23 Febbraio 2012
GLI ADORATORI DEL MERCATO
Sommario
Convegno sui populismi e sulle destre estreme in Europa
La Grecia siamo noi di Guido Viale
Luciano Canfora parla della Grecia del 322 a.C. per parlare dell'Europa di oggi
Tutti gli esuberi del finanzcapitalismo intervista a Luciano Gallino
Appello per la scarcerazione degli arrestati No TAV
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Convegno sui populismi e sulle destre estreme
in Europa
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ai primi anni novanta del
Novecento in Europa sono
apparsi o si sono sviluppati
alcuni partiti e movimenti della destra
populista o dell'estrema destra, in ogni
paese con caratteri specifici. Alcuni di
questi sono apertamente fascisti e
neonazisti, in particolare in Europa
orientale, ma non solo. In quel tempo il
retroterra di questi nuovi fenomeni, tra
fine anni Ottanta e inizi anni Novanta,
era costituito dal crollo del socialismo
reale e dalla profonda crisi dei vecchi
partiti comunisti e della sinistra in
generale, in particolare in Europa
occidentale. In questione era la
rappresentanza politica degli strati popolari e degli strati inferiori delle classi medie (la vecchia “piccola
borghesia” in primo luogo). Erano quelli gli effetti delle politiche neoliberiste (crisi dello stato sociale, del
welfare, privatizzazioni, globalizzazione, svalorizzazione sfrenata del lavoro ecc.). In Italia ciò costituì il
retroterra per lo sviluppo della Lega Nord e, dopo, per il sorgere e lo sviluppo del populismo berlusconiano.
La prima anche come critica alla vecchia politica e ai partiti politici. Come antipolitica, essendo tuttavia un
partito fortemente organizzato e radicato nel territorio, con forte riferimento identitario e simbolico, di
appartenenza. Il secondo come riesumazione del vecchio bonapartismo (“E' il popolo che mi ha eletto e
pertanto la democrazia, le regole, le leggi, la Costituzione stessa sono di intralcio affinché possa prendere
decisioni immediate a beneficio del popolo stesso, del paese ecc.”).
Questo quadro è ancor valido per spiegare la presenza e il pericolo oggi costituito dalle destre populiste e
dalle destre estreme a misura dell'acuirsi dell'attuale crisi economica. Il pericolo reale è lo spostamento a
destra di questi strati sociali come uno dei possibili sbocchi della crisi. La globalizzazione e in Europa le
decisioni prese fuori dello stato nazionale in questione (Bce, Eu, Fmi, i “mercati” ecc. a mo' del terribile
Jahvè dell'Antico Testamento), l'evidente peggioramento delle condizioni di vita degli strati popolari e degli
strati inferiori delle classi medie, la frustrazione sociale e culturale (e il corrispondente bisogno di
compensazioni, anche solo simboliche), la costruzione del nemico (migranti, Rom, stranieri o gruppi viventi
nello stesso paese), il pericolo della crisi ambientale e climatica (acqua, terra, cibo ecc.), tutti questi
fenomeni alimentano ulteriormente il pericolo populista e della destra estrema. La sfida per le sinistre in
Europa è veramente grande, è urgente.
Il fine del convegno che la Fondazione Rosa Luxemburg di Berlino, la rete Transform!Europe,
l'Associazione Culturale Punto Rosso stanno organizzando e che si terrà venerdì 9 e sabato 10 marzo 2012 a
Milano è quello di analizzare la condizione presente dal punto di vista teorico e culturale (nella prima parte)
e di offrire una concreta descrizione di alcuni casi nazionali (nella seconda parte). Ma il fine ultimo del
convegno è di dare il suo contributo alla definizione delle strategie delle sinistre europee per fronteggiare
questi partiti e movimenti. In questo senso si è approntato un questionario che ogni organismo coinvolto nel
convegno redigerà per dare conto dei partiti e movimenti della destra populista e dell'estrema destra presenti
nei vari paesi. Tutti questi materiali con le relazioni del convegno saranno pubblicati in un apposito libro.
Qui di seguito il programma provvisorio (in attesa di alcune conferme di relatori e relatrici).
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I NUOVI POPULISMI E LE DESTRE ESTREME IN EUROPALE SFIDE E LE PROSPETTIVE
PER LA SINISTRA
MILANO – VENERDI' 9 E SABATO 10 MARZO 2012
CASA DELLA CULTURA – VIA BORGOGNA 3
programma
venerdì 9 marzo 2012 – ore 15-20
Introduzione al convegno (Associazione Culturale Punto Rosso)
Intervento di Onorio Rosati (segretario generale Camera del Lavoro Cgil Milano)
Prima sessione
Introduzione di Walter Baier (direttore Transform!Europe)
1. Il quadro teorico di riferimento: la crisi del capitalismo e le culture e le subculture che la esprimono
relazioni
Ernesto Laclau (Università di Essex) - Il populismo come concetto teorico
René Monzat (giornalista e saggista, movimento Ras l'Front) – I nuovi populismi: il caso del Front National in Francia
Andrea Fumagalli (Università di Pavia) – Il lavoro e il populismo. La scissione tra lavoro garantito e precariato e le basi di
massa del populismo e dell'estrema destra
2. I casi nazionali
Roberto Biorcio (Università di Milano Bicocca) – L'Italia: Lega Nord e il populismo di Berlusconi
Dimostenis Papadatos-Anagnostopoulos - La Grecia
Gerd Wiegel – La Germania
Bernahrd Heizelmaier – L'Austria
sabato 10 marzo ore 9.30-18
I casi nazionali (continuazione)
Judit Morva – L'Ungheria
3. Le destre europee contemporanee e il nuovo contesto
Saverio Ferrari (Osservatorio Democratico) – Il panorama dell'estrema destra europea. Populismi e destre estreme a Est e a
Ovest
Thilo Janssen (Fondazione Rosa Luxemburg) – L'estrema destra populista al Parlamento europeo. Le alternative di destra
all'Unione Europea
seconda sessione – prima parte
4. Le sinistre europee: la crisi dell'approccio tradizionale e il nuovo contesto
contributi di
Elisabeth Gauthier (Espace Marx Francia, direttivo Transform!Europa)
Haris Golemis (Fondazione Poulantzas Grecia, direttivo Transform!)
Mimmo Porcaro (Associazione Culturale Punto Rosso Italia)
seconda sessione
Tavola rotonda finale
Le sfide per le sinistre europee: nuove prospettive e nuovi compiti
Introduce
Walter Baier
intervengono
Luciana Castellina (ex parlamentare europea), Cornelia Ernst (Fondazione Rosa Luxemburg), Nicola Nicolosi (segreteria
nazionale Cgil), un esponente del Partito della Sinistra Europea
organizzano
Fondazione Rosa Luxemburg Berlino, Transform!Europe, Associazione Culturale Punto Rosso
in collaborazione con la Camera del Lavoro Cgil di Milano e con la rivista "Progetto Lavoro-Per la sinistra del XXI secolo"
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LA GRECIA SIAMO NOI
di Guido Viale
A
due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle
sue finanze (ma gli interessati, in Germania e alla
Bce, lo sapevano da tempo: erano stati loro a
nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla
cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi)
presenta l'aspetto di un paese bombardato: un'economia in
dissesto; aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione
dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense
dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; ospedali senza
farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla
casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora anche una città
in fiamme. Ma a bombardare il paese non è stata la
Luftwaffe, bensì il debito contratto e confermato dai suoi
governanti di ieri e di oggi nell'interesse della finanza
internazionale. Con la conseguenza che, a differenza di un
paese uscito da una guerra, in Grecia non c'è in vista alcuna
"ricostruzione", o "rinascita", "ripresa"; ma solo un
fallimento ormai certo - e dato per certo da tutti gli
economisti che l'avevano negato fino a pochi giorni o mesi
fa - procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio
delle banche che detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi però c'entrano
eccome. All'origine di quel debito, oltre alla corruzione e all'evasione fiscale, ci sono le Olimpiadi
del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l'acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e
pagare a Francia e Germania come contropartita della "benevolenza" europea, per importi annui che
arrivano al 3 per cento del Pil. Quattro fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò,
o Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano strettamente Grecia e Italia. Ma
non solo.
Nel pacchetto, il quinto in due anni, delle misure imposte alla Grecia - liberalizzazioni di tariffe,
mercati e lavoro, privatizzazioni dei servizi pubblici, blocco delle assunzioni, definanziamento di
scuole, ospedali, Università, servizi sociali - c'è pari pari il programma del governo Monti
(anch'esso cucinato da Bce e Commissione europea). La Grecia è solo un anno più avanti di noi
sulla strada del disastro e Monti è il Papademos italico incaricato di accompagnarvi l'Italia
spacciandosi per il suo salvatore e garantendone il saccheggio.
Aggiungi il patto di stabilità (Fiscal Compact) che impone di riportare il debito di entrambi i paesi,
ormai chiaramente in recessione, al 60 per cento del PIL in regime di parità di bilancio, e avrete i
termini di una politica senza ritorno imposta da una classe al potere senza un'idea di futuro che non
sia la propria perpetuazione. Per loro contano solo i bilanci: tutto il resto crepi! Quando l'Unione
europea avrà tagliato gli ormeggi alla Grecia per abbandonarla alla deriva, avrà messo il vascello in
condizioni di non poter più navigare per decine di anni.
Nessuno degli economisti entusiasti degli "sforzi" di Monti ha la minima idea di come si possano
raggiungere gli obiettivi del Fiscal Compact. E allora? Il fatto è che per loro "non c'è alternativa";
perché non sanno immaginare un futuro diverso dal presente: all'Università non lo hanno studiato e
non si sono dotati di strumenti per concepirlo (tranne che per le loro carriere). "Non esiste un piano
B per la Grecia, ha detto Draghi. Ma nemmeno per l'Italia. Per questo Monti non è la soluzione, ma
il problema.
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Ma un "piano B" per l'Europa va messo a punto, e in fretta; perché quello "A" è un strada senza
uscita; e non si fa politica, né opposizione, senza un'idea sul da farsi appena il contesto la renda
plausibile. E quel momento potrebbe essere vicino, perché il mondo sta cambiando in fretta. Ma
l'Italia non è la Grecia, ripetono i supporter di Monti. E perché mai? Perché l'Italia ha un tessuto
industriale robusto e perché è "troppo grande per fallire". Due tesi per lo meno parziali. Neanche la
Grecia era priva di un tessuto industriale, anche se fragile, che le manovre deflattive imposte dalla
Troika hanno mandato in pezzi. Una vicenda attraverso cui erano già passati anni fa - e per decenni
- molti paesi dell'America Latina presi per la gola dal FMI. Quanto all'Italia, un inventario dei danni
prodotti dal ventennio berlusconiano, non solo sullo "spirito pubblico" - e non è poco - ma anche sul
tessuto industriale non è ancora stato fatto. Ma accanto ad alcune medie imprese che si sono
ristrutturate ed esportano, tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) sono
alle corde e nel tessuto industriale residuo chiude una fabbrica al giorno. "Non si produce più
niente" ripetono coloro che guardano la realtà senza lenti deformanti. Ma non è che tra un mese o
tra un anno (o anche due) quelle fabbriche riapriranno, gli operai ritorneranno al loro posto di
lavoro e le aziende riprenderanno a produrre come prima. Un enorme patrimonio di esperienze, di
professionalità, di knowhow, di attitudine all'innovazione e al lavoro di gruppo viene disperso e
scompare per sempre. Né ci sono in vista iniziative imprenditoriali in grado di mettere al lavoro,
avviandole dal nulla, nuove produzioni, nuovi addetti e risorse gestionali in grado di riempire quei
vuoti. E quanto agli investimenti stranieri, sono bloccati dall'articolo 18, dalla mancanza di
infrastrutture come il Tav Torino Lione, dalle tasse troppo alte che nessuno paga, o dalla corruzione
e dalla burocrazia che il governo Monti si è tirato in casa? BCE e governo Monti sono destinati a
imprimere una accelerazione decisiva al lungo declino dell'economia italiana.
In secondo luogo, se l'Italia è troppo grande per fallire, è anche - come ci viene ripetuto spesso "troppo grande per essere salvata". Qui sta la sua forza e la sua debolezza. La debolezza è quel
continuo richiamo a fare "i compiti a casa" (un'espressione da deficienti) e a "cavarsela da sola"
(sulla base, però, dei diktat di altri). Un compito impossibile, che i governi greci hanno già provato
a svolgere nonostante la sua palese assurdità. La forza sta nel fatto che se il governo Italiano non
sarà in grado di azzerare il deficit e dimezzare il debito, o anche solo di rifinanziarlo, perché il suo
PIL precipita, "salta" anche l'euro - il che, forse, è già stato messo in conto. O verrà messo in conto
tra poco - ma salta anche, probabilmente, l'Unione europea e con essa l'economia di mezzo mondo.
E forse anche quella dell'altra metà. Non siamo più negli anni '30, quando la partita si giocava tra
cinque o sei Stati. Il circuito finanziario ha ormai coperto e avviluppato l'intero pianeta.
Un piano B per l'Europa deve innanzitutto evitare un default disordinato (come ormai viene
chiamata la prossima bancarotta degli Stati a rischio di insolvenza; e non sono pochi) e promuovere
un "concordato preventivo": cioè un accordo che dimezzi in modo selettivo i debiti pubblici che non
possono essere ripagati o che ne sterilizzi (con una moratoria delle scadenze) una buona metà. Il che
trasferirebbe l'insolvenza sulle banche, costringendo anche la BCE e gli Stati più forti e arroganti a
correre in loro soccorso: con nazionalizzazioni, "bad bank" e separando finalmente il credito
commerciale dal pozzo senza fondo degli investimenti speculativi. Quanti più saranno gli Stati a
rischio che si impegnano su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla.
Certamente, sia che l'euro venga conservato, sia che si torni alle vecchie divise, il caos economico
che incombe sul paese e sull'Europa è spaventoso; ma non minore di quello in cui ci sta trascinando
il tentativo di rinviare giorno per giorno una resa dei conti. In tempi di crisi valutaria, ciò con cui
bisognerà fare i conti, a livello nazionale e locale, saranno gli approvvigionamenti: innanzitutto
quelli energetici e alimentari. L'unica risorsa a cui attingere a piene mani nel giro di pochi mesi e
pochi anni sono risparmio ed efficienza energetica. La condizione di paese bombardato apparirà
allora in tutta evidenza: spente le luminarie che non servono per vedere ma per farsi vedere; auto
ferme e mezzi pubblici strapieni (scarseggerà il carburante); orari cambiati per garantire il pieno
utilizzo dei mezzi durante tutto l'arco della giornata; conversione in tempi rapidi - come all'inizio di
una guerra - delle fabbriche compatibili con la produzione di impianti per le fonti rinnovabili o di
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cogenerazione, di mezzi di trasporto collettivi o condivisi a basso consumo; interventi sugli edifici
per eliminarne la dispersione energetica. ecc. Giusto quello che si sarebbe dovuto fare - e ancora
potrebbe essere fatto - in questi anni, con esiti economici certo migliori. Lo stesso vale per
l'approvvigionamento alimentare: occorrerà restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con
un'agricoltura meno dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno dipendente da derrate
importate: una operazione da mettere in cantiere con una nuova leva di giovani da avviare a
un'attività ad alta intensità di innovazione e di lavoro che potrebbe cambiare l'aspetto del paese.
Analogamente occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul ciclo di vita dei
materiali (risorse e rifiuti), su scuola, università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e
producono occupazione di qualità. Ma soprattutto ci vorrà una revisione generale degli acquisti
quotidiani: spesa condivisa, rapporti diretti con il produttore e Km0 (i GAS), riduzione degli
imballaggi e del superfluo, ricorso all'usato e alla riparazione e alla condivisione dei beni: tutti
campi in cui il sostegno di un'amministrazione locale conta molto. E tante altre cose simili su cui
occorre riflettere: sono tutti interventi da concepire, programmare e gestire a livello locale - con la
partecipazione diretta della cittadinanza attiva - che potranno essere agevolati anche da un circuito
parallelo di monete garantite dalle autorità locali, come era avvenuto con successo in molti paesi
occidentali - compresa la Germania nazista - durante la grande crisi degli anni '30. Fantascienza?
Forse; comunque un programma meno irrealistico dell'idea di affidare alla liberalizzazione dei
servizi e dei rapporti di lavoro la ripresa di una crescita che sottragga l'Italia al cappio del debito; e
magari anche alla crisi ambientale - ah! questa sconosciuta! - che investe il pianeta.
Luciano Canfora parla della Grecia del 322 a.C.
per parlare dell'Europa di oggi
di Luciano Canfora | da il Corriere della Sera
Cassandro nel 322 a. C. impose alla polis di limitare i suoi diritti
Quando i Macedoni misero Atene sotto tutela
Nonostante l'Europa sia debitrice di quasi tutto ai Greci e alla loro straordinaria civiltà, pochi grandi
popoli hanno dovuto subire, nella loro storia, la pratica asfissiante della tutela da parte di altre
potenze.
Centottanta anni fa, nel febbraio 1833, la Grecia finalmente «indipendente» si vedeva regalare dal
concerto delle grandi potenze europee un sovrano tedesco, per l'esattezza bavarese: Ottone di
Wittelsbach, scortato, poiché ancora in minore età, da un consiglio di reggenza tutto formato da
bavaresi. Non sappiamo se Angela Merkel conosca la tremenda storia della Grecia moderna: ma
certo il precedente la ingolosirebbe non poco. Nonostante l'Europa, a cominciare dagli antichi
romani, sia debitrice di quasi tutto ai Greci e alla loro straordinaria civiltà filosofica, scientifica,
letteraria ecc. (ma questi debiti per la Bce non contano), pochi grandi popoli hanno dovuto subire,
come i Greci, nella loro storia, la pratica asfissiante della tutela da parte di altre potenze. Si potrebbe
risalire molto indietro nel tempo, quando, dopo l'ultima insurrezione contro l'egemonia macedone
sulla penisola (322 a.C.), agli Ateniesi, promotori dell'insurrezione, fu imposto, dal vincitore
Cassandro, di cambiare il loro ordinamento politico e di limitare il diritto di cittadinanza a sole 9000
persone. Alla città che aveva dato vita al "modello democratico" fu imposto allora, dalla grande
potenza dominatrice, un ordinamento timocratico, che limitava i diritti politici ai soli benestanti.
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La tesi dottorale di Fustel de Coulanges si intitolava: «Polibio, ovvero la Grecia conquistata dai
Romani» (1858). Il grande storico francese ricostruiva con efficacia e in modo essenziale quel
lungo processo storico onde la Grecia divenne politicamente un satellite di Roma, anche se
culturalmente fu Roma a ellenizzarsi. (Perciò fu detto che il vinto aveva acculturato il «feroce
vincitore»). La dinamica non fu dissimile da quanto era accaduto centocinquant'anni prima con i
Macedoni. Il conflitto sociale era aspro, e i ricchi, per spuntarla, invocarono la protezione della
potente macchina militare della repubblica oligarchica per eccellenza: la repubblica romana. Così,
la Grecia fu ancora un volta sotto tutela.
E' quello che, scavalcando i millenni, si tenta di fare oggi. Chi oggi, infatti, in Grecia più patirà
delle imposizioni della «trimurti» (Ue, Bce, Fmi), sarà la povera gente, non certo i miliardari
cosmopoliti. Un dato solo può rendere l'idea: l'assistenza medica è stata di fatto eliminata, ora che
ad ogni cittadino greco è garantita fornitura gratuita di medicinali fino ad un massimo di 23 euro
l'anno (meno di una medicina a testa per anno).
Il fine è quello di tenere in vita l'euro. Ma ai Greci — come del resto agli Italiani — non fu chiesto
per referendum se desiderassero o meno «entrare» nella moneta unica che ormai viene difesa con la
forza pubblica e col ricatto. Giunti a questo punto infatti ogni alternativa diventa, a dir poco,
traumatica. Ma non dovrebbe sfuggire, che, se è la Germania che fa la voce grossa affinché nessuno
dei popoli «discoli», che non ce la fanno più, esca dall'euro, ciò significa che è la sua economia a
trarre il maggior vantaggio da questa «fortezza Europa» (come la chiamava il Führer) visto che gran
parte delle sue esportazioni è in direzione dell'eurozona. (E un ritorno alle «svalutate» e abrogate
monete nazionali ridarebbe alle merci dei Paesi liberati dall'euro non lieve forza concorrenziale).
Non sarà facile per nessuno uscire dalla «gabbia d'acciaio», a meno che non sia la Germania stessa
a calcolare che non le conviene più tenere serrati i chiavistelli.
Ma torniamo alla Grecia, vittima precipua di questa situazione il cui rimedio viene «spalmato»
(come oggi si usa dire) sui prossimi vent'anni. La cattiva coscienza delle potenze europee verso la
Grecia si è manifestata in un ampio arco di tempo. L'episodio emblematico dell'insediamento di
Ottone era il punto d'arrivo di un ciclo apertosi per lo meno con l'attacco di Bonaparte all'Egitto
(1798): colpo non da poco all'impero turco, salutato, allora, come prima tappa per la liberazione
della Grecia, stroncato immediatamente dall'Inghilterra con la vittoria di Nelson ad Abukir,
salvifica per la «Sublime Porta» ottomana. E quando, vent'anni dopo, esplose l'«Epanastasi», la
grande rivolta nazionale dei Greci, se è vero che schiere di europei filogreci accorsero a sostegno,
l'elemento decisivo fu alla fine il gioco cinico delle cancellerie europee. Nel secolo seguente, la
Grecia sperimentò per prima, e sulla propria pelle, gli effetti devastanti della guerra fredda: i
partigiani greci, che avevano dato filo da torcere ai nazisti, si trovarono, a guerra mondiale ormai
conclusa, a combattere contro gli inglesi, ritenendo la Gran Bretagna la Grecia di sua spettanza
nella spartizione dell'Europa. E la guerra, per i Greci, proseguì fin quasi all'anno «santo» 1950. Da
allora il paese fu in stato di semi-occupazione e sotto stretta tutela. Quando, dopo quindici anni il
vecchio Papandreu, il patriarca della dinastia, giunse al potere scalzando finalmente i governisgabello del dopoguerra, la libertà riconquistata durò assai poco. E nell'aprile '67 alla Grecia
vennero imposti i colonnelli.
Sappiamo bene quanto limitata fosse per tutti la sovranità in quegli anni, ma solo alla Grecia fu
inflitto, per tenerla sotto, un nuovo fascismo. Un grande filologo francese, oggi novantenne,
Bertrand Hemmerdinger, espresse molti anni addietro, regnanti ancora i colonnelli, la propria
passione per la Grecia definendosi «internazionalista e patriota greco». Non poteva prevedere che ai
colonnelli sarebbero subentrati i banchieri.
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Tutti gli esuberi del finanzcapitalismo
Giuliano Battiston (Sbilanciamoci) intervista Luciano Gallino
Pubblichiamo l'intervista a Luciano Gallino apparsa nello speciale sulla Fiom “Democrazia al
lavoro”, a cura del manifesto e di Sbilanciamoci.
Nel suo ultimo libro, Finanzcapitalismo, analizza la trasformazione del passato capitalismo
produttivo nell’attuale capitalismo dei mercati finanziari. Una trasformazione durante la
quale come nuovo criterio guida dell’azione economica viene adottata la massimizzazione del
valore per l’azionista. In che termini questo paradigma ha dato vita a una nuova concezione
dell’impresa, favorendone quell’irresponsabilità da lei già criticata ne L’impresa
irresponsabile?
La concezione dell’impresa è stata trasformata con grande rapidità, non solo sul piano teorico ma
anche nella pratica della gestione e del governo delle imprese, soprattutto dopo gli anni Ottanta del
Novecento, quando si è passati da una concezione che potremmo definire istituzionale dell’impresa
– per cui essa è o dovrebbe essere un insieme di complessi rapporti sociali tra proprietari, dirigenti,
dipendenti, fornitori, comunità locali – a una concezione prevalentemente contrattualistica. Secondo
quest’ultima concezione, l’impresa viene intesa come un fascio, un insieme di contratti – stipulati
con tutti gli attori che concorrono a vario titolo alla produzione – che hanno una precisa data di
scadenza e che possono essere, quali più quali meno, rescissi in ogni momento. Si tratta di una delle
manifestazioni della flessibilità che il capitale richiede, anzitutto per se stesso, affinché possa
sempre arrivare là dove i rendimenti sono maggiori: dal momento che l’impresa non è nient’altro
che un fascio di contratti, se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di
rendimento, quel contratto può essere eliminato e sostituito con un altro. Questo vuol dire inoltre
che le imprese, perlomeno la maggior parte di esse, non hanno più alcun interesse ad essere
localizzate in un determinato luogo, città o paese, e che la componente finanziaria diventa
predominante anche nell’organizzazione, perché ciò che conta è il rendimento collegato al contratto.
Il passaggio a una concezione contrattualistica si accompagna dunque alla progressiva
finanziarizzazione delle imprese industriali. Quali sono le conseguenze di questo passaggio
sulle condizioni del lavoro?
Dato che l’ideologia neoliberale, e la teoria economica in cui essa si esprime, hanno codificato
l’idea che il capitale deve essere altamente mobile e flessibile per poter ottenere il rendimento
maggiore – un processo che è tipico delle transazioni finanziarie, delle borse e di altri luoghi in cui
si scambiano capitali – come conseguenza anche il lavoro deve essere flessibile, oltre che le reti di
fornitura e altri aspetti. In altri termini, la mobilità e la flessibilità del capitale comportano la
flessibilità del lavoro: se il rendimento di un determinato impianto o di un insieme di servizi, meglio
ancora se una certa unità produttiva, che di per sé può andare benissimo, sembra rendere un po’
meno in termini comparati rispetto ad un’altra che opera nello stesso paese o altrove nel mondo,
quell’unità viene semplicemente chiusa, i lavoratori licenziati, dismessi, spinti al prepensionamento
o lasciati al margine, sulla strada. Ciò è avvenuto in modo vistoso in diversi paesi, inclusa l’Italia,
dove molti stabilimenti che sembravano funzionare piuttosto bene hanno ricevuto improvvisamente
l’annuncio, da una lontana direzione, che avrebbero dovuto chiudere. Quando il capitale deve essere
spostato altrove, i lavoratori diventano – come si usa dire – degli esuberi, visto che anche l’impianto
deve essere chiuso o trasferito altrove. La chiusura degli stabilimenti rappresenta un caso estremo,
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ma ad esso si accompagnano le fortissime pressioni esercitate sui salari, con la funzione principale
di massimizzare il rendimento del capitale, prima ancora che per incrementare la produzione.
Lei ha scritto, appunto, che nel finanzcapitalismo la massima espressione della razionalità
strumentale è il perseguimento del lavoro a basso costo, e in Italia sono state ampiamente
applicate quelle politiche economiche che, orientate a comprimere i redditi da lavoro, hanno
aumentato le disuguaglianze. Come ricorda nei suoi testi, l’Italia fa parte infatti con Stati
uniti e Regno unito del gruppo di paesi sviluppati che presentano gli indici più elevati di
disuguaglianza economica, oltre ad avere salari stagnanti, in termini reali, dalla metà degli
anni Novanta. Quali sono le specificità del caso italiano?
Per molti aspetti la situazione italiana è simile a quella di altri paesi, anche se presenta alcune
connotazioni particolari. In Italia i salari sono bassi e stagnanti da una quindicina d’anni, per diverse
ragioni. Tra queste, la tendenza al lavoro precario, fondato su contratti di breve o brevissima durata,
che rispondono all’idea che il lavoro debba essere altrettanto mobile del capitale. Nel nostro paese,
insieme alla chiusura di molti stabilimenti, abbiamo assistito inoltre alla riduzione considerevole
degli investimenti in ricerca e sviluppo. Una riduzione tale che, tra i paesi dell’Ocse, l’Italia si
colloca, se non all’ultimo, al penultimo posto per investimenti nel settore, a cui destina circa l’1% o
perfino meno del Pil. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e fino all’inizio degli anni
Ottanta, l’Italia poteva vantare un gran numero di centri di ricerca, anche privati, nel settore dei
materiali, della chimica, dell’elettronica. Sono stati tutti praticamente chiusi, o trasformati in centri
di ricerca con una produzione orientata secondo un orizzonte molto limitato, di 6 mesi o un anno,
mentre la ricerca ha bisogno di orizzonti molto più ampi, di 3,5,10 anni. Tutti questi elementi hanno
provocato una forte stagnazione della produttività in generale e della stessa produttività del lavoro
e, collegata ad essa, un abbassamento dei salari medi per la gran parte del lavoro dipendente.
Anche in Italia si è affrontato il problema della concorrenza internazionale puntando
soprattutto sulla compressione del costo del lavoro e sull’appello fideistico alle virtù
taumaturgiche della produttività, che la flessibilità avrebbe dovuto aumentare. Perché – ne Il
lavoro non è una merce e altrove – contesta l’idea che l’occupazione flessibile contribuisca a
elevare la produttività del lavoro?
Per due motivi: innanzitutto perché bisognerebbe intendere la produttività, come in fondo è intesa
dalle organizzazioni internazionali come l’Ocse, come valore aggiunto per ora lavorata. Si tratta
dunque di una produttività che non dipende dal ritmo più o meno frenetico con cui il tecnico,
l’impiegato o l’operaio lavora, ma dall’invenzione, dall’originalità del prodotto, dall’innovazione
dell’organizzazione complessiva della produzione. Molti tra coloro che scrivono di produttività
lasciano intendere invece che per produttività si debba assumere il numero di oggetti prodotti per
ogni ora lavorata. È una concezione che rimanda al film Tempi moderni di Charlie Chaplin: quanto
più velocemente si avvitano bulloni o si risponde alle chiamate dei clienti, tanto più cresce la
produttività. Si tratta di una visione misera, e soprattutto tecnicamente scorretta, della produttività.
Aumentare la produttività significa aumentare il valore aggiunto per ora lavorata. Ma per farlo ci
vogliono ricerca e sviluppo, e investimenti in capitale fisso, oltre a un elemento che l’ideologia
della flessibilità nega alla radice, la formazione, che deve avvenire prima del lavoro e durante il
lavoro. Il guaio è che, in presenza di milioni di contratti di breve durata o di durata determinata, di 3
mesi, 6 mesi, al massimo 1 anno, le imprese non hanno alcun interesse nella formazione: se un
imprenditore sa che un dipendente dopo 5 mesi non sarà più tale, cosa gliene importa della sua
formazione? Cercherà di assumere qualcun altro, semmai più formato dalla scuola, usando un altro
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contratto. Direi dunque che la flessibilità è un nemico fondamentale della produttività per tanti
motivi, ma nell’ambito di cui parliamo lo è soprattutto perché disincentiva alla radice la formazione.
Oltre ai lavoratori flessibili, costretti – secondo quanto ha scritto in uno dei suoi testi – ad
assumersi «la responsabilità del proprio destino lavorativo, percependosi come imprenditori
di se stessi», in Italia ci sono milioni di persone che non riescono a entrare nel mondo del
lavoro, o che ne sono stati esclusi: i disoccupati. In un articolo pubblicato su la Repubblica il
22 gennaio, sostiene che «ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle
politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L’altra
vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro». Perché ritiene preferibile la seconda?
In quell’articolo richiamavo un caso americano, che riguarda un forte intervento di politiche fiscali,
un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario
genere, operato nel 2009 dal presidente Obama per rilanciare l’economia in generale e, poi, per
creare occupazione. Quel piano si è rivelato in gran parte un fallimento perché il legame tra la
riduzione delle imposte o il premio per chi assume (le imprese erano incentivate all’assunzione con
un riduzione di imposta procapite e non generale) era troppo blando e indiretto. Prima di assumere,
le aziende tendono infatti ad aspettare, a vedere meglio cosa succede quanto a ordinativi futuri e ai
crediti richiesti. Inoltre, quel piano presentava un inconveniente molto serio, che ne limitava la
capacità di creare occupazione, perché gli incentivi venivano distribuiti a pioggia, senza distinguere
tra i settori sollecitati ad assumere personale. Si poteva trattare di settori importanti dell’economia
così come di settori molto meno importanti: se si assume un dipendente in una caffetteria o in un
centro di ricerca, quei due posti contano allo stesso modo in quanto posti di lavoro, ma il risultato
economico che se ne ricava a lungo termine è diverso. Per questo, credo che bisognerebbe ricorrere
alla ricetta keynesiana, facendo in modo che sia lo stato ad assumere direttamente, ad operare –
secondo una terminologia ampiamente diffusa nella letteratura internazionale – come datore di
lavoro di ultima istanza. Mi rendo perfettamente conto che si tratta di una proposta che, con i tempi
che corrono, per molti versi rischia di essere buttata al vento, ma rimane il fatto che davanti a 3,5
milioni di disoccupati, di cui almeno 1 milione di lunga durata, e di fronte a 3/4 milioni di lavoratori
precari (che incominciano ad avere 35-40 anni, non sono più i ventenni speranzosi, e dopo cinque
contratti precari attendono ancora di avere un posto stabile), di fronte a un dramma di questo genere
per attirare lavori ci vuole ben altro che le semplici politiche fiscali. A questo riguardo ci sono due
scuole diverse: una che punta alla spesa diretta da parte dello stato, un’operazione che possono fare
quei paesi che, diversamente dall’Italia, hanno una Banca centrale che può creare il denaro
necessario. L’altra che ritiene invece che si possano convertire vari tipi di prestazioni sociali in
salari, creando con essi nuovi posti di lavoro in modo che i disoccupati trovino subito
un’occupazione, piuttosto che assisterli in attesa di un altro posto che verrà chissà quando.
Quando dice di temere che la sua proposta sia «buttata al vento» sembra alludere
all’orientamento del governo: dalle notizie apparse sulla stampa, come giudica le intenzioni
del governo Monti sulla riforma del mercato del lavoro?
Mi pare che il governo si muova con una certa cautela. In ogni caso, quello che si annuncia non mi
sembra vada in una direzione particolarmente innovativa. Anche l’idea espressa pochi giorni fa dal
presidente del Consiglio, secondo cui occorrerebbe maggiore mobilità nel lavoro, tutto sommato è
una vecchia idea che circola sin dagli anni Ottanta, e che è stata sostenuta soprattutto dall’Ocse con
le sue famose classifiche sulla rigidità del lavoro, sia individuale che collettivo. I risultati sono
interessanti: nell’arco di vent’anni l’Italia è diventata uno dei paesi con la minor rigidità nei
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licenziamenti individuali, molto minore rispetto alla Germania, alla Francia e ad altri paesi. In tempi
di drammatica crisi, in tempi in cui milioni di persone sono in attesa di un posto di lavoro, non è
con la mobilità che si può pensare che l’occupazione risalga. Torno a insistere su un punto:
considerato che le risorse sono comunque scarse, sarebbe necessario investire il più possibile per
creare occupazione in settori ad alta intensità di lavoro. In Italia si continua a parlare di grandi
opere, di automazione, di produttività affidata alle macchine in settori in cui si producono
soprattutto oggetti materiali. In questi casi, si punta sull’alta intensità di capitali, che richiede un
numero di persone molto inferiore rispetto a quello che sarebbe necessario. Servono invece tante
piccole e medie opere ad alta intensità di lavoro. Il che non significa che siano a basso valore
aggiunto, perché, come dimostrano le piccole imprese e il mondo dell’artigianato, anche nei settori
ad alta intensità di impiego della forza lavoro si creano forti valori aggiunti. Mi sembra che, sotto
questo punto di vista, da parte del governo Monti non si sia visto nulla.
Molti temono che il governo cerchi di «barattare» una riduzione della flessibilità, o
quantomeno delle tipologie contrattuali, con l’articolo 18, che per Monti «non è un tabù». Lei
già dieci anni fa, in un intervento poi raccolto ne L’Italia in frantumi, criticava il tentativo di
abolire l’articolo 18 scrivendo che «il diritto al lavoro è come una diga, intesa a proteggere i
più deboli dai più forti, e per far crollare una diga, si sa, può bastare praticare in essa un
piccolo buco». Quanto è importante, oggi, difendere l’articolo 18?
L’articolo 18 rappresenta uno dei punti più importanti, non dico il pilastro ma quasi, dello Statuto
dei lavoratori, ed è inteso a proteggere l’integrità, la dignità, la persona del lavoratore. Se si smonta
quel pilastro, è facile che si smonti anche tutto il resto: la rappresentanza sindacale, la libertà
sindacale, il diritto a non essere fisicamente sorvegliati sul luogo di lavoro, e molte altre cose. Se
non intendiamo considerare i lavoratori solo come mezzi di produzione, che si usano più o meno e
che poi si mettono da parte perché non servono più, allora l’articolo 18 va robustamente difeso. Ma
c’è di più: non esiste alcuna verifica empirica che l’articolo 18 impedisca a qualsiasi azienda di
licenziare, senza contare che in questi ultimi anni più del 75% di tutte le nuove assunzioni sono
avvenute con contratti di durata determinata e spesso di breve durata, comunque inferiore a 1 anno.
Oltre ad essere un elemento della civiltà del lavoro nel nostro paese, non esiste alcuna prova che
l’eliminazione dell’articolo 18 serva ad aumentare l’occupazione. Per quanto riguarda le proposte
che circolano e che vengono attribuite ad esponenti di governo, ritengo positiva l’idea – che mi pare
circolasse con più frequenza alcune settimane fa – di ridurre il numero di contratti dagli attuali 4546 a 4-5, con un contratto «normale» dominante, unico, per il lavoro a tempo pieno e indeterminato.
Tuttavia, sono contrario all’idea che un simile contratto sia preceduto da un lunghissimo periodo in
cui il lavoratore non è protetto dall’articolo 18. I pretesti accampati per giustificare una decisione
simile sono fuori luogo: si è parlato della necessità della formazione, della necessità per un
imprenditore di imparare a conoscere il nuovo dipendente; si è parlato di periodi di «prova» di 3
anni o più. È assurdo. Tre anni sono un periodo insensatamente lungo, privo di qualsiasi razionalità;
nemmeno nei confronti di un fisico nucleare c’è bisogno di tutto quel tempo per capire se conosce o
meno il suo mestiere. Quanto al pretesto della formazione, non parliamone neanche: si parla di
formazione quando si ha a che fare con un operaio specializzato o con un tecnico di prima
categoria, mentre l’80% dei lavori hanno un contenuto professionale molto limitato, che nella
maggior parte dei casi si impara in qualche settimana, supponendo che il lavoratore abbia la
qualifica o lo studio adatto a tale lavoro. Non c’è alcuna giustificazione per un tempo così lungo per
la formazione e la conoscenza reciproca.
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Come ricorda in uno degli articoli raccolti ne L’Italia in frantumi, la flessibilità e
l’individualizzazione dei rapporti di lavoro «fa sì che tra la massa dei lavoratori si sviluppino
interessi materiali e ideali profondamente divergenti e sovente conflittuali, che sarà sempre
più difficile rappresentare su ampia scala». Quali strategie dovrebbero adottare i sindacati
per riconquistare centralità politico-sociale e ritrovare la propria «fisionomia» in un mondo
del lavoro così mutato?
I sindacati si trovano dinanzi a un gravissimo ostacolo: la crisi economica, industriale e della
produzione. In una situazione in cui ci sono centinaia di migliaia di persone in attesa di un posto di
lavoro, il sindacato è di per sé in gravissime difficoltà. I periodi in cui i sindacati sono stati forti
sono sempre stati quelli in cui si produceva molto, come i 30 anni del dopoguerra, quando c’era
un’elevata produzione, una manodopera relativamente scarsa e un tasso di occupazione molto
elevato. Allora il potere dei sindacati era grande. Oggi si trovano di fronte a una difficoltà oggettiva,
che non si può ignorare. Il sindacato potrebbe essere più forte se fosse unitario, ma unitario non è.
Sarebbe più forte, inoltre, se la legislazione sul lavoro in qualche modo continuasse a fondarsi
sull’assunto che la libera e piena rappresentanza sindacale costituisce un aspetto irrinunciabile delle
relazioni industriali. I primi, duri colpi al sindacato sono stati inferti dalla legislazione di questi
ultimi anni. Per venire a un caso concreto, pensiamo per esempio al fatto che non esistono strumenti
legislativi di impiego immediato per impedire che un sindacato molto rappresentativo, come la
Fiom nel settore della meccanica, venga estromesso fisicamente dagli stabilimenti del settore.
Questo indica che i sindacati non hanno sostegno né da parte della politica né da parte della
legislazione. Dovrebbe esserci qualche norma che impedisca di far fuori tutti gli aderenti a un certo
sindacato perché quel sindacato non ha firmato un certo accordo. È un’operazione che non andrebbe
consentita. Eppure, non si è sentito un fiato: le leggi non ci sono, e non c’è alcun referente politico
su cui i sindacati, sotto questo punto di vista, possano realmente contare.
In un intervento incluso nell’opuscolo di MicroMega «Finché c’è lotta c’è speranza», scrive
che «i temi della manifestazione dell’11 febbraio della Fiom toccano direttamente le sorti
prossime della democrazia reale in Italia». Ci spiega meglio il legame tra la vicenda della
Fiom e la tenuta del nostro tessuto democratico?
Un aspetto centrale nella costruzione della democrazia italiana è stato il riconoscimento che i
lavoratori avessero diritto ad una loro rappresentanza in tutti i luoghi di lavoro, il diritto che essa
potesse essere liberamente votata e che la propria preferenza potesse essere liberamente espressa,
oltre alla garanzia di non subire alcun tipo di discriminazione per il fatto di votare o affiliarsi a un
sindacato piuttosto che a un altro. Se questo insieme di diritti, di libertà di associazione e di
partecipazione, se tutto ciò viene meno, e se ciò avviene pubblicamente e con il plauso di una certa
quantità di forze politiche, si tratta di una grave ferita alla democrazia, intesa concretamente come
possibilità di partecipazione, di dire la propria, di veder rispettati nella vita quotidiana i propri
diritti. Diritti che vanno oltre la libertà di andare a votare una volta ogni cinque anni. Bisogna
inoltre tener presente un fenomeno preoccupante: le persone inclini a non andare a votare stanno
diventando la maggioranza relativa del popolo degli elettori. È un pessimo segnale, e la vicenda
della Fiom, l’estromissione di un grande sindacato, rischia di convincere molte altre persone che in
fondo andare a votare e prendere la parola non serva a nulla, perché quando si decide del concreto
dell’attività lavorativa o dei rapporti sociali chi ha il potere è in grado di dimenticarsi totalmente dei
diritti che spetterebbero a tutti in base a una concezione formale della democrazia.
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La vicenda della Fiom rischia di diventare paradigmatica, perché rimanda alla sostituzione
della contrattazione collettiva nazionale con la contrattazione aziendale. Su questo, anche il
governo Monti appare in linea con il «modello Marchionne»: nelle Dichiarazioni
programmatiche del Governo del 17 novembre 2011 si sostiene infatti di voler «perseguire lo
spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro». Come
giudica questo «spostamento di baricentro»?
È una pessima idea per tanti motivi e per uno in particolare, suffragato da inoppugnabili dati di
fatto: la contrattazione collettiva nazionale è stata per un certo periodo, e dovrebbe esserlo ancora,
uno strumento importantissimo per la redistribuzione dei redditi, o per una più equa distribuzione
dei redditi tra lavoro, capitale, rendite e altri tipi di reddito. Man mano che viene meno la
contrattazione collettiva, viene meno anche il principale strumento che i sindacati possono adottare
per evitare che la quota salariale – cioè la parte di reddito nazionale che va al lavoro – continui a
diminuire. Le statistiche elaborate dall’Ocse raccontano che, in 20 anni, la quota salariale in Italia
ha perso oltre 10 punti, scendendo più o meno da oltre il 60% a poco più del 50%, una perdita
colossale, perché un punto di Pil vale qualcosa come 16 miliardi l’anno. Naturalmente questi dati
non vanno attribuiti soltanto alla contrattazione, ma rimane il fatto che essa è uno dei pochi
strumenti per contrastare questa tendenza e per decidere dove vanno a finire i redditi. Aumenti
salariali o salari poco più alti significano qualche punto di Pil che va al lavoro, anno dopo anno. In
molti paesi tra cui l’Italia, ma in particolare negli Stati Uniti, si è verificato invece un disastro
sociale a causa della forte perdita della quota salariale sul Pil, e ciò vuol dire che il peso della
contrattazione collettiva dovrebbe essere aumentato, non diminuito. Pensare di ridurlo significa
porre le premesse per un ulteriore peggioramento nel rapporto tra quota salari e reddito nazionale.
In un articolo dell’agosto del 2002, parlava dell’idea di un’alleanza sociale, culturale e politica
tra lavoratori e no-global «come una prospettiva affatto realistica, forse perfino necessaria
per tentare di salvare i principi, i valori e gli interessi tangibili e intangibili, materiali non
meno che etici, degli uni e degli altri». Oggi, di quale alleanza politico e sociale c’è bisogno,
per superare l’afasia della sinistra e la sua tendenza a interiorizzare i dettami ideologici del
finanzcapitalismo?
La questione è di portata internazionale, se non mondiale. Da un lato c’è la realtà dei movimenti che
si sono affermati in questi anni e anche negli ultimi tempi (il movimento degli studenti, delle donne,
degli indignati, ovviamente quello dei lavoratori, soprattutto di alcuni sindacati come sappiamo), e
dall’altra c’è la realtà dei partiti. Questa forza collettiva, sociale, civile, che si esprime in forme
molteplici e difficilmente prevedibili, dovrebbe trovare un collegamento con uno o più partiti,
perché in un regime democratico gli slogan di piazza e le manifestazioni, anche se sacrosante,
giuste, fondate su rivendicazioni concrete e corrette, devono diventare istanze parlamentari,
trovando i voti e i deputati che le portino dentro al parlamento. Ciò a cui si assiste, invece, e io vi
assisto con una certa tristezza, è che da una parte i movimenti pensano di poter fare molta strada da
soli, mentre io non lo penso, perché dopo i primi mesi di vita effervescente spesso si spengono (in
Italia negli ultimi anni lo abbiamo visto accadere almeno 5 o 6 volte). E che dall’altra i partiti
continuano a manifestare un’incredibile ottusità dinanzi a movimenti che rappresentano istanze
concrete, reali, che andrebbero tradotte in domande politiche da sottoporre a tutti gli elettori.
Bisogna costruire un ponte tra società civile e partiti, tra movimenti e partiti, ma l’esaltazione
transitoria da un lato e la profonda sordità o incomprensione dall’altro dimostrano che al momento
non ci sono presupposti promettenti. Occorre un’ulteriore integrazione, un travaso di opinioni e di
forze.
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Appello per la scarcerazione degli arrestati
no tav
Libertà per Niccolò, per Maurizio, Lollo, Marcello. Libertà per tutti i No
Tav arrestati.
Giovedì 26 gennaio all'alba diverse decine di persone, in varie città italiane, hanno subito
perquisizioni presso le loro abitazioni in relazione ad un'indagine della magistratura di Torino
concernente le mobilitazioni No Tav dell'estate 2011. Ne sono scaturiti 26 arresti e un totale di 41
provvedimenti giudiziari restrittivi delle libertà individuale. Tra queste, persone anziane, donne
incinte, consiglieri comunali della valle, sindacalisti, giovani dei centri sociali.
Non è nostra intenzione mettere in discussione l'autonomia e l'indipendenza della magistratura nello
svolgere il suo lavoro, in questo caso come in generale, siamo però preoccupati per questa vicenda e
ci preme rendere note alcune considerazioni:
- crediamo sia importante sottolineare come il movimento No Tav (che coinvolge tutte le persone
interessate alla salvaguardia del territorio, a prescindere dall'abitare o meno in Val Susa e che ha già
ampiamente rifiutato ogni suddivisioni tra presunti buoni e ancor più presunti cattivi) non debba
essere criminalizzato in questo modo. L'espressione del dissenso e più in generale la battaglia per la
salvaguardia dei beni comuni che in Val Susa vengono portati avanti non sono riconducibili in
alcun modo a una mera questione d'ordine pubblico, e quest'operazione rischia seriamente di
indurre questo equivoco;
- siamo preoccupati per il clima che questo tipo di operazioni può contribuire a creare nel Paese,
nella situazione di crisi diffusa e con diverse situazioni socialmente complesse in corso, il rischio
che si lasci intendere un messaggio di normalizzazione del conflitto e di volontà di chiudere gli
spazi di agibilità politica è non solo possibile ma probabile.
- riteniamo infine, anche in virtù del fatto che conosciamo personalmente almeno una parte
significativa degli indagati e delle loro collettività d'appartenenza, che sia possibile e auspicabile
che siano messe nella condizione di affrontare le accuse che vengono loro mosse in stato di libertà,
senza misure restrittive preventive che non sembrano assolutamente giustificate e però
pregiudicano i loro affetti, il loro lavoro e studio, il loro impegno sociale.
per adesioni inviare mail a: [email protected]
Per il Punto Rosso:
Laura Cantelmo (insegnante e madre di Niccolò), Giorgio Riolo, Roberto Mapelli
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APPELLO PER IL SOSTEGNO A PUNTO
ROSSO 2012
RI-ALZIAMOCI
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Apuana
della
Pace
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provvisoria:
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Care compagne e cari compagni, amiche e
amici di Punto Rosso la situazione economica
dell’Associazione è disastrosa, la crisi si è
abbattuta anche su noi con effetti micidiali: da
mesi NON ABBIAMO PIU’ UN SOLDO per
organizzare incontri e iniziative, che in questo
panorama di consenso asfissiante bi-partisan
alle politiche di devastazione sociale e culturale,
sarebbero più che mai necessarie per contribuire
a costruire un’opposizione di sinistra e un
processo costituente per l’alternativa, unico
antidoto alle derive populiste e reazionarie che
la crisi sta determinando.
Ci rivolgiamo perciò ad ognuna/o di voi, alla
vostra sensibilità: sottoscrivete, iscrivetevi,
trovate almeno un nuovo sottoscrittore,
rinnovate l’adesione per il 2012.
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possibile ripartire con l’attività.
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