Cambiare passo
Istituzioni e imprese a confronto
su immigrazione e integrazione nel nostro Paese
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Atti, 4 luglio 2011
Cambiare passo
Istituzioni e imprese a confronto
su immigrazione e integrazione nel nostro Paese
Atti, 4 luglio 2011
con il contributo di
Giorgio Tonelli
Giorgio Tonelli
Per il secondo anno Bologna ospita l’edizione di Molteplicittà, iniziativa fatta di incontri, dibatti, spettacoli sulla città che cambia e
sul rapporto con i nuovi cittadini, con i migranti che rappresentano a volte un problema, una debolezza, ma soprattutto una ricchezza per questa realtà.
Molteplicittà è un progetto dedicato alla multiculturalità ideato da
Legacoop Bologna, e quindi chiamerei subito il Presidente di Legacoop Bologna, Gianpiero Calzolari.
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Gianpiero Calzolari
Presidente Legacoop Bologna
Gianpiero Calzolari
Presidente Lecacoop Bologna
Buonasera, benvenuti a tutti e grazie per aver voluto essere presenti alla
giornata di apertura di questa seconda edizione di Molteplicittà, rassegna di incontri, spettacoli e appuntamenti dedicati a riflettere sulla città
che cambia. L’anno scorso avevamo concluso la prima edizione con l’auspicio di poter ospitare il Sindaco di Bologna nell’edizione successiva
all’apertura dei lavori. Ebbene, avremo il Sindaco Merola che ci raggiungerà compatibilmente con i lavori del Consiglio comunale. Intanto lo
salutiamo e lo ringraziamo per la partecipazione.
Insieme a lui ringraziamo gli altri ospiti, a partire dalla Vice–presidente
del Senato, Emma Bonino, che ha raccolto il nostro invito, la cui testimo-
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nianza sarà centrale nel riflettere sulla relazione stretta fra diritti civili,
regole e cittadinanza. Ringraziamo l’onorevole Giuliano Cazzola e la
senatrice Rita Ghedini che parteciperanno poi alla tavola rotonda insieme a Massimo Ferrante, neo–Segretario provinciale di CNA Bologna e a
Claudio Levorato, Presidente del Gruppo Manutencoop.
Quella di oggi è un’occasione di confronto fra esponenti del mondo politico ed economico locale sull’attuale condizione dei nuovi italiani e sulle
future prospettive di integrazione.
Vorrei porgere un ringraziamento anche a quanti parteciperanno al
workshop di domani, organizzato dalla Fondazione Unipolis, in collaborazione con la Fondazione Alma Mater e all’Università di Bologna,
dedicato al tema della sicurezza dei lavoratori immigrati, con numerose
testimonianze fra ricercatori, imprese, associazioni, lavoratori e imprenditori stranieri.
Un ringraziamento particolare è dovuto alle Istituzioni e ai partner che
hanno sostenuto con convinzione e reso possibile questa seconda edizione. In particolare le cooperative associate a Legacoop e tutte le associazioni che condividono ormai da tempo questo percorso con noi.
Anche quest’anno, lo voglio ricordare, Molteplicittà è sostenuta dal contributo economico delle imprese cooperative e ciò rappresenta un avvenimento non scontato in un momento di serie difficoltà per l’economia,
anche per l’economia cooperativa.
Molteplicittà è un progetto dedicato ai temi dell’intercultura e della valorizzazione del contributo dei nuovi italiani all’economia del nostro
territorio, ideata da Legacoop Bologna, con il contributo economico
della Camera di Commercio - qui presente il presidente Bruno Filetti - e
il patrocinio del Comune di Bologna, della Provincia di Bologna e della
Regione Emilia-Romagna. La rassegna prende spunto da best practices
e riflessioni cooperative nate dal confronto con i portatori di interesse,
Istituzioni e cittadinanza.
A partire da oggi, Bologna ospiterà dunque incontri, dibattiti e spettacoli sulla città che cambia e sul contributo dei migranti alla nostra ricchezza, persone indispensabili di cui hanno bisogno molti settori della
nostra economia, ma persone con altrettanta forza respinte dalla nostra
società e dalle leggi del nostro Paese.
Lavoro, diritti, identità, linguaggi e relazioni nella città saranno gli elementi al centro della riflessione di quest’anno, che si articolerà in un
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ricchissimo calendario di eventi.
Per uscire da una logica dicotomica di puro respingimento, da un lato,
o di carità incondizionata, dall’altro, verso un fenomeno quale quello
dell’immigrazione destinato a essere parte strutturale del nostro futuro,
la rassegna avrà il tratto della fiducia verso il nuovo, un’identità che trova conferma nella storia della nostra città, da sempre luogo di incontro e
dialogo tra mondi differenti.
Nel fare questo non fuggiremo l’attualità e la problematicità delle vicende, affrontando tutte le questioni legate al mondo che ci circonda e,
quindi, anche le conseguenze dell’immigrazione dai paesi del Mediterraneo a seguito delle recenti rivolte. Non negheremo quanto sia difficile
essere adeguati in queste situazioni per i governi, per le Istituzioni, per
le singole persone.
Nel corso delle diverse sezioni della rassegna, attraverso il teatro, la
letteratura e il cinema, daremo spazio alla Bologna che ricerca continuamente nuovi linguaggi e nuove pratiche, per affrontare concretamente
i bisogni delle persone e delle comunità. Il titolo “Cambiare passo” che
abbiamo dato a questo nostro primo appuntamento di riflessione, se
vogliamo, raccoglie l’eco di una sfida che abbiamo lanciato da tempo,
“Bologna, riprendi in mano il tuo destino” e, nello stesso tempo, rappresenta la richiesta del mondo imprenditoriale di riconoscere la realtà
per quella che è, mettendo in campo politiche e strumenti adeguati per
affrontarla.
Nella nostra regione, infatti, sono ormai 460.000 i lavoratori stranieri residenti, un dato in crescita. Rappresentano il 10,53% della popolazione
totale, con un’età media di 31 anni. Siamo già una società multietnica e
lo saremo sempre di più, le cifre ce lo dicono chiaramente. Ma non solo
le cifre contano, gli immigrati regolari in Italia sono 4 milioni di persone; si tratta di una popolazione composta da lavoratori e lavoratrici, per
metà donne, di famiglie spesso giovani con figli. Questa popolazione
vive prevalentemente nel centro–nord e si è insediata nei nostri territori
seguendo le esigenze del nostro mercato del lavoro.
L’immigrazione, nonostante la crisi internazionale, è funzionale al nostro Paese. Non si spiegherebbe altrimenti la sua crescita dagli anni ’90
ad oggi: circa 10 volte. Basti pensare, a livello lavorativo, all’incidenza di
circa il 10% della forza lavoro dipendente e al crescente impatto che gli
stranieri vanno assumendo anche nell’imprenditoria. Il lavoratore immi-
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grato è diventato così strutturalmente necessario da essere aumentato di
ben 200 mila unità dal 2009 a oggi. Insomma, l’immigrazione è un fatto
strutturale, duraturo per l’Italia e per tutti i paesi dell’Unione Europea.
Se le porte fossero chiuse all’immigrazione, la popolazione giovane in
età attiva tra i 20 e i 40 anni scenderebbe - dal 2010 al 2030 - da 15,4 a
11,3 milioni di persone, con una diminuzione di oltre 4 milioni di unità.
Passata la crisi, con forza lavoro decrescente, non riusciremmo certo a
evitare il declino economico.
Se ci poniamo responsabilmente dal punto di vista dell’interesse nazionale dello sviluppo e della crescita del nostro Paese, è dunque necessario, stante la realtà, cambiare approccio al tema dell’immigrazione. Per
questo noi vorremmo andare oltre, nella consapevolezza di spostare un
pensiero contro–corrente nell’Italia di oggi. Vogliamo costruire e condividere, insieme ai nuovi italiani, un nuovo progetto di futuro.
Il sindaco Merola è già al lavoro per redigere a più mani il Piano Strategico. Noi ci siamo, ne abbiamo già parlato tante volte. La città metropolitana, il respiro europeo, la valorizzazione dei nostri asset, primo fra
tutti l’Università. Ma che valore avrebbe un piano che non cogliesse un
cambiamento così profondo e così già drasticamente avvenuto?
Del resto Bologna è da sempre una città aperta. Questo tratto ne ha fatto
la fortuna in tante occasioni del passato recente e meno recente. È una
città dove le tante culture hanno sempre saputo fondersi senza andare
perdute.
Il nostro punto di vista è quanto mai concreto. Partiamo dall’esigenza
dell’impresa cooperativa e dal lavoro quotidiano di migliaia di cooperatori, lavoratori e soci. In provincia di Bologna i dipendenti stranieri che
lavorano in imprese cooperative associate a Legacoop sono circa 4.000
su circa 33.000 dipendenti complessivi. Solo nel gruppo Manutencoop
ve ne sono impiegati 1.700 a livello nazionale, provenienti da 90 paesi
diversi. Tra alcuni anni molte persone nate altrove assumeranno, dunque, ruoli di direzione e di rappresentanza, com’è accaduto in tutti i paesi meta dei flussi migratori degli anni passati.
Massimo Ferrante potrebbe raccontarci quanti sono ormai i lavoratori
extracomunitari che sono diventati piccoli imprenditori e che cominciano, a loro volta, ad assumere altri lavoratori.
L’impresa cooperativa si trova dunque di fronte a una sfida che, a ben
guardare, è già la sfida della società italiana nel suo complesso. Se riflet-
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tiamo però un momento sul cuore della nostra distintività, la mutualità
cooperativa, ne possiamo cogliere un ampio spettro di bisogni e di diritti che completano oggi la moderna concezione di cittadinanza: il lavoro,
in primo luogo, la casa, la cultura, i saperi, gli stili di vita e di consumo,
i servizi alla persona, la sanità, l’ambiente, il territorio, i prodotti assicurativi e bancari.
Quanti di questi bisogni si incrociano già oggi con le nuove identità migranti, con le novità e le contraddizioni introdotte nella società italiana
grazie alla presenza strutturale dei cittadini stranieri nelle città? E quanto la dimensione del lavoro e dell’impresa rappresenta la porta di accesso e la camera di compensazione di questa nostra società in continua
trasformazione?
Del resto, sopravvivrebbe nel tempo una forma d’impresa che non sapesse aggiornare i propri principi?
Gli immigrati sono persone destinate, oggi o domani, a diventare parte
stabile della popolazione. Ci ha fatto piacere che, nel suo discorso di
insediamento, il Sindaco abbia ricordato come nelle recenti elezioni amministrative bolognesi si siano rotti due tetti di cristallo che da tempo
coprivano la politica: per le donne e per i giovani. Allo stesso tempo, abbiamo anche sottolineato che bisogna ancora rompere il tetto di cristallo
che riguarda la gente.
Da un lato i tagli alla finanza pubblica, dall’altro il portato squisitamente
politico di un dibattito sul welfare, hanno acceso una particolare attenzione della città su questo argomento. Mi astengo ovviamente dall’intraprendere ragionamenti che potrebbero apparire fuori luogo e lesivi di
altri interessi legittimamente in campo, ma oltre che delle mamme–bene,
politicamente attrezzate della società bolognese, perché non sentiamo
anche la voce di questi nuovi cittadini che dei servizi hanno solo e semplicemente bisogno?
Per quello che vediamo dal nostro osservatorio, la legge Bossi–Fini in
tutti questi anni ha prodotto più clandestinità di quanta ne contrasti realmente. I meccanismi d’ingresso per lavoro sono resi farraginosi e lunghi dalla cosiddetta “chiamata nominativa o numerica” di uno straniero
sconosciuto residente all’estero. La brevità della durata dei permessi di
soggiorno, la macchinosità e i tempi lunghi del loro rinnovo e il costo
elevato rendono alta la probabilità che una persona regolare diventi irregolare suo malgrado.
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Inoltre, i provvedimenti adottati in questi anni, di fronte alle nuove e
progressive emergenze, hanno alimentato e non ridotto il sentimento
di paura e di insicurezza del Paese. I tanti provvedimenti spot adottati,
poi, in molti Comuni del nord hanno, di fatto, ridotto le opportunità di
inserimento, come l’accesso ai servizi e alle prestazioni sociali, hanno
ridotto le opportunità affermative e reso difficile l’accesso alla casa. Ma
non esiste integrazione senza lavoro e senza casa.
Ad essi si aggiungono i tagli riguardanti le politiche di integrazione,
l’asilo, la cittadinanza, le classi–ponte per i bambini stranieri, la disciplina che istituiva, in materia di congiungimenti familiari, il superamento
di prove di conoscenza della lingua italiana per l’ottenimento del permesso di soggiorno e la logica del permesso di soggiorno a punti, che
descrive bene il percorso a ostacoli che ruba tempo e futuro a persone e
imprese.
Non usiamo mai le categorie della carità, dell’umanità, della dignità che
attengono alle persone e non alle imprese. Ma esiste una normativa
comunitaria che vieta, dal prossimo anno, l’allevamento in gabbia dei
polli. Com’è possibile che nel carcere della Dozza i reclusi, in gran parte
extracomunitari, siano invece costretti a dividere in 10-11 persone una
cella di pochi metri quadrati? O, ancora, mentre piovono sanzioni sacrosante in materia di benessere animale, cosa deve accadere per scuotere
le nostre coscienze di fronte alle centinaia di vittime dei barconi del
nostro Mediterraneo, vissute come un problema di ordine politico e di
ordine pubblico e mai, neanche una volta, come problema morale prima
ancora che etico?
Può pensare il mondo occidentale che questo sia un modo per ridurre i
conflitti che tanto preoccupano i nostri interessi materiali? Se il lavoro
degli immigrati, le dimensioni e le caratteristiche sono sotto gli occhi di
tutti, è dovere e opportunità dell’impresa responsabile farsene carico,
così come per i diritti e le tutele dei lavoratori.
Con Molteplicittà abbiamo deciso di lanciare un progetto comune, politico e culturale che ribadisse il valore del lavoro come una delle dimensioni più importanti per ottenere quell’integrazione positiva, che attiene
diritti e doveri, nella costruzione di un progetto di vita. Ma poi occorrerà mettere in fila la casa, il welfare, la scuola.
Andare oltre per noi significa cercare insieme la costruzione di futuro
in cui aspirare liberamente a una vita migliore, per sé e per i propri figli,
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giacché non ci può essere integrazione senza una prospettiva di un domani stabile.
Le seconde generazioni, i nuovi italiani, condividono con le nuove generazioni autoctone il timore di un futuro già scritto, in cui il principio del
merito vale spesso molto meno rispetto alle rendite di posizione e al cognome che porti. Al contrario, dovremo reimparare e guardare lontano
e comprendere quanto le nuove generazioni di migranti possano essere
una risorsa vitale per l’Italia.
La politica abbia dunque il coraggio di compiere questa scelta a viso
aperto insieme a noi. Diamoci reciprocamente atto — noi e la politica —
che in città qualcosa si sta muovendo per quanto riguarda il ricambio
generazionale e apprezziamo il cambiamento della qualità della vita che
ne conseguirà. E tutto questo ci deve consentire di continuare a osare.
È a partire da tali premesse che anche quest’anno la nostra Associazione e le imprese cooperative hanno scelto di portare avanti il progetto
Molteplicittà. Con la seconda edizione vogliamo continuare il cammino
iniziato lo scorso anno, creando nella città e per la città luoghi virtuali
e fisici di riflessione e intrattenimento sul tema dell’intercultura, dei
diritti e dell’integrazione. Siamo molto soddisfatti di aver consolidato
la sinergia e la collaborazione con altri importanti realtà culturali della
città come Arci, Librerie Coop, Fondazione Unipolis, Biografilm Festival,
BOtanique, Teatro dell’Argine, ITC S. Lazzaro, Teatro del Pratello, che
hanno ampliato e contribuito a diffondere, declinandola secondo i propri strumenti, la riflessione sulla multiculturalità.
Quest’anno, lo noterete dal programma, abbiamo voluto sposare politicamente un’idea artistica diversa, che dà ruolo e centralità alle periferie
delle città che non vorremmo più chiamare tali. Diversi spettacoli in
luoghi diversi e inusuali danno il senso di un festival migrante–itinerante per andare effettivamente dove risiedono le comunità straniere, per
scardinare l’isolamento, per creare occasioni di incontro diffuso su tutto
il territorio cittadino, per coinvolgere gli spettatori italiani e stranieri in
un processo condiviso di costruzione di nuove identità.
È la stessa filosofia che ci ha ispirato l’anno scorso, quando abbiamo
parlato di Vene Creative o, più recentemente, con il lavoro fatto con i
giovani creativi e progettisti di BoxBo insieme alle altre associazioni imprenditoriali.
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È dunque con piacere che dichiaro aperti i lavori di Molteplicittà 2011,
augurando buon lavoro a voi tutti e buon divertimento nelle prossime
serate.
Ancora una cosa, prima di cominciare sul serio. Tante città ospitano
annualmente festival della storia, della filosofia, della storia, dello sport,
dello spettacolo che sono divenuti, nel tempo, appuntamenti attesi a livello nazionale e internazionale per migliaia di persone, vetrine inusuali
di città che mettono in mostra il meglio di sé. Molteplicittà non è un
festival, ma ci piacerebbe che diventasse un appuntamento condiviso
dalla città e da ripetere annualmente.
Tonelli
Grazie al presidente Calzolari, che faceva riferimento al contributo
della Camera di Commercio, quindi darei subito la parola al presidente, Bruno Filetti.
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Bruno Filetti
Presidente Camera di
Commercio di Bologna
Bruno Filetti
Presidente Camera di Commercio di Bologna
È un saluto breve, però riconoscente. Quando in Camera di Commercio
cerchiamo di prendere decisioni e di mettere a disposizione risorse per
iniziative, manifestazioni e progetti, indubbiamente la soddisfazione
più grande è quella di vederli realizzati e di vederli realizzati come sta
avvenendo in questo caso.
Ovviamente noi siamo partecipi e presenti a manifestazioni limitate
a un numero, però abbiamo senza dubbio preferenza nei confronti di
quelle che hanno una continuità come questa. Soprattutto perché chi
più della Camera di Commercio ha cognizione e consapevolezza di quali
siano i numeri dei migranti che arrivano nel nostro territorio, di quanto
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siano importanti, di quante siano le figure femminili, dei giovani, le figure di coloro che, a un certo punto, vanno a integrarsi all’interno della
nostra società. Il fatto di riuscire a trovare meccanismi che possano favorirne l’introduzione, favorendo anche l’impresa individuale, fa di loro
i nostri nuovi imprenditori. Imprenditori che, se in una fase iniziale
sono arrivati come lavoratori in Italia per dover necessariamente mandare le risorse che riescono faticosamente a guadagnare al loro paese,
oggi iniziano un processo diverso. Questi soggetti, facendo impresa,
automaticamente investono su se stessi, diventano per così dire “Partite
Iva”, imprenditori e, quindi, danno un movimento alla nostra economia.
È fondamentale per noi la presenza di queste persone, innanzitutto per
quella grande ventata di giovinezza che ci stanno portando. Calzolari
ha fatto prima riferimento all’età media di 31 anni e devo dire che noi,
senza loro, saremmo un territorio e una città ancor più vecchi. E poi,
francamente, cominciamo anche a renderci conto della loro importanza, della valenza, del gradimento e mi sembra che le pregiudiziali siano
finalmente abbattute. Dobbiamo fare in modo che non riemergano, che
non abbiano dei ritorni e dobbiamo fare in modo — in questo caso parlo
a nome della Camera di Commercio — di metterci a disposizione, indifferentemente per tutti coloro che hanno idee e volontà di fare impresa,
affinché i capitoli di spesa siano fruibili facilmente anche per tutti questi ospiti, che non sono più oggi definibili ospiti, ma sono nostri concittadini.
Quindi grazie davvero per questa possibilità e per il ciclo di prossimi
appuntamenti. Reputo che un’iniziativa come Molteplicittà sia di grande
valenza sociale per una città che vuole ripartire. Abbiamo avuto ragioni
e motivi per cui siamo stati un poco sull’empasse. Vogliamo metterci
l’empasse alle spalle. Grazie.
Tonelli
Grazie al presidente della Camera di Commercio, Bruno Filetti.
Esistono anche altri tipi di immigrati a Bologna da almeno 900 anni,
sono i professori e gli studenti di questa Università. Darei volentieri
la parola al Pro–Rettore dell’Università di Bologna, il professor Roberto Nicoletti.
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Roberto Nicoletti
Pro–Rettore dell’Università
degli Studi di Bologna
Roberto Nicoletti
Pro–Rettore dell’Università degli Studi di Bologna
Innanzitutto volevo portavi i saluti del Magnifico Rettore che, in questi
giorni, è molto preso dall’applicazione della nuova legge relativa all’Università e mi chiede di scusare la sua assenza.
Vorrei dire due parole sul titolo che avete dato a questo incontro e sul
tema “immigrazione e integrazione”. C’è una immigrazione, ma soprattutto una integrazione particolare nella nostra città, quella svolta dal
nostro Ateneo. Noi siamo l’ateneo italiano con il più alto numero di studenti fuori sede, abbiamo più 5 mila studenti stranieri, che si sommano
ai 2 mila studenti in programmi Erasmus, e altri 500 studenti, i cosiddetti Overseas, che vengono da paesi extraeuropei. In generale, quindi,
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abbiamo quasi 8 mila studenti stranieri che provengono da più di 108
paesi del mondo.
Tutto questo sta a significare che l’ateneo è un buon laboratorio sull’integrazione e credo abbia ottenuto, in tutti questi anni, dei buoni risultati, che si rilevano fondamentalmente dal fatto che gli studenti stranieri a
Bologna stanno bene, hanno un buon gradimento.
E, se hanno un buon gradimento e stanno bene - a noi piace credere per il piano formativo, didattico, di ricerca che l’ateneo offre loro, è anche vero che gli studenti stranieri stanno bene perché a Bologna c’è una
buona integrazione, è una città accogliente, c’è una serie di servizi per i
giovani stranieri che costituisce un modello ormai rodato, e quindi crea
una situazione di abitabilità e di accoglienza molto positiva.
Per tutti questi motivi penso che l’Ateneo possa fare la sua parte e possa
mettere a disposizione di tutto il territorio l’esperienza che si è costruito
in tanti anni. Grazie.
Tonelli
Grazie a Roberto Nicoletti.
A Bologna gli stranieri sono circa il 10% della popolazione, ma il
dato interessante è che un ventenne su cinque è straniero, quindi
si tratta di una popolazione molto giovane. Ricordo che sul tema
dell’accoglienza a Bologna, agli inizi degli anni ’90, c’era un manifesto con il sindaco Imbeni che stringeva la mano a un signore di colore. A Bologna c’è, dunque, una lunga tradizione in questo senso.
Però cosa significhi questo in termini di welfare, in termini di asili tema attuale e a tutti noto - in termini di politiche di integrazione, lo
chiediamo al Sindaco di Bologna che abbiamo sottratto ai lavori del
Consiglio comunale.
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Virginio Merola
Sindaco di Bologna
Virginio Merola
Sindaco di Bologna
Porto il saluto a questa iniziativa che giudico molto importante e che
si rinnova di anno in anno. Un’iniziativa di rilievo perché anche l’indicazione che viene dal titolo - “Cambiare passo”- corrisponde alle nostre
necessità.
Dobbiamo cambiare completamente atteggiamento sul tema dell’immigrazione per due ordini di motivi. Il primo è che non può essere governato inutilmente e facendo dei danni, come è avvenuto fino a oggi,
attorno al capitolo generale “politiche della paura”, perché le politiche
con cui si è affrontato il tema dell’immigrazione hanno spesso sconfinato in un uso strumentale della sicurezza. Condivido quanti hanno detto
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che l’applicazione della legge Bossi–Fini finora ha prodotto insicurezza
e non ha permesso di affrontare il problema.
Il problema è come costruiamo la convivenza fra italiani e nuovi italiani. Questo tema va affrontato con decisione a partire dalle città e da
una adeguata politica nazionale. È arrivato il momento di dire ancora
più forte che la strada non può che essere quella dell’unione tra persone
diverse per dare vita a nuovi progetti e iniziative. Quindi costruire una
nuova identità nell’ambito dell’Unione Europea, per la comune rivendicazione della cittadinanza europea, sapendo di avere progetti condivisi
e azioni concrete fra italiani e nuovi italiani.
Per fare questo ci vuole un impegno rinnovato che è fatto di studio, di
iniziative sperimentali, di scambio di buone pratiche. Abbiamo l’istituzione per l’inclusione sociale, creata abbastanza di recente, che va irrobustita, e il suo ambito di azione va esteso con decisione alle politiche
per l’immigrazione. Occorre, ad esempio, che il Centro Zonarelli - centro
interculturale molto attivo nel campo delle politiche di integrazione faccia parte dell’istituzione per l’inclusione sociale e apra a tutto campo
un intervento più robusto su questi temi.
Abbiamo bisogno, da una parte, di sostituire alla politica della paura la
politica di una speranza condivisa, di una convivenza fattiva e, dall’altra, di affrontare i problemi materiali che affronta la nostra società,
sapendo riconoscere che nel nostro Paese c’è un tema di interesse economico, demografico e sociale. Non fosse altro che il tema interesse, in
realtà, non significa altro che “inter-esse”, relazione, non c’è un’economia che non è capace di avere relazioni. È sapere rivendicare l’interesse
materiale per la nostra economia, per la nostra crescita sociale basata su
questa integrazione.
Legacoop Bologna e altre associazioni della nostra città hanno sempre
evidenziato il contributo in termini di lavoro che viene dato dai migranti alla nostra realtà locale. Io ho sempre evidenziato, quando ero Assessore all’Urbanistica, e lo ripeto volentieri come Sindaco, che non possiamo fare una discussione astratta; dobbiamo basarci sulla demografia.
Questo Comune, come questa area metropolitana, ha un bisogno vitale
di nuovi residenti.
Quindi è una discussione davvero antieconomica, antisociale e preoccupante per il nostro futuro se c’è chi ancora continua a mettere il termine
“se”. Si devono realizzare nuove politiche nel campo del lavoro, della
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scuola, del welfare, della sicurezza, puntando davvero a una democrazia
inclusiva.
Da questo punto di vista, i termini generali da affrontare sono noti:
dobbiamo andare verso una riforma della cittadinanza. Chi nasce in
Italia deve essere considerato cittadino italiano; chi cresce in Italia deve
vedere riconosciuta la cittadinanza italiana. Non è possibile che ci siano
tantissimi giovani in questa città, cresciuti qui a Bologna, che hanno frequentato la scuola insieme ai nostri ragazzi e che a 18 anni debbano ricordarsi di chiedere il permesso di soggiorno. Improvvisamente si ritrovano in una situazione di estraneità al contesto nel quale sono cresciuti.
Queste questioni seminano inutili lacerazioni e non fanno sicuramente
bene a una prospettiva di convivenza.
In termini generali andrebbe ripreso il tema del diritto di voto, se non
altro alle amministrative.
In termini locali dobbiamo lavorare, secondo anche da quanto emerge
da queste iniziative, per aumentare la costruzione di progetti a cominciare da quelle che chiamiamo seconde generazioni. Bisogna che tra giovani italiani e giovani migranti si costruiscano progetti comuni, perché
possano costruire insieme il loro futuro e creare una nuova identità.
Un esempio convincente, a tale proposito, riguarda alcuni giovani tedeschi che hanno incontrato un Ministro turco. Il Ministro ha detto loro:
«Bisogna che i diritti dei Turchi siano riconosciuti meglio in Germania».
Un giovane ha risposto: «Io non sono né turco né tedesco, sono turco–
tedesco, bisogna che ve ne facciate una ragione e sono un turco–tedesco
che crede molto nell’unità europea». Io vorrei avere cittadini bolognesieuropei, cittadini bolognesi-marocchini che si riconoscono in questa
identità, non nel fatto di dover scegliere se preferiscono essere italiani o
del Marocco o della Tunisia per tutta la vita, perché la nuova identità si
costruisce riconoscendo la specificità di queste persone, che non possono essere costrette a rinunciare a parte della loro storia, in nome di una
nostra incapacità di fare politiche adeguate.
Approfitto della presenza di Emma Bonino, Vice–presidente del Senato,
che si occupa di questi temi da tempo, per capire se succede nel mondo
quello che era auspicabile succedesse in certe zone dell’Africa del nord
e del medio-oriente, zone che hanno finalmente espresso una forte domanda di democrazia. Come Comune di Bologna stiamo prendendo rapporti con la Tunisia con l’obiettivo di siglare un gemellaggio il più presto
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possibile e guardiamo con interesse al referendum per la monarchia costituzionale del Marocco. Dobbiamo fare in modo che Bologna, anche da
questo punto di vista, torni a essere un punto di riferimento, occuparci
dei loro problemi mentre ci occupiamo dei problemi dei loro connazionali qui in Italia e, quindi, riprendere uno scambio di buone pratiche
per stringere accordi i più democratici possibili con queste nuove realtà.
Così come dobbiamo avere il coraggio di dire che persone trattenute per
18 mesi, solo perché non hanno un documento di identità, urta con le radici della nostra civiltà giuridica e con il nostro diritto europeo.
Approfitto, ancora una volta, della presenza di Emma Bonino per sottolineare la questione delle carceri. Lunedì, insieme alla senatrice Ghedini,
andremo nuovamente a visitare il penitenziario di Bologna. Abbiamo
una situazione esplosiva e la mia piena solidarietà va a quanto sta facendo Marco Pannella. Occorre che la questione sia affrontata. Chiederemo
al Consiglio comunale di ripristinare il più presto possibile il garante dei
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diritti delle persone in carcere, ma occorre che, agli appelli continui che
facciamo, ci sia una risposta, perché la condizione dei detenuti è al di
là dell’infamia. Questo va detto e questa condizione non può più essere
accettata. Occorre ci sia un riferimento col quale confrontarsi perché ci
vengano date risposte, sia intermini di sovraffollamento delle carceri,
ma anche per la costruzione di reali percorsi di uscita di chi ha scontato
la pena per reinserirsi. Oggi queste persone rimangono in carcere, perchè non hanno dove andare. Il mio invito è: occuparsi di questo tema a
tutto campo.
Esprimo nuovamente il mio apprezzamento per l’iniziativa di Molteplicittà, che spero continui e si trasformi sempre di più in progetti concreti
per costruire insieme l’identità che meritiamo come città e come comunità, a partire dal coraggio della verità che spesso è mancato a Sinistra,
cioè che queste politiche sono il nostro futuro e il nostro interesse economico e sociale. Grazie.
Tonelli
Grazie al Sindaco Merola che ha introdotto il secondo momento del
nostro incontro, cioè la nostra chiacchierata con il Vice–presidente
del Senato, Emma Bonino.
Merola ha già introdotto diversi elementi, non è stato un saluto formale e ha già posto alcune delle questioni forti: la cittadinanza, il
permesso di soggiorno, il diritto di voto, la questione delle carceri.
Da quale di questi aspetti che ricordava Merola potremmo partire?
Per esempio, parliamo della questione della cittadinanza. In Italia
abbiamo avuto tre grandi momenti di legislatura su questo tema, la
Martelli, la Turco–Napolitano e la Bossi–Fini. Rispetto agli altri paesi
europei, come siamo messi da un punto di vista legislativo?
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Emma Bonino
Vice–presidente Senato
della Repubblica
Emma Bonino
Vice–presidente Senato della Repubblica
Anch’io sarei partita da una visione europea per tre pensieri. Il primo
è che l’Italia ha degli aspetti certamente particolari, ma la questione
integrazione–immigrazione è spinosa, irrisolta, confusa in tutti i paesi
europei secondo diverse caratteristiche. Chi ha una storia di colonialismo ed è più abituato a vedere i migranti circolare è diverso da noi che
siamo stati invece un Paese di grande emigrazione. La lettura di qualche
lettera dei nostri nonni, secondo me, ci aiuterebbe a capire un sacco di
belle cose: «Cara moglie, qui sto bene, spero anche voi» - parole scritte
dall’unico scrivano della comunità italiana, parole di una poesia assolutamente fantastica, oltre che di un dolore micidiale.
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È chiaro che noi siamo un paese diverso. A me impressiona sempre
quando sbarco a Londra, mi chiedono il passaporto e c’è un signore
col turbante che è assolutamente inglese da generazioni: è un esempio
di quanto la loro cultura sia diversa. La situazione non è problematica
solo da noi, lo è in moltissimi paesi europei e, ad adjuvandum, voglio
anche dire che non conosco paese al mondo che abbia avuto una politica di integrazione vicina alla perfezione e che noi potremmo “copiare”.
L’immigrazione ha creato sempre problemi. Ci sono poi legislazioni più
utili o meno utili, più inclusive o meno inclusive, però non conosco paese al mondo che abbia affrontato il problema dell’immigrazione senza
problemi e senza errori fondamentali. Per esempio, se una coppia di
messicani vive negli Stati Uniti il figlio che nasce è americano, ma i due
genitori rimangono messicani e ottenere la cittadinanza americana è per
loro difficilissimo.
In più, ognuno ha il suo sud: gli Svizzeri hanno chiuso la frontiera ai
milanesi, Berlino ha sempre guardato con grande altezzosità a Monaco.
Anche noi quando guardiamo a sud non siamo diversi. Quando ero giovane, a Torino alle finestre si leggeva “Non si affitta a meridionali”. Se
andate in Egitto, i residenti de Il Cairo guardano con grande altezzosità
gli abitanti di quello che loro chiamano l’upper Egypt, cioè l’Egitto “verso” l’Africa.
Penso che sia necessario riconoscere anche delle diversità rispetto alle
quali siamo poco portati, ma non bisogna confondere una propensione,
una simpatia individuale con le norme della cittadinanza, mentre molto
spesso facciamo così. Lo facciamo, per esempio, rispetto ai Rom, tanto
per gradire, che sono cittadini europei, italiani da generazioni, però
sono una delle minoranze più discriminate. Ma il problema della convivenza nella norma questo sì, è un obbligo che abbiamo.
Chiudo ribadendo che non bisogna confondere le propensioni individuali, le empatie individuali che ci possono essere o non essere, anche
tra italiani e anche tra bolognesi o romani, con la questione dell’integrazione che è una questione di norme, di legalità. Se facciamo di tutta l’erba un fascio allora non affrontiamo bene le questioni.
Tonelli
Allora, proviamo ad affrontarle per bene. Lei fa parte di questo
gruppo di personalità del Consiglio d’Europa che ha elaborato un
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testo che sarà presentato il 7 luglio e si intitola “Vivere insieme.
Conciliare diversità e libertà nell’Europa del XXI secolo”, quali sono
allora le raccomandazioni che si fanno ai paesi europei in questo
opuscolo?
Bonino
Questo opuscolo, che abbiamo presentato al vertice dei Capi di Stato e
di Governo del Consiglio d’Europa a maggio a Istanbul, non ha suscitato proprio grandi entusiasmi da parte dei Capi di Stato e dei Ministri
presenti. Potete immaginare perché. Se si fa loro presente che, magari
senza piena consapevolezza, stanno mettendo in campo delle politiche
discriminatici, razziste, anti-integrazione, ovviamente non ci si aspettano grandi entusiasmi. Il gelo era, infatti, piuttosto pesante.
Le raccomandazioni. Innanzitutto provare a dire qualche verità. In Europa siamo un Paese di grande declino demografico. Allora, la semplice
questione di domanda e offerta ci porta a dire che i migranti hanno bisogno di uscire e che noi abbiamo bisogno di loro. La stima prudenziale
rispetto al declino demografico europeo dà al 2050 la necessità di incorporare in Europa 500 milioni di persone, ulteriori 50 milioni di immigrati. Questa è la stima prudenziale. L’attuale Governo, che nessuno può
accusare di avere propensioni eccessive di accoglienza, nel programma
di riforma nazionale, a pagina 77, in una nota piccola piccola, è stato
costretto a dire: “questo nostro Paese, per ragioni semplicemente demografiche, avrà bisogno di almeno 250 mila nuovi immigrati l’anno per i
prossimi 10 anni”.
Oggi una prima raccomandazione è, dunque, quella di provare a dirsi e
dire ai cittadini la verità. Per esempio, che in Italia abbiamo 5 milioni di
immigrati ma, in realtà, ne avremmo bisogno di almeno altri 2 milioni e
500 mila. Può piacere o non piacere, ma forse la cosa più seria da fare è
sedersi intorno a un tavolo e capire come ridurre i problemi. È evidente
che l’immigrazione provoca sempre problemi, ma compito della politica
è proprio quello di ridurli. È opportuno anche sottolineare come la loro
presenza crei vitalità e come la cifra dell’integrazione al femminile sia
ancora più positiva, ivi compresa quella relativa all’imprenditoria femminile. Nell’ultimo anno sono sorte nel nostro Paese 100 mila imprese al
femminile appartenenti a straniere. Il traino dell’integrazione femminile
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è, dunque, molto importante, perché le donne immigrate sono quelle che
hanno più bisogno di integrarsi, sono quelle che hanno rapporto con le
scuole, con gli ospedali, con le pratiche burocratiche e che hanno anche
più bisogno di libertà individuali.
Dire la verità non sarà popolare, ma è utile e necessario.
Tonelli
Perché questo rapporto non è piaciuto ai Capi di Governo?
Bonino
Innanzitutto perché l’idea del non dire la verità - e cioè “di immigrati
non abbiamo bisogno” - non è solo tipica del nostro Paese e del nostro
Governo, ma è veramente molto estesa nei governi europei. La paranoia
razzista ha ormai raggiunto tali limiti che la Danimarca ha chiuso i confini con la Germania, ha rimesso il passaporto, e non è che si stesse ven-
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tilando un esodo tedesco verso la Danimarca. Sono stati chiusi anche
i confini con la Svezia. La verità sulla problematicità e sulla necessità
dell’immigrazione, in realtà, non è, dunque, solo tipica del nostro Paese.
Questa “operazione verità” non viene fatta. Si nega piuttosto il fenomeno, oppure c’è la tendenza a dire “È un fenomeno temporaneo, poi se ne
andrà” e, nel frattempo, “mettiamoci noi a fare figli”.
Notate bene che io non sono affatto una che dice “Vengano tutti”. Non
ho nessuna velleità di questo tipo. Penso che il fenomeno dell’immigrazione vada governato, con tutte le difficoltà e le correzioni del caso, perché - come dicevo prima - la politica perfetta dell’immigrazione non l’ha
inventata nessuno.
Così come, ad esempio, molti paesi cominciano a dire - e temo che anche il nostro lo farà presto - “decidiamo a tavolino di quanti geometri,
ingegneri, stilisti, astronauti, raccoglitori di pomodori abbiamo bisogno
e facciamo entrare solo questi signori”. Ci si può provare, ma guardate
che è un’illusione. L’immigrazione è un fatto dinamico, è come l’import–
export, non siamo solo noi che abbiamo bisogno di esportare, bisogna
che esportiamo quello che il mercato cinese vuole comprare. Per quanto
riguarda l’immigrazione, non ci siamo solo noi ad averne bisogno, c’è
anche la loro necessità di emigrare per ragioni differenti. Si può tentare
di “selezionare” ma senza avere troppa fiducia sul funzionamento di tale
procedura.
La seconda raccomandazione - che è sempre piaciuta poco a quasi tutti i
paesi - è quella di cambiare le attuali leggi di immigrazione e affidarsi a
una competenza europea. Apriti cielo!
Tonelli
L’Europa non ha competenze?
Bonino
No, l’Europa, anche secondo l’ultimo Trattato di Lisbona, non ha competenze in termini di regolamentazione dei flussi. Ha la competenza di
controllo delle frontiere e dei minimi standard con cui trattare gli immigrati una volta regolari. Tutti i paesi non hanno voluto che tutti l’Europa
avesse competenze. È per questo che mi fa un po’ specie quando si dice
“L’Europa ci lascia soli”, perché se non vuoi dare competenze all’Europa,
poi non le puoi invocare quando servono.
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Il rapporto chiede una politica di competenza europea e, anzi, anche più
allargata ai paesi del Consiglio d’Europa, che hanno ancora meno problemi di immigrazione.
Chi emigra, dove va? Va in un paese che si presume abbia lavoro.
Chi parla di smistarli deve tenere conto che stiamo parlando di esseri
umani, che hanno delle dinamiche esattamente come noi.
Una delle raccomandazioni più importanti è quella di dire: “guardate
che il problema è così strutturale, così importante, così destinato a vivere con noi che tutti devono fare la propria parte”. Infatti, ci sono delle
raccomandazioni per la politica nazionale, per le amministrazioni locali,
ma anche per Confindustria piuttosto che per i sindacati, piuttosto che
per le università e le scuole, perché la politica ha sì più responsabilità di
altri, è evidente, ma questo fenomeno, potenzialmente molto positivo
ma che presenta anche delle criticità evidenti, ha bisogno di una sinergia di tutte le componenti della società, nazionali e locali.
Siccome ho nominato gli imprenditori, sono molto contenta di questa
iniziativa che mette insieme le cooperative, il livello locale, perché poi è
qui che l’integrazione si deve esplicitare.
Credo anche che la Bossi–Fini vada rivista non solo per la questione
carceri, perché se viene fatta una legge che inventa i reati, una legge “criminogena”, aumenta la popolazione carceraria e bisogna tenerne conto.
Noi facciamo tutti finta di applicare la Bossi–Fini, ma è evidente che non
è così. La Bossi–Fini dice che, quando si aprono i flussi, è l’imprenditore
che si mette in fila alle 4 di mattina e va a regolarizzare il dipendente,
che in teoria dovrebbe abitare in Colombia. Finalmente arriva il timbro,
l’imprenditore chiama il consolato in Colombia e dice di avere l’autorizzazione per Tizio e Caio. Tutti sappiamo che non è così.
Il punto essenziale, a mio avviso, è riconoscere che abbiamo bisogno
di loro e che facciamo bene a non prendere lucciole per lanterne. Ad
esempio, questo Paese, come tutta l’Europa, ha aperto un dibattito sul
foulard, il non foulard, il foulard corto, il foulard lungo, eccetera. Cose
inenarrabili. La questione non è se una donna si mette un foulard o no
per qualunque motivo. Non sta allo Stato e alle Istituzioni di un paese
laico andare a verificare perché una persona metta o meno il foulard.
La questione vera si pone quando si arriva a una situazione di burka, di
non riconoscibilità. E, su questo, a mio avviso, bisogna essere rigorosi a
non ammetterlo perché siamo una civiltà e un Paese a responsabilità in-
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dividuale e, quindi, anche io ho il diritto di capire con chi ho a che fare
se entro in una banca, se devo pagare il conto a un supermercato. Tant’è
che noi avevamo una legge fatta per l’ordine pubblico già negli anni ’70:
all’epoca fu una misura anti-terrorismo e riguardava i passamontagna
alle manifestazioni, ma stabiliva molto semplicemente che nei luoghi
pubblici - quindi per strada - non si potesse andare in giro irriconoscibili, indipendentemente dal fatto che si indossasse un casco, un passamontagna, un burka o quant’altro. Quindi dobbiamo essere rigorosi su
alcune cose, cercando però di affrontare i problemi veri e non quelli falsi. Se teniamo questa bussola di rigore e di legalità, uno stato di diritti e
di doveri, è chiaro che un individuo che non è legalizzato non ha diritti,
ma non ha neanche doveri.
Mi sono dimenticata di dire che rispettare le loro culture va benissimo,
però bisogna anche essere rigorosi: le mutilazioni genitali femminili
non si fanno, né a casa loro né a casa nostra. È molto semplice, perché è
una violazione di diritti. Va tutto bene, rispettiamo i canti e i balli, però i
matrimoni forzati a 12 anni non si fanno.
Cerchiamo di distinguere i problemi veri da quelli falsi e non confondere l’afflato personale con la legalità e le leggi. Cerchiamo di capire che
quello dell’immigrazione è un fenomeno destinato a vivere con noi per
molto tempo e che può anche essere molto vivace e positivo.
Tonelli
Grazie alla Vice–presidente del Senato, Emma Bonino, che purtroppo ci deve lasciare.
Adesso ci spostiamo sul palco, perché inizia l’ultima parte del nostro
incontro. Chiamo sul palco l’Onorevole Cazzola, la Senatrice Ghedini, il presidente Levorato e il Segretario provinciale della CNA, Massimo Ferrante.
Il tema è ricco e molte sono le questioni sollevate. Comincerei proprio con l’Onorevole Cazzola dall’affermazione fatta in apertura dal
presidente Calzolari, ovvero che la Bossi–Fini favorisce la clandestinità, non la limita e, soprattutto, non rallenta l’immigrazione. Lei
cosa ne pensa?
27
Giuliano Cazzola
Giuliano Cazzola
Innanzitutto ringrazio per l’invito e mi scuso perché sostituisco un collega che doveva partecipare al dibattito. Sono decisamente d’accordo
con le considerazioni di Emma Bonino, col taglio che ha dato al suo intervento, anche con il realismo con cui ha affrontato la materia, il coraggio e la serietà di affermare che il problema è difficile e che anche altri
paesi hanno incontrato e incontrano delle difficoltà. Credo che la Bossi–
Fini abbia il merito di aver legato l’idea dell’integrazione con l’idea del
lavoro. Non c’è dubbio che però, in fin dei conti, presenta limiti notevoli, motivo per il quale alcuni aspetti non funzionano.
Il più grave di questi limiti è che la Bossi–Fini prevede il rinnovo del
permesso di soggiorno dopo 20 giorni, quando la media è di 291 giorni.
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Per questo motivo sabato scorso gli immigrati sono scesi in piazza a
manifestare in tutta Italia. Questa settimana ho presentato un’interrogazione al Ministro degli Interni per sollevare questa questione, perché se
gli immigrati hanno dei doveri è giusto che abbiano anche dei diritti, e
questi diritti siano rispettati. L’amministrazione deve essere in grado di
dare delle risposte nei tempi previsti dalla legge.
Poi non c’è dubbio che, se la Bossi–Fini ha avuto questa idea, che io ritengo corretta, di legare l’integrazione al lavoro, c’è un uso del permesso
di soggiorno, non solo relativamente alla problematica patologica dei
ritardi, che rende difficile l’integrazione. Se si costringono gli immigrati
a periodici viaggi intercontinentali, fermo restando le loro esigenze di
carattere familiare, si finisce per mettere in moto un processo per cui,
per avere 4,7 milioni di immigrati regolari in questo paese, se ne sono
mossi 12 milioni.
Se volete un esponente del Pdl cattivo chiamate qualcun’altro. Io credo
che una forza di governo debba porsi l’obiettivo di dare una risposta ai
problemi, debba educare i cittadini e non fare leva, per motivi di consenso, sulle loro preoccupazioni, paure e difficoltà effettive.
Ho apprezzato quanto affermato da Emma Bonino e ci sono effettivamente problemi reali, delle questioni che si pongono nel fare i conti, nel
misurarsi con il diverso, al di là delle propensioni delle persone. Il mio
partito ha perso le elezioni a Milano e, non so perché, ha creduto di poter recuperare il consenso perduto prendendosela con gli zingari e con
la moschea. Sono stato in missione in Ungheria, dove gli zingari sono
750 mila e, ovviamente, non è facile gestirli; però loro, che sono un piccolo paese, affrontano con estrema serietà questo problema. Ciò che più
di ogni altra cosa non ho condiviso è stato questo attacco alla moschea,
quando basta prendere il rapporto del Ministero del lavoro sull’immigrazione - scaricabile dal sito del Ministero del lavoro – per scoprire che
nel 2015 a Milano e provincia ci saranno 700 mila stranieri, molti di questi musulmani. Ritenere che, quando si ha a che fare con una percentuale così rilevante di popolazione, non ci si debba porre anche il problema
di come questa prega e vive è assolutamente irresponsabile. È la fuga da
un problema che sta scritto nelle cose.
Se prendiamo il rapporto della Commissione Europea sull’invecchiamento della popolazione, ci accorgiamo che nel 2060, fra mezzo secolo,
l’Italia, che oggi è uno dei cinque paesi che ha più immigrazione in Eu-
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ropa, al pari dell’Inghilterra, avrà una quota di popolazione straniera
immigrata di circa il 12%. Peraltro, come osservato dal Sindaco Merola,
c’è un problema di carattere demografico e occupazionale che rende
inevitabile questo processo. Al di là del giudizio etico, al di là dei valori,
siamo un Paese che dovrà per forza di cose misurarsi con quote crescenti di immigrazione, un Paese che ha visto triplicare la presenza di
stranieri in dieci anni, che ha una quota di popolazione straniera pari al
7%, soprattutto collocata al Nord, dove si raggiungono addirittura quote
del 10%; diventa dunque indispensabile porsi il problema di far capire
alla gente che ci troviamo di fronte a una questione che non è possibile
trascurare.
La presenza di stranieri ha rimesso in moto la demografia. La popolazione, fra il 1961 e il 1971 del 6,9%, tra il 1971 e il 1981 del 4,5%, ha poi
smesso di crescere. Ha ricominciato a lievitare nuovamente intorno al
2001 grazie agli immigrati ed è importante notare il loro contributo al
mercato del lavoro. Qualcuno ritiene che, se chiudessimo le frontiere,
avremmo risolto i problemi legati alla disoccupazione. Ricordo che,
quando si parlava del decreto sulle quote, persino un religioso importante del Veneto disse: “Quest’anno non facciamo le quote perché devono
lavorare i nostri disoccupati”. Questo è un tema che sta davvero a cuore
alla Lega, ma non ha fondamento perché, se chiudessimo le frontiere ammesso sia possibile farlo -, ci troveremmo con italiani disoccupati e
con posti di lavoro non coperti: è necessario, infatti, anche cominciare a
ragionare in merito al lavoro rifiutato.
Nel 2010, 863 mila posti di italiani sono rimasti vacanti; non si tratta
di persone che sono state licenziate, bensì di persone che, ad esempio,
sono andate in pensione, consentendo un ingresso nel mondo del lavoro di 330 mila stranieri. Il saldo occupazione è risultato, dunque, di 553
mila posti in meno. C’è chi dice che i padroni sono malvagi, assumono
gli stranieri, pagano poco, ma è pur sempre vero che gli immigrati fanno lavori manuali solitamente rifiutati dagli italiani ed è per questo che
l’occupazione degli stranieri è sempre cresciuta, in misura minore che in
altri anni, anche negli anni di crisi.
Andando a vedere i numeri di questi posti di lavoro abbiamo una sorpresa, perché su 330 mila stranieri ci sono 304 mila dipendenti. Di
questi 304 mila, 264 mila dipendenti - una percentuale fra il 60 e il 70%
- sono stati assunti con rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Abbia-
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mo stranieri che vengono assunti con rapporti di lavoro a tempo indeterminato, grande aspirazione dei giovani italiani. Questo vuol dire, in
sostanza, che c’è comunque un’esigenza del sistema produttivo di avere
una manodopera che viene fornita dai lavoratori stranieri.
Questo è un dato significativo che dimostra come, anche sul versante
dell’occupazione, gli stranieri siano importanti.
Tenete presente il dato delle badanti. Con le badanti ci siamo inventati
una forma di welfare. Di questi 330 mila stranieri, infatti, 237 mila sono
lavoratori addetti ai servizi alla persona.
In conclusione a queste considerazioni, vorrei farvi presente una norma
contenuta nella manovra, credo confermata, nei confronti della quale
ho preso posizione in Commissione lavoro, perché c’era un disegno di
legge della Lega che si muoveva in questa direzione. Nella manovra c’è
una norma che la stampa, con un po’ d’ironia e di superficialità, definisce “anti-badanti”. La norma è così concepita: se una persona ultra–set-
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tantenne, uomo o donna che sia, ma è chiaro che si tratta quasi sempre
di uomini, sposa una persona che ha vent’anni meno di lui, se non sta
sposato dieci anni - muore a 72, 73 anni - ogni anno in meno dei dieci la
pensione di reversibilità che lascia alla vedova viene tagliata del 10%. Si
tenga conto che la pensione di reversibilità è già del 60%, anche legata
alla condizione reddituale della persona titolare della pensione di reversibilità. Parliamo di norme anti-badanti e nessuno dice che questa non
è una norma che colpisce solo la categoria delle badante, bensì colpisce
anche i cittadini italiani. Nel 2008 venne emanato un provvedimento
che riconosceva l’assegno sociale soltanto ai cittadini italiani. Fu necessaria una correzione al Senato e una seconda lettura alla Camera, perché
una norma di questo genere non è lecita.
Spero riusciremo a evitare tale norma, lo dico alla senatrice Ghedini che
avrà il compito al Senato, pur stando all’opposizione, di lavorare sulla
manovra, perché alla Camera arriverà blindata. Credo che questo sia un
aspetto da evidenziare e da denunciare. Grazie.
Tonelli
Grazie all’onorevole Cazzola. Gli spunti che ha presentato sono molto ricchi, aggiungo anche il mio modestissimo parere: secondo me
la norma anti–badante va a violare diritti individuali, motivo per il
quale l’Europa ci potrebbe ridere addosso. Qualche badante furba
sparsa per l’Italia ci sarà pure, ma non è quello il tema dei risparmi
veri dei bilanci italiani.
Dell’intervento dell’onorevole Cazzola vorrei riprendere uno spunto
con la senatrice Ghedini, cioè il fatto che, in sostanza, esisteva un
legame fra l’immigrazione e l’integrazione al lavoro nella Bossi–Fini.
Quello che volevo sapere dalla senatrice, che è anche componente
permanente della Commissione lavoro e previdenza sociale, e a cui
in parte già l’onorevole Cazzola ha risposto, è se esiste un legame fra
l’attuale disoccupazione o inattività dei lavoratori italiani e il fenomeno immigrazione.
32
Rita Ghedini
Rita Ghedini
Grazie dell’invito. Anch’io come Giuliano Cazzola sostituisco chi avrebbe dovuto, più vicino al territorio, intervenire su questo argomento.
Però ho una fortuna, quella di aver partecipato anche all’edizione
dell’anno scorso in uno dei workshop tematici dedicati alle tecnicalità e
alla strutturazione della normativa in materia di immigrazione, in particolare in materia di lavoro; rispondo rapidamente alla domanda, che
utilizzo come tramite per fare qualche considerazione.
Credo ci sia poco da aggiungere a quello che ha già detto l’onorevole
Cazzola. Due precisazioni. Il saldo migratorio del 2009 e del 2010, anni
in cui il dato della disoccupazione in Italia è stato pesantissimo, ci dice
che l’immigrazione non solo continua in presenza di un dato di crisi
33
occupazionale così forte, ma continua la stabilizzazione dei rapporti di
lavoro che riguardano immigrati. C’è un vivo dibattito sul fatto i nostri
giovani si devono riadattare ai lavori umili mentre, viceversa, gli immigrati li accettano e che sarebbero a disposizione se solo i nostri giovani
si decidessero a svolgerli.
L’onorevole Cazzola dice che, in realtà, questa continuità occupazionale
che si è generata anche in presenza di un incremento della disoccupazione così pesante — 550 mila posti di lavoro persi sono un dato importante — ha riguardato un tipo di impiego specifico. Il saldo attivo dei
posti a tempo indeterminato, che prima l’onorevole Cazzola ha menzionato, riguarda per l’appunto 265 mila persone, delle quali quasi 240 mila
sono le occupate, perché sono donne con il contratto del colfaggio che,
per sua natura, è necessariamente a tempo indeterminato, non ne esiste
altra formulazione ed è un contratto interindividuale. Che cosa significa? Significa che lo scorso anno abbiamo trasformato 240 cittadine e
cittadini, il più delle volte ultra–quarantenni, donne e uomini che hanno
già un altro lavoro normalmente dipendente, in datori di lavoro di colf,
baby–sitter, assistenti famigliari o, per meglio dire, badanti, dando così
il segno forte di una trasformazione del nostro welfare che ha a che fare
- e così utilizzo un altro ragionamento a dimostrazione di come abbiamo
piegato e non utilizzato la Bossi–Fini - con la rinuncia, dal mio punto di
vista, a governare le politiche di welfare in questo Paese.
L’onorevole Cazzola diceva prima che la Bossi–Fini ha avuto il pregio
di collegare immigrazione, integrazione e lavoro. Sarebbe stato così o,
meglio, perché fosse così sarebbe stato necessario incardinare delle politiche del lavoro che riguardassero il lavoro in generale e il lavoro migrante in particolare, insieme a un progetto di welfare che tenesse conto
della presenza, del ruolo, dei doveri e dei diritti di questi nuovi cittadini.
In realtà, quello che è successo negli ultimi dieci anni, di fatto, è che le
politiche per l’immigrazione sono state integralmente appaltate al Ministero degli Interni.
Io sono - Cazzola lo ricordava - membro della Commissione lavoro che
dovrebbe occuparsi attivamente di un fenomeno così importante, che
ha un’intersezione così forte con il tema dello sviluppo, della crescita
economica, della regolazione del mercato del lavoro e, quindi, del suo
profilo complessivo. Non ricordo, se non in occasione della definizione,
nel 2008, delle categorie del cosiddetto decreto flussi, che la Commissio-
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ne lavoro del Senato si sia mai occupata di politiche del lavoro collegate
al lavoro migrante.
Così come non ci sono state politiche di welfare che abbiano considerato che ammettere lavoratori stranieri significa ammettere - lo diceva già
Emma Bonino - persone e che pretendere da queste persone il rispetto
delle regole e delle leggi del nostro Paese, come è giusto pretendere, significa riconoscere queste soggettività e riconoscere loro anche diritti.
Su tutto questo non si è lavorato, si è rinunciato alla politica e si è appaltata la politica dell’immigrazione alla Lega, che ha portato avanti una linea esclusivamente securitaria. Non a caso, ribadisco, l’unico Ministero
che si occupa di immigrazione è il Ministero dell’Interno.
Ora, all’interno di un’idea che collega immigrazione, integrazione e lavoro, la questione dell’immigrazione è assolutamente trasversale, è un
argomento di cui tutti i dicasteri dovrebbero interessarsi, in primis i dicasteri che si occupano di lavoro e di welfare. Questo non accade.
Il fatto che questo non accada e che, viceversa, si sia posto l’accento
sulla costruzione di una legislazione con un’unica finalità, costruire
deterrenza e mettere in campo strumenti pensati per disincentivare
l’ingresso dell’immigrazione, contro l’evidenza palese della necessità
di quest’ultima, ha fatto sì che in questi anni si conducesse un’attività
schizofrenica.
Nell’edizione di Molteplicittà dell’anno scorso ci siamo più volte soffermati sulla necessità di ricondurre alla razionalità le politiche per l’immigrazione. Quello che è successo quest’anno - che cosa è successo di
nuovo, nell’ultimo anno, rispetto alle politiche per l’immigrazione? - è
che praticamente tutte le leggi messe in campo dall’inizio della legislatura sono state decostruite, dichiarate illegittime dalla Suprema corte
europea, dalla Corte costituzionale, oppure si sono rivelate inapplicabili.
Si è rivelata di fatto inapplicabile la costruzione del permesso a punti,
non sono stati attivati gli strumenti che dovevano rendere possibile
l’integrazione degli immigrati di lunga durata, coloro che permangono,
che si stabilizzano nei posti di lavoro e che dovrebbero acquisire quegli
attributi che avvicinano alla cittadinanza: la conoscenza della lingua,
delle leggi del nostro Paese, addirittura, come contemplato dalla legge,
“degli usi, dei costumi e delle tradizioni”, come se questi si potessero
apprendere grazie a un corso e non fossero frutto di quell’integrazione,
di quella relazionalità dalla quale, come già osservato precedentemente,
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non si può prescindere.
Tutto questo non è successo. Non è successo perché non era normativamente ammissibile. Non è successo perché era praticamente ingestibile. E, in aggiunta, si è accettata la necessità di conservare un tasso di
illegalità nella politica dell’immigrazione elevatissimo. Di fatto, il più
volte citato decreto flusso annuali - lo diceva Bonino - si è trasformato
in una sanatoria annuale. L’attuale Ministro vanta di non avere mai più
consentito sanatorie se non quella che ha riguardato colf e badanti nel
2009, - non si capisce perché, fra l’altro, un principio che prendeva atto
della presenza e dell’occupazione in un paese valga solo per una categoria di lavoratori e non per tutti gli altri, come i muratori, gli idraulici, gli
elettricisti, ecc…
Ciò detto, ci si è abituati ad accettare la regola dell’illegalità: ogni anno
il decreto flussi sancisce una sanatoria per centinaia di migliaia di persone, all’interno della quale viene definita la necessità di assunzione
da parte dell’Italia. Non solo, si è rinunciato a qualsiasi vera scelta di
discrimine. Discriminare significa decidere che cosa serve, significa inquadrare un problema, analizzarlo e cercare delle soluzioni. Si è deciso
di discriminare in altro modo: facendo finta che il problema non esista,
inducendo illegalità e da quell’illegalità traendo, entro certi limiti, vantaggi di tipo elettorale.
Ora il problema è lì, in tutta la sua complessità, e quello che è successo
negli ultimi otto mesi nel Sud del Mediterraneo ha reso non solo politicamente, ma storicamente evidente questo atteggiamento di rinuncia a
decidere. Possiamo dire che la storia ha spazzato via qualsiasi analisi di
tipo ideologico o di tipo pragmatico a proposito di ciò che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Siamo diventati lo zimbello di noi stessi non
riuscendo, dichiarandolo addirittura all’interno dell’Europa, ad ammettere né la necessità di una politica comune, né la possibilità per l’Italia
di affrontare un problema che in altri tempi e in altri momenti era stato
già preso in carico, seppur di dimensioni molto maggiori.
Ritengo necessario e possibile, anche in considerazione delle vicende
elettorali dell’ultimo periodo, togliere di mezzo un po’ di ideologia, affrontare in maniera sistematica, pragmatica, discriminata — cioè facendo delle scelte — la politica per l’immigrazione, riconducendola a regole.
E allora ci sono almeno due categorie di cose da fare: innanzitutto abolire le leggi, prive di qualsiasi logica, che sono state emanate per con-
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trastare un fenomeno che non è contrastabile, anziché per gestirlo; in
secondo luogo, affrontare una politica, e quindi delle scelte di normazione, che incardini il fenomeno all’interno della legalità, e quindi decidere
di quanta immigrazione c’è bisogno, cosa che in realtà è già stata decisa,
l’ha stabilito il Ministro Tremonti nel DEF che si è portato in Europa ad
aprile, dove c’è scritto che, con meno di 220-240 mila nuovi immigrati
all’anno come dato di saldo e, quindi, come numero che va ad accrescere
lo stock degli immigrati in Italia, le prospettive di risanamento del deficit dello Stato e gli equilibri di bilancio non sono contenibili. Sappiamo
quindi quanto ci serve per mantenere un livello di crescita, che il Governo stesso ha stimato necessario fra l’l,5 e il 2%.
Dobbiamo pensare all’integrazione degli immigrati; dobbiamo ragionare
di nuovo sul meccanismo della sponsorship; dobbiamo creare un permesso per ricerca di lavoro che dia il tempo all’aspirante lavoratore di
cercare effettivamente un impiego e farsi conoscere; dobbiamo istituire
una durata dei permessi di soggiorno per lavoro che consenta alle persone di non essere costantemente ricattabili, ma di investire sul proprio
futuro. Investire sul proprio futuro significa investire sulla comunità,
sulle relazioni e, in aggiunta, essere soggetto di diritto e oggetto di doveri chiari. Solo a quel punto avremo delle persone e non dei numeri,
non delle qualifiche, non dei fantasmi dai quali difenderci e con i quali
interloquire.
Tonelli
Grazie alla senatrice Ghedini che ha sottolineato la precarietà e la
fragilità dell’attuale legislazione sul tema, ma ha anche auspicato un
qualche rinnovamento.
Vorrei riprendere un’affermazione che ha fatto in apertura il presidente Calzolari, quando diceva che, passata la crisi, per poter evitare
il declino economico abbiamo bisogno di nuove forze nel mondo del
lavoro. È evidente che i prossimi anni ci chiederanno comunque una
produttività molto elevata. Al segretario provinciale della CNA di
Bologna, Massimo Ferrante, vorrei chiedere che cosa state facendo
come associazione sul piano della formazione e dell’integrazione dei
soggetti immigrati.
37
Massimo Ferrante
Massimo Ferrante
Sono molto contento di essere qui perché il tema trattato sta veramente
a cuore alla CNA e, quindi, la partnership che si rinnova con Legacoop
non è semplicemente un fatto di adesione formale, ma è invece un impegno convinto.
Non rimanendo solo a Bologna, ma come Confederazione nazionale, la
CNA da alcuni anni mette in campo un impegno molto forte, ad esempio
sostenendo annualmente il rapporto della Caritas, che studia con molta
precisione le dinamiche dell’immigrazione e i suoi effetti sia sociali che
economici.
In secondo luogo esiste un vero e proprio marchio come CNA, CNA
World, abbiamo 70-80 sportelli a livello nazionale e, in questo modo,
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cerchiamo di supportare gli immigrati nei loro percorsi di inserimento
nella società e nel contesto economico locale dal nostro particolare punto di vista, quello del raccordo tra impresa e lavoro, ma anche quello del
fare impresa, perché questo è un fenomeno che detiene un indiscutibile
rilievo, che va per certo approfondito.
Di seguito alcuni numeri eclatanti, da prendere in considerazione nelle
diverse sfaccettature. Dal 2005 al 2010 il numero di imprese di immigrati censite nel nostro paese è passato da 116 mila a 230 mila. Nello stesso
periodo, il numero di cittadini italiani che ricopriva qualche carica all’interno dell’azienda - consiglio d’amministrazione, socio, ecc. - è diminuito del 9%; il numero di immigrati con cariche aziendali è aumentato del
40%. Oggi l’incidenza delle imprese di immigrati sul totale delle imprese
italiane è all’8,5%, cioè 8,5 imprese su 100 sono risultato dell’ attività di
immigrati.
Infine, la dinamica di crescita del numero di imprese immigrate nei diversi paesi europei vede l’Italia con un tasso crescente del 12% mentre,
fra gli altri paesi che hanno avuto fenomeni di immigrazione di più ampio respiro e di più lunga data, la Germania cresce all’1,9%, la Francia al
3,2%, la Spagna al 4,8%.
Un dato qualitativo che vale la pena sottolineare è che in queste 230
mila imprese oggi censite in Italia, il 25% è in mano a donne imprenditrici.
Questi dati, di per sé, sono un fenomeno eclatante, emblematico. Ovviamente bisogna domandarsi da dove viene questo boom di imprese in 5
anni, da 116 mila a 230 mila, quasi raddoppiate con tassi di crescita del
12% annuo. Ci sono alcune concause, alcuni fattori che si combinano. In
primo luogo, è da osservare che questi non sono imprenditori che vengono dall’estero ad aprire un’impresa in Italia, perché l’avvio di un’attività è per loro pressoché impossibile. Questi sono immigrati venuti in
Italia per lavorare e che, viste le difficoltà che incontrano nel mondo del
lavoro, a un certo punto decidono di fare una scelta differente: piuttosto che essere assunti in condizioni di precarietà oppure in condizioni
salariali ribassate rispetto a quelle degli italiani, si lanciano in un’avventura imprenditoriale. Questo dato, da un certo punto di vista, è anche il
segnale di un fallimento. Se sottopaghiamo, fermo restando le considerazioni riportate precedentemente in merito ai flussi migratori, alla necessità di manodopera, al conseguente apporto positivo che il fenomeno
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dell’immigrazione può dare all’economia del nostro paese come dato necessario e non come dato alla voce “varie ed eventuali”, se continuiamo
ad avere un’ottica miope a livello politico, in base alla quale sottopaghiamo gli immigrati, questi saranno in grado di dare una risposta nel breve
periodo, risposta ai nostri problemi di mancata crescita demografica e
di tenuta economica proiettata con un orizzonte temporale limitato; ma,
progressivamente, con salari da fame avranno pensioni da fame e noi
ci troveremo con una bomba in casa, nel senso che non solo i giovani
italiani, ma anche tutta questa componente immigratoria diventerà una
piaga sociale, un problema da gestire e, di conseguenza, una questione
importante di povertà e di ordine pubblico.
È essenzialmente questo il limite forte del nostro paese. Come CNA,
quando è stata promulgata la Bossi–Fini unitamente alle altre associazioni imprenditoriali, in uno schieramento che andava dalla Confindustria
passando per tutte le associazioni della piccola e media impresa fino ad
arrivare alle imprese cooperative, con il mondo dell’associazionismo,
con i sindacati, con il mondo della chiesa in senso lato, affermammo:
“guardate che quella legge è una follia perché ignora tutti i dati di evidenza sociale ed economica”.
Soltanto che, quando si promulga una legge di questo tipo su un problema di prospettiva fondamentale per la competitività europea nel mondo, quando l’ottica con cui si fa una politica pubblica diventa una questione riduttiva di ordine pubblico, concepita in questi termini e non in
termini sociali ed economici, allora c’è il segnale di una costante incapacità, che ha caratterizzato la politica al governo in questo Paese, di dare
un indirizzo alle diverse componenti che fanno lo sviluppo di un paese.
Come diceva la senatrice Rita Ghedini, concepire la cosa in termini di ordine pubblico, ignorando tutti gli evidenti addentellati che questo comporta, ci porta al paradosso che oggi non soltanto dobbiamo difenderci
— come ci ricordava la senatrice Bonino — dalla diffidenza delle persone, dei cittadini, delle comunità rispetto al diverso, all’immigrato, a colui
che entra guardato con sospetto; in realtà, alimentiamo continuamente
questo tipo di prospettiva e continuiamo a gettare benzina sul fuoco,
motivo per cui, nell’immaginario collettivo, nella consapevolezza delle
famiglie, l’immigrazione sono i barconi, sono i disperati che arrivano,
sono i clandestini, è la cosiddetta “micro–criminalità”.
Bisogna considerare che gli immigrati, in termini economici, sono un
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segno positivo nel bilancio dello Stato, perché offrono più risorse di
quelle che consumano e, di conseguenza, il bilancio dello Stato alla fine
registra un saldo positivo. Di questi particolari non si discute mai, non
vengono portati alla consapevolezza di tutti e quindi rimane l’ottica di
ordine pubblico.
Al di là di guardare alla problematica in un’ottica di sviluppo economico, un’ottica utilitarista, la mancanza di politiche mirate, consapevoli,
che intendano davvero regolare il fenomeno, porta, anche sul piano etico e morale, conseguenze spaventose. Posso citare i dati che ho portato
qualche mese fa in Prefettura, quando una commissione d’inchiesta del
Senato sugli infortuni sul lavoro è venuta a Bologna e ha incontrato tutte le categorie economiche.
Ebbene, a parità di settore di impiego, il tasso di infortuni degli immigrati rispetto ai lavoratori italiani è triplo. Questo fenomeno è facilmente spiegabile. Ci sono diverse motivazioni, la più banale delle quali è di
ordine linguistico, di integrazione pura e semplice all’interno del contesto aziendale.
Richiamando la questione di ordine morale, dico che è immorale avere
un tasso di infortuni dei lavoratori immigrati triplo rispetto a quello dei
lavoratori italiani, quando è evidente che, con una serie di misure in alcuni casi anche molto semplici, questo numero potrebbe essere ridotto
significativamente.
Per concludere, o ci impegniamo tutti attivamente rispetto a questo fenomeno, motivo per il quale ho accettato con convinzione di essere qui
oggi e credo molto nel progetto che la Lega delle cooperative sta portando avanti, oppure continuiamo ancora una volta a dare una seria picconata alle possibilità di sviluppo di questo Paese, e anche alla sua etica.
Tonelli
Grazie anche per la ricchezza dei riferimenti e dei dati che ci ha proposto.
Adesso passiamo a un’esperienza dove il lavoro immigrato ha una
lunga e solida tradizione, quella di Manutencoop. Claudio Levorato
ne è il presidente.
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Claudio Levorato
Claudio Levorato
Già lo scorso anno, con la prima iniziativa di Molteplicittà, abbiamo cercato
di invocare un criterio di razionalità economica nell’affrontare il problema
dell’immigrazione.
Come ci diceva prima Emma Bonino, l’immigrazione è un fenomeno eminentemente economico, che ha importanti effetti sociali, ma che ha motivazioni e finalità esclusivamente economiche. C’è un mercato che chiede
forza di lavoro, deficitaria in questo paese, c’è un’offerta di lavoro che viene
da paesi del Sud del Mediterraneo, dall’Est europeo o asiatico. Questa razionalità economica va ricordata, al fine di far soggiacere gli aspetti culturali e
anche di apprezzamento individuale — come ci ricordava Bonino — a questi elementi di razionalità necessari.
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Purtroppo, il dibattito politico nel nostro paese — e Cazzola, che pure è un
esponente del partito di maggioranza al Governo, ci ha detto sconfortato
come sia faticoso riuscire a far passare certe idee — parla alla pancia, non
alla testa, non alla mente e, così, le Istituzioni rinunciano a fare delle politiche.
Mi ero preparato molti dati di carattere demografico. Mi sono riguardato
Eurostat e quindi anche il confronto fra Italia e resto Europa, siamo dentro un trend europeo ma, guarda caso, nelle cose cattive l’Italia è sempre
in testa. Nelle azioni positive, al contrario, l’Italia è sempre in coda. Non
consoliamoci dicendo che siamo nel trend europeo. Ho deciso, però, di non
sciorinarvi tutti questi dati perché ho sentito Emma Bonino, Rita Ghedini,
Giuliano Cazzola e il Sindaco centrare sempre questo tema di una razionalità economica sulla base della quale ci si esprime sulla questione dell’immigrazione.
È una razionalità economica che riguarda la capacità di mantenere positivo il trend della nostra economia. Siamo dentro a una fase di durissima
stagnazione che segue una recessione molto grave. Il rischio è che il trend
demografico, con i suoi effetti devastanti sia sull’aspetto dimensionale della
popolazione sia relativamente alla crescita rilevante della fascia demografica che ha già dato il suo contributo e dovrà vivere di previdenza e assistenza, vada verso fenomeni economicamente non dominabili. Di conseguenza,
abbiamo bisogno di azioni che consentano di mantenere quelle condizioni
per cui l’economia, superata la fase di recessione internazionale, si possa riprendere anche per mantenere equilibri complessivi del sistema, altrimenti
questo Paese sprofonderà.
Pensiamo alle forze lavoro. Manutencoop ha oltre 2.000 dipendenti immigrati su un complessivo di circa 17.000. È una percentuale non rilevantissima, ma abbiamo fatto la scelta al tempo di puntare sull’immigrazione non
solo come un dover per forza fare i conti con la penuria di offerta di lavoro
di autoctoni ma, già che c’eravamo, ricercare delle politiche attive.
La necessità è quella di poter fare politiche attive da parte delle Istituzioni di questo Paese, di pianificare nel lungo termine. Non è pensabile non
parlare, se non ogni tanto per voce di qualche esperto, del 2030 o del 2050.
Per gli aspetti decisionali, il 2030 e il 2050 sono oggi. Come possono, le
Istituzioni, bypassare questi nodi? Come possono non dare vita a politiche
attive?
Poiché la razionalità economica ci suggerisce che nel trend di lungo periodo
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avremo un bisogno crescente di immigrazione, occorre fare delle politiche
attive, perché non siamo costretti a ricorrere a queste assurdità cui siamo
costretti a ricorrere oggi. Assurdità e illegalità che vengono generate da
questa normativa.
Abbiamo bisogno di formare queste risorse umane, cioè di far sì che queste
vengano con qualche bagaglio culturale in più rispetto a quello della prima
immigrazione, perché siano in grado di essere più produttivi. Non è vero
che gli immigrati fanno arricchire le imprese. Purtroppo sono un costo più
importante del costo della manodopera autoctona, sono un costo complessivamente superiore perché hanno livelli di produttività inferiori, più bassi
livelli professionalità oltre che difficoltà culturale e linguistica. Bisogna allora investire per accrescere questa capacità produttiva degli stranieri e per
avere più forza di lavoro.
Ma, avendo più forza lavoro, abbiamo più contribuenti. Abbiamo visto, tra
l’altro, che un saldo di stranieri del 7,5% (dato 2009, oggi probabilmente
siamo al 9%) produce l’11% del gettito fiscale. Sono più ricchi degli italiani.
È manodopera pregiata questa, perché contribuisce al funzionamento dello
Stato.
C’è un problema di sostenibilità complessiva dello Stato relativamente al
sistema pensionistico. Gli immigrati hanno una capacità di consumo. Se li
intervistiamo, la maggior parte di essi pensa di stabilirsi in Europa, di portarvi la famiglia e di crescervi i figli. Questi flussi migratori servono all’Europa, e all’Italia in modo particolare, che da questo shock della crisi internazionale non si sa riprendere, anche per mantenere un trend di consumi
che, altrimenti, andrebbe a precipitare.
Sono lavoratori, sono contribuenti, sono consumatori. Devono essere anche cittadini. Non può più essere un tabù. Ho sentito Merola dire, «Almeno
diamogli il voto amministrativo». Se sono lavoratore, contribuente, sostengo l’economia, allora il nodo vero è quello della cittadinanza, che significa
diritti, ma anche regole, chiaramente, perché l’intenzione non è di certo
quella di distribuire indiscriminatamente carte d’identità italiane.
In altri paesi europei, Regno Unito, Germania, Francia - paesi di antica immigrazione – per quanto riguarda i nati all’estero si arriva, come nel caso
della Francia, al 47% di francesi con la cittadinanza; in Germania siamo al
25%, nel Regno Unito siamo al 37%, in Spagna - in cui gli stranieri sono
ben di più sulla percentuale della popolazione – si procede più velocemente
nel riconoscere la cittadinanza.
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È necessario che il dibattito politico si incanali sulla razionalità; le Istituzioni, anche quelle locali, devono assumere decisioni responsabili per procedere in questa direzione, ognuna nel proprio campo di pertinenza.
Anche le imprese si devono confrontare con politiche attive nei confronti
degli immigrati. Non sono un male necessario o un’alternativa residuale.
La quota sempre crescente dei lavoratori immigrati sul totale comporta che,
necessariamente, da qui a qualche anno si dovrà giungere inevitabilmente
a migliorare la loro condizione lavorativa. C’è anche un problema di carattere culturale che riguarda da vicino le associazioni. Quello che si deve fare è
intervenire, a livello di formazione professionale, su quegli elementi culturali e
linguistici che sono causa di una minore produttività. Ferrante parlava proprio
adesso del fenomeno delle imprese, anch’esso dovuto a un’alternativa residuale. In realtà c’è da far crescere la cultura e la mentalità imprenditoriale nei confronti del mercato, di ciò che spinge al miglioramento la stessa manodopera, a
maggior ragione nella forma imprenditoriale.
Nel nostro caso, le sollecitazioni sono venute dal basso, dai reparti all’interno dei quali venivano assunti gli stranieri. C’è stato un grande lavoro di
dibattito interno, anche per la nostra natura cooperativa, ma non solo per
questo. Ci siamo prefissati degli obiettivi, in primis di fare crescere i lavoratori immigrati professionalmente e di ruolo. Siamo perciò significativamente riusciti nell’intento di avere capi intermedi stranieri, non solo la manodopera di ultima istanza. Siamo riusciti a raccogliere i dati sulla scolarità
dei paesi di origine per conoscere le abilità non sfruttate e non sfruttabili
dal punto di vista del valore legale dei titoli, abilità che ci consentiranno di
pianificare una formazione professionale. Abbiamo cercato di farli crescere dal punto di vista imprenditoriale, in un ambiente cooperativo dove la
crescita imprenditoriale è un tutt’uno con la forma di governance assunta
dall’impresa, circa il 6-7% della nostra base sociale. La nostra è una base
sociale a numeri molto più limitati di quei 17 mila di cui parlavo prima, profondamente consapevole dell’importanza del ruolo imprenditoriale; proprio nell’ambito di questa base sociale ci sono 35-40 lavoratori stranieri che
si sono integrati pienamente dal punto di vista professionale e anche dal
punto di vista della partecipazione ai processi di governance dell’impresa.
Credo ci siano da una parte temi e nodi che devono essere affrontati con
una razionalità politica e una capacità di decisione, per scongiurare rischi
ancora più seri di quelli che si prospettano come sistema paese, e che ci
sia, da parte del mondo delle imprese, la necessità di portare avanti azioni
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esemplari positive, nella direzione della piena integrazione degli immigrati
nel nostro paese.
Tonelli
Grazie a Claudio Levorato.
Proporrei un velocissimo giro da 3-4 minuti l’uno per consentire poi al
presidente Calzolari di presentare una prima valutazione conclusiva di
questa giornata.
Passerei subito la parola a Rita Ghedini, riprendendo uno spunto che
aveva osservato anche Ferrante, cioè il fatto che gli immigrati, in sostanza, sono un saldo in più per lo Stato: si pensi ai conti dell’Inps
dove, avendo un’età media molto bassa. Gli stranieri versano ma, al
momento, non incassano nulla e, quindi, sono la salvezza dei conti previdenziali.
Cosa si può aggiungere in proposito?
Rita Ghedini
Non molto più di quello che già i numeri dicono. L’equilibrio previdenziale
si basa - cito le stime contenute nel Documento di economia e finanza depositato ad aprile in Europa - su una crescita media nei prossimi due anni
del 10%. Ora, nello stesso documento il Governo stima che nei primi 5 dei
prossimi 10 anni, l’Italia registrerà una crescita che si aggira intorno all’1%.
Quindi, quella curva previdenziale, senza un intervento correttivo o un
intervento aggiuntivo, cioè un apporto contributivo più alto, non può stare
in piedi. La curva previdenziale va in default, il sistema non è in grado di
pagare le pensioni a quelli che andranno in pensione nei prossimi 10 anni.
Non basta affermare che dal 2020 le donne andranno in pensione di anzianità a 65 anni; non basta nemmeno dire che l’aggancio all’aspettativa di
vita lo anticipiamo all’anno prossimo, se non si agisce in maniera significativa sullo stock contributivo che viene immesso nel sistema nella parte centrale della vita produttiva, per l’appunto quella in cui si pagano i contributi
e non si consumano: lì c’è un elemento di fragilità forte che deriva dalla
fortissima fase di precarietà del lavoro, dal fatto che, ad esempio, nel 2010
l’80% dei nuovi rapporti di lavoro sono stati di tipo discontinuo, perciò con
buchi contributivi gravissimi; significa che, se non si fanno crescere - come
diceva Levorato - le capacità contributive di chi trova lavoro stabile, quella
curva non sarà in grado di stare in piedi e, purtroppo, chi trova lavoro sta-
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bile sono fasce di lavoratori e lavoratrici pagati ai livelli più bassi della scala
retributiva e, quindi, dell’apporto contributivo.
Questa situazione dimostra di per sé che, per tenere insieme l’unico profilo
di welfare su cui c’è ancora attenzione, quello previdenziale, dato che sul
resto siamo più o meno al deserto, occorre una politica per l’immigrazione
programmata, strutturata, che ragioni di numeri e, soprattutto, che cominci
a ragionare di qualità.
Un’ultima battuta sulla programmazione sulla quale insisteva da ultimo
Lavorato: l’unico strumento normativo esistente in Italia pensato per prevedere un’ipotesi di programmazione è il Piano triennale per le politiche
migratorie. Il Piano triennale stabilisce che il governo deve annualmente
presentare al Parlamento la sua proposta in materia di politica dell’immigrazione, Parlamento che in seguito ne discute e la vota. Dal 2008 non
l’abbiamo mai vista. Prima dicevo che non ne abbiamo discusso in Commissione lavoro, ma la realtà è che non ne abbiamo discusso neanche in
Parlamento. Questa previsione normativa, che in questo strumento vede
l’unica fase di programmazione effettiva, è stata di fatto disattesa. In più,
incardinata in Senato, dentro l’ennesimo disegno di legge sulla sicurezza,
c’è una norma che abolisce definitivamente il Piano triennale di programmazione delle politiche migratorie.
Credo non si debba dire altro.
Tonelli
Grazie senatrice Ghedini.
Massimo Ferrante, questa Tavola rotonda è stata intitolata “Istituzioni e imprese”: che cosa chiedete alle Istituzioni come supporto per
favorire un processo di integrazione con i lavoratori immigrati?
Massimo Ferrante
In primo luogo di avere un approccio al problema che non sia semplicemente una politica simbolica. Siccome oggi facciamo - come è stato
ricordato - una politica simbolica che poi ha effetti incoerenti, perché,
ricordando quanto detto in particolare dalla senatrice Ghedini, la confusione delle normative oggi esistenti rende sostanzialmente impossibile
rispettare la legalità, per cui si vive di sotterfugi e di sanatorie ex–post.
Non soltanto abbiamo quei problemi che sono stati ricordati, ma abbiamo anche l’effetto perverso ulteriore.
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Qual è dunque l’aspetto che a questo punto ci manca e diventa più difficile portare sul nostro sistema produttivo? La parte più qualificata, i
mercati dove è più facile entrare, dove trovi più diritti, e così via.
In sostanza, con questo meccanismo finiamo per importare la parte più
povera, più derelitta, più difficile da formare e costruire e rinunciamo a
priori alla più pregiata, che non vuol dire soltanto gli acuti cervelli indiani, vuol dire semplicemente quelli che hanno titoli di studio, che hanno
diplomi tecnici, che hanno professionalità da spendere e su cui le imprese potrebbero investire ciecamente.
Il secondo aspetto da ricordare è che tutti i muri normalmente hanno
qualche crepa. A Bologna, come CNA associamo 16 mila imprese; di
queste circa un migliaio sono imprese di immigrati, partiti con quelle
difficoltà che ricordavo prima, espulsi dal mercato del lavoro oppure
riconvertiti per necessità; il senso della storia ci insegna che dalla disperazione nascono dei frutti. Di conseguenza ci ritroviamo con molte decine di imprese straniere passate dalla parte opposta: offrono lavoro agli
italiani perché, credendo nell’impresa, sono stati in grado di riscattarsi,
come si diceva una volta con un linguaggio oggi desueto, ma che è bene
ricordare; passare dall’altra parte e diventare loro i datori di lavoro.
Tutte queste energie positive avrebbero bisogno davvero di poco per
essere accompagnate nel loro percorso di crescita; sono spesso politiche
che si possono fare anche in assenza di incentivi, basta togliere le regole
superflue. Ecco di che cosa ci accontentiamo noi associazioni di imprese: togliamo le regole inutili.
Tonelli
È già un titolo giornalistico.
Prima Levorato faceva riferimento a un’indagine che avete in corso
sui vostri dipendenti immigrati. Dunque è vero che i lavoratori immigrati hanno titoli di scolarità superiore e nonostante ciò si adattano a svolgere mansioni inferiori? È vero che esiste questa grande
scolarità, per esempio, negli immigrati che lavorano con voi?
Claudio Levorato
Statisticamente, a lavoro completato, potremo anche fornire questi risultati in modo puntuale e preciso. Diciamo che si riscontra una maggiore
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frequenza di titoli di studio liceale, maggiore nel caso degli immigrati
di quanto non sia per gli italiani. Effettivamente negli italiani, in modo
particolare nelle attività di carattere manuale, l’incidenza è molto scarsa,
poco più che simbolica. Tra gli stranieri, invece, è molto più frequente. Ovviamente si tratta di corsi di studio difficilmente paragonabili a
quelli italiani o europei. Con la ricerca vogliamo dare una descrizione
più puntuale delle eventuali abilità, per far leva su di esse, coadiuvare e
consentire una crescita professionale, obiettivo primario, cioè riuscire
ad avere una manodopera in grado di migliorare, con il proprio apporto,
la produttività dell’impresa.
Alla fine, anche questo viene ridotto a razionalità economica: è conveniente investire sulla manodopera immigrata molto più di quanto non
sia tenerla sempre ai margini. Occorre avere un atteggiamento razionale
rispetto a questo tema e noi cerchiamo di mantenerlo. Questo non vuol
dire che siamo aridi e insensibili rispetto a caratteristiche costitutive del
nostro essere cooperativa. Abbiamo motivazioni profonde di carattere
solidaristico, abbiamo una missione sociale che esalta il fattore di valorizzazione dell’apporto di lavoro.
Ma i ragionamenti che facevo prima riguardano la sfera tipicamente razionale, economica e di convenienza per il mondo dell’industria e delle
imprese in generale.
Tonelli.
Grazie.
Farei un applauso complessivo a Claudio Levorato, Massimo Ferrante, Rita Ghedini e Giuliano Cazzola, che ci ha dovuto lasciare.
Sottolineo che il tema era complesso e che non si tratta di avere soluzioni facili.
Proprio per una riflessione su questa prima giornata, chiamerei sul
palco il presidente Gianpiero Calzolari.
Gianpiero Calzolari
Non credo di dover aggiungere molto di più, se non sottolineare che
l’intento era di affrontare il tema molto razionalmente, a partire da considerazioni di tipo economico. Confrontandosi con le Istituzioni e con
la politica, quando si mettono da parte le emozioni e si affrontano i temi
per quello che sono, razionalmente, non dico che le soluzioni sono alla
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portata, non voglio banalizzare il problema e dire che si tratta di buona
volontà; le difficoltà di integrazione di fatto esistono, com’è normale
che sia e come sarebbe sbagliato negare, però si riescono a individuare
immediatamente dei percorsi.
Come molti di voi, ho avuto occasione di passare per Milano durante gli
ultimi giorni della campagna elettorale e devo dire che era veramente
un’offesa all’intelligenza della politica, quella campagna elettorale. In
realtà economicamente evolute, che si confrontano quotidianamente
con le problematiche a cui si riferivano Levorato e Ferrante, pensare di
continuare a far leva sulla pancia e non sulla ragione e non capire che la
politica, quando fa leva sulla pancia, affonda il paese e non soltanto se
stessa, è una cosa che non è facile comprendere.
Come mondo economico siamo in grado di sollecitare la politica a fare
leva sulla ragione. Lo facciamo in tante occasioni. In particolare mi è
piaciuto molto questo connubio con CNA in questa occasione e voglio
sperare che possa essere un tema da sviluppare ulteriormente, perché
ho rilevato un interesse reale e molte occasioni in cui credo sia possibile
proseguire il dibattito.
Parto da un ragionamento relativo alla storia cooperativa. Abbiamo sempre affrontato il lavoro come un elemento d’integrazione, di riscatto, di
crescita sociale. Le cooperative nascono per consentire a categorie meno
abbienti, molte volte diseredate, di conquistare un ruolo nella società in
grado di consentire loro di migliorare la società. Anche da questo punto
di vista, come cooperazione, questo “dovere” - che deriva anche dalla
nostra natura - lo sentiamo e crediamo di poterlo affrontare con la leggerezza, senza i toni cupi che abitualmente si usano quando si parla di
questi problemi.
Quando si parla d’immigrazione, partendo dall’ordine pubblico e non
dalle cose di cui abbiamo parlato oggi, è evidente che la conclusione del
ragionamento porti da qualche parte.
È anche per questo che non credo che a Bologna vedremo mai dei manifesti contro gli zingari. Qualcuno contro qualche indiano l’abbiamo
visto, ma quella è stata una caduta di stile. Aiutiamoci tutti quanti ad affrontare meglio le sfide che abbiamo davanti: l’impresa, la politica e poi
anche, perché no, le persone.
La giornata di domani s’incentra sui temi della sicurezza e le considerazioni che faceva prima Ferrante su questo tema potranno trovare ulte-
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riori occasioni di approfondimento.
Mi auguro che i media vorranno seguire queste iniziative per il peso che
meritano e, siccome l’integrazione si fa anche con la cultura, lo svago, la
leggerezza, avremo occasioni di conoscenza delle diverse culture.Crescere anche nella relazione l’uno con l’altro credo sia un modo per affrontare il prossimo futuro con qualche elemento in più. Grazie.
Tonelli
Grazie al presidente Calzolari e a questo richiamo alla razionalità.
Raccoglierei l’invito a un lavoro comune di CNA e Legacoop proprio
su questi temi, anche sulle richieste da fare alle Istituzioni.
Vorrei concludere con una battuta, ovvero che Molteplicittà si rivolge alla testa e non alla pancia, occorre quindi avere la consapevolezza che il tema è complesso, ma va affrontato con accoglienza e nella
legalità.
Grazie per essere intervenuti e buona serata.
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