l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 9-10 Settembre - Ottobre 2015 INTERVISTA AL NUOVO PRESIDENTE DELL'ANPPIA DI VENEZIA: FERMARE IL RAZZISMO CRESCENTE AMOS LUZZATO: IO, UN EBREO DI SINISTRA Amos Luzzato, Presidente dell’ANPPIA di Venezia l'editoriale EUROPA MALATA E IN MANO AI “POTERI FORTI” Lo dimostrano l’atteggiamento populistico anti-immigrati dei Paesi dell’Est e il superscandalo della Volkswagen di Giorgio GALLI Da un paio d’anni si è descritta una Europa divisa tra un Nord di formiche operose e un Sud di cicale scialacquatrici. Ultimamente si è profilata un’altra divisione, tra un Ovest disponibile ad accogliere migranti e un Est che, dimentico dei benefici ricevuti dall’Ue, rifiuta egoisticamente ogni disponibilità. Su questa Europa divisa, ma che lo è in termini più complessi, si è abbattuta la tempesta Volkswagen, che contribuisce a chiarire la complessità, trascurata dai media. Nell’ultima settimana di settembre le prime pagine dei giornali e l' apertura dei notiziari televisivi non è stata più dominata dalle immagini di profughi investiti dai lacrimogeni o ammucchiati nelle stazioni, ma da anonime immagini di catene di montaggio e depositi di auto e dai volti tirati dei dirigenti della prima delle multinazionali tedesche. segue in ultima pagina di Gino MORRONE Chirurgo, scrittore, docente universitario, profondo conoscitore della Bibbia e della letteratura rabbinica, è stato a capo dell’Unione delle comunità ebraiche italiane A lla sua bella età, Amos Luzzatto esprime lucidità e cultura in ogni suo ragionamento. Ecco che cosa mi risponde alla domanda sulla schedatura dei piccoli rom fortemente sostenuta dalle formazioni politiche di estrema destra, in primis la Lega: «Dove porta questa strada? Si comincia così e poi si rischia di procedere con le classi differenziate, le discriminazioni diffuse, l’allontanamento dalle scuole. Questo pesa terribilmente sul vissuto di un bambino che si sente trattato diversamente dai suoi coetanei, vive come un appestato, carico di ossessioni. È una ferita che dura una vita». Dalle discriminazioni alle altre persecuzioni il passo è breve: come ai tempi del nazifascismo, davanti ai “nemici” si spalancarono porte raccapriccianti: le torture, le deportazioni, i lager, le camere a gas. segue a pag 15 Guido Albertelli acclamato Presidente onorario dell’Anppia L’ingegner Guido Albertelli, presidente dimissionario per motivi di salute, è stato eletto per acclamazione Presidente Onorario dell’Anppia dal la grande guerra Il ricordo dal fronte di M.FRANZINELLI a pag. 5 Congresso Nazionale. Nel prossimo numero de “l’Antifascista” forniremo un valiani ampio resoconto dei lavori assembleari nel corso dei quali è stato eletto il nuo- Il socialismo liberale vo Presidente, il dottor Mario Tempesta, già Segretario generale dell’Anppia, di C. TOGNOLI a pag. 6 assieme al rinnovo delle cariche statutarie. È stato proprio Albertelli, nel segno della continuità gestionale, a designare Tempesta come suo successore. Guido Albertelli, da quando ne ha preso in mano le redini ha portato l’Anppia a risalire il ricordo la china fino a diventare un autentico baluardo dell’antifascismo in Italia. Oltre Bersellini antifascista ad aver messo in ordine i conti, ha rilanciato l’attività periferica lasciando al suo di F. PARRI a pag. 9 successore un’eredità piuttosto impegnativa. Un grazie di cuore a Guido dai dirigenti, dai collaboratori e dagli iscritti per aver fatto grande l’Anppia vincolandoci a veicolare con sempre maggiore intensità i valori su cui si fonda l’Anppia, ingrao valori irrinunciabili che sono contenuti nella nostra Costituzione, come libertà, L'indomito lottatore democrazia, uguaglianza, giustizia sociale. Caro Guido, faremo di tutto per non di N. CORDA a pag. 10 deluderti e contiamo molto sui tuoi illuminanti consigli. Ciao (g.m.) Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma 2 Mafia Capitale L'OPINIONE Su Marino una tempesta perfetta Un' interessante analisi della situazione di Roma, tratta dal blog del giornalista Cristian Raimo su Internazionale.it L e dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma hanno funzionato negli ultimi giorni da macchia di Rorschach. Un test psicologico di base, in cui ognuno ha visto quel che voleva. Sia chi l’ha attaccato: i dirigenti del Partito democratico che hanno pensato di poterlo finalmente scaricare (Matteo Renzi: “Si è rotto il rapporto tra il Campidoglio e la città”) e legittimare il potere di un partito capace di sciogliere una giunta e di accreditarsi come vero artefice del cambiamento; il Vaticano con le sue dichiarazioni ufficiali ferali (il cardinale Vallini: “Occorre ripartire dalle molte risorse religiose e civili presenti a Roma per realizzare la formazione di una nuova classe dirigente nella politica”); i movimenti gentisti stranamente accomunati – pentastellati e postfascisti come Fratelli d’Italia, Casapound e Salvini – che si sono fatti bandiera di un malcontento da popolo degli onesti; i giornali – uno strano connubio trasversale, da la Repubblica al Tempo – che hanno condotto una campagna contro il sindaco di una violenza raramente usata, per farne una macchietta impresentabile. Ignazio Marino durante la campagna elettorale del 2013 Populismi contrapposti Sia chi l’ha difeso: migliaia di persone l’altro ieri al Campidoglio, decine di migliaia a firmare petizioni perché ritirasse le dimissioni, personaggi pubblici iper-romani – Alessandro Gassman, Sabrina Ferilli – a riconoscergli sui social l’onore delle armi, a condividere l’elenco delle gesta e a ritagliargli un profilo eroico, da vittima sacrificale della politica consociativa, della partitocrazia corrotta, dell’interventismo vaticano. Mai come questa volta si era visto un tale scontrarsi di populismi contrapposti, di appelli alla piazza, di retoriche emotive perfettamente speculari. come quella di domenica nata dall’iniziativa di tre ragazze su Facebook che non solo hanno bypassato l’organizzazione dei partiti, dei movimenti e dei giornali, ma che erano contro i partiti, i movimenti, i giornali (come ha ben colto Arianna Ciccone): più spontanei dei grillini, più infiammati del Fatto Quotidiano. Lo slogan con cui due anni fa vinse le elezioni – ‘Non è politica, è Roma’ – oggi potrebbe suonare profetico. Non ha importato nemmeno più entrare nel merito delle responsabilità che sono state affibbiate a Marino – compresa la vicenda degli scontrini che è stata quella fatale e che si è rivelata invece molto debole come accusa. Il vento del gentismo ha soffiato e continua a soffiare in tutte le direzioni, producendo una tempesta perfetta. E anche le analisi che hanno provato ad analizzare il caso come specchio di altro hanno peccato quasi tutte di autoverificazione, e forse si possono leggere più come proiezioni che come diagnosi. Matteo Orfini sul suo profilo Facebook e Antonio Polito sul Corriere della Sera, per esempio, attribuiscono alla sudditanza nei confronti dell’antipolitica la ragione principale della rovina di Marino: ci sarebbe voluta più competenza, fare meno i “marziani” e fidarsi di più dei partiti. Sandro Medici sul Manifesto vede in questa débâcle la fine della possibilità delle alleanze del centrosinistra: “Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio, oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente”. Mattia Feltri sulla Stampa addirittura ritiene il sindaco, ormai ex, non troppo colpevole ma martire di una città ingovernabile per le colpe degli stessi cittadini, posseduti da una sorta di infernale genius loci: siamo gente – noi romani – irredimibile, che per natura insozza, parcheggia implacabilmente in doppia fila, se ne frega del contesto civile. Non mollare, vattene. Pianti, indignazioni, solidarietà, vittimismi, ritorno dei tribuni, cittadinanze attive. Mobilitazioni inedite E potremmo continuare. Il fenomeno Marino è complesso da analizzare, e l’esito politico e sociale che ne scaturirà è ancora più oscuro da prevedere, perché l’orizzonte che ha aperto è veramente tutto postideologico. Del resto, lo slogan con cui due anni fa vinse le 3 Mafia Capitale elezioni – “Non è politica, è Roma” – oggi potrebbe suonare profetico. Le persone sono divise tra quelle che possono vivere la città, e votano a sinistra, e quelle che non possono farlo, e votano a destra. Ma se abbassiamo il volume ai toni da melodramma di questa opera disastrosa, possiamo ricavarne qualche dato. Per farlo dobbiamo puntare la lente sulle questioni che la contraddittoria esperienza di Marino ha lasciato sullo sfondo: ossia quali sono le condizioni di Roma, che città è, quali sono i suoi bisogni – al di là delle “strade e i giardini da sistemare”, come scriveva qualche giorno fa sull’Unità Matteo Renzi. La città delle disuguaglianze Molte delle riflessioni politiche più acute e complessive fatte su Roma negli ultimi anni, da quelle di Paolo Berdini a quelle di Francesco Erbani, arrivano alla stessa conclusione: Roma è una città con un tasso di disuguaglianza tale tra centro e periferie per cui potremmo affermare di avere a che fare con due città. Un interessante saggio di politica economica di Federico Buzzi e Alemanno, entrambi coinvolti nell’indagine “Mafia Capitale” Tomassi, Disuguaglianze, beni relazionali ed elezioni nelle periferie di Roma conferma quest’idea con dati molto chiari. Per esempio? Il reddito medio pro capite di zone dai palazzinari, che s’impegnavano a come Pinciano o Torrino è il doppio di quello di Torre Maura o Settecamini: finanziare servizi che poi alla fine non quasi 30mila euro contro meno di 15mila. hanno realizzato. Ancora: in una città dove la popolazione è rimasta sostanzialmente stabile Ancora: la mancanza di una rete di (2,7 milioni) si è continuato a costruire moltissimo, ma paradossalmente c’è trasporti degna ha finito per certifistata un’insensata impennata nel costo degli affitti (e una conseguente spere- care la separazione delle due città, il quazione), un progressivo spostamento degli abitanti verso la periferia esterna centro storico sempre più simile a un al Grande raccordo anulare e i comuni della provincia (200mila tra il 1991 e il fondale (istruttiva la lettura che ne dà, 2007), la creazione di “una sconfinata periferia metropolitana”, un’urbanizza- in Gentrification, Giovanni Semi) e una zione regionale ancora più sfilacciata, con nuovi quartieri circondati da terreni periferia immensa, uno sprawl indeagricoli e isolati fisicamente dal resto della città. finito che non smette di morire sulla A Roma, anche quando lo storico abusivismo edilizio si è ridotto (negli anni linea dell’orizzonte nell’agro romano. settanta vivevano in case abusive circa 700mila persone), la trasformazione Ma questa polarità non va intesa urbana ha coinciso comunque con una cementificazione massiva e diffusa senza solo nel senso di una divisione tra un progetto di città. ricchi e poveri, ci tiene a evidenziare E questo processo – va sottolineato – non è avvenuto per sviluppo spontaneo Tomassi, quanto piuttosto tra persone o per mancanza di controllo, ma secondo un indirizzo politico che il penul- che possono vivere la città, farne timo sindaco, Gianni Alemanno, ha avuto anche la sfrontatezza di battezzare esperienza, creare relazioni, costitu“moneta urbanistica”. Ossia, l’idea di ingrassare le casse del comune conce- ire una cittadinanza, e quelle che non dendo sistematicamente nuovi permessi edilizi in cambio di microelargizioni possono farlo: perché abitano lontano Tor Bella Monaca, periferia degradata di Roma 4 Mafia Capitale dai grandi e piccoli eventi, non usano i servizi pubblici di alta qualità del centro (un museo, una biblioteca, un teatro, i monumenti, le strade, quella grande bellezza che riescono al massimo a vedere in dvd), sono forzati dell’automobile, sforniti sia di servizi di base sia di spazi pubblici e collettivi. L’indagine di Tomassi ci rivela un aspetto molto eloquente: che finora i primi hanno votato a sinistra, i secondi a destra; con scarti differenziali del 15 e del 20 per cento proprio considerando questi parametri. Il centro, con il suo Auditorium e le sue strisce blu, ha votato il centrosinistra, la periferia, senza piazze, che si affolla sui trenini metropolitani inadeguati, ha votato il centrodestra. Ed è molto probabile che questa tendenza si accentuerà. La domanda politica che proviene dal basso è un’altra e la giunta Marino l’ha intercettata purtroppo solo in parte. Il consenso per il centrosinistra nei quartieri un tempo popolari è stato e continua a essere eroso ogni giorno di più. E questo perché c’è un’ampia fascia di persone che sente di non avere accesso alla città, ostacolata nel reddito, nella sicurezza del welfare, nei servizi, nei suoi bisogni di relazione. Ecco che – considerata da questa prospettiva – capiamo perché non ci dice molto, non chiarisce, non definisce delle aree politiche, la separazione tra sostenitori e avversari di Marino, tra partitici e antipartitici, tra vecchie e nuove facce, tra chi ama i marziani e chi apprezza coloro che mantengono i piedi per terra. La domanda politica che proviene dal basso è un’altra, e la giunta Marino – che ha dato la priorità ai suoi sacrosanti provvedimenti di lotta alla corruzione e alle sacche di abusivismo e illegalità – l’ha intercettata purtroppo solo in parte, e non solo per limiti personali. E la stessa cosa probabilmente accadrà a chi gli succederà, a cominciare da un inutile commissario per una città alla quale finora non sono mancate le gestioni emergenziali ma le visioni politiche, e soprattutto democrazia e luoghi di partecipazione. È significativo che a questo tipo di conclusioni arrivi chi – cercando più l’analisi che il consenso a tutti i costi – ha avuto a che fare con l’amministrazione pubblica e con le sue sclerosi. Qualche giorno fa, con un tempismo quasi paradossale, Flavia Barca, ex assessora della prima giunta Marino, ha pubblicato un ebook, Le politiche culturali a Roma, in cui tra le molte cose interessanti sottolinea chiaramente un’evidenza: che occorre un metodo per capitalizzare quello che si muove accanto, oltre, sotto, anche contro, la politica dei partiti, altrimenti quest’energia sarà dispersa o arriverà a tramutarsi in un ribollire di sterile rancore. Il tema della fiducia è importante nella costruzione delle politiche pubbliche. È difficile distinguere il grano dal loglio. Ovvero i cittadini attivi desiderosi di mettere la propria esperienza a servizio dell’amministrazione e contro coloro che premono per favori e privilegi. Il libro di Barca ha varie affinità con un altro ebook, scritto dal politico Walter Tocci, vicesindaco della prima giunta Rutelli, ma soprattutto ultimo amministratore intellettuale che ha continuato negli ultimi vent’anni a cercare di capire i mutamenti profondi di questa città (rileggete la bellissima intervista che gli fece qualche anno fa Francesco Raparelli). Tra le varie considerazioni che mette in fila nel suo Roma, non si piange su una città coloniale ce ne sono almeno tre che dovrebbero comporre l’ordine del giorno di qualunque dibattito politico a cui assisteremo nei prossimi mesi in attesa di un nuovo sindaco. Primo: non è rimandabile una cura del ferro per i trasporti (come sta avvenendo per esempio a Napoli, o come era stata elaborata nel precedente libro di Tocci Avanti c’è posto) Secondo: occorre immaginare una nuova forma amministrativa – la regione capitale – che sostituisca il comune, la città metropolitana e la regione: Roma è di fatto una città che ha antropizzato un’area grande quanto il Lazio ormai, e queste tre macchine amministrative si sovrappongono e sono tutte e tre inefficienti e inceppate. Soprattutto si eliminerebbe il macigno del Comune di Roma che ha sempre bloccato la trasformazione urbanistica espellendo frammenti di periferia al suo esterno. Questo è il vincolo che da trent’anni impedisce una pianificazione dell’area metropolitana romana. L’amministrazione capitolina è troppo piccola per governare i processi sociali ed economici che ormai hanno travalicato i suoi confini, ma è troppo forte politicamente per lasciare che siano gli altri livelli istituzionali a pianificare l’area vasta. Terzo: pensare Roma come un grande laboratorio culturale e intellettuale. Tocci cita addirittura il programma di Quintino Sella, il ministro ottocentesco che voleva fare della nuova capitale il luogo del cozzo delle idee, un grande centro di università, di accademie e di strutture di produzione del sapere moderno. Certo, per questo tipo di ambizione è necessaria un po’ di speranza e non solo questa grande risacca di risentimenti contrapposti. 5 La Grande Guerra Un bel libro controcorrente annuncia: “Brillerà il bel sole della pace” e restituisce il senso e il gusto della memoria RACCONTI DAL FRONTE E DAI CAMPI DI PRIGIONIA di Mimmo FRANZINELLI I l volume di Antonio Stefanini Brillerà presto il bel sole della pace si pone controcorrente rispetto alle monografie di storia locale, celebrative di piccole patrie con surplus di retorica e deficit di verità. L’Autore – studioso delle tradizioni dell’Alta Valcamonica, nonché biografo dello scienziato Camillo Golgi – sceglie un tema intrigante, combinando la ricerca di documenti e immagini con la raccolta di testimonianze orali. Il libro esamina l’impatto sulla comunità locale delle guerre combattute tra il 1940 e il 1945 in Francia, Africa, Grecia, Russia, Jugoslavia... Ne sono protagonisti i combattenti (loro malgrado) di tante battaglie, legati da tenaci fili sottili alla propria comunità. Il ricordo e il contatto con la terra d’origine restituisce loro forza e vitalità, come al mitico gigante Anteo. Il sottotitolo «Memorie dal fronte e dai campi di prigionia frammiste a storie di civili e di ribelli, intorno alla 2ª guerra mondiale» evoca l’alternanza tra la prospettiva dei militari e il retrofronte camuno. Nella prima sezione campeggia la guerra di Russia. L’odissea alpina conduce dalla steppa al Lager o alla Resistenza, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il volume dispiega una galleria di antieroi, impegnati nel «portare a casa la ghirba» conservando i valori della civiltà contadina, riassumibili nel mantenimento di una dimensione di umanità dentro la guerra. In filigrana, compare la vita civile: «a casa si falcia e si fa il pane, tra ansia e paura». Accanto alla massa dei personaggi (apparentemente) anonimi, convivono figure entrate nella grande storia. C’è chi, come la fiamma verde cortenese Giovanni Venturini, otterrà la medaglia d’oro alla memoria, per il comportamento eroico dinanzi ai suoi torturatori della Legione Tagliamento. Apprendiamo come si salvò a stento nella ritirata di Russia, grazie al supporto del commilitone Battista Stefanini (padre dell’Autore); quando, dopo l’armistizio, Stefanini verrà internato in un Lager del Reich, Venturini salderà il debito di riconoscenza inviandogli pacchi con generi di conforto, importante supporto contro il deperimento organico. Di grande equilibrio la ricostruzione del «caso Menici», il tenente colonnello degli alpini ucciso il 17 novembre 1944 nei pressi dell’Aprica in circostanze terribili: sulla base di testimonianze dirette, il volume sostiene «che a sparare al colonnello non sono affatto i tedeschi, né uno dei due che lo scortano», ma un partigiano del luogo: è la «tesi, a Corteno da sempre ripetuta a mezza bocca, che si tratti di una vera e propria messinscena per eliminare, sviandone le responsabilità, lo scomodo prigioniero garibaldino». Tra le storie d’emigrazione, campeggia quella di Giacomo Corvi. I passaggi in Svizzera sono intervallati nel 1951-52 dalla naja a Merano, dove ha quali istruttori di roccia i coetanei Walter Bonatti e Carlo Mauri (figure leggendarie dell’alpinismo), compagni di cordata sul Gran Zebrù. L’Autore contestualizza le fonti d’epoca e raccomanda di non prendere alla lettera le frasi di rassicurazione scritte dal fronte o dalla prigionia: l’autocensura affettiva vela l’amara realtà; quegli epistolari devono essere attentamente interpretati, nelle sfumature e nella sfera sentimentale più che nella dimensione fattuale. Ulteriore pregio del libro è l’attenzione filologica al dialetto, ai soprannomi, ai multiformi reperti di una civiltà agricola al tramonto, di cui Stefanini coglie gli estremi bagliori. La scorrevolezza del racconto è intervallata da stralci diaristici e trascrizioni di interviste ai depositari di esperienze e tradizioni collettive. Cronaca spicciola e grande storia si combinano in una felice narrazione, arricchita da una quantità di fotografie: vediamo le fattezze di ogni personaggio, immortalato tra i commilitoni al fronte e a casa con gli amici. Tra i più curiosi reperti, vi sono i cartoncini dei reduci dai Lager: «I fratelli Corvi Giacomo e Giuseppe in memoria dei suoi giorni di sofferenze in Germania fatti prigionieri il 9/9/1943», si legge nell’ex voto che illustra la via crucis dei redivivi. La ricchezza di situazioni e di profili personali è il variegato affresco di una comunità alpina che – nel momento più difficile – sprigiona antidoti in grado di proteggerla dalla bufera bellica. A distanza di settant’anni, queste 350 pagine restituiscono il senso e il gusto della memoria, in un appassionato tributo a troppe vite spezzate, scritto con gratitudine, senza agiografia né retorica. Il titolo del volume è ripreso dalla lettera scritta il 22 aprile 1942 dall’alpino Gregorio Canti alla madre: «Brillerà presto il bel sole della pace, ogni cuore chiuderà in sè quella gioia particolare come oggi chiude la tristezza. Non più le labbra delle povere mamme si apriranno in pianto, ma si vedrà in esse il dolce sorriso di felicità, e parole di conforto sortiranno d’ogni bocca». Canti non rivedrà il sole della pace: partigiano delle fiamme verdi, sarà fucilato a Edolo, l’11 aprile 1945, dai fascisti della Tagliamento. 6 Personaggi 7 Personaggi Intellettualmente irrequieto venne definito “anima di fuoco” IL SOCIALISMO LIBERALE DI LEO VALIANI La sua intransigente opposizione al terrorismo e alle Brigate rosse schierandosi con il Presidente Sandro Pertini di Carlo TOGNOLI (sindaco di Milano dal Maggio 1976 al Dicembre 1986 ) R icordare periodicamente personaggi come Leo Valiani, espressione dell’antifascismo democratico, fa bene all’anima e al cuore. Politico, giornalista, storico, ‘padre della patria’, Valiani fu socialista, comunista, socialista liberale nel Partito d’Azione, indipendente nel PRI da senatore a vita. In realtà fu sempre se stesso, non classificabile se non come democratico che attraversò criticamente il marxismo stimolato dall’aspirazione alla giustizia sociale e all’uguaglianza per il mondo del lavoro, che combatté l’oppressione fascista, che lasciò il comunismo dopo il patto Ribbentrop-Molotov, che approdò a ‘GL’ alla vigilia della guerra, senza mai perdere la bussola della libertà. Amico di tanti personaggi dell’antifascismo, due volte arrestato nel 1928 e nel 1931, consolidò tra gli altri un rapporto stretto con Sandro Pertini (con il quale fece parte del CLNAI) con Aldo Garosci, con Franco Venturi, con Ernesto Rossi, con Umberto Terracini, con Altiero Spinelli, con Ugo La Malfa, con Giovanni Spadolini, con Raffaele Mattioli e molti altri. L’attività svolta nell’ambiente di Mediobanca e della Banca Commerciale per molti anni gli fecero acquisire una notevole competenza nel campo economico, che si aggiungeva alla sua grande cultura storico politica. TURATI Il suo richiamo al socialismo democratico è costante. La sua esperienza comunista, sfociata nel socialismo liberale, non gli impedì di fare un percorso simile a quello di Carlo Rosselli il quale, pur attratto dal riformismo turatiano, ideologicamente e metodologicamente condiviso, ne scorgeva le insufficienze sul piano dell’azione politica. Il saggio dedicato da Valiani a Filippo Turati per il 70° della Critica Sociale – “Turati e la sintesi delle tendenze risorgimentali”– è il ritratto di un ‘leader’ legato al suo tempo, ma al quale si deve la nascita e la crescita del socialismo in Italia e il progredire della democrazia. Valiani critica l’eccessiva fiducia di Turati nella ‘non violenza’ e nella forza educativa del riformismo, riconoscendogli tuttavia di avere propugnato, da solo, ‘un’azione audacÈ proprio dopo il delitto Matteotti e, in ogni caso, condividendo la superiorità della politica delle riforme sull’azione violenta: “… Nessuno più di lui ha incarnato la generosità e la capacità di aiutare ed educare i bisognosi, di costruire un assetto più libero e giusto del precedente e insomma di fare del bene sulla via del progresso nonostante ogni contraddizione”. Già nel 1957 nel centenario della nascita di Turati (Il contributo al progresso della società italiana) Valiani aveva scritto sulla Critica Sociale, richiamando autorevoli giudizi di Antonio Labriola, di Benedetto Croce, di Vilfredo Pareto e di Gaetano Salvemini, che il partito socialista “… sotto la guida effettiva di Turati aveva agito come un movimento di lotta per la democrazia liberale…”. E ancora - dopo avere richiamato la tiepidezza ‘turatiana’ sulla trasformazione del ‘mezzogiorno’ d’Italia (la stessa critica che muoveva Gaetano Salvemini) e constatata la impossibilità per Turati di partecipare ai governi guidati da Giovanni Giolitti (per attuare e gestire le riforme democratiche e sociali) a causa dell’ostilità della maggioranza massimalista del PSI - Valiani ricorda la lungimiranza del fondatore del PSI a proposito della rivoluzione bolscevica (che solo nei primi mesi suscitò il suo interesse, tramutato presto in giudizio nettamente negativo) e cita il giudizio profetico che diede nel 1919 (congresso di Bologna) sulla maggioranza massimalista che aveva abbracciato, a parole, i Soviet: “… è una farsa che peraltro può tralignare in tragedia, preparando i tribunali di guerra, la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non solo sotto la compressione militarista, ma sotto l’ostilità di tutte le classi medie…”. UN’ANIMA DI FUOCO La figura di Valiani, ovviamente con le debite differenze che esistono tra personalità di grande talento, può essere avvicinata a quelle di Carlo Rosselli e di Pietro Nenni, un ‘mix’ di socialismo, di ‘libertarismo’ e di passione democratica. Non è un caso che, approdato a Milano imberbe, nella temperie del 1926, si sia avvicinato alla redazione del ‘Quarto Stato’, diretto da Rosselli e Nenni, cui collaborava anche un giovanissimo Giuseppe Saragat. Riccardo Bauer lo definì “un’anima di fuoco”, il che dà un’idea immediata dell’uomo, del suo carattere, della sua irrequietezza intellettuale, dei suoi molteplici interessi culturali. Va riconosciuta a Valiani la capacità di avere visto lontano quando lasciò definitivamente il comunismo in occasione del patto di non aggressione tra URSS e Germania nazista. Per la verità già durante la guerra di Spagna era rimasto colpito dalla spregiudicatezza con cui i comunisti si muovevano nel sia pur disordinato campo repubblicano: l’obbiettivo degli stalinisti non erano la democrazia o il socialismo in Spagna, ma gli interessi dell’URSS come potenza. Nella sua biografia emergono episodi, della sua vita di nomade democratico antifascista, assolutamente avventurosi ed eroici, come la sua decisione di non distinguersi dai comunisti, allorché venne arrestato in Francia dopo la guerra di Spagna (pur avendo preso le distanze dal partito) per non apparire ‘opportunista’. Ciò lo avrebbe portato nel campo di concentramento di Vernet (Pirenei) dove avrebbe fatto la conoscenza di un altro comunista in crisi, Arthur Koestler del quale avrebbe letto, per primo, ‘Buio a mezzogiorno”. Nel secondo dopoguerra, pur parteggiando senza esitazioni per la sinistra e scevro di anticomunismo ‘visceralÈ, egli non approvava la stretta alleanza del PSI con il PCI, scrivendo (Gli sviluppi ideologici del socialismo democratico in Italia-1952) che “... questa alleanza socialista-comunista poteva contare su una parte del proletariato, ma contro di esso si schieravano compatti, di nuovo, la media e la grossa borghesia… si sarebbe tornati alla situazione del 1920…” con la differenza che i socialisti avrebbero perso due volte, una con la sconfitta del ‘FrontÈ e un’altra all’interno della coalizione con i comunisti. Un’analisi perfetta dell’esito delle elezioni del 1948, quando il ‘Fronte PopolarÈ subì una netta sconfitta e il PSI dimezzò i suoi voti: dal 20,7% delle elezioni del 1946 per la Costituente a circa il 9% dei deputati eletti nel ’48. REPUBBLICA PRESIDENZIALE D’altra parte il suo giudizio sul quadro politico italiano era molto preciso. Dopo avere osservato che la DC non era un partito liberal-conservatore (come altri in Europa) - “… per la sua tradizione, la sua ideologia, i suoi legami con la chiesa e con le organizzazioni sindacali… ” aggiungeva che “… manca in Italia un grande partito socialdemocratico… ” - per il prevalere troppo a lungo del marxismo (all’italiana) che ha impedito che si creasse in Italia un partito di democrazia socialista non leninista, lasciando spazio a sinistra alla forza preponderante del partito comunista. Non va dimenticato che, deputato alla Costituente, esponente del Partito d’Azione, Valiani fu un fervido sostenitore della necessità di tornare alla democrazia repubblicana parlamentare, ma con un esecutivo forte. Come Piero Calamandrei anch’egli riteneva che un ‘parlamentarismo’ inconcludente avrebbe determinato paralisi e nuovi rischi per la democrazia e fu quindi fautore di una ‘repubblica presidenzialÈ che desse al rappresentante eletto dal popolo, la forza del potere democratico. “…Fui io a scrivere, nell’aprile 1946, il manifesto elettorale del Partito d’Azione che propugnava la soluzione presidenzialista come quella che avrebbe potuto garantire meglio sia la forza riformatrice dell’esecutivo, sia l’alternanza… ”. Tra le sue ‘amiciziÈ vanno particolarmente sottolineate quelle con Ernesto Rossi, con Pertini, con La Malfa e con Spadolini, Il primo lo trascinò alla fondazione del partito radicale nel 1955, che peraltro vedeva la presenza del gruppo de “Il Mondo” e dei liberali guidati da Villabruna. Qui rimase per un paio di anni, auspicando un ricompattamento delle forze socialiste e laiche, da lui ritenute fattore innovativo per la politica italiana, per bilanciare lo strapotere della DC e favorire le condizioni per le riforme, che sarebbero arrivate solo con il primo centro sinistra di Fanfani e Nenni, nel 1962. Pertini lo nominò senatore a vita permettendogli di riprendere un’attività parlamentare (come indipendente nel PRI) interrotta nel 1948, dopo l’esperienza dell’Assemblea Costituente. La vicinanza con La Malfa e con Spadolini caratterizzò la seconda parte della sua vita, sia come giornalista commentatore del ‘Corriere della Sera’ che come senatore nel gruppo repubblicano. A La Malfa era legato, tra l’altro, da una comune sensibilità sui problemi economici. Emerge nei commenti sulla situazione economica di quel periodo, ma anche dopo, la preoccupazione che non venisse innescata la spirale ‘prezzi-salari’ pur nella convinzione che i salari dovessero essere adeguati, per favorire il mercato interno e per ragioni sociali, ma in proporzione alla produttività. I segni dell’amicizia con Spadolini sono molteplici, ma quello simbolico è la trentennale collaborazione a “La Nuova Antologia”. Durante il sequestro Moro si espresse per la linea della fermezza, come del resto Nenni e Pertini: la loro esperienza generazionale e il loro carattere non ammettevano alcun compromesso con i terroristi. INTRANSIGENTE VERSO IL TERRORISMO E infatti di fronte al terrorismo Valiani fu intransigente quanto lo era stato contro il fascismo e criticò il ‘rovinoso lassismo e i pavidi cedimenti davanti alle infinite violenze nere e rossÈ della classe politica. Apprezzò l’atteggiamento di Pertini, il cui ingresso al Quirinale aveva determinato una svolta nella lotta al terrorismo, con risultati evidenti. Il presidente, affermava Valiani (‘La svolta Pertini - 1982') “… ha avuto il merito di denunciare (tra lo scetticismo prevalente) gli aiuti internazionali che il terrorismo riceveva… ” dalla Libia, dal Libano, dai palestinesi, con l’interessamento di paesi dell’Est europeo alle Brigate rosse. La sua vita è stata un esempio di amore per la libertà e per la causa degli oppressi e di disinteresse personale. Il suo percorso politico ideologico è stato coerente con i suoi princìpi e con i suoi ideali di democratico convinto, mai fazioso, sempre tollerante, disponibile, salvo che con gli arroganti, con gli autoritari, con gli intolleranti. Nella prefazione a ‘Scritti di storia’ (Sugarco, 1983) dice di se stesso e della sua cultura storico politica: “… Il mio marxismo non era ortodosso. Le critiche di Benedetto Croce al materialismo storico non mi parevano facilmente confutabili. Gli scritti di Croce, di Guido De Ruggero e Adolfo Omodeo e, in questioni economiche, di Vilfredo Pareto, di Luigi Einaudi e degli altri grandi economisti italiani, mi rendevano familiare il pensiero liberale più maturo… ” “… il movimento socialista dovrebbe andare nel senso di un socialismo liberale, che sappia scartare le tentazioni di nazionalizzazioni o autogestioni classiste anacronistiche e puntare su una programmazione sovranazionale, resa compatibile con la libera economia di mercato e col rispetto e la difesa delle libertà politiche…”. E davanti all’ipotesi del diradarsi della classe operaia in conseguenza dell’avvento della società postindustriale automatizzata e robotizzata: “… Potrebbe rimanere egualmente viva ed immortale l’aspirazione alla comunanza, alla solidarietà, alla giustizia, le versioni socialistiche della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza… ereditate dalle rivoluzioni democratiche borghesi e da tutta la storia dell’incivilimento umano”. 8 Politica Centro destra, avanti in ordine sparso L’ASCESA DELLE DESTRE POPULISTE IN ITALIA E L’ABBANDONO DELL’INDIPENDENTISMO PADANO NELL’ORIZZONTE DELLA LEGA di Saverio FERRARI L a caratteristica principale del centro-destra attuale sembra sempre più essere quella dell’avanzare in ordine sparso. Senza una leadership riconosciuta, la concorrenza fra le diverse componenti tende per altro ad acuirsi. La fotografia è presto fatta. Da una parte l’ala radicale, rappresentata dalla Lega, sondaggi alla mano, che rivendica sull’insieme dello schieramento il bastone del comando, dall’altro Forza Italia in crisi di identità e prospettive, erosa da continue defezioni parlamentari, in attesa di essere resuscitata da un Berlusconi redivivo. A spalleggiare la Lega, insieme a Casa Pound, si pongono i Fratelli d’Italia, nello sforzo di conquistare consensi, investendo sulla xenofobia e sulla paura dello “straniero”. In assenza di una modifica dell’Italicum, ovvero della nuova legge elettorale, che obbligherebbe, per ambire al ballottaggio nelle elezioni politiche, la presentazione di una lista unica, i problemi potrebbero ulteriormente complicarsi. In realtà in discussione sono ormai i confini stessi del centro-destra. Il gruppo dei cosiddetti “verdiniani”, resisi autonomi in Parlamento da Forza Italia, tredici componenti al Senato, sono nei fatti già confluiti nell’area di Governo. Il loro voto a sostegno del disegno di legge che modifica la Carta costituzionale ha rappresentato una novità di non poco conto. Il Nuovo centro destra, dal canto suo, collocatosi fin dall’inizio a sostegno di Matteo Renzi, pur attraversato da profonde divergenze, ben difficilmente tornerà a far parte del centro-destra. Tanto più dopo l’ostracismo della Lega, che rifiuta con questo partito ogni alleanza, minacciando rotture anche a livello locale, come in Lombardia. Ultimamente nell’orbita renziana si stanno anche accomodando i rappresentanti in Parlamento di Fare! (tre senatori e quattro deputati), ovvero i transfughi leghisti del sindaco di Verona Flavio Tosi, che, dopo essersi astenuti sul ddl Boschi sulla riforma costituzionale, candidamente dichiarano di guardare al “partito della nazione”. In una recente intervista al «Corriere della sera», lo stesso Tosi ha affermato che «il dialogo» è aperto. Più che di centro-destra, in conclusione, dovremmo ormai parlare di un’area politica di destra decisamente populista e sbilanciata verso le estreme. L’appartenenza, in Europa, di ciascun partito che la compone a gruppi parlamentari diversi rende oltretutto evidenti le disomogeneità riguardo il giudizio sulla UE, con Filip Dewinter, uno dei leader di Vlaams Belang, partito xenofobo belga Forza Italia nel Partito popolare, la Lega nell’Alleanza europea per la libertà (Eaf), insieme al Front national francese e ai razzisti belgi del Vlaams belang. Il futuro si presenta dunque assai incerto. La Lega, per altro, dopo la svolta “nazionalista”, si prepara ad altre scelte, destinate a mutarne definitivamente l’identità. Nell’ultimo consiglio federale di ottobre, nell’annunciare un congresso straordinario per febbraio-marzo del prossimo anno, si è apertamente parlato di “sacrificare” l’articolo 1 dello statuto della Lega, quello sull’“indipendenza della Padania”. L’indirizzo è ormai verso “un partito degli italiani”. Il vecchio spadone di Alberto da Giussano verrebbe dunque posto in soffitta. Un passaggio a suo modo epocale. Intanto l’operazione “Noi con Salvini”, studiata per favorire la penetrazione della Lega nel centro-sud, procede. I sondaggi al momento sembrano essere confortanti. Le elezioni amministrative della prossima primavera in alcune grandi città, Roma, Napoli e Milano in particolare, rappresenteranno un indubbio banco di prova anche per le destre. Lo sfacelo di Roma, divenuta emblematicamente la rappresentazione del degrado morale dell’intero nostro ceto politico, potrà riservare sorprese in più direzioni. Le destre populiste ed estreme ritengono di poter essere della partita. 9 Personaggi GUIDO BERSELLINI, UN ANTIFASCISTA MARTINETTIANO di Ferruccio PARRI C on Guido Michele Bersellini Rivoli, nato a Milano il 23 gennaio 1920 ed ivi deceduto il 4 novembre 2013, spirava uno degli ultimi esponenti di quella tipica borghesia milanese illuminista ed illuminata e per quel che mi riguarda direttamente, uno degli ultimi amici della famiglia paterna, sicuramente uno tra gli ultimi fedeli seguaci di mio nonno, se non proprio l’ultimo. Con Guido abbiamo sempre avuto un’amicizia affettuosa. I miei raccontavano divertiti le sue discese automobilistiche a Roma in compagnia di uno dei suoi inseparabili cani, a cui era destinato l’intero sedile posteriore della vettura. Guido proveniva da una famiglia di tradizioni risorgimentali; un suo avo, Alessandro Repetti, fu il proprietario della famosa e altrettanto gloriosa tipografia Elvetica di Capolago, la tipografia-editrice, che specialmente negli anni tra il 1847 e il 1853 fu tra i più significativi strumenti dell’azione e centro ideale di riferimento dei patrioti e degli esuli mazziniani e federalisti. Tipografia presso la quale Carlo Cattaneo lavorò, diventandone per un periodo il direttore, al suo progetto di Stato Federale. Il padre di Guido fu un celebre editore, proprietario del quotidiano “Il Sole” che la famiglia mantenne fino al 1954, allorché lo vendette per la successiva fusione con l’altro quotidiano economico 24 ore, che diede luogo appunto al Sole 24 ore. Mio padre raccontava che tanti tra i migliori giornalisti economici si formarono alle dipendenze del papà di Guido, che era un datore di lavoro tra i più esigenti. Tuttavia, l’aver svolto a quei tempi un periodo di pratica presso il Sole costituiva una garanzia per l’ottenimento di un lavoro presso i più importanti quotidiani italiani. Guido fu anche il vicedirettore, per un certo periodo, del Sole, per poi abbracciare la professione forense esercitata nel capoluogo lombardo. Aderì al Partito d’Azione, successivamente consigliere provinciale per due mandati con il Partito Socialista. Autore di saggi storico-politici tra i quali quelli pubblicati nei volumi “Antifascisti perché? Ricordi e riflessioni di tre giovani degli anni Trenta”, 1983 e “il Riscatto 8 settembre 43, 25 aprile 45”, 1988. “Appunti sulla questione ebraica”, 2009. Scrittore di Saggi filosofici quali “il fondamento eleatico della filosofia di Piero Martinetti", 1971, “La fede laica di Piero Martinetti", 2005. Piero Martinetti, come è noto, fu uno dei 12 professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista per non venir meno ai dettami della propria coscienza. Ancora voglio ricordare la donazione del 2009, in occasione dell’istituendo Centro Internazionale Insubrico, dell’Archivio Cattaneo conservato da tempo immemorabile dai Bersellini, oltre ad altre pubblicazioni originali che compongono l’archivio Bersellini del suddetto Centro. Per anni Vicepresidente e Presidente Vicario della nostra FIAP, membro della sezione lombarda della Società Filosofica Italiana. Guido, studente di Giurisprudenza, conobbe, suo malgrado, anche le regie galere per aver partecipato con Luciano Bolis e altri giovani ad una cospirazione antifascista. Condannato nel 1942 a tre anni di carcere fu liberato nell’agosto '43 con la caduta del regime. Anche mio nonno fu inquisito nel medesimo processo, ma venne assolto per mancanza di prove. L’attività cospirativa si era estrinsecata nella diffusione di un libro scritto da un ex ambasciatore inglese “Missione fallita”, divulgato con una prefazione violentemente antifascista. A giudicare era il famoso Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, vieto organismo giudiziario che in quegli anni così bui, comminò svariate decine di anni di galera e purtroppo anche diverse condanne a morte. Quindi, sussisteva un certo pericolo. Gli imputati rispondono seccamente e pacatamente alle domande. Vengono quasi tutti condannati. Parri, come detto, assolto. In realtà l’amicizia tra il giovane Guido e il già maturo Maurizio, era sorta prima del detto processo, alla fine degli anni '30 o ai primi '40, quando mio nonno lavorava alla Edison. Mi raccontava Guido come si incontrassero dalle parti di Foro Bonaparte, presso un chiosco che vendeva le caldarroste comprate dal nonno per la famiglia, in particolare per il figlio Giorgio. Guido prosegue nell’attività antifascista, nelle formazione di Giustizia e Libertà e di questo dà conto Luigi Santucci nel primo tra i saggi sopra citati, “percorrendo le valli partigiane sempre però con quella calma un po’ trasognata e quasi distratta, con quell’inclinazione a smemorarsi nel pensiero, a citar autori, a sillogizzare, che non mi meraviglierei lo avesse ispirato quando - con una temerarietà cha ancora oggi nel ripensarvi mi agghiaccia, Bersellini, da una foto del fascicolo del CPC, con uno dei suoi amati cani - sotto falso nome e falsi documenti, riuscì a farsi trasportare da una località all’altra dei nostri maquis a bordo di una jeep della Wehrmacht, tra i nazistoni grintosi e armatissimi, gabbati dal suo aspetto di bravo ragazzo benpensante e coi quali mi resta ancor oggi l’ameno sospetto che lui nel suo buon tedesco, si sia avventurato a fare l’apologia di Martinetti”. Da dove nasce l’antifascismo di Guido? In piena consonanza con quello respirato in famiglia, insegnato da Parri, da Rosselli e dal suo Martinetti, è una rivolta di tipo morale, un istinto inestirpabile perché radicato nello spirito. Non ci sono rivendicazioni di classe, sociali, nel suo antifascismo, sebbene contempli forte e sollecita attenzione verso i meno favoriti dalla fortuna, non è di natura confessionale, ma è in un certo senso religioso, di una religiosità civile che trova nella coscienza individuale, “nell’essere in pace con se stessi”, la propria matrice. “La propria coscienza”, per usare le parole di Martinetti indirizzate all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale, Balbino Giuliano, che “costituisce la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita”. Ricordiamo, l’abbiamo già accennato, l’amore per gli animali. Mi regalò il suo primo libro e nella lettera di accompagnamento, scrisse: “tanti cari saluti a tutti, cani e gatti compresi”. Non uomo, ma, casomai, animale martinettiano, ebbe a definirsi, con la consueta ironia che lo ha sempre contraddistinto. 10 Il Ricordo Crisi Greca ADDIO A PIETRO INGRAO, UNA VITA A CAMBIARE QUELLO CHE NON VA Soleva dire: indignarsi non basta. Anche a cento anni, era giovane e contemporaneo di Nicola CORDA TSIPRAS E UNA VITTORIA A METÀ. TRA I RICATTI DELLA TROIKA E LA FIDUCIA A TEMPO DEL POPOLO GRECO di Theo SALPINGIDIS S i faceva accompagnare alle manifestazioni in motorino, non rinunciava mai. Le ultime volte che ho incontrato Pietro Ingrao lo vedevo arrivare felice di partecipare, una volta in più per dare il suo contributo, per pronunciare anche poche parole e dire che “si deve trovare il modo di cambiare il mondo, cambiare quello che non va, indignarsi non basta”. Quella passione assillante per Ingrao si potrebbe riassumere in questi pochi tratti: “politica come vita”, ha raccontato il suo amico Alfredo Reichlin, ricordandolo nell’ultimo saluto davanti al palazzo di Montecitorio. Cento anni tutti a sinistra a cavallo dei due secoli. Passano per due guerre mondiali, la rivoluzione russa, fascismo e nazismo, una vita politica piena, fino all’ultimo. Politica che lo ha rapito quando, da allievo regista del Centro sperimentale di cinematografia decise di schierarsi. Era il 17 luglio del 1936, Francisco Franco attraversò Gibilterra e invase la Spagna. La lotta di classe divenne “punto centrale della mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni”. La guerra di Resistenza alla quale partecipò attivamente, arrivò che Ingrao faceva già parte di alcuni gruppi clandestini. Poi, l’alba della Repubblica, la fascinazione per la costruzione dello Stato democratico ma anche quella valigia della rivoluzione sovietica che si portava appresso. “Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto” disse quando l’età gli restituì “il peso del più grande errore della mia vita”. Però, Ingrao lo sapeva anche da giovane che la libertà era un valore non negoziabile. “Il comunismo non può essere lo Stato che fa il bagnino”, commentò durante un viaggio nella Cuba castrista, quando vide gli stabilimenti balneari di proprietà dello stato-partito. In tutta la sua storia politica l’esercizio del dubbio per Ingrao è stata una pratica costante ma mai sterile: il suo non era scetticismo, voleva capire. Dentro il Pci quel ruolo lo ha perseguito da subito, un approccio con la realtà che lo circondava, che ha rafforzato da giornalista all’Unità, prima come semplice cronista nella fase clandestina, poi da direttore per dieci anni dal ’47 al ’57. La repressione dell’Urss che schiacciò la rivoluzione ungherese fu l’altro grande abbaglio di cui si pentì. Proprio sul giornale del partito scrisse l’editoriale “Da una parte della barricata in difesa del socialismo”. Fu un errore, motivato chissà dall’eccessiva pratica di coerenza ostinata. Perché non lo spostavi facilmente Ingrao, per convincerlo servivano argomenti forti. Quelli che non sentì nel ‘66 al XI congresso del Pci (il primo orfano di Togliatti) che perse contro Amendola, Pajetta e Napolitano. Fu l’inizio della storia da leader della minoranza che lo caratterizzò fino alla svolta della Bolognina. “Non sarei sincero, compagni, se vi dicessi che sono rimasto persuaso”, la frase più eretica per quegli anni, rinnovata (con un più energico “non mi avete convinto”) anche nel 1989-90 verso la maggioranza che mise la parola fine alla storia del Pci per trasformarlo in Pds. Quella degli ingraiani non fu mai una vera corrente come viene intesa nel senso comune: “Come capo valgo un fico secco” disse di sé ma negli anni a seguire dovette fronteggiare l’azione d’isolamento che misero in atto Amendola e la fazione vincente. Fu Enrico Berlinguer ad arginare anche i tentativi di espulsione, mediando da subito, fin da quel XI congresso e successivamente da segretario. Entrambi accomunati da una profonda integrità morale, tra Ingrao e Berlinguer non ci fu mai convergenza di idee anche se profondo rispetto. Riguardo e stima che gli ha sempre riconosciuto, pur da avversario anche Giorgio Napolitano. Il partito prima di tutto era la bussola e pur coltivando il dissenso, Ingrao non apprezzava i settarismi. Fu così che, anche per gli espulsi del Manifesto che erano a lui vicini, votò a favore. “Rimanere nel gorgo con le proprie idee” significava restare dentro: le scissioni non le ha mai amate. Anche nel ’92 pur avendolo contrastato, non abbandonò il nuovo partito e solo molto tempo dopo aderì a Rifondazione Comunista. La politica come servizio lo portò nel 1976 sullo scranno più alto di Tspiras vince ancora le elezioni greche Nella sua stanza, Tsipras riceve le telefonate dei leader internazionali che si congratulano per la vittoria. Da Vladimir Putin, che spera in un “ulteriore rafforzamento” delle relazioni con la Grecia, a François Hollande, che gli anticipa che verrà ad Atene a breve. Matteo Renzi chiama nel pomeriggio. Sakellaridis, giovane collaboratore del primo ministro, chiede a noi “Renzi chi?”. È anche perché il giovane Gabriel non si occupa di relazioni internazionali. Ma ciò che segue la dice lunga sulla distanza politica tra Atene e Roma. “Invece qui tutti abbiamo letto l’intervista dell’Huffington Post a Toni Negri!”, dice Sakellaridis subito dopo il “Renzi chi?”, costruendo un ponte di collegamento tra Renzi e Negri basato solo sull’italianità, evidentemente. La crisi greca è anche questa, l'allontanamento dal resto d'Europa, dall'Italia in “ripresa” che annuncia Renzi. Qui la ripresa è lontana, come l'Italia. Tsipras dal canto suo costruisce relazioni con tutti, come è naturale che sia per un premier. Ma il suo sguardo è proiettato verso il network europeo di sinistra che germoglia intorno al governo di Syriza, intorno al Labour di Corbyn ma soprattutto intorno a Pablo Iglesias di Podemos, venuto fino ad Atene venerdì scorso a dargli soccorso. Quasi sicuramente, il premier greco ricambierà la cortesia recandosi a Madrid a dicembre per le politiche. Congresso permettendo: entro fine anno infatti Syriza dovrà eleggere il nuovo segretario e i nuovi quadri dirigenti, decimati dalla scissione di quest’estate. È una “nuova era”, la definisce Sakellaridis. E “non è facile”. Anzi, “siamo di fronte al punto più difficile: ora dobbiamo saper governare. Quando sei un partito di sinistra radicale e prendi il governo in condizioni estreme è facile che ti incorporino nel loro sistema. È successo anche al Pasok… Noi non ci faremo inghiottire. Non vogliamo ripetere gli errori fatti dalla socialdemocrazia in passato, ma aprire una nuova strada a sinistra: sinistra di governo”. Le priorità? Sakellaridis la chiama “ricostruzione produttiva” del paese, “puntiamo all’economia sociale”. Uno dei provvedimenti già presentati in Parlamento nella precedente e brevissima legislatura riguarda il pagamento delle frequenze tv: tutte le emittenti greche non hanno mai pagato la licenza. Incasso previsto: 300 milioni di euro l’anno, più gli arretrati. È un provvedimento cui Tsipras tiene molto, anche se non ha attirato molte simpatie tra i media in campagna elettorale. Anzi. Ma per modellare meglio la sua politica economica e sociale, Tsipras ha pensato di creare nuovi ministeri spacchettando quelli del vecchio governo. Euclid Tsakalotos dovrebbe essere confermato alle Finanze. Ma potrebbe nascere anche un altro ministero per l’Attuazione del memorandum, sotto la guida di Giorgos Chouliarakis, attuale ministro ad interim delle Finanze che piace molto agli interlocutori europei a Bruxelles. Panos Kammenos, leader del partito alleato 'Anel', dovrebbe restare alla Difesa. E poi dovrebbe esserci anche un ministero ad hoc per l’immigrazione, vista l’emergenza profughi scoppiata quest’estate. Del resto, l’immigrazione è il primo tema di cui si occuperà Tsipras nella sua nuova veste di premier rieletto. Poca gente l'ha votato, perchè poca è andata alle urne. Quelli che lo hanno scelto sono stati la maggioranza di una minoranza che ancora crede nel voto. Per questo Tsipras non può fallire, e l'Europa questa volta lo sa. Non aiutarlo adesso sarebbe un suicidio per l'intero continente, ma tutti si chiedono, in Grecia e a Bruxelles, se siamo ancora in tempo. I greci non chiedono più, aspettano, chissà ancora per quanto. Montecitorio, il primo comunista a presiedere la Camera dei Deputati. Inflessibile arbitro, dovette gestire gli anni più cupi del terrorismo, dell’assassinio di Moro, con le istituzioni e la democrazia messe a dura prova. Da quella sedia Ingrao le difese con energia e tenacia e quando si arrabbiava quella campanella la sbatteva sul banco, anziché farla tintinnare. Il “non ci sto” fino all’ultimo anche quando la guerra è tornata negli anni ‘90 a insanguinare i più deboli e colpire i diritti. “La guerra umanitaria è un ossimoro” ammoniva, recuperando ancora una volta quella visione critica anche all’indirizzo del governo D’Alema per le bombe su Belgrado. La sua idea di sinistra sempre rimasta inalterata e sempre nell’accezione più alta: Ingrao la intendeva come libertà dal bisogno e responsabilità verso gli altri. Perciò, quasi a dispetto del titolo del suo ultimo libro “Volevo la luna”, non è stato un sognatore, lui che ha vissuto la politica come dimensione etica e culturale. Virtù che lo hanno fatto amare sempre da tutto il partito, per le sue straordinarie doti oratorie certamente, ma anche per la sua ‘limpidezza’ nell’affrontare ogni battaglia. Nei comizi grande oratore e poeta in privato ma ancora una volta tutto ‘politico’. “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”, quei versi che condensano il sogno sconfitto di milioni di uomini. È il poeta comunista e l’eroe dubbioso a spiegare il progetto fallito: “Voglio registrare chiaramente la sconfitta. Questo è uno dei punti del mio pensiero. Siamo stati al centro di una grande opera, di una grande vicenda, ma siamo stati sconfitti”. La curiosità lo ha accompagnato anche negli ultimi anni, tanto che nel 2011 a ‘soli’ 96 anni, aprì il suo sito web. “Internet non è un mezzo consueto per chi è nato nel 1915; ma è il mezzo di comunicazione del presente e ho pensato di usarlo”. Pietro Ingrao era contemporaneo anche a cento anni. 11 12 Personaggi Giuseppe Galzerano, l’editore di libri su antifascisti, anarchici e “ribelli” Neofascismo 13 A MILANO DEVASTATO DA ESTREMISTI DI DESTRA L'ISTITUTO PEDAGOGICO DELLA RESISTENZA Negli scaffali della sua abitazione di Casalvelino raccoglie migliaia di testi anche sulla Questione meridionale e la storia dell’emigrazione. Vite di eroi dimenticati e testimonianze su attentati a re e finanche al duce. di Pier Luigi RAZZANO N S e chiude gli occhi, il treno nascosto nel buio delle colline del Cilento riappare, è come un serpente di luce che procede in tutte le direzioni immaginate su una mappa senza confini. Lo rivede identico, Giuseppe Galzerano. Aveva otto anni, e al suo fianco, dietro la finestra, nella casa di Chiusa dei Cerri a Castelnuovo, c’era il padre Francesco, operaio alla fornace di mattoni, che gli indicava l’elemento senza il quale non avrebbe mai realizzato se stesso: il movimento, l’azione che conduce alla scoperta del mondo, per conoscere la vita e altre storie. «Mi ripeteva sempre, “acqua che non cammina, puzza”», ricorda l’editore Galzerano dell’omonima casa editrice fondata quarant’anni fa. Quando li riapre è di nuovo circondato dalle scaffalature di centinaia di volumi. Rari giornali d’epoca, documenti, edizioni del 1860, un mosaico di fonti, le tracce inseguite in ogni angolo del mondo con inesauribile sete di conoscenza e solerte perizia dello storico che ha scritto del movimento anarchico e di questione meridionale, raccontato emigranti, antifascisti, rivoluzionari, episodi di Risorgimento nel cuore del Cilento. Le vite nascoste e dimenticate degli altri sono il giacimento che ha riportato alla luce setacciando archivi, emeroteche, testimonianze in corrispondenze sbiadite su cui esercita intuito da investigatore e pazienza da archeologo «per farle uscire dal buio della Storia, raccontarle nei loro infiniti e umani dettagli». Così sono nati i poderosi volumi dedicati all’anarchico Giovanni Passannante che attentò alla vita di Umberto I nel 1878 e fu rinchiuso in manicomio, su Gaetano Bresci che riuscì invece a uccidere il re Savoia nel 1900, poi la vita e il processo di Angelo Bardellotto fucilato per l’intenzione di uccidere Mussolini, come Michele Schirru, tornato dagli Stati Uniti per lottare contro il fascismo (il cui volume è valso a Galzerano il Premio Deledda nel 2010). Vite che avrebbero potuto dirottare il senso di tante stagioni politiche, come l’amato, il costante punto di riferimento, Carlo Pisacane, che lesse già a quattordici anni, nel 1967, quando attraversava a piedi le campagne «polverose d’estate, con La copertina del libro edito da Galzerano sull’anarchico Michele Schirru fango ovunque d’inverno» per andare a scuola. Un ragazzo che l’anno prima, a soli tredici anni, aveva scritto un’accesa lettera a “L’Unità” nella quale denunciava le condizioni di un sud depresso e lasciato fuori dalle promesse di sviluppo del Paese. Ogni storia di ribellione raccontata, ricucita in seguito da “Peppino” Galzerano, scocca dalle sue lotte per le ingiustizie vissute in prima persona. «Avevo solo undici anni quando andai a lavorare nei campi, portavo l’acqua alle donne che infilzavano le foglie di tabacco sotto il sole rovente. Provengo da una famiglia contadina, mio padre faceva l’operaio, mia madre Carmela stava in casa, vivevamo dell’orto, e io, finita la scuola, d’estate, volevo aiutarli e rendermi autosufficiente. Con i primi soldi guadagnati comprai la mia prima macchina da scrivere». Poi dopo qualche anno comincia anche a distribuire alle operaie nei campi alcuni volantini che lui stesso scrive. Le incita a ribellarsi, auspica condizioni meno brutalizzanti, ottiene per loro duecento lire in più al giorno. «Venne anche il padrone a casa mia, spiegandomi che se glielo avessi chiesto, pensando che volevo un cappotto, una maglia nuova, lui mi avrebbe dato mille lire in più, invece di distribuire un aumento per tutte e settanta operaie. Ma io non lotto per me, non inseguo il privilegio personale, voglio che tutti stiano bene». Anche quando si iscrive all’istituto magistrale continua a lavorare d’estate, però all’impianto di irrigazione delle fragole. Tanta fatica e di nuovo quel desiderio di rovesciare l’andamento del mondo quando alza lo sguardo e attorno vede solo sfruttamento. «Così realizzai un giornale ciclostilato, “PÈ ‘na jurnata”. Quindici pagine organizzate e scritte da me, più alcuni canti di lavoro dell’Ottocento». Nel frattempo, dal 1967, ha anche instaurato un fitto rapporto epistolare con l’italoamericano Giuseppe Popolizio, libraio negli Stati Uniti che pubblica testi antifascisti, di socialisti. Ne compra alcuni, nasce un rapporto d’amicizia e stima, «al punto che quando gli propongo di vendere in Italia i titoli del suo catalogo, lui mi cede tutte le giacenze, così misi in piedi una libreria antiquaria». Il guadagno lo spedisce a Popolizio («sono stato l’italiano che mandava i soldi a un emigrante»), intanto scrive nel 1970, a diciassette anni, anche un romanzo di fantapolitica, “I ricchi e gli oppressori non moriranno più”, racconto di un traffico di organi che i potenti espiantano ai più poveri per allungare la propria vita. Lo pubblica con i suoi risparmi, in pochi mesi esaurisce tutte le copie; sempre fedele all’insegnamento del padre viaggia in tutta Europa con il treno per conoscere il mondo, incontra studiosi, bibliofili, esuli spagnoli che lottano contro Franco. «Dormivo sui treni spostandomi di notte da una città all’altra perché non potevo permettermi gli alberghi». La realtà lavorativa delle fragole nella piana dell’Alento gli appare più infame e insostenibile, denuncia ancora, incoraggia alla coscienza di classe, ella notte tra martedì 22 e mercoledì 23 settembre 2015 l’Istituto Pedagogico della Resistenza di via degli Anemoni 6 è stato devastato con un'azione che, per le sue caratteristiche, si richiama alla matrice della destra eversiva. Ignoti sono entrati rompendo una finestra del centro territoriale di recupero, una struttura dell'ospedale San Carlo dedicata a bambini con disagi. Dopo aver sfondato una porta hanno fatto irruzione nella sede dell'IPR – Istituto Pedagogico della Resistenza. Sono stati presi di mira, calpestati e buttati per terra, libri e documenti dedicati alla Resistenza e all'antifascismo. Poi il locale è stato messo a soqquadro: è stato fatto cadere un pannello dal soffitto, sono stati aperti cassetti, rubati 750 euro, un computer e un televisore. Prima di andare via è stata lasciata, su un foglio A4, la scritta “maiali”. Non riteniamo che l'azione sia stata opera di semplici ladri. Dentro al locale dell'ospedale San Carlo gli autori dell'ignobile gesto avrebbero potuto fare una ricca spesa, rubando strumentazioni nuove e costose. L'ANPI Provinciale di Milano ha subito denunciato la gravità di quanto accaduto che offende la nostra città, Medaglia d'Oro della Resistenza, prendendo di mira un prestigioso Istituto che offre ai visitatori una ricca documentazione sulla Resistenza nazionale e milanese. L'episodio si ricollega ad un clima caratterizzato dal ripetersi di rigurgiti neofascisti nella nostra città e nella Regione Lombardia. Una settimana prima della devastazione dell'IPR si era svolto a Castano Primo, nonostante il divieto del Sindaco e del Prefetto di Milano, il festival nazionale di Casa Pound e a Cantù, per il terzo anno consecutivo, aveva avuto luogo la festa di Forza Nuova, con il beneplacito La sede dell’IPR a Milano devastata dai neofascisti dell'Amministrazione comunale. A seguito della devastazione dell'IPR numerosi messaggi di solidarietà sono giunti all'Istituto. All' ANPI il Prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca ha manifestato la propria solidarietà e vicinanza. L'ANPPIA e l'ANPI Provinciale di Milano esprimeono la propria profonda condanna per l'ennesima deturpazione, con svastiche e croci celtiche, avvenuta nella notte del 29 settembre 2015, del murale nel quale viene rappresentata la Resistenza a Niguarda. Questa volta l'ignobile gesto che offende Milano, capitale della Resistenza, porta la firma dei neofascisti di Forza Nuova. È la quarta volta in meno di un anno che gruppi della destra eversiva attuano questa gravissima provocazione avvenuta a distanza di una sola settimana dalla devastazione dell'Istituto Pedagogico della Resistenza. L'Anpi di Niguarda si dà appuntamento per giovedì mattina, 1 Ottobre, allo scopo di ripristinare il murale. Mentre esprimiamo la nostra preoccupazione per il ripetersi di rigurgiti neofascisti a Milano e nella nostra Regione, ci appelliamo alle autorità pubbliche perchè sia fatto tutto il possibile per individuare gli autori di queste gravissime provocazioni. (r.c.) e il padrone lo licenzia approfittando di alcuni giorni di assenza che aveva chiesto per preparare un esame. Da un accordo ottiene trecentomila lire, subito impiegati per piantare il tassello del suo sogno di sempre. Nel 1975 nasce la Galzerano editore. Primo titolo, inevitabile, di buon auspicio, un suo testo dedicato a Carlo Pisacane. Si laurea in Pedagogia, poi in Lettere, lavora in una cava di marmo, e cresce il catalogo delle sue edizioni (a oggi sono più di trecento), tra questi “America! America!” del 1979, diario di un immigrato calabrese che supera le ventimila copie e arriva in finale al Premio Viareggio. Non smette di setacciare biblioteche e brandelli di storia, «ogni libro costa fatica, molti soldi, la passione e il desiderio di raccontare di lotte contro l’oppressione non si esaurisce, quello che scrivo finanzia il successivo». E così è nato il suo ultimo lavoro, dedicato a Paolo Lega del 2014, tomo di oltre mille pagine, scrupolosa ricostruzione da atti dimenticati sull’anarchico romagnolo e dell’attentato a Francesco Crispi. Galzerano è lo storico che ha anche interpretato un personaggio al quale ha dedicato anni di studio. Infatti Mario Martone, «con cui discussi di rivoluzioni nel Cilento, qui da me a Casalvelino, sotto un albero di noci, mi raccontò del film che stava per realizzare, e mi sottopose la sceneggiatura di “Noi credevamo”». Gli propone di interpretare Antonio Galotti, uno dei capi dei moti contro i Borbone del 1828, che Galzerano conosce a fondo. Sono ancora tante le storie che vuole strappare dall’incertezza, come quella di Andrea Salsedo, l’emigrante siciliano editore e sindacalista anarchico, arrestato per i suoi opuscoli sovversivi, poi misteriosamente precipitato da una finestra degli uffici dell’Fbi nel 1920. L’antefatto alla tragedia di Sacco e Vanzetti. «Voglio continuare a far luce, chiarezza su tante ombre del passato». Perché raccontare una vita, muove anche la sua vita. Personaggi 14 Personaggi 15 La morte, a Milano, di un grande combattente per la libertà e valoroso partigiano ADDIO A TINO CASALI, BANDIERA DELL'ANTIFASCISMO La morte di Tino Casali ha lasciato un vuoto profondo in tutti noi antifascisti, nei milanesi. Da tempo gravemente malato ha finito di soffrire in una casa di cura dove era ricoverato. INTERVISTA AD AMOS LUZZATO: FERMARE IL RAZZISMO CRESCENTE di Maurizio GALLI Le esequie si sono svolte nella Casa della Memoria di Milano, presente una numerosa folla di amici ed estimatori Agostino Casali (nome di battaglia Tino) nasce a Milano il 25 aprile 1920. Cresciuto in una famiglia di tradizione mazziniana e garibaldina, già a scuola ebbe a subire le conseguenze della mancata adesione alle organizzazioni fasciste. L'8 settembre 1943 Casali, sotto il nome di Colombani August, è partigiano nella Francia meridionale. Rientrato in Italia nei primi mesi del 1944, aderisce al Pci. Tino Casali a un consiglio nazionale dell’ANPI Casali viene trasferito da Milano nelle formazioni Garibaldi dell'Oltrepò Pavese. Prima comandante del Battaglione “Cosenz”, poi commissario della Brigata "Casotti", "Tino" alla vigilia dell'insurrezione è commissario di guerra della Divisione d'assalto "Antonio Gramsci". Questa formazione di montagna, equipaggiata e armata con mezzi pesanti, dopo aspri combattimenti, superati il Po e il Ticino e liberate Voghera e Pavia, entra per prima a Milano il 27 aprile 1945. “La colonna di circa 600 partigiani dell'Oltrepò Pavese – si legge su l'Unità del 27 aprile 1945 – è sfilata per la città, tra due ali di popolo plaudente; essa ha percorso Corso Italia, ha attraversato piazza Duomo, avviandosi poi, per Corso Buenos Aires, verso il piazzale Quindici Martiri”, come era stata ribattezzata piazzale Loreto. Nel maggio del 1945 Tino Casali rappresenta le formazioni dell'Oltrepò nella costituenda Associazioni Partigiani d'Italia nell'Italia settentrionale finalmente liberata dai nazifascisti. Negli anni 1951-58 è segretario provinciale e regionale del Movimento dei Partigiani della Pace. Viene eletto consigliere comunale dal 1955 al 1965. Presiede, dal 1976 al 1981, l'ente ospedaliero milanese “Luigi Sacco”. Dal 1980 al 1985 ricopre l'incarico di Assessore alla Sanità del Comune di Milano nella Giunta guidata da Carlo Tognoli. Nel maggio del 1969 Casali è promotore del Comitato Permanente Antifascista per la Difesa dell'Ordine Repubblicano, riferimento fondamentale negli anni della strategia della tensione e del terrorismo. Casali ha rappresentato per oltre quarant'anni, come Presidente del Comitato Permanente Antifascista e dell'ANPI Provinciale di Milano, l'antifascismo milanese, e ha svolto una instancabile e continuativa azione a difesa delle istituzioni democratiche e della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Nel 2006, al Congresso nazionale di Chianciano, Casali diventa Presidente nazionale dell’Anpi, succedendo ad Arrigo Boldrini, impossibilitato, per motivi di salute, a seguire l'Associazione. Attualmente rivestiva la carica di Presidente Onorario dell'ANPI nazionale e dell'ANPI provinciale di Milano. Alle esequie, alla Casa della Memoria, è intervenuto Mario Artali per la Fiap. Erano presenti tutte le rappresentanze delle Associazioni partigiane e antifasciste. Per l’Anppia era presente il suo presidente regionale Gino Morrone. Tino Casali è stato ricordato da Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano. Ecco una sintesi del suo intervento. “Caro Tino, siamo qui a darti l'ultimo commosso saluto. E ci stringiamo con un lungo abbraccio alla tua cara moglie Isa che, ti è stata affettuosamente vicina in questi anni per te così dolorosi , ai parenti, agli amici e a tutti i tuoi compagni. Hai rappresentato per oltre quarant'anni, come Presidente dell'ANPI Provinciale di Milano e poi come Presidente nazionale, l'antifascismo non solo milanese, i valori della libertà e della democrazia, e hai svolto una instancabile e continuativa azione a difesa delle istituzioni democratiche e della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Sei cresciuto in una famiglia di tradizione mazziniana e garibaldina. Già a scuola subisti le conseguenze della mancata adesione alle organizzazioni fasciste. L'8 settembre 1943 eri già partigiano nella Francia meridionale. Rientrato in Italia nei primi mesi del 1944, hai aderito al PCI. Caro Tino, quando ho deciso da Presidente di Sezione di Porta Venezia, quasi vent'anni fa, di dedicare il mio impegno nella nostra Associazione, ho avuto modo di conoscerti. Mi accostavo a te con una certa timidezza per la tua autorevolezza e per la tua figura che incuteva in me una certa soggezione. Grande è stato il tuo impegno, per i valori della Resistenza, per il bene del Paese, rimasti sempre nel tuo cuore anche negli anni della tua lunga malattia. Nominavi sempre negli anni trascorsi nelle case di cura, la Resistenza, l'antifascismo e l'ANPI che hanno costituito la tua scelta di vita. Grazie Tino per tutto quello che hai fatto. Sta a noi raccogliere la preziosa eredità che ci hai lasciato e batterci per i valori trasmessici dalla Resistenza, dall'antifascismo e dalla Costituzione repubblicana”. Amos Luzzato con il direttore de “l’antifascista”, Gino Morrone di Gino MORRONE N el suo studio ricco di cimeli, di ricordi personali e di tanta memoria storica, nella sua casa veneziana di Campo della Lana, accompagnato dalla moglie signora Laura, Luzzatto, quando si parla di discriminazione razziale, diventa un fiume in piena. Ne approfitto per affrontare con lui una questione delicata e sorprendente: la sortita-bomba di Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, su Hitler e sull’Olocausto. Netanyahu fornisce una versione che per la verità non è piaciuta a molti ed è inverosimile (“Fu il Gran Muftì di Gerusalemme a spingere Hitler a sterminare gli ebrei”) provocando la reazione risentita e violenta per prima della cancelliera tedesca Angela Merkel. Dice Amos Luzzatto: “Non mi so immaginare un colloquio tra il Muftì di Gerusalemme e il creatore segue dalla prima pagina e capo assoluto del nazismo. Hitler non avrebbe mai accettato di sedersi a un tavolo di trattativa con un interlocutore di razza araba. È chiaro che con questa scelta si tenta di trovare una giustificazione a quanto avviene tra ebrei e palestinesi e alle sue responsabilità. Tant’è vero che l’immediato tentativo di rimediare alla gaffe, dopo le violente e clamorose reazioni suscitate, è una toppa peggiore del buco. Dice: “Non volevo assolvere Hitler dalle sue responsabilità, ma mostrare come l’esponente della nazione palestinese volesse già allora distruggere gli ebrei. Non mi pare una grande rettifica tanto è vero che la Merkel replica chiaro: la responsabilità della Shoah è soltanto nazista”. Il professor Luzzatto si aggiunge a una folta schiera di intellettuali, di storici e di contestatori di questa tesi di Netanyahu. Tra i primi, ricordiamo lo storico e premio Nobel Elie Wiesel: “Davvero non ho idea di come quelle parole abbiano potuto essere pronunciate, a volte i politici dovrebbero pensare a lungo e inghiottire le parole anziché pronunciarle. È molto triste che tante persone pubbliche spendano la loro immagine con simili frasi, anziché dire la verità più semplice: l’antisemitismo è stupido quanto criminale.” E poi tutti dovrebbero sapere che la “Soluzione finale” fu decisa prima dei contatti con il Gran Muftì. Insomma, una bocciatura totale sottolineata dalla chiosa: nessuno può permettersi licenze speciali davanti al Male assoluto. Anche il presidente israeliano Reuven Rivlin ha sentito il bisogno di precisare che “è stato Hitler a causare una sofferenza infinita alla nostra nazione”. E il leader dell’opposizione a Netanyahu, Isaac Herzog, ha definito l’esternazione del premier “una pericolosa distorsione”. Gli esperti della Shoah poi temono che si voglia riscrivere la storia. “L’affermazione è totalmente senza Personaggi Personaggi 16 Immigrati siriani al confine con la Bosnia basi – dice il direttore del centro Wiesenthal di Gerusalemme - che il Muftì favorisse l’invasione della Palestina da parte nazista è verosimile, ma Hitler non aveva bisogno di essere convinto da nessuno”. Proprio come ha sottolineato il professor Amos Luzzatto. E la professoressa Dina Porat, direttora del Dipartimento di Storia dello Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme e capo del dipartimento di storia dell’ebraismo dell’università di Tel Aviv aggiunge: “Pur essendo stato un antisemita, non esiste alcuna evidenza che sostenga le tesi di Netanyahu su Haj Amin al- Husseini. Scontate poi le reazioni negative dei leader del Ramallah, accusati di soffiare sul fuoco della rivolta di piazza, accuse che respingono al mittente. Adriano Sofri su Repubblica ricostruisce i rapporti tra Hitler e Al Husseini definendo grottesca la storiella secondo la quale Hitler avrebbe chiesto: “Ma che cosa dovrei farne degli ebrei?” avendone come risposta dal Muftì: “Bruciali!” Un dialogo surreale che non può minimamente cambiare il corso della storia. Professor Luzzatto, affrontiamo il capitolo migranti. Qual è il suo pensiero in proposito? 17 Guerriglieri dell’ISIS in parata militare “È una questione epocale. C’è gente che arriva in Italia e in Europa costrettavi da ragioni drammatiche: la fame, la guerra, il desiderio di crearsi un futuro decente. Come si può respingerli? Ogni Paese, ogni gruppo umano ha il dovere di accoglierli, di aiutarli. È paradossale, ma non troppo, che ad erigere muri contro questi disperati siano popolazioni o, soprattutto governi, di Paesi che in passato hanno subito vessazioni, dittature, soprusi, violazioni dei diritti umani. Io credo che chiunque sia un sincero antifascista e ami la libertà debba agire non sulla spinta di calcoli egoistici ma su quanto gli suggerisce la propria coscienza, senza vedere l’estraneo come un nemico”. Secondo Lei sparare a un ladro e ucciderlo è legittima difesa? “La legittima difesa è un’altra cosa. È persino facile, per chi ne è capace, sparare al petto di un uomo disarmato. Chi agisce così non è giustificabile, ma chi vede nel diverso un nemico, plaude ai giustizieri estemporanei e fa presto a farli diventare eroi. Non sono esempi da imitare, chi ha sentimenti positivi deve sempre rispettare la vita degli altri, se vuole essere rispettato. Noi ebrei ne sappiamo qualcosa. Bisogna scoraggiare questa tendenza a farsi giustizia con le proprie mani, perché non si sa dove può portare.” Lei ha scritto diversi libri. A quale è più affezionato? “Sicuramente Conta e racconta perché è una sorta di autobiografia che mi ricorda la mia infanzia, il mio passato, i miei errori, le mie lotte culturali, politiche e di principio. Ma non voglio dimenticare Se questo è un ebreo o La leggenda di Concobello, dedicato ai ragazzi o Il posto degli ebrei.” Anche il mondo contemporaneo è inquieto. Pensa lei che il califfato violento o le tensioni nei Paesi più instabili come la Libia, la Siria possano essere stabilizzati? “Chiariamo subito una cosa. Sono gli occidentali in primo luogo i Paesi che creano situazioni di precarietà per motivi di interessi, perché in quell’area ci sono troppi richiami che attirano, a cominciare dal petrolio. L’Italia, con le sue aziende private e pubbliche, ha un ruolo non secondario. Detto questo, le violenze, il terrorismo sanguinario dell’Isis vanno fermati se si vuole dare a quei Paesi un assetto che promuova la pace, il rilancio economico e il benessere. Non è facile, ma bisogna provarci con convinzione perché l’eliminazione delle tensioni nel mondo arabo significano anche, per l’Europa e per l’Italia, la drastica riduzione degli sbarchi dei clandestini, l’isolamento dei mercanti di uomini, degli scafisti e quindi anche la riduzione delle stragi in mare di intere famiglie, compresi donne e bambini. Ciò faciliterebbe anche l’accoglienza. Le invasioni massicce creano paura, disorientamento e reazioni sbagliate. Un flusso regolabile rasserenerebbe un po’ l’atmosfera nella convinzione che “siamo stati tutti migranti” e quindi chi arriva non è il nemico da isolare e da emarginare, ma un essere umano che va capito e aiutato. Diversamente ogni Paese o popolazione che fa muro si comporta come se vivesse in un regime fascista”. A questo proposito, professor Luzzatto, come pensa di svolgere il suo ruolo di Presidente di un’associazione che si richiama apertamente all’antifascismo militante? “I tempi cambiano e bisogna adeguarsi in fretta. Oggi l’attività di memoria va proseguita con convinzione perché un popolo senza memoria è un popolo senza futuro, ma penso che coloro che credono nei valori e nelle idee di chi ha subito le persecuzioni e le camere a gas, oggi devono battersi in tutti i modi, e pacificamente, perché non sorgano e si allarghino fonti di neofascismo che si portano dietro il sentimento più odioso e da respingere: il razzismo sotto ogni forma. Non ci sono uomini bianchi o neri o gialli, ma soltanto esseri umani che hanno diritto di vivere in pace, democraticamente, in una società più giusta e più attenta ai valori e ai principi che agli interessi materiali. Se non si rispettano gli altri, le loro idee, i loro bisogni, si finisce per essere soltanto degli aguzzini propensi alle persecuzioni individuali e di massa, come è capitato nel nefasto periodo del nazifascismo. Mio padre, per le sue idee socialiste fu perseguitato, bastonato dai fascisti, umiliato al punto che trascorse lunghi anni rinchiuso in un ospedale psichiatrico”. Una storia tutta da raccontare, quella di Amos Luzzatto. Venuto a mancare il padre in quelle tragiche circostanze, fu allevato ed educato dal nonno materno, Dante Lattes, tra i principali esponenti della cultura ebraica del secolo scorso. Il trisavolo paterno, Samuel David Luzzatto, Shadal, fu docente al Collegio rabbinico di Padova ed esponente della “Wisssenschaft des Judentums”. È questo il clima in cui il giovane Amos cresce e si forma. Dirà: sono un ebreo di sinistra. E non poteva essere diversamente. Costretto, dopo la promulgazione delle leggi razziali, a emigrare nel ’39 in Palestina insieme alla madre e ai nonni Lattes, visse l’adolescenza tra Gerusalemme e Tel Aviv. Vi rimase fino al 1946. Subito dopo la Liberazione e, appena diciottenne, studiò Medicina all’Università a Roma e, forte delle convinzioni maturate in quei durissimi anni, si iscrisse al Pci. Da presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, fra l’altro, ebbe il gravoso compito di accompagnare Gianfranco Fini, il capo della destra italiana al governo, nella sua visita allo Yad Vashem, a Gerusalemme. “È stato uno dei compiti più Personaggi 18 Cultura Un saggio de “Il presente e la storia” racconta e documenta la parte esercitata dall’Arma laceranti. Ma quella visita mi permise di fargli un quadro completo delle gravi sofferenze sopportate dagli ebrei italiani per decisione del regime fascista. Ritengo che almeno una parte delle sue posizioni politiche successive siano derivate dalla parte da me avuta nel corso di quel viaggio” Professor Luzzatto, parliamo della sua fede. Lei è religioso? “Gli ebrei ortodossi non mi qualificherebbero come tale in quanto non posso essere definito un osservante dei precetti. Sono però uno che non rinuncia ai legami con la nostra storia che parte dalla cultura, dalla lingua, dalla tradizione scritta e orale, che io continuo a studiare, e qualche volta a insegnare. In Italia esiste una categoria di persone come me che ha la necessità di confrontarsi su due fronti: quello ebraico e quello politico. La cosa non è facile, però non è impossibile. Ebreo di sinistra, così mi sono sempre definito. In pochi capivano che cosa volesse dire, a oltre 80 anni spero di averlo spiegato”. COMMOVENTE RICORDO DI SUO PADRE LEONE MICHELE P oco lontano dal Ghetto Vecchio e Nuovo di Venezia, nel Sestiere di Santa Croce, (ancora oggi visibile con le sue sinagoghe e dove è stato girato il film “Il mercante di Venezia” con Jeremy Irons e Al Pacino), vive con sua moglie signora Laura, Amos Luzzatto, neo presidente dell’ANPPIA di Venezia (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti), già presidente della Unione della Comunità Ebraiche Italiane. Il professor Luzzatto dal 2008 è anche stato per alcuni anni presidente del Centro Internazionale di Studi Primo Levi. Per cinquant’anni Luzzatto ha svolto attività ospedaliera come chirurgo, impegnato nelle sue ricerche nello studio di metodi matematici applicati alla medicina. Ha esercitato con successo la sua attività di chirurgo a Venezia, a Dolo, a San Donà di Piave, a Valdobbiadene fino ad Asti. Il professor Luzzatto si emoziona quando ricorda le ingiustizie subite dalla sua famiglia. In particolare, nel nominare suo padre Leone Michele che ha avuto una gioventù «avventurosa e drammatica». Rimasto orfano, venne allevato da suo zio quando ancora frequentava il ginnasio superiore. “Lo zio di mio padre era professore a Treviso dove è rimasto fino alla disfatta italiana di Caporetto – racconta Luzzatto – e si occupò anche della educazione di mio padre. Mio nonno materno era Dante Lattes, uno dei maggiori esponenti della cultura italo-ebraica del Novecento. Mia madre, Lina Lattes, arrivando da Trieste, aveva conosciuto mio padre a Roma. La sua vita si presentava già complicata. Per fare meglio chiarezza, mio nonno materno Dante Lattes, essendo suddito italiano, dovette lasciare Trieste alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria nel 1915. Mio padre Leone fu un fervente attivista del Partito Socialista e dopo la «marcia su Roma» fu oggetto della violenza fascista”. Luzzatto ricorda anche che il Papà, letterato, era entrato in contatto con ambienti antifascisti. Si radunavano con attivisti presso un ciabattino, nonostante che la pressione del regime fosse sempre più insistente. Benedetto Croce a quei tempi aveva espresso giudizi critici nei confronti del regime”. Mio padre ebbe l’ingenuità di scrivergli una lettera di plauso. La posta di Croce era controllatissima e questa iniziativa costò cara a mio padre. Gli fu rifiutato il passaporto proprio quando aveva deciso di espatriare in Francia. Le pressioni politiche si fecero sempre più dure e, racconta Amos Luzzatto, l’arresto dell’esponente comunista Emilio Sereni, suo amico di famiglia, scatenò in mio padre una profonda crisi, un crollo psicologico e neurologico che lo portò a un lungo ricovero. L’odio e il timore nei confronti del fascismo lo portava a vedere dappertutto agenti fascisti, persino nei medici che lo curavano”. Resistenza, il ruolo incisivo dei carabinieri I l ruolo dell’Arma dei carabinieri nella Resistenza hanno consumato la loro vendetta facendo vivere di stenti non è stato mai messo a fuoco per come avrebbe e seviziando gli oppositori con torture che portarono alla meritato. Le ragioni sono tante e le illustra bene l’ulloro morte. timo numero de “il presente e la storia” con L’Arma dei carabinieri, come detto, ha collaborato un’ampia e dettagliata documentazione. Il ruolo in modo incisivo alla liberazione del territorio italiano dell’Arma nella lotta contro i nazifascisti, fu determidopo l’8 settembre su vari piani operativi: dall’intellinante. Già alla fine della guerra il generale Alexander gence ai tanti che scelsero di combattere nelle formazioni dichiarava in una conferenza stampa: ”Non abbiamo mai partigiane a coloro che, lavorando in servizi governativi fatto piani dipendenti dalla cooperazione italiana. Un “nemici”, agirono da talpe fornendo informazioni utilisgrande aiuto ci è venuto dai Carabinieri, che hanno sime ai combattenti per la libertà del nostro Paese. mantenuto la legge e l’ordine, lasciando così liberi i Gustavo Zagrebelsky, nella prefazione de “Il nostri soldati, risparmiando ai nostri generali ogni presente e la storia”, fa una lucida analisi del fasciansietà, così come alle truppe italiane”. L’Arma aveva smo e dell’antifascismo soffermandosi poi su alcune mobilitato 36 battaglioni, un battaglione di paracadutisti, commoventi lettere scritte ai familiari dai condannati a uno squadrone a cavallo, un gruppo autonomo, 19 compamorte. Particolarmente gnie autonome, un nucleo toccante ed educaper la base tradotte, 410 tiva quella di Paola sezioni di polizia militare Garelli, pettinatrice e vari altri reparti presso di Mondovì, fucilata il i comandi di grandi primo novembre 1944, unità, basi aeree e navali, la quale scrive alla uffici postali per un sua bambina : ”La tua complesso di sessantamamma se ne va pensanmila uomini. All’atto doti e amandoti mia dell’armistizio i militi creatura adorata, sii dell’Arma, dopo aver buona e ubbidisci sempre partecipato attivamente agli zii che ti allevano, alla Resistenza, si sono amali come fossi io. Tu opposti all’aggressione devi dire a tutti i nostri tedesca in Francia, nei cari parenti, nonna e Balcani e nelle isole altri, che mi perdonino greche dove furono il dolore che do loro. Non eliminati o deportati devi piangere né vergocome a Cefalonia, conflugnarti di me. Quando irono nella Resistenza in sarai grande capirai Jugoslavia dove alcuni Soldati dell’Arma dei Carabinieri prigionieri in Albania nel 1943 meglio. Ti chiedo una ufficiali costituirono a cosa sola: studia, io ti Spalato il Battaglione Carabinieri “Garibaldi” e una proteggerò dal cielo. La tua infelice mamma”. Ecco, anche divisione partigiana che fecero assegnare alla bandiera questo è stato il delirio fascista. dell’Arma una medaglia d’argento al valore militare. In Il saggio ricorda numerosi episodi di amor patrio e di altre regioni, identificati come braccio armato del grande eroismo. Tra i tanti ci piace rievocare velocefascismo, i carabinieri furono osteggiati dai partigiani. mente due storie di coraggio e sofferenza. Clamoroso e doloroso il caso della Colonna Gamucci : Si tratta di un ufficiale e un sottufficiale, un toscano 129 militari dell’Arma, sfuggiti ai nazisti e unitisi ai e un cuneese (Angelo Ballerini e Mario Benedetto) partigiani albanesi, furono poi da questi disarmati e che hanno fatto la scelta antifascista senza esitazioni e trucidati. tentennamenti. Entrambi molto attivi e dinamici, ma con Nella lotta di Resistenza e nella guerra di Liberasentimento di rispetto anche verso gli italiani schierati zione i carabinieri contarono 2735 caduti, 6521 feriti. dall’altra parte, con il nemico invasore. La loro bandiera è stata decorata con medaglia d’oro al In uno dei tanti scontri a fuoco con i nazifascisti, valore militare. A tal proposito val la pena di ricordare mentre le camicie nere cominciano a sparare in mezzo l’ ”altra” resistenza opposta dai carabinieri nei lager alla folla (siamo in una stazione ferroviaria), il gruppo nazisti assieme a ufficiali e soldati dell’esercito. partigiano riesce ad avere la meglio e a mettere insieme Un’ ”attività” dimenticata per tanti anni dalla storioun bel bottino di armi e munizioni. grafia ufficiale: con il loro rifiuto a svolgere lavori coatti Seguono altre azioni militari e, per farla breve, i due si contro ogni regola internazionale, hanno creato non comportano da autentici eroi guadagnandosi la stima e pochi problemi agli aguzzini nazisti che, in molti casi, l’affetto dei compagni e dei superiori. (j.m.) 19 20 Cultura Cultura A proposito di migranti che scappano dalle guerre, dalle sofferenze e dalla fame A Ellis Island sbarcarono a milioni alla ricerca del paradiso terrestre Furono inizi duri e pieni di difficoltà e gli Usa subirono il più grande flusso immigratorio mai registrato dall’umanità fino ad oggi. L’esempio degli italiani Giuliani e La Guardia di Elisabetta VILLAGGIO La sala principale del Museo di Ellis Island, dove venivano messi in quarantena gli immigrati appena arrivati negli USA A rrivavano nella baia di New York a bordo di navi ed erano pieni di sogni e speranze. Entravano dall'estuario dell’Hudson River e vedevano la Statua della Libertà, regalo dei francesi agli americani fatto in segno di amicizia, e monumento simbolo. A sinistra svettava il ponte di Brooklyn, che all’epoca era il ponte sospeso più grande al mondo, sulla destra il New Jersey e in fondo l'estremità sud dell'isola di Manhattan. Erano fatti sbarcare a Ellis Island, un isolotto che è stato il maggior punto d’ingresso per gli emigrati europei. Tutti quelli che arrivarono a New York tra il 1892 e il 1954, attraversando l’Atlantico, scesero su questa piccola isola che ha visto passare più di 12 milioni di persone che volevano diventare cittadini americani o semplicemente lavorare in quella terra che offriva opportunità. La città di New York, con il più grande porto americano dal 1820, è stata il principale accesso negli Stati Uniti da parte degli immigranti. Dal 1855 erano fatti sbarcare a Castle Garden nella zona di Battery, la punta a sud di Manhattan, dove scesero dalle navi 8 milioni di persone che provenivano principalmente dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, dai paesi scandinavi e dalla Germania e costituirono la prima grande onda immigratoria che si stabilì negli Stati Uniti. Il numero crescente di persone portò il governo federale ad assumere il controllo sui nuovi arrivati e il Congresso approvò, nel 1890, la costruzione di un grosso edificio su Ellis Island dove transitarono tutti gli immigranti che arrivarono a New York. La nuova struttura si aprì il primo gennaio 1892. La prima immigrante registrata, Annie Moore, era un’adolescente irlandese, arrivata con i suoi due fratelli più piccoli per raggiungere i genitori che erano sbarcati poco tempo prima e avevano trovato lavoro. E dopo di lei per i successivi 62 anni 12 milioni di persone varcarono il suo stesso ingresso alla ricerca di un mondo migliore tra i quali tantissimi italiani. Molte persone morirono sull’isola e sui registri si legge che più di 3500 persone, tra cui 1400 bambini non sopravvissero. Nello stesso tempo furono registrate le nascite di 355 neonati. Molte persone arrivarono piene d’illusioni che si sbriciolarono in fretta. L’America non era la terra che si raccontava in patria: dava opportunità di lavoro ma duro e pesante. È stata conservata una registrazione di un italiano che diceva: “Sono venuto qui pensando di trovare le strade d’oro e invece le strade non ci sono proprio e io le devo costruire”. Una volta sbarcati dalle navi, con le loro poche cose spesso infagottate, i migranti erano assemblati in una grande stanza, dove era controllato il loro bagaglio. Qui c’era il terrore di perdere le valige con i loro pochi averi che li collegavano alla propria terra dove moltissimi non sarebbero mai più tornati. C’era poi il passaggio dalla stanza delle registrazioni, dove mostravano i documenti e dichiaravano da quale nave fossero scesi. Infine c’era un controllo medico, dove erano contrassegnati i non desiderati e le donne incinte. Attraverso procedure standard l’ufficio immigrazione non faceva entrare chi sembrava malato, con problemi mentali o incapace di guadagnarsi da vivere. Bisognava passare anche un test di capacità mentali. La popolazione d’immigranti variava moltissimo per educazione e background culturale e diventava quindi difficile applicare le stesse regole per tutti. Tuttavia, tra il 1910 e il 1916, il dottor Howard Knox, oltre ad usare i test d’intelligenza standard, applicò un metodo, con varianti complicate che andavano dall’età all’istruzione della persona, con il quale sosteneva di poter misurare il livello d’intelligenza di ognuno. C’era anche la stanza delle udienze, dove circa il 10% degli immigrati furono interrogati. Ci passarono quelli sospettati di poter diventare un pericolo pubblico. In realtà soltanto il 2% tra chi voleva entrare negli Stati Uniti fu respinto. Normalmente se un immigrato era in buona salute e i documenti erano a posto l’ispezione durava dalle 3 alle 5 ore ma molti restarono per giorni prima di poter finalmente sbarcare a New York e nei periodi di maggior affluenza poteva capitare di rimanere ad aspettare fuori per ore al freddo invernale o al caldo afoso Le prime visite agli immigrati italiani dell’estate senza acqua nè cibo. Coloro che sbarcarono a New York erano fondamentalmente europei che scappavano da fame, miseria, dittature, persecuzioni politiche e religiose. Allora l'America era la terra promessa, il sogno che poteva diventare realtà. Quegli uomini e donne arrivavano pieni di speranze ma anche di dignità come testimonia la risposta di una giovane polacca all'interrogatorio di prassi da parte delle autorità statunitensi per capire l'intelligenza di ciascun individuo. “Quanto fa due più due? Quattro. E sette più cinque? Dodici. Se devi pulire delle scale, da dove cominci? Dal basso o dall'alto? Non sono venuta in America per pulire scale”. Nei periodi di maggior flusso migratorio, tra il 1900 e il 1924, passavano una media di 5000 persone al giorno. Il picco più alto si ebbe nel 1907 quando approdarono un milione e duecentocinquantamila persone. Nel 1910, il 75% dei residenti di New York, Chicago, Detroit, Cleveland e Boston erano immigrati o figli d’immigrati. Il flusso diminuì durante la prima guerra mondiale e in quel periodo alcuni sospetti nemici furono rinchiusi qui Bambini italiani durante la quarantena a Ellis Island così come durante la seconda guerra mondiale. Insomma una generazione europea è arrivata a New York passando per Ellis Island. Quelle persone, con grande sofferenza ma anche con molta voglia di un futuro migliore, intrapresero un viaggio per approdare nella terra dove volevano costruirsi una vita senza fame, persecuzioni o discriminazioni. Molti che sono oggi persone di spicco sono figli o nipoti d’immigrati passati da Ellis Island tra i quali l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani i cui quattro nonni erano immigrati italiani. Fiorello la Guardia, anch’egli figlio d’immigrati italiani, invece, lavorò a Ellis Island come traduttore dal 1907 al 1910 e divenne poi sindaco della città dal ’34 al ’46. Chiunque vada può cercare il proprio cognome tra quelli scritti su un lungo muro d’acciaio all’esterno, dove sono registrati i nomi di tutti quelli che sono passati da qui. Nel novembre del 1954, dopo che Arne Peterssen, un marinaio norvegese, varcò i controlli, Ellis Island fu chiusa e, nel ’65, dall’allora Presidente Johnson, fu dichiarata monumento nazionale. Nel 1990 fu riaperta come Museo dell’Immigrazione. Si calcola che ci siano circa cento milioni di cittadini americani viventi, che rappresentano il quaranta per cento dell’intera popolazione, che discendono dalle tante persone passate da quell’isolotto, avamposto di New York. Oggi siamo davanti ad altri flussi migratori ma non dimentichiamo che, nel corso dell’Ottocento e più intensamente nella prima metà del Novecento, in Europa, a causa delle guerre, della fame, delle persecuzioni e dell’instabilità politica c’è stato il più grande flusso migratorio mai registrato nella storia dell’umanità fino ad oggi. 21 Luoghi della Memoria 22 23 Luoghi della Memoria San Vittore, il carcere di Milano mattatoio di antifascisti ed ebrei di Roberto CENATI Il carcere di San Vittore, sorto sull’antico convento dei Cappuccini di San Vittore agli Olmi, chiuso tutto intorno da alti muraglioni vigilati dalle sentinelle, da oltre 130 anni sorge imponente e inquietante in Zona Centro a Milano, con ingresso al 2 di Via Filangieri. Con l’avvento della dittatura fascista il carcere di San Vittore diventa luogo di detenzione dei numerosi oppositori politici vittime del Tribunale Speciale. Dal carcere di San Vittore passò per breve tempo anche il primo sindaco della Milano liberata, Antonio Greppi, dopo l'ingresso dell'Italia in guerra a fianco della Germania. Così Greppi ricorda quel periodo, con quella punta di ironia che sembra contraddistinguerlo, nel libro Lunga lettera a Bianca: “Sono Il carcere di San Vittore a Milano negli anni ’40 stati pochi giorni di clausura, abbastanza piacevoli. La polizia politica aveva rinchiuso il fior fiore della democrazia milanese. Ci sarebbe stato da sentirsi umiliati a essere esclusi dalla selezione.” Tra il settembre '43 e l’aprile '45 San Vittore conosce il terrore nazifascista. Occupata Milano sin dall'11 settembre 1943 dai tedeschi, le SS requisiscono immediatamente buona parte del carcere e diventano sovrani assoluti della vita e della morte di ogni recluso. Tre raggi “accoglievano” i detenuti comuni ed erano sotto la competenza italiana e gli altri rimasero sotto il controllo assoluto dei tedeschi: il IV e il VI per i detenuti politici e il V per gli ebrei, in un primo tempo concentrati all’ultimo piano del IV e poi, con il loro aumentare, anche ai piani inferiori. Con il regime di terrore instaurato dalle SS fin dal loro arrivo, una infrazione anche minima al regolamento bastava per il passaggio da un raggio all’altro, oppure “ai topi” come erano chiamati i sotterranei, tenebrosi, umidi e dotati di strumenti di tortura. “Primo comandante del settore tedesco è dal settembre 1943 il maresciallo Helmuth Klemm, un ex fabbro, cui da dicembre si affianca come vice il maresciallo Klimsa, poi promosso direttore quando Klemm è trasferito nel febbraio-marzo 1944 alla Gestapo. Sostituto di Klimsa è il caporalmaggiore Franz Staltmayer, chiamato “la belva” o “il porcaro”. A San Vittore imperversavano anche due criminali italiani: i tenenti Manlio Melli e Dante Colombo, agenti dell’Ufficio Politico Investigativo (UPI), alle dipendenze del maggiore FerdiAntonio Greppi nando Bossi. Gaetano De Martino, oppositore politico al regime fascista, arrestato il 16 novembre 1943 da tre militi della Repubblica di Salò, nel libro Dal carcere di San Vittore ai lager tedeschi, così racconta del suo traumatico impatto con il carcere: “La piccola cella di circa metri due e cinquanta per quattro, aveva una finestra in alto: le solite finestre delle carceri, dette a tramoggia o bocca di lupo, da cui si poteva scorgere solo un po' di cielo e null'altro. Alcune tavolette infisse nel muro, per sedersi e per appoggiare gli oggetti, una branda sospesa al muro, una scodella ed una brocca costituivano tutto l'arredamento. Quanti chilometri avrò percorso nei lunghi mesi della prigionia, andando su e giù in quello stretto spazio? Faceva assai freddo; la mia cella – esposta a nord – era anche umida, per cui era necessario muoversi. Ma in seguito le gambe diventavano sempre più pesanti, ed anche il muoversi riusciva faticoso. Le pareti della cella erano piene di nomi e di disegni. Molti detenuti avevano voluto lasciare il ricordo del proprio nome, con la data dell'arresto e della liberazione; alcuni si erano limitati ad incidere il calendario, segnandovi i giorni della prigionia. Quanti individui erano passati prima di me in quella cella? Circa mezzo litro di liquido con qualche patata e fagiolo nel fondo, e poi mezzo chilo di pane: era tutto il cibo della giornata. Il cibo complessivo era assai scarso; sentivo che avrei patito la fame. Si prendeva aria in certi recinti circolari, divisi in settori; al centro una specie di podio per il guardiano che così poteva facilmente sorvegliare tutti. Vi era qualche milite di manica larga, ed allora si poteva girare da un settore all'altro per parlare con gli amici; ma vi erano pure dei militi assai aspri. Ricordo un milite siciliano che aveva sempre il fucile fra le mani anziché sulla spalla: per piccoli diverbi si divertiva a puntarlo verso di noi, pur essendo carico e senza sicura. Vi erano anche, vestiti da militi, dei ragazzi di circa quindici o sedici anni: mi fu assicurato che numerosi ragazzi traviati e ricoverati nell'Istituto Beccaria erano stati irregimentati nella milizia. Nella prima settimana dopo il mio arresto vi fu un grande afflusso di nuovi prigionieri nelle carceri. Vi erano molti partigiani che avevano partecipato alla battaglia di San Martino in Val Cuvia. Parlavano con calore della loro volontà di battersi contro i tedeschi. Erano stati sopraffatti dall'aviazione e dall'artiglieria che in gran numero avevano battuta la zona finché fu annientata ogni possibilità di resistenza”. “Era incessante l'arrivo di nuovi carcerati – si legge sempre nel libro di De Martino – La maggior parte di essi, entrando in carcere, era costretta a fare la conoscenza coi metodi tedeschi: non erano pochi quelli che entravano in cella coi segni visibili delle legnate ricevute. Vidi una mattina numerosi avvocati: forse, fra le varie categorie di professionisti, la classe degli avvocati è quella che maggiormente ha agito ed ha sofferto. Ad onor del vero va ricordato che in regime fascista gli avvocati generalmente non hanno goduto le simpatie del despota: la legalità fa a pugni con la prepotenza.” “Un giorno – continua De Martino – arrivò un grosso blocco di operai: le celle furono tutte piene e nell'ora dell'aria vi fu una grande animazione. Erano gli operai di alcune officine di Legnano e di Busto Arsizio: avevano scioperato ed erano finiti in carcere. Un operaio mi riferì che a molte industrie era stato imposto di costruire materiale bellico per i tedeschi: circa 130.000 operai di Legnano, di Busto Arsizio e delle località vicine si rifiutarono, subendo gravi rappresaglie.” “Neanche di notte – scrive De Martino - ci lasciavano dormire in pace. Una notte un giovane detenuto sentì aprire la porta della cella: due militi fascisti, muniti di lampadine elettriche, gli domandarono dove fosse stato la sera precedente, e prima ancora che egli rispondesse, gli appiopparono due fortissimi schiaffi da lasciarlo stordito. Il detenuto poté poi gridare che già da un mese era in carcere; i due militi lo guardarono, riconobbero che non era lui l'uomo ricercato e se ne andarono.” Ma anche all'interno di questo luogo di sofferenza si registrano episodi di solidarietà. Bianca Ugo, arrestata perché antifascista, così racconta del suo rapporto con le altre detenute: “Eravamo tutte unite, tutte concordi, tutte solidali. Se una faceva una proposta la si discuteva approvando o disapprovando, ma con urbanità, con amore, direi: l'idea di una poteva divenire l'idea di tutte. E se una riceveva, per certi raccordi misteriosi, biscotti, o tè o tavolette commestibili, tutte ne beneficiavamo, perché là veramente quello che era di una era di tutte”. A San Vittore operano agenti di custodia, come Andrea Schivo che per essersi prodigato per alleviare le sofferenze di detenuti ebrei, viene deportato nel lager nazista di Flossenburg, da cui non fa ritorno e suore, come Suor Enrichetta Alfieri e altre 11 suore che fanno ogni sforzo per rendere meno drammatiche le condizioni di vita dei detenuti. Anche alcuni medici si prodigano per venire incontro ai detenuti, come il dottor Gatti che prende servizio a San Vittore il 4 aprile 1944. Ricordato da tutti con profonda stima e gratitudine, per oltre dieci mesi, con gli scarsi mezzi a disposizione e con grave rischio personale, si prodigherà come medico per soccorrere ebrei e politici, sarà latore di messaggi all’esterno del carcere, introdurrà somme di denaro per i partenti per il “Campo di polizia e di transito di Fossoli”, somministrerà farmaci in grado di causare l’insorgere di sintomatologie da ricovero ospedaliero e ad ogni partenza per la deportazione riuscirà a far depennare qualcuno dalla lista. San Vittore sarà liberato dai partigiani delle Brigate Matteotti il 26 aprile 1945. Una cella nei seminterrati del carcere 24 Cinema Un emozionante thriller, protagonisti due novantenni che inseguono i propri fantasmi Interessante e documentato approfondimento delle vicende sarde attraverso il libro Anppia di Lorenzo Di Biase REMEMBER: NAZISMO, OLOCAUSTO, VENDETTA, PERDONO E GIUSTIZIA I carlofortini perseguitati dal fascismo di Martina PARODI di Maurizio ORRÙ L a Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno ha saputo scegliere un film che ci riguarda da vicino e che la nostra memoria stenta a dimenticare. Un cast d’eccezione con un Christopher Plummer da Coppa Volpi per il miglior attore e un Atom Egoyan regista impeccabile hanno fatto di “Remember” la sorpresa di un festival interessante, ma senza scosse. Un thriller che è in realtà una meditazione sulla storia, le responsabilità individuali e la memoria, dove i suoi novantenni protagonisti inseguono i propri fantasmi e le proprie ossessioni, costretti a misurarsi con il tempo, i suoi guasti, i suoi cambiamenti. Dopo Francofonia, Beast of no Nation, El Clan, Rabin, The Last Day, la Mostra chiude la sua rilettura del cosiddetto “secolo breve” andando nel cuore di tenebra della Seconda guerra mondiale: nazismo, Olocausto, vendetta, perdono e giustizia. In una residenza americana per anziani, Max, un ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, scopre che una delle SS che assassinò la sua famiglia vive negli Stati Uniti, un nome nuovo e una nuova identità, quella di Rudy Kurlander, oramai da settant’anni. Costretto su una sedia a rotelle, incarica così un altro ospite della casa di riposo, Zev, che fu con lui nel campo di sterminio e come lui ebbe i genitori uccisi, di trovare fra quattro possibili sospetti il guardiano nazista che segnò la loro vita. Individuatolo, lo dovrà uccidere. A quell’età, non c’è più tempo per estradizioni, processi, condanne: il rischio è che il “colpevole” nel frattempo muoia, così come del resto il suo “giustiziere”. Zev ha già le prime tracce di Alzheimer, dimentica nomi e luoghi, spesso non ricorda che sua moglie è morta. Max no, Max è più che mai lucido, ma oltre a non poter camminare, per respirare è costretto all’ossigeno. Sarà dunque la “mente” che guiderà il “braccio”, sempre più malfermo, dell’amico: promemoria scritti, telefonate, pianificazione degli spostamenti. Basta che Zev segua le indicazioni, che esegua gli ordini… “Fra dieci anni, film così non saranno più possibili, diventeranno film d’epoca, potranno essere girati solo al passato”, dice Egoyan. “Zev, Max, Rudy sono, per età, gli ultimi testimoni ancora viventi di quei tragici anni. Ne avevano più o meno venti quando si ritrovarono su sponde opposte, da vittime e da carnefici, e settant’anni dopo il loro passato ritorna, 25 Cultura H ma a patto di un presente non sempre in grado di ricordare ciò che è stato e che intanto ha lavorato per cambiarli rispetto a ciò che erano. La sua chiave è nella memoria, i suoi traumi, le sue amnesie. Benjamin August, alla cui sceneggiatura perfetta si deve “Remember”, ha raccontato che, avendo sposato una vietnamita, è rimasto sorpreso di come nella famiglia della moglie gli orrori della guerra del Vietnam fossero stati completamente rimossi, quasi che quel conflitto spaventoso non fosse mai esistito. Ecco, “Remember” è anche questo: svelarne di più non mi sembrerebbe corretto verso chi non lo ha ancora visto”. Senza dire altro, “Remember” è un perfetto meccanismo a orologeria dove preda e cacciatore si assomigliano più di quanto, nei rispettivi ruoli, ciascuno voglia e possa ammettere. Non è tanto la “banalità del male” di arendtiana memoria a tenere banco, quanto qualcosa di più complesso dove l’estremismo religioso, ideologico, razziale, ha nella sua fissità, nell’incapacità a comprendere l’altro da sé, qualcosa di primordiale, non umano, ovvero troppo umano. Ottantacinquenne in ottima forma nella vita, Christopher Plummer disegna sullo schermo un novantenne incerto nei movimenti, introverso, senilmente fragile e con l’innocenza un po’ infantile di chi, avendo conosciuto il male, ha deciso di negarne l’esistenza. Il resto sta a voi scoprirlo. Il film è nelle sale da metà ottobre. a fatto bene l’Anppia a pubblicare il bel volume di Lorenzo Di Biase sulla vicenda degli antifascisti calorfortini. Si tratta di una pubblicazione che entra a pieno titolo nella biblioteca dell’antifascismo e della storia contemporanea sarda e nazionale. L’agile e dotto volume si dimostra, dopo una attenta lettura, utile non solo per gli studiosi, ma anche per coloro i quali sono appassionati alle vicende legate all’antifascismo militante. Lorenzo Di Biase nel ricordare gli antifascisti carlofortini scrive: “Questi oscuri eroi antifascisti mantennero vivo il loro ideale e per questo motivo rischiarono di persona, anche a causa del metodo delle delazioni, il carcere, il confino, le continue angherie dei fascisti locali, le inquietanti perquisizioni domestiche, le costanti piccole e grandi vessazioni, le manganellate e l’olio di ricino... ”. Purtroppo queste erano “le costanti politiche” che il ventennale regime mussoliniano aveva creato e diffuso nella nostra martoriata Italia. L’autore ha compiuto un lavoro encomiabile e certosino nel filone del ricordo e della storia. Nella storia contemporanea sarda e nazionale vi sono tanti personaggi che sono stati ingiustamente dimenticati, o meglio oscurati, dalle vicende storiche e politiche. Questo lavoro di ricerca si propone di restituire la memoria di otto antifascisti carlofortini (Biggio Leopoldo, i fratelli Bonifai Carlo e Luigi, Bonifai Saturnino, Luxoro Agostino, Plaisant Gregorio Nicodemo, Rossino Augusto e Rosso Silvio) con uno spirito divulgativo, che rientra nelle finalità dell’ANPPIA, che vuole essere, ed è, una memoria storica militante, che persegue l’amore per la pace, la democrazia e la libertà. Infatti nell’Italia che stiamo vivendo, ovvero nell’imbarbarimento della vita pubblica, nella decadenza continua e strisciante dell’etica e dei costumi, conoscere e studiare alti esempi di esperienze umane e politiche di militanti dell’antifascismo e della Resistenza, vuol significare una storia senza retorica e senza enfasi. Necessita solo la verità dei fatti, o meglio onestà intellettuale, così come vuole da decenni la vita associativa dell’ANPPIA. Lorenzo Di Biase vanta anni di intensa attività di studio dedicato alle azioni antifasciste e resistenziali sarde e nazionali. Un lavoro instancabile che si è concretizzato, oltre che in articoli giornalistici, anche in saggi storici pubblicati per le edizioni ANPPIA della Sardegna. L’autore, per la stesura della ricerca, si è basato su una rigorosa documentazione che proviene dagli archivi, dai casellari politici, dalle Prefetture, ovvero, le fonti necessarie per una ricostruzione articolata degli avvenimenti e dei contesti storici in cui si è dipanata la vicenda degli antifascisti carlofortini. Sono dell’avviso che bisogna riappropriarsi della storia, delle vicende e dei personaggi che sono entrati prepotentemente nella coscienza collettiva dei democratici e dei progressisti italiani. Per concludere, volendo dare un giudizio sintetico, posso affermare, con cognizione di causa, che si tratta di un libro ricco di sapienza e di contenuto, così come sono state tutte le pubblicazioni di Lorenzo Di Biase. 26 Giornalismo Luoghi della Memoria Cavallari, partigiano della verità Fu un mitico direttore del Corriere della Sera di via Solferino a Milano 27 Ferramonti, campo di sterminio figlio delle leggi razziali del 1938 di Filippo SENATORE “La forza di Sisifo” della casa editrice torinese Aragno è stato pubblicato sul finire del 2011. L’arte del comporre non è solo dei musicisti. Raccogliere e ricercare sono culture antiche. L’amor di sintesi descrive un’epoca, uno stile, un personaggio. La sensibilità suscita e rinverdisce parole perdute e atmosfere non sempre riproducibili. Solo la mano leggera di Marzio Breda, “quirinalista” al Corriere della Sera poteva produrre un ritratto d’autore autentico con i materiali primigeni di Alberto Cavallari, mitico direttore del Corriere della Sera. Raccogliere cinquanta anni di pubblicistica dal multiforme ingegno non era facile, ma Breda ha seguito con il fiuto del cronista le orme del Maestro. Nel Dopoguerra in un’austera stanza disadorna di via Solferino Dino Buzzati accoglie il giovane allievo piacentino concittadino del giurista illuminista, Giandomenico Romagnosi, impartendo lezioni memorabili. ”Disciplina professionale, fedeltà alle regole della cronaca, rispetto della notizia, castità di scrittura, capacità di cogliere dettagli da elevare a metafora di una storia”. Sono i fondamentali di un mestiere nobile esercitato con “l’austerità di una grisaglia” che richiama il rigore degli antichi frequentatori dell’agorà. Come Albert Camus di passaggio in Italia che intreccia con Buzzati un dialogo che colpisce profondamente Cavallari al punto da forgiare nel suo profondo uno spirito critico ed eretico “nel secolo delle catene ideologiche”. Il titolo di questa antologia di scritti si ispira alla celebre opera camusiana con un aggettivo che rievoca un titolo da melodramma (La Forza del Destino di Giuseppe Verdi) derivato dall’orgoglio emiliano. Marzio Breda ha applicato un metodo archivistico molto rigoroso, scegliendo una sequenza di testi non cronologica, ma per argomento quasi volesse far conoscere gli aspetti multiformi di una scrittura definita da Indro Montanelli efficace in funzione della sua sobrietà, della sua rinunzia ad ogni eloquenza, rarità di un novello Tacito. Forse uno dei suoi pezzi più belli è quello del 1979, all’epoca corrispondente a Parigi. Lo scritto è dedicato agli italiani in esilio dimenticati nelle “urne dei forti” con una richiesta all’allora presidente Pertini di portare non solo le spoglie “dei prischi eroi” ma le idee, che divenissero canto in un Paese senza memoria dei Gobetti, dei Turati, dei Rosselli. La formazione culturale del giovane cronista affonda nelle radici laiche di tutto il movimento dell’epopea resistenziale di Giustizia e Libertà. Scoperto da Elio Vittorini, Cavallari esordisce a 18 anni facendo la gavetta a “L’Italia libera”. organo del Partito d’Azione. Nel 1950 entra a Epoca. Nel 1954 lo assume il Corriere di cui diventa inviato speciale. Nel 1965 Cavallari è il primo giornalista che intervista un Papa. Lo stile ricorda il pathos narrativo di Thomas S. Eliot. “Paolo VI si è fermato, portando le mani sopra la scrivania , guardandole per un attimo, come sconcertato dalla loro fragilità. Ma poi le ha nascoste subito, quasi per un improvviso pudore, ed è passato, con il realismo che dicevo, alle frasi più illuminanti del suo personaggio di papa moderno, incapace di illusioni”. Dopo il 1969 egli ha diretto prima il “Gazzettino di Venezia" e poi la redazione romana dell’Europeo. Alberto Cavallari ha guidato il Corriere dal 1981 al 1984. Come un eroe di Conrad, il direttore compie “la più spaventosa delle traversate con il mare sempre in tempesta e con il vento contrario, ogni giorno rischiando il naufragio”. Il giornale sull’orlo della bancarotta, infestato da una banda di corrotti, rinasce in pochi anni. Così Cavallari descrive il percorso di quegli anni: ”Ho cominciato a dirigerlo dopo che la P2 aveva macchiato la sua bandiera, quando l’onda del discredito minacciava tutti”. I lettori hanno consentito il miracolo ma il direttore è isolato dalla prepotenza di una fazione politica. Gli ultimi anni di Cavallari segnano ancora di più la sua personalità di uomo scomodo, inviso ai potenti, confinato nell’immaginario deserto dei Tartari. Egli riflette sull’idea di giornalismo e delle nuove tecnologie di comunicazione nelle lezioni, tenute alla Sorbona di Parigi. Chiamato da Eugenio Scalfari, scrive per “Repubblica”. Una sorta di nemesi storica, vissuta anni prima da Alfredo Frassati altro grande del giornalismo italiano, direttore della Stampa. Il cardinale Achille Silvestrini, nell’omelia ai funerali del luglio del 1998, lo definisce “partigiano della verità”. Ma la definizione più calzante è dello stesso Cavallari che ironicamente si prende in giro: “Visse, scrisse, viaggiò, cioè inutilmente fuggì”. Una parabola attuale dell’utopia di chi riparte nella speranza che il tempo torni ad essere galantuomo. Alberto Cavallari, La forza di Sisifo, a cura di Marzio Breda, Aragno editore, pagine 258, euro 15 S ono passati più di dieci anni dall’uscita del libro di Francesco Folino sul campo di concentramento di Ferramonti e la sua attualità rimane indelebile nel tempo a ricordare che i fascisti non erano meno feroci dei nazisti: una leggenda dura a morire. Solo la dinamica bellica – la liberazione del Sud da parte degli Alleati – impedì il compimento di un eccidio già pianificato con ferocia da Mussolini. La costruzione del Campo fu l’attuazione del disegno ideologico-criminoso tracciato dalle leggi razziali del 1938. L’autore evidenzia che “Il 9 agosto il ministero dell’Educazione nazionale incominciava il censimento del personale di razza ebraica, che a qualsiasi titolo dipendesse dal ministero, di ruolo e non di ruolo, in servizio presso gli uffici o presso le scuole pareggiate o parificate, presso gli istituti superiori di ogni ordine e grado, con l’invito di rispondere ad una scheda già predisposta e di sottoscriverla”. Il ministro Bottai epurò in pochi mesi il personale di origine ebrea. La Banca di Italia diramò un comunicato per “censire” i conti correnti e i risparmi delle famiglie ebraiche. Pronti al saccheggio? Il 25 maggio 1940 furono allertati tutti i prefetti per procedere all’internamento di ebrei italiani e stranieri. Il sottosegretario agli Interni Buffarini-Guidi comunicò al Il campo d’internamento di Ferramonti, in Calabria Capo della Polizia Arturo Bocchini l’ordine mussoliniano di preparare i campi di concentramento. I rastrellamenti degli ebrei iniziarono con l’entrata in guerra a fianco di Hitler. Italiani e stranieri furono sottoposti all’arresto e alla deportazione. Il 20 giugno ci furono i primi arrivi degli internati a Ferramonti ancora in costruzione. Il numero crebbe fino a raggiungere oltre duemila unità. Esseri umani provenienti da varie nazioni parlavano il tedesco, il croato, il greco, lo spagnolo, il ceco, e lo jiddish. Il campo sorgeva in una zona paludosa e malarica a pochi passi dal piccolo comune di Tarsia in provincia di Cosenza. Precisa Folino sui prigionieri: “si trattava prevalentemente di ebrei stranieri, italiani, di antifascisti e piccoli c ambulanti cinesi”. L’organizzazione tra internati aumentò lo spirito di sopravvivenza. La qualità di cibo sufficiente nel campo nel 1940 nel tempo diminuì. Nel 1941 scarseggiarono gli alimenti. La fame e la denutrizione nel 1943 avevano colpito i più deboli, vecchi e bambini. La durezza del regime di internamento fu attenuata grazie all’intervento dell’ex prefetto fascista Dante Almansi che guidava l’Unione delle Comunità israelitiche. Aiuti arrivarono dall’organizzazione internazionale Joint di New York. Nel 1942 e ‘43 Riccardo Pacifici, rabbino di Genova fece frequenti visite per rincuorare la propria gente ma, catturato dai fascisti e deportato a Auschwitz, morì il 12 dicembre ‘43. La Chiesa cattolica e la Croce Rossa internazionale aiutarono gli internati allo stremo con opere di carità che non bastarono. Si cercò di organizzare la comunità dove c’erano molti bambini con scuole, strutture minime di convivenza, un comitato di soccorso per i più deboli. La situazione alimentare peggiorò nell’estate del ’43. Fiorì il contrabbando del pane, Con la caduta di Mussolini furono attenuate le misure di controllo nel campo. Il 27 agosto in un duello aereo tra germanici e Alleati andò in fiamme un padiglione di Ferramonti provocando tre morti e 17 feriti. Gli alleati si presentarono al campo il 17 settembre. Gli internati liberati furono assistiti e riforniti di cibo in abbondanza. Lo sgombero definitivo del campo avvenne nel settembre del ‘45. Il libro è arricchito da documenti storici del Centro di documentazione ebraica di Milano. Francesco Folino dimostra che Ferramonti è il prodotto delle leggi razziali del ’38, un disegno criminoso del regime non portato a termine per il tempestivo arrivo degli alleati. Altrimenti ci sarebbe stato lo sterminio degli internati pianificato dai fascisti per compiacere l’alleato germanico. (f.s.) Francesco Folino, “Ferramonti? Un misfatto senza sconti" Edizioni Brenner, Cosenza 28 Arte Arte Interessante mostra a Palazzo Braschi con immagini degli US Corps e dell’istituto Luce “War is over”, la Resistenza raccontata dai clic fotografici di Elisabetta VILLAGGIO È stata inaugurata il 26 settembre la mostra War is over! L’Italia della liberazione nelle immagini degli U.S. Corps e dell’istituto Luce, 1943-1946, che sarà ospite fino al 10 gennaio 2016 a Palazzo Braschi, il Museo di Roma dove è conservato l’archivio fotografico della città con foto della capitale che vanno dal 1845, quindi praticamente dalla nascita della fotografia stessa, e dove durante il fascismo negli scantinati di questo palazzo furono torturate diverse persone. War is over è un’interessante esposizione che, attraverso la selezione di circa 140 immagini, con molti scatti inediti, e filmati d’epoca nel periodo compreso tra il luglio del 1943, cioè lo sbarco degli alleati in Sicilia, e il 1946, quindi a guerra finita, racconta quel periodo attraverso i suoi protagonisti, italiani e americani, e il confronto, unico e suggestivo, tra i due differenti punti di vista. Da una parte gli scatti dell’Istituto Luce, l’organo ufficiale per la documentazione foto-cinematografica del regime, dove il bianco e nero è espressione prima del cupo declino del fascismo e poi della sobrietà di una classe dirigente che cerca di ricostruire sulle rovine della guerra. Dall’altra parte le fotografie dei Signal Corps, l’efficiente servizio di comunicazioni al seguito delle truppe statunitensi, provenienti da un raro repertorio, conservato presso la NARA (National Archives and Records Administration) di Washington e solo in parte conosciuto in Italia. Qui il colore diventa il segno di un’Italia diversa, rivelata da operatori e fotografi più attenti al dato sociale e uno strumento di esportazione dell’american way of life che, con la ricostruzione, raggiunge anche l’Italia. I Signal Corps sono i corpi militari addetti alla comunicazione, dotati di un ampio raggio d’azione, dai collegamenti telefonici e radiofonici ai filmati per l’addestramento dei soldati, dalle fotografie di guerra ai cinegiornali e ai Combat Film. “In questa mostra mettiamo a confronto due diversi sguardi sulla Liberazione in Italia, che non intendiamo raccontare come un episodio, ma come un processo. Liberazione è quel faticoso, lungo e sanguinoso processo che si apre con lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la caduta del fascismo, nel luglio del 1943, e prosegue con la loro lenta avanzata lungo la penisola, mentre l’Italia è divisa tra due soggetti politico-militari (il “Regno del sud” cobelligerante con gli Alleati e la Repubblica Sociale al nord sotto il dominio tedesco) e nasce la Resistenza, grazie alla quale si compie materialmente e psicologicamente un percorso di rigenerazione e di rinascita del Paese” raccontano i curatori della mostra Gabriele D’Autilia e Enrico Menduni. La scelta delle foto è molto interessante e dimostra come lo sguardo sia molto diverso se l’occhio è quello di una macchina fotografica americana o quello italiano dell’Istituto Luce che raccoglie maggiormente il momento di dolore che il paese stava attraversando in quegli anni. Tra le foto americane a colori c’è molta sperimentazione: infatti avevano delle tecniche particolari e costose. Si doveva trasmettere, attraverso foto colorate, un’idea di guerra già quasi vinta quindi si guardava in avanti, al futuro, mentre il bianco e nero delle foto italiane raffigurava il vecchio, l’antico e rappresenta l’immagine di quei film neorealisti che si sarebbero realizzati da lì a poco. La mostra è divisa in dieci sezioni dove ognuna pone l’accento sui due diversi sguardi cioè l’approccio differente in base alle documentazioni. Così possiamo vedere la foto americana a colori con la soldatessa a cavallo di un mulo circondata da contadine italiane povere e la foto in bianco e nero italiana che mostra dolore e morte. Tra le immagini censurate dall’Italia c’erano tutte quelle che facevano vedere un divertimento, un ballo o anche solo dei sorrisi. Tutte le foto censurate avevano un marchio nero, con scritto rgr, Reparto Guerra Riservati. Le foto che raffiguravano qualcosa che non fosse terribilmente triste, come per esempio quella di un soldato italiano sorridente, erano rigorosamente censurate dal regime con tanto di etichetta. Una tra queste è la bellissima e significante foto che riprende un palazzo distrutto dove rimane appesa la targa che indica il nome della strada: Via Benito Mussolini. La censura intervenne immediatamente per bloccare l’immagine perché, oltre al fatto che la targa fosse in pratica l’unica cosa rimasta in piedi del palazzo, c’era anche il doppio gioco della parola via intesa come strada ma anche come mandar via. L’istituto Luce ritrae e mostra soprattutto un’Italia che soffre, che va avanti partendo da una situazione drammatica mentre gli americani hanno una visione diversa, più futurista, con le immagini a colori, con soldati sorridenti e l’idea di una ricostruzione già cominciata. Nelle foto italiane si vede che la guerra lascia sui volti il segno del dolore anche quando si rappresentano momenti di spensieratezza o normalità, infatti, gli italiani non sorridono mai mentre gli americani si mettono in posa allegramente davanti ai palazzi e alle residenze sequestrate a Mussolini e ai gerarchi fascisti. Tra le foto dell’Istituto Luce ce n’è una molto particolare che raffigura il Papa Pio XII nell’agosto del ’43, dopo che Roma è stata bombardata, 29 mentre distribuisce soldi, vere e proprie mazzette di denaro. Sullo sfondo si riconosce un giovane Cardinal Montini, il futuro Paolo VI con un’espressione sconcertata. Le foto americane erano spedite a Washington nel giro di un mese, tempi per l’epoca molto rapidi, dove erano stampate e diffuse a giornali e riviste; infatti, quasi tutte le foto della stampa americana in tempo di guerra arrivavano dai Signal Corps. Gli americani, che erano sempre molto scrupolosi nelle rappresentazioni, dovevano dare tutte le informazioni possibili sui soggetti fotografati. Molte le donne nelle foto americane, infatti, c’era un esercito misto. Nella sezione amore e guerra vediamo foto di soldati e soldatesse americane abbracciati. Inizialmente c’erano regole ferree e non si voleva certo dare l’idea di un esercito promiscuo ma a un certo punto certe regole, specialmente alla fine della guerra, furono abbandonate. Molte foto anche di persone che guardano in alto che sono tipiche della guerra proprio perché c’erano i bombardamenti. Anche il dolore aveva i suoi criteri di rappresentazione. Le foto italiane sono molto evocative con la morte in primo piano ma la morte del nemico, poiché quella dei propri soldati non si voleva raccontare troppo. La morte non si poteva negare ma era filtrata. C’è una foto americana esplicativa a questo proposito, dove si vede un soldato che ha subito un’amputazione ed è curato da un’in- fermiera esperta che trasmette sicurezza. Il soldato e l’infermiera sorridono entrambi in posa: il messaggio è di avere tutto sotto controllo anche le conseguenze di una guerra. Tuttavia c’è un messaggio di speranza soprattutto nelle immagini delle ultime sezioni quando ormai la guerra era finita e poteva cominciare la ricostruzione. Il quadro generale della mostra War is over è di una grande lezione sull’importanza della memoria. Tutti i popoli e i paesi vivono di contraddizioni. I momenti difficili vanno ricordati e qui attraversiamo il percorso difficilissimo che l’Italia ha fatto e queste immagini testimoniano come possa essere utile a tutti guardare con più serenità e comprensione quello che succede intorno a noi oggi. 30 Noi Noi MILANO LIVORNO PREMIO MATTEOTTI Al Campo della Gloria ricordati gli eroi antifascisti Giovedì 29 ottobre al campo della Gloria si è svolta la manifestazione in onore dei Combattenti per la libertà, dei militari italiani internati dopo l’8 settembre 1943, dei deportati nei lager nazisti per motivi politici e a seguito della persecuzione antisemita. Sono intervenuti rappresentanti del Comune, della Provincia, della Regione, della Diocesi milanese, il Rabbino capo, il Comandante del Presidio Militare di Milano. Per l’Anppia era presente Gino Morrone, presidente della Federazione milanese. Ha concluso la cerimonia, a nome delle Associazioni partigiane e combattentistiche, Mario Artali, presidente nazionale FIAP. Subito dopo al Cimitero Monumentale si sono svolte le tradizionali cerimonie al Monumento del deportato e al Cimitero ebraico. Ecco una sintesi dell’intervento di Artali al Campo della Gloria “Abbiamo ascoltato il saluto e constatato la partecipazione attiva di alcune delle più autorevoli organizzazioni che qui si ritrovano ogni anno alla vigilia del giorno di commemorazione dei defunti per tributare il dovuto omaggio a coloro che hanno dato la vita per la libertà della Patria. Mi limiterò quindi a poche considerazioni , quasi una sottolineatura del manifesto approvato dalla Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane in occasione della celebrazione dell’altra imminente data del 4 Novembre, giornata delle Forze Armate e festa della Unità Nazionale. Perché questo noi oggi ricordiamo: quanto è stato difficile e denso di sacrifici il percorso della libertà e come a noi tocchi il compito di batterci perché la memoria non vada smarrita. Mi sono tornate alla mente le poche righe di un grande poeta, Salvatore Quasimodo, che esprimono più di molti saggi l’orrore di quei giorni: E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telefono ? Alle fronde di salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al nostro vento. Contro quell’orrore si sono battuti combattenti di tutti i colori dell’arcobaleno, anche perché la libertà, per sua natura, non può rivestirsi di un solo colore. Non c’è dubbio che la riconquista della libertà è stata possibile, prima di tutto, grazie a coloro che si sono sacrificati - nei lunghi anni della dittatura -nel lavoro clandestino, nelle carceri o al confino, nell’esilio. È ciò che abbiamo ricordato insieme l’anno scorso - nel 70esi- mo del suo sacrificio- nel nome di Giacomo Matteotti, così come abbiamo fatto quest’anno nel 70esimo del 25 Aprile 1945, la data della insurrezione vittoriosa. Si apre ora il 70esimo anniversario del triennio della costruzione delle libere istituzioni: la Repubblica, l’Assemblea costituente, le elezioni libere e con il voto delle donne, il Trattato di pace e la riconquista della piena libertà, unico tra i paesi dell’Asse e proprio grazie alla entità delle forze cobelligeranti e di quelle partigiane. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la sconfitta dell’orrore e gli immensi sacrifici che sono stati necessari. E chi potrebbe dirlo meglio di quel cha fa Piero Calamandrei, nel discorso ai giovani pronunciato qui a Milano il 26 gennaio 1955 : “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.” Ho iniziato citando il documento della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane a pochi giorni dal 4 Novembre, giornata delle Forze Armate e festa della Unità Nazionale. Non è un atto formale né solo l’adempimento di un dovere l’omaggio alle Forze Armate, il cui ruolo nella lotta di Liberazione è stato a lungo non adeguatamente riconosciuto nonostante i più di 80.000 caduti tra Esercito, inclusi gli Internati Militari che rifiutarono la RSI, la Marina che rifiutò la consegna delle Navi e subì gravi perdite, i più di 2000 aviatori. Ecco perché nel documento della Confederazione che ho ricordato abbiamo voluto scrivere che le Associazioni Combattentistiche e Partigiane manifestano “riconoscenza alle Forze Armate, presidio delle istituzioni repubblicane, ai militari che all’estero rischiano la vita, per la pace e la convivenza tra i popoli e le nazioni e a tutti i combattenti per la libertà”. Dobbiamo ricostruire nelle coscienze e soprattutto nelle scuole il senso di questo sforzo comune, di quello che fu, ma non è ancora adeguatamente riconosciuto come tale, il secondo Risorgimento della Nazione”. 31 il saggio della storica italo-tunisina, pubblicato grazie all'ANPPIA NAZIONALE In occasione del centenario della Grande Guerra l'ANPPIA di Livorno in collaborazione con il Comune di Livorno, il CIDI, l'Associazione Don Nesi Corea, il Centro Studi Non Violenza, la Fondazione Livorno, ha organizzato due incontri per i giorni 4 e 5 Novembre Nel ricordo della Prima Guerra Mondiale, preludio violento ai fascismi europei. L'URLO CONTRO IL REGIME di Leila El Houssi con il contributo dell' ANPPIA Nazionale Carocci Editore, 2014 Per info contattare: [email protected] Il libro ''L'urlo contro il regime. Gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerrÈ' dell'italo-tunisina Leila El Houssi, finanziato dall'ANPPIA NAZIONALE si è aggiudicato la XI Edizione del Premio Giacomo Matteotti, sezione Saggistica, ex aequo con ''La buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica'' di Valdo Spini. Il Premio, che viene assegnato ad opere che illustrano gli ideali di fratellanza tra i popoli, di libertà e giustizia sociale che hanno ispirato la vita di Giacomo Matteotti, verrà materialmente consegnato ai vincitori il 16 ottobre 2015 durante una cerimonia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. ''Sono profondamente emozionata che al mio volume sia stato assegnato il prestigioso Premio Matteotti'' spiega ad ANSAmed la Docente di Storia del Medio Oriente presso l'Università di Firenze, Leila El Houssi, che precisa: ''il volume, frutto di un'impegnativa ricerca, affronta il tema dell'antifascismo italiano in Tunisia tra le due guerre mondiali e rimette in discussione il luogo comune secondo cui la numerosa collettività italiana presente nel paese nordafricano fosse totalmente schierata col regime fascista. In realtà, contro la dittatura di Mussolini e la sua propaganda sorse una corrente di opposizione i cui protagonisti furono membri dell'élite borghese liberale di appartenenza massonica, militanti del movimento anarchico, esponenti della classe operaia organizzata nei partiti della sinistra socialista e comunista e aderenti a Giustizia e Libertà. Nacque così un dinamico laboratorio politico animato da giovani italo-tunisini che vide nei primi anni Trenta la costituzione della sezione tunisina della Lega italiana dei diritti dell'uomo (Lidu) e, in seguito, l'apporto di personalità politiche come Velio Spano e Giorgio Amendola inviati dal Centro estero del PCI per dare respiro internazionale al movimento antifascista di Tunisia. Le vicende di questo nucleo antifascista sono state ricostruite attraverso l'analisi della stampa, della memorialistica e di una vasta documentazione reperita negli archivi tunisini, italiani e francesi''. ''Dedico questo premio a tutte le donne e gli uomini che hanno combattuto in nome della democrazia e della libertà'', conclude la El Houssi. SOTTOSCRIZIONI: OTELLO NICOLINI di Rubiera (RE) i figli Ivano e Silvana versano a sostegno € 100.00 ¤ CARLO PORTA di Reggio Emilia la moglie Lea e la figlia Vanna versano a sostegno € 50.00 ¤ L'Editoriale La sede principale della Volkswagen in Germania l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti segue dalla prima pagina Se l’immagine delle formiche nordiste e delle cicale sudiste è senz’altro fuorviante; se è vero che l’Ovest è più abituato ai migranti, mentre l’Est vede maggiormente minacciato un livello di vita da poco acquisito dopo la stagnazione comunista, la vera malattia dell’Europa, la ragione prima di politiche economiche che hanno diviso il Nord dall’area mediterranea e che non hanno evitate le chiusure nazionalistiche dell’Est (in primo luogo dell’Ungheria, con un governo di destra che prima di erigere muri aveva sfidato le banche straniere, garantendo incrementi di Pil ai quali l’Italia ancora aspira), tutto ciò è dovuto al fatto che l’Europa dell’euro politicamente non esiste e le sue autorità sono subordinate alle multinazionali del capitalismo globalizzato. Si è detto che la truffa della Volkswagen è stata scoperta quasi per caso da un funzionario dell’International Council on Clean Transportation che studiava le meraviglie della tecnologia tedesca, lavorando per un ente privato finanziato da privati. Non è credibile; la truffa esiste, ma probabilmente siamo di fronte a una competizione tra multinazionali per il ricco mercato nordamericano e il “Financial Times” ha documentato che al vertice dell’Unione europea si sapeva delle manipolazioni sin dal 2013 (e quindi lo si sapeva anche negli Stati Uniti, data la nota vicenda delle intercettazioni telefoniche), ma che non si poteva intervenire. Perché non si poteva? Al di là della normativa giuridica, la ragione di fondo è il condizionamento delle multinazionali sulle autorità politiche europee, come lasciava capire già nel 2014, all’atto dell’insediamento della commissione Juncker, una ricerca risultato del lavoro di 80 giornalisti di 26 Paesi, collegati nell’International Consortium of Investigative Journalist (Icij). Essi hammo spulciato per sei mesi 24.000 pagine di documenti riservati che documentano come trecento multinazionali si sono serviti del Lussemburgo come paradiso fiscale (evadendo le tasse nei Paesi ove operano) col sostegno del primo ministro dell’epoca, Jean Claude Juncker, divenuto nel frattempo capo della Commissione europea che impone il rigore fiscale e mette alla fame la Grecia perché non persegue gli evasori. L’inchiesta è presto caduta nel dimenticatoio, ma è questa subordinazione dei vertici dell’Ue ai poteri forti che alimenta la critica detta populista e induce i Paesi dell’Est a osteggiare gli immigranti in nome del nazionalismo, dopo che nel libro “Tempo guadagnato” (ed. Feltrinelli), Wolfgang Street, “non un estremista, ma uno dei più noti e stimati ’political economist’ mondiali, auspica come minor male “la fine del sistema monetario europeo” (Michele Salvati, con parere contrario, su “Il Mulino") col recupero di sovranità nazionali, così come un nostro studioso, di cultura riformista, del capitale finanziario, è giunto recentemente ad auspicare l’uscita dell’Italia dall’euro, in base all’art. 50 del Trattato (Luciano Gallino, “la Repubblica”, 22 settembre). Conclusione: o l’Europa diventa un soggetto politico, non più subalterno al potere forte delle multinazionali, ma in grado di controllarle (ed è dubbio che possa farlo l’attuale classe dirigente alla Juncker), oppure rischia di esplodere sotto le spinte convergenti degli scandali alla Volkswagen e dei populismi anti-immigrati dell’Est e delle ispirazioni indipendentiste, dalla Scozia alla Catalogna. di Giorgio GALLI Direttore Responsabile: Luigi Francesco Morrone In Redazione: Maurizio Galli SEDE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Roberto Cenati, Nicola Corda, Saverio Ferrari,Mimmo Franzinelli, Giorgio Galli, Maurizio Galli, Maurizio Orrù, Martina Parodi, Ferruccio Parri,PierLuigi Razzano, Theo Salpingidis, Filippo Senatore, Carlo Tognoli, Elisabetta Villaggio TIPOGRAFIA PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascista Chiuso in redazione il: 27/11/2015 finito di stampare il: 4/12/2015 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954