23 Febbraio 2012 GLI ADORATORI DEL MERCATO Sommario Convegno sui populismi e sulle destre estreme in Europa La Grecia siamo noi di Guido Viale Luciano Canfora parla della Grecia del 322 a.C. per parlare dell'Europa di oggi Tutti gli esuberi del finanzcapitalismo intervista a Luciano Gallino Appello per la scarcerazione degli arrestati No TAV pag. pag. pag. pag. pag. 1 3 5 7 13 _______________________________ ____________________________ Convegno sui populismi e sulle destre estreme in Europa D ai primi anni novanta del Novecento in Europa sono apparsi o si sono sviluppati alcuni partiti e movimenti della destra populista o dell'estrema destra, in ogni paese con caratteri specifici. Alcuni di questi sono apertamente fascisti e neonazisti, in particolare in Europa orientale, ma non solo. In quel tempo il retroterra di questi nuovi fenomeni, tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta, era costituito dal crollo del socialismo reale e dalla profonda crisi dei vecchi partiti comunisti e della sinistra in generale, in particolare in Europa occidentale. In questione era la rappresentanza politica degli strati popolari e degli strati inferiori delle classi medie (la vecchia “piccola borghesia” in primo luogo). Erano quelli gli effetti delle politiche neoliberiste (crisi dello stato sociale, del welfare, privatizzazioni, globalizzazione, svalorizzazione sfrenata del lavoro ecc.). In Italia ciò costituì il retroterra per lo sviluppo della Lega Nord e, dopo, per il sorgere e lo sviluppo del populismo berlusconiano. La prima anche come critica alla vecchia politica e ai partiti politici. Come antipolitica, essendo tuttavia un partito fortemente organizzato e radicato nel territorio, con forte riferimento identitario e simbolico, di appartenenza. Il secondo come riesumazione del vecchio bonapartismo (“E' il popolo che mi ha eletto e pertanto la democrazia, le regole, le leggi, la Costituzione stessa sono di intralcio affinché possa prendere decisioni immediate a beneficio del popolo stesso, del paese ecc.”). Questo quadro è ancor valido per spiegare la presenza e il pericolo oggi costituito dalle destre populiste e dalle destre estreme a misura dell'acuirsi dell'attuale crisi economica. Il pericolo reale è lo spostamento a destra di questi strati sociali come uno dei possibili sbocchi della crisi. La globalizzazione e in Europa le decisioni prese fuori dello stato nazionale in questione (Bce, Eu, Fmi, i “mercati” ecc. a mo' del terribile Jahvè dell'Antico Testamento), l'evidente peggioramento delle condizioni di vita degli strati popolari e degli strati inferiori delle classi medie, la frustrazione sociale e culturale (e il corrispondente bisogno di compensazioni, anche solo simboliche), la costruzione del nemico (migranti, Rom, stranieri o gruppi viventi nello stesso paese), il pericolo della crisi ambientale e climatica (acqua, terra, cibo ecc.), tutti questi fenomeni alimentano ulteriormente il pericolo populista e della destra estrema. La sfida per le sinistre in Europa è veramente grande, è urgente. Il fine del convegno che la Fondazione Rosa Luxemburg di Berlino, la rete Transform!Europe, l'Associazione Culturale Punto Rosso stanno organizzando e che si terrà venerdì 9 e sabato 10 marzo 2012 a Milano è quello di analizzare la condizione presente dal punto di vista teorico e culturale (nella prima parte) e di offrire una concreta descrizione di alcuni casi nazionali (nella seconda parte). Ma il fine ultimo del convegno è di dare il suo contributo alla definizione delle strategie delle sinistre europee per fronteggiare questi partiti e movimenti. In questo senso si è approntato un questionario che ogni organismo coinvolto nel convegno redigerà per dare conto dei partiti e movimenti della destra populista e dell'estrema destra presenti nei vari paesi. Tutti questi materiali con le relazioni del convegno saranno pubblicati in un apposito libro. Qui di seguito il programma provvisorio (in attesa di alcune conferme di relatori e relatrici). 1 _______________________________ ____________________________ I NUOVI POPULISMI E LE DESTRE ESTREME IN EUROPALE SFIDE E LE PROSPETTIVE PER LA SINISTRA MILANO – VENERDI' 9 E SABATO 10 MARZO 2012 CASA DELLA CULTURA – VIA BORGOGNA 3 programma venerdì 9 marzo 2012 – ore 15-20 Introduzione al convegno (Associazione Culturale Punto Rosso) Intervento di Onorio Rosati (segretario generale Camera del Lavoro Cgil Milano) Prima sessione Introduzione di Walter Baier (direttore Transform!Europe) 1. Il quadro teorico di riferimento: la crisi del capitalismo e le culture e le subculture che la esprimono relazioni Ernesto Laclau (Università di Essex) - Il populismo come concetto teorico René Monzat (giornalista e saggista, movimento Ras l'Front) – I nuovi populismi: il caso del Front National in Francia Andrea Fumagalli (Università di Pavia) – Il lavoro e il populismo. La scissione tra lavoro garantito e precariato e le basi di massa del populismo e dell'estrema destra 2. I casi nazionali Roberto Biorcio (Università di Milano Bicocca) – L'Italia: Lega Nord e il populismo di Berlusconi Dimostenis Papadatos-Anagnostopoulos - La Grecia Gerd Wiegel – La Germania Bernahrd Heizelmaier – L'Austria sabato 10 marzo ore 9.30-18 I casi nazionali (continuazione) Judit Morva – L'Ungheria 3. Le destre europee contemporanee e il nuovo contesto Saverio Ferrari (Osservatorio Democratico) – Il panorama dell'estrema destra europea. Populismi e destre estreme a Est e a Ovest Thilo Janssen (Fondazione Rosa Luxemburg) – L'estrema destra populista al Parlamento europeo. Le alternative di destra all'Unione Europea seconda sessione – prima parte 4. Le sinistre europee: la crisi dell'approccio tradizionale e il nuovo contesto contributi di Elisabeth Gauthier (Espace Marx Francia, direttivo Transform!Europa) Haris Golemis (Fondazione Poulantzas Grecia, direttivo Transform!) Mimmo Porcaro (Associazione Culturale Punto Rosso Italia) seconda sessione Tavola rotonda finale Le sfide per le sinistre europee: nuove prospettive e nuovi compiti Introduce Walter Baier intervengono Luciana Castellina (ex parlamentare europea), Cornelia Ernst (Fondazione Rosa Luxemburg), Nicola Nicolosi (segreteria nazionale Cgil), un esponente del Partito della Sinistra Europea organizzano Fondazione Rosa Luxemburg Berlino, Transform!Europe, Associazione Culturale Punto Rosso in collaborazione con la Camera del Lavoro Cgil di Milano e con la rivista "Progetto Lavoro-Per la sinistra del XXI secolo" 2 _______________________________ ____________________________ LA GRECIA SIAMO NOI di Guido Viale A due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle sue finanze (ma gli interessati, in Germania e alla Bce, lo sapevano da tempo: erano stati loro a nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi) presenta l'aspetto di un paese bombardato: un'economia in dissesto; aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; ospedali senza farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora anche una città in fiamme. Ma a bombardare il paese non è stata la Luftwaffe, bensì il debito contratto e confermato dai suoi governanti di ieri e di oggi nell'interesse della finanza internazionale. Con la conseguenza che, a differenza di un paese uscito da una guerra, in Grecia non c'è in vista alcuna "ricostruzione", o "rinascita", "ripresa"; ma solo un fallimento ormai certo - e dato per certo da tutti gli economisti che l'avevano negato fino a pochi giorni o mesi fa - procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi però c'entrano eccome. All'origine di quel debito, oltre alla corruzione e all'evasione fiscale, ci sono le Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l'acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e Germania come contropartita della "benevolenza" europea, per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil. Quattro fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò, o Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano strettamente Grecia e Italia. Ma non solo. Nel pacchetto, il quinto in due anni, delle misure imposte alla Grecia - liberalizzazioni di tariffe, mercati e lavoro, privatizzazioni dei servizi pubblici, blocco delle assunzioni, definanziamento di scuole, ospedali, Università, servizi sociali - c'è pari pari il programma del governo Monti (anch'esso cucinato da Bce e Commissione europea). La Grecia è solo un anno più avanti di noi sulla strada del disastro e Monti è il Papademos italico incaricato di accompagnarvi l'Italia spacciandosi per il suo salvatore e garantendone il saccheggio. Aggiungi il patto di stabilità (Fiscal Compact) che impone di riportare il debito di entrambi i paesi, ormai chiaramente in recessione, al 60 per cento del PIL in regime di parità di bilancio, e avrete i termini di una politica senza ritorno imposta da una classe al potere senza un'idea di futuro che non sia la propria perpetuazione. Per loro contano solo i bilanci: tutto il resto crepi! Quando l'Unione europea avrà tagliato gli ormeggi alla Grecia per abbandonarla alla deriva, avrà messo il vascello in condizioni di non poter più navigare per decine di anni. Nessuno degli economisti entusiasti degli "sforzi" di Monti ha la minima idea di come si possano raggiungere gli obiettivi del Fiscal Compact. E allora? Il fatto è che per loro "non c'è alternativa"; perché non sanno immaginare un futuro diverso dal presente: all'Università non lo hanno studiato e non si sono dotati di strumenti per concepirlo (tranne che per le loro carriere). "Non esiste un piano B per la Grecia, ha detto Draghi. Ma nemmeno per l'Italia. Per questo Monti non è la soluzione, ma il problema. 3 _______________________________ ____________________________ Ma un "piano B" per l'Europa va messo a punto, e in fretta; perché quello "A" è un strada senza uscita; e non si fa politica, né opposizione, senza un'idea sul da farsi appena il contesto la renda plausibile. E quel momento potrebbe essere vicino, perché il mondo sta cambiando in fretta. Ma l'Italia non è la Grecia, ripetono i supporter di Monti. E perché mai? Perché l'Italia ha un tessuto industriale robusto e perché è "troppo grande per fallire". Due tesi per lo meno parziali. Neanche la Grecia era priva di un tessuto industriale, anche se fragile, che le manovre deflattive imposte dalla Troika hanno mandato in pezzi. Una vicenda attraverso cui erano già passati anni fa - e per decenni - molti paesi dell'America Latina presi per la gola dal FMI. Quanto all'Italia, un inventario dei danni prodotti dal ventennio berlusconiano, non solo sullo "spirito pubblico" - e non è poco - ma anche sul tessuto industriale non è ancora stato fatto. Ma accanto ad alcune medie imprese che si sono ristrutturate ed esportano, tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) sono alle corde e nel tessuto industriale residuo chiude una fabbrica al giorno. "Non si produce più niente" ripetono coloro che guardano la realtà senza lenti deformanti. Ma non è che tra un mese o tra un anno (o anche due) quelle fabbriche riapriranno, gli operai ritorneranno al loro posto di lavoro e le aziende riprenderanno a produrre come prima. Un enorme patrimonio di esperienze, di professionalità, di knowhow, di attitudine all'innovazione e al lavoro di gruppo viene disperso e scompare per sempre. Né ci sono in vista iniziative imprenditoriali in grado di mettere al lavoro, avviandole dal nulla, nuove produzioni, nuovi addetti e risorse gestionali in grado di riempire quei vuoti. E quanto agli investimenti stranieri, sono bloccati dall'articolo 18, dalla mancanza di infrastrutture come il Tav Torino Lione, dalle tasse troppo alte che nessuno paga, o dalla corruzione e dalla burocrazia che il governo Monti si è tirato in casa? BCE e governo Monti sono destinati a imprimere una accelerazione decisiva al lungo declino dell'economia italiana. In secondo luogo, se l'Italia è troppo grande per fallire, è anche - come ci viene ripetuto spesso "troppo grande per essere salvata". Qui sta la sua forza e la sua debolezza. La debolezza è quel continuo richiamo a fare "i compiti a casa" (un'espressione da deficienti) e a "cavarsela da sola" (sulla base, però, dei diktat di altri). Un compito impossibile, che i governi greci hanno già provato a svolgere nonostante la sua palese assurdità. La forza sta nel fatto che se il governo Italiano non sarà in grado di azzerare il deficit e dimezzare il debito, o anche solo di rifinanziarlo, perché il suo PIL precipita, "salta" anche l'euro - il che, forse, è già stato messo in conto. O verrà messo in conto tra poco - ma salta anche, probabilmente, l'Unione europea e con essa l'economia di mezzo mondo. E forse anche quella dell'altra metà. Non siamo più negli anni '30, quando la partita si giocava tra cinque o sei Stati. Il circuito finanziario ha ormai coperto e avviluppato l'intero pianeta. Un piano B per l'Europa deve innanzitutto evitare un default disordinato (come ormai viene chiamata la prossima bancarotta degli Stati a rischio di insolvenza; e non sono pochi) e promuovere un "concordato preventivo": cioè un accordo che dimezzi in modo selettivo i debiti pubblici che non possono essere ripagati o che ne sterilizzi (con una moratoria delle scadenze) una buona metà. Il che trasferirebbe l'insolvenza sulle banche, costringendo anche la BCE e gli Stati più forti e arroganti a correre in loro soccorso: con nazionalizzazioni, "bad bank" e separando finalmente il credito commerciale dal pozzo senza fondo degli investimenti speculativi. Quanti più saranno gli Stati a rischio che si impegnano su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla. Certamente, sia che l'euro venga conservato, sia che si torni alle vecchie divise, il caos economico che incombe sul paese e sull'Europa è spaventoso; ma non minore di quello in cui ci sta trascinando il tentativo di rinviare giorno per giorno una resa dei conti. In tempi di crisi valutaria, ciò con cui bisognerà fare i conti, a livello nazionale e locale, saranno gli approvvigionamenti: innanzitutto quelli energetici e alimentari. L'unica risorsa a cui attingere a piene mani nel giro di pochi mesi e pochi anni sono risparmio ed efficienza energetica. La condizione di paese bombardato apparirà allora in tutta evidenza: spente le luminarie che non servono per vedere ma per farsi vedere; auto ferme e mezzi pubblici strapieni (scarseggerà il carburante); orari cambiati per garantire il pieno utilizzo dei mezzi durante tutto l'arco della giornata; conversione in tempi rapidi - come all'inizio di una guerra - delle fabbriche compatibili con la produzione di impianti per le fonti rinnovabili o di 4 _______________________________ ____________________________ cogenerazione, di mezzi di trasporto collettivi o condivisi a basso consumo; interventi sugli edifici per eliminarne la dispersione energetica. ecc. Giusto quello che si sarebbe dovuto fare - e ancora potrebbe essere fatto - in questi anni, con esiti economici certo migliori. Lo stesso vale per l'approvvigionamento alimentare: occorrerà restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con un'agricoltura meno dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno dipendente da derrate importate: una operazione da mettere in cantiere con una nuova leva di giovani da avviare a un'attività ad alta intensità di innovazione e di lavoro che potrebbe cambiare l'aspetto del paese. Analogamente occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul ciclo di vita dei materiali (risorse e rifiuti), su scuola, università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e producono occupazione di qualità. Ma soprattutto ci vorrà una revisione generale degli acquisti quotidiani: spesa condivisa, rapporti diretti con il produttore e Km0 (i GAS), riduzione degli imballaggi e del superfluo, ricorso all'usato e alla riparazione e alla condivisione dei beni: tutti campi in cui il sostegno di un'amministrazione locale conta molto. E tante altre cose simili su cui occorre riflettere: sono tutti interventi da concepire, programmare e gestire a livello locale - con la partecipazione diretta della cittadinanza attiva - che potranno essere agevolati anche da un circuito parallelo di monete garantite dalle autorità locali, come era avvenuto con successo in molti paesi occidentali - compresa la Germania nazista - durante la grande crisi degli anni '30. Fantascienza? Forse; comunque un programma meno irrealistico dell'idea di affidare alla liberalizzazione dei servizi e dei rapporti di lavoro la ripresa di una crescita che sottragga l'Italia al cappio del debito; e magari anche alla crisi ambientale - ah! questa sconosciuta! - che investe il pianeta. Luciano Canfora parla della Grecia del 322 a.C. per parlare dell'Europa di oggi di Luciano Canfora | da il Corriere della Sera Cassandro nel 322 a. C. impose alla polis di limitare i suoi diritti Quando i Macedoni misero Atene sotto tutela Nonostante l'Europa sia debitrice di quasi tutto ai Greci e alla loro straordinaria civiltà, pochi grandi popoli hanno dovuto subire, nella loro storia, la pratica asfissiante della tutela da parte di altre potenze. Centottanta anni fa, nel febbraio 1833, la Grecia finalmente «indipendente» si vedeva regalare dal concerto delle grandi potenze europee un sovrano tedesco, per l'esattezza bavarese: Ottone di Wittelsbach, scortato, poiché ancora in minore età, da un consiglio di reggenza tutto formato da bavaresi. Non sappiamo se Angela Merkel conosca la tremenda storia della Grecia moderna: ma certo il precedente la ingolosirebbe non poco. Nonostante l'Europa, a cominciare dagli antichi romani, sia debitrice di quasi tutto ai Greci e alla loro straordinaria civiltà filosofica, scientifica, letteraria ecc. (ma questi debiti per la Bce non contano), pochi grandi popoli hanno dovuto subire, come i Greci, nella loro storia, la pratica asfissiante della tutela da parte di altre potenze. Si potrebbe risalire molto indietro nel tempo, quando, dopo l'ultima insurrezione contro l'egemonia macedone sulla penisola (322 a.C.), agli Ateniesi, promotori dell'insurrezione, fu imposto, dal vincitore Cassandro, di cambiare il loro ordinamento politico e di limitare il diritto di cittadinanza a sole 9000 persone. Alla città che aveva dato vita al "modello democratico" fu imposto allora, dalla grande potenza dominatrice, un ordinamento timocratico, che limitava i diritti politici ai soli benestanti. 5 _______________________________ ____________________________ La tesi dottorale di Fustel de Coulanges si intitolava: «Polibio, ovvero la Grecia conquistata dai Romani» (1858). Il grande storico francese ricostruiva con efficacia e in modo essenziale quel lungo processo storico onde la Grecia divenne politicamente un satellite di Roma, anche se culturalmente fu Roma a ellenizzarsi. (Perciò fu detto che il vinto aveva acculturato il «feroce vincitore»). La dinamica non fu dissimile da quanto era accaduto centocinquant'anni prima con i Macedoni. Il conflitto sociale era aspro, e i ricchi, per spuntarla, invocarono la protezione della potente macchina militare della repubblica oligarchica per eccellenza: la repubblica romana. Così, la Grecia fu ancora un volta sotto tutela. E' quello che, scavalcando i millenni, si tenta di fare oggi. Chi oggi, infatti, in Grecia più patirà delle imposizioni della «trimurti» (Ue, Bce, Fmi), sarà la povera gente, non certo i miliardari cosmopoliti. Un dato solo può rendere l'idea: l'assistenza medica è stata di fatto eliminata, ora che ad ogni cittadino greco è garantita fornitura gratuita di medicinali fino ad un massimo di 23 euro l'anno (meno di una medicina a testa per anno). Il fine è quello di tenere in vita l'euro. Ma ai Greci — come del resto agli Italiani — non fu chiesto per referendum se desiderassero o meno «entrare» nella moneta unica che ormai viene difesa con la forza pubblica e col ricatto. Giunti a questo punto infatti ogni alternativa diventa, a dir poco, traumatica. Ma non dovrebbe sfuggire, che, se è la Germania che fa la voce grossa affinché nessuno dei popoli «discoli», che non ce la fanno più, esca dall'euro, ciò significa che è la sua economia a trarre il maggior vantaggio da questa «fortezza Europa» (come la chiamava il Führer) visto che gran parte delle sue esportazioni è in direzione dell'eurozona. (E un ritorno alle «svalutate» e abrogate monete nazionali ridarebbe alle merci dei Paesi liberati dall'euro non lieve forza concorrenziale). Non sarà facile per nessuno uscire dalla «gabbia d'acciaio», a meno che non sia la Germania stessa a calcolare che non le conviene più tenere serrati i chiavistelli. Ma torniamo alla Grecia, vittima precipua di questa situazione il cui rimedio viene «spalmato» (come oggi si usa dire) sui prossimi vent'anni. La cattiva coscienza delle potenze europee verso la Grecia si è manifestata in un ampio arco di tempo. L'episodio emblematico dell'insediamento di Ottone era il punto d'arrivo di un ciclo apertosi per lo meno con l'attacco di Bonaparte all'Egitto (1798): colpo non da poco all'impero turco, salutato, allora, come prima tappa per la liberazione della Grecia, stroncato immediatamente dall'Inghilterra con la vittoria di Nelson ad Abukir, salvifica per la «Sublime Porta» ottomana. E quando, vent'anni dopo, esplose l'«Epanastasi», la grande rivolta nazionale dei Greci, se è vero che schiere di europei filogreci accorsero a sostegno, l'elemento decisivo fu alla fine il gioco cinico delle cancellerie europee. Nel secolo seguente, la Grecia sperimentò per prima, e sulla propria pelle, gli effetti devastanti della guerra fredda: i partigiani greci, che avevano dato filo da torcere ai nazisti, si trovarono, a guerra mondiale ormai conclusa, a combattere contro gli inglesi, ritenendo la Gran Bretagna la Grecia di sua spettanza nella spartizione dell'Europa. E la guerra, per i Greci, proseguì fin quasi all'anno «santo» 1950. Da allora il paese fu in stato di semi-occupazione e sotto stretta tutela. Quando, dopo quindici anni il vecchio Papandreu, il patriarca della dinastia, giunse al potere scalzando finalmente i governisgabello del dopoguerra, la libertà riconquistata durò assai poco. E nell'aprile '67 alla Grecia vennero imposti i colonnelli. Sappiamo bene quanto limitata fosse per tutti la sovranità in quegli anni, ma solo alla Grecia fu inflitto, per tenerla sotto, un nuovo fascismo. Un grande filologo francese, oggi novantenne, Bertrand Hemmerdinger, espresse molti anni addietro, regnanti ancora i colonnelli, la propria passione per la Grecia definendosi «internazionalista e patriota greco». Non poteva prevedere che ai colonnelli sarebbero subentrati i banchieri. 6 _______________________________ ____________________________ Tutti gli esuberi del finanzcapitalismo Giuliano Battiston (Sbilanciamoci) intervista Luciano Gallino Pubblichiamo l'intervista a Luciano Gallino apparsa nello speciale sulla Fiom “Democrazia al lavoro”, a cura del manifesto e di Sbilanciamoci. Nel suo ultimo libro, Finanzcapitalismo, analizza la trasformazione del passato capitalismo produttivo nell’attuale capitalismo dei mercati finanziari. Una trasformazione durante la quale come nuovo criterio guida dell’azione economica viene adottata la massimizzazione del valore per l’azionista. In che termini questo paradigma ha dato vita a una nuova concezione dell’impresa, favorendone quell’irresponsabilità da lei già criticata ne L’impresa irresponsabile? La concezione dell’impresa è stata trasformata con grande rapidità, non solo sul piano teorico ma anche nella pratica della gestione e del governo delle imprese, soprattutto dopo gli anni Ottanta del Novecento, quando si è passati da una concezione che potremmo definire istituzionale dell’impresa – per cui essa è o dovrebbe essere un insieme di complessi rapporti sociali tra proprietari, dirigenti, dipendenti, fornitori, comunità locali – a una concezione prevalentemente contrattualistica. Secondo quest’ultima concezione, l’impresa viene intesa come un fascio, un insieme di contratti – stipulati con tutti gli attori che concorrono a vario titolo alla produzione – che hanno una precisa data di scadenza e che possono essere, quali più quali meno, rescissi in ogni momento. Si tratta di una delle manifestazioni della flessibilità che il capitale richiede, anzitutto per se stesso, affinché possa sempre arrivare là dove i rendimenti sono maggiori: dal momento che l’impresa non è nient’altro che un fascio di contratti, se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di rendimento, quel contratto può essere eliminato e sostituito con un altro. Questo vuol dire inoltre che le imprese, perlomeno la maggior parte di esse, non hanno più alcun interesse ad essere localizzate in un determinato luogo, città o paese, e che la componente finanziaria diventa predominante anche nell’organizzazione, perché ciò che conta è il rendimento collegato al contratto. Il passaggio a una concezione contrattualistica si accompagna dunque alla progressiva finanziarizzazione delle imprese industriali. Quali sono le conseguenze di questo passaggio sulle condizioni del lavoro? Dato che l’ideologia neoliberale, e la teoria economica in cui essa si esprime, hanno codificato l’idea che il capitale deve essere altamente mobile e flessibile per poter ottenere il rendimento maggiore – un processo che è tipico delle transazioni finanziarie, delle borse e di altri luoghi in cui si scambiano capitali – come conseguenza anche il lavoro deve essere flessibile, oltre che le reti di fornitura e altri aspetti. In altri termini, la mobilità e la flessibilità del capitale comportano la flessibilità del lavoro: se il rendimento di un determinato impianto o di un insieme di servizi, meglio ancora se una certa unità produttiva, che di per sé può andare benissimo, sembra rendere un po’ meno in termini comparati rispetto ad un’altra che opera nello stesso paese o altrove nel mondo, quell’unità viene semplicemente chiusa, i lavoratori licenziati, dismessi, spinti al prepensionamento o lasciati al margine, sulla strada. Ciò è avvenuto in modo vistoso in diversi paesi, inclusa l’Italia, dove molti stabilimenti che sembravano funzionare piuttosto bene hanno ricevuto improvvisamente l’annuncio, da una lontana direzione, che avrebbero dovuto chiudere. Quando il capitale deve essere spostato altrove, i lavoratori diventano – come si usa dire – degli esuberi, visto che anche l’impianto deve essere chiuso o trasferito altrove. La chiusura degli stabilimenti rappresenta un caso estremo, 7 _______________________________ ____________________________ ma ad esso si accompagnano le fortissime pressioni esercitate sui salari, con la funzione principale di massimizzare il rendimento del capitale, prima ancora che per incrementare la produzione. Lei ha scritto, appunto, che nel finanzcapitalismo la massima espressione della razionalità strumentale è il perseguimento del lavoro a basso costo, e in Italia sono state ampiamente applicate quelle politiche economiche che, orientate a comprimere i redditi da lavoro, hanno aumentato le disuguaglianze. Come ricorda nei suoi testi, l’Italia fa parte infatti con Stati uniti e Regno unito del gruppo di paesi sviluppati che presentano gli indici più elevati di disuguaglianza economica, oltre ad avere salari stagnanti, in termini reali, dalla metà degli anni Novanta. Quali sono le specificità del caso italiano? Per molti aspetti la situazione italiana è simile a quella di altri paesi, anche se presenta alcune connotazioni particolari. In Italia i salari sono bassi e stagnanti da una quindicina d’anni, per diverse ragioni. Tra queste, la tendenza al lavoro precario, fondato su contratti di breve o brevissima durata, che rispondono all’idea che il lavoro debba essere altrettanto mobile del capitale. Nel nostro paese, insieme alla chiusura di molti stabilimenti, abbiamo assistito inoltre alla riduzione considerevole degli investimenti in ricerca e sviluppo. Una riduzione tale che, tra i paesi dell’Ocse, l’Italia si colloca, se non all’ultimo, al penultimo posto per investimenti nel settore, a cui destina circa l’1% o perfino meno del Pil. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e fino all’inizio degli anni Ottanta, l’Italia poteva vantare un gran numero di centri di ricerca, anche privati, nel settore dei materiali, della chimica, dell’elettronica. Sono stati tutti praticamente chiusi, o trasformati in centri di ricerca con una produzione orientata secondo un orizzonte molto limitato, di 6 mesi o un anno, mentre la ricerca ha bisogno di orizzonti molto più ampi, di 3,5,10 anni. Tutti questi elementi hanno provocato una forte stagnazione della produttività in generale e della stessa produttività del lavoro e, collegata ad essa, un abbassamento dei salari medi per la gran parte del lavoro dipendente. Anche in Italia si è affrontato il problema della concorrenza internazionale puntando soprattutto sulla compressione del costo del lavoro e sull’appello fideistico alle virtù taumaturgiche della produttività, che la flessibilità avrebbe dovuto aumentare. Perché – ne Il lavoro non è una merce e altrove – contesta l’idea che l’occupazione flessibile contribuisca a elevare la produttività del lavoro? Per due motivi: innanzitutto perché bisognerebbe intendere la produttività, come in fondo è intesa dalle organizzazioni internazionali come l’Ocse, come valore aggiunto per ora lavorata. Si tratta dunque di una produttività che non dipende dal ritmo più o meno frenetico con cui il tecnico, l’impiegato o l’operaio lavora, ma dall’invenzione, dall’originalità del prodotto, dall’innovazione dell’organizzazione complessiva della produzione. Molti tra coloro che scrivono di produttività lasciano intendere invece che per produttività si debba assumere il numero di oggetti prodotti per ogni ora lavorata. È una concezione che rimanda al film Tempi moderni di Charlie Chaplin: quanto più velocemente si avvitano bulloni o si risponde alle chiamate dei clienti, tanto più cresce la produttività. Si tratta di una visione misera, e soprattutto tecnicamente scorretta, della produttività. Aumentare la produttività significa aumentare il valore aggiunto per ora lavorata. Ma per farlo ci vogliono ricerca e sviluppo, e investimenti in capitale fisso, oltre a un elemento che l’ideologia della flessibilità nega alla radice, la formazione, che deve avvenire prima del lavoro e durante il lavoro. Il guaio è che, in presenza di milioni di contratti di breve durata o di durata determinata, di 3 mesi, 6 mesi, al massimo 1 anno, le imprese non hanno alcun interesse nella formazione: se un imprenditore sa che un dipendente dopo 5 mesi non sarà più tale, cosa gliene importa della sua formazione? Cercherà di assumere qualcun altro, semmai più formato dalla scuola, usando un altro 8 _______________________________ ____________________________ contratto. Direi dunque che la flessibilità è un nemico fondamentale della produttività per tanti motivi, ma nell’ambito di cui parliamo lo è soprattutto perché disincentiva alla radice la formazione. Oltre ai lavoratori flessibili, costretti – secondo quanto ha scritto in uno dei suoi testi – ad assumersi «la responsabilità del proprio destino lavorativo, percependosi come imprenditori di se stessi», in Italia ci sono milioni di persone che non riescono a entrare nel mondo del lavoro, o che ne sono stati esclusi: i disoccupati. In un articolo pubblicato su la Repubblica il 22 gennaio, sostiene che «ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L’altra vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro». Perché ritiene preferibile la seconda? In quell’articolo richiamavo un caso americano, che riguarda un forte intervento di politiche fiscali, un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere, operato nel 2009 dal presidente Obama per rilanciare l’economia in generale e, poi, per creare occupazione. Quel piano si è rivelato in gran parte un fallimento perché il legame tra la riduzione delle imposte o il premio per chi assume (le imprese erano incentivate all’assunzione con un riduzione di imposta procapite e non generale) era troppo blando e indiretto. Prima di assumere, le aziende tendono infatti ad aspettare, a vedere meglio cosa succede quanto a ordinativi futuri e ai crediti richiesti. Inoltre, quel piano presentava un inconveniente molto serio, che ne limitava la capacità di creare occupazione, perché gli incentivi venivano distribuiti a pioggia, senza distinguere tra i settori sollecitati ad assumere personale. Si poteva trattare di settori importanti dell’economia così come di settori molto meno importanti: se si assume un dipendente in una caffetteria o in un centro di ricerca, quei due posti contano allo stesso modo in quanto posti di lavoro, ma il risultato economico che se ne ricava a lungo termine è diverso. Per questo, credo che bisognerebbe ricorrere alla ricetta keynesiana, facendo in modo che sia lo stato ad assumere direttamente, ad operare – secondo una terminologia ampiamente diffusa nella letteratura internazionale – come datore di lavoro di ultima istanza. Mi rendo perfettamente conto che si tratta di una proposta che, con i tempi che corrono, per molti versi rischia di essere buttata al vento, ma rimane il fatto che davanti a 3,5 milioni di disoccupati, di cui almeno 1 milione di lunga durata, e di fronte a 3/4 milioni di lavoratori precari (che incominciano ad avere 35-40 anni, non sono più i ventenni speranzosi, e dopo cinque contratti precari attendono ancora di avere un posto stabile), di fronte a un dramma di questo genere per attirare lavori ci vuole ben altro che le semplici politiche fiscali. A questo riguardo ci sono due scuole diverse: una che punta alla spesa diretta da parte dello stato, un’operazione che possono fare quei paesi che, diversamente dall’Italia, hanno una Banca centrale che può creare il denaro necessario. L’altra che ritiene invece che si possano convertire vari tipi di prestazioni sociali in salari, creando con essi nuovi posti di lavoro in modo che i disoccupati trovino subito un’occupazione, piuttosto che assisterli in attesa di un altro posto che verrà chissà quando. Quando dice di temere che la sua proposta sia «buttata al vento» sembra alludere all’orientamento del governo: dalle notizie apparse sulla stampa, come giudica le intenzioni del governo Monti sulla riforma del mercato del lavoro? Mi pare che il governo si muova con una certa cautela. In ogni caso, quello che si annuncia non mi sembra vada in una direzione particolarmente innovativa. Anche l’idea espressa pochi giorni fa dal presidente del Consiglio, secondo cui occorrerebbe maggiore mobilità nel lavoro, tutto sommato è una vecchia idea che circola sin dagli anni Ottanta, e che è stata sostenuta soprattutto dall’Ocse con le sue famose classifiche sulla rigidità del lavoro, sia individuale che collettivo. I risultati sono interessanti: nell’arco di vent’anni l’Italia è diventata uno dei paesi con la minor rigidità nei 9 _______________________________ ____________________________ licenziamenti individuali, molto minore rispetto alla Germania, alla Francia e ad altri paesi. In tempi di drammatica crisi, in tempi in cui milioni di persone sono in attesa di un posto di lavoro, non è con la mobilità che si può pensare che l’occupazione risalga. Torno a insistere su un punto: considerato che le risorse sono comunque scarse, sarebbe necessario investire il più possibile per creare occupazione in settori ad alta intensità di lavoro. In Italia si continua a parlare di grandi opere, di automazione, di produttività affidata alle macchine in settori in cui si producono soprattutto oggetti materiali. In questi casi, si punta sull’alta intensità di capitali, che richiede un numero di persone molto inferiore rispetto a quello che sarebbe necessario. Servono invece tante piccole e medie opere ad alta intensità di lavoro. Il che non significa che siano a basso valore aggiunto, perché, come dimostrano le piccole imprese e il mondo dell’artigianato, anche nei settori ad alta intensità di impiego della forza lavoro si creano forti valori aggiunti. Mi sembra che, sotto questo punto di vista, da parte del governo Monti non si sia visto nulla. Molti temono che il governo cerchi di «barattare» una riduzione della flessibilità, o quantomeno delle tipologie contrattuali, con l’articolo 18, che per Monti «non è un tabù». Lei già dieci anni fa, in un intervento poi raccolto ne L’Italia in frantumi, criticava il tentativo di abolire l’articolo 18 scrivendo che «il diritto al lavoro è come una diga, intesa a proteggere i più deboli dai più forti, e per far crollare una diga, si sa, può bastare praticare in essa un piccolo buco». Quanto è importante, oggi, difendere l’articolo 18? L’articolo 18 rappresenta uno dei punti più importanti, non dico il pilastro ma quasi, dello Statuto dei lavoratori, ed è inteso a proteggere l’integrità, la dignità, la persona del lavoratore. Se si smonta quel pilastro, è facile che si smonti anche tutto il resto: la rappresentanza sindacale, la libertà sindacale, il diritto a non essere fisicamente sorvegliati sul luogo di lavoro, e molte altre cose. Se non intendiamo considerare i lavoratori solo come mezzi di produzione, che si usano più o meno e che poi si mettono da parte perché non servono più, allora l’articolo 18 va robustamente difeso. Ma c’è di più: non esiste alcuna verifica empirica che l’articolo 18 impedisca a qualsiasi azienda di licenziare, senza contare che in questi ultimi anni più del 75% di tutte le nuove assunzioni sono avvenute con contratti di durata determinata e spesso di breve durata, comunque inferiore a 1 anno. Oltre ad essere un elemento della civiltà del lavoro nel nostro paese, non esiste alcuna prova che l’eliminazione dell’articolo 18 serva ad aumentare l’occupazione. Per quanto riguarda le proposte che circolano e che vengono attribuite ad esponenti di governo, ritengo positiva l’idea – che mi pare circolasse con più frequenza alcune settimane fa – di ridurre il numero di contratti dagli attuali 4546 a 4-5, con un contratto «normale» dominante, unico, per il lavoro a tempo pieno e indeterminato. Tuttavia, sono contrario all’idea che un simile contratto sia preceduto da un lunghissimo periodo in cui il lavoratore non è protetto dall’articolo 18. I pretesti accampati per giustificare una decisione simile sono fuori luogo: si è parlato della necessità della formazione, della necessità per un imprenditore di imparare a conoscere il nuovo dipendente; si è parlato di periodi di «prova» di 3 anni o più. È assurdo. Tre anni sono un periodo insensatamente lungo, privo di qualsiasi razionalità; nemmeno nei confronti di un fisico nucleare c’è bisogno di tutto quel tempo per capire se conosce o meno il suo mestiere. Quanto al pretesto della formazione, non parliamone neanche: si parla di formazione quando si ha a che fare con un operaio specializzato o con un tecnico di prima categoria, mentre l’80% dei lavori hanno un contenuto professionale molto limitato, che nella maggior parte dei casi si impara in qualche settimana, supponendo che il lavoratore abbia la qualifica o lo studio adatto a tale lavoro. Non c’è alcuna giustificazione per un tempo così lungo per la formazione e la conoscenza reciproca. 10 _______________________________ ____________________________ Come ricorda in uno degli articoli raccolti ne L’Italia in frantumi, la flessibilità e l’individualizzazione dei rapporti di lavoro «fa sì che tra la massa dei lavoratori si sviluppino interessi materiali e ideali profondamente divergenti e sovente conflittuali, che sarà sempre più difficile rappresentare su ampia scala». Quali strategie dovrebbero adottare i sindacati per riconquistare centralità politico-sociale e ritrovare la propria «fisionomia» in un mondo del lavoro così mutato? I sindacati si trovano dinanzi a un gravissimo ostacolo: la crisi economica, industriale e della produzione. In una situazione in cui ci sono centinaia di migliaia di persone in attesa di un posto di lavoro, il sindacato è di per sé in gravissime difficoltà. I periodi in cui i sindacati sono stati forti sono sempre stati quelli in cui si produceva molto, come i 30 anni del dopoguerra, quando c’era un’elevata produzione, una manodopera relativamente scarsa e un tasso di occupazione molto elevato. Allora il potere dei sindacati era grande. Oggi si trovano di fronte a una difficoltà oggettiva, che non si può ignorare. Il sindacato potrebbe essere più forte se fosse unitario, ma unitario non è. Sarebbe più forte, inoltre, se la legislazione sul lavoro in qualche modo continuasse a fondarsi sull’assunto che la libera e piena rappresentanza sindacale costituisce un aspetto irrinunciabile delle relazioni industriali. I primi, duri colpi al sindacato sono stati inferti dalla legislazione di questi ultimi anni. Per venire a un caso concreto, pensiamo per esempio al fatto che non esistono strumenti legislativi di impiego immediato per impedire che un sindacato molto rappresentativo, come la Fiom nel settore della meccanica, venga estromesso fisicamente dagli stabilimenti del settore. Questo indica che i sindacati non hanno sostegno né da parte della politica né da parte della legislazione. Dovrebbe esserci qualche norma che impedisca di far fuori tutti gli aderenti a un certo sindacato perché quel sindacato non ha firmato un certo accordo. È un’operazione che non andrebbe consentita. Eppure, non si è sentito un fiato: le leggi non ci sono, e non c’è alcun referente politico su cui i sindacati, sotto questo punto di vista, possano realmente contare. In un intervento incluso nell’opuscolo di MicroMega «Finché c’è lotta c’è speranza», scrive che «i temi della manifestazione dell’11 febbraio della Fiom toccano direttamente le sorti prossime della democrazia reale in Italia». Ci spiega meglio il legame tra la vicenda della Fiom e la tenuta del nostro tessuto democratico? Un aspetto centrale nella costruzione della democrazia italiana è stato il riconoscimento che i lavoratori avessero diritto ad una loro rappresentanza in tutti i luoghi di lavoro, il diritto che essa potesse essere liberamente votata e che la propria preferenza potesse essere liberamente espressa, oltre alla garanzia di non subire alcun tipo di discriminazione per il fatto di votare o affiliarsi a un sindacato piuttosto che a un altro. Se questo insieme di diritti, di libertà di associazione e di partecipazione, se tutto ciò viene meno, e se ciò avviene pubblicamente e con il plauso di una certa quantità di forze politiche, si tratta di una grave ferita alla democrazia, intesa concretamente come possibilità di partecipazione, di dire la propria, di veder rispettati nella vita quotidiana i propri diritti. Diritti che vanno oltre la libertà di andare a votare una volta ogni cinque anni. Bisogna inoltre tener presente un fenomeno preoccupante: le persone inclini a non andare a votare stanno diventando la maggioranza relativa del popolo degli elettori. È un pessimo segnale, e la vicenda della Fiom, l’estromissione di un grande sindacato, rischia di convincere molte altre persone che in fondo andare a votare e prendere la parola non serva a nulla, perché quando si decide del concreto dell’attività lavorativa o dei rapporti sociali chi ha il potere è in grado di dimenticarsi totalmente dei diritti che spetterebbero a tutti in base a una concezione formale della democrazia. 11 _______________________________ ____________________________ La vicenda della Fiom rischia di diventare paradigmatica, perché rimanda alla sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con la contrattazione aziendale. Su questo, anche il governo Monti appare in linea con il «modello Marchionne»: nelle Dichiarazioni programmatiche del Governo del 17 novembre 2011 si sostiene infatti di voler «perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro». Come giudica questo «spostamento di baricentro»? È una pessima idea per tanti motivi e per uno in particolare, suffragato da inoppugnabili dati di fatto: la contrattazione collettiva nazionale è stata per un certo periodo, e dovrebbe esserlo ancora, uno strumento importantissimo per la redistribuzione dei redditi, o per una più equa distribuzione dei redditi tra lavoro, capitale, rendite e altri tipi di reddito. Man mano che viene meno la contrattazione collettiva, viene meno anche il principale strumento che i sindacati possono adottare per evitare che la quota salariale – cioè la parte di reddito nazionale che va al lavoro – continui a diminuire. Le statistiche elaborate dall’Ocse raccontano che, in 20 anni, la quota salariale in Italia ha perso oltre 10 punti, scendendo più o meno da oltre il 60% a poco più del 50%, una perdita colossale, perché un punto di Pil vale qualcosa come 16 miliardi l’anno. Naturalmente questi dati non vanno attribuiti soltanto alla contrattazione, ma rimane il fatto che essa è uno dei pochi strumenti per contrastare questa tendenza e per decidere dove vanno a finire i redditi. Aumenti salariali o salari poco più alti significano qualche punto di Pil che va al lavoro, anno dopo anno. In molti paesi tra cui l’Italia, ma in particolare negli Stati Uniti, si è verificato invece un disastro sociale a causa della forte perdita della quota salariale sul Pil, e ciò vuol dire che il peso della contrattazione collettiva dovrebbe essere aumentato, non diminuito. Pensare di ridurlo significa porre le premesse per un ulteriore peggioramento nel rapporto tra quota salari e reddito nazionale. In un articolo dell’agosto del 2002, parlava dell’idea di un’alleanza sociale, culturale e politica tra lavoratori e no-global «come una prospettiva affatto realistica, forse perfino necessaria per tentare di salvare i principi, i valori e gli interessi tangibili e intangibili, materiali non meno che etici, degli uni e degli altri». Oggi, di quale alleanza politico e sociale c’è bisogno, per superare l’afasia della sinistra e la sua tendenza a interiorizzare i dettami ideologici del finanzcapitalismo? La questione è di portata internazionale, se non mondiale. Da un lato c’è la realtà dei movimenti che si sono affermati in questi anni e anche negli ultimi tempi (il movimento degli studenti, delle donne, degli indignati, ovviamente quello dei lavoratori, soprattutto di alcuni sindacati come sappiamo), e dall’altra c’è la realtà dei partiti. Questa forza collettiva, sociale, civile, che si esprime in forme molteplici e difficilmente prevedibili, dovrebbe trovare un collegamento con uno o più partiti, perché in un regime democratico gli slogan di piazza e le manifestazioni, anche se sacrosante, giuste, fondate su rivendicazioni concrete e corrette, devono diventare istanze parlamentari, trovando i voti e i deputati che le portino dentro al parlamento. Ciò a cui si assiste, invece, e io vi assisto con una certa tristezza, è che da una parte i movimenti pensano di poter fare molta strada da soli, mentre io non lo penso, perché dopo i primi mesi di vita effervescente spesso si spengono (in Italia negli ultimi anni lo abbiamo visto accadere almeno 5 o 6 volte). E che dall’altra i partiti continuano a manifestare un’incredibile ottusità dinanzi a movimenti che rappresentano istanze concrete, reali, che andrebbero tradotte in domande politiche da sottoporre a tutti gli elettori. Bisogna costruire un ponte tra società civile e partiti, tra movimenti e partiti, ma l’esaltazione transitoria da un lato e la profonda sordità o incomprensione dall’altro dimostrano che al momento non ci sono presupposti promettenti. Occorre un’ulteriore integrazione, un travaso di opinioni e di forze. 12 _______________________________ ____________________________ Appello per la scarcerazione degli arrestati no tav Libertà per Niccolò, per Maurizio, Lollo, Marcello. Libertà per tutti i No Tav arrestati. Giovedì 26 gennaio all'alba diverse decine di persone, in varie città italiane, hanno subito perquisizioni presso le loro abitazioni in relazione ad un'indagine della magistratura di Torino concernente le mobilitazioni No Tav dell'estate 2011. Ne sono scaturiti 26 arresti e un totale di 41 provvedimenti giudiziari restrittivi delle libertà individuale. Tra queste, persone anziane, donne incinte, consiglieri comunali della valle, sindacalisti, giovani dei centri sociali. Non è nostra intenzione mettere in discussione l'autonomia e l'indipendenza della magistratura nello svolgere il suo lavoro, in questo caso come in generale, siamo però preoccupati per questa vicenda e ci preme rendere note alcune considerazioni: - crediamo sia importante sottolineare come il movimento No Tav (che coinvolge tutte le persone interessate alla salvaguardia del territorio, a prescindere dall'abitare o meno in Val Susa e che ha già ampiamente rifiutato ogni suddivisioni tra presunti buoni e ancor più presunti cattivi) non debba essere criminalizzato in questo modo. L'espressione del dissenso e più in generale la battaglia per la salvaguardia dei beni comuni che in Val Susa vengono portati avanti non sono riconducibili in alcun modo a una mera questione d'ordine pubblico, e quest'operazione rischia seriamente di indurre questo equivoco; - siamo preoccupati per il clima che questo tipo di operazioni può contribuire a creare nel Paese, nella situazione di crisi diffusa e con diverse situazioni socialmente complesse in corso, il rischio che si lasci intendere un messaggio di normalizzazione del conflitto e di volontà di chiudere gli spazi di agibilità politica è non solo possibile ma probabile. - riteniamo infine, anche in virtù del fatto che conosciamo personalmente almeno una parte significativa degli indagati e delle loro collettività d'appartenenza, che sia possibile e auspicabile che siano messe nella condizione di affrontare le accuse che vengono loro mosse in stato di libertà, senza misure restrittive preventive che non sembrano assolutamente giustificate e però pregiudicano i loro affetti, il loro lavoro e studio, il loro impegno sociale. per adesioni inviare mail a: [email protected] Per il Punto Rosso: Laura Cantelmo (insegnante e madre di Niccolò), Giorgio Riolo, Roberto Mapelli 13 _______________________________ ____________________________ APPELLO PER IL SOSTEGNO A PUNTO ROSSO 2012 RI-ALZIAMOCI Leggi il Notiziario dell’Accademia Apuana della Pace Sito: www.aadp.it - Email: [email protected] Sede provvisoria: presso A.V.A.A.,via Quercioli, 77 - 54100 MASSA tel. 339 5829566 - fax 0585/792909- c.f. 92025160455 (ccb: Banca Etica - n. 116148 - abi: 05018 - cab: 02800) Redazione Notiziario: [email protected] Per iscriversi alla mailing list del notiziario: [email protected] Care compagne e cari compagni, amiche e amici di Punto Rosso la situazione economica dell’Associazione è disastrosa, la crisi si è abbattuta anche su noi con effetti micidiali: da mesi NON ABBIAMO PIU’ UN SOLDO per organizzare incontri e iniziative, che in questo panorama di consenso asfissiante bi-partisan alle politiche di devastazione sociale e culturale, sarebbero più che mai necessarie per contribuire a costruire un’opposizione di sinistra e un processo costituente per l’alternativa, unico antidoto alle derive populiste e reazionarie che la crisi sta determinando. Ci rivolgiamo perciò ad ognuna/o di voi, alla vostra sensibilità: sottoscrivete, iscrivetevi, trovate almeno un nuovo sottoscrittore, rinnovate l’adesione per il 2012. Senza un impegno concreto di tutte/i non sarà possibile ripartire con l’attività. RI-ALZIAMOCI!!! Periodico in rete a cura dell’Associazione Culturale Punto Rosso di Massa Carrara Contributi, interventi, appuntamenti, iniziative, dibattiti, culture per l’Alternativa allo stato di cose presenti. Per informazioni, collaborazioni scrivere a: [email protected] Facci sapere come intendi sottoscrivere, scrivi a: [email protected] 14