzonte». Dette un'occhiata veloce in giro: tutti quanti sembravano così incantati! «Riuscivo a percepire l'energia, l'eccitazione, lapassionenell'atmosfera. E non era soltanto per via della birra che veniva venduta atutti,persino al mio fratellino», continuò. «Forte!», intervenne Noel Kahn. Aria sorrise. «Le poltroncine erano di un velluto color porpora e profumavano di quel tipo di burro che si usa in Francia, molto più dolce del nostro. È quello che rende i croissant tanto deliziosi». «Aria», disse Ezra. «È quel tipo di burro che riesce a rendere buone persinoleescargot!». «Aria!». Aria s'interruppe. Ezra stava appoggiato alla lavagna con le braccia incrociate sulla giacca della Rosewood. «Sì?», chiese lei con un sorriso. «Ti devo interrompere». «Ma. non sono neanche a metà!». «Be', mi servono meno notizie sulle poltroncine di velluto e la pasticceria e più informazioni sullo spettacolo». La classe ridacchiò. Aria tornò al suo posto. Non si era forse reso conto che stava solo creando l'atmosfera? Noel Kahn alzò la mano. «Noel?», chiese Ezra. «Vuoi proseguire tu?» «No», rispose Noel, suscitando una risata generale. «Volevo soltanto dire che penso che la relazione di Aria sia carina, mi è piaciuta». «Grazie», disse piano Aria. Noel si voltò verso di lei. «Davvero non esiste un limite di età per bere alcolici?» «Sì, esatto». «Quest'estate probabilmente andrò in Italia con i miei». «L'Italia è splendida, ti piacerà sicuramente». «Avete finito voi due?», chiese Ezra, fulminando Noel con uno sguardo esasperato. Aria affondò le unghie fucsia nel truciolato del banco. Noel si voltò nuovamente verso di lei. «Ce l'hanno l'assenzio?», sussurrò. Lei fece cenno di sì con la testa, stupita del fatto che Noel avesse persino sentito parlare dell'assenzio. «Signor Kahn», interruppe Ezra severamente. Un po' troppo severamente. «Adesso basta». Era forsegelosia quella che si avvertiva? «Diavolo!», disse Hanna contorcendosi. «Che cos'è che gli è salito su per il culo?». Aria soffocò una risatina. Aveva l'impressione che una certa super studentessa stesse rendendo un certo insegnante un po' nervoso. Ezra chiamò DevonArliss, che iniziò a parlare. Non appena Ezra si fu voltato con il dito sul mento ad ascoltare, Aria iniziò a fremere. Lo desiderava talmente tanto da farle tremare tutto il corpo. No, un attimo. Era solo il cellulare, nascosto nell'enorme sacca verde appoggiata accanto ai piedi. L'aggeggio continuò a vibrare. Aria si chinò lentamente per tirarlo fuori. Un nuovo messaggio: Aria, forse se la fa sempre con le studentesse. Un sacco di insegnanti lo fanno. chiedilo a tuo padre! A Aria richiuse velocemente il cellulare, ma poi lo riaprì e rilesse ancora il messaggio. E ancora. A quel punto, le venne la pelle d'oca. Nessuno nella stanza aveva tirato fuori il cellulare, né Hanna, né Noel. Nessuno. E nessuno la stava osservando. Guardò persino sul soffitto e fuori dalla porta, ma niente sembrava fuori posto. Tutto era calmo e immobile. «Non può essere vero», bisbigliò Aria. L'unica persona che sapeva di suo padre era. Alison. E aveva giurato sulla sua tomba che non ne avrebbe fatto parola con nessuno. Era davvero tornata? 14 ECCO COME CURIOSARE SU GOOGLE QUANDO INVECE DOVRESTI STUDIARE Giovedì pomeriggio, nell'ora libera, Spencer entrò nell'aula di lettura della Rosewood Day. All'interno del campus era il suo posto preferito: scaffali alti fino al soffitto pieni di libri, un enorme mappamondo nell'angolo e la finestra grande sulla parete di fondo. Immobile in mezzo alla stanza, chiuse gli occhi e inspirò l'odore dei vecchi libri rilegati in cuoio. Quel giorno era andato tutto come aveva sperato: l'insolita morsa di freddo le aveva permesso di mettersi il suo nuovo cappotto Marc Jacobs di lana azzurra; il barista della Rosewood Day le aveva fatto un caffè macchiato doppio perfetto; aveva appena superato brillantemente un'interrogazione di francese, e quella sera si sarebbe trasferita nel fienile, mentre Melissa avrebbe dovuto dormire nella sua vecchia, minuscola stanza. Nonostante tutto ciò, una nuvola nera incombeva su di lei, a metà tra la sensazione di fastidio che avvertiva talvolta, quando aveva dimenticato di fare qualcosa, e la sensazione che qualcuno stesse. be', che la stesse osservando. Il perché di quel malessere era chiaro: quella bizzarra e-mail sulla brama. L'immagine dei capelli biondi nella vecchia stanza di Ali. Il fatto che soltanto Ali sapesse di Ian. Nel tentativo di scacciarla, si sedette davanti al computer, aggiustandosi la fascia blu dei calzini fantasia Wolford e si collegò a internet; inizialmente, cercò dei dati per il successivo progetto di biologia, ma dopo avere scorso una serie di risultati su Google, scrisse Wren Kim nel motore di ricerca. Guardò quello che era uscito fuori e soffocò una risatina. Su un sito intitolatoMill Hill School, Londra, c'era una foto di Wren con i capelli lunghi in piedi vicino a un becco Bunsen e a un mucchio di provette. Un altro link rimandava al portale studentesco del Corpus Christi Collegedella Oxford University: lì c'era una foto di Wren dall'aspetto smagliante in costume shakespeariano, con in mano un teschio. Non sapeva che Wren recitasse. Non appena cercò d'ingrandire la foto per vedere quanto gli donasse la calzamaglia, si sentì picchiare sulla spalla. «È il tuo ragazzo quello?». Spencer sobbalzò, scaraventando per terra il cellulare tempestato di brillantini. Andrew Campbell stava ridacchiando sguaiatamente dietro di lei. Spencer si affrettò a chiudere la finestra. «Certo che no!». Andrew si chinò per raccoglierle il telefono, spostandosi dagli occhi una ciocca di capelli lisci e lunghi fino alle spalle. Spencer pensò che forse avrebbe anche potuto essere carino, se solo si fosse tagliato quella criniera leonina. «Ops», disse, porgendole il cellulare. «Penso che sia schizzato via un brillante». Spencer glielo strappò di mano. «Mi hai spaventata». «Scusami», disse lui sorridendo. «Allora il tuo ragazzo fa l'attore?» «Ti ho già detto che non è il mio ragazzo!». Andrew fece un passo indietro. «Scusa. Stavo solo cercando di fare conversazione». Spencer lo scrutò con aria sospetta. «Comunque», proseguì Andrew, aggiustandosi lo zaino della North Face sulle spalle, «mi stavo chiedendo: pensi di andare da Noel domani? Potrei darti un passaggio». Spencer lo guardò assente e poi si ricordò della festa di Noel Kahn. Ci era andata l'anno prima. I ragazzi facevano a gara a chi riusciva a ingoiare più birra con l'imbuto, mentre praticamente ogni ragazza aveva cornificato il proprio ragazzo. Quest'anno sarebbe stato ancora peggio. E poi, Andrew pensava davvero di poterle dare un passaggio sulla sua Mini, e magari ci aveva fatto anche un pensierino? «Ne dubito», rispose. Lo sguardo di Andrew si spense. «Sì, be', immagino tu sia già impegnata». Spencer aggrottò le sopracciglia. «Che cosa vuoi dire?». Andrew alzò le spalle. «Sembra che tu abbia un sacco di cose da fare. Tua sorella è tornata a casa, Spencer si appoggiò di nuovo allo schienale, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Già, è tornata l'altra sera. Ma come facevi a sa.». no?». Si fermò.Un secondo: Andrew faceva continuamente su e giù per la sua strada a bordo della sua Mini. L'aveva visto proprio il giorno prima, mentre ritirava i risultati dei test dalla cassetta della posta. Deglutì a fatica. Ora che ci pensava, forse aveva visto la Mini passare anche il giorno in cui lei e Wren erano stati insieme in piscina. Doveva avere fatto su e giù parecchie volte per accorgersi che Melissa era a casa. E se. e se fosse stato proprio Andrew a nascondersi in giro per spiarla? Andrew era talmente competitivo da rendere la cosa possibile. Inviare messaggi di minaccia non era forse un buon modo per sbarazzarsi di qualcuno e facilitarsi la rielezione a rappresentante di classe l'anno successivo?... o, meglio ancora, battere ogni concorrente per leggere il discorso di commiato di fine anno? E i capelli lunghi! Forse era proprioluiche Spencer aveva visto passare dietro alla finestra di Ali?Incredibile!Spencer lo fissò con aria incredula. «Qualcosa non va?», le chiese Andrew, preoccupato. «Devo andare». Raccolse i libri e si avviò verso l'uscita. «Aspetta», urlò Andrew. Spencer proseguì per la sua strada, ma non appena ebbe spinto la porta della biblioteca, capì di non essere arrabbiata. Certo, era strano che Andrew la spiasse, ma se fosse stato lui A, allora lei sarebbe stata salva. Qualunque cosa Andrewcredesse di sapere su di lei, non era niente.niente.rispetto a ciò che sapeva Alison. Raggiunse l'aula contemporaneamente a Emily Fields. «Ehi», disse Emily, con un guizzo nervoso nello sguardo. «Ehi», rispose Spencer. Emily si sistemò lo zaino della Nike. Spencer si tolse la frangia dalla fronte. Quando era stata l'ultima volta che si erano parlate? «Comincia a fare freddo fuori, vero?», chiese Emily. Spencer annuì. «Già». Emily fece un sorriso del tiponon-so-che-cosadire.Poi Travey Reid, un'altra nuotatrice, la prese per il braccio. «Quand'è che dobbiamo dare i soldi per il costume?», chiese. Mentre Emily rispondeva, Spencer si tolse un inesistente pelucchio dalla giacca, chiedendosi se potesse semplicemente andarsene o se dovesse dirle un ciao di circostanza. Poi, qualcosa sul polso di Emily catturò la sua attenzione. Emily indossava ancora il braccialetto di corda blu della seconda media. Alison ne aveva preparato uno per ognuna di loro dopo l'incidente, l'Affare Jenna. All'inizio, volevano solo colpire il fratello di Jenna, Toby; avrebbe dovuto essere una semplice marachella. Dopo averlo pianificato tutte e cinque insieme, Ali aveva attraversato la strada per rimanere a guardare dalla finestra della casetta sull'albero di Toby, e poi al momento di agire, era accaduto qualcosa di.terribile...a Jenna. Non appena l'ambulanza ebbe lasciato la casa di Jenna, Spencer scoprì qualcosa sull'incidente che nessuna delle altre avrebbe mai saputo: Toby aveva visto Ali, ma Ali aveva visto Toby fare qualcosa di altrettanto orribile. Lui non poteva parlare di lei, perché lei avrebbe parlato di lui. Non molto tempo dopo, Ali aveva fatto per tutte quei braccialetti per ricordare che sarebbero rimaste migliori amiche per sempre e che, ora che condividevano un segreto come quello, avrebbero dovuto anche proteggersi l'un l'altra per sempre. Spencer si aspettava che Ali dicesse alle altre che qualcuno l'aveva vista, ma non lo fece mai. Nell'interrogare Spencer dopo la scomparsa di Ali, la polizia le aveva chiesto se Ali avesse dei nemici, qualcuno che la odiasse così tanto da desiderare di farle del male. Spencer aveva detto che Ali era popolare e, come per ogni ragazza popolare, c'erano delle ragazze che non l'amavano, ma si trattava soltanto di gelosia. Era, naturalmente, una bugia a doppio taglio. Certo, c'erano delle persone che odiavano Ali, e Spencer sapeva che avrebbe dovuto rivelare alla polizia ciò che Ali le aveva detto sull'Affare Jenna. che forse Toby voleva farle del male. ma come avrebbe potuto parlarne senza rivelare il perché? Non c'era giorno in cui Spencer non passasse davanti alla casa di Jenna e Toby, ma loro erano stati mandati in collegio e raramente tornavano a casa, per cui pensava che il loro segreto fosse salvo. Erano al riparo da Toby. E Spencer non era tenuta a dire alle sue amiche ciò che soltanto lei sapeva. Quando Tracey Reid se ne fu andata, Emily si voltò. Sembrava sorpresa del fatto che Spencer fosse ancora lì. «Devo andare a lezione», disse. «Mi ha fatto piacere rivederti, comunque». «Ciao», rispose Spencer, scambiando con Emily un ultimo, goffo sorriso. 15 INSULTARE LA SUA VIRILITÀ È STATO FATALE «Siete troppo lente ragazze. Voglio vedervi più in forma!», " Jurlò l'allenatrice, Lauren, dalla scrivania. Giovedì pomeriggio, Emily stava facendo avanti e indietro con le altre nuotatrici nell'acqua cristallina dell'Anderson Memorial Natatorium della Rosewood, ascoltando l'energica, ex allenatrice olimpica Lauren Kinkaid strillare loro contro. La piscina era larga venticinque metri, lunga cinquanta e dotata di un piccolo trampolino per i tuffi. Degli enormi lucernari riflettevano la piscina in tutta la sua lunghezza, tanto che la sera, nuotando a dorso, si potevano vedere le stelle. Emily si infilò la cuffia sulle orecchie, tenendosi al bordo. Ok, una forma migliore. Doveva concentrarsi seriamente. La sera precedente, dopo essere tornata dalla pista con Maya, era rimasta a lungo sdraiata sul letto, alternando una sensazione di calore e felicità per il tempo passato con lei a una di disagio e irrequietezza per la confessione di Maya. «Non sono sicura che mi piacciano i ragazzi. Penso che starei meglio con qualcuno più simile a me». Maya intendeva dire davvero quello che Emily pensava? Il pensiero di quanto Maya si fosse comportata in modo frivolo alla cascata, per non dire di quanto si erano toccate e solleticate l'un l'altra, la faceva sentire nervosa. Dopo essere tornata a casa la sera precedente, aveva cercato nella sacca da nuoto il messaggio firmato A trovato il giorno prima. L'aveva letto e riletto, sezionando ogni singola parola fino a che non le si era annebbiata la vista. All'ora di cena, aveva deciso che aveva bisogno di ributtarsi ancora in acqua. Niente più allenamenti saltati. Niente più pigrizia. Da quel momento in poi, sarebbe stata una nuotatrice modello. Ben la raggiunse, appoggiandosi alla parete. «Mi sei mancata ieri». «Hmm». Avrebbe dovuto ricominciare da capo anche con Ben. Con le sue lentiggini, i penetranti occhi azzurri, il leggero pizzetto e quel corpo da nuotatore splendidamente scolpito. Ben era figo, no? Cercò di immaginarsi Ben tuffarsi dal ponte della pista del Marwyn. Avrebbe riso, o forse l'avrebbe trovato infantile? «Allora, dov'eri?», le chiese lui, alitando negli occhialini per pulirli. «Ripetizioni di spagnolo». «Ti va di venire da me dopo gli allenamenti? I miei non tornano fino alle otto». «Io. non so se posso». Emily si spinse via dal bordo, iniziando a battere i piedi nell'acqua. «Perché no?». Ben si allontanò dalla parete per raggiungerla. «Perché.». Non riuscì a inventarsi una scusa. «Sai di volerlo», sussurrò Ben, iniziando a schizzarla. Maya aveva fatto lo stesso il giorno prima, ma stavolta Emily si allontanò. Ben smise. «Che c'è?» «Smettila». Ben le mise le mani attorno alla vita. «No? Non ti piace essere schizzata?», chiese con una vocina infantile. Emily gli prese le mani, allontanandole da sé. «Smettila». Lui si scostò. «Va bene». Emily scivolò singhiozzando dall'altro lato della vasca. Le piaceva Ben, davvero. Forse avrebbe semplicemente dovuto andare da lui dopo gli allenamenti. Avrebbero rivisto alcuni episodi di American Choppermangiando pizza consegnata da DiSilvio, poi lui avrebbe fatto una ricognizione sotto il suo antiestetico reggiseno sportivo. Improvvisamente, iniziò a piangere. Non voleva proprio sedersi sul divano blu di Ben a togliersi pezzi di origano dai denti e spingere la lingua dentro la sua bocca. Semplicemente, non voleva. Non era il tipo di ragazza capace di fingere. Forse questo significava che voleva rompere? Era difficile schiarirsi le idee su un ragazzo quando questo ti nuotava nella corsia accanto, a un metro di distanza. Sua sorella Carolyn, che si allenava nella corsia accanto, le picchiò sulla spalla. «Tutto bene?» «Sì», mormorò Emily, afferrando una tavoletta blu. «Ok». Carolyn aveva l'aria di volere aggiungere qualcosa. Dopo la passeggiata del giorno prima con Maya, Emily era riuscita a entrare di corsa nel parcheggio, giusto in tempo per vedere Carolyn uscire dalla doppia porta della piscina. Quando Carolyn le aveva chiesto dove fosse stata, Emily le aveva detto di aver dato delle ripetizioni di spagnolo. Carolyn sembrava averle creduto, nonostante i capelli umidi di Emily e lo strano rumore emesso dal motore, un rumore che faceva soltanto durante il raffreddamento dopo un lungo viaggio. Sebbene le due sorelle si somigliassero, per via delle grosse efelidi sul naso, i capelli castani bruciati e tendenti al rossiccio a causa del cloro e le ciglia sottili, sempre ricoperte da una generosa dose di mascara Maybelline, non erano simili. Carolyn era una ragazza silenziosa, schiva e obbediente, e sebbene anche Emily lo fosse, Carolyn sembrava davvero felice di esserlo. L'allenatrice soffiò nel fischietto. «È ora di allenarsi! In fila!». Le nuotatrici si allinearono dalla più veloce alla più lenta, tenendo le tavolette davanti a loro. Ben stava di fronte a Emily; la guardò e alzò un sopracciglio. «Non posso venire stasera», disse lei a voce bassa, in modo che gli altri ragazzi - che nel frattempo si erano radunati dietro di lei e ridevano per via della finta abbronzatura di Gemma Curran che era andata a farsi benedire non sentissero. «Mi dispiace». Ben fece un mezzo sorriso. «Già. Come se questo mi stupisse». Poi, non appena Lauren ebbe soffiato di nuovo nel fischietto, si dette una spinta alla parete e iniziò a nuotare con le gambe a delfino. A disagio, Emily aspettò che Lauren fischiasse di nuovo e si dette la spinta, seguendolo. Mentre nuotava, Emily si mise a osservare le gambe di Ben muoversi a ritmo. Era davvero stupido il modo in cui portava la cuffia sopra i capelli già corti. Prima delle gare, poi, diventava ossessivo, radendosi fino all'ultimo pelo che aveva sul corpo, inclusi quelli delle braccia e delle gambe. Adesso, con i piedi creava degli schizzi davvero esagerati, che spruzzavano sulla faccia di Emily, che guardò di traverso la sua testa muoversi su e giù davanti a lei e iniziò a pestare più forte con le gambe. Sebbene Ben l'avesse distanziata di cinque secondi, Emily toccò la parete praticamente insieme a lui. Si voltò verso di lei, arrabbiato. Il codice dei nuotatori stabiliva che non importa quanto tu sia bravo, se qualcuno ti raggiunge in un set, lo devi lasciare ripartire prima di te. Ma Ben si limitò a darsi la spinta e ripartire. «Ben!», chiamò Emily, con voce irritata. Lui si alzò in piedi nella parte bassa e si voltò. «Che c'è?» «Lasciami passare avanti». Ben alzò gli occhi al cielo e scivolò all'indietro sott'acqua. Emily si spinse alla parete e batté i piedi furiosamente fino a raggiungerlo. Lui toccò la parete e si voltò verso di lei. «Potresti starmi fuori dalle palle?», disse lui, praticamente urlando. Emily scoppiò in una risata. «Mi devi lasciar passare!». «Forse, se non ti fossi buttata addosso a me, adesso non mi staresti davanti!». Lei storse il naso. «Non ci posso fare niente, se sono più veloce di te». Ben rimase a bocca aperta. Ops. Emily si leccò le labbra. «Ben.». «No». Ben alzò le mani. «Continua a nuotare veloce, ok?». Lanciò sul bordo gli occhialini, che rimbalzarono goffamente e schizzarono di nuovo in acqua, mancando per un pelo la spalla dalla finta abbronzatura di Gemma. «Ben.». Lui la guardò, poi si girò e uscì dalla piscina. «Chi se ne frega». Emily rimase a guardarlo mentre spingeva con forza la porta dello spogliatoio maschile. Scosse la testa, osservando la porta continuare a muoversi avanti e indietro, poi si ricordò di quello che le aveva detto Maya il giorno prima. «Fanculo gli alci», bisbigliò piano, sorridendo. 16 MAI ACCETTARE UNA LETTERA D'INVITO SENZA L'INDIRIZZO DEL MITTENTE «Allora che pensi di fare, vieni stasera?». Hanna si passò il BlackBerry all'altro orecchio, aspettando la risposta di Sean. Era giovedì pomeriggio, dopo la scuola. Lei e Mona si erano viste solo un attimo per un cappuccino al campus, ma Mona aveva dovuto andarsene presto per allenarsi per il torneo di golf madri contro figlie del fine settimana. Così, Hanna era rimasta seduta davanti alla veranda a conversare con Sean e a dare un'occhiata ai gemellini di sei anni della porta accanto mentre disegnavano ragazzi nudi sorprendentemente ben fatti con i gessetti lungo tutto il vialetto. «Non posso», rispose Sean. «Mi dispiace». «Ma il giovedì è la serata diNerve,lo sai!». Hanna e Sean si erano appassionati a quel reality show,Nerve,che raccontava le vite di quattro coppie che si erano conosciute on line. L'episodio di quella sera era estremamente importante, perché i loro due personaggi preferiti, Nate e Fiona, stavano per farlo. Hanna pensava che almeno avrebbero potuto iniziare a parlarne. «Ho. ho una riunione stasera». «Una riunione di cosa?» «Ehm. V Club». Hanna rimase senza parole. V Club? Come in Club della Verginità ? «Non puoi saltarla?». Lui rimase in silenzio per un po'. «Non posso». «Be', almeno pensi di venire da Noel domani?». Un'altra pausa. «Non lo so». «Sean! Devi venire!». «D'accordo», rispose. «Penso che Noel s'incazzerebbe abbastanza se non venissi». «Ancheiom'incazzerei», aggiunse Hanna. «Lo so. Ci vediamo domani». «Sean, aspetta.», iniziò Hanna, ma Sean aveva già riattaccato. Hanna aprì la porta di casa. Sean dovevavenire a quella festa. Aveva ideato un piano infallibile e romantico: l'avrebbe portato nel bosco di Noel, si sarebbero confessati il loro amore e avrebbero fatto sesso. Il V Club non avrebbe potuto eccepire nulla se avessero fatto sesso per amore, no? Inoltre, il bosco dei Kahn era famoso: era infatti noto come il "Bosco della virilità", perché una marea di ragazzi alle feste dei Kahn aveva perso la verginità lì dentro. Si diceva persino che gli alberi sussurrassero segreti sexy alle nuove reclute. Si fermò davanti allo specchio del corridoio tirandosi su la maglietta per esaminare i muscoli rigidi della pancia. Poi si voltò per guardarsi il sedere, piccolo e rotondo. Infine, si chinò in avanti per esaminarsi la pelle. Le chiazze del giorno prima erano scomparse. Un incisivo si accavallava a un canino. Era sempre stato così? Lanciò la borsa di pelle dorata dalla cinghia spessa sul tavolo di cucina e aprì il frigorifero. Sua madre si era dimenticata di comprare il gelato in vaschetta, per cui si sarebbe dovuta accontentare dei gelati con il biscotto con il 50 per cento di zucchero in meno. Ne tirò fuori tre e iniziò a scartarne avidamente uno. Al primo morso, avvertì quell'impulso familiare. Voleva mangiarne ancora. «Dai Hanna, prendi un altro profiterol», le aveva sussurrato Ali il giorno in cui erano andate a trovare il padre ad Annapolis. Poi Ali si era rivolta verso Kate, la figlia della fidanzata del padre, dicendole: «Hanna è così fortunata! Può mangiare qualsiasi cosa senza prendere un etto!». Naturalmente, era falso. Ed è questo ciò che lo rendeva così meschino. Hanna era già paffuta, e sembrava doverlo diventare sempre di più. Kate aveva ridacchiato, e Ali, che avrebbe dovuto essere dalla parte di Hanna, aveva riso anche lei. «Ti ho preso una cosa». Hanna sobbalzò. Sua madre era seduta al tavolino del telefono con indosso un reggiseno sportivo della Champion rosa acceso e un paio di pantaloni scampanati neri da yoga. La signora Marin osservò Hanna, con gli occhi puntati sui gelati che teneva in mano. «Hai davvero bisogno di mangiarne tre?». Hanna abbassò lo sguardo. Aveva divorato il gelato in meno di dieci secondi, riuscendo a malapena a sentirne il sapore, e aveva già scartato il secondo. Rivolse un sorriso infantile a sua madre e infilò velocemente i gelati rimanenti nel freezer. Quando si voltò, sua madre aveva appoggiato una piccola scatola blu di Tiffany sul tavolo. Hanna la guardò con aria interrogativa.«Questo?»«Aprilo». Dentro c'era una scatolina blu di Tiffany, che al suo interno conteneva la parure completa: il bracciale con pendente, la collana e gli orecchini a cerchio in argento. Proprio quelli che aveva dovuto restituire alla commessa di Tiffany alla stazione di polizia. Hanna li tirò fuori, facendoli brillare alla luce del lampadario. «Wow». La signora Marin alzò le spalle. «Prego». Poi, per indicare che la conversazione era finita, si ritirò nella sua stanza, srotolò il tappetino rosso da yoga e accese il suo DVD diPower Yoga. Hanna ripose lentamente gli orecchini nella scatola, confusa. Sua madre era così originale. Fu in quel momento che notò una busta quadrata color crema appoggiata sul tavolino. Sopra c'erano stampati il suo nome e indirizzo a lettere maiuscole. Sorrise. Un invito a una bella festa era proprio ciò di cui aveva bisogno per tirarsi su di morale. «Inspirate dal naso, espirate dalla bocca», ripeteva con voce rassicurante il maestro di yoga dalla TV nella stanza di sua madre. La signora Marin stava in piedi con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Non si mosse neanche quando il suo BlackBerry iniziò a suonare ilVolo del calabrone,per segnalare l'arrivo di una email. Quello era il momento da dedicare a sé. Hanna afferrò la busta e salì di sopra nella sua stanza. Si sedette sul letto a baldacchino, accarezzò i bordi delle lenzuola da un milione di fili e sorrise a Dot, placidamente addormentato nella sua cuccetta. «Vieni qui, Dot», sussurrò. Lui si stiracchiò e salì mezzo addormentato tra le sue braccia. Hanna fece un sospiro. Forse si trattava soltanto di sindrome premestruale, e questa sensazione di nervi a fior di pelle, disagio, sprofondamento, sarebbe svanita nel giro di pochi giorni. Tagliò la busta con le unghie per aprirla e aggrottò le sopracciglia: non si trattava di un invito, e il biglietto che vi era contenuto non sembrava avere molto senso. Hanna, neanche papà ti ama di più! A Che cosa avrebbe dovuto significare? Non appena ebbe aperto l'altra pagina contenuta nella busta, sussultò. Si trattava di una stampa a colori tratta dalla newsletter on line di una scuola privata. Hanna osservò i volti familiari che vi apparivano; la didascalia recitava "Kate Randall, portavoce degli studenti allo spettacolo di beneficenza, qui ritratta assieme alla madre, Isabel Randall e al fidanzato di questa, Tom Marin". Hanna sbatté le palpebre più volte; suo padre aveva esattamente lo stesso aspetto di quando l'aveva visto l'ultima volta, e il cuore le si fermò, leggendo la parola "fidanzato". Quando era accaduto tutto ciò? Ma era soprattutto l'immagine di Kate a farle venire l'orticaria: Kate appariva più perfetta che mai, con le braccia felicemente avvolte attorno a sua madre e al signor Marin. Hanna non avrebbe mai dimenticato la prima volta che l'aveva incontrata: lei e Ali erano appena scese dal treno ad Annapolis, e in un primo momento Hanna aveva scorto soltanto suo padre appoggiato al cofano della macchina; subito dopo, però, lo sportello dell'auto si era aperto, ed era uscita Kate. I suoi lunghi capelli castani le scivolavano dritti e splendenti, e aveva il portamento di una ragazza che faceva danza dall'età di due anni. Il primo istinto di Hanna era stato quello di nascondersi dietro un palo; aveva osservato i suoi jeans attillati e la maglietta stretta, cercando di non andare in iperventilazione. L'unica persona a essere a conoscenza di Kate era Alison, e lo sguardo le cadde sulla A del biglietto. Il gelato iniziò a brontolarle nello stomaco. Corse in bagno e afferrò lo spazzolino nel contenitore di ceramica vicino al lavabo, poi s'inginocchiò davanti alla tazza e aspettò. Le lacrime le bagnarono gli angoli degli occhi.Non ricominciare,si disse, stringendo forte lo spazzolino.Sei migliore di così. Poi si alzò e si guardò allo specchio: la faccia paonazza, i capelli sparpagliati attorno al volto, gli occhi rossi e gonfi. Lentamente, posò lo spazzolino nel contenitore. «Sono Hanna e sono fantastica», si disse, rivolgendosi alla propria immagine riflessa. Ma non sembrava convincente. Niente affatto. 17 ANATRA, ANATRA, OCA! «Aria si soffiò via la lunga frangetta dagli occhi. «Allora, in questa scena, devi metterti questo scolapasta in testa e parlare un sacco di un bambino che non abbiamo». Noel corrugò la fronte e si portò il pollice sulle labbra rosee e ben disegnate. «Perché mi devo mettere uno scolapasta in testa, Finlandia?» «Perché», rispose Aria, «si tratta di una commedia dell'assurdo. E quindi, si suppone che sia, come dire, assurda». «Afferrato». Noel ridacchiò. Era venerdì mattina ed erano seduti ai banchi dell'aula di letteratura. Dopo il disastro diAspettando Godotdel giorno prima, Ezra aveva detto loro di dividersi in gruppi e scrivere un proprio spettacolo esistenzialista. "Esistenzialista" era un sinonimo di "ridicolo e fuori dalla realtà". E, se c'era qualcuno capace di creare qualcosa di ridicolo e fuori dalla realtà, quel qualcuno era proprio Aria. «Mi è venuto in mente qualcosa di davvero assurdo che potremmo fare», disse Noel. «Potremmo far guidare a questo personaggio un Navigator e, tipo dopo un paio di birre, farlo schiantare nel suo laghetto delle anatre. Però, in realtà è tipo addormentato, per cui non si accorge di trovarsi nel laghetto delle anatre fino al giorno dopo. Potremmo mettere delle anatre nel Navigator». Aria aggrottò le sopracciglia. «E come facciamo a metterlo in scena? Sembra impossibile». «Non lo so», disse Noel alzando le spalle, «ma mi è successo l'anno scorso, ed era proprio assurdo. E fichissimo». Aria sospirò. Non aveva scelto Noel come compagno perché pensava che fosse esattamente un bravo coautore. Si guardò intorno cercando Ezra, ma sfortunatamente lui non li stava guardando, in preda a un capriccio di gelosia. «Che ne pensi se facessimo crederea uno dei personaggi di essere un'anatra?» «Uhm, certo». Noel lo scrisse su un pezzo di carta con una Montblanc rovinata. «Ehi, forse potremmo girarlo con la videocamera di mio padre e farne un film, invece di uno spettacolo noioso?». Aria fece una pausa. «Sì, penso che possa essere forte». Noel sorrise. «Così potremmo mettere su la scena del Navigator!». «Credo di sì». Aria si chiese se i Kahn avessero davvero un Navigator di scorta da distruggere. Forse sì. Noel dette una gomitata a Mason Byers, che faceva coppia con James Freed. «Figo, nel nostro spettacolo inseriremo un Navigator! E anche i fuochi spettacolo inseriremo un Navigator! E anche i fuochi d'artificio!». «Aspetta, quali fuochi d'artificio?», chiese Aria. «Figo!», ribatté Mason. Aria si zittì; di fatto, non aveva abbastanza energie per tutto questo. La notte precedente aveva dormito a malapena. Assillata dal messaggio, aveva trascorso metà della notte a pensare e a sferruzzare furiosamente un cappello viola con i paraorecchie. Era strano pensare che qualcuno non solo sapesse di lei ed Ezra, ma anche della questione con suo padre. E se questo A avesse intenzione di spedire dei messaggi anche alla madre? E se l'avesse già fatto? Aria non voleva che la madre lo scoprisse, almeno non adesso, e non in quel modo. Aria non riusciva neanche a togliersi dalla testa l'idea che l'A del messaggio potesse davvero essere Alison. In effetti, non erano molte le persone a sapere. Forse qualcuno in facoltà, e Meredith, ovviamente. Ma non conoscevano Aria. Se quel messaggio proveniva da Alison, ciò significava che era viva. Oppure,no.E se quelle parole fossero venute dal fantasma di Ali? Un fantasma avrebbe potuto facilmente scivolare tra le fenditure nel bagno delle signore di Snookers, e gli spiriti dei morti si mettevano spesso in contatto con i vivi per farsi perdonare qualcosa, no? Era come il loro ultimo compito a casa prima di essere promossi in paradiso. Eppure, se Alison avesse dovuto farsi perdonare qualcosa, Aria aveva in mente un candidato più meritevole di lei. Bastava pensare a Jenna. Aria si mise le mani sugli occhi, bloccando il ricordo. Decise di affrontare i propri demoni, come raccomandato in psicologia: cercò di bloccare il ricordo dell'Affare Jenna e al contempo quello di suo padre con Meredith. Poi fece un sospiro. In momenti come quello, avrebbe voluto non essersi mai allontanata dalle sue vecchie amiche. Come Hanna, qualche banco più avanti; se solo Aria avesse potuto andare da lei e porle le sue domande su Ali. Ma il tempo cambia profondamente le persone. Si chiese se invece non sarebbe stato più facile parlare con Spencer o Emily. «Ehilà». Aria si sentì richiamare alla realtà. Di fronte a lei c'era Ezra. «Ciao», squittì lei. Incrociò i suoi occhi azzurri e sentì una stretta al cuore. Ezra inclinò goffamente un fianco. «Come stai?» «Uhm, sto. alla grande. Una favola». Raddrizzò la schiena. Tornando dall'Islanda, Aria aveva letto, in una copia di «Seventeen» trovata nella tasca del sedile davanti dell'aereo, che ai ragazzi piacevano le ragazze con un atteggiamento entusiasta e positivo. E, dato che l'intelligenza non aveva funzionato il giorno prima, perché non provare con l'entusiasmo? Ezra iniziò ad aprire e chiudere una penna a scatto. «Ascolta, mi spiace di averti interrotta ieri nel mezzo della tua presentazione; se mi lasci le tue schede, gli do un'occhiata per metterti il voto». «Ok». Uhm. Ezra l'avrebbe fatto anche con altri studenti? «Allora. come stai?» «Bene». Ezra sorrise e contrasse le labbra, come se volesse aggiungere qualcosa. «Allora, a che cosa state lavorando?». Appoggiò le mani sul banco e si chinò per sbirciare nel portatile. Aria osservò per un attimo le sue mani, poi fece scivolare il mignolo contro quello di Ezra. Cercò di farlo sembrare un incidente, ma lui non si mosse. Era come se tra i loro due mignoli si stesse creando elettricità. «Professor Fitz!». Devon Arliss alzò la mano dall'ultima fila. «Avrei una domanda». «Arrivo subito», rispose Ezra. Aria si mise in bocca il mignolo che aveva toccato quello di Ezra. Rimase a guardarlo per alcuni secondi, pensando che forse sarebbe tornato da lei, ma non lo fece. Be', pazienza. Bisognava tornare al piano G, come Gelosia. Si girò verso Noel. «Penso che il nostro film dovrebbe contenere anche una scena di sesso». Lo disse a voce particolarmente alta, ma Ezra rimase chino sul banco di Devon. «Figo», disse Noel, «pensi che il ragazzo che crede di essere un'anatra potrebbe fare qualcosa?» «Sì, con una donna che bacia come un'oca». Noel rise. «E come bacia un'oca?». Aria si girò verso il banco di Devon. Adesso Ezra era nella posizione giusta, li avrebbe visti. Perfetto. «Così». Si chinò e baciò Noel sulla guancia. Sorprendentemente, Noel aveva un odore abbastanza buono, tipo di schiuma da barba Blue Eagle della Kiehl. «Carino», sussurrò Noel. Il resto della classe fremeva, assorta nella propria attività e ignara dei baci delle oche, mentre Ezra, ancora in piedi accanto al banco di Devon, era perfettamente immobile. «Allora, lo sai che staserà darò una festa?», disse Noel, mettendole una mano sul ginocchio. «Sì, ho sentito dire qualcosa in giro». «Devi assolutamente venire. Berremo birra a fiumi, e altra roba. tipo scotch. Ti piace lo scotch? Mio padre li colleziona, per cui.». «Adoro lo scotch». Aria si sentiva gli occhi di Ezra bruciarle sulla schiena. Poi si chinò verso Noel e disse: «Verrò sicuramente alla tua festa». Dal modo in cui la penna gli cadde rumorosamente a terra, non era difficile capire se Ezra li avesse sentiti o meno. 18 DOV'È FINITA LA NOSTRA CARA VECCHIA EMILY? CHE COSA NE AVETE FATTO? «Vai alla festa dei Kahn stasera?», chiese Carolyn, guidando l'auto nel vialetto di casa. Emily si passò un pettine tra i capelli ancora bagnati. «Non lo so». Quel giorno, agli allenamenti, non aveva scambiato neanche una parola con Ben, per cui non era del tutto sicura di andarci con lui. «Tu ci vai?» «Non lo so. Io e Topher pensavamo di andare da Applebee». Naturalmente, per Carolyn sarebbe stata dura scegliere tra una festa del venerdì sera e Applebee. Chiusero gli sportelli della Volvo e si diressero lungo il vialetto di pietra, verso la casa in stile coloniale dei Fields, costruita trent'anni prima. Non era neanche lontanamente grande o imponente quanto la maggior parte delle case di Rosewood: i ciottoli dipinti di blu iniziavano a scheggiarsi e alcune pietre della stradina erano scomparse. I mobili della balconata avevano una foggia ormai superata. La madre le accolse alla porta, tenendo in mano il cordless. «Emily, ti devo parlare». Emily gettò un'occhiata a Carolyn, che chinò la testa e schizzò al piano di sopra. Ops. «Che c'è?». Sua madre si lisciò i pantaloni sportivi grigi a coste con le mani. «Ero al telefono con l'allenatrice Lauren. Mi ha detto che sembri avere la testa da un'altra parte, che non ti concentri sul nuoto. E. che hai saltato gli allenamenti di mercoledì». Emily deglutì. «Dovevo dare delle ripetizioni di spagnolo ad alcuni ragazzi». «È quello che mi ha detto anche Carolyn. Per cui ho chiamato la signora Hernandez». Emily abbassò lo sguardo sulle Vans verdi che indossava. La signora Hernandez era l'insegnate di spagnolo che si occupava delle ripetizioni. «Non mentirmi, Emily», le disse la madre risentita. «Dove sei stata?». Emily entrò in cucina e si accasciò su una sedia. Sua madre era una persona razionale, sicuramente avrebbero potuto parlarne. Si mise a giocherellare con l'anello d'argento che portava all'orecchio. Anni prima, Ali le aveva chiesto di accompagnarla al Piercing Palace quando aveva deciso di farsi un piercing all'ombelico, e avevano finito per farsene uno anche sull'orecchio. Emily indossava sempre lo stesso cerchietto d'argento. Subito dopo, Ali le aveva comprato un paio di copriorecchie leopardate per nascondere il tutto, copriorecchie che indossava ancora nelle giornate invernali più gelide. «Ascolta», disse infine, «ero soltanto in giro con quella nuova ragazza, Maya. È molto carina, siamo diventate amiche». La madre sembrava confusa. «Perché non avete semplicemente pensato di vedervi dopo gli allenamenti, oppure di sabato?» «Non capisco il perché di tutti questi problemi», rispose Emily. «Ho solo perso un giorno. Vorrà dire che questa settimana farò doppi allenamenti, promesso». Sua madre strinse le labbra e si sedette. «Ma Emily, francamente non capisco. Quando ti sei iscritta a nuoto quest'anno hai preso un impegno, e non puoi pensare di andartene in giro con le amiche se devi andare agli allenamenti». Emily la interruppe.«Iscrittaa nuoto? Come se avessi potuto scegliere!». «Ma che ti succede? Hai uno strano tono di voce, stai mentendo su dove sei stata», disse la madre scuotendo la testa. «Che cosa significano tutte queste bugie? Non hai mai mentito prima». «Mamma...». Emily fece una pausa, esausta. Voleva rimarcare che sì, aveva mentito su tutto. Sebbene fosse stata la brava ragazza tra le sue amiche di seconda media, aveva comunque fatto un sacco di cose di cui sua madre non era neanche lontanamente a conoscenza. Subito dopo la scomparsa di Ali, Emily si era lamentata del fatto che la sua scomparsa fosse in qualche modo, palesemente. colpa sua. Una punizione, forse, per il modo in cui Emily aveva segretamente disobbedito ai genitori. Per essersi fatta il piercing. Per l'Affare Jenna. Da quel momento, aveva cercato di essere perfetta, di fare tutto ciò che i genitori le chiedevano. Si era trasformata in una figlia modello, fuori e dentro. «Vorrei soltanto sapere che cosa ti sta succedendo», replicò la madre. Emily allungò le mani sulla tovaglietta all'americana, ricordando come fosse diventata quella versione di sé che non corrispondevarealmentea lei. Ali non se n'era andata perché Emily aveva disobbedito ai suoi genitori; adesso l'aveva capito. E, così come non riusciva a immaginarsi seduta sul divano ruvido di Ben, con la sua lingua sul collo, così non riusciva neanche a immaginarsi trascorrere i successivi due anni di liceo (e poi i quattro anni di college) in piscina per ore ogni giorno. Perché Emily non poteva semplicemente essere. Emily? Non avrebbe speso meglio il tempo a studiare, o - Dio ci perdoni! - a divertirsi un po'? «Se vuoi sapere che cosa mi sta succedendo», iniziò, spostandosi i capelli dalla faccia e facendo un bel spostandosi i capelli dalla faccia e facendo un bel respiro, «non penso di voler più andare a nuoto». L'occhio destro della signora Fields si contrasse; le labbra si dischiusero leggermente. Poi si girò verso il frigo, con lo sguardo fisso a tutte le calamite a forma di pollo attaccate al freezer. Non parlava, ma le tremavano le spalle. Alla fine si voltò. Aveva gli occhi leggermente rossi, mentre la faccia appariva stanca, come se fosse invecchiata di dieci anni in pochi secondi. «Chiamerò tuo padre. Vedremo se lui riuscirà a farti ragionare». «Ho già le idee chiare». Emily capì di averlo detto subito dopo che le parole le erano uscite di bocca. «No, non ce l'hai. Non sai che cosa sia meglio per te». «Mamma!». All'improvviso, Emily sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Era pauroso e triste vedere la madre arrabbiata con lei, ma adesso che aveva preso la sua decisione, si sentiva come se fosse finalmente stata autorizzata a togliersi un pesante piumino d'oca nel bel mezzo di un'ondata di caldo torrido. La bocca della madre tremò. «È per via di quella tua nuova amica?». Emily rabbrividì e si pulì il naso. «Che cosa? Chi? ». La signora Fields emise un sospiro. «Quella ragazza che si è trasferita nella casa dei DiLaurentis. È quella con cui sei andata a divertirti invece che agli allenamenti, no? Che cosa stavate facendo?» «Siamo. semplicemente andate alla pista», rispose Emily, con un filo di voce, «e abbiamo parlato». Sua madre abbassò lo sguardo. «Non mi convincono molto le ragazze. come lei». Un momento.Che cosa? Emily la fissò. Lei. sapeva? Ma come? Sua madre non aveva neanche mai conosciuto Maya. A meno che non bastasse guardarla per capire. «Ma Maya è molto carina», replicò Emily. «Ho dimenticato di dirtelo, ma mi ha detto che i biscotti erano fantastici, e mi ha anche detto di ringraziarti». Sua madre strinse le labbra. «Ci sono andata, cercando di comportarmi da brava vicina. Ma questo. questo è troppo. Non ha una buona influenza su di te». «Io non.». «Ti prego, Emily», la interruppe sua madre. Emily non riuscì più a parlare. La madre sospirò. «Ci sono talmente tante differenze culturali con. lei. e comunque non riesco a capire che cosa abbiate in comune tu e Maya. E poi, che cosa sappiamo della sua famiglia? Chissà in che cosa potrebbero essere coinvolti». «Aspetta un attimo, che cosa?». Emily fissò la madre. La famiglia di Maya? Per quanto ne sapeva Emily, il padre di Maya era un ingegnere civile, mentre la madre lavorava come infermiera professionista; suo fratello frequentava l'ultimo anno alla Rosewood ed era un prodigio del tennis; gli stavano costruendo un campo da tennis nel cortile sul retro. In che cosa avrebbe dovuto essere coinvolta la sua famiglia? «È solo che non mi fido di quella gente», continuò la madre. «So che potrebbe sembrare che io abbia una mentalità ristretta, ma non è così». I pensieri di Emily subirono una brusca frenata. La sua famiglia. Differenze culturali. Quella gente? Ripassò tutto quello che aveva detto sua madre. O. Mio. Dio. La signora Fields non era arrabbiata perché pensava che Maya fosse gay. Era arrabbiata perché Maya e la sua famiglia erano neri. 19 BALSAMICO E PICCANTE Era venerdì sera e Spencer stava distesa sul suo letto d'acero a baldacchino, nel bel mezzo della sua nuova camera. Aveva il balsamo di tigre spalmato sulla parte bassa della schiena e stava osservando il meraviglioso soffitto a travi. Non si sarebbe mai potuto dire che, cinquant'anni prima, in quel fienile dormissero le mucche. La stanza era enorme, con quattro finestre giganti e un piccolo patio. La sera precedente, dopo cena, vi aveva trasferito tutte le sue scatole e i suoi mobili. Aveva sistemato tutti i libri e i CD per autore e artista, collegato il sistemasurround e persino sintonizzato la TV sui suoi canali preferiti, inclusi i nuovi programmi su BBC America. Era tutto perfetto. Eccetto, naturalmente, quel terribile mal di schiena. Ogni singola parte del corpo le faceva male come se avesse fatto bungee jumping senza corda elastica. Ian l'aveva fatta correre per tre miglia senza mai fermarsi, e poi aveva proseguito gli allenamenti. Tutte le ragazze non avevano fatto altro che parlare di quello che avrebbero indossato alla festa di Noel quella sera, ma dopo quegli allenamenti infernali, Spencer era molto contenta di starsene a casa a fare i compiti di matematica, specialmente adesso che casa significava la sua piccola, intima utopia del fienile. Spencer si allungò verso il barattolo di balsamo e si accorse che era vuoto. Si sedette lentamente, con la mano sulla schiena, come una vecchietta. Avrebbe solo dovuto andare a prenderne ancora a casa dei suoi. Spencer adorava il fatto di poterla ormai chiamare la casa dei suoi. La faceva sentire incredibilmente cresciuta. Dopo aver attraversato il lungo, soffice tappeto erboso, si ricordò di uno degli argomenti preferiti della giornata, Andrew Campbell. Sì, era un sollievo sapere che quella A stava per Andrew e non per Ali e sì, si sentì un milione di volte meglio e un miliardo di volte meno paranoica del giorno prima; in ogni caso, che orrenda spia impicciona! Come si era permesso di farle delle domande tanto invadenti e pettegole nell'aula di lettura e scriverle una email tanto inquietante? Eppure, tutti lo consideravano un ragazzo così dolce e innocente, con le sue cravattine annodate alla perfezione e la pelle luminosa; probabilmente si trattava del tipo di ragazzo che si portava il Cetafil a scuola e si lavava dopo la lezione di educazione fisica. Che sciroccato. Dopo aver sbattuto la porta del bagno al piano superiore, trovò il barattolo di balsamo nell'armadietto, si abbassò i pantaloni Nuala Puma, si girò per specchiarsi e iniziò a spalmarsi il gel su tutta la schiena e sui muscoli posteriori delle cosce. L'odore pungente di mentolo si sparse subito in tutta la stanza, costringendola a chiudere gli occhi. La porta si aprì di scatto. Spencer cercò di tirarsi su i pantaloni il più velocemente possibile. «Dio mio», esclamò Wren, con gli occhi sgranati. «Io. merda. Scusami». «È tutto a posto», rispose Spencer, muovendosi con difficoltà nel tentativo di allacciarsi la cintura. «Ancora non capisco come funzioni questa casa.». Wren indossava la sua divisa da lavoro blu: una maglia con scollo a V e pantaloni stretti in vita e a gamba larga. Sembrava pronto per andare a dormire. «Pensavo che fosse la nostra stanza da letto». «Capita tutte le volte», rispose Spencer, sebbene fosse palesemente falso. Wren si fermò sulla soglia. Spencer sentì che la stava osservando e abbassò lo sguardo per assicurarsi che le tette non le ciondolassero di fuori e non avesse nessun pezzo di balsamo sul collo. «Allora, uhm, com'è il fienile?», chiese Wren. Spencer ridacchiò, poi si coprì la bocca, imbarazzata. L'anno prima si era fatta sbiancare i denti, che erano risultati apparire un po' troppo bianchi. Aveva dovuto smorzarli con tonnellate di caffè. «Fantastico. Com'è la vecchia stanza di mia sorella?». Wren abbozzò un sorrisetto ironico. «Be', è piuttosto. rosa». «Già, con tutte quelle tendine arricciate», aggiunse Spencer. «Ho trovato anche un CD preoccupante». «Ah sì? Quale?»«Il fantasma dell'opera»,disse lui con una smorfia. «Ma non fai teatro?», si lasciò sfuggire Spencer. «Be', Shakespeare e roba simile». Wren corrugò la fronte. «Come facevi a saperlo?». Spencer impallidì. Sarebbe sembrato strano se gli avesse detto di aver cercato il suo nome su Google. Alzò le spalle e si appoggiò al bancone. Un dolore lancinante le guizzò lungo la schiena, facendola barcollare. Wren s'interruppe. «Che ti succede?» «Be', lo sai», disse Spencer, chinandosi sul lavabo. «Di nuovo l'hockey su prato». «Che cosa ti è successo stavolta?» «Ho urtato qualcosa. Vedi il balsamo?». Con in mano l'asciugamano, raggiunse il barattolo, ne prese un po' e s'infilò la mano nei pantaloni per spalmarlo dietro le cosce. Emise una leggera smorfia di dolore, augurandosi poi di essere apparsa sexy. Be', non vorrete certo giudicarla per la sua leggera drammaticità adolescenziale. «Ti posso aiutare?». «Ti posso aiutare?». Spencer esitò, ma Wren sembrava realmente preoccupato. Ed era davvero straziante - be', in ogni caso doloroso - girare la schiena in quel modo, anche se lo stava facendo di proposito. «Se non ti dispiace», disse con tono delicato, «grazie». Spencer accostò un altro po' la porta, spingendola con il piede. Spalmò il balsamo che aveva sulla mano su quella di Wren. Le grandi mani di Wren avevano un'aria sexy, cosparse di balsamo. Dette un'occhiata alla loro immagine nello specchio e rabbrividì: erano splendidi assieme. «Allora, dov'è il danno?», chiese Wren. Spencer lo indicò. Il muscolo era proprio sopra il sedere. «Aspetta un attimo», mormorò. Afferrò un asciugamano appeso, se lo avvolse attorno alla vita e si abbassò i pantaloni sotto l'asciugamano. Indicò il punto che le faceva male, facendo cenno a Wren di raggiungerlo sotto l'asciugamano. «Ma, uhm, cerca di non spalmarne troppo sull'asciugamano», disse. «Ho supplicato mia madre di ordinare questi asciugamani speciali dalla Francia un paio d'anni fa, e il balsamo li rovina; è impossibile eliminarne l'odore». Sentì Wren soffocare una risata e irrigidirsi. Forse la frase era sembrata troppo ingessata e in stile Melissa? Wren si allontanò dalla faccia i capelli con la mano libera e si inginocchiò, impiastricciandole il balsamo sulla pelle. Infilò le mani sotto l'asciugamano e iniziò a spalmare lentamente, disegnando piccoli cerchi lungo i muscoli. Spencer si rilassò, abbandonandosi leggermente verso di lui; Wren si alzò, ma non indietreggiò. Spencer avvertì il suo respiro sulla spalla, poi sull'orecchio; sentiva la pelle brillare e ardere. «Va meglio?», bisbigliò Wren. «È splendido». Forse aveva risposto mentalmente, ma non ne era sicura. Dovrei farlo, pensò.Dovrei baciarlo. Wren premette le mani in modo più deciso sulla schiena, scavando leggermente con le unghie, tanto da farla scuotere. Il telefono del corridoio squillò. «Wren, caro», chiamò la madre di Spencer dal piano di sotto, «sei di sopra? C'è Melissa al telefono per te». Wren scattò all'indietro. Spencer sobbalzò in avanti e si strinse l'asciugamano sui fianchi. Wren si pulì velocemente le mani sporche di balsamo su un altro asciugamano; Spencer era troppo in preda al panico per riuscire a dirgli di non farlo. «Uhm», mormorò lui. Spencer volse lo sguardo. «Dovresti.». «Sì». Wren aprì la porta. «Spero che funzioni». «Sì, grazie», rispose lei a bassa voce, chiudendo la porta dietro di lui. Poi si abbandonò sul lavandino e rimase ferma a fissare la propria immagine. Qualcosa guizzò nello specchio e, per un attimo, Spencer pensò che ci fosse qualcuno accanto alla doccia, ma si trattava soltanto della tenda, sollevata da un colpo di vento proveniente dalla finestra aperta. Spencer si voltò verso il lavandino. Avevano lasciato cadere alcune gocce di balsamo sul piano; era bianco e appiccicoso, simile a glassa. Con l'indice, Spencer scrisse il nome di Wren e poi lo chiuse in un cuore. Pensò di lasciarlo lì, ma quando sentì Wren salire le scale e dire: «Ehi, amore. Mi manchi», aggrottò le sopracciglia e lo cancellò con il palmo della mano. 20 TUTTO CIÒ DI CUI EMILYHA BISOGNO SONO UNA SPADA LASER E UN ELMETTO NERO Iniziava appena a imbrunire, quando Emily salì sul Cherokee verde di Ben. «Grazie per avere convinto i miei genitori a rimandare l'inizio della mia punizione a domani». «Di niente», rispose Ben, che non le dette alcun bacio di saluto, ma che in compenso si stava sparando i Fall Out Boy a tutto volume, pur sapendo che lei li odiava. «Ce l'hanno a morte con me». «Ho sentito», rispose lui, con gli occhi fissi sulla strada. Interessante che Ben non chiedesse perché; forse sapeva già. Stranamente, il padre di Emily era entrato nella sua stanza poco prima, dicendo: «Ben viene a prenderti fra venti minuti, fatti trovare pronta».Ok. Emily aveva pensato che sarebbe stata costretta a restare chiusa in casa in punizione per avere profanato gli Dèi del Nuoto, ma aveva avuto la sensazione che in realtà lorovolesseroche uscisse con Ben, sperando forse che riuscisse a farla ragionare. Emise un sospiro. «Mi dispiace per ieri, agli allenamenti. Sono soltanto un po' stressata». Ben si decise finalmente ad abbassare il volume. «Nessun problema, sei solo confusa». Emily si leccò il rossetto a lunga tenuta. "Confusa"? E su che cosa? «Per questa volta ti perdono», aggiunse Ben, stringendole la mano. A Emily si drizzarono i capelli. "Per questa volta"? E non avrebbe dovuto anche lui scusarsi? Dopo tutto, era scappato negli spogliatoi come un bambino. Entrarono dal cancello di ferro dei Kahn; la proprietà era distante dalla strada, il vialetto d'ingresso era lungo almeno mezzo miglio e circondato da pini alti e massicci. Persino l'aria sembrava più pulita. La casa di mattoni rossi si ergeva in mezzo a imponenti colonne doriche; il portico ospitava una piccola statua equestre, mentre una splendida vetrata correva lungo i lati. Emily riuscì a contare quattordici finestre al primo piano, da un'estremità all'altra. Quella sera, però, la casa sarebbe passata in secondo piano; sarebbero andati nell'enorme campo, diviso dall'abitazione da alte siepi all'inglese e da un muro di pietra. Metà del terreno era occupato dalle stalle dei Kahn; dal lato opposto, si trovavano uno sconfinato prato all'inglese e un laghetto con le anatre. Tutto intorno alla proprietà si estendevano fitti boschi. Non appena Ben ebbe parcheggiato in uno spiazzo sull'erba, Emily scese, sentendo i The Killers sparati a tutto volume dal giardino sul retro. Dalle Jeep, Escalade e Saab iniziarono a scendere facce familiari. Alcune ragazze truccate in modo impeccabile tirarono fuori le sigarette dalle borsette ricamate con catenella e le accesero, continuando a parlare ai minuscoli cellulari. Emily abbassò lo sguardo verso le sue lise Converse blu e si toccò la coda di cavallo. Ben la raggiunse e insieme attraversarono le siepi e un tratto isolato di bosco, entrando nella zona della festa. C'erano un sacco di ragazzi che Emily non conosceva, perché i Kahn invitavano tutti gli studenti piùindelle altre scuole private della zona, oltre alla Rosewood. Vicino alla siepe si trovavano un fusto di birra e un tavolo delle bevande, ed era stata allestita una pista da ballo in legno, con torce di bambù e tende in mezzo al prato. Dall'altro lato, vicino al bosco, c'era una vecchia cabina per fototessere di scuola illuminata con luci di Natale. I Kahn la tiravano fuori dalla cantina ogni anno per la festa. Furono accolti da Noel. Indossava una t-shirt grigia con su scritto "Will flex for food", jeans scoloriti e strappati e niente scarpe né calzini. «Come butta?», chiese porgendo due birre. «Bene, grazie amico». Ben prese la birra e iniziò a bere. Il liquido ambrato gli scorse lungo il mento. «Bella festa». Emily si sentì battere sulla spalla e si girò. Era Aria Montgomery, con indosso una stretta t-shirt sbiadita della University of Island, una mini di jeans logora e un paio di stivali rossi da cowboy John Fluevog. I capelli neri erano raccolti in una coda alta. «Wow, ciao», disse Emily. Aveva sentito dire che Aria era tornata, ma non l'aveva ancora vista. «Com'era l'Europa?» «Fantastica», rispose Aria sorridendo. Le due ragazze si guardarono l'un l'altra per qualche secondo; Emily fece una pausa, pensando di dire ad Aria di essere felice che avesse abbandonato il finto anello al naso e i ciuffi di capelli rosa, ma poi si chiese se non sarebbe stato stupido fare riferimento alla loro vecchia amicizia. Prese dunque un sorso di birra e fece finta di essere interessata ai rilievi del boccale. Aria sembrava agitata. «Ascolta, sono felice che tu sia qui. Volevo parlarti». «Ah sì?». Emily incontrò il suo sguardo e poi lo abbassò di nuovo. «Be', con te o con Spencer». «Davvero?». Emily si sentì una stretta al petto. Spencer? «Be', promettimi di non prendermi per matta. Sono stata via per talmente tanto tempo, e.». Aria fece un'espressione corrucciata che Emily ricordava bene: significava che stava soppesando attentamente le parole. «E cosa?». Emily alzò le sopracciglia, in attesa. Forse Aria voleva dire alle sue vecchie amiche di incontrarsi; naturalmente, essendo stata lontana, non poteva sapere quanto si fossero allontanate l'una dall'altra. Quanto sarebbe stata sgradevole una cosa simile? «Be'.». Aria si guardò attorno con circospezione. «Si sono avute più notizie suAli mentre ero via?». Emily fece un salto all'indietro, sentendo pronunciare il nome di Ali dalla bocca della sua vecchia amica. «Sulla sua scomparsa? Che cosa intendi?» «Voglio dire, hanno mai scoperto chi l'abbia presa? È mai ritornata?» «Ehm. no.», rispose Emily, masticandosi nervosamente il pollice. Aria si chinò verso di lei. «Tu pensi che sia morta?». Emily sgranò gli occhi. «Io. non saprei. perché?». Aria strinse le labbra, assorta nei suoi pensieri. «Perché me lo chiedi?», aggiunse Emily, sentendo il cuore batterle all'impazzata. «Niente». Poi lo sguardo di Aria si fissò su qualcuno dietro di lei, facendole chiudere la bocca di scatto. «Ehi», disse una voce stridula dietro Emily, che si girò. Era Maya. «Ehi», rispose Emily, quasi versando tutta la birra a terra. «Non. non sapevo che saresti venuta». «Neanch'io», disse Maya. «È stato mio fratello a volerlo. È qui, da qualche parte». Emily si voltò per presentarle Aria, che nel frattempo però era scomparsa. «Allora è lei Maya», esclamò Ben, ricomparendo accanto a loro. «La ragazza che ha fatto emergere il lato oscuro di Emily». «Lato oscuro?», squittì Emily. «Quale lato oscuro? » «Abbandonare il nuoto», rispose Ben, rivolgendosi a Maya. «Sapevi che avrebbe lasciato, no?» «Sul serio?». Maya si voltò verso Emily e ridacchiò eccitata. Emily fulminò Ben con un'occhiata. «Maya non ha niente a che fare con tutto questo. E comunque, non ne abbiamo ancora parlato». Ben prese un'altra sorsata di birra. «Perché no? Non è la tua grande notizia?» «Non saprei.». «Comunque», disse lui, battendole pesantemente sulla spalla con la mano, in modo un po' rude, «vado a prendermi un'altra birra. Ne vuoi una anche tu?». Emily annuì con la testa, anche se di solito, alle feste, ne beveva al massimo una. Ben non chiese a Maya se volesse da bere. Mentre si allontanava, lei notò i suoi jeans larghi. Che schifo. Maya prese Emily per la mano, stringendola. «Come ci si sente?». Emily fissò le loro mani intrecciate e arrossì, ma mantenne la presa. «Bene». O impaurita. O, in alcuni momenti, come in un brutto film. «Confusa, ma bene». «Ho proprio quello che ci vuole per festeggiare», bisbigliò Maya. Infilò la mano nella sua sacca Manhattan Portage e mostrò a Emily il collo di una bottiglia di Jack Daniel's. «L'ho fregata dal tavolo dei liquori. Ti va di aiutarmi a finirla?». Emily la fissò: aveva i capelli tirati e la faccia scoperta, e indossava una semplice camicetta nera senza maniche e una gonna verde militare. Aveva un'aria brillante e divertente, molto più di Ben nei suoi jeans appesi. «Perché no?», rispose, seguendola nel bosco. 21 LE RAGAZZE ATTRAENTI SONO PROPRIO COME NOI Hanna mandò giù un sorso di vodka al limone e si accese un'altra sigaretta. Non aveva più visto Sean da quando avevano parcheggiato sul prato dei Kahn due ore prima, e anche Mona sembrava essersi volatilizzata. In quel momento stava parlando con il migliore amico di Noel, James Freed, con Zelda Millings, una bellissima ragazza bionda che indossava soltanto scarpe e vestiti di canapa, e un gruppetto di starnazzanti ragazze della Doringbell Friends, l'ultramoderna scuola quacchera del paese vicino. Quelle ragazze erano venute alla festa di Noel anche l'anno prima e, sebbene Hanna avesse già parlato con loro, non riusciva a ricordarsi neanche un nome. James spense la Marlboro sulla suola delle Adidas a punta bianca che indossava e bevve un altro sorso di birra. «Ho sentito dire che il fratello di Noel ha una tonnellata di erba». «Eric?», chiese Zelda. «E dov'è?» «Nella cabina», rispose James. All'improvviso, Sean balzò fuori dai pini. Hanna si alzò, aggiustandosi l'aderente abitino BCBG nella speranza che la snellisse e stringendosi alle caviglie i lacci dei sandali Christian Louboutin azzurri nuovi di zecca. Non appena si mise a correre per raggiungerlo, il tacco le sprofondò nell'erba umida. Agitò scompostamente le braccia, lasciò cadere il bicchiere e cadde di botto sul sedere. «Eccola là!», urlò James con la voce impastata. Tutte le ragazze della Doringbell scoppiarono a ridere. Hanna si rialzò in tutta fretta, stringendosi il palmo della mano per non piangere. Era la festa più importante dell'anno, eppure tutto andava storto: il vestito le stava attillato ai fianchi, non era riuscita a far sorridere Sean neanche una volta durante il viaggio in macchina (nonostante lui avesse ottenuto la BMW 760i di suo padre per la serata), era alla terza, ipercalorica vodka al limone della serata, ed erano soltanto le nove e mezza. Sean le dette la mano per aiutarla ad alzarsi. «Stai bene?». Hanna esitò. Sean aveva indosso una semplice maglietta bianca che ne accentuava il petto scolpito dagli allenamenti di calcio e lo stomaco piatto di natura, un paio di jeans Paper Denim blu scuro che gli facevano un sedere perfetto e un paio di Puma nere logore. I capelli biondicci erano volontariamente spettinati, gli occhi castani apparivano molto profondi e le labbra rosa ancora più da baciare. Nell'ultima ora, Hanna l'aveva visto fare amicizia con tutti i ragazzi, evitandola accuratamente. «Sto bene», rispose, buttando in fuori il labbro in un broncio tipico. «Che cosa c'è?». Hanna cercò di trovare l'equilibrio sui tacchi. «Possiamo. andare in un qualche luogo appartato per un po'? Magari nel bosco? Per parlare?». Sean alzò le spalle. «Ok». Sì! Hanna lo condusse lungo un sentiero verso il Bosco della virilità, mentre gli alberi gettavano lunghe ombre scure su di loro. Hanna era stata lì una sola volta, in seconda media, quando le sue amiche avevano organizzato un incontro segreto con Noel Kahn e James Freed. Ali si era appartata con Noel e Spencer con James, mentre lei, Emily e Aria si erano sedute su dei tronchi dividendosi una sigaretta e aspettando che le altre finissero. Quella notte si era ripromessa che tutto sarebbe andato diversamente. Si sedette su un fitto spiazzo di erba, trascinando giù anche Sean. «Ti stai divertendo?», gli chiese, passandogli il drink. «Sì, bella festa». Sean bevve un sorso. «E tu?». Hanna esitò un attimo. La pelle di Sean splendeva alla luce della luna; la sua maglietta aveva una piccola macchia di sporco vicino al colletto. «Credo di sì». Ok, il tempo delle chiacchiere era scaduto. Hanna gli tolse di mano il bicchiere, lo afferrò per la mascella e iniziò a baciarlo.Ecco.Che schifo, il mondo iniziò a girare vorticosamente e, invece di assaporare la bocca di Sean, sentiva solo la vodka al limone. Ma che importava. Dopo un minuto di baci, sentì Sean allontanarsi. Forse era il caso di alzare un po' la posta. Si tirò su il vestito blu, mostrando le gambe e il minuscolo perizoma Cosabella color lavanda. «Hanna», disse con tono gentile Sean, avvicinandosi per riabbassarle il vestito, «Questo non.». In ogni caso, non fu abbastanza veloce; Hanna si era già sfilata il vestito. Gli occhi di Sean le scandagliarono tutto il corpo. Sorprendentemente, quella era soltanto la seconda volta che la vedeva in mutande (se si esclude la settimana che avevano trascorso a casa dei genitori di lui ad Avalon, sulla costa del Jersey, quando si era messa in bikini, ma era diverso). «Non ti vorrai fermaredavvero,no?», gli disse avvicinandosi, sperando di apparire al contempo ardente di passione ma pudica. «Sì», rispose lui, prendendole la mano, «è così». Hanna si coprì con il vestito come meglio poté. Probabilmente, aveva addosso un centinaio di morsi di zanzara ormai. Il labbro le tremò. «Ma. non capisco, non mi ami? ». Le parole le uscivano dalla bocca piccole e fragili. Passò un lungo momento prima che Sean riuscisse a rispondere. Hanna sentì un'altra coppia della festa ridacchiare nelle vicinanze. «Non lo so», rispose Sean. «Cristo», disse Hanna, rotolando via da lui. La vodka al limone le sciabordava nello stomaco. «Sei gay?». La frase le uscì con un accento leggermente meno meschino di quanto volesse. «No!». Sean sembrava ferito. «E allora? Non ti basto forse?» «Ma certo che no!», rispose Sean, con un tono scioccato. Restò per un attimo fermo a pensare. «Hanna, tu sei una delle ragazze più carine che abbia mai conosciuto. Perché fingi di non saperlo?» «Ma di che cosa stai parlando? », chiese Hanna, disgustata. «Io.», iniziò Sean, «io penso soltanto che forse, se soltanto avessi un po' più di rispetto per te stessa.» . «Io ho un sacco di rispetto per me stessa!», gli strillò contro Hanna. Scivolò, rotolando su una pigna. Sean si alzò, con aria abbattuta e triste. «Guardati». I suoi occhi la scorsero dalle scarpe alla punta della testa. «Sto solo cercando di aiutarti, Hanna. Mi preoccupo per te». Hanna sentì gli occhi riempirsi di lacrime e cercò di trattenerle. Non avrebbe pianto proprio adesso. «Ho rispetto di me stessa», ripetè, «volevo soltanto. solo. mostrarti come mi sento». «Sto solo cercando di essere sicuro». Sean non sembrava carino, ma neanche crudele; semplicemente. distaccato. «Voglio che sia al momento giusto, con la persona giusta. E non mi sembra che questa sia tu». Sean sospirò e fece un passo indietro. «Mi dispiace». Poi s'infilò tra gli alberi e scomparve. Hanna era talmente imbarazzata e arrabbiata da non riuscire a parlare. Cercò di alzarsi per seguirlo, ma il tacco le rimase di nuovo impigliato, facendola cadere. Allargò le braccia e alzò lo sguardo al cielo. Poi, premette i pollici sugli occhi per non far cadere le lacrime. «Sembra che stia per vomitare». Hanna aprì gli occhi e vide due pivellini (molto probabilmente, imbucati) affacciati sopra di lei, come se fosse una ragazza creata al computer. «Fanculo, pervertiti», disse ai due novellini che se la mangiavano con gli occhi. Riuscì a scorgere Sean che correva attraverso il prato dietro Mason Byers, brandendo una mazza da cricket gialla. Hanna singhiozzò mentre si spolverava e si diresse nuovamente alla festa. Davvero a nessuno importava di lei? Ripensò alla lettera ricevuta il giorno prima. "Neanche papà ti ama di più ! ". Improvvisamente, desiderò avere il numero di suo padre, ripensando al giorno in cui l'aveva incontrato assieme a Isabel, Kate e Ali. Sebbene fosse febbraio, il clima di Annapolis era stranamente caldo e Hanna, Ali e Kate si erano sedute in veranda per abbronzarsi. Ali e Kate facevano amicizia, discutendo sulle loro tonalità preferite di smalto MAC, mentre Hanna non riusciva a entrare nel discorso. Si sentiva pesante e goffa. Aveva visto l'espressione sollevata di Kate quando lei e Ali erano scese dal treno, sorpresa da quanto fosse carina Ali, e poi sollevata nel vedere Hanna. Era come se Kate avesse pensato:Be', non mi devo preoccupare di lei! Senza rendersene conto, Hanna aveva finito l'intera ciotola di popcorn al formaggio che c'era sulla tavola. E sei profiterol. E un po' della porzione di brie destinata a Isabel e a suo padre. Si era stretta lo stomaco gonfio, osservando gli addominali piatti di Ali e Kate e lamentandosi a voce alta, senza volerlo. «Il porcellino non si sente bene?», le aveva chiesto suo padre, stringendole il mignolo. Hanna rabbrividì al ricordo e si toccò lo stomaco, ormai piatto. Quell'A, chiunque fosse, aveva pienamente ragione: suo padre non l'amava di più. «Tutti nel laghetto», urlò Noel, strappandola ai suoi pensieri. Dal lato opposto del prato, Hanna vide Sean togliersi la maglietta e correre verso l'acqua. Noel, James, Mason e alcuni altri ragazzi si erano sfilati la camicia, ma a Hanna non importava minimamente. Non le importava di nessuna notte in cui avesse potuto vedere i ragazzi più belli di Rosewood senza la camicia. «Sono tutti talmente belli», mormorò Felicity McDowell, che stava mischiando Tequila e Fanta all'uva accanto a lei, «Non ti pare?» «Hmm», mormorò . Hanna strinse i denti. Fanculo il suo felice paparino e la sua perfetta figliastra, e fanculo Sean e la sua selettività! Afferrò della Ketel One dalla tavola e bevve direttamente dalla bottiglia. La riposò, ma poi pensò di portarsela con sé al laghetto. Sean non l'avrebbe fatta franca dopo averla scaricata, insultata e poi ignorata. Niente affatto. Si fermò davanti a una pila di vestiti, senza dubbio di Sean (i jeans erano ripiegati con cura, mentre i calzini erano stati infilati dentro le Puma). Dopo essersi accertata che nessuno stesse guardando, appallottolò i jeans e iniziò ad allontanarsi dal laghetto. Che cosa avrebbero detto al Club della Verginità se l'avessero visto guidare in boxer? Mentre si dirigeva verso gli alberi con i jeans di Sean, qualcosa le cadde sui piedi. Hanna lo raccolse e qualcosa le cadde sui piedi. Hanna lo raccolse e rimase a osservarlo per un attimo, aspettando che la vista, sdoppiata, le tornasse normale. Le chiavi della BMW. «Tesoro», sussurrò, premendo il tasto dell'allarme con il dito. Poi gettò i jeans a terra e infilò le chiavi nella borsetta blu di Moschino. Era una serata perfetta per un giro in macchina. 22 I BAGNI DI BIRRA FANNO BENE ALLA PELLE «Guarda», disse eccitata Maya a bassa voce, «ce n'era una nel mio caffè preferito in California». Emily e Maya stavano osservando la vecchia cabina collocata al limite tra il prato dei Kahn e il bosco. Una lunga corda arancio si snodava dalla casa di Noel per tutto il prato fino alla cabina. Mentre erano intente ad ammirarla, il fratello maggiore di Noel, Eric, e una super stordita Mona Vanderwaal, caddero fuori, afferrarono le foto e schizzarono via. Maya rivolse un'occhiata a Emily. «Che ne dici, proviamo?». Emily annuì. Prima di scomparire dentro, dette una rapida occhiata intorno: alcuni ragazzi si erano raggruppati attorno al fusto di birra e un sacco di altra gente teneva alti i bicchieri di plastica rossa mentre ballava. Noel e un gruppo di ragazzi stavano nuotando in boxer nel laghetto delle anatre. Ben sembrava scomparso. Emily si sedette accanto a Maya sul piccolo sedile arancione della cabina e chiuse la tenda. Erano talmente appiccicate che le loro spalle e cosce si toccavano. «Tieni». Maya le porse la bottiglia di Jack Daniel's e premette il tasto verde. Emily provò l'inquadratura, poi la mantenne trionfante mentre la macchina scattava la prima foto. Poi si misero viso a viso e sfoggiarono degli enormi sorrisi. Per la terza foto, Emily capovolse gli occhi all'indietro mentre Maya si gonfiò le guance come una scimmia. Infine, la macchina le immortalò con un aspetto quasi normale, anche se forse un po' nervoso. «Vediamo come sono venute», disse Emily. Non appena si alzò, però, Maya la tirò per la manica. «Ti dispiace se restiamo qui un attimo? È un posto talmente perfetto per nascondersi». «Ehm, d'accordo». Emily si risedette e deglutì rumorosamente, senza volerlo. «Allora, come stai?», le chiese Maya, togliendole i capelli dagli occhi. Emily sospirò, cercando di trovare una posizione comoda sul seggiolino stretto.Confusa. Sconvolta dal probabile razzismo dei miei genitori. Terrorizzata di aver preso la decisione sbagliata sul nuoto. Piuttosto disorientata dallo stare seduta qui accanto a te. «Sto bene», disse infine. Maya sbuffò e buttò giù un sorso di whiskey. «Non ti credo, neanche per un attimo». Emily fece una pausa; Maya sembrava essere l'unica persona in grado di capirla. «Già, hai ragione», disse. «Allora, che cosa sta succedendo?». All'improvviso però, Emily non aveva alcuna voglia di parlare del nuoto, di Ben o dei suoi genitori, ma piuttosto di qualcosa di. completamente diverso. Qualcosa che si stava lentamente facendo strada dentro di lei, e che forse l'aver incontrato Maya aveva scatenato. O forse, l'avere finalmente di nuovo una vera amica aveva risvegliato quel vecchio sentimento. Emily pensava che Maya avrebbe capito. Fece un respiro profondo. «Dunque, ti ricordi quella ragazza, Alison, che viveva nella tua nuova casa?» «Sì». Sentì Maya respirare nervosamente e prendere un altro sorso di Jack Daniel's dalla bottiglia. «Eravamo migliori amiche», proseguì, stringendo le dita attorno al tessuto logoro della tenda della cabina. «Ero molto legata a lei. Per cui un bel giorno, dal nulla, l'ho fatto». «Fatto che cosa?» «Be', io e Ali eravamo in questa casetta sull'albero nel suo cortile, ci andavamo spesso per parlare. Stavamo sedute là, a parlare di un ragazzo che le piaceva, uno più grande di cui non mi disse il nome, e mi sono sentita come se non ce la facessi più a tenermelo dentro. Per cui mi sono chinata, e l'ho baciata». Maya fece un lieve rumore tirando su col naso. «Comunque, la cosa non la colpì più di tanto. Sembrava persino distaccata e disse qualcosa del tipo: "Be', adesso so perché sei sempre così silenziosa quando ci cambiamo per la lezione di ginnastica!"». «Dio», disse Maya. Emily prese un altro sorso di whiskey e si sentì stordita. Non aveva mai bevuto così tanto. Ed ecco poi uno dei suoi segreti più inconfessabili, steso ormai al sole come biancheria della nonna. «Ali mi disse che non credeva che le migliori amiche si dovessero baciare», continuò, «per cui cercai di farlo passare per uno scherzo, ma quando tornai a casa, capii come mi sentivo veramente. Per cui le scrissi una lettera, dicendole che l'amavo. Non penso che l'abbia mai ricevuta e, in ogni caso, non ha mai detto niente». Una lacrima le cadde con un tonfo sul ginocchio nudo. Maya la vide e l'asciugò con le dita. «La penso sempre, ancora oggi», disse Emily singhiozzando. «Ho cercato di cancellare in ogni modo quel ricordo, mi sono detta che era soltanto la mia migliore amica e nient'altro, capisci, niente. di diverso. ma adesso non lo so più». Rimasero sedute per alcuni minuti, mentre la musica della festa arrivava dentro la cabina. Ogni tanto, Emily sentiva il guizzo improvviso dell'accendino di qualcuno. Non era particolarmente sorpresa di ciò che aveva appena detto di Ali. Era spaventata, certo, ma si trattava comunque della verità. In un certo modo, era un sollievo averlo finalmente espresso. «Visto che siamo in confidenza», disse a bassa voce Maya, «anch'io ho qualcosa da dirti». Girò l'avambraccio per mostrarle la cicatrice bianca e gonfia che aveva sul polso. «Penso che tu l'abbia già vista». «Sì», disse piano Emily, guardandola con gli occhi socchiusi nel pallore e nella semioscurità della cabina. «Me la sono procurata una delle volte in cui mi sono tagliata con una lametta. Non mi ero accorta di essere andata tanto in profondità; i miei genitori mi portarono al pronto soccorso». «Ti tagli di proposito?», bisbigliò Emily. «Ehm. sì. Voglio dire, in realtà non lo faccio più, o almeno cerco». «Perché lo fai?» «Non lo so», disse Maya, «a volte sento semplicemente che. devo farlo. Puoi toccarla, se vuoi». Emily la toccò. Era raggrinzita e liscia, per nulla simile alla pelle. Toccarla era la cosa più intima che Emily avesse mai fatto. Si allungò per abbracciare Maya. Maya tremò e nascose la testa sul collo di Emily. Come sempre, odorava di gomme da masticare alla banana. Emily si strinse al petto esile di Maya. Che sensazione si provava a tagliarsi e a vedersi sanguinare in quel modo? Emily portava con sé la sua buona dose di fardelli, ma anche in conseguenza dei suoi peggiori ricordi, come il rifiuto subito da Ali, o l'Affare Jenna, pur sentendosi colpevole, orribile e strana, mai aveva desiderato farsi del male. Maya alzò la testa e incontrò il suo sguardo; poi, con un sorriso triste, la baciò sulle labbra. Emily sbarrò gli occhi, sorpresa. «A volte le migliori amiche si baciano», disse Maya. «Vedi?». Rimasero così sospese, praticamente naso contro naso. Fuori, le mazze da cricket sbattevano furiosamente. Poi Maya si allungò verso di lei; Emily si fuse nelle sue labbra. Le bocche aperte, riusciva a sentire la lingua morbida di Maya. Il petto di Emily si contrasse nell'eccitazione mentre passava le mani tra i capelli ispidi di Maya, poi sulle spalle, poi sulla schiena. Maya infilò le mani sotto la camicia di Emily e le premette le dita sul seno. Emily inizialmente sussultò, ma poi si rilassò. Era lontano anni luce dal baciare Ben. Le mani di Maya le percorsero il corpo fin sotto al reggiseno. Emily chiuse gli occhi. La bocca di Maya aveva un sapore delizioso, un misto tra Jack Daniel's e liquirizia. Poi, Maya iniziò a baciarle il petto e le spalle. Emily gettò indietro la testa. Qualcuno aveva dipinto una luna circondata da stelle sul soffitto della cabina. Improvvisamente, la tenda iniziò ad aprirsi. Emily saltò su, ma era troppo tardi; qualcuno aveva già aperto la tenda completamente. Poi Emily lo riconobbe. «Oddio», farfugliò. «Merda», le fece eco Maya. La bottiglia di Jack Daniel's le cadde a terra. Ben teneva in ogni mano un boccale di birra. «Bene, questo spiega tutto». «Ben. io.». Emily si precipitò goffamente fuori dalla cabina, sbattendo la testa sulla porta. «Non alzarti per me», disse Ben con un tono di voce orrendo, beffardo, arrabbiato e ferito, che Emily non aveva mai sentito prima. «No.», squittì Emily, «non capisci». Uscì dalla cabina, seguita da Maya. Con la coda dell'occhio, Emily la vide afferrare le foto e infilarsele in tasca. «Non parlare neanche», tagliò corto Ben. Poi si voltò e le tirò addosso un boccale di birra, che schizzò caldo sulle gambe, le scarpe e i pantaloncini di Emily, mentre il boccale andò a schiantarsi impazzito tra i cespugli. «Ben!», urlò Emily. Ben esitò un attimo, poi tirò l'altro boccale diritto verso Maya, colpendola al volto e sui capelli, facendola urlare. «Smettila!», urlò Emily ansimando. «Fottute lesbiche», disse Ben. Emily sentì la voce rotta dal pianto, poi lo vide voltarsi e correre veloce nell'oscurità. 23 ARIA L'ISLANDESE OTTIENE CIÒ CHE VUOLE Finlandia! Ti ho cercata dappertutto!». Un'ora più tardi, " I Aria stava uscendo dalla cabina delle fototessere. Di fronte a lei era apparso Noel Kahn, con indosso solo un paio di boxer di Calvin Klein, bagnati e attillati. Stringeva in mano un bicchiere di plastica gialla pieno di birra e la striscia di foto appena sviluppate. Scosse leggermente la testa, schizzandola d'acqua sulla minigonna APC con i capelli bagnati. «Perché sei tutto bagnato?», gli chiese Aria. «Abbiamo giocato a pallanuoto». Aria si voltò verso il laghetto, dove i ragazzi erano intenti a colpirsi l'un l'altro sulla testa con dei tubi galleggianti rosa. Sulla sponda, alcune ragazze vestite con miniabiti praticamente identici di Alberta Ferretti si erano raggruppate per chiacchierare. Non lontano da loro, vicino alla siepe, scorse suo fratello Mike con una ragazzina in micro minigonna a quadri e zeppe. Noel seguì il suo sguardo. «È una delle ragazze di quella scuola quacchera», bisbigliò. «Quelle pollastre sono completamente pazze». Mike alzò lo sguardo, vide Aria assieme a Noel e le rivolse un cenno di approvazione. Noel afferrò la stringa di foto di Aria con il pollice. «Belle». Aria le guardò. Annoiata a morte, aveva passato gli ultimi venti minuti a farsi foto. Nelle ultime, aveva fatto espressioni sensuali, da micetta sexy. Trèstriste. Era venuta con la speranza che Ezra, geloso e desideroso, arrivasse per portarla via. Che scema. Lui era un insegnante, e gli insegnati non andavano alle feste degli studenti. «Noel!», chiamò James Freed dal lato opposto del prato, «Hanno beccato Keg!». «Merda», disse Noel, dando ad Aria un bacio bagnato sulla guancia. «Questa birra è per te, non te ne andare». «Ok», rispose Aria in tono canzonatorio, osservandolo mentre sgattaiolava via con i boxer che gli calavano fino a mostrarne il sedere pallido, scolpito dalla corsa. «Gli piaci sul serio, sai?». Aria si voltò. Mona Vanderwaal se ne stava seduta per terra a pochi metri da lei, con i capelli biondi che le ricadevano in riccioli lungo la faccia e gli occhiali da sole a mascherina dorati lasciati scivolare lungo il naso. Il fratello maggiore di Noel, Eric, le teneva la testa sul grembo. Mona sbatté le ciglia lentamente. «Noel è fantastico. Sarebbe un fidanzato meraviglioso». «È completamente fatta», disse Eric, rivolto ad Aria. Non appena Aria si fu schiarita le idee per ribattere qualcosa, le suonò il cellulare. Lo tirò fuori dalla borsa e guardò il numero. Ezra.Oh mio dio, oh mio dio!«Ehm, sì?», chiese con voce tranquilla. «Ehi. Ehm, Aria?» «Oh, ehi, che succede?». Cercò di apparire il più controllata e fredda possibile. a te».«Sono a casa a farmi uno scotch, e sto pensando Aria fece una pausa, chiuse gli occhi, mentre si sentì investire da una vampata di calore. «Sul serio?» «Già. Sei alla grande festa?» «Sì». «Annoiata?». Aria rise. «Un po'». «Ti va di venire qui?» «Ok». Ezra iniziò a darle indicazioni, ma Aria sapeva già dove andare. Aveva cercato il suo indirizzo su MapQuest e Google Earth, ma non poteva dirglielo. «Perfetto», disse, «ci vediamo tra poco». Aria rinfilò il telefono in borsa più calma che poté, poi sbatté assieme le suole degli stivali.Sìììì!«Ehi, adesso ho capito dove ti ho già vista». Aria alzò lo sguardo. Il fratello di Noel, Eric, la guardava di traverso, mentre Mona gli baciava il collo. «Tu sei l'amica di quella tipa che è scomparsa, no?». Aria lo guardò e si tolse i capelli dagli occhi. «Non so di cosa tu stia parlando», rispose, allontanandosi. Gran parte di Rosewood era costituita da proprietà private e maneggi di cinquanta acri completamente ristrutturati, ma vicino al college si snodava una serie di strade tortuose lastricate di ciottoli, racchiuse tra case vittoriane decadenti. A Old Hollis le abitazioni avevano colori assurdi: viola, rosa e verde-azzurro, ed erano generalmente suddivise in appartamenti affittati agli studenti. La famiglia di Aria aveva vissuto in una vecchia casa di Old Hollis fino a quando Aria aveva cinque anni, ossia fino a quando il padre aveva ottenuto il suo primo impiego come insegnante al college. Guidando lentamente lungo la strada di Ezra, notò una casa con delle lettere greche incastonate sulla facciata e carta igienica che pendeva dagli alberi. Nel giardino di un'altra si notava invece un dipinto lasciato a metà su un cavalletto. Accostò davanti alla casa di Ezra. Dopo avere parcheggiato, salì gli scalini di pietra davanti alla porta e suonò il campanello. La porta si aprì e apparve Ezra. «Wow», disse. «Ehi». La bocca gli si allargò in un ampio sorriso. «Ciao», rispose Aria, sorridendo allo stesso modo. Ezra rise. «Io. ehm, sei venuta. Wow». Ezra rise. «Io. ehm, sei venuta. Wow». «Avevi già detto wow», lo canzonò Aria. Entrarono nel corridoio. Davanti a lei si snodava una vecchia scala con un rivestimento diverso su ogni scalino. Sulla destra, una porta era socchiusa. «Questo appartamento è mio». Aria proseguì e notò una vasca da bagno con i piedini nel bel mezzo del soggiorno. La indicò. «È troppo pesante da spostare», disse Ezra imbarazzato, «per cui ci tengo i libri». «Forte». Aria si guardò attorno, esaminando con attenzione il bovindo gigante, le polverose mensole incassate e un divano giallo di velluto. C'era un vago odore di pasta e formaggio, ma c'era anche un candeliere di cristallo che pendeva dal soffitto, delle originali piastrelle a mosaico intorno al caminetto e ceppi veri al suo interno. Era molto più nello stile di Aria rispetto al laghetto per le anatre e alla dimora da ventisette stanze e da un milione di dollari dei Kahn. «Vorrei davvero vivere qui», disse Aria. «Non riesco a smettere di pensarti», disse contemporaneamente Ezra. Aria si guardò alle spalle. «Davvero?». Ezra la raggiunse e le posò le mani sulla vita. Aria si chinò lentamente verso di lui. Rimasero così per un attimo, poi Aria si voltò, guardando la sua faccia rasata di fresco, il rigonfiamento sulla punta del naso, le pennellate verdi nei suoi occhi. Toccò un neo che aveva sull'orecchio e lo sentì rabbrividire. «Io. non riesco proprio a ignorarti in classe», sussurrò lui. «È stata una tortura. Quando stavi facendo quella relazione.». «Mi hai toccato la mano, oggi», lo canzonò Aria. «Mentre guardavi il mio computer». «Hai baciato Noel», rispose Ezra, «ero talmente geloso». «Allora ha funzionato», sussurrò Aria. Ezra sospirò e la cinse con le braccia. Iniziarono a baciarsi freneticamente, muovendo le mani l'uno sulla schiena dell'altra. Si allontanarono un secondo, guardandosi negli occhi, senza fiato. «Basta parlare di scuola», disse Ezra. «Affare fatto». La portò in una piccola stanza da letto sul retro con il pavimento ricoperto di vestiti e un borsone Lay aperto sul comodino. Si sedettero sul letto. Il materasso era appena più grande di un singolo, e sebbene la coperta fosse fatta di cotone ruvido e le fenditure del materasso fossero probabilmente piene di briciole di patatine, Aria non aveva mai sentito niente di tanto perfetto in tutta la sua vita. Aria era rimasta sul letto, ferma, a fissare una crepa sul soffitto. Le luci della strada fuori dalla finestra creavano lunghe ombre su ogni cosa, gettando sulla sua pelle pallida una strana ombra rosata. Una brezza sua pelle pallida una strana ombra rosata. Una brezza gelida proveniente dalla finestra aperta spense la candela al sandalo vicino al letto. Sentì Ezra aprire il rubinetto in bagno. Wow. Wow wow wow! Si sentì viva. Lei ed Ezra avevano quasi fatto sesso. ma poi, esattamente nello stesso momento, avevano deciso che sarebbe stato meglio aspettare, per cui erano rimasti accoccolati l'uno accanto all'altra, nudi, a parlare. Ezra le aveva raccontato di quando, a sei anni, aveva scolpito uno scoiattolo rosso di argilla, e di come suo fratello l'aveva distrutto. Di quanta erba fumasse dopo il divorzio dei suoi genitori. Della volta in cui aveva dovuto portare la fox terrier di famiglia dal veterinario per farla sopprimere. Aria gli raccontò di come, quando era piccola, avesse pensato che una lattina di zuppa di piselli con su scritto "Pee" fosse in realtà un animaletto domestico chiamato così, e di come avesse pianto quando sua madre aveva cercato di cucinarla per cena. Gli raccontò anche della sua passione frenetica per la maglia, promettendo di confezionargli un maglione. Era semplice parlare con Ezra, talmente semplice da poter immaginare di farlo per sempre. Avrebbero potuto viaggiare assieme in luoghi lontani. Il Brasile sarebbe stato meraviglioso... Avrebbero potuto dormire in un albero, mangiare solo banane e scrivere opere teatrali per il resto della loro vita. Il suo cellulare squillò. Ugh.Forse era Noel, che si chiedeva dove fosse finita. Abbracciò uno dei cuscini di Ezra. hmm. odorava di lui. e aspettò che uscisse dal bagno e la baciasse ancora. Il cellulare squillò ancora. E ancora. E ancora. «Gesù», grugnì Aria, allungandosi nuda sul letto per tirarlo fuori dalla borsa. Sette nuovi messaggi. Altri continuavano a entrare. Aprendo la casella di posta, Aria rabbrividì. I messaggi avevano tutti lo stesso titolo: "Incontro insegnante-alunna !". Lo stomaco le si rivoltò aprendo il primo. Aria, questo è una sorta di credito extra! Baci, A PS: mi chiedo che cosa penserebbe tua madre se scoprisse, be', la compagna di studi di tuo padre... e che tu sapevi tutto! Aria lesse il messaggio successivo, e poi quello dopo, e quello dopo ancora. Erano tuttiidentici. Scagliò il cellulare per terra; doveva sedersi. No. Doveva uscire da lì. «Ezra?». Scrutò fuori dalla finestra, ormai fuori di sé. La stava guardando, proprio in quel momento? Che cosa voleva? Era davverolei?«Ezra, devo andare, è un'emergenza». «Cosa?», urlò Ezra da dietro la porta del bagno, «te ne stai andando?». Aria non riusciva ancora a crederci. S'infilò con violenza la maglia dalla testa. «Ti chiamo, ok? Devo solo andare a fare una cosa». «Aspetta un attimo, che cosa?», chiese lui, aprendo la porta del bagno. Aria afferrò la borsa e schizzò fuori dalla porta, attraversando il cortile. Doveva allontanarsi. Adesso. 24 IL GUARDAROBA DI SPENCER NON CONTIENE SOLTANTO JEANS E SCARPE Il limite di x è.», borbottò Spencer. Distesa sul letto, si tirò su appoggiandosi su un gomito e osservò il libro di matematica nuovo di zecca, rivestito di plastica marrone. La parte bassa della schiena le bruciava ancora per il balsamo. Guardò l'orologio: era ormai passata la mezzanotte. Era forse matta a stressarsi sui compiti di matematica il primo venerdì notte di scuola? La Spencer dell'anno precedente sarebbe corsa a tutta velocità dai Kahn sulla sua Mercedes, avrebbe bevuto una pessima birra alla spina e forse pomiciato con Mason Byers o con qualche altro ragazzo lascivo e carino. Ma non la Spencer attuale: lei era la Star, e la Star doveva fare i compiti. Il giorno successivo, la Star sarebbe andata con a sua madre a fare un giro in qualche negozio di design per arredare con cura il fienile. Avrebbe potuto anche fare un salto da Main Line con il padre nel pomeriggio (avevano sfogliato assieme alcuni cataloghi di ciclismo a cena, e lui le aveva chiesto quale bici le piacesse di più). Non le aveva mai chiesto alcuna opinione sulle biciclette, prima. Drizzò le orecchie. Non era forse un debole, timido tentativo di bussare alla porta quello che aveva sentito? Dopo avere posato la penna, si affacciò dall'ampia finestra del fienile. La luna piena gettava una luce argentea, e le finestre della casa dei genitori brillavano di un giallo caldo. Poi sentì bussare di nuovo. Si diresse con passo felpato verso la pesante porta di legno e aprì uno spiraglio. «Ehi», bisbigliò Wren, «ti disturbo?» «Certo che no», rispose Spencer, aprendo la porta. Wren, scalzo, indossava una maglietta bianca aderente con su scritto "University of Pennsylvania Medical" e un paio di larghi pantaloncini color cachi. Abbassò lo sguardo sulla sua maglietta a girocollo nera della French Connection, sui pantaloncini felpati grigi da podista Villanova e le gambe nude. Aveva una coda bassa e spettinata, alcune ciocche che le cadevano intorno al viso. Era un look completamente diverso dalla camicetta a righe con i bottoni sul colletto e i jeans Citizens che indossava di solito. Quel look diceva:Sono sofisticata e sexy;questo invece sembrava dire:Sto studiando... ma sono comunque sexy. Ok, forse aveva immaginato che tutto ciò potesse accadere, ma ciò vi dimostri che non basta semplicemente infilarsi della biancheria consumata e una vecchia, logora maglietta con su scritto "Odio i gatti persiani". «Come va?», chiese, mentre una brezza calda le sollevava le punte dei capelli. Una pigna cadde con un tonfo sordo da un albero vicino. Wren rimase indugiando sulla soglia. «Non dovresti essere fuori a qualche festa? Ho sentito dire che c'è un super party da qualche parte». Spencer alzò le spalle. «Non m'interessa». Wren la guardò negli occhi. «No?» «Uhm. dov'è Melissa?», chiese Spencer con la bocca asciutta. «Sta dormendo. Troppe faccende da sbrigare, credo. Per cui ho pensato che forse avresti potuto mostrarmi questo fantastico fienile in cui non posso abitare. Non l'ho neanche mai visto!». Spencer aggrottò le sopracciglia. «Hai portato un regalo di benvenuto?». Wren sbiancò. «Be', io.». «Sto scherzando», ribatté Spencer aprendo la porta. «Accomodati nel fienile di Spencer Hastings». Aveva trascorso diverse notti a fantasticare su tutti i potenziali scenari in cui c'erano solo lei e Wren, ma niente era paragonabile all'averlo lì davvero. Wren girellò fino al poster di Thom Yorke e si stirò le braccia sopra la testa. «Ti piacciono i Radiohead?» «Li adoro». La faccia di Wren s'illuminò. «Li ho visti almeno una ventina di volte a Londra, un concerto meglio dell'altro». Spencer lisciò il piumone sul letto. «Che fortuna. Non li ho mai visti dal vivo». «Allora dobbiamo rimediare», rispose lui, appoggiandosi al divano. «Se vengono a Philadelphia ci andiamo». Spencer fece una pausa. «Be', non penso che.». Poi si fermò. Stava per dire:Non penso che a Melissa piacciano, ma. forse Melissa non era invitata. Lo accompagnò nel guardaroba. «Questo è il mio, ehm, guardaroba», disse, inciampando accidentalmente nell'angolo della porta. «Un tempo era un locale per la mungitura». «Ah sì?» «Già. Qui i contadini strizzavano le tette alle vacche, o roba del genere». Wren rise. «Vuoi dire lemammelle?»«Ehm, sì». Spencer arrossì. Ops. «Non devi per forza farci un giro, per essere gentile; voglio dire, so che i guardaroba non sono così interessanti per i ragazzi». «Oh no», ridacchiò Wren, «ho fatto tutta questa strada e adesso voglio assolutamente vedere che cosa tiene Spencer Hastings nel suo armadio». «Come desideri». Spencer accese la luce del guardaroba; odorava di cuoio, naftalina e Clinique Happy. Aveva nascosto mutande, reggiseni, camicie da notte e tenute sporche da hockey in cesti della da notte e tenute sporche da hockey in cesti della biancheria di vimini, mentre le gonne erano appese in file ordinate, suddivise per colore. Wren soffocò una risata. «Sembra di essere in un negozio!». «Già», rispose Spencer timidamente, passando la mano sulle camicie. «Non avevo mai sentito parlare di finestre nei guardaroba», continuò Wren, indicando la finestra aperta sulla parete opposta. «Sembra divertente». «Faceva parte del fienile originale», spiegò Spencer. «Ti piace che la gente ti veda nuda?» «Ci sono le serrande». «Peccato», disse piano Wren. «Eri così bella in bagno. Speravo di poterti rivedere di nuovo. così.». Quando Spencer si voltò (che cosaaveva detto?), lui la stava fissando. Passò la mano sul risvolto di un paio di pantaloni Joseph appesi, mentre lei continuava a giocherellare con il suo anello a cuore Elsa Peretti di Tiffany, temendo di parlare. Wren fece un passo avanti, poi un altro, finché non le fu accanto. Spencer riusciva a vedere la luce illuminargli le lentiggini sul naso. La beneducata Spencer di un universo parallelo l'avrebbe schivato per proseguire il giro del fienile, ma Wren continuava a guardarla con i suoi grandi, meravigliosi occhi neri, e la Spencer presente adesso strinse le labbra, con la paura di parlare, ma morendo dalla voglia di fare. qualcosa. Alla fine lo fece. Chiuse gli occhi, si avvicinò e lo baciò sulle labbra. Wren non esitò un attimo: la baciò di nuovo, poi, tenendole una mano dietro il collo, la baciò con più forza. La sua bocca era morbida, con un leggero sapore di sigaretta. Spencer si lasciò scivolare verso la parete delle camicie, mentre Wren la seguì. Alcune caddero dalle stampelle, ma Spencer non ci fece caso. Alla fine, si ritrovarono sul pavimento ricoperto di moquette. Spencer allontanò con un calcio le scarpette da hockey, mentre Wren si girò sopra di lei, gemendo leggermente. Spencer gli afferrò stretto la maglietta e gliela sfilò dalla testa; lui fece lo stesso, sfiorandole le gambe con i piedi. Uno straordinario impulso irresistibile s'impadronì di lei, senza che riuscisse a definirlo. Qualunque cosa fosse, era talmente intenso da non farla sentire in alcun modo colpevole. Si fermò sopra di lui, respirando forte. Lui la baciò di nuovo, poi le baciò il naso e il collo; infine si alzò. «Torno subito». «Perché?». Lui accennò con gli occhi al bagno alla loro sinistra. Non appena lo sentì chiudere la porta, Spencer riappoggiò la testa a terra e restò a fissare i suoi vestiti, in preda alle vertigini. Poi si tirò su e si guardò allo specchio a tre facce. I capelli le si erano sciolti e le ricadevano sulle spalle. La sua pelle nuda appariva luminosa, mentre la faccia era leggermente arrossata. Tutto. Ciò. Era.Incredibile. In quel preciso istante, il riflesso dello schermo del PC che si trovava proprio di fronte al guardaroba catturò la sua attenzione. Stava lampeggiando. Spencer si voltò e gettò una rapida occhiata: sembrava che le fossero arrivati centinaia di messaggi, elencati uno sopra l'altro. Un altro messaggio apparve sullo schermo, questa volta scritto a lettere enormi. Spencer aguzzò lo sguardo. A A A A A: Te l'ho già detto: baciare il ragazzo di tua sorella è SBAGLIATO. Spencer corse davanti allo schermo e lesse di nuovo il messaggio, poi si voltò verso il bagno: un sottile fascio di luce balenava da sotto la porta. A non poteva in alcun modo essere Andrew Campbell. Quando aveva baciato Ian, in seconda media, lo aveva detto a Alison, confidando in un suo consiglio. Ali si era guardata la french manicure per un lungo istante prima di dire: «Sai, sono sempre stata dalla tua parte quando si tratta di Melissa, ma questa volta è diverso. Penso che dovresti dirglielo». «Dirglielo?»,aveva ribattuto Spencer. «Non se ne parla neanche, mi ucciderebbe». «E che cosa pensi, che Ian uscirà con te?», aveva ribattuto Ali su di giri. «Non lo so», aveva risposto Spencer. «Perché Ali aveva sbuffato. «Se non glielo dici tu, lo farò io». «Ah sì?» «Be', se lo dici a Melissa», aveva proseguito Spencer un attimo dopo, con il cuore che le batteva all'impazzata, «dirò a tutti dell'Affare Jenna». no?». Ali era scoppiata in una risata. «Tu sei colpevole quanto me». Spencer l'aveva guardata a lungo con un'espressione dura. «Sì, ma nessuno ha vistome». Ali si era voltata verso di lei, gettandole un'occhiata feroce e arrabbiata, più spaventosa di qualsiasi altra occhiata che avesse mai dato prima a nessuna delle ragazze. «Sai che mi sono occupata di questo». Poi c'era stata quella notte al fienile, l'ultimo giorno di seconda media. Quando Ali aveva detto a Melissa e Ian quanto fossero carini insieme. Spencer aveva capito che avrebbe davvero potuto raccontare tutto. Poi, stranamente, una tenue sensazione non controllata l'aveva pervasa.Lasciala fare, aveva pensato. All'improvviso, non le importava più niente. E, sebbene adesso suonasse orribile da dire, voleva liberarsi di Ali, lì, in quel preciso istante. Adesso Spencer avvertiva la nausea. Sentì l'acqua scorrere in bagno. Wren schizzò fuori e rimase sulla soglia del guardaroba. «Allora, dove eravamo rimasti?». Ma Spencer aveva ancora lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Qualcosa, una sorta di ombra rossastra, si era appena mossa, come un riflesso. «Sssh», disse, mettendo a fuoco.Eraun riflesso.Si voltò. C'era qualcuno fuori della finestra. «Merda», disse, coprendosi il seno nudo con la maglietta. «Che c'è?», chiese Wren. Spencer fece un passo indietro, la gola secca. «Oh», disse con voce rauca. «Oh», le fece eco Wren. Melissa stava in piedi di fronte alla finestra, con i capelli spettinati come la Medusa e la faccia totalmente priva di espressione. Una sigaretta le tremava tra le dita piccole, sempre salde. «Non sapevo che fumassi», disse infine Spencer. Melissa non rispose. Fece un altro tiro, gettò la cicca nell'erba umida e si voltò verso la casa principale. «Che fai Wren, vieni?», gridò freddamente, senza voltarsi. 25 LARGO ALLE STUDENTESSE PILOTA! Dopo avere girato l'angolo ed essersi trovata davanti al giardino principale di Noel, Mona rimase a bocca aperta. «Oh merda». Hanna stava appoggiata al finestrino della BMW del padre di Sean, sorridendole. «Ti piace?». Mona sgranò gli occhi. «Sono senza parole». Hanna sorrise grata e bevve un sorso dalla bottiglia di Ketel One che aveva fregato dal tavolo degli alcolici. Due minuti prima, aveva inviato a Mona una foto della BMW con scritto: "Sono tutta lubrificata, davanti e dietro. Ti va di farti un giro?". Mona aprì il pesante sportello dal lato passeggero e si sedette, distendendosi e osservando intensamente il logo BMW sul volante. «È così bella.», disse, disegnando con il mignolo i triangoli blu e bianchi. Hanna le allontanò la mano con un colpetto. «Sei parecchio fatta?». Mona alzò il mento e scrutò i capelli sporchi di Hanna, il vestito rovinato e la faccia solcata dalle lacrime. «Le cose non vanno bene con Sean?». Hanna abbassò lo sguardo e infilò la chiave nell'accensione. Mona si mosse per abbracciarla. «Oh, Han, mi spiace. che cosa è successo?» «Niente. E comunque, non importa». Hanna si tirò indietro, s'infilò gli occhiali da sole (era un po' difficile riuscire a vedere bene, ma che importava?) e avviò il motore, che si accese con vigore, mentre tutte le luci del cruscotto s'illuminavano. «Carino!», gridò Mona. «Come le luci del Club Shampoo!». Hanna inserì la retromarcia e le gomme girarono nell'erba folta; poi procedette a singhiozzi sulla strada, girò il volante e partirono. Hanna era troppo intontita dall'alcol per preoccuparsi del fatto che la doppia linea sull'asfalto si stava quadruplicando nel suo campo visivo. «Yahoo!», esclamò Mona, abbassando il finestrino per lasciare volare i lunghi capelli biondi. Hanna si accese una Parliament e fece partire la radio, cambiando canale fino a quando non trovò una stazione rap retro che davaBaby Got Black.Alzò il volume a manetta e l'abitacolo iniziò a vibrare (naturalmente, l'auto era stata dotata dei bassi migliori sul mercato). «Così va meglio», disse Mona. «Diavolo se va meglio», rispose Hanna. Mentre affrontava una curva un po' troppo velocemente, le suonò un campanellino nella mente. "Non sarai tu". Ahi. "Neanche papà ti ama di più". Doppio ahi. Be', fanculo. Hanna premette l'acceleratore e per poco non prese una cassetta della posta a forma di cane. «Dobbiamo andare da qualche parte a mostrare questa bella troia». Mona poggiò i tacchi Miu Miu sul cruscotto, sfilando pezzi di erba e sporco. «Che ne dici di Wawa? Ho un bisogno tremendo di torta al cioccolato». Hanna ridacchiò e bevve un altro sorso di Ketel One. «Devi essere proprio cotta!». «Non sono cotta, sono arrostita!». Parcheggiarono di traverso da Wawa cantandoI like big BUTTS and I cannot lie!mentre entravano nel negozio. Un paio di sudici ragazzetti delle consegne con in mano alcune tazze di caffè rimasero a bocca aperta. «Me lo daresti ?», chiese Mona al più magro dei due, indicando il suo cappellino da baseball con su scritto "Fattorie wawa". Il ragazzo glielo porse, senza dire una parola. «Ehi», sussurrò Hanna, «quest'affare sarà pieno di germi», ma Mona se l'era già messo in testa. Nel negozio, Mona comprò sedici pezzi di torta glassata, una copia di «Us Weekly» e una bottiglia gigante di ponce alla frutta esotica, mentre Hanna spese dieci centesimi per un lecca lecca. Mentre Mona non guardava, s'infilò uno Snickers e un pacchetto di M&M nella borsetta. «Sento la macchina», disse Mona con fare sognante mentre pagavano, «sta suonando». Ed era vero. In preda ai fumi dell'alcol, Hanna aveva attivato l'allarme dal portachiavi. «Ops», sorrise. Ridendo a crepapelle, tornarono alla macchina ed entrarono. Si fermarono a un semaforo, sobbalzando. Il supermercato alla loro sinistra era vuoto, c'erano solo carrelli abbandonati. Le luci al neon del negozio brillavano a intermittenza; persino il bar della Outback Steakhouse era deserto. «Rosewood è piena di perdenti», disse Hanna, gesticolando verso l'oscurità. Anche la strada era deserta, per cui Hanna si lasciò sfuggire un: «Uh!», quando un'auto giunse di soppiatto nella corsia accanto alla sua. Era una Porsche grigio metallizzato con il cofano appuntito, finestrini oscurati e spaventosi fari bluastri. «Occhio», disse Mona, lasciando cadere dalla bocca briciole di torta. Mentre la osservavano l'auto mandò su di giri il motore. «Vuole fare a gara», bisbigliò Mona. «Stupido», rispose Hanna. Non riuscì a capire chi fosse alla guida, scorgendo solo il puntino rosso luminoso di una sigaretta accesa. Una sensazione di disagio la pervase. L'auto accelerò di nuovo, questa volta con impazienza, quando riuscì a vedere vagamente la sagoma del guidatore. Accelerò di nuovo. Hanna alzò un sopracciglio rivolta a Mona, sentendosi ubriaca, su di giri e assolutamente invincibile. «Fallo», sussurrò Mona, abbassando la tesa del cappello di Wawa. Hanna deglutì. Il semaforo diventò verde. Non appena premette l'acceleratore, la macchina schizzò in avanti, mentre la Porsche ruggì dietro di loro. «Andiamo ragazza, non farti battere!», urlò Mona. Hanna premette l'acceleratore e il motore ruggì. Si portò di fianco alla Porsche. Raggiunsero le 80, 90, poi le 100 miglia orarie. Guidare a quella velocità era persino meglio che rubare. «Spaccagli il culo!», strillò Mona. Con il cuore a mille, Hanna premette il pedale a manetta. Riusciva a malapena a sentire quello che diceva Mona per via del rumore del motore. Appena girata una curva, un cervo comparve sulla loro corsia, dal nulla. «Merda!», strillò Hanna. Il cervo rimase immobile. Hanna afferrò saldamente il volante, premette il freno e svoltò a destra, mentre il cervo saltava via. Velocemente, girò il volante per raddrizzare la corsa, ma la macchina iniziò a slittare. Le ruote finirono su della ghiaia al lato della strada, iniziando improvvisamente a girare vorticosamente. La macchina ruotò su se stessa più e più volte, e alla fine colpirono qualcosa. All'improvviso si udì un tonfo, il rumore di vetri rotti e. il buio. Una frazione di secondo dopo, l'unico suono nell'auto era un forte sibilo sotto il cofano. Lentamente, Hanna si toccò la faccia. Era a posto: non era stata colpita. E riusciva a muovere le gambe. Si divincolò da una massa di tessuto avvolgente e rigonfia, l'airbag. Poi si voltò verso Mona. Le sue lunghe gambe scalciavano violentemente sotto l'airbag. Hanna si asciugò alcune lacrime. «Levami quest'affare di dosso!». Hanna scese dall'auto e poi estrasse Mona. Rimasero ferme sul ciglio della strada, respirando affannosamente. Dall'altro lato, s'intravedevano i binari della linea regionale e la stazione di Rosewood, avvolta nell'oscurità. Riuscivano a vedere fino in fondo alla strada: nessun segno della Porsche, né del cervo che avevano mancato. Più avanti, il semaforo passò dal giallo al rosso. «Che avventura», disse Mona con voce tremante. Hanna annuì. «Sei sicura di stare bene?». Poi si voltò verso l'auto. L'intera parte frontale si era accartocciata contro una cabina telefonica. Il paraurti pendeva dall'auto, toccando terra. Uno dei fari si era girato e deformato, mentre l'altro lampeggiava impazzito. Un vapore puzzolente fuoriusciva dal cofano. «Non prenderà fuoco, vero?», chiese Mona. Hanna ridacchiò. L'intera situazione non avrebbe dovuto essere divertente, ma lo era. «E adesso che cosa facciamo?» «Ce la diamo a gambe», disse Mona. «Da qui possiamo tornare a casa a piedi». Hanna trattenne altre risate. «Oh mio dio. Sean si cagherà sotto!». Poi scoppiarono a ridere entrambe. Singhiozzando, Hanna si girò verso la strada vuota e allargò le braccia. Avvertiva un'incredibile potenza nello stare in mezzo a una statale a quattro corsie; si sentì la padrona di Rosewood. Si sentì anche girare ancora, ma forse perché era sempre ubriaca fradicia. Lasciò cadere vicino alla macchina anche la chiave, che cadde sbattendo violentemente sul selciato, facendo ripartire l'allarme. Hanna si chinò per premere il pulsante di spegnimento. L'allarme si fermò. «Ma deve per forza essere tanto forte?», si lamentò. «Hai ragione». Mona s'infilò gli occhiali da sole. «Il padre di Sean dovrebbe proprio farlo aggiustare». 26 MI AMI? Si O NO? Era sabato. L'orologio del nonno nel corridoio segnava le 9 di mattina. Emily stava scendendo silenziosamente le scale per dirigersi in cucina. Non si alzava mai così presto nel weekend, ma quella mattina non riusciva a dormire. Qualcuno aveva preparato il caffè, mentre alcune ciambelle facevano bella mostra di sé su un piatto con sopra disegnato un pollo. Sembrava che i suoi genitori fossero usciti per la loro passeggiata del sabato mattina all'alba, immancabile, qualunque fosse il tempo. Se avessero fatto i loro due giri del vicinato, Emily sarebbe potuta uscire senza che nessuno la notasse. La notte precedente, dopo che Ben l'aveva beccata assieme a Maya nella cabina, Emily era fuggita di corsa dalla festa, senza neanche salutare Maya. Aveva chiamato Carolyn, che era da Applebee, per chiederle un passaggio, immediatamente. Carolyn e il suo ragazzo, Topher, erano arrivati senza fare alcuna domanda, sebbene Carolyn avesse lanciato a sua sorella, che puzzava di whiskey, un'occhiata severa e materna mentre saliva sul sedile posteriore. Arrivate a casa, si era nascosta sotto le coperte, in modo da non dover parlare con Carolyn, ed era caduta in un sonno profondo. La mattina, però, si sentiva peggio che mai. Non sapeva che cosa pensare di quello che era successo alla festa. Tutto si confondeva in un ricordo vago. Voleva credere che aver baciato Maya fosse stato un errore, che avrebbe potuto spiegare tutto a Ben e che finalmente tutto sarebbe tornato a posto. Eppure, continuava a pensare a come si sentiva per l'intera situazione. Era come se, prima di quella notte, non avesse mai baciato prima. Ma non c'era nulla, nullain Emily che facesse pensare che fosse lesbica. Comprava trattamenti oleosi da ragazze per i capelli rovinati dal cloro; teneva un poster del più figo nuotatore australiano, Ian Thorpe, appeso alla parete; rideva con le altre ragazze di nuoto dei costumi Speedo dei ragazzi. Aveva baciato soltanto un'altra ragazza anni prima, e non contava. E se anche avesse contato, non significava niente, giusto? Ruppe una ciambella in due e ne mangiò un pezzo. La testa le pulsava. Avrebbe voluto che tutto tornasse come prima. Voleva di nuovo infilare un asciugamano pulito nella sacca del nuoto per andare agli allenamenti; fare delle faccette da porcello ridendo, rivolta alla macchina fotografica di qualcuno dall'autobus; essere felice di se stessa e della propria vita, senza sentirsi uno yo-yo di emozioni. Tutto lì. Maya era fantastica, ma erano solamente confuse, e tristi, ognuna per le proprie ragioni. Ma non gay. Giusto? Aveva bisogno di una boccata d'aria. Fuori era deserto. Gli uccelli cinguettavano rumorosamente e il cane di qualcuno iniziò ad abbaiare, ma tutto il resto era immobile. I giornali appena consegnati erano ancora lì, ad attendere nei giardini, avvolti nella plastica blu. La sua vecchia mountain bike rossa era legata al capanno degli attrezzi; Emily la tirò su, augurandosi di avere abbastanza equilibrio per riuscire a guidare una bicicletta dopo il whiskey della notte precedente. Si buttò sulla strada, ma la ruota anteriore della bici fece un rumore sinistro. Emily si chinò: qualcosa era rimasto incastrato nella ruota. Un pezzo di carta di quaderno era bloccato tra i raggi. Lo estrasse e lesse alcune righe. Un momento. Era la sua scrittura. Adoro osservare la tua testa da dietro, mentre siamo in classe; adoro il modo in cui mastichi la gomma quando parliamo al telefono, e adoro quando muovi a scatti le tue Skechers mentre la signorina Hat inizia a parlare di famosi casi giudiziari americani, e so che ti stai annoiando a morte. Emily si guardò attorno, nel giardino vuoto. Era quello che pensava che fosse? Scorse rapidamente il testo fino alla fine, con la bocca asciutta. Ho pensato molto al perché ti ho baciata l'altro giorno. Poi ho capito: non era uno scherzo, Ali. Penso di amarti. Posso capirti se non mi vorrai più parlare, ma dovevo dirtelo. Em C'era qualcos'altro scritto sull'altro lato del foglio. Lo voltò. Ho pensato che forse l'avresti voluta indietro. Baci, A Emily lasciò cadere a terra la bicicletta. Quella eralalettera per Ali, proprio quella che Emily le aveva spedito dopo il bacio. Si era sempre chiesta se Ali l'avesse mai ricevuta. Calmati,si disse, realizzando che le tremavano le mani.Ci deve essere una spiegazione logica a tutto Doveva essere stata Maya. In fondo, viveva nella vecchia stanza di Ali. Emily le aveva parlato di Alison e della lettera la sera prima. Forse la voleva soltanto restituire? Ma quel. "Baci, A". Maya non l'avrebbe mai scritto. ciò. Emily non sapeva che cosa fare, né con chi parlare. Improvvisamente, pensò ad Aria. La notte precedente erano successe talmente tante cose dopo che ci si era imbattuta, che aveva dimenticato la loro conversazione. Che senso avevano quelle strane domande di Aria suAlison? E poi, c'era qualcosa nella sua espressione; Aria sembrava. nervosa. Emily si sedette per terra e rilesse di nuovo quel "Ho pensato che forse l'avresti voluta indietro". Se ricordava bene, la scrittura di Aria, così appuntita, somigliava molto a quella. Negli ultimi giorni prima della scomparsa, Ali le aveva continuamente ricordato del bacio, obbligandola a fare qualunque cosa lei volesse. A Emily non era venuto in mente che forse Ali ne aveva parlato con le altre. Ma forse. «Tesoro?». Emily sobbalzò. I suoi genitori erano in piedi davanti a lei, con indosso scarpe da ginnastica di un bianco splendente, pantaloncini e magliette da golf color pastello, da ragazzi di buona famiglia. Suo padre aveva un marsupio rosso, mentre la madre indossava dei pesi da braccia anteriori e posteriori turchesi. «Ehi», rispose Emily con voce lugubre. «Stai andando a fare un giro in bici?» «Già». «Dovresti restare in casa in punizione». Suo padre s'infilò gli occhiali, come se avesse bisogno di vederla per sgridarla. «Ti abbiamo dato il permesso di uscire la scorsa notte soltanto perché saresti andata con Ben. Speravamo che ti facesse ragionare. Ma le gite in bicicletta non sono consentite». «Be'», grugnì Emily, alzandosi. Se soltanto non avesse dovuto spiegare niente ai suoi genitori. In fondo. che importava? Non l'avrebbe fatto. Almeno, non in quel momento. Alzò la gamba e si mise a cavalcioni della bici. «Devo andare in un posto», borbottò, pedalando lungo il vialetto. «Emily, torna qui», strillò il padre in tono aspro. Ma Emily, per la prima volta nella sua vita, continuò semplicemente a pedalare. 27 NON FARE CASO A ME, SONO SOLO MORTA! Aria si svegliò con il suono del campanello, ma non si trattava del suono familiare del campanello di casa. EraAmerican Idiotdei Green Day. Quand'è che i suoi genitori l'avevano cambiato? Tirò giù il piumone, scivolò negli zoccoli a fiori blu bordati di pelliccia che aveva comprato ad Amsterdam e scese con passo pesante le scale a chiocciola per andare a vedere chi fosse. Quando aprì la porta, ebbe un sussulto: era Alison. Era più alta, e i suoi capelli biondi e folti erano scalati, mentre il volto appariva più affascinante e squadrato di quanto non lo fosse in seconda media. «Ta-daa!», disse sorridendo e allargando le braccia. «Sono tornata!». «Oh santo.». Aria sentì le parole strozzarsi in gola, costringendola a sbattere furiosamente gli occhi un paio di volte. «D... dove sei stata?». Ali alzò gli occhi al cielo. «Quegli stupidi dei miei genitori», disse. «Ti ricordi di mia zia Camille, quella fichissima nata in Francia che ha sposato mio zio Jeff quando eravamo in seconda media? Be', quell'estate sono andata a farle visita, e poi mi sono trovata talmente bene da decidere di restare. Naturalmente ho detto tutto ai miei genitori, ma credo che loro si siano dimenticati di dirlo a chiunque altro». Aria si stropicciò gli occhi. «Dunque, aspetta un attimo, sei stata a. Miami? Ma staibene?». Ali si girò leggermente. «Mi sembra di stare più che bene, non ti pare? Ehi, ti sono piaciuti i miei messaggi?». Aria lasciò svanire il sorriso. «Ehm. veramente, no». Ali sembrò ferita. «Perché no? Quello su tua madre era talmente divertente». Aria rimase a fissarla. «Oddio, sei una sensibile», disse Ali spalancando gli occhi. «Non penserai mica di scaricarmi un'altra volta?» «Aspetta un secondo, che cosa?», farfugliò Alison le dette una lunga occhiata e una sostanza nera e gelatinosa iniziò a colarle dal naso. «Sai, l'ho detto alle altre. Di tuo padre, intendo. Ho raccontato tutto». Aria. «Il tuo. naso.», disse Aria, indicandolo. All'improvviso, la stessa sostanza iniziò a gocciolare dagli occhi di Ali, come se stesse piangendo olio, e poi a fuoriuscirle dalle unghie. «Oh, mi sto solo decomponendo», sorrise Ali. Aria si alzò bruscamente dal letto, con il collo madido di sudore. I raggi del sole inondavano la stanza e dallo stereo di suo fratello si sentiva suonare American Idiot.Si guardò le mani alla ricerca di un liquido nerastro, ma le trovò immacolate. Wow. «Buongiorno, tesoro». Aria barcollò giù per la scala a chiocciola e scorse suo padre, con indosso soltanto un paio di leggeri pantaloncini scozzesi e una maglietta senza maniche del «Philadelphia Inquirer». «Ehi», rispose piano. Mentre si trascinava verso la macchina del caffè, rimase a osservare a lungo le spalle bianche, ricoperte di qualche pelo qua e là, di suo padre, che scuoteva i piedi, emettendo dei "hmm" mentre leggeva il giornale. «Papà?», chiamò con una voce leggermente rotta.«Hmm?». Aria si appoggiò all'isola rivestita di pietra. «I fantasmi possono inviare SMS?». Suo padre alzò lo sguardo, sorpreso e confuso. «Che cos'è un SMS?». Aria afferrò una scatola aperta di cereali glassati e ne estrasse una manciata. «Lascia stare». «Sei sicura?», le chiese Byron. Aria masticò nervosamente. Che cosa avrebbe voluto chiedere?È forse un fantasma a inviarmi quei messaggi?Ma suvvia, sapeva bene che non era vero. In ogni caso, non capiva perché il fantasma di Ali sarebbe dovuto tornare a farle questo. Era come se desiderasse vendetta, ma era possibile? Ali era stata eccezionale il giorno in cui avevano beccato suo padre in macchina. Aria aveva girato l'angolo e corso fino a quando non aveva potuto fare altro che rallentare. Aveva continuato a camminare fino a casa, senza sapere bene che cosa fare. Ali l'aveva abbracciata a lungo. «Non ne farò parola con nessuno», le aveva sussurrato. Il giorno seguente, però, erano iniziate le domand e .Conosci quella ragazza? È una studentessa? Tuo padre lo dirà a tua madre? Pensi che vada con parecchie alunne? Di solito, Aria riusciva a sopportare l'indiscrezione di Ali, e persino le sue canzonature; le andava bene fare dastrambadel gruppo, ma quello era diverso. Tutto ciòfaceva male. Per cui, durante gli ultimi giorni di scuola, prima della sua scomparsa, Aria l'aveva evitata; non le aveva mandato alcun messaggio del tipo "Che barba" durante le lezioni di igiene, né l'aveva aiutata a pulire l'armadietto. E naturalmente, non aveva fatto parola di ciò che era successo. Era arrabbiata per il fatto che Ali stesse curiosando, come se si trattasse di qualche celebrità su «Star» e non della sua vita, e che sapesse. Punto. Adesso, tre anni dopo, Aria si chiedeva con chi fosse realmente arrabbiata: non era con Ali, ma con suo padre. «Ok», rispose Byron, senza crederci. Il campanello suonò. Non erano i Green Day, ma il normale din don. Il padre alzò lo sguardo. «Mi chiedo se sia per Mike», disse. «Lo sapevi che una ragazza della scuola quacchera è venuta qui alle otto e mezza, chiedendo di lui?». «Vado io», disse Aria. Aprì la porta d'ingresso esitando, ma era soltanto Emily Fields, con i capelli rossicci arruffati e gli occhi gonfi. «Ehi», disse Emily in tono cupo. «Ehi», rispose Aria. Emily gonfiò le guance (una vecchia abitudine nervosa) e rimase immobile per un attimo, poi parlò. «Farei meglio ad andare», disse, iniziando a voltarsi. «Aspetta», disse Aria afferrandola per il braccio. «Cosa? Che cosa c'è?». Emily fece una pausa. «Hmm, ok, ma. ti sembrerà assurdo». «Nessun problema». Aria sentì il cuore iniziare a batterle forte. «Stavo pensando a quello che mi hai detto ieri alla festa. A Ali. Mi chiedevo. Ali vi ha mai detto qualcosa riguardo a me?». Emily lo disse in tono molto basso. Aria si tolse i capelli dagli occhi. «Che cosa?», bisbigliò Aria. «Vuoi dire, di recente?». Emily sgranò gli occhi. «Che cosa intendi per "di recente"?» «Io.». «In seconda media», la interruppe Emily. «Vi ha mai detto. voglio dire. qualcosa di me in seconda media? L'ha detto a tutti?». Aria sbatté gli occhi. Alla festa la sera prima, quando aveva visto Emily, avrebbe voluto più di ogni altra cosa dirle dei 205 messaggi. «No», rispose lentamente Aria, «non ha mai parlato di te alle tue spalle». «Oh». Emily fissò il pavimento. «Ma io.», iniziò. «Ho ricevuto questi.», disse Aria contemporaneamente. Poi Emily guardò dietro di lei con sguardo fisso. «Emily Fields! Salve!». Aria si voltò. Byron stava in piedi nel soggiorno. Almeno, si era infilato una vestaglia a righe. «Non ti vedevo da secoli!», esclamò. «Già». Emily gonfiò di nuovo le guance. «Come sta, signor Montgomery?». Lui la guardò corrucciato. «Ti prego, sei abbastanza grande da darmi del tu». Si grattò il mento con la tazza del caffè. «Come ti vanno le cose? Tutto bene?» «Alla grande». Emily sembrava dover scoppiare a piangere da un momento all'altro. «Vuoi qualcosa da mangiare?», le chiese Byron. «Sembri affamata». «Oh no, grazie. Io, be', credo di non avere dormito molto bene». «Voi ragazze», disse lui scuotendo la testa, «non dormite mai! Dico sempre ad Aria che dovrebbe dormire undici ore! Deve accumulare sonno per quando andrà al college e alle feste per tutta la notte!». Iniziò a salire le scale. Non appena fu svanito, Aria si voltò. «È così.», iniziò, ma poi capì che Emily era già a metà strada lungo il vialetto, diretta verso la sua bicicletta. «Ehi! Dove stai andando?». Emily tirò su la bicicletta da terra. «Non sarei dovuta venire». «Aspetta, torna qui! Io. Io devo parlarti!», urlò Aria. Emily si fermò e alzò lo sguardo. Aria sentì le parole ronzarle in bocca come api. Emily sembrava terrorizzata. Improvvisamente, però, Aria si sentì troppo impaurita per fare domande. Come avrebbe potuto parlare dei messaggi di A senza svelare il proprio segreto? Non voleva che nessuno sapesse, specialmente con sua madre al piano di sopra. Poi pensò a Byron nella sua vestaglia e a quanto Emily sembrasse a disagio con lui vicino. Emily le aveva chiesto: "Alison vi ha detto qualcosa riguardo a me in seconda media?". Perché? A meno che... Aria si morse il mignolo. E se Emily conoscesse già il suo segreto? Chiuse la bocca, paralizzata. Emily scosse la testa. «Ci vediamo dopo», mormorò e, prima che Aria riuscisse a calmarsi, stava già pedalando via furiosamente. 28 BRAD E ANGELINA IN REALTÀ SI SONO CONOSCIUTI ALLA CENTRALE DI POLIZIA DI ROSEWOOD «Signore, scopritevi!». Mentre il pubblico di Oprah Winfrey applaudiva a piene mani, Hanna se ne stava sprofondata sui cuscini di pelle marrone del divano, con il telecomando in bilico sullo stomaco nudo. Nell'aria frizzante del sabato mattina, poteva osare scoprirsi un po'. Della notte precedente le era rimasto un ricordo abbastanza indistinto, come se l'avesse trascorsa con le sinapsi staccate, e la testa le pulsava. Aveva avuto qualcosa a che fare con qualche animale? Aveva trovato la carta di qualche caramella in borsa. Le aveva mangiate?Tutte'? Dopotutto, lo stomaco le faceva male e sembrava un po' gonfio. E perché aveva un ricordo distinto di un camion delle consegne di Wawa? Era come ricomporre un puzzle, ma Hanna era troppo impaziente per i puzzle (attaccava sempre insieme dei pezzi che non combaciavano). Il campanello suonò. Hanna grugnì, poi si rotolò giù dal divano, senza preoccuparsi di sistemarsi la canotta sportiva a righe verde militare, che si era arrotolata, lasciandole praticamente scoperte le tette. Accostò la porta di legno di quercia per poi richiuderla di nuovo. Wow. Era quel poliziotto, Mister Aprile, ehm, Darren Wilden. «Apri, Hanna». Lo osservò dallo spioncino. Se ne stava immobile con le braccia incrociate, calato appieno nel proprio ruolo, ma con i capelli spettinati e, almeno apparentemente, nessuna pistola indosso. E poi, che genere di poliziotto lavorava alle 10 di un sabato mattina nuvoloso come quello? Hanna osservò il proprio riflesso nello specchio rotondo dall'altro lato della stanza. Segni del cuscino? Sì. Occhi gonfi, labbra bisognose di gloss? Assolutamente. Si passò velocemente le mani sulla faccia, legò i capelli in una coda e s'infilò i suoi occhiali da sole rotondi di Chanel, poi aprì la porta. «Ehi», disse radiosa, «Come stai?». «Tua madre è in casa?», chiese lui. «No», rispose Hanna civettuola, «è fuori tutta la mattina». Wilden strinse le labbra, stressato. Hanna notò che aveva un piccolo cerotto proprio sopra al sopracciglio. «Che ti è successo, la tua ragazza ti ha steso?», chiese, indicandolo. «No.». Wilden si toccò il cerotto. «Ho sbattuto contro l'armadietto dei medicinali mentre mi lavavo la faccia». Alzò gli occhi. «Non sono la persona più piacevole da vedere di prima mattina». Hanna sorrise. «Unisciti al club; io sono caduta la scorsa notte. È stato un caso». L'espressione gentile di Wilden si trasformò improvvisamente in un ghigno. «È successo prima o dopo avere rubato la macchina?». Hanna fece un passo indietro. «Che cosa?». Perché Wilden la stava guardando come se fosse l'amata figlia di una coppia di alieni? «Una soffiata ci ha detto che hai rubato un'auto», disse lui lentamente. Hanna rimase a bocca aperta. «Io.cosa?»«Una BMW nera? Appartenente al signor Edwin Ackard? E l'hai schiantata contro un palo del telefono? Dopo esserti scolata una bottiglia di Ketel One? Ti suona familiare?». Hanna si fece scivolare gli occhiali da sole sul naso. Un momento, eraquelloche era accaduto? «Non ero ubriaca ieri notte», mentì. «Abbiamo trovato una bottiglia di vodka sul tappetino del guidatore della macchina», disse Wilden, «per cui,qualcunoera ubriaco». «Ma.», iniziò Hanna. «Devi venire con me in centrale», la interruppe Wilden, con un tono leggermente dispiaciuto. «Ma non sono stata io a rubarla», strillò Hanna. «Sean, suo figlio, ha detto che potevo prenderla!». Wilden alzò un sopracciglio. «Allora ammetti di averla guidata?» «Io.», iniziò Hanna.Merda.Fece un passo indietro dentro casa. «Ma non c'è neanche mia madre; non saprà che cosa mi è successo». Le lacrime iniziarono a scenderle in modo imbarazzante. Si allontanò, cercando di rimettere insieme le proprie stronzate. Wilden si bilanciò sulle gambe, a disagio. Era come se non sapesse dove mettere le mani, prima in tasca, poi sospese davanti a Hanna, poi giunte. «Ascolta, possiamo chiamare tua madre dalla centrale, d'accordo?», disse, «e non ti ammanetterò. Potrai anche stare seduta vicino a me in macchina». Si diresse verso l'auto e le aprì lo sportello del passeggero. Un'ora dopo, se ne stava seduta sugli stessi sedili anatomici gialli della centrale, fissa davanti allo stesso poster deI più ricercati della Contea di Chester, lottando disperatamente per non piangere di nuovo. Le avevano appena fatto l'esame del sangue per vedere se fosse ancora ubriaca dalla notte precedente. Hanna non era sicura di esserlo; l'alcol restava forse in circolo per tutto quel tempo? Wilden stava chino sulla stessa scrivania, con sopra le penne Bic e una molla giocattolo di metallo. Si strinse il palmo con le unghie e deglutì. Sfortunatamente, gli eventi della notte precedente si erano fusi nella sua mente: la Porsche, il cervo, l'airbag. Sean le aveva davvero detto che poteva prendere la macchina? Ne dubitava; l'ultima cosa che si ricordava era il suo discorsetto sull'autostima prima che la mollasse in mezzo al bosco. «Ehi, eri alla battaglia tra band di Swarthmore ieri sera?». Un ragazzo in età da college con i capelli rasati a zero e un monosopracciglio stava seduto accanto a lei. Indossava una maglia da surfista di flanella strappata, un paio di jeans macchiati di vernice e non portava scarpe, ma era ammanettato. «Ehm, no», mormorò Hanna. Lui le si avvicinò, tanto che Hanna riuscì a sentirne l'alito di birra. «Oh, pensavo di averti vista. Io c'ero e ho bevuto troppo, così ho iniziato a spaventare le vacche di qualcuno. Ecco perché sono qui! Violazione di proprietà privata!». «Buon per te», rispose freddamente Hanna. «Come ti chiami?», chiese lui giocherellando con le manette. «Ehm, Angelina». Col cavolo che gli avrebbe detto il suo vero nome. «Ehi, Angelina», disse lui, «io sono Brad!». Hanna si lasciò sfuggire un sorriso per la stupidità della situazione. Subito dopo, la porta d'ingresso della centrale si aprì. Hanna si girò sulla sedia e si calò gli occhiali da sole sul naso. Perfetto. Era sua madre. «Sono venuta non appena ho saputo», disse la signora Marin a Wilden. Quella mattina, indossava una semplice maglietta bianca con scollo a barca, jeans James a vita bassa, scarpe scollate Gucci e gli stessi, identici occhiali da sole di Hanna. La pelle era luminosa (aveva passato tutta la mattina alla spa) e i suoi capelli biondo oro erano raccolti in una semplice coda. Hanna la guardò di traverso. Sua madre le aveva forse fregato il reggiseno? Le tette non sembravano neanche le sue. «Vado a parlarle», disse la signora Marin a Wilden a bassa voce, poi si diresse verso Hanna. Odorava di bendaggi per il corpo alle alghe. Hanna, sicura di puzzare di Ketel One e waffle, cercò di appiattirsi sulla sedia. «Mi dispiace», squittì. «Ti hanno fatto l'esame del sangue?», sibilò sua madre. Lei annuì miseramente. «Che cos'altro hai raccontato?» «N... n... niente», balbettò. La signora Marin intrecciò le mani curate con la french manicure. «Ok, me ne occupo io. Non dire niente». «Che cosa vuoi fare?», bisbigliò Hanna. «Hai forse intenzione di chiamare il padre di Sean?» «Ti ho detto che me ne occupoio,Hanna». Si alzò dalle sedute di plastica e si chinò sulla scrivania di Wilden. Hanna frugò disperatamente nella borsa alla ricerca del pacchetto di liquirizie alla frutta che teneva per le emergenze, ma ne trovò soltanto un paio; eppure il pacchetto doveva essere lì, da qualche parte. Mentre tirava fuori le liquirizie, sentì vibrare il suo BlackBerry; esitò un attimo. E se fosse stato Sean, che intendeva farle una ramanzina dall'altro lato della cornetta? E se fosse stata Mona? Dove diavolo era Mona? L'avevano davvero lasciata andare al torneo di golf? Certo, non era stata lei a rubare la macchina, ma aveva partecipato alla corsa. Doveva pur contare qualcosa. Sul BlackBerry trovò alcune chiamate perse. sei, per la precisione. Due da parte di Mona, alle 8 e alle 8:03. C'erano anche alcuni nuovi messaggi: in parte di alcuni ragazzi che avevano partecipato alla festa e che conosceva a malapena, e uno proveniente da un numero di cellulare ignoto. Sentì stringersi lo stomaco. Hanna: ti ricordi lo spazzolino da denti di KATE? Pensaci. A Hanna spalancò gli occhi; un brivido di sudore freddo e appiccicaticcio le corse giù per la schiena, facendola sentire stordita. "Lo spazzolino da denti di Kate"? «Andiamo», si disse incerta, cercando di riderci sopra. Dette un'occhiata a sua madre, ma era ancora china sulla scrivania di Wilden, intenta a discutere. Quando era andata ad Annapolis, dopo che suo padre le aveva detto che era, di fatto, un maiale, Hanna si era alzata di scatto dalla tavola ed era corsa dentro per infilarsi nella toilette delle signore, chiudere la porta e sedersi sul WC. Aveva iniziato a fare respiri profondi, nel tentativo di calmarsi. Perché non poteva essere bella, elegante e perfetta come Ali o Kate? Perché doveva restare com'era, tozza, sgraziata, insomma, un rottame? Non era neanche sicura con chi ce l'avesse di più, se con suo padre, con Kate, con se stessa o. conAlison. Mentre versava calde lacrime di rabbia, notò tre foto incorniciate appese sul lato opposto del bagno, tutte e tre rappresentanti gli occhi di qualcuno. Riconobbe gli occhi strabici ed espressivi di suo padre, e quelli piccoli e a mandorla di Isabel. Gli ultimi erano occhi grandi, ammalianti, che sembravano usciti fuori dalla pubblicità di un mascara Chanel. Erano senza alcun dubbio quelli di Kate. E la stavano tutti osservando. Hanna restò a guardare la sua immagine riflessa nello specchio; da fuori si udì il suono di una risata. Si sentì lo stomaco esplodere per tutti i popcorn che tutti quanti l'avevano vista mangiare. Si sentì così malata; voleva soltanto che uscissero di lì, ma quando si chinò sul WC, non accadde niente. Le lacrime le solcarono di nuovo le guance. Mentre si muoveva per prendere un fazzoletto di carta, notò uno spazzolino da denti verde infilato in un piccolo vasetto di porcellana, e le venne un'idea. Le ci erano voluti dieci minuti per farsi coraggio e infilarselo in gola, ma una volta fatto, si era sentita persino peggio, eppure meglio. Aveva iniziato a piangere più forte, desiderando al contempo di farlo ancora. Mentre s'infilava lo spazzolino di nuovo in gola, la porta del bagno si era spalancata. Era Alison. Sentì il suo sguardo scorrere su di sé, e sullo spazzolino da denti che teneva in mano. «Wow», disse Ali. «Vattene, ti prego», aveva bisbigliato Hanna. Alison era entrata. «Ti va di parlarne?». Hanna l'aveva guardata disperata. «Almeno chiudi la porta!». Ali aveva chiuso la porta e si era seduta sulla vasca. «Da quant'è che va avanti?» «Che cosa?», aveva chiesto Hanna con labbra tremanti. Ali aveva fatto una pausa, osservando lo spazzolino, poi aveva sgranato gli occhi. Anche Hanna lo guardò. Non aveva notato che su un lato era stampata la parola KATE in lettere bianche. Hanna sobbalzò per il suono squillante di un telefono nella centrale. "Ti ricordi lo spazzolino da denti si Kate?". Certo, qualcun altro poteva essere a conoscenza dei suoi problemi alimentari, o averla vista entrare nella centrale di polizia, o avere addirittura saputo di Kate, ma lospazzolino verde? C'era una sola persona che ne era a conoscenza. A Hanna piaceva pensare che, se Ali fosse stata viva, avrebbe sicuramente fatto il tifo per lei, adesso che la sua vita era così perfetta. La scena che si ripeteva costantemente nella testa vedeva Ali stupirsi per i suoi jeans taglia 40; Ali stupirsi per il suo lip gloss di Chanel; Ali congratularsi con lei per come aveva pianificato un perfetto party in piscina. Con mani tremanti, scrisse: Sei Alison? «Wilden», urlò un poliziotto, «abbiamo bisogno di te sul retro». Hanna alzò lo sguardo: Darren Wilden si alzò dalla scrivania, scusandosi con sua madre. In pochi secondi, l'intero distretto era entrato in azione. Un'auto della polizia schizzò fuori dal parcheggio, seguita da altre tre; i telefoni suonavano all'impazzata, e quattro poliziotti schizzarono nella stanza. «Sembra qualcosa di grosso», disse Brad, il violatore di confini ubriaco seduto accanto a lei. Hanna sussultò; ormai, si era dimenticata che fosse lì. «Scarsità di ciambelline?», chiese Hanna, cercando di ridere. cercando di ridere. «No, più grosso», disse lui, giocherellando eccitato con le manette. «Sembra qualcosa di davvero grosso». 29 BUONGIORNO, TI ODIAMO La luce del sole filtrava attraverso la finestra del fienile, e per la prima volta nella sua vita, Spencer fu svegliata dal cinguettio di passeri felici di esistere invece della musica techno anni '90 che suo padre si sparava a tutto volume dalla palestra di casa. Ma poteva forse godersela? No. Sebbene la sera prima non avesse bevuto un goccio, si sentiva indolenzita, infreddolita e sotto l'effetto dell'alcol. Non aveva chiuso occhio. Dopo che Wren se n'era andato, aveva cercato di dormire, ma la testa aveva iniziato a girarle vorticosamente. Il modo in cui Wren la teneva era talmente. diverso. Spencer non aveva mai provato niente di neanche lontanamente simile. Poi però c'erano stati quei messaggi. E l'espressione calma e spettrale di Melissa. E. Con il passare della notte, il fienile aveva iniziato a cigolare e gemere, tanto da farle tirare le coperte fino al naso, tremante. Si era rimproverata per sentirsi paranoica e immatura, ma non riusciva a impedirselo. Continuò a pensare a ogni possibilità. Alla fine, si era alzata e aveva riacceso il computer, passando alcune ore su internet. Innanzitutto aveva consultato dei siti tecnici, nel tentativo di capire come fare per tracciare i messaggi che aveva ricevuto, ma senza successo. Poi, aveva cercato di capire da dove fosse venuta la prima e-mail, quella intitolata "brama"; desiderava disperatamente che quella pista la conducesse a Andrew Campbell. Aveva scoperto che Andrew teneva un blog, ma pur avendolo consultato tutto, non aveva trovato niente. Gli interventi riguardavano tutti i suoi libri preferiti - uno stupido che intendeva fare della filosofia - e un paio di malinconici passaggi riguardanti un'infatuazione non corrisposta per una ragazza di cui non faceva mai il nome. Pensò che Andrew potesse avere fatto uno sbaglio ed essersi tradito, ma non era così. Infine, aveva inserito le parole "persone scomparse" e "Alison DiLaurentis". Aveva trovato la stessa roba di tre anni prima: i resoconti della CNN e gli articoli del «Philadelphia Inquirer», i gruppi di ricerca e i siti più strani, come quello che mostrava Ali e l'aspetto che avrebbe potuto avere con diversi tagli di capelli. Aveva osservato la foto di scuola che avevano usato: non vedeva una foto di Ali da molto tempo. L'avrebbe riconosciuta, se avesse avuto, ad esempio, un caschetto nero? Sicuramente in quella foto modificata appariva diversa. La porta a zanzariera della casa dei suoi scricchiolò mentre l'apriva nervosamente per entrare. Una volta dentro, sentì l'odore di caffè appena fatto; strano, dato che a quell'ora sua madre era già nelle stalle e suo padre era a cavallo o al corso di golf. Si chiese che cosa fosse successo tra Melissa e Wren dopo quella notte, pregando di non doverli affrontare. «Ti stavamo aspettando». Spencer fece un salto. Seduti al tavolo di cucina c'erano i suoi genitori, assieme a Melissa. La madre era pallida e scavata in volto, mentre il padre aveva le guance rosse. Melissa aveva gli occhi cerchiati di rosso e gonfi. Persino i due cani non erano saltati su per farle le feste, come di solito. Spencer deglutì; era troppo perché bastasse una semplice preghiera. «Siediti, per favore», le disse piano il padre. Spencer tirò indietro una sedia di legno e si sedette accanto alla madre. La stanza era talmente immobile e silenziosa che riusciva a sentire il suo stesso stomaco brontolare. «Non so neanche che cosa dire», iniziò la madre con voce gracchiante. «Ma come haipotuto?». Spencer sentì lo stomaco contorcersi. Aprì la bocca, ma la donna alzò la mano. «Adesso non hai alcun diritto di parlare». Spencer richiuse la bocca di scatto e abbassò lo sguardo. «Onestamente», disse il padre, «in questo momento mi vergogno davvero che tu sia mia figlia. Pensavo che ti avessimo cresciuta meglio». Spencer si tirò una pellicina sul pollice e cercò di impedire che il mento le tremasse. «Che cosa pensavi?», chiese sua madre. «Quello era il suo ragazzo. Si stavano organizzando per andare a vivere insieme. Ti rendi conto di quello che hai fatto?» «Io.», iniziò Spencer. «Voglio dire.», la interruppe la madre; poi incrociò le mani e guardò in basso. «Sei minorenne; ciò significa che siamo legalmente responsabili per te», disse suo padre, «ma se fosse per me, ti sbatterei fuori di casa in questo preciso istante». «Vorrei non doverti rivedere mai più», disse secca Melissa. Spencer si sentì sul punto di svenire. Si aspettava quasi che a un certo punto posassero le tazze di caffè e le dicessero che era tutto uno scherzo, che era tutto a posto; ma neanche laguardavano.Le parole del padre le rimbombavano nelle orecchie: "in questo momento mi vergogno davvero che tu sia mia figlia". Nessuno le aveva mai detto nulla di simile in tutta la «Una cosa è certa: Melissa si trasferirà nel fienile», proseguì sua madre. «Voglio che tu riporti tutta la tua roba nella tua vecchia stanza, e una volta che la sua casa sarà pronta, trasformerò il fienile in uno studio di ceramiche». vita. Spencer strinse i pugni sulla tavola, cercando di non piangere. Non le importava del fienile, almeno non così tanto. Era quello che c'era dietro che la feriva. Era che il padre avrebbe realizzato delle mensole per lei, mentre la madre l'avrebbe aiutata a scegliere delle tende nuove. Le avevano detto che avrebbe potuto avere un gattino, e avevano passato del tempo a cercargli dei nomi divertenti. Erano felici per lei. A loro importava. Allungò la mano verso il braccio di sua madre. «Mi spiace», le disse lei ritraendosi. «Spencer, no». Spencer non riuscì più a ingoiare i singhiozzi; le lacrime iniziarono a solcarle le guance. «In ogni caso, non è con me che ti devi scusare», continuò la madre a voce bassa. Spencer si voltò verso Melissa, che singhiozzava dall'altro lato del tavolo, soffiandosi il naso. Sebbene odiasse profondamente Melissa, non aveva mai visto sua sorella con un aspetto tanto miserevole, almeno non da quando Ian l'aveva lasciata ai tempi del liceo. Era stato un errore flirtare con Wren, ma Spencer non aveva mai pensato che le cose si sarebbero spinte tanto in là. Cercò di immaginarsi al posto di Melissa; se avesse incontrato lei per prima Wren, e Melissa l'avesse baciato, anche lei si sarebbe sentita a pezzi. Sentì il cuore calmarsi. «Mi spiace», sussurrò. Melissa rabbrividì. «Vai all'inferno». Spencer si morse l'interno della bocca tanto forte da sentire il sapore del sangue. «Porta via tutta la tua roba dal fienile», le disse la madre, «e sparisci dalla nostra vista». Spencer sgranò gli occhi. «Ma.», disse con voce gracchiante. Il padre la fulminò con un'occhiata. «È spregevole», mormorò sua madre. «Sei una tale troia», infierì Melissa. Spencer annuì. Forse, se avesse dato loro ragione, avrebbero smesso. Avrebbe voluto accartocciarsi come una pallina e sparire. Invece, si limitò a ribattere. «Vado subito». «Bene». Il padre prese un altro sorso di caffè e si alzò da tavola. Melissa emise un debole gemito e tirò indietro la sedia; singhiozzò per tutte le scale e sbatté con forza la porta di camera sua. «Wren se n'è andato ieri notte», disse la signora Hastings, fermandosi sulla porta. «Non sapremo più nulla di lui, mai più. E, se capisci che cosa è meglio per te, non oserai mai più farne parola». «Naturalmente», bisbigliò Spencer, poggiando la testa sul freddo tavolo di quercia. «Bene». Spencer continuò a tenere la testa saldamente poggiata sul tavolo, effettuando dei respiri di fuoco yoga in attesa che qualcuno tornasse e le dicesse che tutto si sarebbe risolto. Ma non tornò nessuno. Fuori, sentì la sirena di un'ambulanza risuonare in lontananza; era come se si stesse avvicinando. Si alzò di scatto.Oddio.E se Melissa avesse cercato di. di farsi del male? Non l'avrebbe mai fatto, vero? Le sirene urlavano, sempre più vicine. Spencer spinse indietro la sedia. Merda.Che cosa aveva fatto? «Melissa», urlò, correndo su per le scale. «Sei una puttana!», urlò una voce. «Una fottuta puttana!». Spencer si accasciò sulla ringhiera. Ok. Sembrava che Melissa stesse bene, dopo tutto. 30 IL CIRCO È DI NUOVO IN CITTÀ Emily pedalò via a gran velocità da casa di Aria, schivando per un pelo un podista sul lato della strada. «E stai attenta!», le urlò. Mentre superava un vicino che portava a spasso due enormi alani, prese una decisione. Sarebbe andata da Maya. Era l'unica soluzione. Forse Maya l'aveva solo intesa come una cosa carina, restituendole la lettera dopo che lei le aveva parlato di Alison la sera prima. Forse Maya avrebbe voluto parlarle della lettera, ma, per una qualche ragione, non l'aveva fatto. Forse la A era davvero una M? E poi, lei e Maya avevano un sacco di altre cose di cui parlare, a parte la lettera. Bastava pensare a tutto ciò che era successo alla festa. Emily chiuse gli occhi, cercando di ricordare. Riusciva quasi a sentire la gomma alla banana di Maya e i contorni soffici della sua bocca. Riaprendo gli occhi, sbandò in curva. Ok, era assolutamente necessario risolvere tutto. Ma che cosa le avrebbe detto? Mi è piaciuto davvero. No, naturalmente non avrebbe mai detto nulla di simile. Avrebbe detto:Dovremmo semplicemente restare amiche.Dopo tutto, sarebbe ritornata da Ben, sempre che lui l'avesse accettata. Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo, alla Emily felice della sua vita, e di cui i suoi genitori erano fieri. La Emily che si preoccupava soltanto di nuotare bene a farfalla e di fare i compiti di algebra. Superò Myer Park, dove lei e Alison si dondolavano in altalena per ore, cercando di darsi la spinta all'unisono e, quando infine ci riuscivano, Ali gridava sempre: «Siamo marito e moglie!». Poi gridavano e saltavano giù nello stesso momento. E se non fosse stata Maya a metterle quella lettera sulla bicicletta? Quando aveva chiesto ad Aria se Ali le avesse raccontato il suo segreto, Aria le aveva risposto: «Cosa, di recente?». Perché Aria avrebbe dovuto dire una cosa simile? A meno che. a meno che Aria non sapesse qualcosa. A meno che Ali non fosse tornata. Emily slittò sulla ghiaia. No, era assurdo. Sua madre continuava ancora a scambiarsi cartoline con la signora DiLaurentis; avrebbe saputo se Ali era tornata. Quando era scomparsa, la notizia veniva trasmessa ventiquattr'ore su ventiquattro. In quei giorni, i suoi genitori tenevano accesa la CNN a colazione; sarebbe sicuramente stata una notizia clamorosa. Eppure, era un'ipotesi eccitante da prendere in considerazione. Ogni notte per quasi un anno dalla scomparsa di Ali, Emily aveva chiesto alla sua Magic 8 Ball se Alison sarebbe tornata. Sebbene talvolta 8 Ball se Alison sarebbe tornata. Sebbene talvolta dicesseAspetta e vedrai, mai aveva rispostoNo. Faceva anche delle scommesse con se stessa:se sul pulmino della scuola oggi salgono due ragazzi con la maglietta rossa,bisbigliava fra sé e sé,allora Ali sta bene. Se oggi ci danno pizza per pranzo, allora Ali non è morta. Se l'allenatrice ci fa provare partenze e virate, allora Ali tornerà.Nove volte su dieci, secondo le piccole superstizioni di Emily, Ali stava per tornare da loro. Forse tutto sommato aveva avuto ragione. Spinse forte in salita e superò una curva stretta, sfiorando per poco una lapide in memoria di una battaglia della guerra di indipendenza. Se Ali fosse tornata, che cosa avrebbe significato per la sua amicizia con Maya? Dubitava che avrebbero potuto essere migliori amiche. due migliori amiche tanto simili fra loro. Si chiese se Ali avrebbe mai pensato a Maya. E se si fossero odiate? Mi è piaciuto davvero. Dovremmo semplicemente restare amiche. Superò fattorie splendide, vecchie locande di pietra e i pick- up di giardinieri parcheggiati ai lati della strada. Faceva sempre lo stesso percorso per raggiungere la casa di Ali; l'ultima volta, in effetti, era stata prima che si baciassero. Emily non aveva deciso di baciare Alison prima di arrivare; qualcosa l'aveva pervasa sul momento. Non avrebbe mai dimenticato quanto fossero morbide le labbra di Ali, né il suo sguardo sbalordito quando si era allontanata. «Perché l'hai fatto?», le aveva chiesto Ali. Improvvisamente, una sirena suonò dietro di lei. Emily ebbe a malapena il tempo di spostarsi sul ciglio della strada di nuovo prima che un'ambulanza la superasse, sollevando una folata di vento che le soffiò polvere sul viso. Si strofinò gli occhi e restò ferma a guardare mentre l'ambulanza raggiungeva la cima della collina e si fermava sulla strada di Alison. Adesso stava girando nel vialetto di Alison. Emily rimase impietrita dalla paura. Il vialetto di Ali era. quello di Maya. Afferrò stretto il manubrio della bicicletta. Con tutto quello che era successo, aveva dimenticato il segreto che Maya le aveva confidato la sera prima. I tagli. L'ospedale. Quell'enorme cicatrice. «È qualcosa di cui semplicemente sento il bisogno», le aveva detto Maya. «Oh mio dio», disse Emily a bassa voce. Pedalò furiosamente e curvò all'angolo.Se le sirene dell'ambulanza si fermano prima che giri l'angolo,pensò,allora Maya sta bene. Poi però l'ambulanza si fermò davanti alla casa di Maya, con le sirene accese. C'erano auto della polizia ovunque. «No», bisbigliò Emily. Alcuni medici scesero dall'ambulanza e si diressero verso la casa. Una folta schiera di persone aveva invaso il cortile di Maya, alcune avevano delle telecamere. Emily lanciò la bici sul cordolo del marciapiede e corse verso la casa. «Emily!». Maya si fece strada tra la folla. Emily rimase senza fiato, poi corse tra le braccia di Maya, con la faccia solcata dalle lacrime. «Allora stai bene», singhiozzò Emily, «Avevo paura che.». «Sto bene», disse Maya. Eppure c'era qualcosa nella sua voce che sembrava dire l'esatto contrario. Emily si tirò indietro; Maya aveva gli occhi rossi e umidi, la bocca nervosamente contratta verso il basso. «Che c'è?», chiese Emily, «Che cosa succede?». Maya deglutì. «Hanno trovato la tua amica». «Che cosa?». Emily rimase ferma a fissarla, poi si voltò verso il cortile. Era tutto così misteriosamente familiare: l'ambulanza, le auto della polizia, la folla, le telecamere. Un elicottero della televisione girava sulle loro teste. Era esattamente la stessa scena di tre anni prima, quando Ali era scomparsa. Emily si liberò dalle braccia di Maya, con un ghigno di incredulità. Allora aveva ragione! Alison era di nuovo a casa sua, come se nulla fosse successo. «Lo sapevo!», sussurrò. Maya le prese la mano. «Stavano scavando per realizzare il campo da tennis; mia madre era lì, lei. l'ha vista. L'ho sentita urlare dalla mia camera». Emily si liberò la mano. «Aspetta un attimo, che cosa?» «Ho provato a chiamarti», aggiunse Maya. Emily aggrottò le sopracciglia e si voltò di nuovo verso di lei, poi guardò la squadra di venti poliziotti. La signora St. Germain singhiozzava vicino all'altalena. La scritta "Polizia - Vietato l'accesso" sui nastri attorno al cortile sul retro. E poi il furgone parcheggiato nel vialetto, con su scritto "Obitorio di Rosewood". Lo dovette leggere sei volte per capire. Il cuore iniziò a correrle all'impazzata, e all'improvviso si sentì soffocare. «Io. io non capisco», farfugliò, mentre faceva un altro passo indietro. «Chi è che hanno trovato?». Maya le rivolse uno sguardo compassionevole, con gli occhi lucidi. «La tua amica Alison», sussurrò, «hanno appena ritrovato il suo corpo». 31 L'INFERNO SONO GLI ALTRI Byron Montgomery bevve un bel sorso di caffè e si accese la pipa con mano malferma. «L'hanno trovata mentre scavavano nel vecchio cortile sul retro dei DiLaurentis per costruire un campo da tennis». «Era sotto il cemento», aggiunse Ella. «Hanno capito che era lei dall'anello che aveva indosso, ma stanno effettuando il test del DNA per esserne certi». Aria si sentiva come se un pugno le colpisse continuamente lo stomaco. Si ricordava dell'anello d'oro bianco con le sue iniziali: i suoi genitori gliel'avevano comprato da Tiffany quando si era dovuta togliere le tonsille a dieci anni. A Ali piaceva indossarlo sul mignolo. «Perché devono fare il test del DNA?», chiese Mike. «Era decomposta?» «Michelangelo!». Byron gli lanciò un'occhiata di traverso. «Non è una cosa molto carina da dire davanti a tua sorella». Mike alzò le spalle e s'infilò in bocca un pezzo di gomma da masticare alla mela verde. Aria stava seduta davanti a lui, con il viso solcato dalle lacrime, sfilacciando distrattamente l'orlo di una tovaglietta di rattan. Erano le 2 del pomeriggio ed erano tutti seduti a tavola. «Nessun problema». Aria sentì la gola chiudersi. «Era davverodecomposta?». I suoi genitori si guardarono l'un l'altro. «Be', sì», rispose suo padre, grattandosi il petto attraverso un piccolo foro sulla camicia, «i cadaveri si decompongono abbastanza rapidamente». «Che schifo», bisbigliò Mike. Aria chiuse gli occhi. Alison era morta. Il suo corpo si era decomposto. E probabilmente qualcuno l'aveva uccisa. «Tesoro?», chiese piano Ella, avvolgendo le mani di Aria con le sue. «Tesoro, stai bene?» «Non lo so», mormorò Aria, cercando di non ricominciare di nuovo a piangere a dirotto. «Vuoi uno Xanax?», chiese Byron. Aria si piluccava nervosamente il lato del pollice. Avvertiva prima delle vampate di calore e poi dei brividi di freddo. Non sapeva che cosa fare, né che cosa pensare. La sola persona che avrebbe potuto farla stare meglio era Ezra; pensava che avrebbe potuto spiegargli tutte le sensazioni che stava provando. Almeno, avrebbe potuto lasciarla raggomitolarsi sul suo futon di jeans a piangere. Tirò indietro la sedia e si diresse verso la sua camera. Byron ed Ella si scambiarono un'occhiata e la seguirono verso la scala a chiocciola. «Tesoro?», chiamò Ella. «Possiamo fare qualcosa?». Aria li ignorò e si chiuse la porta della camera alle spalle. La sua stanza era un disastro: non la puliva da quando erano tornati dall'Islanda, e non era certo la ragazza più precisa del mondo. Il pavimento era sommerso di vestiti, sparsi in pile scomposte. Sul letto c'erano CD, paillette che stava usando per fare un cappello decorato di perline, colori, carte da gioco, Pigtunia, schizzi del profilo di Ezra, diverse matasse di filo. Sul tappeto c'era una grossa macchia di cera rossa. Cercò il cellulare tra le coperte e sulla scrivania per chiamare Ezra, ma non lo trovò. Guardò nella borsa verde che aveva portato alla festa la sera prima, ma non era neanche lì. Poi le venne in mente. Dopo avere ricevuto quel messaggio, lo aveva scaraventato come se fosse velenoso. Doveva averlo lasciato lì. Corse giù dalle scale; i suoi genitori erano ancora sul pianerottolo. «Prendo la macchina», borbottò, afferrando le chiavi dal gancio vicino al tavolino dell'ingresso. «Ok», disse suo padre. «Fai con comodo», aggiunse sua madre. Qualcuno aveva bloccato il portone d'ingresso della casa di Ezra con una grossa scultura di metallo a forma di terrier. Aria la aggirò ed entrò nell'atrio, bussando alla porta. Avvertì la stessa sensazione che provava quando doveva fare pipì con la cistite; è una tortura, ma si sa benissimo che, ben presto, ci si sentirà molto meglio. Ezra corse ad aprire la porta ma, non appena la vide, cercò di richiuderla. «Aspetta», strillò Aria, con la voce ancora rotta dalle lacrime. Ezra si ritirò in cucina, dandole la schiena. Lei lo seguì. Ezra si voltò per guardarla; non si era rasato, e aveva un'aria esausta. «Che cosa ci fai qui?». Aria si morse il labbro. «Dovevo vederti, ho delle novità.». Il suo cellulare squillò sulla credenza. Lo prese. «Grazie. L'hai trovato». Ezra guardò il cellulare. «Ok, te lo sei ripreso. Adesso ti dispiacerebbe andartene?» «Ma che cosa succede?». Si avvicinò a lui. «Ho delle novità. Dovevo veder.». «Già, anch'io ho delle novità», la interruppe Ezra, avvicinandosi. «Sul serio, Aria. Non riesco neanche. neanche a guardarti». Aria sentì le lacrime inondarle gli occhi.«Che cosa?».Lo fissò, confusa. Ezra abbassò lo sguardo. «Ho trovato quello che hai detto di me sul cellulare». Aria corrugò la fronte. «Sul mio cellulare?» Ezra alzò la testa; aveva gli occhi gonfi di rabbia. «Pensi davvero che sia stupido? Che fosse tutto un gioco, forse? Unascommessa'?»«Ma che cosa.». Ezra sospirò di rabbia. «Be', allora sai che cosa? Mi hai fregato. Ok? Ci sono cascato con tutte le scarpe nel tuo scherzetto. Sei felice? E adesso vattene». «Non capisco», disse Aria ad alta voce. Ezra sbatté le mani contro il muro, tanto forte da farla sussultare. «Non fare la finta tonta! Non sono un ragazzino, Aria!». Aria sentì un tremito percorrerle tutto il corpo. «Lo giuro su Dio, non capisco di che cosa tu stia parlando. Potresti spiegarmelo, per favore? Sto perdendo la testa!». Ezra allontanò le mani dal muro e iniziò a camminare per la piccola stanza. «D'accordo. Dopo che te ne sei andata, ho cercato di dormire, ma c'era questo. questo bip continuo. E sai che cos'era?» Indicò il cellulare. «Il tuo telefono. E l'unico modo per farlo smettere era aprire i tuoi messaggi». Aria si strofinò gli occhi. Ezra incrociò le braccia sul petto. «Vuoi che te li ripeta?». A quel punto, Aria capì. I messaggi. «Aspetta un attimo, no! Non capisci!». Ezra ebbe un fremito. «"Incontro insegnantealunna? Credito extra"? Ti suona familiare?» «No, Ezra», balbettò Aria, «non capisci». Il mondo aveva iniziato a girare vorticosamente. Aria si aggrappò al bordo della tavola di Ezra. «Sto aspettando», ribatté lui. «Questa mia amica è stata uccisa», iniziò lei. «Hanno appena ritrovato il suo cadavere». Poi aprì la bocca per aggiungere qualcos'altro, ma non riuscì a trovare le parole. Ezra stava in piedi di fronte a lei, nel punto più distante della stanza, dietro la vasca. «È tutto talmente assurdo», proseguì Aria. «Potresti per favore avvicinarti? Potresti almeno abbracciarmi?». Ezra incrociò le braccia sul petto e abbassò lo sguardo, rimanendo in quella posizione per un tempo che parve interminabile. «Mi piacevidavvero»,disse infine, con voce roca. Aria soffocò un singhiozzo. «Anche a me piaci davvero.». Si mosse verso di lui. Ma Ezra si allontanò. «No. Te ne devi andare». «Ma.». Ezra le mise una mano sulla bocca. «Per favore», disse, con un tono velato dalla disperazione. «Vattene, ti prego». Aria sgranò gli occhi e sentì il cuore iniziarle a battere all'impazzata. Un allarme le scattò nella testa. Era una sensazione.orribile.In preda a un impulso, morse la mano di Ezra. «Ma chediavolo?»,gridò lui, allontanandosi. Aria fece un passo indietro. Il sangue cominciò a colare dalla mano di Ezra sul pavimento. «Sei completamente pazza!», strillò Ezra. Aria respirava pesantemente. Non riuscì a parlare, sebbene volesse. A quel punto, si girò e corse verso la porta. Non appena ebbe girato la maniglia, sentì qualcosa sibilarle accanto, rimbalzare sul muro e caderle ai piedi. Era una copia detessere e il nulladi Jean-Paul Sartre. Aria si voltò verso Ezra, con la bocca aperta per lo shock. «Vaivia!»,rombò Ezra. Aria sbatté la porta dietro di sé. Si precipitò giù per il cortile, più veloce che poté. 32 UNA STELLA CADENTE Il giorno dopo, Spencer stava affacciata alla finestra della sua vecchia stanza, intenta a fumarsi una Marlboro e a guardare dall'altra parte del giardino, nella vecchia finestra di Ali. Era buia e vuota. Poi, lo sguardo le si posò sul cortile dei DiLaurentis: le sirene non avevano smesso di lampeggiare da quando l'avevano trovata. La polizia aveva circondato l'area del vecchio cortile di Alison con un nastro con su scritto "Polizia Vietato l'accesso", sebbene il corpo fosse già stato rimosso. Durante quell'operazione, avevano piantato delle ampie tende tutt'intorno, per cui Spencer non era riuscita a vedere nulla. Non che avesse voluto. Era atroce pensare che il corpo di Ali era rimasto lì, vicino a lei, a marcire nel terreno per tre anni. Spencer si ricordò dei lavori di costruzione prima della scomparsa di Ali: avevano scavato quella fossa proprio attorno alla notte in cui era scomparsa. Sapeva anche che la fossa era stata riempita dopo la sua scomparsa, ma non si ricordava esattamente quando. Qualcuno ce l'aveva semplicemente scaricata. Spense la Marlboro sul rivestimento esterno in mattoni di casa sua e ricominciò a leggere la rivista «Lucky». Dopo il confronto del giorno prima, aveva a malapena scambiato qualche parola con la propria famiglia, e per calmarsi si era quindi buttata a capofitto nella ricerca metodica di tutto ciò che avrebbe voluto comprare, segnandolo con i piccoli adesivi con su scritto "sì" in dotazione con la rivista. Non appena aprì una pagina sui blazer di tweed, però, le si appannarono gli occhi. Di tutto ciò che era successo, non poteva neanche parlarne con i suoi genitori. Il giorno prima, dopo il confronto a colazione, Spencer era uscita fuori per capire il perché di tutte quelle sirene - le ambulanze la rendevano sempre nervosa, sia dopo l'Affare Jenna che a seguito della scomparsa di Ali. Appena attraversato il giardino diretta verso la casa dei DiLaurentis, aveva avvertito qualcosa e si era voltata. I suoi genitori erano usciti anche loro per vedere che cosa stesse succedendo. Non appena l'avevano vista voltarsi, avevano prontamente distolto lo sguardo. La polizia le aveva detto di stare indietro, che l'ingresso in quell'area era vietato. Poi aveva visto il furgone dell'obitorio. Il walkie-talkie di un poliziotto aveva crepitato "Alison". All'improvviso, si era sentita gelare. Il mondo aveva iniziato a girare vorticosamente, e Spencer si era accasciata sull'erba. Qualcuno le aveva detto qualcosa, ma non era riuscita a capirlo. «Sei sotto shock», aveva sentito infine, «cerca soltanto di calmarti». Il suo campo visivo si era talmente ristretto che non era sicura di chi si trattasse, ma solo che non si trattava né di suo padre, né di sua madre. Il ragazzo era tornato con una coperta, dicendole di restare seduta per un po' e di tenersi al caldo. Non appena si era sentita abbastanza bene da alzarsi, chiunque l'avesse aiutata era scomparso. Anche i suoi genitori se n'erano andati. Non si erano neanche presi il disturbo di assicurarsi che stesse bene. Il resto del sabato e gran parte della domenica li aveva trascorsi in camera sua, uscendo soltanto per andare in bagno quando era sicura che non ci fosse nessuno in giro. Aveva sperato che qualcuno salisse per chiederle come stava, ma quando, nel primo pomeriggio, aveva sentito un timido tentativo di bussare alla sua porta, non aveva risposto. Non sapeva bene perché. Chiunque fosse stato, si era mosso singhiozzando con passo felpato per tornare al piano di sotto. Poi, soltanto mezz'ora prima, aveva visto la Jaguar di suo padre uscire dal vialetto e svoltare sulla strada principale. Sua madre era seduta dal lato passeggero, mentre Melissa era sul sedile posteriore. Non aveva nessuna idea di dove stessero andando. Si abbandonò sulla sedia davanti al computer e aprì la prima e-mail ricevuta da A, quella che parlava del bramare ciò che non aveva. Dopo averla riletta alcune volte, cliccò su "Rispondi". Lentamente, digitò: "Sei Alison?". Esitò, prima di premere "Invia". Tutte quelle luci della polizia la stavano forse confondendo? Le ragazze morte non avevano un account hotmail, né un nickname per le chat. Spencer doveva riprendere il controllo della situazione. Qualcuno stava fingendo di essere Ali, ma chi? Rimase a fissare un mobile di Mondrian che aveva comprato l'anno prima al Museo d'Arte di Philadelphia. Poi sentì unplink.Eccolo di nuovo. Plink. Sembrava molto vicino, alla finestra. Spencer si alzò proprio nel momento in cui un sassolino colpì la sua finestra di nuovo. Qualcuno stava tirando delle pietre. A? Non appena un altro sasso colpì il vetro, si avvicinò alla finestra ed ebbe un sussulto. In giardino c'era Wren. Le luci blu e rosse delle auto della polizia creavano ombre screziate sulle sue guance. Non appena lo vide, si lasciò sfuggire un enorme sorriso. Si precipitò immediatamente al piano di sotto, senza preoccuparsi dell'aspetto orribile dei suoi capelli e del fatto che aveva indosso dei pantaloni da pigiama Kate Spade macchiati di sugo. Non appena uscì dalla Spade macchiati di sugo. Non appena uscì dalla porta, Wren le corse incontro abbracciandola e baciandole i capelli trasandati. «Non dovresti essere qui», gli mormorò. «Lo so». Wren fece un passo indietro. «Ma ho visto che la macchina dei tuoi non c'era, per cui.». Spencer gli passò la mano tra i capelli morbidi. Wren aveva l'aria esausta. Aveva forse dovuto dormire nella sua piccola Toyota, la sera prima? «Come facevi a sapere che sarei tornata nella mia vecchia stanza?». Wren alzò le spalle. «Un'intuizione. Ho creduto anche di aver visto la tua faccia alla finestra. Avrei voluto venire prima, ma c'era. tutto questo». Indicò le auto della polizia e i furgoni dei giornalisti davanti alla casa accanto. «Stai bene?» «Sì», rispose Spencer, chinando la testa verso la bocca di Wren e mordendosi il labbro screpolato per impedirsi di piangere. «E tu, stai bene?» «Io? Certo». «Hai un posto in cui stare?» «Posso dormire sul divano di un amico finché non trovo una sistemazione. Niente di speciale». Se soltanto anche Spencer avesse potuto dormire sul divano di un'amica. Poi le venne in mente una cosa. «Tu e Melissa avete chiuso?». Wren si mise le mani sulla faccia e sospirò. «Naturalmente», disse piano. «Era ovvio, ormai. Con Melissa non era come.». Si fermò, ma Spencer pensò di capire che cosa stesse per dire.Non era come stare con te.Wren fece un sorriso tremante e le avvicinò la testa al suo petto; Spencer riusciva a sentire il suo cuore batterle nell'orecchio. Poi si voltò verso la casa dei DiLaurentis. Qualcuno aveva improvvisato un piccolo altarino per Alison sul marciapiede, con tanto di foto e candele votive della Santa Vergine. Al centro, era stato scritto il nome "Ali". Anche Spencer aveva poggiato una foto di Alison sorridente con indosso una maglietta blu attillata Von Dutch e un paio di Seven nuove di zecca. Si ricordava quando era stata fatta: erano in prima media, la sera del ballo invernale della Rosewood. Tutte e cinque si erano messe a spiare Melissa quando Ian era venuto a prenderla. Spencer aveva riso fino a farsi venire il singhiozzo quando Melissa, nel tentativo di fare un ingresso trionfale, era inciampata e caduta sulla scalinata d'ingresso degli Hastings, prima di raggiungere la vistosa limousine Hummer presa a noleggio. Quello era probabilmente l'ultimo ricordo davvero divertente e spensierato che conservava di loro. L'Affare Jenna era accaduto poco tempo dopo. Spencer gettò un'occhiata alla casa di Toby e Jenna: come sempre, non c'era nessuno, ma tremava comunque alla sola vista. Mentre si asciugava gli occhi con il dorso pallido della mano, uno dei furgoni dei giornalisti le passò davanti lentamente, e un ragazzo con in testa un cappellino rosso del Philadelphia la fissò. Lei abbassò la testa. Non era il momento giusto per riprendere una ragazza in preda a un esaurimento causato dalla tragedia. «Faresti meglio ad andare». Singhiozzò e si voltò di nuovo verso Wren. «Qui c'è troppa confusione. E non so quando torneranno i miei». «D'accordo». Wren le tirò su la testa. «Possiamo rivederci?». Spencer deglutì, cercando di sorridere. In quel momento, Wren si chinò per baciarla, posandole una mano dietro al collo e l'altra proprio sul punto in fondo alla schiena che soltanto il venerdì prima le faceva un male del diavolo. Spencer si staccò. «Non ho neanche il tuo numero». «Non ti preoccupare», bisbigliò Wren, «ti chiamerò io». Spencer rimase un attimo in piedi al confine del vasto giardino, osservando Wren dirigersi verso la macchina. Non appena se ne fu andato, gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. Se soltanto avesse avuto qualcuno con cui parlare, qualcuno che non fosse stato bandito da casa sua. Si girò nuovamente verso l'altare di Ali, chiedendosi come stessero affrontando quella situazione le sue vecchie amiche. Non appena Wren ebbe raggiunto la fine della strada, Spencer vide i fari di un'altra auto arrivare, lasciandola di sasso. Erano forse i suoi? Avevano visto Wren? I fari si avvicinarono lentamente. All'improvviso, Spencer capì di chi si trattava. Il cielo era di un viola scuro, ma riuscì a scorgere i capelli lunghi di Andrew Campbell. Sussultò, nascondendosi tra i cespugli di rose di sua madre. Andrew avvicinò lentamente la sua Mini alla cassetta delle lettere, la aprì, vi lasciò scivolare qualcosa e la chiuse accuratamente, poi si allontanò. Spencer aspettò che se ne fosse andato prima di schizzare sul marciapiede e aprire di scatto la cassetta delle lettere. Andrew le aveva lasciato un pezzo di carta piegato. Ciao Spencer. Non sapevo se potevi ricevere telefonate. Mi dispiace davvero per Alison. Spero che la mia coperta ti sia stata d'aiuto, ieri. Andrew Spencer tornò sul vialetto di casa, leggendo e rileggendo il biglietto. Osservò quella scrittura maschile obliqua.Coperta? Quale coperta? Poi capì. Era stato Andrew ad aiutarla? Appallottolò il biglietto tra le mani e iniziò a singhiozzare di nuovo. 33 I MIGLIORI DI ROSEWOOD Gli inquirenti hanno riaperto il caso DiLaurentis e stanno ascoltando i testimoni», riferiva un conduttore al notiziario delle undici. «La famiglia DiLaurentis, che attualmente risiede nel Maryland, dovrà ora affrontare ciò che da tempo avrebbe desiderato buttarsi alle spalle. Adesso, però, siamo giunti alla conclusione». I conduttori dei notiziari sono delle tali regine del dramma, pensò Hanna con rabbia, infilandosi un'altra manciata di mini cracker in bocca. Soltanto i notiziari erano capaci di rendere ancora più terribili storie già atroci. La telecamera era fissa sull'altarino di Ali - lo chiamavano così - sulle candele, i pupazzetti, i fiori appassiti che sicuramente la gente aveva colto dai giardini dei vicini, gli animaletti di marshmallow, i dolcetti preferiti di Ali, e, naturalmente, le foto. La telecamera staccò poi sulla madre di Alison, che Hanna non vedeva da tempo. Dietro la maschera di lacrime, la signora DiLaurentis conservava un bell'aspetto, con un taglio spettinato e grandi orecchini. «Abbiamo deciso di tenere una messa per Ali qui a Rosewood, l'unica casa che abbia mai conosciuto», disse la signora DiLaurentis con tono controllato. «Desideriamo ringraziare tutti coloro che ci hanno aiutato a cercare nostra figlia tre anni fa per il loro sostegno costante». Sullo schermo riapparve poi il conduttore. «Domani all'abbazia di Rosewood si terrà una commemorazione pubblica». Hanna spense la televisione. Era domenica notte, e se ne stava seduta sul divano del soggiorno con indosso la maglietta C&C più logora che avesse e un paio di boxer Calvin Klein che aveva fregato dal cassetto di Sean. Aveva i capelli spettinati e secchi; era anche abbastanza sicura di avere un brufolo sulla fronte. In grembo, teneva un'enorme ciotola di mini cracker, mentre sul tavolino era appallottolato un cartone di dolcetti e di lato, sul divano, era comodamente incastrata una bottiglia di pinot nero. Aveva lottato tutta la notte per cercare di non mangiare in quel modo, ma la sua forza di volontà non era proprio così determinata quel giorno. Riaccese la televisione, desiderando di avere qualcuno con cui parlare. della polizia, di A, e soprattutto di Alison. Sean era da escludersi, per ovvie ragioni. Sua madre, che proprio in quel momento era fuori per un appuntamento, sarebbe stata inutile, come sempre. Dopo il parapiglia del giorno prima alla centrale di polizia, Wilden aveva detto a Hanna e a sua madre di tornare a casa; ne avrebbero discusso sua madre di tornare a casa; ne avrebbero discusso più avanti, dato che la polizia aveva cose più importanti di cui occuparsi in quel momento. Né Hanna né sua madre sapevano che cosa stesse accadendo in centrale, ma solo che si trattava di un omicidio. Tornando a casa in macchina, la signora Marin, invece di rimproverare Hanna per, oh cielo,avere rubato una macchina e guidato ubriaca,le aveva detto che se ne sarebbe "occupata" lei. Hanna non aveva idea di che cosa significasse. L'anno prima, un poliziotto aveva tenuto un discorso all'assemblea della Rosewood Day su come in Pennsylvania si applicasse "tolleranza zero" verso i conducenti ubriachi al di sotto dei ventun'anni. All'epoca, Hanna era rimasta ad ascoltare soltanto perché pensava che il poliziotto fosse carino, ma adesso le sue parole la perseguitavano. Hanna non poteva contare neanche su Mona: era sempre a quel torneo di golf in Florida. Si erano sentite velocemente per telefono, e Mona aveva ammesso di essere stata chiamata dalla polizia per la macchina di Sean, ma di avere fatto finta di non saperne nulla, dicendo di essere stata alla festa per tutto il tempo, e che anche Hanna era stata con lei. Troietta fortunata: le telecamere della sorveglianza di Wawa avevano ripreso la sua nuca, ma non la sua faccia, dato che aveva indosso quel cappellino disgustoso. Era successo il giorno prima, comunque, dopo che Hanna era tornata dalla centrale. Lei e Mona non si erano più riparlate, né avevano discusso di Alison. E poi. c'era A. Oppure, se A stava per Alison, A sarebbe scomparsa adesso? La polizia, però, aveva detto che Alison era morta da anni. Mentre Hanna consultava la guida TV per sapere che cosa ci fosse, con gli occhi gonfi di lacrime pensò di chiamare suo padre; in fondo, quella faccenda doveva essere arrivata anche ad Annapolis. O forse l'avrebbe chiamata lui? Afferrò il telefono silenzioso per assicurarsi che funzionasse ancora. Singhiozzò. Il problema dell'essere la migliore amica di Mona era che non aveva altre amiche. A forza di guardare tutti quei notiziari su Ali, la mente le tornò al suo vecchio gruppo di amiche. Certo, avevano trascorso momenti difficili, a tratti orribili, ma si erano anche divertite molto. In un universo parallelo, sarebbero rimaste insieme, a ricordare Ali e a ridere e piangere contemporaneamente. In questa dimensione, però, erano cresciute troppo lontane. Si erano allontanate per diverse ragioni, naturalmente - i rapporti avevano iniziato a incrinarsi ben prima della scomparsa di Ali. All'inizio, all'epoca della pesca di beneficenza, erano meravigliosi. Poi però, dopo l'Affare Jenna, si erano fatti tesi. Erano tutte terrorizzate che quanto era accaduto a Jenna potesse essere ricondotto a loro. Hanna s'innervosiva persino quando, sull'autobus, vedeva passare un'auto della polizia, diretta nella direzione opposta. Poi, l'inverno e la primavera successivi, quegli argomenti diventarono tabù. C'era sempre qualcuno che diceva: «Sssh!», e cadevano tutte in un silenzio imbarazzante. Il notiziario delle undici finì e iniziarono iSimpson. Hanna afferrò il suo BlackBerry. Sapeva ancora a memoria il numero di Spencer, e forse non era troppo tardi per chiamare. Mentre digitava il secondo numero, drizzò le orecchie, facendo tintinnare gli orecchini di Tiffany. Qualcosa stava graffiando alla porta. Dot, disteso ai suoi piedi, alzò la testa e ringhiò. Hanna si tolse la ciotola di cracker dal grembo e si alzò in piedi. Era forse. A? Con le ginocchia tremanti, Hanna si mosse furtivamente nel corridoio. Alla porta sul retro si scorgevano lunghe ombre scure e quel rumore stridente si faceva più forte. «Oh mio dio», bisbigliò Hanna, con il mento tremante.Qualcuno stava cercando di entrare!Hanna si guardò attorno. Sul tavolino del corridoio era poggiato un fermacarte rotondo di giada. Lo sollevò e fece tre passi incerti verso la porta della cucina. Improvvisamente, la porta si aprì. Hanna fece un salto all'indietro. Una donna inciampò sulla soglia. La sua raffinata gonna a pieghe grigia era alzata sulla vita. Hanna alzò il fermacarte, pronta a lanciarlo. Poi capì. Era sua madre. La signora Marin andò a sbattere contro il tavolino del telefono, come fosse ubriaca fradicia. Dietro di lei comparve un ragazzo, che cercava di abbassarle la zip della gonna e contemporaneamente di baciarla. Hanna sgranò gli occhi. Allora era Era Darren Wilden, Mister Aprile. questoche sua madre intendeva con "occuparsene"? Hanna sentì lo stomaco stringersi. Doveva sicuramente sembrare pazza, con quel fermacarte ancora stretto tra le mani. La signora Marin le rivolse uno sguardo lunghissimo, senza neanche preoccuparsi di allontanarsi da Wilden. I suoi occhi sembravano dire: "Lo sto facendo per te". 34 CHE STRANO INCONTRARSI QUI Il lunedì mattina, invece di trovarsi nell'aula di biologia del primo anno, Emily se ne stava in piedi accanto ai suoi genitori nella navata centrale dell'abbazia di Rosewood, con i suoi alti soffitti e il pavimento lastricato di marmo. A disagio, si tirò la gonna nera a pieghe Gap, troppo corta, che aveva ripescato in fondo all'armadio, e cercò di sorridere. La signora DiLaurentis stava in piedi all'entrata; indossava un abito nero con un collo molto ampio, scarpe con tacchi alti e minuscole perle d'acqua dolce. Si diresse verso Emily, avvolgendola in un abbraccio. «Oh, Emily», singhiozzò. «Mi dispiace così tanto», le sussurrò Emily, con gli occhi velati di lacrime. La signora DiLaurentis portava sempre lo stesso profumo, Coco di Chanel, che le riportò alla memoria tanti diversi ricordi: un milione di viaggi da e verso il centro commerciale sulla sua Infinity, le incursioni di soppiatto nel suo bagno per rubare compresse Trim Spa e provarsi i costosi trucchi de La Prairie, o nel suo guardaroba per indossare tutti i suoi sexy abiti da cocktail taglia 40. Altri ragazzi della Rosewood passarono accanto a loro per prendere posto sulle panche di legno dagli alti schienali. Emily non sapeva cosa aspettarsi dalla cerimonia di commemorazione in onore di Alison. L'abbazia odorava di legno e incenso. Dal soffitto pendevano delle semplici lampade a forma di cilindro, mentre l'altare era completamente ricoperto di tulipani bianchi, i fiori preferiti di Alison. Emily si ricordò che ogni anno Ali aiutava sua madre a piantarne intere file nel giardino di casa. La madre di Alison si staccò e si asciugò gli occhi. «Voglio che tu ti sieda davanti, con tutte le amiche di Ali. Sei d'accordo, Kathleen?». La madre di Emily annuì. «Naturalmente». Emily ascoltò ogni singolo ticchettio dei tacchi della signora DiLaurentis, così diverso dallo strascicare dei suoi pesanti mocassini, mentre camminava tra le panche. All'improvviso, si ricordò nuovamente perché si trovava lì. Ali eramorta. Afferrò il braccio della signora DiLaurentis. «Oh mio dio». Il campo visivo iniziò a restringersi e avvertì una sorta di rombo nelle orecchie, segno che stava per svenire. La signora DiLaurentis la sorresse. «Va tutto bene. Vieni, siediti qui». In preda alle vertigini, Emily si lasciò scivolare sulla panca. «Mettiti la testa tra le gambe», si sentì dire da una voce familiare. Poi un'altra voce familiare sbuffò. «Dillo più forte, in modo chetuttii ragazzi ti possano sentire». Emily alzò lo sguardo. Vicino a lei c'erano Aria e Hanna. Aria indossava un abito di cotone con scollo a barca a strisce blu, viola e fucsia, una giacca di velluto blu scuro e stivali da cowboy. Faceva tanto Aria (era il tipo che pensava che indossare capi colorati ai funerali servisse a onorare i vivi). Hanna, invece, portava un semplice abito nero con scollo a V e calze nere. «Tesoro, potresti stringerti?». La signora DiLaurentis stava in piedi accanto a Spencer, che indossava un completo nerofumo e un paio di ballerine. «Ehi, ragazze», disse Spencer rivolta a tutte, con quel tono di voce burroso che Emily aveva dimenticato. Si sedette accanto a lei. «Allora, ci incontriamo di nuovo», disse Aria, sorridendo. Silenzio. Emily gettò uno sguardo furtivo a tutte con la coda dell'occhio. Aria stava giocherellando con l'anello d'argento che portava al pollice, Hanna stava armeggiando in borsa, mentre Spencer stava seduta immobile, con gli occhi fissi sull'altare. «Povera Ali», bisbigliò Spencer. Le ragazze restarono in silenzio per alcuni minuti. Emily si scervellò per trovare qualcosa da dire. Sentì di nuovo quel rombo nelle orecchie. Si voltò per cercare tra la folla il volto di Maya, ma finì per incrociare lo sguardo di Ben, seduto in penultima fila con gli altri nuotatori. Emily alzò la mano abbozzando un saluto. In confronto a tutto ciò, quello che era successo alla festa sembrava una questione di poca importanza. Invece di ricambiare il saluto, però, Ben la guardò di traverso, con la bocca sottile chiusa in una linea dritta e inflessibile, poi guardò altrove. Ok. Emily si voltò, pervasa dalla rabbia. La mia vecchia migliore amica è stata appena trovata uccisa, avrebbe voluto gridare.E poi, siamo in una chiesa, in nome di Dio! Dov'è finito ilperdono? Quel gesto la ferì nel profondo. Non desiderava più che lui la perdonasse, neanche per sogno. Aria le picchiettò sulla gamba. «Tutto ok dopo sabato mattina? Voglio dire, ancora non lo sapevi neanche, giusto?» «No, si trattava di tutt'altro, ma sto bene», rispose Emily, sebbene non fosse vero. «Spencer». Hanna fece capolino. «Io, be', ti ho visto al centro commerciale di recente». Spencer la guardò. «Eh?» «Sì, stavi. stavi entrando da Kate Spade». Hanna abbassò gli occhi. «Non lo so. Stavo per salutarti, ma, ehm, sono felice che tu non debba più ordinare quelle borse da New York». Abbassò la testa ordinare quelle borse da New York». Abbassò la testa arrossendo, come se avesse parlato troppo. Emily rimase sbigottita: non vedeva Hanna fare quell'espressione da anni. Spencer aggrottò un sopracciglio; poi, uno sguardo tenero le comparve sul volto. Deglutì e abbassò gli occhi. «Grazie», bisbigliò. Le spalle cominciarono a tremarle e chiuse gli occhi, stringendoli forte. Emily sentì la gola stringersi. Non aveva mai visto Spencer piangere. Aria le mise un braccio attorno alle spalle. «Va tutto bene», disse. «Mi dispiace», disse Spencer, asciugandosi gli occhi con la manica. «Io.». Lanciò un'occhiata alle altre e poi ricominciò a piangere più forte. Emily l'abbracciò. Si sentì un po' imbarazzata, ma dal modo in cui Spencer le strinse la mano, capì che aveva apprezzato. Non appena si furono rilassate, Hanna tirò fuori una piccola bottiglia d'argento dalla borsa e la porse a Emily per passarla a Spencer. «Tieni», sussurrò. Senza neanche annusarla né chiedere che cosa contenesse, Spencer ne bevve una sorsata. Fece una smorfia, ma disse comunque «Grazie». La restituì a Hanna, che bevve e la passò a Emily. Emily ne prese un sorso che le bruciò nel petto, poi la passò ad Aria. Prima di bere, Aria tirò la manica di Spencer. «Anche questo ti farà sentire meglio». Si abbassò la spallina del vestito, scoprendo il laccetto di un reggiseno bianco realizzato a maglia. Emily lo riconobbe immediatamente: Aria aveva realizzato dei reggiseni di lana pesante per tutte le ragazze in seconda media. «Me lo sono messo in ricordo dei vecchi tempi», sussurrò. «Ma pizzica da morire». Emily si lasciò sfuggire una risata. «Oh mio dio». «Che idiota», aggiunse Hanna, ridacchiando. «Io non sono mai riuscita a mettermi il mio, ti ricordi?», intervenne Emily. «Mia madre pensava che fosse troppo sexy per andarci a scuola!». «Già», ridacchiò Spencer. «Se grattarsi le tette tutto il giorno si può definire sexy». Le ragazze fecero una risatina soffocata. Improvvisamente, il cellulare di Aria vibrò. Lo tirò fuori dalla borsa e controllò lo schermo. «Che c'è?». Aria alzò lo sguardo, accorgendosi che tutte la stavano osservando. Hanna si mise a giocherellare con il pendente del bracciale. «Hai, uhm, appena ricevuto un messaggio? » «Sì. E quindi?» «Chi era?» «Mia madre», rispose. «Perché?». La musica dell'organo iniziò a suonare in sottofondo. Dietro di loro, altri ragazzi continuavano a prendere posto, in silenzio. Spencer guardò nervosamente Emily, che sentì il cuore iniziare a nervosamente Emily, che sentì il cuore iniziare a batterle forte. «Niente», disse Hanna, «scusa se mi sono intromessa». Deglutì nervosamente. «Io. ho solo pensato che forse anche a te stavano accadendo cose strane». Aria rimase a bocca aperta. «"Strane" è dire poco». Emily si strinse le braccia al petto. «Un momento. Anche voi, ragazze?», bisbigliò Spencer. Hanna annuì. «Messaggi?» «E-mail», disse Spencer. «Riguardo a. roba di seconda media?», sussurrò Aria. «Ragazze, state dicendo sulserio?», chiese Emily con voce stridula. Si guardarono l'un l'altra. Prima che qualcuno riuscisse a dire qualcosa, però, la melodia triste dell'organo inondò la chiesa. Emily si voltò. Un gruppo di persone si stava avvicinando a passo lento lungo la navata centrale. C'erano il padre e la madre di Ali, suo fratello, i suoi nonni e altre persone, probabilmente parenti. Per ultimi seguivano due ragazzi dai capelli rossi; Emily riconobbe in loro Sam e Russel, i cugini di Ali; venivano a farle visita ogni estate. Emily non li vedeva da anni, e si chiese se fossero sempre i creduloni di un tempo. I membri della famiglia raggiunsero la prima fila e aspettarono che la musica si interrompesse. Mentre Emily li guardava notò un movimento. Uno dei brufolosi cugini dai capelli rossi le stava osservando. Emily era abbastanza sicura che si trattasse di Sam, il più imbranato dei due. Osservò tutte le ragazze e poi alzò lentamente un sopracciglio, con aria interessata. Emily distolse subito lo sguardo. Sentì Hanna colpirla nelle costole. «Non questo», sussurrò, rivolta a tutte. Emily la guardò perplessa, ma poi Hanna indicò con gli occhi i due cugini allampanati. Tutte le ragazze capirono. «Non questo», dissero contemporaneamente Emily, Spencer e Aria. Poi si misero a ridacchiare. Emily però s'interruppe, pensando a cosa "non questo" significasse realmente. Non ci aveva mai pensato prima, ma era un modo di dire cattivo. Quando si guardò attorno, vide che anche le sue amiche avevano smesso di ridere, scambiandosi un'occhiata. «Credo che un tempo fosse più divertente», disse Hanna a bassa voce. Emily rimase immobile. Forse Ali non sapeva tutto. Sì, forse quello era stato il giorno peggiore della sua vita, e si sentiva totalmente devastata per Ali, e completamente scioccata da A, ma per un attimo, si sentì bene. Stare seduta lì, con le sue vecchie amiche, le parve come il timido inizio di qualcosa. 35 BASTA ASPETTARE L'organo ricominciò a suonare la solita, cupa melodia, mentre il fratello di Ali e gli altri sfilavano fuori dalla chiesa. Spencer, un po' alticcia dopo l'ennesimo sorso di whiskey, notò che le sue tre vecchie amiche si erano alzate dalla panca e stavano in fila per uscire, e pensò che anche lei avrebbe dovuto fare altrettanto. L'intera Rosewood Day si era riunita in fondo alla chiesa, dai ragazzi del lacrosse ai secchioni fanatici di videogame, che sicuramente Ali avrebbe preso in giro in seconda media. Il vecchio signor Yew, responsabile dell'iniziativa di beneficenza della Rosewood Day, se ne stava in piedi nell'angolo, intento a parlare a bassa voce con il professor Kaplan, l'insegnante di arte. Persino le vecchie amiche di hockey su prato di Ali erano tornate dai rispettivi college, riunite in un gruppetto commosso vicino alla porta. Spencer osservò le facce familiari, ricordandosi di tutti coloro che conosceva e di cui aveva perso ogni traccia. Poi, lo sguardo le cadde su un cane, un cane guida per non vedenti. Oh mio dio. Spencer afferrò Aria per un braccio. «Vicino all'uscita», sibilò. Aria gettò uno sguardo furtivo. «Non dirmi che si tratta di.?» «Jenna», bisbigliò Hanna. «E Toby», aggiunse Spencer. Emily impallidì. «Che cosa ci fanno qui?». Spencer era troppo scioccata per rispondere. Erano loro, eppure avevano un aspetto completamente diverso. Lui portava i capelli lunghi, mentre lei era. splendida, con lunghi capelli neri e un paio di grandi occhiali da sole Gucci. Toby, il fratello di Jenna, vide che Spencer li stava osservando, e uno sguardo aspro e disgustato gli comparve sul volto. Spencer si voltò velocemente altrove. «Non posso credere che sia venuto», sussurrò, troppo piano perché le altre potessero sentire. Non appena le ragazze ebbero raggiunto il pesante portone di legno che conduceva alla fatiscente scalinata di pietra della chiesa, Toby e Jenna erano scomparsi. Spencer socchiuse gli occhi alla luce del sole, sotto un cielo di un blu vivido, impeccabile. Era una di quelle meravigliose giornate d'inizio autunno senza un filo di umidità, in cui avresti dato qualunque cosa per non essere a scuola, ma piuttosto disteso su un prato, senza pensare alle responsabilità. Perché era sempre in giornate come quella che accadevano le cose più orribili? Qualcuno toccò Spencer sulla spalla, facendola trasalire. Era un poliziotto biondo e corpulento. Spencer fece segno ad Hanna, Aria ed Emily di proseguire senza di lei. «È lei Spencer Hastings?», le chiese. Lei annuì in silenzio. Il poliziotto intrecciò le enormi mani. «Le faccio le più vive condoglianze per la perdita», disse. «Lei e la signorina DiLaurentis eravate buone amiche, giusto?» «Grazie. Sì, lo eravamo». «Avrò bisogno di parlare con lei». Il poliziotto s'infilò una mano in tasca. «Ecco il mio biglietto da visita. Stiamo riaprendo il caso e, dato che eravate amiche, forse potrà aiutarci. Le va bene se ci rivediamo tra un paio di giorni?» «Uhm, certo», balbettò Spencer. «Se posso essere d'aiuto». Muovendosi come uno zombie, raggiunse le sue vecchie amiche, che si erano riunite sotto un salice piangente. «Che cosa voleva?», le chiese Aria. «Vogliono parlare anche con me», si affrettò ad aggiungere Emily. «Comunque, non si tratta di niente di grave, vero?» «Sono sicura che si tratti della solita vecchia roba», disse Hanna. «Non vorrà certo chiederci di.», iniziò Aria, guardando nervosamente verso il portone della chiesa, dove avevano scorto Toby, Jenna e il suo cane. «No», si affrettò a ribattere Emily. «Non finiremo nei guai per quello proprio adesso, no?». Si guardarono l'un l'altra, preoccupate. «Naturalmente no», disse infine Hanna. Spencer si guardò intorno, osservando tutti quelli che stavano parlando a bassa voce nel piazzale. Dopo aver visto Toby le era rimasto un senso di nausea, per giunta non aveva più visto Jenna dall'incidente. In ogni caso, il fatto che il poliziotto le avesse parlato subito dopo che li aveva visti era soltanto una coincidenza, giusto? Spencer tirò fuori velocemente le sue sigarette di emergenza e ne accese una. Doveva trovare un modo di tenere le mani impegnate. Dirò a tutti dell'Affare Jenna. Sei colpevole quanto me. Sì, ma nessuno ha vistome. Spencer espirò nervosamente, scrutando la folla. Non c'era nessuna prova.Fine della storia. A meno che. «Questa è stata la settimana più brutta della mia vita», disse improvvisamente Aria. «Anche la mia», annuì Hanna. «Forse possiamo guardarla dal lato positivo», disse Emily, con un tono squillante e impaurito. «Non potrebbe andare peggio di così». Mentre seguivano la processione verso il parcheggio di ghiaia, Spencer si fermò, e le sue vecchie amiche fecero altrettanto. Spencer avrebbe voluto dire loro qualcosa; non di Ali, né di Jenna, Toby o della polizia, ma, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto dire che le erano mancate per tutti quegli anni. Prima che potesse aprire bocca, il telefono di Aria squillò. «Un attimo.», borbottò Aria, rovistando nella borsa alla ricerca del cellulare. «Sicuramente sarà di nuovo mia madre». Poi, anche il cellulare di Spencer vibrò. E suonò. E cinguettò. Non si trattava soltanto del suo cellulare, ma anche di quelli delle sue amiche. Tutti quegli squilli improvvisi risuonarono persino più forti nell'atmosfera sobria e silenziosa della processione funebre. Gli altri convenuti lanciarono loro delle occhiate storte. Aria afferrò il cellulare per silenziarlo, mentre Emily si affrettò ad aprire il suo e Spencer tirò fuori con forza il proprio dalla tasca della borsetta. Hanna lesse sul proprio schermo. «Mi è arrivato un messaggio». «Anche a me», bisbigliò Aria. «Lo stesso», fece eco Emily. Spencer vide che era arrivato anche a lei. Tutte cliccarono su "Leggi". Seguì un attimo di silenzio attonito. «Oh mio dio», bisbigliò Aria. «Viene da.», disse Hanna con voce stridula. Aria mormorò: «Pensate che voglia dire.». Spencer deglutì a fatica. Tutte insieme, le ragazze lessero il testo ad alta voce. I messaggi erano tutti identici: Sono ancora qui, brutte troie. E so tutto. A RINGRAZIAMENTI Devo molto a tante persone della Alloy Entertainment. Li conosco da anni e senza di loro questo libro non sarebbe mai nato. Josh Bank, per la sua ilarità, il suo carisma, e la sua intelligenza, e per avermi concesso, anni fa, una possibilità, nonostante io avessi rovinato in modo tanto maleducato la festa di Natale della sua azienda. Ben Schrank, innanzitutto per avermi incoraggiata a portare avanti questo progetto, e poi per i suoi inestimabili consigli in fase di stesura. Naturalmente, Les Morgenstein, per avere creduto in me. E la mia meravigliosa editor, Sara Shandler, per la sua amicizia e l'aiuto costante nel dare forma a questo romanzo. Sono grata a Elise Howard e Kristin Marang della HarperCollins per il sostegno, la perspicacia e l'entusiasmo dimostrati. E poi, un enorme ringraziamento va a Jennifer Rudolph Walsh della William Morris per tutte le magie che è riuscita a concretizzare. Grazie inoltre a Doug e Fran Wilkens, per la splendida estate passata in Pennsylvania, e a Colleen McGarry, per avermi ricordato di tutti gli scherzi che ci siamo fatte alle medie e al liceo, specialmente quelli riguardanti la nostra band immaginaria, di cui non farò il nome. Grazie ai miei genitori, Bob e Mindy Shepard, per il loro aiuto nei punti più difficili della trama e per avermi incoraggiata a essere me stessa, senza preoccuparmi di quanto potesse apparire bizzarro. Non saprei poi come ringraziare mia sorella Ali, che concorda sul fatto che i ragazzi islandesi sono delle ragazzine che cavalcano piccoli cavalli gay e ha acconsentito al fatto che un certo personaggio del libro prendesse il suo nome. Infine, desidero ringraziare mio marito Joel, per essersi dimostrato tanto amorevole, frivolo e paziente, e per avere letto (per fortuna!) ogni singola bozza del libro e avermi offerto il suo consiglio, a prova che i ragazzi sono in grado di comprendere i conflitti interiori delle ragazze più di quanto si pensi. CONTINUA... Immagino abbiate creduto che fossi Alison, non è vero? Be', mi dispiace, ma non lo sono. E come potrei? È morta. Io, al contrario, non lo sono affatto. E sono molto, molto vicino. Per una certa cricca di quattro ragazze carine, poi, il divertimento è appena iniziato. Perché? Perché lo dico io. Le cattive azioni meritano una punizione, dopo tutto. E i più virtuosi di Rosewood meritano di sapere che Aria si è fatta una pomiciata extracurricolare con il suo insegnante di letteratura, non credete? Per non parlare dell'osceno segreto di famiglia che nasconde ormai da anni. Questa ragazza è un vero disastro. Già che ci sono, mi sento in dovere di informare i genitori di Emily sul motivo per cui ultimamente si è comportata in modo tanto strano. Ehi, signori Fields, bella giornata, vero? A proposito, a vostra figlia piace baciare le ragazze. E poi c'è Hanna. Povera Hanna, ormai intenta a emulare le migliori, ma senza successo. Certo, potrà anche cercare di riconquistarsi a fatica la vetta, ma non vi preoccupate: io sarò lì ad aspettarla, per sbatterla di nuovo dentro un paio di vecchi jeans della mamma. Santo cielo, per poco mi dimenticavo di Spencer. Che disastro, quella ragazza! Dopo tutto, la sua famiglia pensa che sia uno scorfano senza nessun valore. Deve essere spiacevole. E, che rimanga tra noi, sarà sempre peggio. Spencer mantiene un oscuro segreto che potrebbe certamente rovinare le vite di tutte e quattro. Ma chi rivelerebbe un segreto tanto orribile? Oh, non saprei. Provate a indovinare. Bingo. La vita è talmente divertente quando non ha segreti. Proprio come per me, no? Sicuramente state morendo dalla voglia di sapere, o sbaglio? Be', rilassatevi. Ogni cosa a tempo debito. Credetemi, vorrei tanto potervi dire tutto. Ma allora, dove starebbe il divertimento? State in campana. A Sommario Giovani, carine e bugiarde ...................................................................................................................... 2 COME È INIZIATA........................................................................................................................................... 5 1 ARANCE, PESCHE E LIME, OH MIO DIO! ................................................................................................... 17 2 LE ISLANDESI (E LE FINLANDESI) SONO FACILI ......................................................................................... 24 3 IL BRACCIALETTO DI HANNA .................................................................................................................... 32 4 SPENCER PERDE ANCORA ........................................................................................................................ 36 5 IL PROFESSOR FITZ ................................................................................................................................... 44 6 ANCHE EMILY È FRANCESE! ..................................................................................................................... 48 7 IL RIGIDO (DELTOIDE) POSTERIORE DI SPENCER...................................................................................... 54 8 MA DOVE DIAVOLO SONO LE SCOUT QUANDO HAI BISOGNO DI LORO? ............................................... 60 9 UN COLLOQUIO STUDENTE INSEGNANTE FUORI DAL COMUNE ............................................................. 68 10 LE RAGAZZE SINGLE SI DIVERTONO MOLTO DI PIÙ ............................................................................... 73 11 SE NON ALTRO, LE PATATE DOLCI SONO RICCHE DI VITAMINA A ......................................................... 79 12 HMM, ADORO IL PROFUMO DEI RISULTATI DEI TEST APPENA FATTI .................................................... 85 13 ATTO PRIMO: RAGAZZA SI FA DESIDERARE DA RAGAZZO ..................................................................... 91 14 ECCO COME CURIOSARE SU GOOGLE QUANDO INVECE DOVRESTI STUDIARE ..................................... 96 15 INSULTARE LA SUA VIRILITÀ È STATO FATALE ..................................................................................... 100 16 MAI ACCETTARE UNA LETTERA D'INVITO SENZA L'INDIRIZZO DEL MITTENTE .................................... 104 17 ANATRA, ANATRA, OCA! ...................................................................................................................... 109 18 DOV'È FINITA LA NOSTRA CARA VECCHIA EMILY? CHE COSA NE AVETE FATTO? ............................... 113 19 BALSAMICO E PICCANTE ...................................................................................................................... 117 20 TUTTO CIÒ DI CUI EMILYHA BISOGNO SONO UNA SPADA LASER E UN ELMETTO NERO .................... 121 21 LE RAGAZZE ATTRAENTI SONO PROPRIO COME NOI........................................................................... 125 22 I BAGNI DI BIRRA FANNO BENE ALLA PELLE......................................................................................... 129 23 ARIA L'ISLANDESE OTTIENE CIÒ CHE VUOLE ........................................................................................ 134 24 IL GUARDAROBA DI SPENCER NON CONTIENE SOLTANTO JEANS E SCARPE....................................... 140 25 LARGO ALLE STUDENTESSE PILOTA! .................................................................................................... 146 26 MI AMI? Si O NO? ................................................................................................................................ 150 27 NON FARE CASO A ME, SONO SOLO MORTA! ..................................................................................... 154 28 BRAD E ANGELINA IN REALTÀ SI SONO CONOSCIUTI ALLA CENTRALE DI POLIZIA DI ROSEWOOD ..... 159 29 BUONGIORNO, TI ODIAMO .................................................................................................................. 165 30 IL CIRCO È DI NUOVO IN CITTÀ ............................................................................................................ 169 31 L'INFERNO SONO GLI ALTRI.................................................................................................................. 173 32 UNA STELLA CADENTE.......................................................................................................................... 178 33 I MIGLIORI DI ROSEWOOD ................................................................................................................... 183 34 CHE STRANO INCONTRARSI QUI .......................................................................................................... 187 35 BASTA ASPETTARE................................................................................................................................ 192 RINGRAZIAMENTI...................................................................................................................................... 195 CONTINUA... .............................................................................................................................................. 197