Nicola AMATUCCI
Giovanna CAPOLONGO
Donato DE SENA
Raffaele FOGLIA
Isidoro MERCOGLIANO
presentano
IPSE DIXIT
raccolta di appunti di letteratura italiana dall’Illuminismo al
Realismo, tratti dalle spiegazioni del prof. Giovanni La Marca
durante gli anni scolastici 2000/2001 e 2001/2002
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ILLUMINISMO
L’Illuminismo in Europa
L’Illuminismo è uno dei movimenti più importanti della storia della cultura, così come lo furono
l’Umanesimo e il Rinascimento. E’ un movimento che ricopre uno spazio di tempo molto ampio: la
seconda metà del Settecento. E’ così vasto che ricopre tutti i campi dello scibile umano, ogni
disciplina (arte, letteratura, scienze). Esso scaturisce da alcune dottrine filosofiche che lo hanno
preceduto e accompagnato, come l’Empirismo inglese di Francesco Bacone (1561-1626) e John
Locke (1632-1604) e il razionalismo cartesiano, e da una rapida diffusione dello scientismo. Nasce
in Inghilterra, ma trova la sua massima diffusione in Francia, dove si costituisce addirittura una
commissione ufficiale costituita da intellettuali che avevano il compito di disciplinare questo
movimento culturale. Tra gli uomini più importanti troviamo Denis Diderot (1713-1784), Charles
Louis Montesquieu (1689-1755), Jean Le Rond D’Alembert (1717-1783), Jean Jacques Rousseau
(1712-1778), Francoise Marie Voltaire (1694-1778), Robert Turgot (1727-1781), e tanti altri, i quali
diedero vita ad un’opera gigantesca, chiamata Enciclopedia. Proprio per questo furono chiamati
enciclopedisti. L’Enciclopedia, formata da 35 volumi, cominciò ad essere composta proprio
all’inizio della seconda metà del secolo nel 1751, fino al 1780 (furono impegnati addirittura 30
anni!). Era un’opera immensa, straordinaria, mai così tanto sapere era stato inserito in un solo
contesto in maniera così approfondita e ordinata. Il compito degli illuministi, anzi, degli
enciclopedisti, era quello di vagliare tutto il sapere umano e di analizzarlo nei suoi molteplici
aspetti, purgarlo dagli aspetti indegni della cultura umana e di sistemarlo purificato. Avevano il
compito, cioè, di crivellare il sapere umano dalle cose indegne della ragione. Misero da parte tutto
ciò che non poteva essere spiegato razionalmente, con i lumi della ragione, perfino Dio, l’amore, il
sentimento. Secondo gli illuministi la mente umana fino ad allora era stata offuscata, ottenebrata da
superstizioni, religioni, credenze medioevali, la mente umana era stata compromessa da credenze
spiritualistiche, metafisiche, non razionali. Pensavano che nel corso della storia l’uomo era stato
offeso da credenze religiose, volevano abolire, infatti, tali credenze e le varie classi sociali.
Ritenevano il Medioevo l’età dell’ignoranza, dominata da superstizioni antiche, anche il Seicento
per loro aveva ottenebrato la cultura. Volevano ripulire l’uomo, razionalizzarlo. Per gli illuministi
non c’erano differenze tra razze e l’uomo doveva considerarsi tale in ogni parte del mondo. Per gli
illuministi la triade sulla quale si formava la cultura umana, la triade sulla quale si basavano tutte le
loro teorie, era: EGALITE’, LIBERTE’, FRATERNITE’. Gli illuministi, presi da un grande
entusiasmo, volevano cambiare l’uomo e il mondo. Proseguirono senza ostacoli il loro programma
di tipo razionale, per loro non esisteva più nulla che non fosse ragione, volevano cancellare lo
spirito e l’animo umano. Però si esagerò, ad esempio al clero, ritenuto parassita in quanto si
arricchiva ai danni del popolo, furono espropriati tutti i possedimenti. Furono soppressi ordini
religiosi e addirittura fu tolta la statua della Vergine dalla cattedrale di Notre Dame di Parigi,
sostituita con quella della dea Ragione. Gli Illuministi avevano ignorato, quindi, che l’uomo ha
bisogno di amore, amicizia, religione, sentimento. La Rivoluzione Francese nacque come
conseguenza dell’Illuminismo, di questo grande movimento culturale. Però, pian piano si andò a
finire nel sangue e nella repressione.
L’Illuminismo in Italia
L’Illuminismo, nella seconda metà del Settecento, si diffonde anche in Italia, proveniente dalla
Francia e dall’Inghilterra. Ben presto, però, gli intellettuali italiani elaborano una serie di interventi
così incisivi da dare vita a una produzione originale che offre notevoli contributi al dibattito
internazionale. L’ansia di rinnovamento, diffusa in tutti i maggiori centri della penisola, contagia
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anche sovrani e ministri che si sforzano di attuare riforme, svecchiare strutture, migliorare la
situazione economica e la società stessa. L’Italia, insomma, vive un periodo di fioritura e una delle
fasi più fortunate della sua storia culturale. I centri più importanti di elaborazione e diffusione del
pensiero illuministico sono Milano e Napoli. A Milano, il centro più importante dell’Italia
settentrionale, alcuni nobili battaglieri, progressisti e aperti alle nuove idee, fondano nel 1760
l’Accademia dei Pugni che ha lo scopo di diffondere le nuove idee e di combattere ignoranza e
pregiudizi. Strumento di tale diffusione è il periodico Il Caffè, pubblicato tra il 1754 e il 1766, che
vuole stimolare i lettori all’indagine critica, alla riflessione spregiudicata, all’adesione alle idee
nuove in campo politico, giuridico, economico e scientifico. Il Caffè non solo diffonde le idee
elaborate dall’Illuminismo francese e inglese, ma prende precise, originali posizioni sul piano
letterario e linguistico; in particolare si scaglia contro quanti pretendono che la lingua debba
ricalcare schemi e formule ormai passate. I giornalisti de Il Caffè insistono nel ricordare che, come
la società e le istituzioni, anche la lingua si evolve, e polemizzano con i “parolai” seicenteschi, che
usano sovente frasi vuote di contenuto: invitano così a uno stile schietto, limpido, ricco di contenuti,
utile al progresso civile perché chiarificatore delle idee e apportatore di luce di verità. Il modello al
quale si ispirano Pietro Verri (1728-1797), fondatore del giornale, come Alessandro Verri (17411816) e Cesare Beccaria (1738-1794), è l’Enciclopedia. Cesare Beccaria è l’autore di Dei delitti e
delle pene, che costituisce ancor oggi un esempio significativo di umanità, lungimiranza, apertura e
intelligente comprensione delle problematiche sociali. La tesi fondamentale sostenuta in
quest’opera, straordinaria nel Settecento, e valida anche ai giorni nostri, consiste nella
dimostrazione dell’inutilità della pena di morte e della disumanità della tortura. Il Beccarla
concepisce la pena non come una punizione, secondo l’ottica tradizionale, bensì come un mezzo per
far riflettere il reo e indurlo a ravvedersi. La pena di morte è inutile per il colpevole e, lungi
dall’essere un deterrente per i delinquenti, finisce per divenire un macabro spettacolo avidamente
seguito dalla folla. Al contrario, una lunga carcerazione potrebbe essere motivo di riflessione e
incutere, con l’esempio di quanti languono nelle prigioni, timore per il delitto e le sue conseguenze.
Questo libro si diffonde rapidamente e registra un notevole successo, in particolare è lodato da
Voltaire e dagli altri enciclopedisti.
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NEOCLASSICISMO
Il termine “Neoclassicismo” è un vocabolo composto: “neo” significa “nuovo”, mentre con il
termine “Classicismo” indichiamo tutta la cultura classica (latina e greca), ci riferiamo al mondo
antico. Il Neoclassicismo nasce in Europa nella seconda metà avanzata del ‘700 e ruota intorno alla
figura di un grande personaggio, Johann Joachim Winckelmann, nato in Prussia, l’attuale Germania,
nel 1717 (visse fino al 1768). Winkelmann è il personaggio chiave del Neoclassicismo, senza di lui
certamente il Neoclassicismo non avrebbe avuto quello sviluppo, quel forte impulso che
effettivamente ebbe. Egli aveva un grande interesse per le culture antiche, infatti trovava nel
Classicismo, nello studio della cultura classica, la sua piena realizzazione. Da giovane ebbe il
piacere di essere chiamato come bibliotecario presso la corte del conte di Notenitz. Qui a contatto
con l’immensa biblioteca del conte ebbe la possibilità di leggere, studiare e approfondire,
soddisfacendo, così, la sua sete intellettuale. Dopo alcuni anni fu tale la cultura assimilata che lasciò
l’impiego di bibliotecario e decise di toccare con mano ciò che aveva conosciuto attraverso la teoria.
Winkelmann fu amatore profondo della cultura, ma in particolar modo delle arti. Infatti venne in
Italia dove si trovava la cultura antica. Si recò dove tale cultura si era sviluppata, a Roma, Pompei,
Ercolano, seguito da un equipe che si occupò degli scavi. Il suo desiderio fu ampiamente soddisfatto
perché trovò più di quanto egli potesse immaginare. Iniziò così un grande evento nella cultura
mondiale: l’archeologia (studio del passato). Prima non esisteva, ora riceve grande impulso. Gli
scavi prima erano stati effettuati in maniera superficiale. Con Winckelmann viene disciplinato il
materiale e l’organizzazione degli scavi. Cominciano a venire fuori opere monumentali di estrema
importanza, opere colossali, produzioni talmente precise e belle che lasciano Winckelmann e i suoi
seguaci senza respiro. Vengono alla luce opere colossali, in particolare monumenti marmorei che
madre terra aveva gelosamente conservato per oltre duemila anni. Opera importantissima è il
gruppo marmoreo di Laocoonte, attualmente conservato nel Museo Vaticano e ricordato nel II libro
dell’Eneide. Uno scultore greco con lo scalpello da un pezzo di marmo immenso ha scolpito la
scena dei due serpenti mentre uccidono Laocoonte e i suoi due figli. L’opera è bellissima, infatti lo
scultore riesce a cogliere in pieno l’espressione dei personaggi, ma soprattutto riesce ad immortalare
perfettamente il dolore ed lo sgomento di Laocoonte che cerca disperatamente di liberarsi dei
serpenti. E’ uno dei capolavori che vengono alla luce. E’ una delle tante opere che testimoniano la
perfezione raggiunta dal popolo greco. Si raggiunge la perfezione quando si riesce a distaccarsi
dalle cose materiali. Tanti altri gruppi di persone si mossero dall’Europa e si diressero in Italia e in
Grecia alla scoperta delle opere maestose dell’arte classica. Il pensiero va in questa direzione verso
la fine del Settecento: la scoperta del mondo classico. L’architettura, la scultura e la pittura si
rifanno al mondo classico. Canova, ad esempio, è uno degli artisti che segue l’arte classica. Opere
importantissime sono il complesso marmoreo di Amore e Psiche e il gruppo marmoreo delle Tre
Grazie. Da quest’opera, che in realtà è una copia di un’opera di Atanadoro da Rodi, prenderà
spunto il Foscolo per un suo componimento, le Grazie. Anche i mobili nelle case cominciarono a
seguire la moda classica, così come la capigliatura e gli abiti femminili. Napoleone favoriva lo
sviluppo del Neoclassicismo. Tra gli esponenti più ragguardevoli del Neoclassicismo in Italia
troviamo: Vincenzo Monti e Ugo Foscolo. Si va alla ricerca della bellezza ideale, di quel clima di
serenità, pacatezza e dolcezza tipico delle opere greche.
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VINCENZO MONTI
La vita, la personalità e le opere
Vincenzo Monti è un autore molto semplice, che si ricorda con estrema facilità. Insieme al Foscolo
è considerato l’esponente più importante del Neoclassicismo, però, mentre il Foscolo ha sposato
Neoclassicismo e Romanticismo, il Monti è stato solo un neoclassico.
La sua vita è semplice. Nacque a Fusignano, presso Alfonsine, in Romagna, nel 1754. Studiò nel
seminario di Faenza, poi nel 1771 si trasferì a Ferrara dove compì studi giuridici e medici e dove
giovanissimo compose La visione di Ezechiello (1776). Subito si cominciò a guardare con estrema
attenzione questo giovane, Vincenzo Monti, infatti, fu ammirato anche dal cardinale Scipione
Borghese, il quale gli diede l’imput per essere conosciuto. Lo portò con sé a Roma dove trovò un
mecenatismo praticato abbondantemente dall’allora Papa Pio VI, il quale accolse poeti, architetti,
scultori, letterati, artisti di ogni genere. Voleva rendere Roma degna del suo nome, della sua storia.
Favorì gli scavi. Vincenzo Monti trova lì il suo habitat naturale, il contesto ideale in cui
incastonarsi. Già da giovane era studioso dei classici e appassionato di Dante. Vincenzo Monti si
scopre con la vocazione neoclassica, fu invogliato allo studio dei classici soprattutto dalla scoperta
di opere antiche. Vive a Roma per un ventennio (1778-97), il più bello ed importante di tutta la sua
vita, ricco di opere di spunto neoclassico. Viene assunto come segretario da Luigi Braschi, nipote di
Pio VI. Vincenzo Monti si mise subito in mostra, a Roma si fece subito apprezzare. Rappresentava
il massimo esponente della cultura a Roma. Fu rispettato. Conquistò l’amicizia di numerosi
personaggi del tempo, tra cui Wolfgang Goethe. Vincenzo Monti potrebbe essere considerato il
poeta ufficiale del Classicismo papale. Nel 1779, infatti, pubblicò un’ampia raccolta di tutta la sua
precedente produzione poetica, il Saggio di poesie, con dedica all’archeologo ed erudito Ennio
Quirino Visconti (1751-1818), una delle maggiori autorità culturali della Roma neoclassica:
produsse poi una serie fittissima di componimenti, che molto presto fecero di lui la voce poetica
ufficiale della Roma papale e con i quali diede prova della sua bravura. Va, però, sottolineato un
fatto importantissimo: fu un poeta di circostanze ed occasione, non appena si verificava qualcosa di
particolarmente importante, era subito pronto a scrivere un componimento al riguardo. Scrisse la
Prosopopea di Pericle (1779), in occasione del ritrovamento, durante gli scavi del tempo, tra le
numerose opere di un busto di Pericle, importantissimo personaggio greco che grazie alla sua
legislazione guidò la Grecia all’apice della sua potenza, una potenza mai raggiunta prima. Vincenzo
Monti subito compone un’opera straordinaria in occasione dell’evento (il ritrovamento del busto).
Egli immagina che Pericle cammini per le strade di Roma e che rimanga incantato dalle opere di Pio
VI e che affermi che la gloria e la cultura di Roma avevano raggiunto punti superiori rispetto a
quella raggiunti dall’arte e dalla cultura greca del suo tempo. Si pensa che quest’opera non sia
sincera, che sia stata scritta dal Monti al solo scopo di conquistare i favori e le simpatie del Papa.
Scrisse, poi, la Bassvilliana o In morte di Ugo Bassville (1793), opera che ottenne grande successo
come manifesto di poesia antirivoluzionaria, infatti il poeta voleva condannare gli orrori della
Rivoluzione Francese, si scaglia duramente contro di essa. Ugo Bassville era venuto a Roma per
fare propaganda di idee rivoluzionarie ed era amico del poeta. Nel poemetto il Foscolo immagina
che l’anima di Ugo, prima di salire al cielo debba espiare le sue colpe assistendo e considerando i
mali prodotti, gli orrori, della Rivoluzione Francese. L’anima di Ugo, in compagnia di un angelo,
sorvola la Francia scorgendo dovunque scene di crudeltà e di nefandezza finché giunge a Parigi
dove assiste all’uccisione di Luigi XVI. Altra opera è Al signor di Mondgolfier (1784). Fu
composta in occasione della prima volta che l’uomo si alzò da terra, precisamente con la
mongolfiera (pallone aerostatico), chiamata così perché fu inventata dai fratelli Mondgolfier. Siamo
nel periodo di splendore di Vincenzo Monti. L’opera è ricca di elementi neoclassici. L’autore
immagina che Giasone con la sua nave argo parta per la conquista del vello d’oro, primo uomo a
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varcare i mari, tra l’incredulità degli dei, proprio così come erano increduli in quel periodo gli
uomini che guardavano con stupore l’uomo che si alzava da terra per la prima volta. Al signor di
Mondgolfier è una delle celebrazioni delle conquiste fatte dall’uomo. Si accosta anche agli elementi
neoclassici dell’Illuminismo. Compose poi La bellezza dell’universo (1781).per celebrare la
cerimonia del matrimonio tra il suo protettore Luigi Braschi e la Falconieri. Compose Il pellegrino
apostolico, scritto in occasione del viaggio del Papa Pio VI in Austria, dove si recò per frenare le
idee troppo innovatrici dell’imperatore Giuseppe II. Compose tre tragedie: Caio Gracco (1802),
Galeotto Manfredi (1788) e Aristodemo (1786). Nel 1797 abbandona improvvisamente Roma per
recarsi a Milano, dove però incontra un clima e un ambiente opposti. Lì si inneggiava a Napoleone
Bonaparte, si inneggiava contro la Chiesa. Vincenzo Monti, come se non fosse mai stato a Roma,
improvvisamente si schierò contro la Chiesa, cancellò quel ventennio. Fece questo per catturarsi le
amicizie dei Milanesi e di Napoleone. Fece parte addirittura dei Giacobini, gli estremisti della
Rivoluzione. Fu accusato di questo voltafaccia, di questa rottura col passato, ma fu difeso dal
Foscolo. Compose Prometeo (1797), Il bardo della selva nera (1806), La spada di Federico II. Nel
1814 ritornarono gli Austriaci a Milano e Vincenzo Monti, come se nulla fosse stato, abbandonò
Napoleone e appoggiò gli Austriaci per conquistare le loro simpatie. Gli Austriaci, però, guardarono
con diffidenza ad un uomo che cambiava facilmente opinione. Non lo vollero inserire nelle loro
cose. Sposò la bellissima Teresa Pikler. Morì nel 1828 dopo essersi ritirato a vita privata con la
moglie e la figlia Costanza Prima. Poco prima di morire compose Pel giorno onomastico della mia
donna Teresa Pikler (1826). Questa è l’unica opera sincera del Monti, non c’è mitologia e
classicità, ma affetto e amore. La traduzione dell’Iliade, pubblicata nel 1810, è la sua opera più
completa e riuscita. Il Monti fu solo poeta di occasioni, poeta della forma, della forma scorrevole,
composta, elegante, poeta che seguiva la scia classica, poeta bravissimo nel trovare le parole adatte.
Non seppe, però conservare l’amicizia di Ugo Foscolo. Vincenzo Monti fu molto esaltato nel suo
tempo, ma subito la generazione successiva si rese conto che non meritava tanta gloria. Man mano
la sua figura è andata scemando, soprattutto perché la sua poesia non risulta ricca di sensibilità
poetica. Subito il critico Francesco De Santis condannò il suo operato, la sua poesia e la sua vita. Li
riteneva privi di realismo. Un altro critico, poi, Benedetto Croce, cercò di valorizzarlo. Si può dire
che Vincenzo Monti, così come Machiavelli, sentiva di essere nato per stare in alto, sapeva di poter
emergere a qualunque costo, non era nato per stare all’ombra. E’ lo specchio preciso della
situazione politica del suo tempo, dove tutto cambia rapidamente. Quando l’Iliade fu letta dal
Foscolo, col quale il Monti aveva rotto i rapporti, il Foscolo si prese la rivincita affermando:
“Questo è il cavaliero Monti, traduttor dei traduttori di Omero”. Giacomo Leopardi, poi, affermò:
“Poeta dell’orecchio e della forma, ma del cuor in nessun modo” oppure “poeta dell’orecchio e del
suon, ma del contenuto in nessun modo”. In una cosa, però, fu coerente e bisogna riconoscerlo: fu
un difensore strenuo del Neoclassicismo italiano. In una delle sue opere, Sulla Mitologia (1825),
infatti, egli difese a denti stretti il Neoclassicismo contro gli attacchi del nuovo movimento
culturale: il Romanticismo, che nasce proprio in opposizione al Neoclassicismo. Vincenzo Monti ha
difeso fino alla fine quel movimento del quale lui era considerato il massimo esponente. Tuonava
duramente contro il Romanticismo che proveniva, a suo dire, dalla fredda Germania e dalla
caliginosa Inghilterra. Nei primi decenni dell’Ottocento si ha una fase di transizione tra
Neoclassicismo e Romanticismo.
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UGO FOSCOLO
La vita
Ugo Foscolo (1778-1827) è una delle personalità più inquiete e appassionate del nostro Ottocento.
Nato il 6 febbraio 1778 nell’isola greca di Zante, una delle isole Jonie, da un medico Veneziano,
Andrea Foscolo, e da una donna greca, Diamantina Spathis, qualche anno dopo la nascita, nel 1784,
si trasferì con la famiglia a Spalato, dove iniziò i suoi studi di umanità nel seminario locale. Dopo la
morte del padre, avvenuta nel 1788, fece ritorno a Zante dove continuò gli studi, per poi trasferirsi
nel 1793 con la famiglia a Venezia. Qui completa la sua educazione letteraria, compie i primi
esperimenti poetici ed entra in contatto con diversi letterati già affermati. I suoi versi e il suo vivo
ingegno, infatti, ottengono l’amicizia di Ippolito Pindemonte e Melchiorre Cesarotti. Al 1796 risale
l’amore per una certa Laura e per Isabella Teotochi (forse una sola persona) e un soggiorno sui colli
Euganei. Si entusiasma per gli ideali di libertà e uguaglianza sostenuti dalla Rivoluzione Francese,
infatti, risale a quel periodo l’ode A Bonaparte liberatore, e quando, dopo la discesa di Napoleone
in Italia del 1796, anche a Venezia si instaura una repubblica giacobina, ricopre varie cariche
pubbliche. Ma nell’ottobre 1797 con il trattato di Campoformio Napoleone cede Venezia all’Austria
mostrando il più totale disprezzo per gli Italiani e per i valori che egli stesso aveva contribuito a
diffondere. Questo gesto fa crollare tutte le speranze del giovane Foscolo il quale però, nonostante
la profonda delusione, preferisce arruolarsi nell’esercito napoleonico piuttosto che vivere alle
dipendenze di uno stato reazionario come l’Austria. Ha inizio da questo momento la sua vita
errabonda: si reca dapprima a Milano, dove stringe amicizia con Giuseppe Parini (1729-1799) e con
Vincenzo Monti, con la cui moglie Teresa Pikler ebbe una relazione amorosa; si recò, quindi, a
Bologna, in seguito a Genova, per poi ritornare nel 1801 di nuovo a Milano. In questi anni compone
Le ultime lettere di Jacopo Ortis, a cui lavorerà per tutta la vita. Appartengono a questo periodo,
inoltre, le due odi, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata, e una raccolta di
dodici Sonetti. Tra il 1804 e il 1806 si trasferisce in Francia dove fa parte dell’armata Francese che
prepara lo sbarco in Inghilterra. Ha una relazione con una giovane donna inglese, Sofia Emerytt,
dalla quale avrà una figlia, Floriana, che gli starà accanto negli anni dell’esilio. Tornato in Italia
pubblica nel 1807 i Sepolcri, la sua opera più importante nella quale celebra la funzione civile e
politica della tomba. Nel 1808 è nominato professore di eloquenza (termine con il quale si soleva
indicare la letteratura italiana) all’università di Pavia, ma dopo pochi mesi la cattedra viene
soppressa. Deluso, si trasferisce a Firenze dove soggiorna dal 1812 al 1813 e avvia la stesura di
un’altra opera poetica che però resterà incompiuta, Le Grazie. Nel 1814, dopo la caduta di
Napoleone, viene invitato dagli Austriaci, tornati a occupare l’Italia, a dirigere un giornale letterario.
Potrebbe essere il momento della rivalsa dopo tante umiliazioni subite dai Francesi, ma Foscolo si
rende conto che prestando giuramento di fedeltà agli Austriaci perderebbe la sua libertà di
intellettuale e tradirebbe “la nobiltà finora incontaminata del (suo) carattere”, come egli stesso
scrive in una lettera alla madre. Sceglie pertanto la via dell’esilio volontario che lo porta prima in
Svizzera, ad Hottingen ed a Zurigo, e poi, nel 1816, in Inghilterra dove la fama che lo circondava
come scrittore e come cittadino gli procurano una buona accoglienza. Nel 1822 ritrova la figlia, che
aveva ricevuto dalla nonna materna un’eredità di 3000 sterline, dalle quali il poeta avrebbe potuto
trarre uno stabile benessere, ma volle, invece, costruirsi una casa che si trasformò ben presto in un
elegante villino. In esso e in una disgraziata impresa editoriale alla quale si era associato, sparì il
capitale e cominciò l’assillo dei debiti sempre più difficili da soddisfare. Fu costretto a vivere in
miseria nei più bassi quartieri della città di Londra, sempre alla disperata ricerca di guadagno. Morì
a Turnham Green, un villaggio lungo il Tamigi, il 10 settembre 1827.
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La personalità
Nella vita del Foscolo possiamo riscontrare principalmente due costanti: l’amore fortissimo per la
patria e l’insoddisfazione eterna dovuta alla volubilità del suo carattere. Nel suo periodo, la fine del
Settecento, l’Italia è pestata fortemente dal piede straniero, non vi è libertà di espressione e di agire
e lui non riusciva a tollerare ciò, da tutte le sue energie per la liberazione dell’Italia. Vi è un quadro
di insoddisfazione politica. Il suo animo è insoddisfatto, non è mai pago di ciò che sa ed è all’eterna
ricerca di qualcosa che lo possa appagare. Egli va perennemente girovagando alla ricerca di pace e
serenità di città in città. La sua esistenza è contraddistinta da questa insoddisfazione perenne. Si
accorge che la troverà poi soltanto nella morte. Ha un animo volubile, mai pago. Il suo animo è lo
specchio di due secoli che il Manzoni definirà “l’un contro l’altro armato”, vive, infatti, a cavallo tra
Settecento e Ottocento, due secoli in fortissima contrapposizione tra loro (contrasto tra Illuminismo
e Romanticismo). La vita, la personalità e le opere del Foscolo rispecchiano in pieno la situazione
storico-politica-sociale del suo periodo.
Le ultime lettere di Jacopo Ortis
La prima grande opera di Ugo Foscolo è Le ultime lettere di Jacopo Ortis, un romanzo
autobiografico in forma epistolare, pubblicato in molteplici edizioni. Essendo un romanzo,
nell’opera prevale il sentimento, l’amore, essendo un’opera autobiografica, tratta della vita
dell’autore, ed essendo in forma epistolare, è costituita dall’insieme di tante lettere. Jacopo Ortis,
protagonista del romanzo, scrive moltissime lettere ad un suo amico, Lorenzo Alderani, dietro il
quale si nasconde Giambattista Niccolini, poeta amico del Foscolo. Jacopo Ortis scappa dalla
propria patria, sia perché deluso dal trattato di Campoformio con il quale Napoleone aveva barattato
l’Italia all’Austria, sia perché, avendo suscitato l’attenzione del governo per il suo forte desiderio di
libertà, fu costretto all’autoesilio. Si ritira, così, sui Colli Euganei, dove conosce una ragazza di
nome Teresa, della quale si innamora perdutamente. Anche Teresa se ne innamora, ma i due non
possono sposarsi perché il padre di Teresa l’aveva già promessa in sposa ad un certo Odoardo,
uomo benestante e molto più grande lei. Il Foscolo è deluso anche dall’amore per la ragazza. Scappa
anche dai Colli Euganei. Si reca a Bologna, a Venezia, poi a Genova dalla madre per l’estremo
saluto. Jacopo Ortis è eternamente insoddisfatto, pensa al suicidio, è amareggiato dalla realtà, dalla
società, dal contesto nel quale è costretto a vivere. Si reca di nuovo sui Colli Euganei, dove si
uccide con una pugnalata. Vuole libertà. In quest’opera è presente il tema della morte, molto
ricorrente nei componimenti del Foscolo. Ad esempio, nei Sepolcri si parla di temi lugubri, di
tombe, di morti. Addirittura in Foscolo il suicidio appare come una soluzione inevitabile, ma egli
non lo concepisce come il rifiuto della vita, ma assorbe sfumature più profonde e più belle. Iacopo
arriva al suicidio perché vuole vivere una vita diversa, vuole una patria libera, ma non può ottenere
ciò, vuole sposarsi ma non può perché gli altri gli impediscono di vivere la sua vita come vorrebbe.
Egli ama profondamente la vita e proprio per questo se la toglie, perché la rispetta molto. In Foscolo
il tema della morte è onnipresente e supera questo travaglio interiore con il mito delle illusioni. Due
sono le note salienti, le due costanti, che balzano evidenti nell’opera: l’amore per la patria e l’amore
per la donna, che possono essere considerati i due amori più importanti in tutta l’esistenza del
Foscolo. Come mai Ugo Foscolo chiama il suo personaggio Jacopo Ortis? In quel periodo uno
studente di Padova di nome Ortis si era tolto la vita, il Foscolo vuol fare in modo che il nome di
quel ragazzo fosse per sempre ricordato. La poesia è capace di eternare nel tempo un personaggio,
una storia. Perché, poi, Jacopo? Foscolo chiama il suo personaggio Jacopo, perché dedicò l’opera al
suo grande maestro Jean Jacques Rousseau, che aveva scritto due opere importanti che
inneggiavano alla libertà di educazione dei giovani: il Contratto sociale e l’Emilio o
Dell’educazione (1762). Jean Jacques Rousseau aveva sostenuto una tesi: affermava che i giovani
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venivano educati come volevano gli altri. Le leggi sociali volevano che il giovane venisse educato
in un certo modo e non come voleva il giovane (principio di libertà nell’educazione del giovane).
Foscolo voleva la libertà assoluta. Ecco perché il Foscolo dedica la sua opera al Rosseau. L’autore
prese spunto da due romanzi europei allora di moda: la Nouvelle Heloise (1761) di Rosseau, ma
soprattutto I dolori del giovane Werther (1774), del prussiano Johann Wolfgang Goethe. La
differenza tra l’opera del Foscolo e del tedesco è che in quest’ultimo si canta solo l’amore per la
donna, invece, ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis viene presentato l’amore per la patria e per la
donna in ugual misura.
Le odi
L’ode è un opera in versi che vuole elogiare un personaggio o un evento in forma solenne e
maestosa che richiede molto impegno da parte del poeta.
Il Foscolo ha composto due odi: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1800) e All’amica
risanata (1802). Esse sono un inno alla bellezza femminile, il Foscolo, infatti, è stato un grande
amatore di donne, il più grande della letteratura italiana; ha avuto, infatti, anche una relazione con
Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti, suo grande amico. Era, però, volubile, eternamente
insoddisfatto.
A Luigia Pallavicini caduta da cavallo parla della bellezza di una donna che mentre cavalcava sulla
riviera di Sestri Levante andò incontro ad un grave incidente che ne deturpò la bellezza. Il suo
cavallo si sbizzarì facendo cadere la giovane, la quale rimase impigliata e fu trascinata a lungo. Il
Foscolo non può tollerare che una donna venga deturpata della propria bellezza. Le dedica
quest’opera perché possa ritornare più bella di prima. Il poeta nella seconda parte dell’opera si
scaglia contro quell’uomo che per primo affidò quel cavallo nelle mani della donna. L’opera è
traboccante di opere neoclassiche, con diversi richiami alla mitologia classica.
La seconda ode, All’amica risanata, è dedicata ad una donna profondamente amata dal Foscolo,
Antonietta Farniani Arese, con la quale ebbe un lungo periodo d’amore. Malata, fu costretta per
molto tempo nel suo letto, ma in seguito riuscì a superare il momento critico. Il poeta afferma che le
ore erano per lei dodici fanciulle che si muovevano circolarmente danzando. Un tempo erano
ministre che portavano medicinali, ora sono ministre felici che portano monili e ornamenti.
Antonietta sta diventando più felice di prima. E’ una donna bellissima. Foscolo usa l’ode perché
vuole rendere immortale la bellezza della donna. Vi è un richiamo ad elementi classici. Mentre la
prima è solo un elogio alla bellezza, la seconda ode è un elogio non solo alla bellezza ma anche alla
poesia che rende immortali.
I sonetti
Ugo Foscolo scrisse 12 sonetti, che possono essere divisi in 2 gruppi radicalmente diversi. I primi
otto sono i meno importanti, sono poesiole piuttosto arrangiate, sembrano poesie di dilettanti: i
secondi quattro ci presentano il grande Foscolo sia nella forma che nel contenuto. Essi sono: In
morte del fratello Giovanni (1802), Alla sera (1803), A Zacinto (1803), Alla musa (1803).
Preromanticismo inglese e i Sepolcri
Si era diffusa agli inizi del Settecento in tutta Europa una moda poetica, una moda particolare
proveniente dall’Inghilterra: la poesia cimiteriale o ossianica. Con questa poesia i rappresentanti
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volgevano la loro attenzione alla realtà cupa, triste, che porta tristezza, alcuni volgevano la loro
attenzione addirittura ai cimiteri. Questo nuovo tipo di poesia che ebbe un certo seguito fu chiamato
Preromanticismo inglese. I suoi principali esponenti sono Thomas Gray, Anthony Collins, James
Macpherson. Scrissero poesie sui cimiteri. In particolare, Macpherson disse di aver trovato un
antichissimo testo, risalente al III-IV sec. a.C., scritto in lingua gaelica da un certo Ossian. Questo
testo parlava dei cimiteri. Poiché non era scritto in una lingua comprensibile egli traduce le poesie
di Ossian. Poiché parlavano di cimiteri tale poesia è detta cimiteriale o ossianica. Ossian era però un
poeta leggendario. La poesia ossianica pian piano si diffuse in tutta Europa. Arriva in Italia e trova
come esponenti Melchiorre Cesarotti e Ippolito Pindemonte, che iniziò un poema sui cimiteri e
attirò anche l’attenzione di Ugo Foscolo che in un passo dei suoi Sepolcri si accosta a questa poesia
cimiteriale. Nell’anno 1804 Napoleone aveva emanato il famosissimo editto di Saint Cloud, con il
quale intendeva disciplinare le sepolture con delle regole ben precise. Stabilì che i morti non
dovevano essere più seppelliti nelle chiese, ma nei cimiteri ala periferia delle città, lontani dal caos,
dalla frenesia. Lo fece per motivi di ordine igienico. Stabilì, poi, che tutte le tombe dovevano essere
uguali, esse non dovevano portare nomi ma dovevano essere scritti tutti nello stesso modo sulle
pareti perimetrali del cimitero. Tale idea era strettamente legata agli ideali di libertà, uguaglianza e
fratellanza tanto predicati dalla Rivoluzione Francese. L’editto di Saint Cloud non fu accolto con
piacere, non tutto fu accettato. Molti fra i quali Ugo Foscolo non potevano accettare l’idea delle
tombe uguali o delle fosse comuni. Per lui era ingiusto che il corpo di una persona onesta, giusta,
integra moralmente si sarebbe trovato al fianco del corpo di un delinquente, di un disonesto.
L’editto spinse Foscolo alla composizione dell’opera circa la realtà dei Sepolcri, la storia delle
tombe. I Sepolcri è un carme (dal latino “carmen”, che significa “poesia”) di ben 295 endecasillabi
sciolti, dedicati dal poeta al suo amico Ippolito Pindemonte. I critici hanno suddiviso il carme in
varie parti. La teoria che seguiamo è quella dei critici che hanno suddiviso il carme in 5 parti. I parte
(vv.1-50) – riconoscimento della funzione dei sepolcri; II parte (vv.51-90): deprecazione della
nuova legge (editto di Saint Cloud); III parte (vv.91-150): storia delle sepolture dai popoli
antichissimi ai tempi moderni; IV parte (vv.151-212): dimostrazione della funzione civile delle
tombe; V parte (vv.213-295): eternità ideale dei sepolcri anche dopo la loro distruzione, ad opera
della poesia.
Le Grazie
Già nel 1803, in uno scritto a commento della sua traduzione della Chioma di Berenice di
Callimaco, il Foscolo aveva inserito alcuni versi suoi fingendoli di averli tradotti da un antico inno
alle Grazie; più tardi, nel 1812 e 1813, a Venezia, Bologna e Firenze, riprese il progetto di un carme
o inno, lo sviluppò ampliandolo in tre carmi, vi lavorò alacremente, confortato a Bologna
dall’amore, o quasi, per una colta signora, la Cornelia Martinetti, a Firenze da una Eleonora Nencini
e da quella Quirina Mocenni Magiotti che, meglio e più di ogni altra donna, l’amò. L’opera, in
quegli anni di serenità e di amori, gli si sviluppò in una specie di storia poetica dell’incivilimento
umano, nella quale, sulle orme di Vico, immaginò di descrivere in tre inni la nascita delle Grazie e
la storia della civiltà in Grecia, gli effetti benefici prodotti dalla venuta delle dee sulla terra, il culto
delle Grazie celebrato con la danza, il canto e il suono dell’arpa sulla collina di Bellosguardo presso
Firenze, il mito dell’Atlantide, cioè il favoloso continente scomparso, dove solo può vivere ancora
la poesia e dove gli dèi tessono un magico velo a coprire pudicamente la nudità delle Grazie.
La favola e lo stile del poemetto sono, come si vede, tipicamente neoclassici; tuttavia la sua
sostanza va al di là del Neoclassicismo in quanto l’opera è anch’essa, a suo modo, espressione di
quel complesso mondo di affetti da cui erano nati i Sepolcri, le odi, i sonetti: il Foscolo, conscio di
non poter operare liberamente per la malignità dei tempi, a negare il presente si rifà a un passato
mitico di armonia e di bellezza, e ancora una volta, secondo le leggi della sua poetica, mira ad
un’opera in cui tesi e mito, concetto e immagine siano una cosa sola.
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Il poemetto, però, non fu compiuto in quegli anni, e, se anche fu ripreso, ritoccato e rielaborato più
tardi, a lungo, non fu mai terminato, e solo dopo la morte di Foscolo fu messo insieme dagli editori,
con criteri diversi. E’ che il disegno del Foscolo era, qualche volta, troppo ambizioso per la sua
natura: il Foscolo, capace di forti sintesi liriche, come quelle dei Sepolcri, non aveva la forza
intellettuale necessaria, né , forse, l’avevano i suoi tempi, per un’opera fondata su una robusta
architettura concettuale, e Le Grazie sono come una raccolta di liriche, nelle quali l’autore ferma
stati d’animo, fantasie, donne amate, intonando ogni tema ad un medesimo gusto neoclassico, a una
stessa eleganza perfetta di stile, di lingua e di verso, a una stessa ispirazione centrale: il Mito delle
Grazie che, nate dal mare, diffondono col loro sorriso la civiltà delle arti e ingentiliscono gli animi.
Da questo punto di vista, il poemetto è come il momento di arrivo e di conclusione dell’arte di
Foscolo, che, partito dall’irruenza passionale dell’Ortis, era venuto cercando via via una poesia
nella quale gli affetti, le passioni, gli spiriti guerrieri dell’uomo fossero ancora presenti, ma come in
controluce, filtrati, depurati, bruciati: una materia umana di cui non restasse più che una
decantazione suprema.
I tre inni che compongono questo poemetto incompiuto, al quale il Foscolo lavorò lungamente, dal
1803 al 1822, sono intitolati, rispettivamente, A Venere, dea della bellezza e dell’amore, A Vesta,
dea delle virtù domestiche, A Pallade, dea della sapienza e delle arti femminili.
Nel mito classico le Grazie erano tre sorelle, figlie di Venere, dea della grazia e di tutte le
manifestazioni serene e armoniose della vita. Nate in una luminosa giornata di primavera nel mare
tra le isole di Citera e Zacinto, il loro influsso ingentilì i costumi selvaggi degli uomini primitivi:
alle lotte feroci seguì la convivenza civile e ordinata; gli istinti sensuali vennero frenati e
disciplinati. Le Grazie simboleggiano dunque, secondo moduli culturali tipicamente neoclassici, il
dominio della razionalità sugli istinti della forza e della violenza e sulle passioni amorose che,
prorompendo sfrenate, turbano i sensi e l’intelligenza. Tale dominio si realizza soprattutto
attraverso il dominio delle arti, fra le quali è la poesia, dono delle tre giovinette divine. Alle Grazie
il Foscolo immagina che fosse innalzato un tempio sul colle di Bellosguardo, dove invita, quali
ministre del culto, tre donne a lui care, a dire col canto, con la danza e con il suono dell’arpa la loro
gioia e il desiderio profondo di una vita serena e armoniosa. Tuttavia questo ideale di un mondo
rasserenato si realizza pienamente nell’isola favolosa di Atlantide, in cui di tutto il tumulto della
vita non giunge che un’eco smorzata. Qui viene tessuto il velo che servirà a difendere le Grazie
dalle passioni ferine sempre risorgenti negli uomini.
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ROMANTICISMO
Il Romanticismo in Europa
E’ il Manzoni in persona che esplicitamente ci dà una definizione di Romanticismo: “La poesia e la
letteratura in genere devono avere l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”.
Il Romanticismo è un movimento culturale così complesso, ricco, vario, articolato, che è difficile
racchiuderlo o sintetizzarlo in una sola definizione. Senz’altro costituisce il movimento culturale e
letterario più importante della cultura e della letteratura italiana ed europea. Un tenue paragone
potrebbe essere fatto col Rinascimento, altro complesso e grande movimento culturale e letterario. Il
Romanticismo è di così vaste proporzioni che affonda le sue radici molto lontano. Addirittura altri
movimenti fanno ad esso da cuscinetto, come ad esempio il Preromanticismo. Il Romanticismo si
lascia precedere da un altro movimento. Alcuni critici vedono nel Preromanticismo l’inizio del
Romanticismo.
Il Preromanticismo nacque in Inghilterra nella seconda metà del ‘700, quando lì si sviluppò un
modo nuovo e particolare di interpretare la vita e la realtà che circonda l’uomo, un modo nuovo di
interpretare la realtà. Il senso del vago, del mistero, dell’inconscio, dell’oltretomba, del cimitero,
della morte sono i punti cardine sui quali si incentra la produzione preromantica. Infatti, con questo
movimento culturale sorge la poesia cimiteriale, mai trattata prima, i cui maggiori esponenti sono:
Thomas Gray (1716-71), Anthony Collins (1676-1729), Edward Young (1738-1765). Il più
importante esponente del movimento è, però, James Macpherson (1736-1796), famoso perché
massimo esponente della poesia ossianica. Macpherson disse di aver trovato un testo antichissimo
risalente al III sec. a.C. circa, scritto in lingua gaelica da un poeta del tempo di nome Ossian.
L’opera era quasi incomprensibile. Egli si promette di tradurre nel linguaggio del suo tempo la
poesia di Ossian. Ciò in realtà non è vero, è tutta una finzione, non è vero che la poesia è stata presa
da Ossian. Questa poesia che è cimiteriale viene detto appunto ossianica. Questa poesia del
Macpherson riesce ad attirare l’attenzione dei letterati non solo in Inghilterra, ma anche in altre parti
d’Europa. Viene tradotta in Italia dal letterato Melchiorre Cesarotti (1730-1808) e, in seguito, da
Ippolito Pindemonte (1753-1828) e Ugo Foscolo. Questi tre personaggi possono essere identificati
come i tre rappresentanti in Italia della poesia cimiteriale. Il Foscolo solo in parte ha assimilato
questa poesia cimiteriale, fatta di scene sepolcrali, lugubri. Nonostante nelle sue opere egli esprima
il senso della morte e del cimitero non è un preromantico. Solo in un passo dei Sepolcri egli si
avvicina pienamente alla poesia cimiteriale di Macpherson.
Il Romanticismo non tratta argomenti così lugubri e oscuri, ma tali tematiche ne fanno da
introduzione, alcuni critici, infatti, hanno visto nel Preromanticismo inglese l’inizio del
Romanticismo. Questo grande movimento, però, non è nato in Inghilterra, bensì in Prussia grazie ad
un altro movimento culturale detto Sturm und Drung, che tradotto significa “tempesta e assalto” o
“impeto e assalto”. E’un movimento che nasce in opposizione ai classici e alla dottrina fredda e
arida dell’Illuminismo, è un movimento formato soprattutto da giovani che volevano protestare
contro il Classicismo imperante e l’Illuminismo dilagante. Il Classicismo celebrava le belle forme,
l’armonia estetica, i romantici volevano contrapporre ad esso l’originalità, cantavano e celebravano
la libertà di parola che, secondo loro, doveva nascere spontanea e sincera dal libero cuore e doveva
cantare i sentimenti dell’animo umano. L’Illuminismo aveva celebrato i lumi della ragione, per gli
illuministi aveva valore solamente ciò che era spiegabile secondo la ragione, si era ribellato contro il
Medioevo, ricco di superstizioni e credenze religiose. L’Illuminismo viene contrastato fortemente
dal Romanticismo, che celebrava il sentimento, l’amore, la sincerità, la spontaneità. Il
Romanticismo oppone all’Illuminismo il senso spirituale, le cose più belle e dolci dell’animo
umano. Questo cantava il Romanticismo.
Il movimento culturale da quando era piccolo man mano si estese sempre più, raccoglieva sempre
più nella propria orbita nomi di un certo rilievo. Entrano a far parte del movimento Ludwig Tieck
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(1773-1853), Novalis (Friedrich von Hardenberg) (1772-1801), Johann Wolfgang Goethe (17491832), Friedrich Schlegel (1772-1829) e suo fratello August (1767-1845). Questi esponenti, in
particolare i fratelli Schlegel, pubblicarono una rivista, Athenaeum, edita fra il 1798 e il 1800, che
rappresenta il primo strumento di diffusione delle nuove idee, il primo manifesto del Romanticismo.
I fratelli Schlegel sono considerati i pionieri del Romanticismo, anche se precedentemente le loro
erano solamente voci isolate. Grazie allo Sturm und Drang nacque il Romanticismo, che subito
acquistò spazio diffondendosi in maniera rapida. Trovò ampi consensi anche perché l’Europa era
ancora oppressa dal grande movimento precedente: l’Illuminismo. L’Illuminismo era stato un
grande movimento ma appena l’uomo si accorse che mancava la parte più dolce non lo apprezzò
più. Il Romanticismo, che nacque in completa opposizione all’Illuminismo, nonostante trovò delle
opposizioni dovute al fatto che predicava la libertà, la religiosità, contro la razionalità, valicò
acquistando sempre più spazio le frontiere della Prussia diffondendosi in tutta Europa, man mano in
terre sempre più lontane.
Quando il Romanticismo valicò il canale della Manica trovò terreno fertilissimo. Lì, infatti, già si
era diffuso il Preromanticismo, che, nonostante fosse una poesia cimiteriale, rappresentava
comunque una libera espressione dell’animo. In Inghilterra, quindi, Preromanticismo e
Romanticismo si fondono benissimo, diventano un tutt’uno.
In Francia, però, le cose non sono così semplici, qui il terreno non è fertile in particolare per due
motivi. In primis, la Francia era stata la nazione padrona dell’Illuminismo e non era così disponibile
ad un movimento culturale che veniva dall’estero. Trova difficoltà a diffondersi il nuovo
movimento culturale per la forte contrapposizione dell’Illuminismo. Poi, è da notare che a regnare
in quei tempi era Napoleone, un monarca, un oppressore del popolo, un uomo che non accettava
assolutamente il senso di libertà, di libera parola, di popolo, di libera espressione dell’animo, che
predicava il Romanticismo. Egli ostacolò il nuovo movimento. Ma una donna, Madame de Stael
(1766-1817), che intuì nel Romanticismo il senso di libertà, iniziò a portare avanti quelle tesi. Un
altro personaggio che contribuisce fortemente allo sviluppo, alla divulgazione del Romanticismo,
anche se fu una figura secondaria rispetto a Madame de Stael, fu lo scrittore Francois Renè
Chateaubriand (1768-1848). Erano i due principali esponenti di quella corrente romantica e
antilluministica che si diffuse in Francia durante gli anni rivoluzionari e napoleonici. Addirittura
Napoleone in prima persona si accorse che Madame de Stael divulgava le nuove idee di libertà e di
Romanticismo, tentò in tutti i modi di ostacolarla. Addirittura decise di mandarla in esilio, ma, così
facendo, ottenne l’effetto contrario, perché da allora i dotti, i letterati, stupiti del fatto che una
personalità come Napoleone si era accanita così duramente contro una donna, furono incuriositi
dalla nuova corrente culturale e la vollero conoscere.
Il Romanticismo in Italia
Successivamente Madame de Stael venne in Italia, non depose minimamente le proprie teorie, le
proprie idee e iniziò a divulgarle anche nel nostro Paese. Si accorse subito, però, che si trovava in
una situazione difficile: l’Italia era pervasa dal grande Neoclassicismo, aveva ritrovato con quel
movimento il suo antico splendore. Così come era avvenuto in Francia l’Italia non era disposta ad
accogliere il Romanticismo. Vincenzo Monti era in prima persona uno di coloro che si oppose al
nuovo movimento, accusò Madame de Stael di diffondere idee contrarie, la attaccò duramente, così
come attaccò il Romanticismo. Monti era allora il re, il massimo esponente della letteratura italiana,
era il importante rappresentante del Neoclassicismo, aveva in pugno la situazione. Il Romanticismo
avrebbe minato alla base la cattedra culturale di Vincenzo Monti. Quest’ultimo, infatti, puntò
duramente il dito contro Madame de Stael, affermando: “Che cosa pretende di insegnare a noi
questo movimento che proviene dalla fredda Germania e dalla caliginosa Inghilterra?”. Dalla sua
parte trovò molti italiani che si opponevano alla nuova corrente. Vincenzo Monti sapeva che il
Romanticismo lo avrebbe debilitato completamente. Lui avrebbe perduto il profondo patrimonio da
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cui attingere le proprie idee. In Italia si affermarono due tendenze: una romantica e una neoclassica.
Quella neoclassica si serviva della Biblioteca Italiana, un giornale, per diffondere le proprie idee.
Esso era appoggiato anche dall’Austria. Tra gli altri scrivevano sulla Biblioteca Italiana il Monti ed
il Leopardi, che in un primo momento si era opposto al Romanticismo in nome della cultura
classica, probabilmente perché all’inizio il nuovo movimento non fu ben compreso. Per quanto
riguarda la corrente filo-romantica, vi facevano parte Giovanni Berchet (1783-1851), Silvio Pellico
(1789-1854) ed altri. Diedero vita questi ad un nuovo giornale detto Il Conciliatore o Foglio
Azzurro. Il giornale si contrapponeva fortemente alla Biblioteca Italiana, giornale filo-neoclassico,
e intendeva esporre un programma di conciliazione romantica. Quando Il Conciliatore portò avanti
con vigore tematiche forti contro il Neoclassicismo, l’Austria, vedendo in esso una chiara accusa
alla sua tirannide, si insospettì a tal punto che ne vietò la pubblicazione. Il giornale ebbe soltanto
qualche anno di vita, ma il Romanticismo oramai era entrato a far parte con tutta la propria forza
della cultura italiana. De l’Allemagne (1813) è l’opera più importante di Madame de Stael. In Italia,
poi, pubblicò un opuscolo in cui sosteneva i propri principi romantici: Sulla maniera e l’utilità
delle tradizioni (1816). In questo testo non si oppone duramente agli Italiani, ma agisce con
diplomazia, affermando: “Voi italiani avete la vostra cultura ed è giusto che la difendiate perché
immensa, ma non sarebbe male se accanto ad essa voi aggiungiate i nuovi fremiti, le nuove idee,
che si stanno diffondendo in tutta Europa”. A dare man forte a Madame de Stael fu il Berchet con la
sua opera provocatoria Lettera semiseria di Crisostomo al figliuolo (dicembre 1816, Crisostomo è
un nome greco composto di due parole “criuseos”, che significa “oro”, e “stomacos” che significa
“bocca”, quindi Crisostomo significa “bocca d’oro”). Il Berchet prende in ridicolo i letterati italiani
neoclassici fingendo di scrivere una lettera al figlio. Letteralmente “semiseria” significa “metà
seria”. Suggerisce al figlio di continuare studiare i classici così come gli insegnavano i maestri, ma
contemporaneamente gli suggerisce di non restare insensibile ai nuovi fremiti culturali che
giungono dall’Europa. Questa lettera è considerata come il primo vero manifesto del Romanticismo
italiano. Il Romanticismo attirò sempre più nella sua orbita i letterati italiani, prima tramite queste
espressioni, poi in forma più intensa, favorito anche e soprattutto dal Risorgimento, dalla particolare
situazione storica. Nel Risorgimento, infatti, si cercava la libertà, quella stessa libertà predicata dal
Romanticismo, che prese maggiormente piede proprio nella poesia patriottica o politica. Ugo
Foscolo, Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi saranno i tre piloni del Romanticismo non solo
italiano, ma anche europeo. Il Manzoni è il più grande romantico di tutti. Nessuna nazione ha avuto
così grandi rappresentanti. Dalla fine del Settecento in poi in Romanticismo dura come nessun altro
movimento culturale nella storia, lo troviamo addirittura alla base di altri movimenti culturali
successivi, come il Verismo e il Decadentismo, così come troviamo suoi riflessi in tante correnti
culturali del Novecento.
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ALESSANDRO MANZONI
La vita
Alessandro Manzoni è un autore importantissimo, è uno dei piloni della letteratura italiana. Se non
fosse esistito la letteratura italiana non sarebbe stata la stessa. E’ il personaggio chiave del
Romanticismo italiano. Con la sua intelligenza ha rappresentato oltre un cinquantennio
l’espressione più alta della nostra cultura. Il suo pensiero, la sua cultura, si sono propagati anche
dopo la sua morte per molti decenni. Nacque a Milano il 7 marzo 1785 dal ricco proprietario Pietro
e da Giulia Beccaria.
Quest’ultima era la figlia del celeberrimo Cesare Beccaria autore dell’opuscolo Dei delitti e delle
pene, che quando fu pubblicato attirò l’attenzione di autori stranieri (tra i quali Voltaire) e italiani.
Cesare Beccaria fu il primo uomo nella storia dell’umanità nell’esprimere e nel dimostrare la
brutalità, gli orrori della pena di morte. Nell’opuscolo Dei delitti e delle pene si scagliava contro le
punizioni fisiche che avvenivano nelle carceri e contro la pena capitale. Per quanto riguarda le pene
fisiche, egli le riteneva barbarie perché fatte contro esseri che non possono difendersi, la riteneva
una bestialità tipica del Medioevo. Egli affermava l’inutilità di punire una persona fisicamente
quando ha già ottenuto la più grave delle punizioni: la perdita della libertà. Fece molto scalpore tra
l’opinione pubblica il fatto che si schierò contro la pena di morte. Egli affermava che l’uomo non ha
il diritto di punire un altro uomo con la pena capitale perché nel momento in cui infligge questa
orribile punizione si mette allo stesso livello di colui che la subisce. La vita può essere tolta solo da
chi l’ha data: Dio. La pena di morte non fu eliminata subito, ma fecero riflettere molto le idee di
Cesare Beccaria. Quelle idee rimasero immutate nel tempo. Decenni dopo, infatti, la pena capitale
cominciò ad essere eliminata.
Manzoni discende, quindi, già da una famiglia di letterati, già aveva una sensibilità profonda. Pietro
era nobile, ma rozzo, ignorante, insensibile. La moglie era addirittura 25 anni più giovane di lui ed
aveva una cultura immensa, una sensibilità morale e sociale fuori dalla norma. Il matrimonio tra
Pietro Manzoni e Giulia Beccaria, infatti, finì ben presto: nel febbraio del 1792 ci fu la separazione
legale. A subirne le conseguenze, così come capita ancora oggi, fu il figlio, che venne sistemato in
un collegio. In quei tempi si andava in collegio per avere un’istruzione superiore, un’ottima cultura.
Lontano dalla madre, Alessandro così entrò nel collegio dei Padri somaschi, che per sottrarsi
all’occupazione francese, si trasferirono nel 1786 a Lugano; nel 1798, di nuovo a Milano, si trasferì
nel collegio dei Padri barnabiti, che lasciò nel 1801. Intanto la madre era andata a convivere, nel
1795, prima in Inghilterra e poi in Francia, a Parigi, con Carlo Imbonati, dal quale la donna si
sentiva riconosciuta, soprattutto perché trovava in lui la sensibilità tanto desiderata. Giulia Beccaria,
stando a Parigi con Carlo Imbonati, iniziò a frequentare i migliori salotti culturali del tempo come
quello di Claude Fauriel (1772-1844). Carlo Imbonati improvvisamente morì e dopo la sua morte
improvvisamente Manzoni si recò a Parigi per consolare la madre per la morte dell’amico. Carlo
Imbonati fu un amico del Parini che a lui dedicò L’educazione. Poco più tardi il Manzoni dedicò a
Carlo Imbonati un’ode Ode a Carlo Imbonati, in cui immagina che il compagno della madre gli
venga in sogno dandogli degli importanti consigli per la vita. Manzoni venne a contatto con i salotti
parigini e subito si mise in evidenza per la sua viva intelligenza. Morto il padre nel 1807, tornò a
Milano. Anno importantissimo della sua vita è il 1808, quando sposa con rito calvinista
(protestante) la sedicenne svizzera Enrichetta Blondel. Qualche anno più tardi, nel 1810, avvenne un
taglio deciso nella vita del Manzoni, vi è uno spartiacque tra la vita di prima e quella successiva.
Nel 1810 avvenne la conversione. Da quell’anno il Manzoni diventò cattolico profondissimo e
praticante. A cosa è dovuta tale conversione? Innanzitutto alla conversione della moglie,
convertitasi dal calvinismo al cattolicesimo. La vita di Enrichetta Blondel si svolgeva in silenzio,
giusta, comoda, profondamente cristiana, accettava ogni sacrificio. Alessandro Manzoni, che aveva
studiato seguendo la moda del tempo, seguendo, cioè, l’illuminismo, materialista, che privava
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l’uomo della ragione, dello spirito, non si sentiva soddisfatto. Non trovava nelle tesi
dell’illuminismo una risposta ai suoi perché. Alcuni osano attribuire ciò ad un particolare episodio
avvenuto nella chiesa di San Rocco: si narra che egli si trovava nella chiesa con Enrichetta Blondel
durante la celebrazione del matrimonio di Napoleone, che tra l’immensa folla egli smarrì la moglie
e che disperato si sia rivolto a Dio per ritrovarla, chiedendogli un segnale della sua presenza, voleva
ritrovare assolutamente Enrichetta Blondel. Uscito fuori ritrova la donna amata. E’ difficile, però,
che una persona come il Manzoni, dalla viva intelligenza, si sia fatto influenzare da un episodio
occasionale. Cosa certa è che egli sentiva un disagio per la situazione culturale in cui si trovava, si
sentiva insoddisfatto dall’illuminismo, ma trovava nel cristianesimo la risposta ai suoi mille perché.
Lunghe riflessioni e i contatti sempre più frequenti con persone cattoliche, che, quindi, davano
risposte ai tanti perché della coscienza del Manzoni, condussero lo scrittore al momento culminante
del cambiamento. Dal momento della conversione in poi si ha la possibilità di ammirare il grande
Manzoni, fino a quel momento aveva composto delle opere dette giovanili, piccole opere rispetto a
quelle della maturità: un poemetto Adda (1803), In morte di Carlo Imbonati (1805), Il trionfo
della libertà (1801), Urania (1809). In seguito, dopo la composizione di tali opere, dal 1810 in poi
vi è il grande Manzoni che conosciamo. Poiché egli aveva trovato nella fede cristiana l’immensa
soddisfazione, mai trovata precedentemente, giunse a quell’equilibrio interiore da sempre
desiderato.
Gli Inni sacri
Compose gli Inni sacri in onore della Chiesa quasi come ringraziamento. Aveva intenzione di
scrivere 12 inni sacri (tante quante sono le festività religiose). In realtà ne compose 5 ed un sesto
solo in parte. Essi sono: Il Natale (1813), La Passione (1814-15), La Risurrezione (1812), Il nome
di Maria (1812-13), La Pentecoste. L’inno incompleto, del quale abbiamo solo frammenti è
Ognissanti. Ogni inno sacro parla dell’avvenimento che noi troviamo nel titolo.
La Pentecoste può essere divisa dagli altri. E’ un inno sublime, tanto che gli altri non sono alla sua
altezza. Ne La Pentecoste il Manzoni raggiunge l’acme della potenza creatrice. E’un inno solenne e
maestoso dedicato alla Chiesa. Quando lo si legge sembra che un coro di voci invochi la discesa
dello Spirito Santo. “Pentecoste” deriva dal greco “pentecos”, che significa “cinquanta”. Nel giorno
della Pentecoste la Chiesa celebra la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e su Maria Vergine,
rinchiusi nel cenacolo, avvenuta 50 giorni dopo la Resurrezione di Cristo. Dopo 40 giorni dalla
Resurrezione di Cristo vi è l’ascesa di Cristo al cielo, dopo altri 10 giorni vi è la discesa dello
Spirito Santo. Per 10 giorni gli apostoli, abbandonati da Cristo, avevano paura. Non avevano il
coraggio di predicare ciò che Cristo aveva insegnato loro, di diffondere il Vangelo. Il terrore li
teneva chiusi nel Cenacolo. Quando scese lo Spirito Santo su di loro sotto forma di 12 lingue di
fuoco su ciascuno di essi. Esso simboleggiava la forza necessaria che Dio diede loro per divulgare la
parola di Cristo, la buona novella. Da quel momento gli apostoli spalancarono le porte del Cenacolo
per diffondere il Vangelo, sicuri e convinti del loro Cristo, senza più dubbi e paure. Operavano
anche miracoli per il mondo. In Palestina vi era una platea immensa di persone ad ascoltare San
Pietro, erano persone di popoli diversi, di diverse lingue, eppure, mentre Pietro parlava la propria
lingua tutti lo ascoltavano nella propria. La Pentecoste è importante come il Natale, perché se non
fosse disceso lo Spirito Santo, il Vangelo non sarebbe mai diffuso e conosciuto.
Le odi
Ugo Foscolo aveva scritto due odi: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata.
Mentre la prima era un omaggio alla bellezza, la seconda lo è anche alla poesia che rende immortali.
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Anche Alessandro Manzoni ha scritto tre odi, ma di tipo civile o patriottico ed una di cui ci restano
solo frammenti. Le odi sono Il 5 maggio e Marzo 1821. La terza, di minore importanza, e il
Proclama di Rimini.
Il 5 maggio fu addirittura composto di getto, in soli due giorni, alla notizia della morte di
Napoleone, avvenuta a Sant’Elena il 5 maggio 1821, letta sulla Gazzetta di Milano il 17 luglio. Il
Manzoni fa una rassegna della vita di Napoleone, tratta la sua vita, le sue avventure, le sue vittorie,
le sue glorie, ma soprattutto le sue sconfitte, il suo dramma, la sua angoscia. Napoleone è un uomo
nel quale Dio ha messo una particella della sua potenza, ma è pur sempre un uomo. Manzoni è un
profondissimo conoscitore dell’animo umano, tratta il dramma dell’uomo e non dell’imperatore e
riesce a cogliere in pieno il tormento di quell’uomo abbandonato da tutti, costretto all’esilio
tristissimo e doloroso in una lontanissima isola. Napoleone è una creatura normale, travolta dal
tormento, dall’angoscia, dal dolore, che, però, trova aiuto nella divina provvidenza che lo porta con
sé nei cieli.
Per quanto riguarda la seconda ode, Marzo 1821, già la data ci riporta ad un importantissimo evento
storico. Ci troviamo, infatti, nel 1821, anno in cui sorgono i movimenti rivoluzionari, iniziati a Nola
con Morelli e Silvati, i quali si diressero a Napoli per chiedere la Costituzione. Da Napoli, poi, i
movimenti si estesero in ogni parte d’Italia. Il Manzoni ci presenta il particolare momento in cui i
soldati piemontesi lasciano alle loro spalle il Piemonte, varcano il Ticino, fiume al confine tra
Piemonte e Lombardia, per dare il loro aiuto ai fratelli lombardi in difficoltà, in nome della libertà
del popolo. Il poeta immagina che, quando i soldati oltrepassano il Ticino, quando, cioè, si trovano
sull’altra sponda, si rendono conto che quel fiume non rappresenterà più il confine tra due Stati e
che l’Italia da quel momento in poi sarà unita. I Piemontesi e i Lombardi ora sono uniti in nome di
un giuramento: o tutti morti sullo stesso letto o tutti liberi sulla patria libera. A questo giuramento
altri soldati, che non possono restare insensibili al grido della pace e della libertà, giungono da ogni
parte d’Italia, ormai si rendono conto che l’Italia è unita. Il poeta, poi, si rivolge allo straniero
dicendo che egli non ha alcun diritto di porre le sue mani sull’Italia, ormai è pronta per essere
indipendente. La poesia termina con parole meravigliose: “guai infelice che un domani un italiano
dovrà dire - io non c’ero - ”; è un appello commosso col quale il Manzoni sprona calorosamente
ogni italiano ad impugnare le armi. Questo avvenimento dell’esercito piemontese che varcò il
Ticino per andare in Lombardia non avvenne, non si verificò. Stava per capitare, quindi il Manzoni
a tale notizia decise di comporre quest’ode. Solo nel 1848, infatti, si ebbe quest’episodio con i
secondi moti rivoluzionari. L’ode è dedicata ad un soldato tedesco, Teodoro Koerner, morto in
difesa della libertà propria e del suo popolo contro Napoleone, a Lipsia.
Ne Il proclama di Rimini, infine, trovano ancora espressione un forte anelito patriottico e
un’agonistica religiosità di tipo biblico: la lotta contro lo straniero assume un più ampio respiro
universale, che si riconosce nella fraternità tra tutti i popoli in lotta per la loro patria. Il Manzoni
esalta il valore dell’unità, esaltata come la forza che guida la “gente risorta” d’Italia.
Le tragedie
La tragedia è un genere letterario che quasi sempre ha un epilogo drammatico. Nel corso della sua
storia, fin dai Greci, ha avuto un grande sviluppo. I tre più grandi tragediografi furono i greci
Eschilo, Sofocle ed Euripide. Nella letteratura italiana molti autori hanno composto tragedie, anche
il Manzoni. Ne ha composte due: Il conte di Carmagnola e l’Adelchi.
Il conte di Carmagnola (1816-20) è una tragedia impostata in un tempo ben preciso: nel ‘400.
Allora esistevano le compagnie di ventura (eserciti privati, guidati da un privato), che venivano
chiamate dai nobili continuamente per combattere e conquistare terreni. I conti, i principi, avevano
bisogno di uomini. Tali compagnie venivano pagate. Il conte di Carmagnola era il capo di una
compagnia di ventura. Il suo nome è Francesco di Bussone. La tragedia è ambientata in un luogo
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ben preciso, infatti, tutte le opere del Manzoni hanno uno sfondo storico. Francesco di Bussone
aveva combattuto per il ducato di Milano. Vinse la sua battaglia, ma, avendo ottenuto la vittoria,
non inflisse ai nemici la morte, li lasciò liberi. Questo gesto di nobiltà venne interpretato come un
segno di cedimento verso il nemico, come se si fosse messo d’accordo con i vecchi alleati.
Francesco di Bussone fu chiamato a spiegarsi circa quell’azione. Si presentò perché lo aveva fatto
in buona fede, ma fu ritenuto colpevole e condannato a morte. Ecco la tragedia. L’opera è
costituita da pagine bellissime.
L’Adelchi fu composta tra il 1820 e il ’22. Storicamente la tragedia è ambientata negli ultimi
decenni dell’VIII secolo; la tragedia si riferisce al periodo precedente all’incoronazione di Carlo
Magno. Adelchi era il figlio del re Desiderio, re dei Longobardi. Quando il re Desiderio si accorse
che Carlo Magno con le sue imprese stava conquistando tutta l’Europa per creare un nuovo impero
Romano, sotto l’insegna della religione, il Sacro Romano impero, pensò che un giorno anche il suo
regno sarebbe stato assorbito da Carlo Magno, da quell’immenso impero. Si chiese cosa fare.
Doveva assolutamente difendersi. Decise, allora, di agire con una mossa diplomatica. Fece sposare
sua figlia Ermengarda a Carlo Magno. Ma Carlo Magno, dopo un po’ di tempo si stancò della
moglie. Avvenne ciò o per mancanza d’amore o perché Carlo Magno aveva intenzione di
conquistare altri territori. L’imperatore ripudiò Ermengarda. Ermengarda, così, dovette ritornare dal
padre, ma con vergogna e rossore. Decise di chiudersi in un convento restando laica, senza farsi
suora, precisamente nel convento di San Salvatore a Brescia, dove la sorella Ansberga era badessa.
Lì visse i suoi ultimi giorni consumata dal ricordo sempre presente della vita che le era stata così
dura, ricordava il suo amore profondissimo e sincero per Carlo Magno. Anche lì non riusciva a
dimenticare quell’amore che l’aveva resa così felice un giorno. Adelchi è il fratello di Ermengarda,
giovane, figlio di re, obbligato a combattere. Egli non poteva sottrarsi alla battaglia, siccome era
giovane, non amava le lotte, la guerra, era costretto a combattere. Nella sua intimità vi erano delle
contraddizioni forti. Scese in campo e morì tra le braccia del padre, che ascoltava le sue ultime
parole.
In entrambe le tragedie possiamo notare la drammatica sorte di vittime innocenti che con la loro vita
devono pagare la sete di gloria e di vittoria altrui.
Le due tragedie del Manzoni hanno caratteristiche ben precise:
1) Hanno un sostrato decisamente storico, infatti Alessandro Manzoni prima della
composizione dell’opera si interessa e compie approfondite ricerche su ciò che deve
scrivere;
2) La presenza e la nuova funzione dei cori;
3) Il ripudio di 2 delle 3 unità aristoteliche (unità di tempo, luogo ed azione).
Per quanto riguarda il coro, esso non è una novità in campo letterario, esisteva già nella tragedia
greca, era una continuazione della tragedia stessa. Per il Manzoni esso è un “cantuccio” che il poeta
si riserva per presentare un particolare episodio che non può trovare spazio nel corso di una
tragedia. Ma, cosa più importante, questo cantuccio il poeta lo riserva per sé per poter esprimere i
propri punti di vista, le proprie emozioni, il proprio giudizio, senza interferire così nella tragedia.
E’, quindi, un “cantuccio” per dare propria autonomia alle proprie creature.
Tutti gli scrittori di tragedie, poi, erano tenuti a rispettare le 3 unità aristoteliche. Per quanto
riguarda il tempo erano tenuti ad ambientare l’opera in un tempo brevissimo, mentre, per quanto
concerne il luogo, l’autore doveva ambientarle in un solo luogo, l’azione non doveva assolutamente
spostarsi. Chi scriveva tragedie, infine, doveva tener presente il filone principale dando pochissimo
spazio ad episodi marginali. Il Manzoni rifiuta le prime due e rispetta la terza. Per il Manzoni
rispettare le tre unità significava ridurre la fantasia dell’autore, amputare le capacità del creatore.
Come si poteva, poi, ridurre tutte le azioni nello stesso luogo? Perché accetta la terza? Riteneva che
lo spazio principale doveva essere dato all’azione principale e poco ai fatti secondari. Il Manzoni
già aveva esposto queste sue idee in teoria (il rifiuto dell’unità di spazio e di tempo) nella Lettera al
marchese Cesare Taparelli d’Azeglio e nella Lettera al signor Chauvet sull’unità di tempo e di
luogo nella tragedia (1823). Poi ha messo in pratica queste tesi nelle tragedie.
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Invece di chiamarle unità aristoteliche, però, sarebbe opportuno chiamarle unità pseudoaristoteliche. In quel tempo bisognava rispettarle perché dettate dal grande maestro Aristotele. In
realtà Aristotele consigliava soltanto di mantenere una certa unità di tempo e di spazio. Nel
Medioevo si volle interpretare il pensiero di Aristotele con dei canoni estremamente precisi e
schematici. In realtà non aveva mai stabilito tali regole.
I Promessi Sposi
I Promessi Sposi non hanno conosciuto una sola edizione, infatti sono stati pubblicati tre volte. I
titoli sono stati modificati, infatti la prima edizione, la cui stesura durò dal 1821 al 1823, era
intitolata Fermo e Lucia, la seconda Gli Sposi Promessi (1823-1827) e, infine, I Promessi Sposi
(1827-1842). Alessandro Manzoni elaborava continuamente questa grande opera per darle maggior
vigore. Man mano venivano eliminati fatti non proprio coerenti con la trama, episodi piuttosto
pesanti o lunghi, superflui. Manzoni andava alla ricerca di uno stile e di un linguaggio limpidi e
scorrevoli che corrispondevano alle esigenze della Lombardia. Così, si trasferì a Firenze per
purificare la lingua, o, come si suol dire per “risciacquare i propri ceci nell’Arno”. Questa frase
evidenzia in pieno il forte desiderio di voler ripulire il proprio linguaggio da parte di Alessandro
Manzoni. Firenze, infatti, trovandosi al centro dell’Italia, aveva il primato di possedere una lingua
più completa e limpida rispetto agli altri idiomi italiani. Per “cenci”, nome non completamente
italiano, ma appartenente al dialetto lombardo, invece, si indicava qualcosa di sporco. Dopo ciò I
Promessi Sposi, la cui stesura durò circa venti anni, dal 1821 al 1842, conobbero la forma definitiva
e completa. Infatti, mentre quando leggiamo una qualsiasi opera antica, un vecchio scritto, notiamo
una certa differenza con la nostra lingua, col Manzoni, addirittura a quasi due secoli di distanza,
stile e linguaggio non sembrano affatto differenti dai nostri. La lingua è sempre scorrevole, limpida,
quasi uguale alla nostra. I Promesi Sposi sono un romanzo storico, genere letterario inaugurato
qualche anno prima da Walter Scott (1771-1832). Manzoni lo trovava consono e coerente alle
proprie esigenze, lo sposa. Tra tutti i romanzi storici d’Europa I Promessi Sposi è senza dubbio il
migliore, potremmo dire che il Manzoni ha superato con quest’opera l’inventore e l’iniziatore di
quel genere letterario. Il romanzo storico è l’insieme di prodotti della fantasia ben amalgamati con
fatti e personaggi storici. Essi sono così bene miscelati che quando leggiamo non ci rendiamo conto
di ciò che è frutto della fantasia e ciò che è storia. Il romanzo è tipicamente frutto della fantasia,
della mente umana. Ne I Promessi Sposi, ad esempio, Renzo e Lucia, i due protagonisti, così come
don Abbondio, Perpetua, Agnese, sono frutto della fantasia dell’autore, mentre il cardinale
Borromeo, la monaca di Monza, il cancelliere Ferrer, l’innominato, personaggio dietro il quale
dovrebbe nascondersi Francesco Bernardino Visconti, i monatti, i bravi, sono personaggi storici. Ma
quello che veramente dà importanza e potenza all’opera del Manzoni sono gli avvenimenti storici. Il
Manzoni, infatti, mette alla base di tutte le sue opere una realtà storica, il contesto storico nel quale
è ambientato il romanzo è ben preciso. Gli avvenimenti storici che si incontrano alla lettura
dell’opera sono la dominazione spagnola, la calata dei Lanzichenecchi, la carestia a Milano, la
peste, il lazzaretto. Fondere insieme gli elementi della fantasia con i personaggi e gli avvenimenti
della storia è tipico di una grande mente: ecco perché il Manzoni ha superato tutti. Alla lettura
dell’opera balza evidente una realtà viva, vera, palpitante. Troviamo, infatti, rappresentati in tutto il
loro complesso le passioni, i desideri, la cattiveria, la generosità, l’amore, il rancore dell’animo
umano. Manzoni è un profondo conoscitore del cuore umano, conosce bene l’animo con tutti i suoi
vizi e le sue virtù. Egli è come un’aquila che si alza dalla realtà umana, guarda tutte le faccende
degli uomini, vede l’uomo affaticarsi intento a raggiungere i propri scopi, osserva minuziosamente
la sua vita frenetica. La sua bontà accompagna ogni personaggio. Lo scrittore ha le idee chiare circa
la realtà e la vita dell’uomo ed ha la capacità di staccarsi dalla realtà e di staccarla dall’alto,
dall’esterno, infatti fa una ben precisa e completa scissione della società del suo tempo: da una parte
ci sono gli oppressori, dall’altra gli oppressi. Gli oppressori sono coloro che fanno del male, che
opprimono i deboli e i miseri, che conoscono solo l’atteggiamento dell’oppressione. I violenti sono
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coloro che non hanno paura di Dio, sfidano la fede e la religione. Gli oppressi sono coloro che
soffrono, a volte in silenzio, senza accenno di sfogo, senza neppure lamentarsi, coloro che non
possono esercitare i propri diritti. Ne I promessi Sposi tra gli oppressori troviamo don Rodrigo, i
bravi, l’innominato (prima della conversione), la monaca di Monza, i monatti, il dottor
Azzeccagarbugli. Tra gli oppressi troviamo Renzo, Lucia, don Abbondio, padre Cristoforo, Tonio e
Gervaso, Menico, il sagrestano ed altri piccoli personaggi che vengono descritti in maniera
meravigliosa.
Nessun personaggio come la monaca di Monza ha dato tanto tormento al Manzoni. Egli,
affrontando questo personaggio sa di andare incontro ad una realtà oscura, proibita. La monaca di
Monza, Gertrude, è senza dubbio il personaggio più doloroso del romanzo. Ebbe tre figli, fu ritenuta
colpevole di ciò e condannata come una prostituta, murata in una piccola casetta, e dopo la morte il
suo corpo fu bruciato. Manzoni toccando questa realtà si trova in enorme contrasto con la sua
coscienza. Si limita a definirla “sciagurata” e sa che guardando nel profondo del convento sarebbero
potute emergere chissà quali atrocità. La monaca di Monza è una donna oppressa perché vittima
della società in cui vive, ma fa parte anche degli oppressori perché fa ben peggio.
Lo scrittore milanese tratteggia con massima precisione tutti i personaggi senza che egli interferisse
minimamente, senza lasciare la sua impronta. Egli è come se fosse un regista invisibile che fa
muovere tutte le sue creature senza lasciare segno della sua personalità, della sua interiorità. Le sue
creature sono libere, autonome, le fa agire indipendentemente dal suo credo, dalla sua personalità. I
Promessi Sposi sono l’epopea degli umili, il loro canto. A differenza degli altri romanzi storici il
Manzoni non rivolge la sua attenzione ai grandi, ai potenti, ma agli umili e agli oppressi. Nessuno
mai aveva considerato i più deboli, nessuno mai al riguardo aveva scritto una riga. Affonda in loro
la sua riflessione. Dà loro la dignità che gli spetta, che prima era data solo a personaggi di alto
rango. Ciò perché egli è profondamente religioso e conosce gli insegnamenti della Chiesa. Scopre
nei poveri un patrimonio immenso, quella ricchezza infinita che sta nell’intimità delle persone
umili, le quali non si ribellano e accettano i sacrifici. Manzoni sa che la vita sulla terra è una breve
parentesi che prima o poi finirà, ognuno di noi prima o poi giungerà alla sua vera patria, il Paradiso.
Manzoni vede il dolore dappertutto, crede nella visione meccanicistica della vita, si scaglia contro la
natura, per il Manzoni la vita è un crogiuolo col quale l’uomo si purifica. Il fattore religioso è
presente in ogni suo componimento. Per lo scrittore come la Divina Provvidenza è vicina a
Napoleone, così è vicina all’uomo in ogni momento della sua esistenza, essa è sempre vigile e chi
vuole si accorge della sua presenza. La Divina Provvidenza aiuta l’uomo a superare i momenti di
difficoltà. Questa è la poetica del Manzoni. La sventura è ciò che di male può capitare all’uomo, ma
può diventare provvida, benefica, quando l’uomo capisce che con questa sventura si avvicina a Dio,
colui che sa trarre il bene dal male.
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GIACOMO LEOPARDI
La vita
Si dice che nell’antica Grecia gli aedi, i cantori, fossero soliti accompagnare i banchetti col suono
del loro strumento musicale e col loro canto, col quale narravano le gesta di antichi eroi, tramandate
di generazione in generazione. Se Giacomo Leopardi avesse potuto cantare come un aedo, oggi
senza dubbio l’avremmo definito l’aedo del dolore, del pessimismo, della tragedia, della sofferenza.
Se volgiamo lo sguardo intorno, nella letteratura europea, infatti, non troviamo nessun esponente
che abbia saputo rappresentare ed esprimere così bene il dolore. Il Leopardi è, dunque, il cantore del
dolore universale. La vita risulta importantissima per conoscere il suo pensiero. Nasce a Recanati il
29 giugno 1798, agli sgoccioli del XVIII sec. La sua città natale sarebbe stata completamente
ignorata se non avesse avuto la fortuna di essere la patria di un così grande personaggio della cultura
italiana. Recanati era un piccolo paese, un borgo di contadini, di gente ignorante, senza cultura, era
isolato e abbandonato socialmente. Recanati in quel periodo faceva parte dello Stato Pontificio, il
quale era senz’altro felice dell’analfabetismo dilagante, era felice che il popolo restasse arretrato
socialmente e che la cultura non si divulgasse. Il poeta era abbattuto dal fatto che viveva in una
località molto isolata, dove le notizie che capitavano nel mondo giungevano in ritardo e in maniera
sporadica. Il fatto di essere nato in un ambiente misero fu una delle cause che portarono al
pessimismo il Leopardi. Nasce da una famiglia nobile, i conti Leopardi, proprio nel periodo in cui
non si trovavano in una situazione florida, ma in gravi difficoltà economiche. Ciò dipendeva anche
e soprattutto dal fatto che il padre, il conte Monaldo, ritenendosi un letterato, un dotto, si dedicava
solamente allo studio senza curare minimamente i mali della famiglia. Era un uomo di spirito
reazionario che si interessava solamente della cultura. Amava i titoli. Ad esempio, vestiva sempre di
nero, portava la spada al fianco e si vantava di appartenere ad una famiglia nobile. Era un
misoneista, contrario ad ogni tipo di riforma e di novità. Si fornì di una biblioteca immensa, vasta,
ricchissima, con opere preziose che riguardavano ogni campo dello scibile umano. Era anche un
grafomane, aveva, cioè, la mania della bella scrittura, e trascorreva gran parte della giornata
dedicandosi a questa passione senza occuparsi delle difficoltà finanziarie della famiglia ed ai suoi
dieci figli, di cui Giacomo era il primogenito. Ne morirono cinque. La mortalità infantile era di
norma in quei tempi. La moglie, la marchesa Adelaide Antici, anch’ella di origine nobile, era una
donna molto energica, infatti, quando si accorse della triste condizione della sua famiglia si
rimboccò le maniche per correre ai ripari e, con la sua viva intelligenza, riuscì a risolvere la difficile
situazione. Era una persona scrupolosa fino all’esagerazione dei propri doveri, in particolare
religiosi, era di una religiosità eccessiva. Praticava fino in fondo ogni espressione della religione,
ma non perché sentiva di farlo, ma perché così si era soliti fare. Faceva tutto ciò che la società e la
religione le dicevano di fare. Era una donna austera e inflessibile, fredda e poco attiva nei rapporti
umani, il cui atteggiamento inciderà non poco sulla personalità del Leopardi. Amava i figli non
perché nasceva spontaneo in lei quel sentimento, ma perché sapeva che una madre doveva
comportarsi in un certo modo. Tolse ai figli tempo prezioso per recuperare il patrimonio, non furono
molto curati. Giacomo e i suoi fratelli rimasero abbandonati a se stessi. Qui c’è il fondamento del
pessimismo leopardiano. Quando si è piccoli si ha bisogno del calore e dell’affetto materno, di
ricevere stabilità, di avere un appoggio. Crescendo bisogna ricevere ogni forma di protezione e
sicurezza per non essere, poi, insicuri e smarriti. Giacomo venne abbandonato a se stesso, gli
mancava la sicurezza che caratterizza la formazione morale. La madre gli mise accanto un
precettore in casa pensando così di assolvere al suo dovere. Era un prete, istruito, come di moda
presso le famiglie aristocratiche. Per Giacomo Leopardi, dotato di un’intelligenza precocissima non
fu un vantaggio sicuramente. Egli proseguiva i suoi studi con avidità di sapere e immenso spirito di
osservazione, addirittura già all’età di 8-9 anni conosceva le lingue classiche e moderne, tra cui
l’aramaico, lingua antichissima dalla quale deriva l’ebraico. A 10 anni si era formato una cultura
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tale che non aveva più bisogno del precettore. Il suo maestro fu addirittura congedato perché non era
più all’altezza del Leopardi, era stato superato. Da questo momento in poi inizia un periodo non
bello. Vive una vita solitaria, non frequenta le scuole e la vita del paese, si chiude in se stesso
dedicandosi completamente agli studi. Dopo i 10 anni trascorrerà nella biblioteca paterna quelli che
lui stesso definirà “sette anni di studio matto e disperatissimo” (1810-1816). Furono degli anni che
gli distrussero sia la vita morale che fisica (si attenuò, infatti, la vista ed era gobbo). Era tale la
cultura che egli assimilava che verso i 15 anni scrisse un libro sull’astronomia, Storia
dell’astronomia (1813). La famiglia Leopardi, infatti, aveva una forte sensibilità verso le scienze.
Tale opera era così piena di informazioni scientifiche da stupire anche coloro che, in avanzata età,
erano appassionati delle discipline scientifiche. Più tardi, inoltre, compose un saggio, Saggio sopra
gli errori popolari degli antichi (1815). Verso i 16-18 anni, ma anche precedentemente, si diede
allo studio della filologia classica. La filologia è lo studio dell’origine, dell’etimologia delle parole.
Era arduo a quell’età compiere un lavoro di quel genere. Era, però, uno studio freddo, arido, nel
quale non si poteva esprimere niente di sé, nel quale si aveva solo la soddisfazione di trovare
l’origine delle parole. Verso i 19-20 anni abbandonò tali studi per dedicarsi alla poesia,
completamente diversa dalla filologia. Ci fu, quindi, una vera e propria conversione culturale, che
coincide anche con una conversione religiosa. Quella religione che gli era stata inculcata con forza,
come un dovere, con una certa “violenza”, adesso porta il Leopardi ad avere una reazione verso di
essa. Lascia la religione e si dedica alle fredde dottrine ateistiche, meccanicistiche e naturalistiche
dell’Illuminismo, che allora era imperante. Si dà ad una concezione antireligiosa della vita. Si rende
conto che l’ambiente del suo paese è zotico, villano, rozzo. Agli inizi del 1817 è costretto, per le sue
condizioni di salute, ad una pausa forzata nella lettura e nello studio. Quello stesso anno ebbe inizio
l’amicizia col Giordani, che ne intuì immediatamente il genio e ne fu affettuoso confidente e
consigliere. Più tardi deciderà di abbandonare Recanati per raggiungere Roma, città da lui sognata,
punto di incontro di popoli e culture diverse. Sentiva profondamente di dover lasciare la propria
terra per raggiungere la metropoli romana. Sapendo, però, che il padre non gli avrebbe concesso di
fare ciò, progettò di fuggire di casa. Il suo piano fu scoperto ed il poeta fu sottoposto a vigilanza.
Solamente due anni più tardi, nel 1822, riuscì a partire con i suoi sogni nella valigia. Voleva
assolutamente recarsi laddove, secondo lui, regnavano incontrastati scienza e sapere. Rimase, però,
profondamente deluso da quell’ambiente. Scoprì nella città romana tanta adulazione, corruzione e
formalità. Ritornò a Recanati, nell’aprile 1823, ancora più triste di prima. Da quel momento inizia
per il Leopardi una esistenza instabile in giro per l’Italia. Fu a Milano, nel luglio 1825, chiamato
dall’editore Fortunato Stella per pubblicare alcune opere, fu a Bologna nel novembre 1825, dove si
trattenne, salvo una parentesi a Recanati durante l’inverno 1826-1827, fino al giugno del 1827. Da
Bologna si trasferì, poi, a Firenze, dove, grazie al Giordani, conosce il Colletta, il Capponi, il Poerio
ed altri letterati, specie i frequentatori del circolo Vieusseux, il Manzoni, che si trovava lì nel
periodo in cui attendeva alla revisione linguistica del suo romanzo, e stringe amicizia con Antonio
Ranieri. Fu a Pisa dove trascorse l’inverno per poi ritornare, nel 1828, a Recanati. Dopo ogni tappa
ritornava sempre a Recanati. Invitato da Antonio Ranieri a Napoli, con la speranza di trovar
giovamento dal clima più mite, trascorse lì, dall’ottobre del 1833, l’ultimo periodo della sua vita,
stabilendosi in una località alle falde del Vesuvio, tra Torre del Greco e Torre Annunziata. In questi
anni trovò dapprima un breve sollievo, poi i mali ripresero il sopravvento, il suo organismo minato
andò sempre peggiorando e il poeta trascorse gli ultimi anni pazientemente e amorevolmente curato
dall’amico e dalla sorella di lui, Paolina. Morì a Napoli il 14 giugno 1837 all’età di 39 anni. La sua
breve vita è ricchissima di produzione poetica.
Gli Idilli
Giacomo Leopardi è sia un poeta che un prosatore, ha scritto opere sia in versi che in prosa. Ma la
grande gloria la ottiene dalla poesia. Tutte le sue poesie hanno un nome particolare, sono dette
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“canti”, nome che indica una composizione sincera, immediata, che sgorga libera e spontanea
dall’animo. In tali componimenti egli canta in particolare il dolore. I canti del Leopardi sono stati
raggruppati in due gruppi: i piccoli idilli, o primi idilli, e i grandi idilli. “Idillio” deriva dalla parola
greca “idillion”, che significa descrizione di una scena naturale, per lo più campestre, infatti, ogni
paesaggio ci presenta un quadretto particolare. I piccoli idilli furono composti dai venti anni in poi,
quando il Leopardi abbandonò lo studio della filologia per dedicarsi alla poesia. I più importanti
sono: L’infinito (1819), Alla Luna (1819), La sera del dì di festa (1820), gli altri sono di minore
importanza. Dopo la composizione dei piccoli idilli c’è un periodo di silenzio durante il quale il
poeta non scrive nulla. Verso i 27-28 anni riprende la poesia e torna a comporre.
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TRA ROMANTICISMO E REALISMO
L’Ottocento può essere diviso in due grosse parti: la prima metà e la seconda metà. La prima parte
del secolo è caratterizzata dai nobili e fulgidi ideali del Romanticismo, la seconda è dominata
grossomodo da un movimento culturale anch’esso importante: il Realismo. E’ importante
evidenziare la situazione culturale particolare, oscillante, che si viene a creare nel periodo di
passaggio tra i due grandi movimenti culturali che hanno caratterizzato il secolo e che sono
fortemente legati con la situazione storico-politica italiana.
La prima parte del secolo, infatti, ha visto col Romanticismo l’espressione più nobile dei sentimenti
umani, strettamente congiunti con gli ideali di libertà e di patriottismo allora sentiti dal popolo.
Nella prima metà dell’Ottocento si sentiva, quindi, vivamente la voce di tutti quei poeti che si
levava forte per incitare ad una mobilitazione contro lo straniero in nome della libertà. Tutti i poeti
inneggiavano a questo senso di libertà profonda di cui gli italiani avevano bisogno, anzi, diritto.
Anche il Foscolo, il Leopardi ed il Manzoni sono stati tra i tanti poeti che hanno inneggiato alla
libertà del popolo: ad esempio Manzoni nell’ode Marzo 1821 e il Leopardi nel componimento
All’Italia.
Nel 1848, data importantissima, con la I guerra di indipendenza gli italiani si accorgono che non
bastano solamente gli ideali per ottenere i propri scopi, ma ci vuole concretezza, armi, eserciti,
generali, forze militari per potersi liberare dello straniero. Si capisce che non bastano quei mille cori
e mille canti dei poeti. Ci volle una sconfitta clamorosa per far capire all’Italia che c’era bisogno di
armi. Da allora tutto iniziò ad essere visto in una prospettiva ben diversa, in una prospettiva
materialistica, realistica, concreta. Le voci degli artisti ora divennero ben diverse, fatte di sostanza e
concretezza. Nella seconda metà dell’Ottocento si fanno avanti non più teorie spiritualistiche come
quelle di Gioberti, Manzoni, Mazzini, ma teorie che hanno un sostrato fortemente tecnico e
scientifico. Nasce, dunque, il Realismo. In filosofia il movimento che si rifà al Realismo è detto
Positivismo, di cui il massimo esponente è August Comte (1798-1857). In Italia il massimo
rappresentante è Roberto Ardigò (1828-1920). In campo letterario il Realismo è detto Naturalismo,
mentre in Italia Verismo. Il movimento, che è di livello europeo, quindi, prende vari nomi a seconda
delle discipline e della località.
Il Secondo Romanticismo
In Italia prima del Realismo vi è qualche altro movimento minore, ma fondamentale per inquadrare
la situazione culturale del secolo. Nasce, innanzitutto, il Secondo Romanticismo, un movimento
culturale che sarebbe opportuno definire come una “decadenza del Primo o Grande Romanticismo”.
Tramontati i nomi di Foscolo, Manzoni e Leopardi, i piloni della letteratura italiana nella prima
metà dell’Ottocento, non ci fu nessuno in grado di raccogliere tale immensa eredità letteraria. Non
ci fu nessuna voce potente, all’altezza di quei personaggi della prima metà del secolo. Si finisce in
un Romanticismo languido, sdolcinato, femmineo, privo di concretezza e sostanza. I letterati del
tempo amavano storielle di persone che destano compassione, poesiole che conducono alla lacrima
il lettore, componimenti che commuovono; viene a mancare la grande potenza, la genialità, la
sincerità e la genuinità dei componimenti del Foscolo, del Manzoni e del Leopardi. I due massimi
esponenti del Secondo Romanticismo sono Giovanni Prati (1814-1884) e Aleardo Aleardi (18121878). I letterati di questo movimento trattano solo storie languide e avventure sdolcinate, come
l’Edmengarda (1843) del Prati, un componimento in cinque canti in versi sciolti che tratta la storia
di una giovane donna, che, presa da un altro amore, abbandona il marito ed i figli per seguire il suo
amante. Lasciata da questo e senza mezzi, torna a Venezia dal marito che l’aiuta col denaro ma non
la riammette nel suo affetto; anzi, per fuggire la tentazione di cederle, lascia Venezia coi figli.
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La Scapigliatura Milanese o Terzo Romanticismo
Verso gli anni 1860-1880 nasce in Lombardia un nuovo e particolare movimento culturale: la
Scapigliatura Milanese o Terzo Romanticismo. Il nome originale del movimento potrebbe sembrare
strano, ma esso ne denota con precisione il quadro letterario. Il Terzo Romanticismo nasce da un
gruppo di giovani, detti “Scapigliati”, in contrasto al languido Romanticismo, in opposizione alle
note tristi e malinconiche del Prati e di Aleardi, in nome di una libertà assoluta sociale e di vita. Si
trattava di un gruppo di contestatori della cultura del tempo, della cultura tradizionale, della cultura
passata, un gruppo di giovani che si opponeva alla società del proprio tempo, a tutti e ad ogni cosa.
Si ritenevano liberi da ogni vincolo col passato e con la società presente. Vestivano con abiti
particolari, avevano capelli lunghi e barba incolta, erano trascurati, trasandati nella persona e nei
comportamenti, dediti al vizio, all’alcol, alle sostanze stupefacenti. Il loro era un modo particolare
di lottare con la società e staccarsi da tutto e da tutti. Morirono di tisi o bruciati dall’alcol. Sono
paragonabili ai cosiddetti Bohème parigini. Erano in forte contrasto con i più grandi letterati ed i
maggiori esponenti della società civile e religiosa del tempo: il clero, il papa, il Manzoni et cetera. Il
maggiore esponente della Scapigliatura Milanese fu Giuseppe Rovani (1818-1874), al quale si
affiancarono Giovanni Camerana (1845-1905), i fratelli Arrigo (1842-1918) e Camillo Boito (19361914), Carlo Dossi (1849-1910), Iginio Ugo Tarchetti (1841-1869) ed Emilio Praga (1839-1875),
che nella sua raccolta di poesie Penombre (1864), scrive, rivolgendosi al Manzoni: ”Tu puoi
crepare: questa è l’ora degli anticristi”. Altra espressione degli Scapigliati contro Manzoni è: ”Tu sei
lo bue ed io sono il pungiglione”. Il movimento degli Scapigliati fu come una meteora, comparsa
improvvisamente e poi svanita nel nulla.
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REALISMO
Il secondo Ottocento vede come protagonista un nuovo importante movimento culturale: il
Realismo. Con la crisi del Romanticismo subentra nella vita un nuovo modo di vedere e interpretare
la realtà, una realtà nuda e cruda che l’uomo vuole analizzare. Finiscono i grandi sogni ed i grandi
ideali caratteristici del Romanticismo, che avevano dominato la prima metà dell’Ottocento: l’uomo
ora rivolge l’attenzione alle cose reali della vita, all’individuo come parte integrante della realtà e
della natura che lo circonda. L’uomo è visto ora con i suoi dolori, le sue angosce, le sue sofferenze.
Sorgono col Realismo nuove teorie che sono nettamente contrapposte a quelle romantiche: le teorie
evoluzionistiche di Charles Robert Darwin (1809-1882) e di Herbert Spencer (1820-1903) e dal
determinismo storico di Hippolyte Adolphe Taine (1828-1893), secondo cui l’opera d’arte è il
prodotto necessario meccanico di alcuni fattori generali come il clima, la razza, l’ambiente e sterno,
i gusti e le idee del tempo, il peso del passato. Svaniscono completamente tutti i fattori e le opere
realizzati grazie alla fantasia e agli ideali. Jean Baptiste Lamarck (1744-1829), Herbert Spencer e
Charles Darwin sono i nomi di coloro che hanno dato una spiegazione scientifica alla cultura.
Questo fenomeno non riguarda un paese specifico ma tutta l’Europa e prende nomi diversi a
seconda del luogo in cui si sviluppa e della disciplina che coinvolge. In campo filosofico il
movimento che si rifà al Realismo è detto Positivismo, mentre in letteratura prende il nome di
Verismo in Italia e di Naturalismo in Francia. I Veristi, ma soprattutto i Naturalisti francesi,
descrivevano la realtà oggettivamente e in maniera distaccata, così come essa appariva ai loro occhi,
rispettandola in se stessa, senza amore o ira, senza, cioè, modificarla con i propri punti di vista.
Ritenevano che il loro prodotto doveva essere come una fotografia della realtà che li circondava e,
quindi, lo scrittore doveva fungere da fotografo. L’opera doveva apparire come un documentario
freddo, lontano, distaccato. Questa situazione viene affrontata anche in Italia, dove si aggiungono
altre importanti caratteristiche tipiche della nostra penisola. In Italia, infatti, nella seconda metà
dell’Ottocento c’erano problemi enormi: l’unità da poco era stata raggiunta e sulla stessa terra si
trovavano a convivere persone con culture, tradizioni e usanze molto diverse. “Fatta l’Italia,
bisognava fare gli italiani” (Camillo Benso, conte di Cavour). L’Italia del Nord era già progredita,
aperta all’Europa, mentre al Sud era povera, misera, arretrata, quasi completamente analfabeta,
pativa la fame, le miserie e le famiglie dovevano dare i propri figli per il servizio di leva proprio nel
pieno delle loro forze, proprio nel momento in cui avrebbero potuto dare una mano alla famiglia.
Molte famiglie, pur di sopravvivere, furono costrette a darsi al brigantaggio. Il nuovo movimento
culturale metteva le radici e si innestava bene proprio lì, nelle triste condizioni in cui versava
l’Italia. In quel periodo mancavano le strade, le scuole, gli ospedali, tutte le strutture civili. Il
Verismo trova, quindi, terreno fertile nell’Italia meridionale, infatti, tutti meridionali sono gli autori
veristi. I due più importanti sono Luigi Capuana (1839-1915) e Giovanni Verga (1840-1922), che
riflettono nelle loro opere la loro condizione di meridionali. In Francia come detto, il movimento del
Realismo in campo letterario prende il nome di Naturalismo. I naturalisti francesi sono personaggi
di un grande rilievo. Il precursore del Naturalismo francese è Honorè de Balzac. Altri imporatanti
esponenti sono: Guy de Maupassant (1850-1893), Gustave Flaubert (1821-1880), autore del
romanzo Salammbò (1862) e di Madame Bovary (1856), Emile Zola (1840-1902), autore di Il
ventre di Parigi, Germinal e Nanà. Questi autori affondano la propria attenzione in ambienti
particolari, non descrivono la realtà così com’è, ma affondano le proprie radici in quella parte di
società bandita dalla società stessa, dove vivono gli emarginati e abbrutiti consumati dall’alcol e
dall’omosessualità, i barboni e tutti coloro che, forse, hanno dimenticato anche se stessi. In questo
tipo di società dolente e dolorosa inseriscono i loro personaggi, forse per mettere in evidenza
l’opposto, la ricchezza, e contestarla. In Inghilterra troviamo Charles John Huffam Dickens (18121870), autore di David Copperfield (1849-1850), in Russia troviamo Fedor Michajlovic
Dostoievsky (1821-1881), autore de I fratelli Karamavoz (1879-1880) e Lev Nikolaevic Tolstoi
(1828-1910), autore di Guerra e pace (1869), Anna Karemina (1877) e Resurrezione (1899).
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VERISMO
Il Verismo è un movimento culturale importantissimo che si innesta nel contesto realistico che
pervade l’Europa dell’Ottocento. Il suo primo importante rappresentante è Luigi Capuana.
Luigi Capuana
Luigi Capuana viene definito “il teorico del Verismo”; è colui che ha dato la definizione di come si
deve comportare il Verismo. Egli riteneva che “l’ufficio della letteratura è lo studio e la
rappresentazione rigorosamente scientifica della realtà sociale e umana”, in questo sintetizzava la
struttura su cui poggia il verismo. Tutto deve essere visto con massima imparzialità, loscrittore deve
essere al di fuori di ciò che presenta, lo deve descrivere senza farsi prendere da sentimenti verso le
creature, gli episodi, la realtà. Deve essere giudice, arbitro fresso, severo ed obiettivo. Già Benedetto
Croce faceva osservare che non è possibile un’arte simile perché provenendo dalla mente umana
risponde ai sentimenti dello scrittore. Ciò bisogna sottolinearlo, infatti Luigi Capuana, Giovanni
Verga e tutti gli altri esponenti del Verismo non riusciranno mai ad essere imparziali nelle loro
opere: c’è sempre una vena di umanità che serpeggia qua e là, non è molto evidente, ma ad un
occhio attento la si intravede e fa parte del nostro patrimonio italiano il fatto di creare i personaggi
secondo un’identità ben precisa. Con l’opera Giacinta (1879) inizia in Italia la letteratura verista.
Quest’opera potrebbe essere considerata come il vero e proprio manifesto del Verismo. Il mondo di
Luigi Capuana è quello degli altri veristi. Lo scrittore rivolge la sua attenzione alla povera gente,
dove c’è miseria, dolore, sofferenza, ma nello stesso tempo dignità umana. Il Verismo è lontano dal
Naturalismo che trattava la gente emarginata, i casi disperati. Il Verismo affonda le sue radici in una
realtà comune, vera, palpitante, giornaliera. I veristi rivolgono la loro attenzione a quelli che il
Manzoni definiva gli “oppressi”. Rivolgevano la loro attenzione ad un mondo fatto da gente umile
che conduce la propria esistenza tra mille difficoltà, da quella gente che il destino ha posto in una
situazione sfavorevole e che sanno che non potranno mai cambiare la loro condizione. Il fotografo
per i veristi doveva essere il fotografo della realtà.
L’opera più importante di Luigi Capuana è Il marchese di Roccaverdina (1901). Un gentiluomo, il
marchese di Roccaverdina, tiene in casa sua una contadina molto bella. La contadina è innamorata
di lui. La donna è tenuta come schiava e non solo, vuole regolizzare la posizione della donna, di
nome Agrippina Solmo, e la fa sposare co un suo garzone, Rocco Criscione, a condizione che non si
tocchino. Solo una cosa apparente per non avere problemi. Ma nel marchese nasce il dubbio del
tradimento. Il dubbio diventa sempre più intenso fino a quando il pensiero del tradimento non gli dà
più pace. Il marchese uccide Rocco, ma del delitto viene incolpato un altro uomo, costretto a pagare
per una colpa che non ha commesso. Nel marchese subentra un rimorso che prende il posto del
dubbio e non gli dà pace. Egli pensa di parlarne con qualcuno e ne parla ad un confessore. Fatto ciò
non sistema la coscienza, infatti gli sorge il dubbio del sacerdote che avrebbe potuto rivelare il
segreto. La sua coscienza lo porta alla follia e ad uccidersi. Muore abbandonato da tutti assistito
dalla sola Agrippina che veramente lo aveva amato. E’ una storiella semplice ma verosimile, infatti
riflette pienamente alcune caratteristiche dela Sicilia, ci porta un quadro della società siciliana del
tempo.
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GIOVANNI VERGA
La vita
Luigi Capuana è stato il teorico del Verismo ed ha occupato nell’ambito di questa corrente culturale
un posto di rilievo, ma il maestro ed il più grande rappresentante del movimento è stato Giovanni
Verga, il più grande scrittore del secolo dopo Alessandro Manzoni. Mentre la prima metà del secolo
è dominata dalla figura del Manzoni, la seconda parte da Verga, grande rappresentante della cultura
e della prosa italiana. Quasi tutti i veristi sono meridionali, in particolare siciliani, perché in Italia
meridionale le condizioni sociali erano tristi.
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, quindi il suo operare si svolge nella seconda metà del
secolo. Svolge a Catania i suoi studi. A 29 anni sente il desiderio di conoscere i più grandi
rappresentanti della cultura in Italia. I maggiori centri culturali della penisola erano allora Milano e
Firenze. Lascia, quindi, la Sicilia smanioso di inserirsi nei vari movimenti culturali. A Firenze
stringe amicizia con i rappresentanti del Secondo Romanticismo, Giovanni Prati e Aleardo Aleardi,
e conosce anche il suo compaesano Luigi Capuana. La sua preparazione, apparentemente, dovrebbe
essere come quella del Secondo Romanticismo, ma il Verga trae da quel movimento solo le note più
belle e importanti, non il femmineo e superfluo. Filtra quel movimento culturale.
Dopo qualche tempo, però, è desideroso di conoscere una cultura superiore, si reca a Milano dove
vive per oltre un ventennio e dove dimostra la sua grandezza. Viene in contatto con la Scapigliatura
Milanese e filtra anche quel movimento, prende ciò che è più consono alla sua mentalità, alla sua
moralità. È a Milano, centro che risentiva dell’eco culturale europea, che si forma la sua cultura vera
e propria. Dopo un ventennio torna in Sicilia ma ormai si è esaurita in lui la vena poetica. La sua
prosa può essere considerata una poesia. Morirà piuttosto solo e dimenticato nel 1922. La sua non è
una vita avventurosa come quella del Manzoni e del Foscolo, ma caratterizzata da pochi
spostamenti.
Le opere giovanili
Il Verga già da giovane cominciò a comporre. La prima produzione del poeta è caratterizzata da
romanzi storici. Una delle sue prime opere è I carbonari della montagna (1862), in cui si parla di
una rivolta dei siciliani contro i francesi del Murat. Compose Sulle lagune (1863), in cui narra
l’amore di un ufficiale dell’esercito austriaco verso una fanciulla italiana il cui padre è prigioniero in
una prigione austriaca.
Dopo queste opere, a contatto con la Scapigliatura Milanese il poeta reagisce a queste forme di
soggettivismo e inizia a volgere lo sguardo alla realtà. Compone Una peccatrice (1866),storia di un
modesto studente, Pietro Brusco, e del suo disperato amore verso la contessa di Prato, elegante e
capricciosa, che alla fine si uccide col veleno. L’opera più importante del periodo giovanile è Storia
di una capinera (1871), il componimento più letto per oltre 20 anni, che alla sua pubblicazione
suscitò grande scalpore. Quest’opera tratta la storia di una ragazza che, uscita temporaneamente da
un convento con delle lettere rivela ad un’amica come ella senta in campagna l’anima aprirsi alla
vita e all’amore e come senta il forte desiderio di condurre una vita normale piuttosto che monacale.
Ella lì si innamora di un amico, ma non può ricambiare perché obbligata a rimanere in convento.
L’amore non le darà mai tregua. Straziata dal rimorso e dalla gelosia lascerà colui che ama per
ritornare in convento. Quel giovane sposerà la sorella. La giovane morirà di pazzia e tisi. Compose,
poi: Eva (1879), l’alterna vicenda dell’amore di Enrico Lanti ed Eva, un amore che muore
nell’uomo quando la donna non è più la splendida creatura di lusso che aveva colpito la sua fantasia
e che risorge quando la donna riprende il suo ruolo; Tigre reale (1779), in cui si narra il torbido
amore di Giorgio La Ferlita per Nata, una nevrotica giovane contessa russa malata di corpo e di
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spirito; con Eros (1875), poi, ultima delle opere giovanili, il Verga ancora una volta tratta una storia
di passioni sfrenate, qui di Alberto Alberti per Valleda, storia fatta di tradimenti, di tisi e di morte e
caratterizzata dal suicidio, anche, del protagonista.
Opere della maturità
E’ verso i 40 anni che il Verga scopre in sé una vocazione particolare. Verso quegli anni comincia a
scoprire nella gente intorno a lui, nella realtà che lo circonda, la sua vera tendenza, quella di verista.
Abbandona le idee delle opere giovanili, si dedica ad una nuova letteratura, il Verismo, mettendo da
parte ogni espressione giovanile. Fino ai 29 anni era stato in Sicilia ed aveva potuto comprendere a
fondo i problemi della sua gente e della sua terra, terra di contadini, pescatori, analfabeti, povera
gente, che vive in maniera umile ma dignitosa la propria esistenza. Era gente che non aveva sogni
particolari, che si accontentava di ciò che aveva e non aveva illusioni per la vita. Il mondo della
Sicilia e di tutta l’Italia meridinale era fatto di queste persone, persone che lottavano per portare il
pane a casa, senza sogni. Il Verga a Firenze aveva trovato tanta adulazione e ipocrisia, in Sicilia
sincerità pura. Verso i 40 anni riscopre, quindi, la vita del suo mondo, quel mondo in cui c’erano
miseria e squallore dappertutto, ma si viveva dignitosamente, quel mondo ricco di sofferenza e
dolore, nel quale le famiglie perdevano i propri figli a causa del servizio di leva proprio quando
erano nel pieno delle loro forze, proprio nel momento in cui avrebbero potuto dare una mano alla
famiglia stessa. È questo il mondo che Verga trasporta nelle sue opere.
L’opera Nedda (1874) può essere considerata come un’opera di passaggio tra le opere giovanili e
quelle della maturità. È la storia di una contadina orfana, Nedda (diminutivo di Sebastianedda), che
ama ed è amata da un giovane. Rimane incinta e mette al mondo una bambina. Se oggi è un enorme
disonore essere una ragazza madre, nel periodo in cui fu composta l’opera era inconcepibile, infatti,
una ragazza-madre veniva emarginata e considerata di un rango inferiore addirittura a quello di una
prostituta. La giovane, però, testardamente continua la sua vita perché è sicura che presto si sposerà,
ma il destino le è fortemente avverso. Il giovane fidanzato muore cadendo da un albero e la lascia
sola, nel dolore e nella tristezza più profondi. Nedda metterà al mondo una bambina che non sa
come sfamare. Ridotta in povertà morirà di fame insieme alla sua bambina. È un dramma che fa
venire i brividi.
Le raccolte
La grande produzione del Verga, quella che lo ha immortalato tra i grandi della letteratura italiana, è
rappresentata da un numero limitato di opere: due raccolte e due romanzi che si sono alternati nella
loro stesura. Ogni raccolta contiene una grande quantità di componimenti composti dal 1880 in poi.
Esse sono: Vita dei campi (1880) e Novelle Rusticane (1883).
Vita dei campi è composta da 8 famosi racconti: Cavalleria rusticana, La lupa, Fantasticheria, in
cui c’è già il germe de I Malavoglia, Jali il pastore, Rosso Malpelo, L’amante di Gramigna,
Guerra di Santi, Pentolaccia. In questa raccolta si incontrano storie di poveri disgraziati legati alla
loro terra, scene selvagge e tragiche della passione violenta, della gelosia, della vendetta.
Nella seconda raccolta, Novelle rusticane, troviamo, a differenza di Vita dei campi, un umorismo
doloroso, il dramma della miseria e anche la rappresentazione delle lotte sociali dei contadini
siciliani negli ultimi anni del regno dei Borboni e nei primi del Regno d’Italia. Tra i componimenti
più importanti della raccolta troviamo: La roba, in cui c’è già il germe di Mastro don Gesualdo,
Malaria, Pane nero, Don Licciu papa.
I romanzi
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Nel 1878 Verga aveva concepito il maestoso disegno di rappresentare l’uomo con la sua storia visto
nelle varie sfere sociali cui egli apparteneva. Pensò allora di scrivere un ciclo di 5 romanzi dal nome
Ciclo dei Vinti: I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni,
L’uomo di lusso. Dai titoli ci si rende conto subito che il Verga vuole analizzare l’uomo nei suoi
vari strati sociali partendo dal più basso. Infatti, I Malavoglia è una famiglia di pescatori, il nome
Mastro ci fa pensare ad una persona che gode di migliori condizioni economiche, poi c’è la
duchessa di Leyra, poi l’onorevole, poi l’uomo di lusso. Verga vuole dimostrare con questa sua
prospettiva che l’uomo a qualunque ceto appartenga, è comunque un vinto dal destino, che occupa,
quindi, una posizione preminente nella vita dell’uomo. Il Verga crede cecamente in esso, anche le
sue creature, quindi, ne risentono. È il fato che ha stabilito a priori la sua posizione sociale, dove e
come nascere, vivere e morire. È una forza invincibile e straordinaria. Se l’uomo cerca di superare
la sfera nella quale il destino lo ha inserito trova solo sofferenza, sciagure, dolore, morte. L’uomo
non deve far altro che obbedire al cieco destino. Le creature del Verga sono come marionette che si
muovono e agiscono grazie a mani invisibili, vivono dignitosamente, sebbene mosse e condotte da
una forza superiore. Sono abbandonate a se stesse senza che ci sia un senso di speranza, c’è solo
tristezza e desolazione. Si può comprendere meglio questo concetto se paragoniamo le creature del
Verga a quelle del Manzoni. Il Verga e il Manzoni hanno in comune il fatto di trattare la povera
gente, ma, mentre quelle del Verga sono vinte, abbandonate a se stesse, senza mai una speranza e
una luce che possa illuminare la loro esistenza, quelle del Manzoni, pur umili, hanno accanto a sé il
forte sostegno della Divina Provvidenza. Nelle opere del Verga il sorriso manca completamente, c’è
un umorismo beffardo e cieco, mentre nelle opere del Manzoni c’è il sorriso, la speranza, la fede.
Questa del Verga è detta poetica dell’ostrica: l’ostrica vive finchè è aggrappata allo scoglio, al posto
che le ha dato la natura. Se si allontana da esso diviene preda di altri esseri ed è destinata alla morte.
I Malavoglia (1881), è un romanzo in cui Giovanni Verga ci presenta la storia triste di un umile
famiglia di pescatori, chiamati i Malavoglia, che vivono ad Aci Trezza. È un tipo di famiglia
patriarcale, in quanto tutte le decisioni devono essere prese con il consenso del padre di famiglia, in
questo caso Padron ‘Ntoni, che viveva presso la Casa del Nespolo. Padron ‘Ntoni accortosi delle
difficoltà finanziarie della sua famiglia e quando ‘Ntoni, il nipote, fu costretto a partire per il
servizio militare, decise di fare un’operazione commerciale comprando una quantità di lupini per
poi rivenderli e guadagnare. Padron ‘Ntoni non ha soldi e pagherà quei lupini solamente dopo averli
rivenduti e aver guadagnato qualcosa. Durante la notte della traversata, però, la barca Provvidenza a
causa di una bufera si capovolse col carico di lupini. In seguito a questo avvenimento i problemi
aumentano, le disgrazie si centuplicano rispetto a prima: bisogna pagare i lupini e aggiustare la
barca, ma la famiglia non ha soldi. L’unica soluzione che resta è vendere al Casa del Nespolo.
Alcune tra le vergogne maggiori per i siciliani erano: vendere beni ereditati dal padre, non pagare i
debiti e avere figli prima del matrimonio.
Mastro Don Gesualdo (1889), è la biografia di un muratore siciliano, Gesualdo Motta, che in
mezzo ad avversità di ogni sorta è risucito a raggiungere la ricchezza. Circondato dall’invidia e
dalla malignità dei benpensanti e dei rivali, amareggiato anche dalla lontananza spirituale della
moglie, di nascita superiore alla sua, e infine dalla indifferenza della figlia, che segue la fierezza
aristocratica della madre, la sua vita è una continua lotta che si risolve in una sconfitta: egli muore
dopo lunghe sofferenze, quasi abbandonato, nel palazzo dove la figlia e il genero scialacquano le
ricchezze che egli ha guadagnato.
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IPSE DIXIT
INDICE
ILLUMINISMO…pag. 3
L’Illuminismo in Europa
L’Illuminismo in Italia
NEOCLASSICISMO…pag. 5
VINCENZO MONTI…pag. 6
La vita, la personalità e le opere
UGO FOSCOLO…pag. 8
La vita
La personalità
Le ultime lettere di Jacopo Ortis
Le odi
Preromanticismo inglese e i Sepolcri
Le Grazie
ROMANTICISMO…pag. 13
Il Romanticismo in Europa
Il Romanticismo in Italia
ALESSANDRO MANZONI…pag. 16
La vita
Gli Inni sacri
Le odi
Le tragedie
I Promessi Sposi
GIACOMO LEOPARDI…pag. 22
La vita
Gli Idilli
TRA ROMANTICISMO E REALISMO…pag. 25
Il Secondo Romanticismo
La Scapigliatura Milanese o Terzo Romanticismo
REALISMO…pag. 27
VERISMO…pag. 28
Luigi Capuana
31
GIOVANNI VERGA…pag. 29
La vita
Le opere giovanili
Le opere della maturità
Le raccolte
I romanzi
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