Fondazione Guglielmo Gulotta
di Psicologia Forense e della Comunicazione – Onlus
LA MUTILAZIONE GENITALE FEMMINILE
TRA REATO E FENOMENO CULTURALE
Significato e rilevanza della motivazione culturale
Avv. EMANUELE LUPPI
Laureato in Giurisprudenza
Tutor di riferimento
Dott.ssa SARA CODOGNOTTO
Torino
2007-2008
Ai miei genitori:
“Che darai loro in cambio di
quanto ti hanno dato?”
Siracide VII, 28
INDICE:
Abstract – parole chiave…………(pag. 1)
1.
Introduzione…………(pag. 2)
2. I reati culturalmente motivati……….(pag. 3)
3. L’accertamento del fattore culturale nel processo……….(pag. 6)
a. L’indagine sui motivi;
b. Il riscontro oggettivo;
c. Il raffronto della cultura del gruppo di minoranza con la cultura del
sistema ospitante;
4. L’incidenza della motivazione culturale nel sistema penale. L’esperienza
statunitense……….(pag. 8)
5. I reati di mutilazione e di lesione genitale femminile come prima espressione di
reato culturalmente orientato all’interno del sistema penale italiano………..(pag.
13)
a. Il fenomeno “antropologico” delle c.d. mutilazioni genitali femminili;
b. I (possibili) danni all’integrità fisica e alla salute psico-sessuale, prodotti
dalle MGF;
6. La risposta del sistema penale italiano al fenomeno culturale delle
MGF……….(pag. 19)
7. Considerazioni conclusive……….(pag. 23)
LA MUTILAZIONE GENITALE FEMMINILE TRA REATO E FENOMENO
CULTURALE
Significato e rilevanza della motivazione culturale
ABSTRACT
Il nuovi delitti “culturalmente motivati” di mutilazione e di lesione dei genitali
femminili rappresenta un tema molto complesso nel quale si intrecciano problematiche
profonde di natura giuridica, psicologica sociologica e antropologica. Fino a che punto
il nostro ordinamento giuridico deve considerare la diversità di popoli appartenenti a
culture diverse come causa di giustificazione di comportamenti penalmente illeciti e
fino a che punto, al contrario, deve difendersi con la minaccia penale?
PAROLE CHIAVE:
•
reato culturalmente motivato (o orientato)
•
mutilazione genitale femminile
•
infibulazione, escissione
•
motivazione culturale
•
conflitto culturale
•
consuetudine, tradizione
•
minoranza etnica
•
cultural defense
1. Introduzione
Il presente contributo ha lo scopo di studiare e di mettere in evidenza il significato,
la rilevanza e la portata giuridica della motivazione culturale all’interno della
particolare categoria dei delitti di mutilazione e di lesione genitale femminile
recentemente introdotta nel codice penale agli art. 583 bis e ter con L. n. 7/2006.
L’analisi muoverà da un preliminare esame dei c.d. reati “culturalmente orientati”
per concentrarsi poi sulla incidenza della motivazione culturale all’interno della più
specifica categoria dei reati di mutilazione genitale femminile cercando di mettere in
evidenza come un fattore – di natura psicologica – possa influire sulla configurazione e
sulla punibilità di un delitto che trova il suo movente in particolari consuetudini e
tradizioni appartenenti a minoranze etniche, con un blackground culturale diverso dai
costumi e dagli usi generalmente seguiti e accettati dalla maggioranza della comunità
all’interno di un ordinamento giuridico.
La complessità dell’argomento trattato – in ragione delle plurime implicazioni di
natura psicologica, sociologica, antropologica, e giuridica – richiede un approccio di
tipo comparatistico che consenta di confrontare l’esperienza anglosassone, espressione
prima del multiculturalismo, con il sistema penale italiano, incentrato e costruito su
codici culturali omogenei, compatti e indifferenziati propri di una dimensione
nazionalistica del diritto, i cui dogmi hanno cominciato ad andare in crisi, o almeno a
mostrare segni di grande difficoltà.
I flussi migratori degli ultimi decenni ed una rinnovata corrente ideologica
multiculturalista hanno fatto emergere l’esigenza di adeguare consuetudini e tradizioni
di minoranze etniche radicate sul territorio con l’ordinamento e i valori etico-sociali
ritenuti prevalenti nella società italiana contemporanea.
Non ne è esente il diritto penale che, come le altre scienze giuridiche, è chiamato a
riformulare le proprie categorie per adattarle alle nuove esigenze.
La composizione multirazziale, la frammentazione, l’eterogeneità etnica, religiosa
e culturale della società moderna hanno fatto emergere «tensioni o conflitti di cultura»1
nel rapporto tra certe minoranze e l’ordinamento giuridico che si esprimono in forti
contraddizioni tra particolari usanze e consuetudini di alcuni gruppi e il sistema penale.
1
DE MAGLIE, Multiculturalsimo e diritto penale. Il caso americano, in Rivista italiana di diritto e
procedura penale, 2005, pag. 189.
Queste contraddizioni possono essere efficacemente riassunte considerando gli
opposti interessi in conflitto: comportamenti che, pur considerati in aperto contrasto con
il diritto penale e più in generale con i valori etico-sociali prevalenti nell’ordinamento
giuridico civilizzato, sono giudicati permessi e accettati da parte di minoranze in quanto
conformi alle loro tradizioni e alle loro regole culturali.
E’ in questo contesto che il reato “culturalmente orientato” trova la propria
dimensione e all’interno del quale, più specificamente, si inquadra il delitto di
mutilazione e di lesione genitale femminile.
Si tratta di comprendere se da un punto di vista giuridico condotte realizzate da
persone appartenenti a culture diverse, tollerate o addirittura scusate dal gruppo sociale
di appartenenza, siano da considerare come penalmente illecite da parte del paese
ospitante.
E’ quindi partendo da queste premesse che, con il presente contributo, si cercherà
di mettere in evidenza il significato e la rilevanza della motivazione culturale
nell’ambito dei reati “culturalmente orientati” ed in particolare nei delitti di mutilazione
e di lesione genitale femminile.
2. I reati culturalmente motivati
Si parla di reato culturale o “culturalmente motivato” od “orientato”, quando
un’azione commessa da un immigrato, da un indigeno o da un appartenente ad una
cultura minoritaria, pur se considerata come reato dal sistema penale (espressione della
cultura maggioritaria) viene giustificata, accettata, promossa o approvata all’interno del
proprio gruppo2.
Il reato culturale, pertanto, si configura soltanto sulla base del presupposto che il
retroterra culturale dell’agente abbia avuto un ruolo importante, anzi decisivo, nella
realizzazione della condotta criminosa.
Innanzitutto, per sgombrare il campo da equivoci, è bene intendersi sul significato
di “cultura”.
2
Per una approfondimento della tematica si rimanda alle seguenti opere: MONTICELLI, Le «cultural
defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”. Possibili divergenze tra pluralismo
culturale e sistema penale, in Ind. Pen., 2003 pag. 535 e seg.
L’operazione è complessa: esistono infatti, nelle varie accezioni scientifiche, più
di cento definizioni di cultura3.
Il concetto di “cultura”, per essere rilevante sul piano penalistico e cioè per poter
essere provato in sede processuale deve essere ben definito.
Vanno così escluse quelle definizioni che indicano come cultura “il modo di
vivere complessivo”4, piuttosto che “i valori astratti, i principi e le visioni del mondo
che fanno da sfondo al comportamento delle persone”5.
Accogliere
una
nozione
così
indeterminata
significherebbe
ammettere
implicitamente che la cultura varia da individuo a individuo, mentre il concetto di
cultura, che nel contesto qui interessa, acquista rilevanza quando si riferisce ad un
gruppo.
Ma anche su questo punto è bene intendersi.
E’ frequente oggigiorno, in vari contesti, parlare di cultura degli omosessuali,
delle donne, degli atei, dei comunisti, dei portatori di handicap, degli animalisti, dei
verdi ecc. Certamente questi gruppi possiedono una “propria” cultura, “cultura” come
insieme di consuetudini, dei punti di vista, e dell’ethos di un gruppo o di
un’associazione.
A questa nozione “ristretta” di cultura corrisponde all’opposto una nozione
“ampia”: si può affermare che tutte le democrazie occidentali hanno una “cultura”
comune: “esse partecipano a una medesima civiltà industrializzata, laica e urbanizzata,
diversa dal mondo feudale, agricolo e teocratico dei nostri avi”6.
Queste due definizioni di cultura non interessano qui, perché sono prive di
accezione etnica.
Il concetto di “cultura” che ci interessa in questo contesto è quella che “scaturisce
dalle differenze nazionali ed etniche”7.
“Cultura”
è
sinonimo
di
“nazione”
o
“popolo”,
cioè
una
comunità
intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un
determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte.
3
DE MAGLIE, Multiculturalsimo e diritto penale. Il caso americano, in Rivista italiana di diritto e
procedura penale, 2005, pag. 187.
4
Su queste definizioni si veda KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, 1999, tr.it.., pag. 34 e 35.
5
Ibidem
6
Così, lucidamente, KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, 1999, tr.it.., pag. 34 e 35.
7
DE MAGLIE, Multiculturalsimo e diritto penale. Il caso americano, in Rivista italiana di diritto e
procedura penale, 2005, pag. 187.
Si tratta, quindi, di una nozione di “cultura” necessariamente più ristretta di quella
sociologica: ne vengono tagliate fuori le nicchie di stile di vita, le associazioni di
volontari, i movimenti sociali ecc.
E’ questa l’accezione penalisticamente rilevante di “cultura” da cui prende forma
la nozione di reato culturalmente motivato che presuppone per la sua configurazione un
“conflitto culturale”8.
La composizione multirazziale, la frammentazione, l’eterogeneità etnica, religiosa
e culturale della società moderna hanno fatto emergere «tensioni o conflitti di cultura»9
nel rapporto tra certe minoranze e l’ordinamento giuridico che si esprimono in forti
contraddizioni tra particolari usanze e consuetudini di alcuni gruppi e il sistema penale.
Queste contraddizioni possono essere efficacemente riassunte considerando gli
opposti interessi in conflitto: comportamenti che, pur visti in aperto contrasto con il
diritto penale e più in generale con i valori etico-sociali prevalenti nell’ordinamento
giuridico civilizzato, sono considerati permessi ed accettati da parte di minoranze in
quanto conformi alle loro tradizioni e alle loro regole culturali10.
I conflitti culturali sono il risultato naturale di un processo di differenziazione
sociale, che produce un’infinità di raggruppamenti sociali, ciascuno con la propria
impostazione o situazione di vita, la propria interpretazione delle relazioni sociali, la
propria ignoranza o interpretazione sbagliata dei valori sociali degli altri gruppi.
La trasformazione di una cultura da un modello omogeneo e ben integrato ad un
modello eterogeneo non integrato è perciò accompagnata da un aumento delle situazioni
conflittuali.
Viceversa, le operazioni connesse ad un processo di integrazione porteranno ad
una riduzione delle situazioni conflittuali.
Tale conflitto si realizza, in particolare, quando i membri di un gruppo emigrano
in un altro, che ha codici culturali completamente diversi.
8
DE MAGLIE, op. cit.
DE MAGLIE, op. cit.
10
In tal senso, MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”.
Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in Ind. Pen., 2003 pag. 534 ess.
9
Quest’ultima situazione merita approfondimento per la sua complessità: ad essa
sono infatti riconducibili sia ipotesi di conflitti culturali interni, che ipotesi di conflitti
culturali esterni11.
La prima situazione viene privilegiata dall’analisi degli psicologi perché fotografa
una contrapposizione nello stesso individuo di modelli culturali differenti.
Nella medesima persona, infatti, si verifica un “conflitto mentale”, perché i suoi
valori normativi vengono a scontrarsi con quelli della società ospitante.
Il conflitto tra i valori della cultura d’origine e quelli nuovi non assimilati può
creare così un forte disagio interno, un disorientamento psicologico, che fa saltare i
meccanismi di autocontrollo, che assicurano normalmente un comportamento di
conformità alla legge: la partecipazione contemporanea a due ordinamenti con
imperativi e messaggi culturali diversi, e talvolta contrastanti, può determinare così un
grave disorientamento psicologico nel soggetto.
Questo disagio può manifestarsi in modi diversi, da semplici segnali di
disadattamento, a incertezze nel carattere, a forme più gravi come l’emarginazione, la
malattia mentale, la criminalità.
Manifestazioni di conflitto culturale interno sono stati evidenziati soprattutto
all’interno della seconda generazione degli immigrati italiani: il conflitto tra i due
modelli di cultura si è rivelato più profondo e più duro per i giovani, che in bilico tra il
passato e il futuro, non si riconoscono più nella cultura dei padri portatrice di valori in
gran parte superati, ma non si identificano neppure in quella del Paese ospitante, di cui
non hanno ancora assorbito gli usi e i costumi e i cui valori sono solo in parte
interiorizzati.
Questo tipo di conflitto esula però dall’indagine in esame, poiché non risulta
decisiva per la costruzione della categoria dei reati culturalmente orientati.
Ciò che rileva, infatti, non è il conflitto interno, il conflitto mentale, bensì il
conflitto esterno12.
11
La problematica in esame è sviluppata da DE MAGLIE, Multiculturalsimo e diritto penale. Il caso
americano, cit. . In generale, nella letteratura italiana sulle reazioni dei singoli in caso di conflitto tra
previsioni legali e condizionamenti che derivano dalla cultura d’origine., DE FRANCESCO. Autonomia
individuale, condizionamenti culturali, responsabilità penale: metamorfosi e crisi di un paradigma, in
Pol. Dir., 2003, pag. 393 e ss.
12
Su questi concetti vedi DE MAGLIE, Multiculturalsimo e diritto penale. Il caso americano, cit.
Questo si realizza quando una persona che ha assorbito le norme di cultura di un
gruppo o di un’area migra in un’altra area: questo conflitto permane finchè il processo
di acquisizione dei valori del nuovo sistema non si completa.
Il riferimento al conflitto esterno è determinante: chi commette il reato lo fa
perché resta fedele alle norme di condotta del suo gruppo, ai valori che ha interiorizzato
nei primi anni della sua vita. Le motivazioni del suo comportamento sono identiche a
quelle di chi rispetta la legge.
In questo caso, non è l’individuo ad essere deviante rispetto alle norme della
società ospitante, ma è il gruppo a cui lui fa riferimento13.
Su questa nozione ristretta di conflitto culturale si ritaglia il concetto di reato
culturalmente orientato: si tratta di un comportamento realizzato da un membro
appartenente ad un gruppo etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del
sistema della cultura dominante. Lo stesso comportamento nel sistema culturale
dell’agente, è invece condonato, accettato come comportamento normale, o è approvato,
o addirittura caldeggiato e incoraggiato in determinate situazioni14.
3. L’accertamento del fattore culturale nel processo
Delineata la definizione e il concetto di reato culturalmente orientato (o motivato),
si tratta ora di accertare come si prova l’esistenza del fattore culturale nell’ambito
processuale.
La letteratura15 che si è occupata della tematica sull’argomento ha permesso di
individuare una griglia di principi base, che consentono di riconoscere gli estremi di un
“reato culturalmente orientato”.
L’analisi proposta adotta un approccio di tipo gradualistico, fatto di verifiche
successive, poste in sequenza logico-temporale, che ricorda il metodo adottato nella
teoria del reato (fatto – antigiuridicità – colpevolezza – punibilità)16.
13
Su questi concetti vedi BARBAGLI, Immigrazione e Criminalità in Italia, 1998, pag. 128.
Cfr. per tutti VAN BROECK, Cultural Defense and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offenses), in
Eur. J. Crime, vol. 9/1, 2001, pag. 31.
15
Per tutti DE MAGLIE, Multiculturalsimo e diritto penale. Il caso americano, in Rivista italiana di diritto
e procedura penale, 2005, pag. 191.
16
MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2004, pag. 99 ss.
14
Si tratta dunque di uno schema lineare che riflette tutta la sua utilità sul piano
pratico.
I gradi di accertamento sono tre17, ognuno subordinato alla dimostrazione
dell’esistenza dell’altro. Solo se si supera con esito positivo la prova dell’esistenza del
primo elemento, si passa ad accertare il secondo e così via fino alla fine.
Il superamento positivo delle tre fasi di accertamento porta a ritenere provata,
nell’ambito del processo, l’esistenza di una motivazione culturale nel senso anzidetto.
In primo luogo è necessario indagare i motivi, che hanno spinto il soggetto ad
agire.
L’osservazione avrà ad oggetto le giustificazioni che il soggetto adduce per
spiegare il suo comportamento. Peraltro, la motivazione soggettiva, per essere rilevante,
deve essere oggettivizzata: è necessario cioè verificare che questa si appoggi su una
base culturale stabilizzata e su un retroterra ben consolidato di usi del gruppo a cui
appartiene l’imputato.
Nell’ultima fase, la cultura dell’agente viene messa a confronto con le norme della
cultura dominante e, se il divario tra le due culture risulta oggettivamente apprezzabile,
si conclude per la presenza di un reato culturalmente orientato.
A. L’indagine sui motivi. Il primo grado di accertamento è volto a stabilire se la
causa psichica che ha determinato il soggetto a commettere il reato trova spiegazione
nei valori culturali di cui è portatore l’agente.
In questa fase, il retroterra del gruppo a cui appartiene il singolo non gioca alcun
ruolo. Vengono invece valutati tutti gli aspetti della personalità e della vita del singolo
per vedere se la motivazione psicologica che lo ha portato ad agire trova un appoggio
sui suoi principi culturali.
Se questa coincidenza emerge, il coefficiente psicologico della motivazione
culturale risulta integrato.
Va da sé che non è necessario che il soggetto richiami in modo esplicito
determinati valori o simboli culturali, magari utilizzando formule sacramentali: basta
che questi valori emergano di fatto dal suo comportamento.
17
Tale schema è proposto da VAN BROECK, Cultural Defense and Culturally Motivated Crimes (Cultural
Offenses), in Eur. J. Crime, vol. 9/1, 2001, pag. 23.
Non si evidenziano quindi le “dichiarazioni espresse”, ma la valutazione globale
del comportamento, degli atteggiamenti del soggetto, delle circostanze concrete in cui
ha operato e di come le ha considerate.
Infine va da sé che non basta, per ritenere superato il primo grado di accertamento,
la semplice allegazione, da parte dell’imputato di un “motivo culturale”. Sarà suo
compito, infatti, dimostrare che non ha invocato la “norma di cultura” ad arte come
scusa e come giustificazione postuma della condotta.
B. Il riscontro oggettivo. Nella seconda fase dell’accertamento è necessario
dimostrare che la motivazione culturale dell’individuo ha una “dimensione oggettiva”.
In altre parole, si deve assicurare che la ragione culturale non fa solo parte dell’etica
individuale dell’agente, ma è anche espressione del bagaglio culturale ben consolidato
del gruppo di appartenenza.
Bisognerà così accertare che i componenti del gruppo etnico di cui fa parte il
soggetto valutino la situazione concreta in cui il reato si è realizzato nello stesso modo
in cui l’ha valutata l’imputato.
La prova della “coincidenza di reazione” tra l’imputato e il gruppo costituisce il
passaggio più delicato e decisivo per individuare la sussistenza della motivazione
culturale.
Naturalmente, non si pretende una coincidenza di reazione tra singolo e gruppo
che sia assoluta e che quindi provenga dalla totalità dei componenti della comunità
nazionale d’origine; è sufficiente che il consenso provenga, quanto meno, da parte del
gruppo di appartenenza.
In questa fase, risalta l’importanza dei pareri di esperti qualificati, che illustrino
l’ambiente ed il retroterra culturale del gruppo etnico di cui l’agente fa parte.
C. Il raffronto della cultura del gruppo di minoranza con la cultura del sistema
ospitante. Nella terza fase, infine, la cultura del gruppo a cui appartiene l’agente viene
messa a confronto con quella del Paese ospitante, in modo da individuare le differenze
di considerazione e di trattamento tra i due sistemi: se il divario è consistente, anche la
terza verifica si intende superata ed è quindi possibile concludere per la sussistenza
della motivazione culturale.
4. L’incidenza della motivazione culturale nel sistema penale. L’esperienza
statunitense.
A questo punto non rimane che valutare l’incidenza pratica della motivazione
culturale all’interno del sistema penale, soprattutto in una prospettiva di eventuale
“giustificazione” o “scusa” dei comportamenti compiuti dall’imputato.
Il problema da risolvere nasce dal contrasto tra regole culturali accolte da un
determinato gruppo etnico-sociale, minoritario nel nostro Paese, e valori che si
ritengono grandemente accettati e condivisi dalla nostra collettività18.
Pertanto: può attenuare o, addirittura, escludere la responsabilità penale un
comportamento che, pur trovando una “giustificazione” e una accettabilità in un gruppo
sociale a cui appartiene l’autore del reato, configura per il nostro sistema un illecito
penale?
Come risolvere, quindi, il contrasto tra una cultura minoritaria e le regole che
permeano da secoli la nostra civiltà?
Nel nostro sistema penale “fatti culturalmente orientati”, cioè motivati da ragioni
di appartenenza sociale, possono trovare legittimo riconoscimento nel nostro
ordinamento?
Le risposte a tali interrogativi, che rappresentano una indubbia novità per il nostro
ordinamento, hanno trovato una soluzione in altri ordinamenti stranieri, in modo
particolare nel sistema statunitense19.
La preoccupazione di garantire, infatti, un adeguato rapporto tra norme culturali e
diritto penale è sorta con particolare interesse negli Stati Uniti d’America, allorquando
si è iniziato a rispondere all’esigenza di adeguare armonicamente consuetudini e
18
Vari possono essere gli esempi di delitti culturalmente orientati: reati in materia di lavoro, o contro la
libertà sessuale, di cui sono vittime minori non considerati tali dal gruppo di appartenenza; reati contro la
famiglia (ad esempio, maltrattamenti in famiglia o matrimoni incestuosi, poligamici o combinati ed
imposti) realizzati in contesti culturali caratterizzati da un concezione del ius corrigendi, dell’autorità
maritale o della potestà genitoriale ben diversa da quella europea; atti di vendetta dell’onore maschile o
familiare ispirati a tradizioni ataviche, ma tuttora vivissime presso gli appartenenti a certe etnie; reati
contro la persona commessi effettuando mutilazioni o deformazioni “rituali” di vario tipo, suggerite o
ammesse dalle proprie tradizioni. Si veda in proposito BERNARDI, Minoranze culturali e diritto penale, in
Diritto Penale e Processo, 2005, 1193.
19
Sull’argomento: MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente
orientati”. Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in Ind. Pen., 2003 pag. 541 e
seg.; In CADOPPI E CANESTRARI, Casi e materiali di diritto penale, Volume Primo, 2002, contributo di
MONTICELLI, caso n. 5, Consenso dell’avente diritto, pag. 197 e ss.
tradizioni appartenenti a minoranze etniche situate nel proprio territorio con
l’ordinamento e i valori etico-sociali ritenuti prevalenti nella comunità ospitante.
Senz’altro, si possono definire gli Stati Uniti un Paese che più di altri è riuscito a
realizzare una società multirazziale e multietnica: in esso, ormai da molti anni,
convivono soggetti e gruppi sociali appartenenti a ideologie e a modi di vivere tra loro
molto diversi.
Da tempo, poi, esponenti di minoranze – che fino ad alcuni decenni orsono erano
considerati semplicemente degli immigrati – occupano posti di potere e di
responsabilità, segno di una raggiunta tolleranza e di una raggiungibile pace sociale.
Se questa eterogeneità culturale può essere senz’altro considerata come un fatto
estremamente positivo ed una ricchezza, non sempre, però, è stata espressione di una
reale e pacifica convivenza. Questa tensione, inoltre, si è spesso riverberata nel rapporto
tra certe minoranze e l’ordinamento giuridico.
Da tempo, soprattutto a partire dagli anni ottanta, le Corti statunitensi – e insieme
a loro la letteratura penalistica e sociologica – si sono occupate di risolvere casi, spesso
con risvolti drammatici, nei quali erano emerse forti contraddizioni tra particolari
usanze di alcuni gruppi (non anglosassoni) e il sistema penale. Frequentemente, infatti, i
giudici si sono trovati dinanzi alla necessità di decidere sulla punibilità di
comportamenti che, pur considerati in aperto contrasto col criminal law e con “le norme
di civiltà” ritenute predominanti, sono giudicati permessi ed accettati da parte di
minoranze, in quanto conformi alle loro tradizioni e alle loro regole culturali. Per la
prima volta, quindi, il problema “cultura” e “diversità” viene a scontrarsi con l’esigenza
di garantire uniformità, efficacia e credibilità, al sistema penale.
La dottrina penalistica statunitense, per meglio determinare gli ampi confini del
rapporto norme culturali-norme penali, è giunta ad elaborare la figura delle c.d.
“esimenti culturali” (cultural defence)20.
Qui, però, occorre subito fare una precisazione: se nel sistema penale italiano le
cause che escludono l’antigiuridicità sono definite unicamente cause di giustificazione o
scriminanti, come quella di cui all’art. 50 c.p., nel sistema americano il termine
20
Per tutti, cfr. VAN BROECK, Cultural Defense and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offenses), in
Eur. J. Crime, vol. 9/1, 2001, pag. 1 e ss.. Sulla differenza tra cultural defense e cultural offense vedi
MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”. Possibili
divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in Ind. Pen., 2003 pag. 534 e ss.
«defence» assume un significato molto più ampio, ricomprendendo non solo suddette
cause, ma anche quelle situazioni che soltanto riducono la responsabilità penale o
escludono l’elemento soggettivo del reato.
In questa prospettiva, la ratio della «esimente» culturale si fonda non solo sul
desiderio di applicare la legge in modo equo (bilanciando le esigenze imperative del
diritto penale con il blackground culturale del soggetto attivo), ma anche sulla necessità
di risolvere casi particolarmente drammatici, attraverso un approccio culturalmente
orientato. La cultural defense viene, quindi, valutata come uno strumento giuridico in
grado di consentire il bilanciamento fra esigenze di repressione di condotte penalmente
rilevanti e la valorizzazione del pluralismo all’interno della società.
I reati commessi con motivazioni che trovano la loro radice nei valori e nelle
regole accolte nel gruppo di appartenenza del soggetto attivo (che potrebbero
qualificarsi come «reati culturali») debbono, dunque, essere strettamente collegati alle
cultural defense. La dottrina e la giurisprudenza statunitensi21 tendono a dare rilevanza
alla possibilità di escludere o diminuire la responsabilità penale soltanto in riferimento a
quelle condotte che si dimostrano culturalmente motivate. Non tutte le violazioni della
legge penale commesse da soggetti appartenenti a minoranze razziali, infatti, si
configurano come reati culturali. Lo saranno soltanto alla condizione che gli elementi
culturali abbiano realmente, e in modo diretto, condizionato il comportamento del
21
Assai ricco è il campionario di esempi di reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati, tratti
dalle cronache giudiziarie o descritti dalla dottrina statunitense. Mi limito, sul punto a richiamare alcuni
casi solo per sommi capi:
1. Caso Kargar: un immigrato afgano viene visto, da una vicina di casa, mentre bacia il pene del
proprio figlio di un anno e mezzo; imputato del reato di abusi sessuali si difende sostenendo che
tale condotta, nella sua cultura d’origine, costituisce espressione di affetto paterno e non ha
alcuna valenza sessuale;
2. caso Giuseppe: un immigrato italiano, in adesione ad una concezione “mediterranea” dei rapporti
intrafamiliari, si comporta in modo violento ed aggressivo nei confronti dei due figli (di dieci e
di dodici anni) e della moglie (anch’essa italiana), sicchè viene imputato per maltrattamenti ed
abusi sessuali;
3. caso Kimura: un’immigrata giapponese, tradita e abbandonata dal marito, in ottemperanza ad
un’antica pratica tradizionale giapponese, decide di uccidersi insieme ai suoi due figlioletti (i
quali effettivamente muoiono, mentre la donna, soccorsa, sopravvive;
4. caso Kong Moua: un giovane immigrato laotiano sequestra e compie atti di violenza sessuale ai
danni della sua fidanzata, nella “convinzione” di realizzare un rituale matrimoniale tradizionale
della tribù laotiana Hmong alla quale entrambi – autore e vittima – appartengono;
5. caso Dong Lu Chen: un immigrato cinese ammazza a martellate la propria moglie fedifraga per
ristabilire il proprio onore secondo le tradizioni cinesi:
Nei predetti casi, la situazione di “conflitto normativo/culturale” vissuta dall’imputato è stata valutata
dalle corti statunitensi pro reo, nel senso che ha comportato l’assoluzione dell’imputato (caso 1 e 2), o per
lo meno l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello richiesto dalla pubblica
accusa (casi 3, 4 e 5).
soggetto attivo. Solo di fronte a questo tassativo presupposto si potrà, poi, parlare di
un’eventuale scriminante culturale tendente a «giustificare» o a «scusare» quel
comportamento.
In altre parole, il reato culturale e la scriminante culturale sono intesi come le due
facce della stessa medaglia. Pertanto, potrebbe parlarsi di «esimenti» culturali
allorquando una persona, pur commettendo un reato per la legge vigente, non viene
ritenuta responsabile, o solo in parte responsabile, poiché realizza una condotta
conforme al costume e alle regole culturali del proprio gruppo di appartenenza.
Parlare, però, di cultural defense non significa, in ogni caso, riconoscere che
l’agente meriti sempre l’assoluzione22. Invero, come già accennato, tale esimente, a
seconda del contesto sociale considerato e al tipo di reato commesso, viene a
configurarsi nella pratica sia come causa di esclusione della responsabilità sia come
causa che diminuisce soltanto le conseguenze sanzionatorie.
Un elemento, però, sembra comune ad entrambe le fattispecie: esse producono
effetto sempre all’interno della «colpevolezza» del reato (mens rea), in quanto l’agente,
a causa della propria educazione culturale, non è in grado di «motivarsi» in modo
pienamente conforme al precetto penale: al momento della condotta criminosa egli cade
in errore durante il procedimento di formazione della propria volontà. Insomma, la sua
condizione personale e le forti pressioni ricevute dal gruppo sociale in cui è inserito, lo
portano a violare la norma penale, non riconoscendo quest’ultima come motivo
sufficiente da impedire la realizzazione della propria condotta.
Inoltre, la cultural defense non configura mai un’esimente autonoma: il diritto
penale statunitense23, infatti, non prevede una tale scriminante in modo espresso, ma
essa viene ad operare all’interno di altre defense previste dall’ordinamento. Spesso,
infatti, viene ad agire all’interno della legittima difesa (self defence), dell’errore di fatto
(mistake of fact) o della stato passionale e depressivo (unconsciouness and heat of
passion), della provocazione (provocation), del vizio di mente (insanity) o di una
generica diminuzione della pena (diminished respnsability).
22
In tal senso MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”.
Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in Ind. Pen., 2003 pag. 541.
23
Su tutta l’analisi comparativa vedi MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati
“culturalmente orientati”. Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, cit.
Il procedimento24 di riconoscimento di tale esimente è abbastanza complesso:
nelle ipotesi in cui l’agente ritiene di invocare una cultural defense, l’atteggiamento da
addurre a propria difesa è la mancanza della mens rea necessaria per la sussistenza del
reato. Dunque, senza invocare esplicitamente una scusante culturale – dato, appunto, il
mancato riconoscimento da parte del diritto positivo – l’argomento difensivo consiste
nel convincere la giuria che il blackground culturale è tale per cui l’agente ha agito
senza il richiesto (esplicito) intento di commettere il reato.
In secondo luogo, guardando ai precedenti giurisprudenziali che hanno giudicato
casi di reati culturali, la cultural defense può rilevare come causa attenuante la capacità
di intedere e volere (diminished capacity). La ridotta mens rea può essere dimostrata
adducendo la presenza di determinate circostanze influenti sulla capacità cognitiva e
volitiva, quali il fatto che l’identità culturale del soggetto attivo ha condizionato in
modo decisivo le sue azioni, al punto da fare scemare grandemente la sua capacità di
intendere e volere.
In conclusione, quando nelle Corti degli Stati Uniti si pone il problema di
giustificare o mitigare il comportamento di un immigrato, considerato illecito da parte
del sistema penale, esse non possono prescindere dalla primaria definizione di reato
culturale: solo quando la condotta incriminata è direttamente condizionata dal
blackground culturale dell’agente può porsi il problema dell’applicazione di una
scriminante culturale. Non è, infatti, sufficiente invocare un proprio modo di vivere o
una particolare ideologia per ottenere indulgenza da parte del giudice. Occorre, per
converso, che l’agente si sia mosso partendo da un humus culturale che ha fortemente
condizionato la propria condotta: solo dinanzi a un tale presupposto, si pone il problema
di individuare dei limiti (taciti) alla norma penale e un giusto equilibrio tra una cultura
di minoranza e la cultura di maggioranza.
Qui, invero, non si tratta di legittimare l’anarchia, autorizzando e permettendo un
comportamento «deviante» in aperto contrasto coi valori etico-sociali prevalentemente
condivisi dalla coscienza sociale, ma – più realisticamente – di riuscire anche nel diritto
penale a trovare un equo e giusto riconoscimento di esperienze che, seppur minoritarie,
24
Sul punto vedi CADOPPI E CANESTRARI, Casi e materiali di diritto penale, Volume Primo, 2002,
contributo di MONTICELLI, caso n. 5, Consenso dell’avente diritto, pag. 197 e ss.
debbono trovare un adeguato accoglimento in una società multirazziale come quella
statunitense.
Questo «compromesso», quindi, viene vissuto come il modo più ragionevole per
realizzare quei principi di libertà e di tolleranza che si pongono a fondamento dell’intera
istituzione democratica nazionale, che fa della protezione delle minoranze un principio
basilare ed insuperabile.
E nel nostro ordinamento giuridico?
Il nostro Paese, anche se non può certamente definirsi espressivo di una società
multiculturale, non è estraneo alle problematiche che emergono quotidianamente in altri
Paesi. Si può dire, al contrario, che si sia avviato verso una società multirazziale: anche
da noi, da anni, esiste una forte immigrazione, soprattutto da parte di persone
provenienti dal nord-africa, dal mondo arabo, slavo e albanese con proprie usanze e
propri costumi.
Il problema del pluralismo tra razze ed etnie diverse, se ha posto, quindi,
interrogativi sul piano sociale, pone anche importanti questioni nell’ambito della
amministrazione della giustizia. Questa situazione ci permette di introdurre lo stesso
problema assunto nel sistema-giustizia americano: può parlarsi di esimenti culturali
riconosciute a favore di chi, non italiano, coscientemente realizza condotte che entrano
in aperto contrasto col diritto penale? quando il suo comportamento è il risultato di un
forte condizionamento della propria formazione personale e culturale?
Alla luce delle predette considerazioni, si pone ora la domanda se le
argomentazioni e le soluzioni offerte nell’ordinamento statunitense possono essere
riprese anche da noi, in particolare con riferimento ai reati di lesione e di mutilazione
genitale femminile che per primi rappresentano la più immediata e diretta espressione di
tradizioni e consuetudini in aperto contrasto rispetto ai valori grandemente condivisi nel
nostro ordinamento giuridico25.
25
Sul punto si segnala l’ultimissimo contributo di BASILE, Società multiculturali, immigrazione e reati
culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Rivista Italiana di Diritto e
Procedura Penale, n. 4 Ott.-Dic. 2007, pag. 1296 e ss.
5.
I reati di mutilazione e di lesione genitale femminile come prima espressione
di reato culturalmente motivato all’interno del sistema penale italiano.
a. Il fenomeno “antropologico” delle c.d. mutilazioni genitali femminili
In alcuni gruppi sociali di circa quaranta Paesi, dislocati soprattutto nell’Africa
subsahariana (ad es. Somalia, Sudan settentrionale, Djibouti, Etiopia, Eritrea, Kenya
settentrionale, alcune zone del Mali e della Nigeria settentrionale), in Egitto e in alcune
circoscritte regioni dell’Asia (Indonesia, Malaysia, Yemen, Emirati A.U.), per motivi
tradizionali e socio-culturali assai vari, ma tutti di difficile comprensione agli occhi
dell’osservatore occidentale, sono diffuse alcune pratiche di modificazione o comunque
di aggressione degli organi genitali femminili, attraverso le quali si attua una sorta di
controllo sulla sessualità e sul corpo della donna26.
Tali pratiche hanno un’origine plurimillenaria. La fonte storica più risalente a
nostra disposizione che le testimonia è costituita da Erodoto (sec. V a.C.) che riferisce
di pratiche di mutilazione genitale femminile (MGF) diffuse presso gli egizi, i fenici, gli
hittiti e gli etiopi27.
Attualmente, esse sono radicate in comunità etniche e religiose tra loro anche
molto differenti, tutte, però, caratterizzate da una struttura organizzativa essenzialmente
patrilineare e patriarcale. A seconda dell’area socio-culturale e geografica in cui sono
diffuse, esse possono assumere caratteristiche assai diverse per tipologia, modalità di
intervento, motivazione, nonché numero ed età delle donne che vi vengono sottoposte28.
Stiamo, quindi, parlando di un fenomeno assai vario e composito.
Poiché tali pratiche consistono, assai spesso, in un’asportazione di tessuti
dell’apparato genitale femminile, esse vengono comunemente indicate con il nome di
genere di “mutilazioni genitali femminili”29.
In ogni caso è più corretto parlare di “MGF” piuttosto che di “infibulazione”
(come invece hanno fatto i mass-media nel commentare il progetto di legge e poi la
legge 7/2006), perché quest’ultima, come subito vedremo, è solo una species, la più
26
Vedi FRANCESCO SINCICH, Circoncisione femminile “mutilazioni genitali femminili” argomenti per
una riflessione, in www.stopfgmc.org.
27
Si veda Guida al Diritto, fasc. 5 del 2006.
28
RICCI, Le mutilazioni genitali femminili, in Arch. Giur. 203, 575, FRANCESCO DI PIETRO, Le norme sul
divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, in Diritto&Diritti (www.diritto.it).
29
Sull’argomento vedi GRASSIVARO GALLO – TITA – VIVIANI, Psicolinguistica delle Modificazioni
Genitali Femminili, in www.scienzaonline.com/sessuologia/psicolinguistica.html.
grave, ma non certo la più diffusa, di questo ben più ampio genus di pratiche di
modificazione/aggressione degli organi genitali femminili30.
Per inquadrare questo fenomeno, un sicuro punto di partenza può essere costituito
dalle indicazioni formulate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO)31,
la quale, nel 1995, proprio al fine di monitorare e meglio individuare, almeno dal punto
di vista sanitario, tale fenomeno, ha elaborato una definizione convenzionale di MGF, in
base alla quale possono essere ritenute tali «tutte le pratiche che comportano la
rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altri danni agli
organi genitali femminili, compiute per motivazioni culturali o altre motivazioni non
terapeutiche»32. Tali pratiche sono state, poi, così classificate dall’OMS33:
I tipo: escissione del prepuzio, con o senza escissione parziale o totale del
clitoride, tradizionalmente denominata “sunna”;
II tipo: escissione del prepuzio e del clitoride, con escissione parziale o totale
delle piccole labbra;
III tipo: escissione di parte o della totalità dei genitali esterni con cucitura o
restringimento del canale vaginale (cd. “infibulazione”: si tratta della forma più
estrema, perché dopo l’escissione dei genitali esterni i due lobi della vulva
vengono tra loro cuciti con fili di seta o catgut o tenuti assieme con spine, così
che, una volta cicatrizzati, occludono il canale vaginale ad eccezione di un piccolo
foro per consentire il passaggio dell’urina e del sangue mestruale);
IV tipo: non classificato, ricomprensivo di pratiche consistenti nel forare
(pricking), trapassare (piercing), incidere il clitoride e/o le labbra o nel produrre il
loro stiramento; nel cauterizzare mediante ustione il clitoride ed i tessuti
circostanti; nel raschiare i tessuti attorno all’orifizio vaginale (tagli “ad anguria”) o
nell’incidere la vagina (tagli “gishiri”); nell’introdurre nella vagina sostanze
corrosive per causarne il sanguinamento o erbe per serrarla o restringerla; in ogni
altra pratica che rientri nella surriferita definizione di MGF.
30
ROSA CECERE, Le mutilazione dei genitali femminili, in Archivio Disarmo – Istituto di Ricerche
Internazionali, Sistema Informativo a schede n. 12/2005.
31
Dati tratti da WHO, Female Genital Mutilation, Information Pack, in www.who.int/docstore/frhwhd/FMG/infopack/English/fgm_infopack.htm
32
Ibidem
33
Più ampiamente vedi FRANCESCO DI PIETRO, Le norme sul divieto delle pratiche di mutilazione genitale
femminile in Diritto&Diritti (www.diritto.it). Vedi anche Associazione EQUAMAGLIANA, Mutilazioni
Genitali Femminili in www.aidos.it, dossier.
In base a ricerche effettuate dall’OMS in collaborazione con l’UNICEF e
l’UNFPA, si stima che al mondo vi siano circa 130 milioni di donne che hanno subito
MGF e che ogni anno vi vengano sottoposte due milioni di donne. Le pratiche più
comuni (oltre l’80%) sono quelle di I e di II tipo. Le MGF di III tipo (infibulazione)
costituiscono, invece, circa il 15%, e quelle del IV tipo circa il 5% dei casi34.
Assai spesso le MGF vengono praticate secondo riti tribali in condizioni igieniche
non sterili, da persone che non possiedono una formazione ufficiale in ambito sanitario
(le c.d. “mammane”, o assistenti tradizionali al parto), con l’utilizzo di strumenti
primitivi, come ad es. lame di rasoio e pezzi di vetro; anestetici e disinfettanti non
vengono generalmente utilizzati. Solo nelle aree urbane, le MGF vengono talora
praticate anche da personale sanitario e in ambienti sterili.
Peraltro, l’OMS è fermamente contraria35 alla ‘medicalizzazione’ di tali pratiche,
cioè allo svolgimento delle stesse da parte di sanitari qualificati ed in strutture
ospedaliere.
L’età delle persone di sesso femminile sottoposte a tali pratiche varia all’interno
delle diverse comunità ma è, generalmente, assai bassa (tra i quattro e i dieci anni): in
alcune comunità, la MGF viene eseguita appena prima del matrimonio, talora celebrato
quando la donna è ancora adolescente; in altre comunità, invece, la MGF viene vista
come un passaggio per diventare donna ed è perciò praticata alle fanciulle di otto o nove
anni, come parte della cerimonia di “iniziazione”; in altre comunità, infine, la MGF
viene effettuata addirittura quando la bambina ha solo pochi giorni di vita.
Le motivazioni per le quali le MGF vengono praticate sono numerose, varie e
complesse, e riflettono la situazione storica ed ideologica delle comunità in cui si sono
diffuse36. Queste motivazioni sono:
- identità culturale e rafforzamento del senso d’appartenenza ad una determinata
comunità (la MGF funge, cioè, da segno di riconoscimento dell’appartenenza, o meno,
ad una determinata comunità);
- convinzione religiosa. Va, tuttavia, sottolineato, da una parte, che le MGF sono
34
MORRONE, Usanza che crea danni fisici e psicologici, in Guida al Diritto, 2006/5, 30.
Sul punto vedi anche ALDO MORRONE, Mutilazioni genitali femminili: un problema nuovo e antico, in
Esperienze Dermatologiche, vol. 3, numero 4, ottobre 2001, 413 – 430 e in www. iismsa.it
36
BASILE, Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni
genitali femminili), in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, n. 4 ott. Dic. 2007 pag. 1296 e ss.;
FRANCESCO DI PIETRO, Le norme sul divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, cit.
35
diffuse sia fra i musulmani che fra i cristiani protestanti, cattolici e copti, gli ebrei
falascià, gli animisti, gli atei; dall’altra parte, che nessuna confessione religiosa le
impone esplicitamente;
- purificazione ed esaltazione della sessualità femminile (ad es., la clitoridectomia
viene talora praticata nella convinzione di rimuovere dal corpo femminile un organo
erettile di tipo “maschile”);
- onore familiare;
- credenze sull’igiene, sull’estetica e sulla salute femminile (in alcune comunità si
ritiene che i genitali femminili esterni siano “sporchi”; in altre si pensa che essi possano
continuare a crescere fino ad arrivare a “pendere” tra le gambe; in altre ancora è diffusa
la convinzione che il contatto del clitoride con il pene dell’uomo durante la copula o con
la testa del neonato durante il parto possa provocare la morte);
- preservazione della verginità e rafforzamento della fedeltà matrimoniale;
- aumento del piacere sessuale del marito;
- incremento della fertilità;
- aumento delle chance di matrimonio.
Per effetto di questo complicato e potente sistema di credenze che sostiene le
MGF, da parte di chi le impone alla donna o alla bambina, presumibilmente vi è quasi
sempre la convinzione di migliorarne la salute e lo status personale e sociale, in modo
da assicurarle un futuro più prospero come moglie e come madre. Da parte di chi la
subisce, invece, presumibilmente vi è spesso un sentimento di acquiescenza se non
addirittura di piena adesione. D’altro canto, se un membro di una comunità in cui la
MGF è diffusa la rifiuta (per sé o per la figlia), allontanandosi quindi dalle tradizioni del
suo gruppo di appartenenza, rischia di andare incontro ad ostracismo da parte degli altri
o di essere visto come vittima di influenze esterne.
Solo negli ultimi decenni e, per lo più, solo nelle aree urbane, va lentamente
cambiando l’atteggiamento di alcuni gruppi delle popolazioni locali nei confronti delle
MGF, soprattutto per effetto della considerazione che le stesse possono avere sulla
dimensione sessuale della donna e del suo partner.
In tempi relativamente recenti, anche i Paesi Occidentali sono venuti a contatto
con il fenomeno delle MGF per effetto dei flussi immigratori provenienti dall’Africa e
dall’Asia.
Oltre a numerosi casi di donne mutilate da giovanissime nei loro Paesi d’origine e
solo successivamente immigrate in Occidente, si ha notizia anche di casi di MGF
praticate in clandestinità direttamente sul territorio del Paese occidentale di
immigrazione, ma pur sempre all’interno della comunità d’origine.
Per quanto riguarda in particolare l’Italia, mentre sono isolate sono le notizie di
MGF praticate direttamente nel nostro Paese, si registra un numero sempre maggiore di
immigrate provenienti da gruppi etnici tradizionalmente favorevoli a tali pratiche: in
particolare, una ricerca (non più recentissima) del 1996 stima a 28 mila il numero dei
casi di donne, presenti in Italia, che avrebbero subito, nel Paese d’origine, una MGF37.
b.
I (possibili) danni all’integrità fisica e alla salute psico-sessuale, prodotti
dalle MGF
Secondo l’OMS38, le MGF possono causare «gravi danni alle fanciulle e alle
donne». Dal punto di vista medico, tali danni sono di due ordini39:
1) danni all’integrità fisica della donna;
2) danni alla salute psico-sessuale della donna (in relazione a questo secondo tipo di
danni, tuttavia, l’OMS avverte che essi possono per ora solo essere supposti, in quanto
attualmente non ancora documentati da approfonditi studi scientifici).
1) I danni all’integrità fisica possono essere distinti, seguendo la catalogazione fatta
dall’OMS, in danni immediati e danni nel lungo periodo.
Tra i danni immediati, il più frequente (e pressoché immancabile) è costituito
dall’emorragia (primaria o secondaria), dovuta a rescissione dell’arteria vulvare o
dell’arteria dorsale del clitoride, ovvero al danneggiamento dei vasi sanguigni delle
labbra, che in taluni casi può addirittura portare al dissanguamento. Possono, inoltre,
verificarsi shock (per l’emorragia o anche per il dolore e l’angoscia vissuti), infezioni di
vario tipo e diffusività a causa delle condizioni non igieniche e degli strumenti non
sterili, che possono anche estendersi internamente alle vie genitali e alle ovaie;
37
Dati
riferiti
da
D’ANGELO,
Documento
di
lavoro
sulle
MGF,
in
www.radiclparty.org/fgm/documentodilavoro.htm.
38
WHO, op. cit, 9.; v. pure Amnesty International sulle MGF, Dossier, in
www.amnesty.it/educazione/formazione/mainstreaming/bambini/mutilazione.html; PRESIDENZA CONS.
MNISTRI –Ministero Pari Opportunità, Opuscolo sulle MGF, in www.pariopportunità.gov.it.
39
Sull’argomento, più ampiamente vedi TURILLAZZI e NERI, Luci ed ombre nella legge in tema di
mutilazioni genitali femminili: una visione di insieme medico legale, in Juris Data - Note e Dottrina, vedi
anche Riv. It. Medicina Legale, 2006, 2, 286.
ritenzione urinaria per ore o anche giorni; lesioni ai tessuti adiacenti (ad es., all’uretra,
alla vagina, al perineo o al retto).
Come danni nel lungo periodo vanno, invece, segnalati: emorragie post-operatorie
(che in alcuni casi possono sviluppare una vera e propria anemia); difficoltà nella
minzione; infezioni pelviche e del tratto urinario; sterilità; cicatrici, ascessi e dolore a
livello della vulva; formazione di cisti e calcoli; neurinomi; ostruzione del flusso
mestruale; fistole urinarie e fecali. Ulteriori complicanze possono, inoltre, manifestarsi
durante il rapporto sessuale (fino all’impossibilità di consumarlo, a causa di ostruzione,
vaginismo o dolore al tessuto cicatrizzato) e in occasione della gravidanza e del parto.
Le donne che subiscono MGF, infine, risultano esposte ad un rischio maggiore di
contrarre il virus dell’HIV, sia al momento dell’intervento mutilativo, sia
successivamente, in occasione dei rapporti sessuali.
2) Per quanto riguarda, poi, i danni alla salute psico-sessuale40, sempre in base ai
dati forniti dall’OMS, va rilevato che le MGF – specie quando consistono nell’ablazione
di tessuti sensibili e, massimamente, in caso di infibulazione – producono riduzione
della sensibilità sessuale, diminuzione o perdita del desiderio sessuale ed altre
disfunzioni sessuali, oltre ai già menzionati dolori durante i rapporti sessuali.
L’esperienza di ansia, terrore, senso di umiliazione e di tradimento, eventualmente
vissuta dalla donna sottoposta a MGF, può, infine, provocarle ulteriori lesioni a livello
psicologico, quali disturbi nel mangiare, nel dormire e nell’umore (perdita dell’appetito
e del peso, stress post-traumatico, insonnia, incubi, attacchi di panico, instabilità
dell’umore e difficoltà di concentrazione).
È, peraltro, subito necessario precisare che quelli sopra elencati sono i possibili
danni, segnalati dall’OMS, che le donne sottoposte a MGF possono subire; ma quali
danni, in concreto, la singola donna subisce, può essere stabilito solo caso per caso,
dipendendo ciò da tutta una serie di fattori, quali la capacità e l’esperienza
dell’operatore che pratica la MGF, le condizioni igieniche nelle quali viene effettuata, le
modalità di intervento, la resistenza opposta dalla donna e, soprattutto, il tipo di
mutilazione praticata.
Come attesta un recente studio medico effettuato a livello regionale in Italia,
40
FRANCESCO SINCICH, Circoncisione femminile “mutilazioni genitali femminili” argomenti per una
riflessione, in www.stopfgmc.org
infatti, le complicanze riportate variano molto da donna a donna: vi sono donne che
ogni giorno sopportano, anche a distanza di molti anni, le conseguenze di una MGF, e
donne, invece, che non riferiscono alcun tipo di danno [Regione E-R, Progetto n. 9, p.
49, ove peraltro si afferma che, a parte gli effetti immediati sulla salute fisica, “la
maggior parte delle donne [prese in considerazione dallo studio] non ha presentato
problemi particolari legati a tali pratiche”]41.
6. La risposta del sistema penale italiano al fenomeno culturale delle MGF
Poste queste necessarie premesse in ordine al fenomeno “culturale” delle MGF
possiamo ora analizzare come in Italia lo strumento penale sia stato utilizzato in modo
profondamente diverso dal legislatore e dai giudici rispetto all’esperienza statunitense.
In assenza di una legislazione specifica (ora introdotta dalla legge n. 7/2006), in
Italia, per lungo tempo il riferimento normativo è stato costituito dall’art. 32 Cost.;
dall’art. 5 c.c. (atti di disposizione del proprio corpo) e dalle norme penali in materia di
lesioni (artt. 582 e 583 c.p.) e di abusi e maltrattamenti nei confronti dei minori.
In caso di bambine a rischio di essere sottoposte a MGF per volere dei genitori,
rilevano, inoltre, gli artt. 330 (decadenza della potestà sui figli) e 333 c.c. (condotta del
genitore pregiudizievole ai figli), i quali danno al giudice minorile la facoltà di
allontanare le figlie dai genitori, con decadenza dalla potestà nei casi più gravi, o
comunque di adottare provvedimenti convenienti quando la condotta di uno e di
entrambi i genitori sia pregiudizievole alla figlia.
Si ha notizia di sole due sentenze penali circa le MGF, pronunciate entrambe dal
Tribunale di Milano.
La prima42 riguarda la denuncia fatta nel 1997 da una donna italiana, moglie
separata di un egiziano, nei confronti dell’ex marito per aver sottoposto a mutilazione
sessuale i due figli (una bambina di dieci anni, sottoposta a infibulazione; un bambino di
cinque, sottoposto a circoncisione), durante una vacanza nel 1995 presso i parenti di lui
41
Regione Emilia Romagna. Servizio Assistenza Distrettuale Pianificazione e Sviluppo dei Servizi
Sanitari Consultori Familiari, Le Mutilazioni Genitali Femminili(MGF) nella popolazione immigrata.
Raccomandazioni per i professionisti. Progetto n. 9, dicembre 2000, febbraio 2001.
42
Trib. Milano 25 novembre 1999, imputato El Namr Hassan, in Dir. Immigr. Citad. 2000, pag. 148.
in Egitto. L’intervento era stato eseguito da personale sanitario del luogo. La donna,
insospettita dal cattivo stato di salute della figlia (che accusava emorragie, infezioni e
febbre) si accorse dell’accaduto e presentò denuncia. Il processo si tenne a Milano nel
1999 e fu il primo in Italia per un fatto del genere.
La vicenda processuale si chiudeva con sentenza di patteggiamento (due anni di
reclusione), in relazione al quale il tribunale di Milano non ravvisava motivi di
proscioglimento e riteneva corretto qualificare il fatto quale lesioni personali gravissime
(artt. 582 e 583 c.p.).
L’altra pronuncia è relativa all’esposto presentato dalla Procura di Milano da
entrambi i genitori, di religione islamica, contro il responsabile di un centro islamico e
contro due medici (un algerino e un etiope) i quali, nel 1998, avevano praticato una
infibulazione ad una bambina di sei mesi.
Esiste, inoltre, una pronuncia del Tribunale per i Minorenni di Torino43, relativa
alla vicenda di una bambina, figlia di genitori nigeriani, la quale era stata sottoposta a
MGF in Nigeria. Al rientro in Italia, la minore accusò un grave ascesso nella zona
genitale e fu quindi ricoverata all’ospedale di Torino. Intervenne il Tribunale per i
minorenni che allontanò la bambina dai genitori e dispose un’indagine sulla famiglia,
con l’aiuto di una mediatrice culturale. L’indagine evidenziò la positività della relazione
familiare: la bambina era stata operata in Nigeria presso una vera clinica statale e non in
un contesto privato insicuro; era stata poi ben seguita dai genitori nell’ospedale a
Torino. Inoltre, la mediatrice riferiva che secondo le consuetudini dell’etnia Edo, cui
appartenevano i genitori, una donna non sottoposta a MGF viene mal vista dalla
comunità e rischia di non trovare un marito (tanto è vero che tali interventi non sono
sanzionati dalle autorità locali). Il Tribunale, quindi, ritenne di dover riaffilare la
bambina ai genitori, disponendo però la vigilanza da parte dei servizi sociali.
Tale vicenda ebbe anche il suo risvolto penale. Ci fu una denuncia per lesioni
personali gravissime, ma poi il procedimento si chiuse con l’archiviazione, poiché il
P.M. ritenne che i genitori avevano voluto sottoporre la figlia a pratiche mutilatorie
pienamente accettate dalle tradizioni locali (e dalle leggi) del loro Paese e anche la
madre subì a suo tempo lo stesso intervento.44
43
TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO 17 luglio 1997, in Minori giustizia, 1999, n. 3, pag. 140.
Questi casi sono riportati da CASTELLANI, Infibulazione ed escissione: fra diritti umani ed identità
culturale, in Min. giust., 1999, pag. 142 e ss.. FRANCESCO DI PIETRO, Le norme sul divieto delle pratiche
44
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 7/2006 non sono stati rilevati altri casi
del genere45. Tale assenza di denunce – considerate le spesso gravi conseguenze fisiche
che la pratica può comportare – può dipendere sia dalla inesistenza di una figura
delittuosa ad hoc sia dalla coesione interna alla comunità di immigrati ove avvengono le
mutilazioni sia, infine, dall’alto grado di accettazione e consenso alla pratica, vista come
un vero e proprio dovere.
Tirando le fila del discorso, in entrambi i casi giudiziari si è visto come la
giurisprudenza italiana ha di fatto accolto una nozione (seppur non esplicitamente
definita) di esimente culturale46.
L’elemento culturale motivante il comportamento dell’agente viene considerato
nel senso di attenuare o escludere la responsabilità penale: anche i giudici italiani
iniziano a far fronte ai contrasti di natura culturale che possono contraddistinguere
condotte di membri di minoranze etniche e le soluzioni adottate sembrano orientarsi
verso una presa d’atto dell’esistenza di una società multiculturale e della necessità di
riconoscere un adeguato valore ad usanze e regole decisamente minoritarie nella nostra
comunità.
Tale indirizzo non sarà, tuttavia, destinato a trovare un formale riconoscimento
legislativo.
Nel 2004, in Italia, la questione delle MGF fu animata dalla proposta di
medicalizzazione da parte di un ginecologo di origine somala, che lavorava a Firenze.
Egli propose di effettuare, all’interno di strutture mediche pubbliche (al riparo, quindi,
dai rischi sanitari che comporta la clandestinità o comunque la pratica in ambiente non
di mutilazione genitale femminile, cit. e BASILE, Società multiculturali, immigrazione e reati
culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Rivista Italiana di Diritto e
Procedura Penale, n. 4 ott. Dic. 2007 pag. 1296 e ss.
45
Con l’entrata in vigore della nuova legge sono attualmente due i casi che in Italia interessano la
questione delle MGF: si tratta di due procedimento penali pendenti avanti la Procura della Repubblica di
Verona: uno attualmente in fase di indagini, l’altro già in fase processuale a carico di una nigeriana
arrestata in flagranza il 4 aprile 2006 a Verona mentre stava per preparare una mutilazione genitale a
carico di una neonata nigeriana. Tra gli imputati – rinviati a giudizio dal G.U.P. di Verona il 22 giugno
2007
–
oltre
alla
“mammana”,
anche
i
genitori
della
piccola
(v.
www.poliziadistato.it/pds/online/comunicati/index.pxp?=2006&mm=04&id=839, e Quotidiano l’Adige,
24 giugno 2007, pag. 24.
46
MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”. Possibili
divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in Ind. Pen., 2003 pag. 535 e seg.
sano), un intervento alternativo o sostitutivo delle MGF, a mero carattere simbolico. Si
parlava di infibulazione dolce o sunna rituale47.
Ovviamente, le reazioni politiche alla proposta del medico somalo furono quasi
tutte negative. Anzi, questa ebbe l’effetto di accelerare l’iter di approvazione della
nuova legge per vietare le MGF.
E difatti con Legge 9 gennaio 2006 n. 748, dopo quattro anni di gestazione
parlamentare, il legislatore introduce nel nostro ordinamento disposizioni sanzionatorie
di carattere penale finalizzate alla prevenzione e al divieto delle pratiche di mutilazione
genitale femminile.
Attraverso la tecnica della novellazione49, sono state aggiunte nel codice penale
due nuove fattispecie penali (art. 583 bis), destinate ad occupare l’ambito applicativo
sinora proprio del reato di lesioni personali.
Come già detto, prima di tale legge, l’unica forma di repressione penale passava
per gli artt. 582 e 583 c.p., in tema di lesioni personali (gravi in caso di pericolo per la
vita; e gravissime in caso di malattia insanabile).
Due sono le fattispecie contenute nel nuovo art. 583 bis c.p.
Il primo comma configura il delitto di mutilazioni genitali. Viene punito con la
reclusione da quattro a dodici anni, chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche,
cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili.
Invece, il secondo comma riguarda il delitto di lesioni genitali, e prevede la
reclusione da tre a sette anni per chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca,
al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse
da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo e nella mente.
Per la prima volta in Italia viene introdotta la figura del reato culturalmente
orientato. A differenza dell’esperienza statunitense, tuttavia, il legislatore italiano
introduce un modello fortemente “aggressivo” in cui la motivazione culturale opera
contra reum. Il fattore culturale non opera pro reo: non vi è alcuna indulgenza, nessuno
sconto, nessuna attenuazione sanzionatoria.
47
Si tratta della proposta del medico somalo di Firenze Dott. Abdulcadir. Sulla polemica innestata si
veda: Forum on line sulle MGF di Jura Gentium, http://www.tsd.unifi.it/juragentium/it/.
48
FRANCESCO DI PIETRO, Le norme sul divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, cit. e
BASILE, Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni
genitali femminili), in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, n. 4 ott. Dic. 2007 pag. 1296 e ss..
49
Inserimento nel codice di uno o più articoli che introduce o modifica la legislazione vigente.
Con la legge in commento vengono introdotti reati autonomi puniti
tendenzialmente con sanzioni più gravi di quelle che sarebbero scaturite dagli artt. 582583 c.p.:
pena principale
583 bis co. 2, seconda parte: lesione pena superiore rispetto a
genitale di lieve entità (pena-base di cui al lesione lieve ex 582: reclusione da tre
co. 2 diminuita fino a due terzi): reclusione mesi a tre anni (e se la lesione è lievissima
da 1 anno a 6 anni e 364 gg.
giudice di pace)
583 bis co. 2, lesione genitale: reclusione pena uguale a
da 3 a 7 anni
lesione grave ex 583 co. 1: reclusione da 3
a 7 anni
583 bis co. 1 mutilazione genitale: pena superiore a lesione grave ex 583 co.
reclusione da 4 a 12 anni
1: reclusione da 3 a 7 anni
e uguale nel massimo, inferiore nel
minimo alla lesione gravissima ex art. 583
co. 2: reclusione da 6 a 12 anni (ma solo in
pochissimi casi una MGF integra una
lesione gravissima ai sensi dell’art. 583 co.
2)
Peraltro si consideri:
- tutte le ipotesi di 583 bis sono aggravate in misura fissa di un terzo
quando il fatto è commesso a danno di un minore (ipotesi frequentissima!!!)
oltre che per motivo di lucro
- le ipotesi base di cui al comma 1 e 2 sono reati autonomi e in quanto tali
sono sottratte al meccanismo del bilanciamento ex art. 69, per contro
sempre possibile nel caso delle circostanze aggravanti delle lesioni gravi o
gravissime.
Es.: una madre che produce una piccola incisione sul clitoride alla figlia minore
che guarisce, senza alcuna conseguenza permanente, rischia la reclusione da 3 a 7 anni,
aumentata di un terzo (quindi: minimo quattro anni)!50
Mentre nell’esperienza anglosassone il fattore culturale è considerato in termini
di esclusione o di riduzione dell’elemento soggettivo del reato (mens rea), con le
inevitabili conseguenze sotto il profilo sanzionatorio, nel sistema italiano il fattore
culturale viene considerato in modo nettamente opposto: la motivazione viene
considerata come un “disvalore aggiunto”51 la cui maggiore gravità sanzionatoria,
rispetto al reato di lesioni, risiede tutto nella motivazione culturale del fatto e non certo
in una sua maggiore gravità lesiva.
Viene posto, inoltre, un limite rigoroso alla valutazione e all’apprezzamento dei
condizionamenti culturali.
Se prima della legge n. 6/2007 particolari motivi di ordine culturale e religioso
potevano essere messi a fondamento di pronunce, anche penali, per mitigare la durezza
della pena o addirittura per escludere l’antigiuridicità del comportamento, con
l’introduzione del reato specifico non è più possibile percorrere questa strada.
La motivazione culturale non è più motivo di esclusione o di attenuazione della
responsabilità, ma elemento fondante e presupposto il rigoroso trattamento
sanzionatorio del reato (culturale) di mutilazione genitale femminile.
7. Considerazioni conclusive
Il legislatore italiano del 2006 ha reagito alla situazione di conflitto
normativo/culturale che fa da sfondo alla commissione di un tipico reato culturalmente
motivato, quali sono le mutilazioni genitali femminili, non già valutando tale situazione
pro reo, né rimanendo indifferente rispetto ad essa, bensì adottando una legge simbolica
che rappresenta «un gesto fatto per esaltare i valori di un gruppo sociale e screditare i
50
Per i profili giuridici si veda: ALDO NATALINI, Mai più ferite tribali al copro delle donne, Mutilazioni
genitali, nuovo reato. Sanzioni alla clinica-complice, in Diritto e Giustizia n. 5/2006 pag. 99; CASSANO e
PATRONO, Il trattamento dell’infibulazione, in diritto e Giustiza 10/2003, pag. 98; GIUSEPPE AMATO,
Reclusione fino a dodici anni per chi pratica “infibulazioni”, in Guida al Diritto n. 5/2006, pag. 16 e ss.;
51
L’espressione è di PALAZZO così come richiamata da BASILE, Società multiculturali, immigrazione e
reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Rivista Italiana di Diritto e
Procedura Penale, n. 4 ott. Dic. 2007, pag. 1343.
valori di un altro gruppo»52. Si tratta quindi di una legge che esprime un chiaro
atteggiamento di intolleranza, in quanto sceglie di punire maggiormente il fatto che
trova la sua motivazione in una “cultura diversa” dalla nostra.
All’interno degli artt. 583-bis e 583-ter c.p., insomma, la diversità culturale
“importata” dagli immigrati sembra aver giocato decisamente contra reum53.
Ne consegue che il rigido approccio etnocentrico posto in essere dal legislatore
italiano nella valutazione del fattore culturale, prodigo nel punire, ma molto avaro nel
predisporre strumenti di prevenzione extrapenale, omette, di considerare i costi che
l’applicazione di questa legge potrebbe comportare:
1) il rischio di aumentare l’emarginazione, la chiusura di quelle comunità di
immigrati, presso le quali le MGF sono tradizionalmente praticate, le quali vedranno
stigmatizzata e perseguita quella che – dal loro punto di vista – è una pratica
tradizionale, condivisa e diffusa.
2) rischio di aumentare la clandestinità delle condotte collegate alle MGF: gli
interventi mutilativi o lesivi, se mai effettuati direttamente in Italia anziché nel paese
d’origine, saranno praticati in condizioni di clandestinità, sul “tavolo di cucina”,
lontano, quindi, da ambienti sterili e medicalizzati. Inoltre, le donne, vittime di MGF,
potrebbero in futuro essere più restie a rivolgersi a strutture sanitarie “ufficiali” per
fronteggiare le complicanze susseguenti all’intervento mutilativo o lesivo (ad es.,
un’emorragia) o per sottoporsi a visite ginecologiche o per assistenza al parto, nel
timore che il sanitario possa inoltrare referto all’autorità giudiziaria, con conseguenti
indagini penali a carico di genitori, familiari o comunque connazionali.
3) rischio di aumentare condotte estorsive da parte di coloro, interni o esterni
alla comunità in cui si pratica la MGF, venuti a conoscenza di una condotta penalmente
rilevante ai sensi dell’art. 583 bis, che potrebbero usare tale conoscenza come arma di
ricatto e/o di pressione.
4) l’obiettivo di offrire un’incondizionata tutela dei beni in questione potrebbe
comportare il sacrificio di uno o più beni parimenti eminenti:
--- la stessa salute fisica che si vuole proteggere potrebbe venir compromessa
52
PALIERO, in BASILE, Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le
mutilazioni genitali femminili), in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, n. 4 Ott.- Dic. 2007, pag.
1296 e ss.
53
BASILE, op.cit.
dalla clandestinità e non medicalizzazione delle MGF;
--- la legge – in sé inelastica e rigorosa – non riserva alcuna considerazione
per la salute psichica e il diritto di autodeterminazione delle donne;
5) con questa legge si è preclusa definitivamente la possibilità di ricorrere a
pratiche simboliche, da eseguirsi in ambienti sanitari adeguati, cioè di confermare il rito
della comunità di origine, senza, però, sofferenze e mutilazioni, azzerando, quindi, il
danno fisico.
6) questa legge rischia di creare lacerazioni all’interno delle famiglie. Spesso
gli autori o i coautori delle MGF sono i genitori, convinti di agire nell’interesse delle
figlie: ma se li condanniamo, magari con pena accessoria della sospensione
dell’esercizio della potestà ex art. 34 c.p., si creano lacerazioni nel tessuto familiare, che
potrebbero risultare incomprensibili tanto dal punto di vista del genitore quanto dal
punto di vista della minore. In sede civilistica, il genitore o i genitori che sottopongono
la figlia a MGF, potrebbero decadere dalla potestà genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c.,
essere destinatari dei provvedimenti interdettivi di cui all’art. 342 ter, ovvero, nei casi di
minore gravità, subire il temporaneo allontanamento ai sensi dell’art. 333 c.c.
I suddetti riflessi dimostrano come il ricorso alla pena come soluzione legislativa
alla soluzione di una condotta che trova la sua espressione in radicate tradizioni e
consuetudini, si riduca ad avere una mera valenza simbolica. La sanzione penale serve
quindi solamente allo Stato per dimostrare di tutelare in astratto il bene giuridico, per la
tutela del quale però essa risulta del tutto inefficace.
Queste stesse considerazioni dimostrano come l’incontro con la “diversità” pone
in crisi la funzione della norma penale, nel momento in cui questa viene utilizzata per
punire una serie di condotte radicate presso gruppi sociali e religiosi appartenenti a
immigrati o a minoranze culturali in grado di investire e di inibire tutte le categorie di
funzione della pena tradizionalmente intese.
In primo luogo, la funzione general-preventiva “negativa”, in quanto la forza
intimidatrice della sanzione potrebbe risultare pregiudicata da fattori spesso presenti tra
gli immigrati o tra i membri di gruppi minoritari, quali l’ignoranza della legge del paese
ospitante o l’adesione a valori contrapposti a quelli tutelati dallo stesso.
In secondo luogo, appare in difficoltà la funzione general-preventiva “positiva”
di orientamento culturale e di assimilazione del valori tutelati penalmente, perché
implica una frontale e diretta negazione di tradizioni e comportamenti radicati nel
patrimonio culturale dei principali destinatari della norma.
In terzo e ultimo, luogo, appare in chiara crisi anche il momento della
prevenzione speciale, nel caso in cui le persone che seguono altre abitudini di vita,
rispetto ai modelli sociali prevalenti, vengano sottoposti a restrizione della libertà: una
tale funzione, anche intesa in termini rieducativi, finirebbe col rendere una sorta di
“riconversione culturale” dell’autore, imponendogli di adeguarsi a prassi e a norme,
anche culturali, di una società indirizzata al mantenimento di una visione unitaria delle
tradizioni e di valori morali. Non è un caso che proprio per far fronte a queste
problematiche, nei paesi ormai multiculturali, è stata elaborata la figura della esimente
culturale. Questa figura rappresenta un punto nodale per cogliere e offrire una giustizia
sostanziale nel conflitto tra culture.
Per gestire con consapevolezza, la diversità culturale “importata” dagli
immigrati, è opportuno rinunciare ad imboccare qualsiasi scorciatoia costituita
dall’adozione di leggi meramente simboliche, espressione di intolleranza e di miope
accanimento contro il diverso, rinunciando altresì a qualsiasi ingenuo etnocentrismo in
virtù del quale si pretende di assolutizzare i valori della propria cultura, facendola
assurgere ad unità di misura di ogni altra cultura.
In Italia non vi è ancora una giurisprudenza che consenta di valutare la risposta
concreta dell’ordinamento di fronte a conflitti culturali come quelli delle MGF.
Ecco quindi che, indipendentemente dalle critiche che possono muoversi a
specifiche soluzioni giudiziarie e al bilanciamento di interessi operato nel giudicare reati
“culturalmente orientati”, può concludersi che oggi il ricorso al diritto penale nei
confronti di membri di minoranze etniche dovrebbe essere riservato a quelle condotte
che siano caratterizzate da un inevitabile contrasto con i diritti fondamentali accolti sia
dai consociati che dalle regole portanti del paese ospitante.
Con l’avvento del muliculturalismo, l’auspicabile equilibrato rapporto tra
diversità culturali e valori prevalenti potrà essere, forse, realizzato attraverso un mirato
ritorno alla sanzione penale come extrema ratio, in cui i valori dell’uguaglianza e della
tolleranza cedono il passo soltanto dinanzi a fatti che pongono in crisi i diritti
fondamentali, idonei ad offendere sia i beni della persona umana che la stabilità
sociale54.
54
D’AMICO
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La mutilazione genitale femminile tra reato e