Violenza degenere: il pregiudizio anti-omosessuale come tecnologia di genere
di
Elisa A.G. Arfini
“La rinuncia accresce l'intolleranza”
Freud, IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ.
Introduzione
Nel 1998 Matthew Shepard, uno studente di 22 anni, viene ucciso a Laramie, Wyoming.
I due uomini riconosciuti colpevoli dell'omicidio l'avevano brutalmente aggredito perché il
ragazzo era gay. Si erano incontrati in un bar; Matthew, dopo essersi allontano in macchina con
i due, verrà trovato il mattino dopo, legato a un recinto nella campagna circostante. Morirà dopo
6 di coma a seguito delle gravi lesioni riportate. La cronaca della vicenda gode di un'attenzione
mediatica senza precedenti e prima ancora che il processo si concluda Matthew diventa il
simbolo della violenza contro gli omosessuali. In sede di difesa processuale, gli assassini
tentarono di spiegare la propria reazione violenta sulla base del fatto che Matthew gli avrebbe
“rimorchiati” al bar e poi fatto proposte sessuali. Ciò avrebbe fatto perdere loro la piena facoltà
di intendere e di volere, portandoli all'omicidio1. Questa strategia va sotto il nome di “panico
gay” ed è una retorica che circola spesso nei casi di violenza motivata da omofobia, o meglio da
pregiudizio anti-omosessuale. Concetti come omofobia o panico gay sottolineano la
componente irrazionale e individuale di un meccanismo che in realtà si poggia su funzioni
molto razionali e socialmente pervasive2. La violenza contro gli omosessuali non è figlia solo
dello stigma, dell'imbarazzo, o del disgusto per il diverso, è invece funzionale al mantenimento
dell'ordine dicotomico dei generi. Che la violenza sia uno dei dispositivi per la stabilizzazione
dell'ordine di genere è stato dimostrato da molta letteratura, che però ha spesso limitato la
1 Sul caso Matthew Shepard è stata prodotta una docu-fiction, interpretata da attori ma basata su trascrizioni
originali di interviste a soggetti coinvolti a vario titolo nel caso: The Laramie Project (2002)
2 Non abbiamo rinunciato a usare il termine omofobia in questo testo, perché è ormai di uso comune. Tuttavia è
bene precisare che intendiamo questo meccanismo come fobia atipica, perché basata sul pregiudizio antiomosessuale piuttosto che su una paura irrazionale; una fobia che genera aggressività piuttosto che ansia. Per
una rassegna di svariate posizioni all'interno di questo dibattito, si veda la ricca sezione “Omofobie” del
volume Omosapiens (2006), con contributi di Lingiardi, V.; Falanga, S., Parisi, A., Di Chiacchio, C.; e
Nardelli, N.
concezione di violenza di genere come atto compiuto da uomini eterosessuali contro donne
eterosessuali. Vogliamo invece suggerire che anche la violenza contro gli omosessuali può
essere pensata come violenza di genere.
Omofobia come discorsività
Il pregiudizio anti-omosessuale non è altro che un funzione costitutiva delle società
occidentali, che si fondano su una matrice eterosessuale, a sua volta precondizione per
un'identificazione di genere corretta. La norma traccia un nesso irreversibile tra sessualità e
identità di genere, per cui la deviazione di uno dei due aspetti retroagisce inevitabilmente
sull'altro. Judith Butler (1997, trad. it 2005), nella sua indagine filosofica che rintraccia gli esisti
psichici dell'esistenza sociale, ha mostrato efficacemente come sia proprio la proibizione
dell'omosessualità a installare il nucleo della soggettività sessuata. Il frastagliato percorso che
porta Butler a giungere a simili conclusioni, è animato dalla volontà di riformulare la
comprensione della categoria concettuale di genere. Sarebbe fuori luogo ripercorrere qui tutte le
tappe della complicata genealogia della teoria del gender. Basterà ricordare che il discorso di
Butler si inserisce nel dibattito in un momento (i primi anni '90) in cui la posizione dominante è
il cosiddetto paradigma sesso\genere. Secondo questa posizione, il sesso è il materiale
biologico, naturale e immutabile su cui si installa il genere, ovvero la componente sociale
dell'identità sessuata. Il genere rappresenterebbe quindi lo spazio di manovra dell'azione
culturale, l'area all'interno della quale i conflitti per la cosiddetta “uguaglianza tra i generi”
possono essere combattuti, il mondo in cui la volontà dell'individuo si può esplicitare e può
operare cambiamenti. Questo paradigma tranquillizzò per un certo periodo di tempo il
nervosismo causato dagli approcci deterministi, i quali - pur vedendo il genere come una
categoria sociale - ne rintracciavano le cause in quell'origine naturale\biologica\ontologica
rappresentata dal sesso. Il genere insomma, per quanto potesse essere sociale nella sua
fenomenologia, rimaneva pur sempre l'esito di una causa biologica. Il paradigma sesso\genere,
invece, sradicò questo rapporto causale e deterministico tra le due componenti dell'identità
sessuale, sostenendo che i condizionamenti strutturali e culturali che formano il genere,
discendono dal sesso biologico in maniera contingente e arbitraria, piuttosto che determinista e
teleologica. Questa spiegazione andò incontro a un certo successo; in effetti si tratta di un
paradigma rassicurante: non nega che – sotto strati di sedimentazioni culturali – esista una
qualità, una variabile, un dato fondamentalmente che sia valido, immediato, vero. Non nega che
la mascolinità e la femminilità esistano come dato pre-sociale, eppure non le definisce, le
presuppone ma non le descrive: le immagina come caselle vuote. A ben vedere, tuttavia, questo
paradigma solleva una serie di interrogativi che ne minano la solidità. Per esempio, se l'accesso
al genere avviene attraverso una mediazione culturale, allora come si rende intellegibile il
sesso? E' possibile accedere alla materialità biologica del sesso senza una griglia percettiva e
cognitiva che non sia già sociale? Se esiste una qualche forma manifesta del sesso, la sua
manifestazione non è già culturalmente mediata? E soprattutto, cosa conta come sesso, e cosa
conta come genere? Di fronte a questa domanda, è facile immaginare come il paradigma
sesso\genere cada nella trappola del dualismo natura\cultura, dualismo che condanna la spinta
critica ad esaurirsi nell'interminabile (e sostanzialmente inutile) impresa di definire di volta in
volta i confini tra ciò che è naturale e ciò che non lo è (talvolta con strumenti cosiddetti
“culturali”, talvolta con strumenti cosiddetti “scientifici”). Un primo impulso a uscire
dall'impasse venne dato da Gayle Rubin nel 1984 che, in “Thinking Sex: Notes for a Radical
Theory of the Politics of Sexuality”, propone una versione modificata del paradigma,
sostenendo che “sex as we know it […] is itself a social product” se “what counts as sex is
equally culturally determined and obtained” (1984, 230), intendendo dire con ciò che nel
momento stesso in cui possiamo dire di conoscere qualcosa del sesso, già l'abbiamo trascinato
nel mondo sociale. La posizione di Rubin dunque suggerisce che ciò che conta come sesso è
definito culturalmente; che – benché esista una indubitabile materialità dei corpi, questa non è
sinonimo di sesso. Parlare di sesso è invece già descrivere, e quindi ascrivere una qualità, una
sfera di influenza, un destino, e un set di possibilità a un dato corporeo di per sé muto e
inaccessibile. L'analisi di Rubin, per quanto convincente, ci lascia però con un problema: a cosa
serve allora il sesso? Perché individuare in questa categoria concettuale il dato pre-sociale da
cui discende, in maniera più o meno causale, il genere? Se il sesso è un dato culturale, come si
giustifica questo attaccamento normativo alla sua naturalità? Sarà Butler a rispondere a questi
interrogativi, a fornire cioè una giustificazione funzionale della dicotomia sesso\genere. E'
l'eteronormatività a installare il sesso come precondizione naturale del genere. La matrice
eterosessuale è un regime normativo che interviene nella formazione delle proiezioni
identificatorie a seguito delle quali il soggetto emerge come tale. La dicotomia sesso\genere è
un'ipostasi in cui il sesso viene naturalizzato, e questa naturalizzazione è successivamente resa
invisibile dal potere discorsivo. Il sesso viene reso ontologicamente primario, diventa il dato
pre-discorsivo e pre-sociale perché deve essere, come tutto ciò che è naturale, immutabile. Ma è
in primo luogo la proibizione dell'omosessualità a installare la norma eterosessuale che conduce
ad un'identificazione di genere corretta.
Date queste premesse, pertanto, potremmo trovare tracce di omofobia ovunque esistano
soggetti sessuati. E' certamente il pregiudizio anti-omosessuale la ragione della maggior parte
delle difficoltà che le persone omosessuali, bisessuali, transgender, queer e intersessuate3
devono affrontare: la mancata o scarsa rappresentatività nella sfera pubblica, nelle istituzioni,
nei gruppi di interesse, nei media; alto tasso di discriminazione e stigmatizzazione nel lavoro,
nella famiglia, nella scuola ad ogni livello, nell'assistenza medica, nelle confessioni religiose,
etc. Insomma, per dirla con Michael Warner (1993), "questo non è un pianeta queer". Tutt'altro.
La violenza fisica e la violenza rappresentata\simbolica provocano ferite ugualmente gravi. In
questo lavoro però verranno mantenute separate a livello analitico e si forniranno esempi e dati
relativi alla violenza fisica. I crimini violenti di motivati da pregiudizio richiedono un approccio
dedicato e una strategia di contrasto che va messa in atto in campi specifici: in primo luogo
quello giuridico, ma anche nell'ambito dell'assistenza medico-legale, del supporto psicologico,
dell'attivismo locale, delle campagne di educazione\prevenzione, della raccolta di dati statistici
e del coordinamento delle operazioni istituzionali (tra forze dell'ordine, tribunali, ospedali,
associazioni, etc.); riconoscere quindi una specificità ai crimini violenti è necessario per poter
trovare strategie situate. Tuttavia, è di fondamentale importanza postulare una base comune ai
diversi tipi di omofobia per due ragioni. In primo luogo la violenza fisica è presente non solo
nel momento in cui si attua, ma esiste come paura nell'esistenza quotidiana dei soggetti che si
possono considerare a rischio; esiste il crimine e la paura di subirlo, così che la violenza è
presente sempre in forma implicita, fantasmatica, prefigurata. In secondo luogo le forme della
violenza contro gli omosessuali sono interrelate a un livello ancora più profondo perché la
violenza fisica è culturalmente legittimata. Ciò non equivale ad affermare in maniera
semplicistica che la violenza rappresentata scateni per via imitativa la violenza reale, significa
invece suggerire che la violenza circola nelle realtà e nelle rappresentazioni, scavalca i confini
tra potenziale e attuale, e così facendo si sedimenta nei comportamenti tanto quanto negli
schemi percettivi. Per gay, lesbiche e devianti di genere, la possibilità di subire violenza è una
minaccia talmente costante che si configura a un livello pre-riflessivo. Quando allora una simile
potenzialità si sedimenta a livello identitario, plasma i corpi e la percezione di quello che è loro
lecito fare e abituale subire.
Statistiche sui crimini motivati da pregiudizio anti-omosessuale
Per offrire una rassegna sui crimini violenti contro gli omosessuali ci baseremo su una
serie di dati statistici. Innanzitutto bisogna lamentare la mancanza di dati quantitativi relativi
3 Da cui la dicitura: GLBTQI (Gay, lesbian, bisexual, transgender, queer, intersexed).
all'Italia4; pertanto ci riferiremo ai dati relativi agli Stati Uniti, dove, in seguito alla legislazione
sugli hate crimes e all'attività di alcune associazioni, le statistiche presentano campioni più
consistenti. L'atto legislativo più importante che gli Stati Uniti hanno implementato in materia
di contrasto alla violenza omofobica è stato l'Hate Crime Statistics Act (HCSA), che dal 1990
regola per le legge la raccolta di dati sui "crimes that manifest evidence of prejudice based on
race, religion, sexual orientation or ethnicity" (U.S. Code, 1990) 5 (Nel 1994 sono stati aggiunti
alla lista i crimini commessi contro portatori di disabilità fisica o mentale). L'HCSA è stato un
passo di fondamentale importanza perché ha segnato a livello legislativo il riconoscimento della
specificità – ovvero della particolare gravità – dei crimini violenti perpetrati su base
pregiudiziale. In seguito è stato approvato il Hate Crimes Prevention Act (HCPA), la cui ultima
versione risale al 2005 (U.S. Code, 1990). Ciò ha dato avvio alla possibilità di assegnare
aggravanti e quindi di comminare pene più severe. Naturalmente c'è chi si è inserito nel dibatto
sostenendo che la definizione stessa di “hate crime” è illegittima e insostenibile perché
qualunque crimine è motivato dall'odio. E' però questa una posizione poco solida che si
giustifica sulla base di una specie di morale per cui ogni azione illegale è motivata dal “Male”.
Anche se ciò fosse vero, rimane il fatto che i crimini contro la persona motivati dal pregiudizio
sono socialmente gravi (perché perpetuano una cultura della discriminazione) e si configurano
materialmente come particolarmente brutali, dal momento che la violenza è in sé il fine e la
ragione ultima dell'atto. L'azione del legislatore americano ha dato inizio a una raccolta
statistica su base nazionale; l'organismo incaricato di ricevere il flusso di dati è il Federal
Bureau of Investigation (FBI)6. Avremo modo di vedere che la raccolta dati governativa non si
è rivelata particolarmente efficace e affidabile; ciò nonostante, l'HCPA ha rappresentato un
passo importante sia sul campo giuridico – perché ha consentito alle corti di isolare
analiticamente questo tipo di crimini violenti e quindi di considerarli come aggravanti – sia a un
livello culturale. In quest'ultimo senso, la definizione legislativa di hate crime è importante
perché fa sì che sia il significato dell'azione, oltre che all'azione in sé, a determinare una
specifica reazione da parte delle autorità. Che i crimini motivati dal pregiudizio abbiano trovato
4 Tuttavia l'ILGA (International Gay and Lesbian Association) ha pubblicato una serie di report suddivisi per
paese, Italia inclusa, in cui si intende fornire una panoramica socio-legale sulla situazione degli omosessuali. Le
voci di solito includono variabili quali: libertà di associazione, unioni di fatto, pensioni, occupazione,
immigrazione, eredità, diritto d'asilo, accesso alle tecnologie riproduttive, servizio militare, etc. Cfr.:
www.ilga.org
5 E' da notare che l'orientamento sessuale è l'unica variabile, assieme alla religione, che deriva pienamente da una
libera scelta del soggetto giuridico. E' da notare anche il fatto che il legislatore americano si è premurato di
rendere chiaro che la tutela dell'orientamento sessuale non coincide con una “approvazione” dell'omosessualità;
leggiamo infatti alla sezione 2 comma b. che: "Nothing in this Act shall be construed, nor shall any funds
appropriated to carry out the purpose of the Act be used, to promote or encourage homosexuality” (U.S. Code,
1990)
6 All'interno dell'unità Uniform Crime Reporting che è attiva dal 1930.
una propria specificità all'interno del sistema legale, è anche il riconoscimento di un'urgenza
sociale: una situazione dolorosa anche per molti, prima che diventi un 'problema pubblico' deve
essere compresa come tale da determinati gruppi di individui (rappresentanti politici,
organizzazioni sociali, gruppi d'interesse, etc.) e in determinati setting istituzionali (politici,
legislativi, medici, pedagogici, etc.)7. Per questo è stato fondamentale l'apporto delle
organizzazioni di base, che hanno fatto pressione affinché venisse accordata visibilità al
problema. Ed è sempre alle organizzazioni di base, nello specifico caso della violenza
omofobica, che si deve il proseguimento dell'opera di documentazione. Come abbiamo
anticipato, la raccolta di dati a livello federale non è particolarmente significativa; innanzitutto
perché la percentuale dei crimini che vengono denunciati è stimata essere meno della metà di
quelli che vengono effettivamente commessi (Herek et al., 2002). Sporgere denuncia significa
esporsi ulteriormente come omosessuale, proprio nel momento in cui è stata la propria
posizione identitaria a scatenare la violenza. Inoltre, molti\e temono di non trovare il necessario
supporto presso le forze dell'ordine, che – soprattutto negli Stati Uniti8 – non godono di buona
fama in materia di tolleranza nei confronti degli omosessuali. Per evitare insomma una
sovraesposizione, l'ulteriore umiliazione di una reazione più o meno velatamente pregiudiziale
da parte delle forze dell'ordine, per via del senso di colpa e di imbarazzo che un simile tipo di
violenza provocano, spesso non si sporge denuncia. Oltre a questo problema strutturale, la
raccolta dati nazionale subisce una serie di intoppi burocratici: l'organismo centrale è mal
interfacciato con le agenzie sul territorio, e localmente le forze dell'ordine hanno criteri poco
uniformi nel definire cosa conti come hate crime. Uno strumento utile che tuttavia può ancora
fornirci il report FBI è la comparazione con altri tipi di crimini. In termini percentuali le ultime
statistiche disponibili (U.S. Department of Justice, 2006) producono questo quadro:
Percentuale
Tipo di pregiudizio
56.0
Razza
15.7
Religione
14.0
Orientamento sessuale
13.7
Etnia o provenienza regionale
0.6
Disabilità
Fonte: Hate Crime Statistics 2005 -FBI
7 Queste considerazioni derivano dalla concettualizzazione dei meccanismi di 'collective action framing'. Si veda
a questo proposito: Snow e Benford (2000)
8 In fondo l'atto fondativo e il mito eziologico della comunità gay americana, ovvero i disordini di Stonewall, fu
una rivolta di drag queens contro poliziotti, che tentarono un raid nel popolare locale Stonewall del Greenwich
Village a New York, il 28 giugno 1969 (D'Emilio, 1983).
Non esistono dati affidabili che possano rivelarci la percentuale assoluta di omosessuali rispetto
alla totalità della popolazione; tuttavia, è preoccupante notare che ben il 14% dei crimini
motivati dal pregiudizio siano commessi su un gruppo sociale che come incidenza sul totale
della popolazione probabilmente non supera di molto il famoso 10% del rapporto Kinsey.
Difficoltà di gestione e sfiducia verso le forze dell'ordine e il sistema legale rendono il
rapporto dell'FBI poco indicativo. A ciò pongono parziale rimedio le organizzazioni radicate
nella comunità GLBTQI. La più importante sul territorio statunitense è la National Coalition of
Anti-Violence Programs, che annualmente pubblica un rapporto in cui confluiscono i dati
raccolti dalle organizzazioni locali che fanno capo alla coalizione (NCAVP, 2006). IL NCAVP
fornisce inoltre una serie di strumenti educativi e di supporto alle vittime, e, ponendosi come
organizzazione GLBTQI, vanta maggiori probabilità di ricevere segnalazioni. Infatti, per avere
una stima di quanto i rapporti governativi siano in difetto rispetto alla reale situazione basti
considerare questo dato: il report FBI copre l'82.8% della popolazione nazionale e – nel 2003 –
riporta 1406 incidenti; per lo stesso anno il report NCAVP ne indica 2272 su un campione pari
al 27.2%.
2003
Campione
N° di incidenti
NCAVP
27.2%.
2272
FBI
82.8%
1406
Fonte: NCAVP 2004
Uno sguardo generale al rapporto della National Coalition of Anti-Violence Programs per il
2005 rivela che c'è stato un calo generale dei crimini (valutato intorno al 13%). E' lecito
ricollegare il dato al fatto che nel periodo precedente a quello preso in esame l'omosessualità è
stata una questione di rilievo nazionale – e ha quindi goduto di un certo grado di iper-visibilità in seguito ad alcuni fatti specifici: la causa Lawrence v. Texas (Supreme Court of the United
States, 2003) (a seguito della quale è stata abrogata la legge contro la sodomia), il tentativo di
legalizzare i matrimoni omosessuali in Massachussets e a San Francisco (e la conseguente
minaccia di un emendamento costituzionale per “prevenire” il fenomeno), la circolazione di una
retorica a supporto della “famiglia naturale” nel corso delle elezioni del 2004. Relativamente
alla tipologia di crimini commessi, ricaviamo direttamente dal rapporto la seguente figura:
Fonte: NCAVP 2004
Come suggerisce la grafica, l'omicidio è solo la punta dell'iceberg; tuttavia rimane il fatto che
più di altri acquista drammatica visibilità. Chi viene ucciso per via del proprio orientamento
sessuale non può nascondere l'offesa subita, e la morte diventa non solo un fatto di cronaca, ma
anche l'oggetto di un lutto collettivo da parte della comunità. Relativamente all'identità di
genere delle vittime, osserviamo una prevalenza di uomini, come mostra il grafico:
Fonte: NCAVP 2004
Possiamo interpretare questo fatto in ragione di una maggior visibilità degli uomini gay rispetto
alle donne; innanzitutto, consideriamo il fatto che atteggiamenti intimi tra donne sono ritenuti
socialmente più accettabili che tra uomini, e questo rende più facile l'identificazione della
vittima. Inoltre, le abitudini sociali della cultura gay portano gli uomini più delle donne a
raggrupparsi in spazi dichiaratamente omosessuali. Non si tratta solo di spazi ricreativi (bar,
discoteche, saune, palestre, etc.), ma anche di cruising areas, zone in cui gli uomini si trovano
in cerca di incontri sessuali; questi spazi diventano potenzialmente pericolosi soprattutto perché
sono appartati (es.: parchi, parcheggi) e vengono frequentati nelle ore notturne. Il dato relativo
alle statistiche sulla violenza contro persone trans rivela una netta prevalenza di vittime MtF
(male-to-female: da maschio a femmina). Anche in questo caso possiamo interpretare il
fenomeno in base alla differente visibilità dei due gruppi. In primo luogo, il passing (passare
cioè come individuo appartenente al genere di preferenza) è generalmente più facile per gli
uomini che per le donne; infatti, gli ormoni che rendono maschile un corpo che in origine era
femminile (vale a dire il testosterone) agiscono in maniera molto radicale. Quando un uomo
trans assume testosterone questo gli provoca la crescita della barba, la ridistribuzione della
massa corporea, l'abbassamento della voce; di contro, gli ormoni femminili non hanno un
effetto così pervasivo (es.: la barba non scompare, la voce non si alza), per cui il passing può
risultare più difficile. In secondo luogo, alcune donne transgender lavorano nell'industria del
sesso, mentre non c'è notizia di uomini trans che facciano lo stesso. Questo genere di attività
può essere rischiosa, soprattutto per le prostitute, che lavorano in zone a bassa legalità e sono
considerate facili prede perché ci sono scarse probabilità che sporgano denuncia o che venga
loro accordata credibilità nel caso lo facessero. Così come nel caso della violenza contro le
donne, la maggior parte delle violenze è di natura domestica, tra partners dello stesso sesso. A
quanto pare, in questo caso la violenza non fa distinzioni tra sessualità. Non ci dilungheremo su
questo aspetto perché riguarda una componente più relazionale e psicologica che legata al
pregiudizio e al rapporto con la società eterosessuale. Ci limitiamo però a ricordare alcune
specifiche difficoltà degli omosessuali che subiscono una relazione abusiva: la tutela legislativa
così come la struttura delle terapie di supporto sono orientate all'eterosessualità. All'interno
della coppia, poi, l'outing può essere usato come ricatto, mentre la gravità dei fatti può essere
negata sostenendo che una relazione omosessuale non può essere abusiva o che, in ogni caso,
non esistono forme di supporto specifiche9.
Oltre all'opera di documentazione, il NCAVP e altre organizzazioni simili compiono
azioni integrate per contrastare e fronteggiare la violenza. La raccolta di dati, per quanto al
momento ancora parziale, rimane comunque un fronte di massima importanza perché è mirata a
fornire statistiche che possano fornire una percezione forte e reale del problema. Tuttavia per
fare in modo che un problema sociale venga percepito come tale, non basta offrire gli strumenti
per identificarlo, bisogna anche fornire una visione d'insieme che oltre al problema ponga
attenzione alle possibili soluzioni10. In questo modo, l'intervento pubblico (istituzionale,
legislativo) è già orientato sulla base di quello che viene proposto dalle organizzazioni di base.
Le strategie delle associazioni GLBTQI che si occupano di violenza sono simili a quelle
impiegate dalle analoghe esperienze dei gruppi che lavorano nell'ambito della violenza contro le
donne. A livello di prevenzione si promuove l'educazione e la sensibilizzazione, anche tra gli
stessi soggetti omosessuali. Si organizzano corsi di auto-difesa, si distribuiscono fischietti e in
generale si promuove l'attenzione e la vigilanza. Per esempio si suggerisce di “rischiare
l'imbarazza”: il consiglio che viene dato è fidarsi del proprio istinto, non esitare a chiedere aiuto
o cercare riparo, evitare insomma di “fare finta di niente” perché un simile comportamento è
controproducente, meglio fronteggiare il presunto assalitore e sondare le sue intenzioni. Anche
se questi consigli possono essere utili dal punto di vista pratico, portano con sé il rischio di
alimentare uno stato di paura perenne, di porre l'accento più sul pericolo che non sulle sue
soluzioni e di scoraggiare, in ultima analisi, una visibilità serena. E' meglio quindi suggerire che
sono certe situazioni ad essere potenzialmente pericolose, non la propria identità omosessuale, e
che il rischio si fronteggia con la tutela dei diritti, non con l'auto-limitazione11. Se poi il crimine
9 Per una discussione più ambia di queste tematiche si veda: (Island e Letellier, 1997)
10 Come notano come notano Snow e Benford: “problem definition is a process of image making, where the
images have to do fundamentally with attributing cause, blame, and responsiblity” (Snow e Benford 1989, p.
282 cit. in Jenness e Broad, 1994)
11 Un ulteriore problema è dato dall'intersezione razza\orientamento sessuale. La comunità GLBTQ negli Stati
viene commesso, le organizzazioni mettono in atto varie strategie: hotlines, supporto
psicologico, assistenza medica, assistenza legale, aiuto nell'interazione con la polizia12.
Omofobia come violenza di genere
Come abbiamo visto, le strategie di contrasto e supporto delle associazioni GLBTQI
hanno ereditato molta dell'esperienza delle iniziative contro la violenza sulle donne. Anche la
riflessione teorica merita un intreccio. Trasforini (1999) offre un'analisi della violenza di genere
come dispositivo tecnologico che plasma i corpi sessuati nelle loro caratteristiche e possibilità.
A livello genealogico, due sono state le retoriche che hanno plasmato la consistenza dei corpi
delle donne: “da un lato quella che definisce lo spazio moderno, in particolare la costruzione
immaginaria di luoghi legittimi e pertinenti per genere; dall’altro quella della medicina che
scruta e traccia i confini della consistenza e dei rischi dei corpi” (ibid., 195). Insieme, questi
dispositivi hanno inscritto nei corpi delle donne una consistenza debole, rendendoli accessibili
e violabili. Da un lato quindi, la definizione di sfera pubblica e sfera privata ha creato delle vere
e proprie geografie della paura, che limitano ai corpi delle donne l'accesso al mondo esterno; un
dispositivo paradossale, se è vero che la stragrande maggioranza delle violenze sulle donne è
commessa nell'ambiente domestico. Anche le geografie della paura dei corpi omosessuali hanno
un tratto paradossale: come abbiamo visto, le aree ad essere più a rischio sono proprio quelle
che dovrebbero offrire un rifugio, uno spazio dedicato. Il desiderio di appartenenza diventa
allora pericoloso; così come la libertà di espressione, il desiderio di visibilità. Infatti, la violenza
motivata da pregiudizio omosessuale si basa su un dispositivo di fondo: l'attribuzione. Il corpo
di una donna è distinguibile il più delle volte sul semplice dato visivo e percettivo, una
percezione che non si può semplicemente scegliere di non fornire. E come si identifica un corpo
omosessuale? Il corpo omosessuale può rendersi visibile a seguito di azioni consapevoli,
attraverso dichiarazioni esplicite, comportamenti codificati nella sotto-cultura gay, esposizione
del proprio rapporto con il partner, presenza e frequentazione di iniziative e spazi dedicati.
L'omosessuale insomma, può scegliere di essere out. Oppure di passare come eterosessuale.
Uniti è ancora prevalentemente bianca. La popolazione afroamericana, in particolare, vive di solito una cultura
fatta di forti legami famigliari e di radici religiose che offrono un ambiente poco tollerante nei confronti
dell'omosessualità. Tuttavia, se la comunità gay è soprattutto bianca, essa non può rappresentare un rifugio o
un'alternativa.
12 Un particolare tipo di misura è stata sperimentata in alcune città americane, vale a dire i gruppi di vigilanza.
Questi gruppi (generalmente di 4-6 persone) forniscono un servizio di “ronda” negli spazi gay delle città, per
dissuadere eventuali assalitori e fornire testimonianza in caso di incidenti. Nel quartiere gay della città, il
Castro, ha operato la San Francisco Street Patrol. Un'esperienza simile è stata effettuata a Seattle dalla Q-Patrol
(dove “Q” sta per queer) e dalle New York Pink Panther Patrol, Massachussetts Pynk Panther, Houston QPatrol.
Infatti, se essere out rappresenta un pericolo è lecito chiedersi: chi si può permettere la
visibilità? Da parte del movimento c'è sempre stato un certo sforzo di incoraggiamento al
coming out13, nella convinzione che le politiche del riconoscimento si basino sulla visibilità. La
visibilità produce esempi positivi, catalizza adesioni politiche, ingrossa i ranghi degli attivisti,
riduce l'omofobia interiorizzata, libera dalle costrizioni della segretezza. Tuttavia, molti14 hanno
portato in luce i problemi insiti nella promozione di una visibilità a-critica. Il rischio è quello di
non interrogarsi su quali siano le identità sessuali degne di essere rese visibili, perché, a ben
vedere, non tutte lo sono. Le vetrine della visibilità sono definite in partenza dalla stessa logica
che si cerca di sovvertire, e con esse viene definito quale tipo di conoscenza debba circolare
attorno alle identità riconosciute. Il danno viene subito quando le uniche identità che riescono a
superare l'esame del riconoscimento sono quelle già assimilate e rese inoffensive. I gay e le
lesbiche che “sembrano normali”, per esempio, escludono dall'arena politica e dalla sfera
pubblica tutti coloro che che sono considerati devianti, malati, pervertiti e pericolosi. Persone
queer che vogliono affrancare la propria rappresentazione identitaria e il proprio desiderio
dallo stigma di devianza, patologia, perversione. I movimenti identitari hanno dato un forte
impulso alla circolazione di narrative personali (Zimmerman, 1984); ma quando l'enfasi è stata
posta con troppa leggerezza sulla visibilità, si è alimentata la creazione di ulteriori modelli
normativi, una limitazione dello spettro di identificazioni accolte nella comunità, e una tensione
verso coloro i quali le sfuggivano.
Per tornare all'intreccio tra violenza contro le donne e violenza contro gli omosessuali,
Trasforini identifica il ruolo del discorso medico nella costruzione della consistenza dei corpi;
con la sua visione della donna isterica il sapere medico ha contribuito a indebolire i corpi
rendendo le donne “delle potenziali eterne malate” (Knibiehler cit. in Trasforini 1999, 205).
Anche riguardo all'omosessualità il discorso medico ha prodotto molti saperi, e la retorica della
malattia è stata pervasiva, indicando l'omosessuale via via come deviante, pervertito, pedofilo,
effeminato, degenerato, invertito, etc. Non si può riassumere la secolare ingerenza della
medicina sui corpi omosessuali. Dalla definizione di perversione di matrice ottocentesca, si è
dovuto aspettare fino al 1973 per vedere l'omosessualità fuori dal DSM-II (Diagnostic and
Statistical Manual of Mental Disorders), il documento che definisce lo standard a livello
internazionale per il trattamento delle malattie mentali (APA, 1973). Ma c'è un dato
contemporaneo che ricollega medicina e visibilità e che può essere utile ricordare in questo
contesto. Con il dilagare dell'epidemia di AIDS, i corpi gay hanno dovuto fronteggiare quello
13 Si veda per esempio la campagna ora in corso della Human Rights Campaign Foundation, che si chiama “Talk
about it!” e è volta ad incoraggiare i coming out.
14 Oltre naturlamente a Foucault (1976) e alle sue discussioni dell'ipotesi repressiva e del beneficio del locutore, si
veda nello specifico Roof, 1996.
che sembrava essere un incubo che si tramutava in realtà. La patologizzazione
dell'omosessualità ha acquisito uno spessore materiale, scientificamente testabile, ed endemico.
L'AIDS è diventata la malattia gay e i danni che porta sono biologici e sociali. Pensiamo al fatto
che una categoria particolare di assalitori nei casi di crimini contro gli omosessuali è quella
rappresentata dai soggetti che agiscono sotto la spinta di una dichiarata ideologia anti-gay. Sono
gli stessi, spesso esponenti dell'estrema destra o di raggruppamenti ultra-cristiani, che durante le
loro manifestazioni inalberano cartelli su cui si può leggere “Ringraziamo Dio per l'AIDS” o
“AIDS = la cura per l'omosessualità”. La fantomatica (e un po' invidiata dagli etero)
promiscuità dei gay viene così punita dal castigo divino. La malattia non ha fatto altro che
aumentare la percezione del corpo gay come malato, abbietto, ripugnante, e ora anche
pericoloso. Gli assalitori possono agire non solo in base ai dettami delle proprie ideologie,
contro i corpi abbietti in virtù della purezza morale, ma anche in virtù di un'opera di tutela,
contro i corpi contagiosi. Tutto ciò ha portato a una sovraesposizione del corpo gay guidata da
una logica del sospetto: a partire dall'inizio dell'epidemia, tra gay e non gay si è sviluppato un
insolito expertise nel distinguere un capillare rotto da una lesione da sarcoma di Kaposi.
Eppure, anche se la malattia ha acquisito una certa visibilità, la morte – il suo esito inevitabile –
è rimasta troppo spesso fuori della scena, per le ragioni che vedremo in seguito. In conclusione
possiamo dire che se l'isterizzazione ha reso accessibile il corpo delle donne, la
patologizzazione, e in particolare l'AIDS, hanno reso il corpo gay abbietto e passabile di
eliminazione.
Trasforini conclude il suo lavoro affermando che violenza di genere è “l’autorizzazione
sociale del genere maschile ad accedere senza negoziazione nel territorio della corporalità
personale femminile” (Trasforini 1999, 208); cioè è certamente ammissibile, ma è pur vero che
la violenza di genere non si riduce ad un unico movimento, quello dell'uomo eterosessuale
contro la donna eterosessuale. Far combaciare la violenza di genere con "violenza di un uomo
eterosessuale su una donna eterosessuale" è una riduzione impropria. Il rischio implicito
nell'equivalenza violenza di genere=violenza di uomini etero su donne etero è quello di reificare
ulteriormente una divisione binaria dei generi che si basa sulla subordinazione sessuale della
donna. C'è in effetti chi si spinge in questa direzione, definendo la sottomissione sessuale come
il dispositivo attraverso il quale i corpi diventano sessuati. Ho intenzione di mostrare invece che
anche l'omofobia è un tipo di violenza di genere e che anch'essa deriva non semplicemente dalla
stigmatizzazione sociale dell'omosessualità, ma dal ruolo che questa ricopre nell'economia
eteronormativa che definisce i generi. Jenness e Broad in un articolo del 1994 lamentano il fatto
che le organizzazioni che si occupano di violenza contro gli omosessuali hanno adottato le
strategie dei movimenti femministi, ma non hanno ereditato un'adeguata riflessione di genere.
Per esempio, la scarsa attenzione alla dimensione di genere è dimostrata dal fatto che nella
comunità: “there is no discussion of how lesbians may be raped as a form of antigay and lesbian
violence, and a form of violence against women.”(Jenness e Broad 1994, 414). Se questo è il
punto dire che la comunità omosessuale non riflette sul genere equivale a dire che le lesbiche
non sono pensate come donne perché non viene contemplata la possibilità che siano violentate
in quanto donne. Questo tipo di posizione rivela un paradigma ispirato all'opera MacKinnon,
che è poi quello che ha più di altri informato la politica femminista nel mainstream americano.
Secondo MacKinnon: “gender emerges as the congealed form of the sexualization of inequality
between man and women” (MacKinnon 1987, 6). Seguendo una simile logica si arriva alla
paradossale conclusione che ciò che definisce la Donna è la possibilità di subire violenza, e che
quindi la lesbica è in fondo pur sempre una donna solo in virtù del fatto che può ancora essere
stuprata. E' ovvio quindi che, all'interno di questa logica, la comunità queer non abbia riflettuto
sul genere. In questa economia, si può essere soggetti sessuati solo all'interno di una relazione
eterosessuale abusiva.
Sosteniamo invece che le tecnologie del genere, anche quelle che si basano sulla
violenza, sono infinitamente più pervasive. Nella sua discussione della posizione di
MacKinnon, Judith Butler (2005, 53) mette in luce un paradosso: se il genere è una forma
congelata di subordinazione sessuale, e quindi emerge come prodotto di quella relazione
sessuale, di che genere erano i soggetti che l'hanno iniziata? Come si fa a creare una relazione
in cui l'uomo subordina la donna se prima di questo atto di subordinazione i soggetti non sono
sessuati? Forse è meglio pensare che la subordinazione sessuale e la violenza contro le donne è
solo un tipo di tecnologia del genere, attraverso la quale la norma si riproduce, ma che da sola
non è in grado di installare una soggettività sessuata nell'individuo. La soggettività sessuata,
l'assunzione del genere, è stata indagata con attenzione da Butler; come abbiamo anticipato in
apertura, l'identità nel soggetto si forma a seguito del tabù dell'incesto e della proibizione
dell'omosessualità. Nel tradizionale quadro edipico è il tabù dell'incesto a dare inizio alla
formazione identitaria. Tuttavia Butler fa notare come questo tabù si debba basare
originariamente su una proibizione ancora precedente: quella dell'omosessualità. Infatti: “la
proibizione dell'incesto presuppone la proibizione dell'omosessualità, in quanto presume
l'eterosessualizzazione del desiderio” (ibid., 129), ed è per questo che “il desiderio omosessuale
getta nel panico il genere” (ibid., 131).
Il panico gay
A proposito di panico, come abbiamo anticipato in apertura, nelle cronache giuridiche
della violenza contro gli omosessuali ricorre spesso il concetto di “panico gay” nelle difese
degli imputati (gay panic defence). Molto spesso gli assalitori voglio giustificare i propri atti
sulla base di un tentativo di auto-difesa: il gay (notoriamente promiscuo) è rappresentato come
una sorta di predatore sessuale. Al fine di evitare di essere irretito dal desiderio gay, l'assalitore
reagisce violentemente, in una sorta di stato alterato di consapevolezza. La violenza diventa una
strategia per preservare la propria eterosessualità. Analogamente, la violenza è spesso vissuta
da chi la commette come una riprova della propria eterosessualità: è questo il motivo per cui a
volte la violenza è praticata, spesso da soggetti di giovane età, in gruppo, o sotto la pressione di
un gruppo, davanti al quale si vuole dimostrare di essere “uomini veri”. Collegare queste
considerazioni alle riflessioni di Butler sulla proibizione dell'omosessualità non significa
tracciare un nesso causale per cui tutti gli uomini eterosessuali che agiscono violenza sono
omosessuali repressi. Innanzitutto nel quadro di Butler non è corretto parlare di repressione; la
repressione è un meccanismo messo in atto da un soggetto già formato. La rinuncia
all'attaccamento omosessuale è piuttosto una forclusione, un atto che fonda il soggetto, e che
quindi risulta irrecuperabile. Non si tratta tanto di sanzionare l'attaccamento omosessuale,
quanto di prevenirlo. Ma sebbene non sia corretto individuare un nesso causale e diretto tra la
proibizione dell'omosessualità come meccanismo fondante del soggetto e la violenza
omofobica, è importante capire che la violenza contro gli omosessuali ha a che fare non solo
con la sessualità, ma anche con il genere, sebbene sia l'orientamento sessuale la discriminante
sulla base della quale si accanisce il pregiudizio. L'omofobia è dunque una violenza di genere,
perché è alimentata dal tentativo di solidificare la matrice eterosessuale, matrice che a sua volta
definisce la dicotomia di genere uomo\donna.
Un capitolo a parte meriterebbero le cronache della transviolenza. Il caso che ha avuto
più risonanza anche in Europa è quello di Brandon Teena, il ragazzo transgender violentato e
ucciso in Nebraska nel 1993, la cui storia è ampiamente circolata a seguito di una trasposizione
cinematografica di notevole successo15. Nessun film invece ha ancora raccontato la storia di
Gwen Araujo, una ragazza transgender di diciasette anni, che nel 2002 è stata uccisa da 3
conoscenti. A quanto pare, la ragazza aveva avuto incontri sessuali con ognuno dei suoi
assalitori; dopo che fu forzatamente costretta a mostrare i propri genitali, venne assalita dai tre
ragazzi, colpita in vario in modo, trascinata in un garage e infine strangolata; in seguito i tre
scaricarono il corpo in una zona disabitata. Così come nel caso di Brandon Teena, ciò che
15 Oltre al film, Boys don't Cry (1999), è disponibile un documentario con interviste ai soggetti coinvolti (inclusi i
due assasini) che si intitola: The Brandon Teena Story (1998).
avrebbe dovuto scatenare l'omicidio è la rabbia per essere stati ingannati dal soggetto, inganno
che si tenta di far passare come un'attenuante. Il trans, in questo tipo di retorica, è un soggetto
ingannatore, bugiardo, quindi sostanzialmente malevolo; gli imputati sono le vere vittime,
vittime di un inganno, vittime che devono per di più subire l'onta di non essersi accorti del
tranello. L'insinuazione secondo la quale gli imputati fossero già al corrente della condizione
della vittima è pericolosa, in primo luogo perché smonta la strategia della difesa, e in secondo
luogo perché postula che gli imputati potessero avere un desiderio deviante per il soggetto
trans. E la devianza di questo desiderio è dovuta al fatto che si rivelerebbe essere un desiderio
omosessuale. Quando uno degli assassini di Gwen scoprì che la ragazza aveva genitali maschili
scoppiò a piangere gridando: “I'm not fucking gay! I can't be fucking gay”, e poi la uccise. Il
caso ha fatto scalpore anche perché è avvenuto nella liberale California, a pochi kilometri dalla
capitale queer degli stati uniti: San Francisco. Il conservatorismo - sia esso di matrice anarcoliberale o ultra-cristiana - di cui sono imbevute piccole località come Falls City, Nebraska (dove
venne ucciso Brandon Teena) o Laramie, Wyoming (dove venne commesso l'omicidio di
Mattew Shepard), rendeva più sostenibile la brutalità di certi crimini. Il processo sul caso
Araujo - rallentato da difficoltà concettuali e formali - si è da poco concluso, e con condanne
esemplari. La conseguenza forse più positiva di questa tragica vicenda è stata l'approvazione,
nell'agosto 2006, dell'atto 1160, intitolato Gwen Araujo Justice for Victims Act, che decreta
l'inammissibilità in ambito processuale di difese che si basino sulla “strategia del panico”. Il
panico derivante dalla scoperta che la vittima possiede determinate caratteristiche, incluse
quelle relative all'orientamento sessuale e all'identità di genere16, non è più un'attenuante. Anche
se l'atto per ora è stato approvato nella sola California, è lecito sperare che una legislazione
simile venga adottata anche dagli stati.
La funzione del lutto
La funzione che queste morti hanno assunto a livello dell'immaginario collettivo è
naturalmente il diventare simbolo di una violenza collettivamente esperita, seppur in gradi
minori. Ma sono anche, e forse soprattutto, il canale di sfogo di un lutto che ha bisogno di
essere espresso pubblicamente. A seguito dell'esplosione dell'epidemia di AIDS, la riflessione
teorica e politica ha messo in luce l'importanza dell'espressione pubblica del lutto come
strategia di contrasto all'abiezione. Una morte che non è lecito commemorare rimane un
cadavere fuori dalle mura, fuori dalla definizione di umano. Se, come abbiamo visto, la rinuncia
16 Oltre alle caratteristiche riguardanti tutte le altre categorie tutelate dalla legislazione sugli hate crimes.
al desiderio omosessuale è un atto di forclusione che fonda che fonda il soggetto, la perdita
dell'amore omosessuale è irrisolvibile, è un lutto di cui non si potrà mai addolorarsi perché è un
attaccamento che non è mai esistito. La comunità ha cercato di rispondere a questa esigenza
mettendo in atto varie strategie della memoria. La più conosciuta e diffusa è il Names Quilt
Project, associazione che raccoglie le coperte che, come lapidi morbide, portano i nomi delle
vittime dell'epidemia di AIDS; le coperte vengono periodicamente stese in pubblico e coprono
intere piazze e stadi. Sul web l'iniziativa più importante è "Remembering our Deaths", un sito
che raccoglie i nomi e le storie di quasi 400 persone transgender uccise a causa della propria
identità di genere. Ogni anno a novembre, in tutto il mondo molte associazioni GLBTQI
organizzano eventi per celebrare il “Transgender Day of Remebrance”. Tuttavia, oltre al
desiderio di memoria, nella comunità GLBTQI circola anche una certa rabbia. L'espressione
iperbolica della rabbia che si sprigiona da questi lutti inespressi sono le manifestazioni di ACT
UP, un gruppo alquanto agguerrito attivo nei primi anni novanta. Act Up ha organizzato
funerali politici e sparso le ceneri dei propri morti di AIDS sul prato della Casa Bianca. E'
sempre a cura di Act Up l'opuscolo Queers Read This!. Una delle sezioni del pamphlet è
intitolato “Odio gli etero” ed è un'espressione di risentimento violento: "They've taught us so
well that we not only hide our anger from them, we hide it from each other. WE EVEN HIDE
IT FROM OURSELVES" (Queer Nation, 1997). L'opuscolo, originariamente distribuito in
fotocopia durante una manifestazione a New York nel 1990, circolò e si diffuse in tutta la
nazione, dando inizio a una serie di iniziative analoghe, e ispirando altre organizzazioni
nascenti, tra cui Queer Nation (che acquisterà negli anni seguenti notevole visibilità). Secondo
un'ispirazione simile si tengono in Europa e negli Stati Uniti manifestazioni quali il “Gay
Shame” (in evidente opposizione alla commercializzazione dei Gay Pride) e il “queeruption”17.
La violenza è solitamente esclusa, anche sul piano retorico, dalle politiche identitarie, dai
discorsi delle comunità di "minoranze"; alla base di questa scelta c'è sicuramente un rifiuto
ideologico del valore della violenza, ma anche una volontà di riaffermare la propria diversità
dall'aggressore, il rifiuto di combattere con gli stessi mezzi, di mettersi sullo stesso piano e
passare così "dalla parte del torto"18. Pertanto, perlomeno a livello di retorica, la rivendicazione
17 Crf.: Le passate edizioni di queeruption si sono tenute a Londra, New York, San Francisco, Berlino,
Amsterdam, Sydney, Barcelona, Tel-Aviv www.queeruption.org e www.gayshamesf.org
18 Sarebbe istruttivo in questo senso gettare uno sguardo comparativo sulla retorica della violenza nei movimenti
per i diritti civili e umani degli afroamericani. Negli anni Settanta, quando il Dr. Martin Luther King predicava
il porgi l'altra guancia, Malcolm X rivendicava l'uso di ogni mezzo necessario, violenza inclusa. Il progetto di
Malcolm X non era terroristico, non si trattava cioè di proporre la violenza come strumento di lotta privilegiato,
ma piuttosto di ammetterne la possibilità (possibilità che -peraltro- non venne mai attuata da Malcolm). Come
ben sottolinea Alessandro Portelli nella sua introduzione all'autobiografia di Malcolm X: "gli oppressi non
possono lasciare che le loro forme di lotta siano definite dalla legittimazione della controparte" (Malcolm X
2004, IV)
della violenza è un atto di auto-determinazione; se la legittimità di un movimento è convalidata
dallo stesso potere a cui si oppone, operare scelte illegittime è una mossa strategica che rafforza
il senso di autonomia, la capacità di operare delle scelte.
Se l'omosessualità getta nel panico il genere ha più senso dare l'impressione rassicurante
di essere inoffensivi, di essere “normali”, o piuttosto rivendicare la propria pericolosità? Forse,
bisognerebbe intendersi sul tipo di pericolo che si vuole prefigurare. Se il pericolo è quello di
una violenza di pari brutalità, la sfida è persa in partenza, in termini morali e numerici. Ma se il
pericolo rappresentato dal queer è il disvelamento delle instabilità che percorrono tutti i soggetti
sessuati, allora è bene rassegnarsi all'idea che nessuna identità di genere è al sicuro.
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