l’antifascista
fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini
Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 9-10 Settembre - Ottobre 2015
INTERVISTA AL NUOVO PRESIDENTE DELL'ANPPIA DI VENEZIA: FERMARE IL RAZZISMO CRESCENTE
AMOS LUZZATO: IO, UN EBREO DI SINISTRA
Amos Luzzato, Presidente dell’ANPPIA di Venezia
l'editoriale
EUROPA MALATA E IN
MANO AI “POTERI FORTI”
Lo dimostrano l’atteggiamento populistico anti-immigrati dei Paesi
dell’Est e il superscandalo della
Volkswagen
di Giorgio GALLI
Da un paio d’anni si è descritta una
Europa divisa tra un Nord di formiche operose e un Sud di cicale scialacquatrici. Ultimamente si è profilata un’altra divisione, tra un Ovest
disponibile ad accogliere migranti e
un Est che, dimentico dei benefici ricevuti dall’Ue, rifiuta egoisticamente
ogni disponibilità. Su questa Europa
divisa, ma che lo è in termini più
complessi, si è abbattuta la tempesta
Volkswagen, che contribuisce a chiarire la complessità, trascurata dai
media. Nell’ultima settimana di settembre le prime pagine dei giornali e
l' apertura dei notiziari televisivi non
è stata più dominata dalle immagini
di profughi investiti dai lacrimogeni
o ammucchiati nelle stazioni, ma da
anonime immagini di catene di montaggio e depositi di auto e dai volti
tirati dei dirigenti della prima delle
multinazionali tedesche.
segue in ultima pagina
di Gino MORRONE
Chirurgo, scrittore, docente universitario, profondo conoscitore della Bibbia e della
letteratura rabbinica, è stato a capo dell’Unione delle comunità ebraiche italiane
A
lla sua bella età, Amos Luzzatto esprime lucidità e cultura in ogni suo
ragionamento. Ecco che cosa mi risponde alla domanda sulla schedatura
dei piccoli rom fortemente sostenuta dalle formazioni politiche di
estrema destra, in primis la Lega: «Dove porta questa strada? Si comincia così e
poi si rischia di procedere con le classi differenziate, le discriminazioni diffuse,
l’allontanamento dalle scuole. Questo pesa terribilmente sul vissuto di un
bambino che si sente trattato diversamente dai suoi coetanei, vive come un
appestato, carico di ossessioni. È una ferita che dura una vita». Dalle discriminazioni alle altre persecuzioni il passo è breve: come ai tempi del nazifascismo,
davanti ai “nemici” si spalancarono porte raccapriccianti: le torture, le deportazioni, i lager, le camere a gas.
segue a pag 15
Guido Albertelli acclamato
Presidente onorario dell’Anppia
L’ingegner Guido Albertelli, presidente dimissionario per motivi di salute, è stato eletto per acclamazione Presidente Onorario dell’Anppia dal
la grande guerra
Il ricordo dal fronte
di M.FRANZINELLI
a pag. 5
Congresso Nazionale. Nel prossimo numero de “l’Antifascista” forniremo un
valiani
ampio resoconto dei lavori assembleari nel corso dei quali è stato eletto il nuo-
Il socialismo liberale
vo Presidente, il dottor Mario Tempesta, già Segretario generale dell’Anppia,
di C. TOGNOLI
a pag. 6
assieme al rinnovo delle cariche statutarie. È stato proprio Albertelli, nel segno
della continuità gestionale, a designare Tempesta come suo successore. Guido
Albertelli, da quando ne ha preso in mano le redini ha portato l’Anppia a risalire
il ricordo
la china fino a diventare un autentico baluardo dell’antifascismo in Italia. Oltre
Bersellini antifascista
ad aver messo in ordine i conti, ha rilanciato l’attività periferica lasciando al suo
di F. PARRI
a pag. 9
successore un’eredità piuttosto impegnativa. Un grazie di cuore a Guido dai dirigenti, dai collaboratori e dagli iscritti per aver fatto grande l’Anppia vincolandoci a veicolare con sempre maggiore intensità i valori su cui si fonda l’Anppia,
ingrao
valori irrinunciabili che sono contenuti nella nostra Costituzione, come libertà,
L'indomito lottatore
democrazia, uguaglianza, giustizia sociale. Caro Guido, faremo di tutto per non
di N. CORDA
a pag. 10
deluderti e contiamo molto sui tuoi illuminanti consigli. Ciao (g.m.)
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
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Mafia Capitale
L'OPINIONE
Su Marino una tempesta perfetta
Un' interessante analisi della situazione di Roma, tratta dal blog del giornalista Cristian Raimo su Internazionale.it
L
e dimissioni di Ignazio Marino
da sindaco di Roma hanno
funzionato negli ultimi giorni
da macchia di Rorschach. Un test
psicologico di base, in cui ognuno ha
visto quel che voleva. Sia chi l’ha
attaccato: i dirigenti del Partito democratico che hanno pensato di poterlo
finalmente scaricare (Matteo Renzi:
“Si è rotto il rapporto tra il Campidoglio
e la città”) e legittimare il potere di un
partito capace di sciogliere una giunta
e di accreditarsi come vero artefice del
cambiamento; il Vaticano con le sue
dichiarazioni ufficiali ferali (il cardinale Vallini: “Occorre ripartire dalle
molte risorse religiose e civili presenti a
Roma per realizzare la formazione di
una nuova classe dirigente nella politica”); i movimenti gentisti stranamente accomunati – pentastellati e
postfascisti come Fratelli d’Italia,
Casapound e Salvini – che si sono fatti
bandiera di un malcontento da popolo
degli onesti; i giornali – uno strano
connubio trasversale, da la Repubblica
al Tempo – che hanno condotto una
campagna contro il sindaco di una
violenza raramente usata, per farne
una macchietta impresentabile.
Ignazio Marino durante la campagna elettorale del 2013
Populismi contrapposti
Sia chi l’ha difeso: migliaia di
persone l’altro ieri al Campidoglio,
decine di migliaia a firmare petizioni perché ritirasse le dimissioni,
personaggi pubblici iper-romani –
Alessandro Gassman, Sabrina Ferilli
– a riconoscergli sui social l’onore
delle armi, a condividere l’elenco
delle gesta e a ritagliargli un profilo
eroico, da vittima sacrificale della
politica consociativa, della partitocrazia corrotta, dell’interventismo
vaticano. Mai come questa volta si era
visto un tale scontrarsi di populismi
contrapposti, di appelli alla piazza,
di retoriche emotive perfettamente
speculari.
come quella di domenica nata dall’iniziativa di tre ragazze su Facebook che non
solo hanno bypassato l’organizzazione dei partiti, dei movimenti e dei giornali,
ma che erano contro i partiti, i movimenti, i giornali (come ha ben colto Arianna
Ciccone): più spontanei dei grillini, più infiammati del Fatto Quotidiano.
Lo slogan con cui due anni fa vinse le elezioni – ‘Non è politica, è Roma’ – oggi
potrebbe suonare profetico.
Non ha importato nemmeno più entrare nel merito delle responsabilità che
sono state affibbiate a Marino – compresa la vicenda degli scontrini che è stata
quella fatale e che si è rivelata invece molto debole come accusa.
Il vento del gentismo ha soffiato e continua a soffiare in tutte le direzioni,
producendo una tempesta perfetta.
E anche le analisi che hanno provato ad analizzare il caso come specchio di
altro hanno peccato quasi tutte di autoverificazione, e forse si possono leggere
più come proiezioni che come diagnosi.
Matteo Orfini sul suo profilo Facebook e Antonio Polito sul Corriere della
Sera, per esempio, attribuiscono alla sudditanza nei confronti dell’antipolitica la
ragione principale della rovina di Marino: ci sarebbe voluta più competenza, fare
meno i “marziani” e fidarsi di più dei partiti.
Sandro Medici sul Manifesto vede in questa débâcle la fine della possibilità
delle alleanze del centrosinistra: “Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad
andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio,
oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino
si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che
resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente”.
Mattia Feltri sulla Stampa addirittura ritiene il sindaco, ormai ex, non troppo
colpevole ma martire di una città ingovernabile per le colpe degli stessi cittadini,
posseduti da una sorta di infernale genius loci: siamo gente – noi romani – irredimibile, che per natura insozza, parcheggia implacabilmente in doppia fila, se
ne frega del contesto civile.
Non mollare, vattene.
Pianti, indignazioni, solidarietà,
vittimismi, ritorno dei tribuni, cittadinanze attive. Mobilitazioni inedite
E potremmo continuare.
Il fenomeno Marino è complesso da analizzare, e l’esito politico e sociale che
ne scaturirà è ancora più oscuro da prevedere, perché l’orizzonte che ha aperto è
veramente tutto postideologico. Del resto, lo slogan con cui due anni fa vinse le
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Mafia Capitale
elezioni – “Non è politica, è Roma” – oggi potrebbe
suonare profetico.
Le persone sono divise tra quelle che possono
vivere la città, e votano a sinistra, e quelle che non
possono farlo, e votano a destra.
Ma se abbassiamo il volume ai toni da melodramma di questa opera disastrosa, possiamo
ricavarne qualche dato. Per farlo dobbiamo
puntare la lente sulle questioni che la contraddittoria esperienza di Marino ha lasciato sullo
sfondo: ossia quali sono le condizioni di Roma,
che città è, quali sono i suoi bisogni – al di là delle
“strade e i giardini da sistemare”, come scriveva
qualche giorno fa sull’Unità Matteo Renzi.
La città delle disuguaglianze
Molte delle riflessioni politiche più acute e
complessive fatte su Roma negli ultimi anni, da
quelle di Paolo Berdini a quelle di Francesco
Erbani, arrivano alla stessa conclusione: Roma è
una città con un tasso di disuguaglianza tale tra
centro e periferie per cui potremmo affermare
di avere a che fare con due città. Un interessante saggio di politica economica di Federico
Buzzi e Alemanno, entrambi coinvolti nell’indagine “Mafia Capitale”
Tomassi, Disuguaglianze, beni relazionali ed
elezioni nelle periferie di Roma conferma quest’idea con dati molto chiari. Per esempio? Il reddito medio pro capite di zone dai palazzinari, che s’impegnavano a
come Pinciano o Torrino è il doppio di quello di Torre Maura o Settecamini: finanziare servizi che poi alla fine non
quasi 30mila euro contro meno di 15mila.
hanno realizzato.
Ancora: in una città dove la popolazione è rimasta sostanzialmente stabile
Ancora: la mancanza di una rete di
(2,7 milioni) si è continuato a costruire moltissimo, ma paradossalmente c’è trasporti degna ha finito per certifistata un’insensata impennata nel costo degli affitti (e una conseguente spere- care la separazione delle due città, il
quazione), un progressivo spostamento degli abitanti verso la periferia esterna centro storico sempre più simile a un
al Grande raccordo anulare e i comuni della provincia (200mila tra il 1991 e il fondale (istruttiva la lettura che ne dà,
2007), la creazione di “una sconfinata periferia metropolitana”, un’urbanizza- in Gentrification, Giovanni Semi) e una
zione regionale ancora più sfilacciata, con nuovi quartieri circondati da terreni periferia immensa, uno sprawl indeagricoli e isolati fisicamente dal resto della città.
finito che non smette di morire sulla
A Roma, anche quando lo storico abusivismo edilizio si è ridotto (negli anni linea dell’orizzonte nell’agro romano.
settanta vivevano in case abusive circa 700mila persone), la trasformazione
Ma questa polarità non va intesa
urbana ha coinciso comunque con una cementificazione massiva e diffusa senza solo nel senso di una divisione tra
un progetto di città.
ricchi e poveri, ci tiene a evidenziare
E questo processo – va sottolineato – non è avvenuto per sviluppo spontaneo Tomassi, quanto piuttosto tra persone
o per mancanza di controllo, ma secondo un indirizzo politico che il penul- che possono vivere la città, farne
timo sindaco, Gianni Alemanno, ha avuto anche la sfrontatezza di battezzare esperienza, creare relazioni, costitu“moneta urbanistica”. Ossia, l’idea di ingrassare le casse del comune conce- ire una cittadinanza, e quelle che non
dendo sistematicamente nuovi permessi edilizi in cambio di microelargizioni possono farlo: perché abitano lontano
Tor Bella Monaca, periferia degradata di Roma
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Mafia Capitale
dai grandi e piccoli eventi, non usano i servizi pubblici di
alta qualità del centro (un museo, una biblioteca, un teatro,
i monumenti, le strade, quella grande bellezza che riescono
al massimo a vedere in dvd), sono forzati dell’automobile,
sforniti sia di servizi di base sia di spazi pubblici e collettivi.
L’indagine di Tomassi ci rivela un aspetto molto
eloquente: che finora i primi hanno votato a sinistra, i
secondi a destra; con scarti differenziali del 15 e del 20 per
cento proprio considerando questi parametri. Il centro, con
il suo Auditorium e le sue strisce blu, ha votato il centrosinistra, la periferia, senza piazze, che si affolla sui trenini
metropolitani inadeguati, ha votato il centrodestra. Ed è
molto probabile che questa tendenza si accentuerà.
La domanda politica che proviene dal basso è un’altra e la
giunta Marino l’ha intercettata purtroppo solo in parte.
Il consenso per il centrosinistra nei quartieri un tempo
popolari è stato e continua a essere eroso ogni giorno di
più. E questo perché c’è un’ampia fascia di persone che
sente di non avere accesso alla città, ostacolata nel reddito,
nella sicurezza del welfare, nei servizi, nei suoi bisogni di
relazione. Ecco che – considerata da questa prospettiva
– capiamo perché non ci dice molto, non chiarisce, non definisce delle aree politiche, la separazione tra sostenitori e
avversari di Marino, tra partitici e antipartitici, tra vecchie
e nuove facce, tra chi ama i marziani e chi apprezza coloro
che mantengono i piedi per terra.
La domanda politica che proviene dal basso è un’altra, e
la giunta Marino – che ha dato la priorità ai suoi sacrosanti
provvedimenti di lotta alla corruzione e alle sacche di abusivismo e illegalità – l’ha intercettata purtroppo solo in parte, e
non solo per limiti personali.
E la stessa cosa probabilmente accadrà a chi gli succederà, a cominciare da un inutile commissario per una città
alla quale finora non sono mancate le gestioni emergenziali
ma le visioni politiche, e soprattutto democrazia e luoghi di
partecipazione. È significativo che a questo tipo di conclusioni arrivi chi – cercando più l’analisi che il consenso a tutti
i costi – ha avuto a che fare con l’amministrazione pubblica
e con le sue sclerosi.
Qualche giorno fa, con un tempismo quasi paradossale,
Flavia Barca, ex assessora della prima giunta Marino, ha
pubblicato un ebook, Le politiche culturali a Roma, in cui tra
le molte cose interessanti sottolinea chiaramente un’evidenza: che occorre un metodo per capitalizzare quello che
si muove accanto, oltre, sotto, anche contro, la politica dei
partiti, altrimenti quest’energia sarà dispersa o arriverà a
tramutarsi in un ribollire di sterile rancore. Il tema della fiducia è importante nella costruzione delle politiche pubbliche.
È difficile distinguere il grano dal loglio. Ovvero i cittadini
attivi desiderosi di mettere la propria esperienza a servizio
dell’amministrazione e contro coloro che premono per favori
e privilegi.
Il libro di Barca ha varie affinità con un altro ebook, scritto
dal politico Walter Tocci, vicesindaco della prima giunta
Rutelli, ma soprattutto ultimo amministratore intellettuale
che ha continuato negli ultimi vent’anni a cercare di capire
i mutamenti profondi di questa città (rileggete la bellissima
intervista che gli fece qualche anno fa Francesco Raparelli).
Tra le varie considerazioni che mette in fila nel suo Roma,
non si piange su una città coloniale ce ne sono almeno tre
che dovrebbero comporre l’ordine del giorno di qualunque dibattito politico a cui assisteremo nei prossimi mesi in
attesa di un nuovo sindaco.
Primo: non è rimandabile una cura del ferro per i trasporti
(come sta avvenendo per esempio a Napoli, o come era stata
elaborata nel precedente libro di Tocci Avanti c’è posto)
Secondo: occorre immaginare una nuova forma amministrativa – la regione capitale – che sostituisca il comune, la
città metropolitana e la regione: Roma è di fatto una città
che ha antropizzato un’area grande quanto il Lazio ormai,
e queste tre macchine amministrative si sovrappongono e
sono tutte e tre inefficienti e inceppate.
Soprattutto si eliminerebbe il macigno del Comune di
Roma che ha sempre bloccato la trasformazione urbanistica
espellendo frammenti di periferia al suo esterno. Questo è
il vincolo che da trent’anni impedisce una pianificazione
dell’area metropolitana romana. L’amministrazione capitolina è troppo piccola per governare i processi sociali ed
economici che ormai hanno travalicato i suoi confini, ma
è troppo forte politicamente per lasciare che siano gli altri
livelli istituzionali a pianificare l’area vasta.
Terzo: pensare Roma come un grande laboratorio culturale e intellettuale. Tocci cita addirittura il programma
di Quintino Sella, il ministro ottocentesco che voleva fare
della nuova capitale il luogo del cozzo delle idee, un grande
centro di università, di accademie e di strutture di produzione del sapere moderno.
Certo, per questo tipo di ambizione è necessaria un po’
di speranza e non solo questa grande risacca di risentimenti contrapposti.
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La Grande Guerra
Un bel libro controcorrente annuncia: “Brillerà il bel sole della pace” e restituisce il senso e il gusto della memoria
RACCONTI DAL FRONTE E DAI CAMPI DI PRIGIONIA
di Mimmo FRANZINELLI
I
l volume di Antonio Stefanini
Brillerà presto il bel sole della
pace si pone controcorrente
rispetto alle monografie di storia
locale, celebrative di piccole patrie con
surplus di retorica e deficit di verità.
L’Autore – studioso delle tradizioni
dell’Alta Valcamonica, nonché biografo
dello scienziato Camillo Golgi – sceglie
un tema intrigante, combinando la
ricerca di documenti e immagini con la
raccolta di testimonianze orali. Il libro
esamina l’impatto sulla comunità
locale delle guerre combattute tra il
1940 e il 1945 in Francia, Africa,
Grecia, Russia, Jugoslavia... Ne sono protagonisti i combattenti (loro malgrado)
di tante battaglie, legati da tenaci fili sottili alla propria comunità. Il ricordo e il
contatto con la terra d’origine restituisce loro forza e vitalità, come al mitico
gigante Anteo.
Il sottotitolo «Memorie dal fronte e dai campi di prigionia frammiste a storie
di civili e di ribelli, intorno alla 2ª guerra mondiale» evoca l’alternanza tra la
prospettiva dei militari e il retrofronte camuno. Nella prima sezione campeggia
la guerra di Russia. L’odissea alpina conduce dalla steppa al Lager o alla Resistenza, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il volume dispiega una galleria
di antieroi, impegnati nel «portare a casa la ghirba» conservando i valori della
civiltà contadina, riassumibili nel mantenimento di una dimensione di umanità
dentro la guerra.
In filigrana, compare la vita civile: «a casa si falcia e si fa il pane, tra ansia e
paura». Accanto alla massa dei personaggi (apparentemente) anonimi, convivono figure entrate nella grande storia. C’è chi, come la fiamma verde cortenese
Giovanni Venturini, otterrà la medaglia d’oro alla memoria, per il comportamento
eroico dinanzi ai suoi torturatori della Legione Tagliamento. Apprendiamo
come si salvò a stento nella ritirata di Russia, grazie al supporto del commilitone Battista Stefanini (padre dell’Autore); quando, dopo l’armistizio, Stefanini
verrà internato in un Lager del Reich, Venturini salderà il debito di riconoscenza
inviandogli pacchi con generi di conforto, importante supporto contro il deperimento organico.
Di grande equilibrio la ricostruzione del «caso Menici», il tenente colonnello degli alpini ucciso il 17 novembre 1944 nei pressi dell’Aprica in circostanze
terribili: sulla base di testimonianze dirette, il volume sostiene «che a sparare al
colonnello non sono affatto i tedeschi, né uno dei due che lo scortano», ma un partigiano del luogo: è la «tesi, a Corteno da sempre ripetuta a mezza bocca, che si tratti
di una vera e propria messinscena per eliminare, sviandone le responsabilità, lo
scomodo prigioniero garibaldino».
Tra le storie d’emigrazione, campeggia quella di Giacomo Corvi. I passaggi in
Svizzera sono intervallati nel 1951-52 dalla naja a Merano, dove ha quali istruttori
di roccia i coetanei Walter Bonatti e Carlo Mauri (figure leggendarie dell’alpinismo), compagni di cordata sul Gran Zebrù.
L’Autore contestualizza le fonti d’epoca e raccomanda di non prendere alla lettera
le frasi di rassicurazione scritte dal fronte o dalla prigionia: l’autocensura affettiva
vela l’amara realtà; quegli epistolari devono essere attentamente interpretati, nelle
sfumature e nella sfera sentimentale più che nella dimensione fattuale.
Ulteriore pregio del libro è l’attenzione filologica al dialetto, ai soprannomi,
ai multiformi reperti di una civiltà agricola al tramonto, di cui Stefanini coglie
gli estremi bagliori. La scorrevolezza del racconto è intervallata da stralci
diaristici e trascrizioni di interviste ai
depositari di esperienze e tradizioni
collettive. Cronaca spicciola e grande
storia si combinano in una felice
narrazione, arricchita da una quantità di fotografie: vediamo le fattezze
di ogni personaggio, immortalato tra
i commilitoni al fronte e a casa con
gli amici. Tra i più curiosi reperti, vi
sono i cartoncini dei reduci dai Lager:
«I fratelli Corvi Giacomo e Giuseppe in
memoria dei suoi giorni di sofferenze in
Germania fatti prigionieri il 9/9/1943»,
si legge nell’ex voto che illustra la via
crucis dei redivivi.
La ricchezza di situazioni e di profili
personali è il variegato affresco di una
comunità alpina che – nel momento
più difficile – sprigiona antidoti in
grado di proteggerla dalla bufera
bellica. A distanza di settant’anni,
queste 350 pagine restituiscono il
senso e il gusto della memoria, in un
appassionato tributo a troppe vite
spezzate, scritto con gratitudine,
senza agiografia né retorica. Il titolo
del volume è ripreso dalla lettera
scritta il 22 aprile 1942 dall’alpino
Gregorio Canti alla madre: «Brillerà presto il bel sole della pace, ogni
cuore chiuderà in sè quella gioia particolare come oggi chiude la tristezza.
Non più le labbra delle povere mamme
si apriranno in pianto, ma si vedrà in
esse il dolce sorriso di felicità, e parole
di conforto sortiranno d’ogni bocca».
Canti non rivedrà il sole della pace:
partigiano delle fiamme verdi, sarà
fucilato a Edolo, l’11 aprile 1945, dai
fascisti della Tagliamento.
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Personaggi
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Personaggi
Intellettualmente irrequieto venne definito “anima di fuoco”
IL SOCIALISMO LIBERALE DI LEO VALIANI
La sua intransigente opposizione al terrorismo e alle Brigate rosse schierandosi con il Presidente Sandro Pertini
di Carlo TOGNOLI (sindaco di Milano dal Maggio 1976 al Dicembre 1986 )
R
icordare periodicamente personaggi come Leo Valiani, espressione dell’antifascismo democratico, fa bene all’anima e al cuore.
Politico, giornalista, storico, ‘padre
della patria’, Valiani fu socialista, comunista, socialista liberale nel Partito d’Azione, indipendente nel PRI da senatore
a vita. In realtà fu sempre se stesso, non
classificabile se non come democratico
che attraversò criticamente il marxismo
stimolato dall’aspirazione alla giustizia
sociale e all’uguaglianza per il mondo del
lavoro, che combatté l’oppressione fascista, che lasciò il comunismo dopo il patto
Ribbentrop-Molotov, che approdò a ‘GL’
alla vigilia della guerra, senza mai perdere
la bussola della libertà.
Amico di tanti personaggi dell’antifascismo, due volte arrestato nel 1928 e nel 1931,
consolidò tra gli altri un rapporto stretto
con Sandro Pertini (con il quale fece parte
del CLNAI) con Aldo Garosci, con Franco
Venturi, con Ernesto Rossi, con Umberto
Terracini, con Altiero Spinelli, con Ugo
La Malfa, con Giovanni Spadolini, con
Raffaele Mattioli e molti altri.
L’attività svolta nell’ambiente di
Mediobanca e della Banca Commerciale
per molti anni gli fecero acquisire una notevole competenza nel campo economico,
che si aggiungeva alla sua grande cultura
storico politica.
TURATI
Il suo richiamo al socialismo democratico è costante. La sua esperienza comunista, sfociata nel socialismo liberale, non gli
impedì di fare un percorso simile a quello
di Carlo Rosselli il quale, pur attratto dal
riformismo turatiano, ideologicamente e
metodologicamente condiviso, ne scorgeva
le insufficienze sul piano dell’azione politica.
Il saggio dedicato da Valiani a Filippo
Turati per il 70° della Critica Sociale –
“Turati e la sintesi delle tendenze risorgimentali”– è il ritratto di un ‘leader’ legato
al suo tempo, ma al quale si deve la nascita
e la crescita del socialismo in Italia e il progredire della democrazia.
Valiani critica l’eccessiva fiducia di
Turati nella ‘non violenza’ e nella forza
educativa del riformismo, riconoscendogli tuttavia di avere propugnato, da solo,
‘un’azione audacÈ proprio dopo il delitto
Matteotti e, in ogni caso, condividendo
la superiorità della politica delle riforme
sull’azione violenta:
“… Nessuno più di lui ha incarnato la
generosità e la capacità di aiutare ed educare i bisognosi, di costruire un assetto più
libero e giusto del precedente e insomma
di fare del bene sulla via del progresso
nonostante ogni contraddizione”. Già nel
1957 nel centenario della nascita di Turati
(Il contributo al progresso della società
italiana) Valiani aveva scritto sulla Critica
Sociale, richiamando autorevoli giudizi di
Antonio Labriola, di Benedetto Croce, di
Vilfredo Pareto e di Gaetano Salvemini,
che il partito socialista “… sotto la guida
effettiva di Turati aveva agito come un
movimento di lotta per la democrazia liberale…”. E ancora - dopo avere richiamato
la tiepidezza ‘turatiana’ sulla trasformazione del ‘mezzogiorno’ d’Italia (la stessa
critica che muoveva Gaetano Salvemini)
e constatata la impossibilità per Turati di
partecipare ai governi guidati da Giovanni
Giolitti (per attuare e gestire le riforme
democratiche e sociali) a causa dell’ostilità
della maggioranza massimalista del PSI
- Valiani ricorda la lungimiranza del fondatore del PSI a proposito della rivoluzione
bolscevica (che solo nei primi mesi suscitò
il suo interesse, tramutato presto in giudizio nettamente negativo) e cita il giudizio
profetico che diede nel 1919 (congresso di
Bologna) sulla maggioranza massimalista
che aveva abbracciato, a parole, i Soviet: “…
è una farsa che peraltro può tralignare in
tragedia, preparando i tribunali di guerra,
la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non solo sotto la
compressione militarista, ma sotto l’ostilità di tutte le classi medie…”.
UN’ANIMA DI FUOCO
La figura di Valiani, ovviamente con le
debite differenze che esistono tra personalità di grande talento, può essere avvicinata
a quelle di Carlo Rosselli e di Pietro Nenni,
un ‘mix’ di socialismo, di ‘libertarismo’ e di
passione democratica. Non è un caso che,
approdato a Milano imberbe, nella temperie
del 1926, si sia avvicinato alla redazione del
‘Quarto Stato’, diretto da Rosselli e Nenni,
cui collaborava anche un giovanissimo
Giuseppe Saragat.
Riccardo Bauer lo definì “un’anima
di fuoco”, il che dà un’idea immediata
dell’uomo, del suo carattere, della sua irrequietezza intellettuale, dei suoi molteplici
interessi culturali.
Va riconosciuta a Valiani la capacità di
avere visto lontano quando lasciò definitivamente il comunismo in occasione del patto
di non aggressione tra URSS e Germania
nazista. Per la verità già durante la guerra
di Spagna era rimasto colpito dalla spregiudicatezza con cui i comunisti si muovevano
nel sia pur disordinato campo repubblicano:
l’obbiettivo degli stalinisti non erano la democrazia o il socialismo in Spagna, ma gli
interessi dell’URSS come potenza.
Nella sua biografia emergono episodi,
della sua vita di nomade democratico antifascista, assolutamente avventurosi ed eroici,
come la sua decisione di non distinguersi
dai comunisti, allorché venne arrestato
in Francia dopo la guerra di Spagna (pur
avendo preso le distanze dal partito) per
non apparire ‘opportunista’. Ciò lo avrebbe
portato nel campo di concentramento di
Vernet (Pirenei) dove avrebbe fatto la conoscenza di un altro comunista in crisi, Arthur
Koestler del quale avrebbe letto, per primo,
‘Buio a mezzogiorno”.
Nel secondo dopoguerra, pur parteggiando senza esitazioni per la sinistra e
scevro di anticomunismo ‘visceralÈ, egli
non approvava la stretta alleanza del PSI
con il PCI, scrivendo (Gli sviluppi ideologici
del socialismo democratico in Italia-1952)
che “... questa alleanza socialista-comunista
poteva contare su una parte del proletariato,
ma contro di esso si schieravano compatti, di
nuovo, la media e la grossa borghesia… si sarebbe tornati alla situazione del 1920…” con
la differenza che i socialisti avrebbero perso
due volte, una con la sconfitta del ‘FrontÈ
e un’altra all’interno della coalizione con i
comunisti.
Un’analisi perfetta dell’esito delle elezioni
del 1948, quando il ‘Fronte PopolarÈ subì
una netta sconfitta e il PSI dimezzò i suoi
voti: dal 20,7% delle elezioni del 1946 per la
Costituente a circa il 9% dei deputati eletti
nel ’48.
REPUBBLICA PRESIDENZIALE
D’altra parte il suo giudizio sul quadro
politico italiano era molto preciso. Dopo
avere osservato che la DC non era un
partito liberal-conservatore (come altri in
Europa) - “… per la sua tradizione, la sua
ideologia, i suoi legami con la chiesa e con
le organizzazioni sindacali… ” aggiungeva
che “… manca in Italia un grande partito
socialdemocratico… ” - per il prevalere
troppo a lungo del marxismo (all’italiana)
che ha impedito che si creasse in Italia un
partito di democrazia socialista non leninista, lasciando spazio a sinistra alla forza
preponderante del partito comunista.
Non va dimenticato che, deputato alla
Costituente, esponente del Partito d’Azione, Valiani fu un fervido sostenitore
della necessità di tornare alla democrazia
repubblicana parlamentare, ma con un
esecutivo forte.
Come Piero Calamandrei anch’egli riteneva che un ‘parlamentarismo’ inconcludente avrebbe determinato paralisi e nuovi
rischi per la democrazia e fu quindi fautore
di una ‘repubblica presidenzialÈ che desse
al rappresentante eletto dal popolo, la forza
del potere democratico.
“…Fui io a scrivere, nell’aprile 1946, il manifesto elettorale del Partito d’Azione che
propugnava la soluzione presidenzialista
come quella che avrebbe potuto garantire
meglio sia la forza riformatrice dell’esecutivo, sia l’alternanza… ”.
Tra le sue ‘amiciziÈ vanno particolarmente sottolineate quelle con Ernesto
Rossi, con Pertini, con La Malfa e con
Spadolini,
Il primo lo trascinò alla fondazione del
partito radicale nel 1955, che peraltro vedeva la presenza del gruppo de “Il Mondo”
e dei liberali guidati da Villabruna. Qui
rimase per un paio di anni, auspicando un
ricompattamento delle forze socialiste e
laiche, da lui ritenute fattore innovativo per
la politica italiana, per bilanciare lo strapotere della DC e favorire le condizioni per le
riforme, che sarebbero arrivate solo con il
primo centro sinistra di Fanfani e Nenni,
nel 1962.
Pertini lo nominò senatore a vita permettendogli di riprendere un’attività
parlamentare (come indipendente nel
PRI) interrotta nel 1948, dopo l’esperienza
dell’Assemblea Costituente.
La vicinanza con La Malfa e con Spadolini
caratterizzò la seconda parte della sua vita,
sia come giornalista commentatore del
‘Corriere della Sera’ che come senatore nel
gruppo repubblicano.
A La Malfa era legato, tra l’altro, da una
comune sensibilità sui problemi economici.
Emerge nei commenti sulla situazione economica di quel periodo, ma anche dopo, la
preoccupazione che non venisse innescata
la spirale ‘prezzi-salari’ pur nella convinzione che i salari dovessero essere adeguati,
per favorire il mercato interno e per ragioni
sociali, ma in proporzione alla produttività.
I segni dell’amicizia con Spadolini
sono molteplici, ma quello simbolico è la
trentennale collaborazione a “La Nuova
Antologia”.
Durante il sequestro Moro si espresse
per la linea della fermezza, come del resto
Nenni e Pertini: la loro esperienza generazionale e il loro carattere non ammettevano
alcun compromesso con i terroristi.
INTRANSIGENTE VERSO IL
TERRORISMO
E infatti di fronte al terrorismo Valiani
fu intransigente quanto lo era stato contro
il fascismo e criticò il ‘rovinoso lassismo
e i pavidi cedimenti davanti alle infinite
violenze nere e rossÈ della classe politica.
Apprezzò l’atteggiamento di Pertini, il cui
ingresso al Quirinale aveva determinato
una svolta nella lotta al terrorismo, con
risultati evidenti. Il presidente, affermava
Valiani (‘La svolta Pertini - 1982') “… ha
avuto il merito di denunciare (tra lo scetticismo prevalente) gli aiuti internazionali
che il terrorismo riceveva… ” dalla Libia,
dal Libano, dai palestinesi, con l’interessamento di paesi dell’Est europeo alle
Brigate rosse.
La sua vita è stata un esempio di amore
per la libertà e per la causa degli oppressi
e di disinteresse personale. Il suo percorso
politico ideologico è stato coerente con
i suoi princìpi e con i suoi ideali di democratico convinto, mai fazioso, sempre tollerante, disponibile, salvo che con gli arroganti, con gli autoritari, con gli intolleranti.
Nella prefazione a ‘Scritti di storia’
(Sugarco, 1983) dice di se stesso e della
sua cultura storico politica: “… Il mio marxismo non era ortodosso. Le critiche di
Benedetto Croce al materialismo storico
non mi parevano facilmente confutabili.
Gli scritti di Croce, di Guido De Ruggero
e Adolfo Omodeo e, in questioni economiche, di Vilfredo Pareto, di Luigi Einaudi e
degli altri grandi economisti italiani, mi
rendevano familiare il pensiero liberale
più maturo… ”
“… il movimento socialista dovrebbe
andare nel senso di un socialismo liberale, che sappia scartare le tentazioni di
nazionalizzazioni o autogestioni classiste
anacronistiche e puntare su una programmazione sovranazionale, resa compatibile
con la libera economia di mercato e col rispetto e la difesa delle libertà politiche…”.
E davanti all’ipotesi del diradarsi della
classe operaia in conseguenza dell’avvento
della società postindustriale automatizzata e robotizzata: “… Potrebbe rimanere
egualmente viva ed immortale l’aspirazione alla comunanza, alla solidarietà, alla
giustizia, le versioni socialistiche della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza…
ereditate dalle rivoluzioni democratiche
borghesi e da tutta la storia dell’incivilimento umano”.
8
Politica
Centro destra, avanti in ordine sparso
L’ASCESA DELLE DESTRE POPULISTE IN ITALIA E L’ABBANDONO
DELL’INDIPENDENTISMO PADANO NELL’ORIZZONTE DELLA LEGA
di Saverio FERRARI
L
a caratteristica principale del centro-destra attuale
sembra sempre più essere quella dell’avanzare in
ordine sparso. Senza una leadership riconosciuta, la
concorrenza fra le diverse componenti tende per altro ad
acuirsi. La fotografia è presto fatta.
Da una parte l’ala radicale, rappresentata dalla Lega, sondaggi alla mano, che rivendica sull’insieme dello schieramento il bastone del comando, dall’altro Forza Italia in crisi
di identità e prospettive, erosa da continue defezioni parlamentari, in attesa di essere resuscitata da un Berlusconi redivivo.
A spalleggiare la Lega, insieme a Casa Pound, si pongono
i Fratelli d’Italia, nello sforzo di conquistare consensi, investendo sulla xenofobia e sulla paura dello “straniero”. In
assenza di una modifica dell’Italicum, ovvero della nuova
legge elettorale, che obbligherebbe, per ambire al ballottaggio nelle elezioni politiche, la presentazione di una lista
unica, i problemi potrebbero ulteriormente complicarsi.
In realtà in discussione sono ormai i confini stessi del
centro-destra. Il gruppo dei cosiddetti “verdiniani”, resisi
autonomi in Parlamento da Forza Italia, tredici componenti
al Senato, sono nei fatti già confluiti nell’area di Governo.
Il loro voto a sostegno del disegno di legge che modifica
la Carta costituzionale ha rappresentato una novità di non
poco conto. Il Nuovo centro destra, dal canto suo, collocatosi fin dall’inizio a sostegno di Matteo Renzi, pur attraversato da profonde divergenze, ben difficilmente tornerà a far
parte del centro-destra.
Tanto più dopo l’ostracismo della Lega, che rifiuta con questo partito ogni alleanza, minacciando rotture anche a livello locale, come in
Lombardia. Ultimamente nell’orbita renziana
si stanno anche accomodando i rappresentanti in Parlamento di Fare! (tre senatori e
quattro deputati), ovvero i transfughi leghisti del sindaco di Verona Flavio Tosi, che,
dopo essersi astenuti sul ddl Boschi sulla
riforma costituzionale, candidamente
dichiarano di guardare al “partito della
nazione”.
In una recente intervista al «Corriere
della sera», lo stesso Tosi ha affermato
che «il dialogo» è aperto.
Più che di centro-destra, in conclusione, dovremmo ormai parlare di un’area politica di destra
decisamente populista e sbilanciata verso le estreme.
L’appartenenza, in Europa, di
ciascun partito che la compone a
gruppi parlamentari diversi rende
oltretutto evidenti le disomogeneità
riguardo il giudizio sulla UE, con
Filip Dewinter, uno dei leader di Vlaams Belang, partito xenofobo belga
Forza Italia nel Partito popolare, la Lega nell’Alleanza europea per la libertà (Eaf), insieme al Front national francese
e ai razzisti belgi del Vlaams belang. Il futuro si presenta
dunque assai incerto. La Lega, per altro, dopo la svolta “nazionalista”, si prepara ad altre scelte, destinate a mutarne
definitivamente l’identità. Nell’ultimo consiglio federale di
ottobre, nell’annunciare un congresso straordinario per febbraio-marzo del prossimo anno, si è apertamente parlato di
“sacrificare” l’articolo 1 dello statuto della Lega, quello
sull’“indipendenza della Padania”.
L’indirizzo è ormai verso “un partito degli italiani”. Il vecchio spadone di Alberto da
Giussano verrebbe dunque posto in soffitta.
Un passaggio a suo modo epocale. Intanto
l’operazione “Noi con Salvini”, studiata per
favorire la penetrazione della Lega nel centro-sud, procede. I sondaggi al momento
sembrano essere confortanti.
Le elezioni amministrative della prossima primavera in alcune grandi città, Roma,
Napoli e Milano in particolare, rappresenteranno un indubbio banco di prova
anche per le destre. Lo sfacelo di
Roma, divenuta emblematicamente la rappresentazione del
degrado morale dell’intero nostro ceto politico, potrà riservare sorprese in più direzioni.
Le destre populiste ed estreme
ritengono di poter essere della
partita.
9
Personaggi
GUIDO BERSELLINI, UN ANTIFASCISTA MARTINETTIANO
di Ferruccio PARRI
C
on Guido Michele Bersellini Rivoli, nato a Milano il 23 gennaio 1920 ed ivi
deceduto il 4 novembre 2013, spirava uno degli ultimi esponenti di quella tipica borghesia milanese illuminista ed illuminata e per quel che mi riguarda direttamente,
uno degli ultimi amici della famiglia paterna, sicuramente uno tra gli ultimi fedeli seguaci di
mio nonno, se non proprio l’ultimo. Con Guido abbiamo sempre avuto un’amicizia affettuosa. I miei raccontavano divertiti le sue discese automobilistiche a Roma in compagnia di uno
dei suoi inseparabili cani, a cui era destinato l’intero sedile posteriore della vettura. Guido
proveniva da una famiglia di tradizioni risorgimentali; un suo avo, Alessandro Repetti, fu il
proprietario della famosa e altrettanto gloriosa tipografia Elvetica di Capolago, la tipografia-editrice, che specialmente negli anni tra il 1847 e il 1853 fu tra i più significativi strumenti dell’azione e centro ideale di riferimento dei patrioti e degli esuli mazziniani e federalisti.
Tipografia presso la quale Carlo Cattaneo lavorò, diventandone per un periodo il direttore, al
suo progetto di Stato Federale. Il padre di Guido fu un celebre editore, proprietario del quotidiano “Il Sole” che la famiglia mantenne fino al 1954, allorché lo vendette per la successiva
fusione con l’altro quotidiano economico 24 ore, che diede luogo appunto al Sole 24 ore.
Mio padre raccontava che tanti tra i migliori giornalisti economici si formarono alle dipendenze del papà di Guido, che era un datore di lavoro tra i più esigenti. Tuttavia, l’aver svolto
a quei tempi un periodo di pratica presso il Sole costituiva una garanzia per l’ottenimento di
un lavoro presso i più importanti quotidiani italiani.
Guido fu anche il vicedirettore, per un certo periodo, del Sole, per poi abbracciare la
professione forense esercitata nel capoluogo lombardo. Aderì al Partito d’Azione, successivamente consigliere provinciale per due mandati con il Partito Socialista.
Autore di saggi storico-politici tra i quali quelli pubblicati nei volumi “Antifascisti perché? Ricordi e riflessioni di tre giovani degli anni Trenta”, 1983 e “il Riscatto 8 settembre 43,
25 aprile 45”, 1988. “Appunti sulla questione ebraica”, 2009.
Scrittore di Saggi filosofici quali “il fondamento eleatico della filosofia di Piero Martinetti",
1971, “La fede laica di Piero Martinetti", 2005.
Piero Martinetti, come è noto, fu uno dei 12 professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista per non venir meno ai dettami della propria coscienza. Ancora voglio ricordare la donazione del 2009, in occasione dell’istituendo Centro
Internazionale Insubrico, dell’Archivio Cattaneo conservato da tempo immemorabile dai
Bersellini, oltre ad altre pubblicazioni originali che compongono l’archivio Bersellini del
suddetto Centro.
Per anni Vicepresidente e Presidente Vicario della nostra FIAP, membro della sezione
lombarda della Società Filosofica Italiana.
Guido, studente di Giurisprudenza, conobbe, suo malgrado, anche le regie galere per
aver partecipato con Luciano Bolis e altri giovani ad una cospirazione antifascista.
Condannato nel 1942 a tre anni di carcere fu liberato nell’agosto '43 con la caduta del
regime. Anche mio nonno fu inquisito nel medesimo processo, ma venne assolto per mancanza di prove. L’attività cospirativa si era estrinsecata nella diffusione di un libro scritto
da un ex ambasciatore inglese “Missione fallita”, divulgato con una prefazione violentemente antifascista.
A giudicare era il famoso Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, vieto organismo giudiziario che in quegli anni così bui, comminò svariate decine di anni di galera e
purtroppo anche diverse condanne a morte.
Quindi, sussisteva un certo pericolo. Gli imputati rispondono seccamente e pacatamente
alle domande. Vengono quasi tutti condannati. Parri, come detto, assolto.
In realtà l’amicizia tra il giovane Guido e il già maturo Maurizio, era sorta prima del
detto processo, alla fine degli anni '30 o ai primi '40, quando mio nonno lavorava alla
Edison. Mi raccontava Guido come si incontrassero dalle parti di Foro Bonaparte, presso
un chiosco che vendeva le caldarroste comprate dal nonno per la famiglia, in particolare
per il figlio Giorgio.
Guido prosegue nell’attività antifascista, nelle formazione di Giustizia e Libertà e
di questo dà conto Luigi Santucci nel primo tra i saggi sopra citati, “percorrendo le valli
partigiane sempre però con quella calma un po’ trasognata e quasi distratta, con quell’inclinazione a smemorarsi nel pensiero, a citar autori, a sillogizzare, che non mi meraviglierei lo
avesse ispirato quando - con una temerarietà cha ancora oggi nel ripensarvi mi agghiaccia,
Bersellini, da una foto del fascicolo del CPC,
con uno dei suoi amati cani
- sotto falso nome e falsi documenti, riuscì
a farsi trasportare da una località all’altra
dei nostri maquis a bordo di una jeep della
Wehrmacht, tra i nazistoni grintosi e armatissimi, gabbati dal suo aspetto di bravo ragazzo benpensante e coi quali mi resta ancor
oggi l’ameno sospetto che lui nel suo buon
tedesco, si sia avventurato a fare l’apologia
di Martinetti”.
Da dove nasce l’antifascismo di Guido?
In piena consonanza con quello respirato
in famiglia, insegnato da Parri, da Rosselli
e dal suo Martinetti, è una rivolta di tipo
morale, un istinto inestirpabile perché radicato nello spirito.
Non ci sono rivendicazioni di classe,
sociali, nel suo antifascismo, sebbene contempli forte e sollecita attenzione verso
i meno favoriti dalla fortuna, non è di natura confessionale, ma è in un certo senso
religioso, di una religiosità civile che trova
nella coscienza individuale, “nell’essere in
pace con se stessi”, la propria matrice.
“La propria coscienza”, per usare le
parole di Martinetti indirizzate all’allora
Ministro
dell’Educazione
Nazionale,
Balbino Giuliano, che “costituisce la sola
luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita”.
Ricordiamo, l’abbiamo già accennato, l’amore per gli animali. Mi regalò il suo primo
libro e nella lettera di accompagnamento,
scrisse: “tanti cari saluti a tutti, cani e gatti
compresi”.
Non uomo, ma, casomai, animale martinettiano, ebbe a definirsi, con la consueta
ironia che lo ha sempre contraddistinto.
10
Il Ricordo
Crisi Greca
ADDIO A PIETRO INGRAO, UNA VITA A CAMBIARE QUELLO CHE NON VA
Soleva dire: indignarsi non basta. Anche a cento anni, era giovane e contemporaneo
di Nicola CORDA
TSIPRAS E UNA VITTORIA A METÀ. TRA I RICATTI
DELLA TROIKA E LA FIDUCIA A TEMPO DEL POPOLO GRECO
di Theo SALPINGIDIS
S
i faceva accompagnare alle
manifestazioni in motorino, non
rinunciava mai. Le ultime volte
che ho incontrato Pietro Ingrao lo
vedevo arrivare felice di partecipare,
una volta in più per dare il suo contributo, per pronunciare anche poche
parole e dire che “si deve trovare il
modo di cambiare il mondo, cambiare
quello che non va, indignarsi non
basta”. Quella passione assillante per
Ingrao si potrebbe riassumere in
questi pochi tratti: “politica come
vita”, ha raccontato il suo amico
Alfredo Reichlin, ricordandolo
nell’ultimo saluto davanti al palazzo
di Montecitorio. Cento anni tutti a
sinistra a cavallo dei due secoli.
Passano per due guerre mondiali, la
rivoluzione russa, fascismo e nazismo,
una vita politica piena, fino all’ultimo.
Politica che lo ha rapito quando,
da allievo regista del Centro sperimentale di cinematografia decise di
schierarsi. Era il 17 luglio del 1936,
Francisco Franco attraversò Gibilterra
e invase la Spagna. La lotta di classe
divenne “punto centrale della mia vita,
il primo dovere, la prima speranza: la
lotta per cacciare i padroni”. La guerra
di Resistenza alla quale partecipò attivamente, arrivò che Ingrao faceva
già parte di alcuni gruppi clandestini.
Poi, l’alba della Repubblica, la fascinazione per la costruzione dello Stato
democratico ma anche quella valigia della rivoluzione sovietica che si
portava appresso. “Lo stalinismo è
stato un errore così grande che è bene
ribadirne il rigetto” disse quando
l’età gli restituì “il peso del più grande
errore della mia vita”. Però, Ingrao lo
sapeva anche da giovane che la libertà
era un valore non negoziabile. “Il
comunismo non può essere lo Stato che
fa il bagnino”, commentò durante un
viaggio nella Cuba castrista, quando
vide gli stabilimenti balneari di
proprietà dello stato-partito. In tutta
la sua storia politica l’esercizio del
dubbio per Ingrao è stata una pratica
costante ma mai sterile: il suo non
era scetticismo, voleva capire. Dentro
il Pci quel ruolo lo ha perseguito da
subito, un approccio con la realtà
che lo circondava, che ha rafforzato
da giornalista all’Unità, prima come
semplice cronista nella fase clandestina, poi da direttore per dieci anni
dal ’47 al ’57. La repressione dell’Urss
che schiacciò la rivoluzione ungherese fu l’altro grande abbaglio di cui si
pentì. Proprio sul giornale del partito
scrisse l’editoriale “Da una parte della
barricata in difesa del socialismo”. Fu
un errore, motivato chissà dall’eccessiva pratica di coerenza ostinata.
Perché non lo spostavi facilmente
Ingrao, per convincerlo servivano
argomenti forti. Quelli che non sentì
nel ‘66 al XI congresso del Pci (il
primo orfano di Togliatti) che perse
contro Amendola, Pajetta e Napolitano. Fu l’inizio della storia da leader
della minoranza che lo caratterizzò
fino alla svolta della Bolognina. “Non
sarei sincero, compagni, se vi dicessi
che sono rimasto persuaso”, la frase
più eretica per quegli anni, rinnovata
(con un più energico “non mi avete
convinto”) anche nel 1989-90 verso la
maggioranza che mise la parola fine
alla storia del Pci per trasformarlo in
Pds. Quella degli ingraiani non fu mai
una vera corrente come viene intesa
nel senso comune: “Come capo valgo
un fico secco” disse di sé ma negli anni
a seguire dovette fronteggiare l’azione
d’isolamento che misero in atto Amendola e la fazione vincente. Fu Enrico
Berlinguer ad arginare anche i
tentativi di espulsione, mediando
da subito, fin da quel XI congresso
e successivamente da segretario.
Entrambi accomunati da una profonda
integrità morale, tra Ingrao e Berlinguer non ci fu mai convergenza di idee
anche se profondo rispetto. Riguardo
e stima che gli ha sempre riconosciuto,
pur da avversario anche Giorgio
Napolitano. Il partito prima di tutto
era la bussola e pur coltivando il
dissenso, Ingrao non apprezzava i
settarismi. Fu così che, anche per gli
espulsi del Manifesto che erano a
lui vicini, votò a favore. “Rimanere nel
gorgo con le proprie idee” significava
restare dentro: le scissioni non le ha
mai amate. Anche nel ’92 pur avendolo
contrastato, non abbandonò il nuovo
partito e solo molto tempo dopo aderì
a Rifondazione Comunista.
La politica come servizio lo portò
nel 1976 sullo scranno più alto di
Tspiras vince ancora le elezioni greche
Nella sua stanza, Tsipras riceve le telefonate dei leader internazionali che si congratulano per la vittoria. Da Vladimir Putin,
che spera in un “ulteriore rafforzamento” delle relazioni con la
Grecia, a François Hollande, che gli anticipa che verrà ad Atene
a breve. Matteo Renzi chiama nel pomeriggio. Sakellaridis,
giovane collaboratore del primo ministro, chiede a noi “Renzi
chi?”. È anche perché il giovane Gabriel non si occupa di relazioni internazionali. Ma ciò che segue la dice lunga sulla distanza politica tra Atene e Roma. “Invece qui tutti abbiamo letto
l’intervista dell’Huffington Post a Toni Negri!”, dice Sakellaridis
subito dopo il “Renzi chi?”, costruendo un ponte di collegamento tra Renzi e Negri basato solo sull’italianità, evidentemente.
La crisi greca è anche questa, l'allontanamento dal resto d'Europa, dall'Italia in “ripresa” che annuncia Renzi. Qui la ripresa è
lontana, come l'Italia. Tsipras dal canto suo costruisce relazioni con tutti, come è naturale che sia per un premier. Ma il suo
sguardo è proiettato verso il network europeo di sinistra che germoglia intorno al governo di Syriza, intorno al Labour di Corbyn ma
soprattutto intorno a Pablo Iglesias di Podemos, venuto fino ad Atene venerdì scorso a dargli soccorso. Quasi sicuramente, il premier
greco ricambierà la cortesia recandosi a Madrid a dicembre per le politiche. Congresso permettendo: entro fine anno infatti Syriza
dovrà eleggere il nuovo segretario e i nuovi quadri dirigenti, decimati dalla scissione di quest’estate.
È una “nuova era”, la definisce Sakellaridis. E “non è facile”. Anzi, “siamo di fronte al punto più difficile: ora dobbiamo saper governare. Quando sei un partito di sinistra radicale e prendi il governo in condizioni estreme è facile che ti incorporino nel loro sistema.
È successo anche al Pasok… Noi non ci faremo inghiottire. Non vogliamo ripetere gli errori fatti dalla socialdemocrazia in passato,
ma aprire una nuova strada a sinistra: sinistra di governo”. Le priorità? Sakellaridis la chiama “ricostruzione produttiva” del paese,
“puntiamo all’economia sociale”. Uno dei provvedimenti già presentati in Parlamento nella precedente e brevissima legislatura
riguarda il pagamento delle frequenze tv: tutte le emittenti greche non hanno mai pagato la licenza. Incasso previsto: 300 milioni
di euro l’anno, più gli arretrati. È un provvedimento cui Tsipras tiene molto, anche se non ha attirato molte simpatie tra i media in
campagna elettorale. Anzi.
Ma per modellare meglio la sua politica economica e sociale, Tsipras ha pensato di creare nuovi ministeri spacchettando quelli del
vecchio governo. Euclid Tsakalotos dovrebbe essere confermato alle Finanze. Ma potrebbe nascere anche un altro ministero per
l’Attuazione del memorandum, sotto la guida di Giorgos Chouliarakis, attuale ministro ad interim delle Finanze che piace molto agli
interlocutori europei a Bruxelles. Panos Kammenos, leader del partito alleato 'Anel', dovrebbe restare alla Difesa. E poi dovrebbe
esserci anche un ministero ad hoc per l’immigrazione, vista l’emergenza profughi scoppiata quest’estate. Del resto, l’immigrazione
è il primo tema di cui si occuperà Tsipras nella sua nuova veste di premier rieletto. Poca gente l'ha votato, perchè poca è andata alle
urne. Quelli che lo hanno scelto sono stati la maggioranza di una minoranza che ancora crede nel voto. Per questo Tsipras non può
fallire, e l'Europa questa volta lo sa. Non aiutarlo adesso sarebbe un suicidio per l'intero continente, ma tutti si chiedono, in Grecia e
a Bruxelles, se siamo ancora in tempo. I greci non chiedono più, aspettano, chissà ancora per quanto.
Montecitorio, il primo comunista a presiedere la Camera
dei Deputati. Inflessibile arbitro, dovette gestire gli anni
più cupi del terrorismo, dell’assassinio di Moro, con le istituzioni e la democrazia messe a dura prova. Da quella
sedia Ingrao le difese con energia e tenacia e quando si
arrabbiava quella campanella la sbatteva sul banco, anziché farla tintinnare. Il “non ci sto” fino all’ultimo anche
quando la guerra è tornata negli anni ‘90 a insanguinare
i più deboli e colpire i diritti. “La guerra umanitaria è un
ossimoro” ammoniva, recuperando ancora una volta quella
visione critica anche all’indirizzo del governo D’Alema per
le bombe su Belgrado. La sua idea di sinistra sempre rimasta inalterata e sempre nell’accezione più alta: Ingrao la
intendeva come libertà dal bisogno e responsabilità verso
gli altri. Perciò, quasi a dispetto del titolo del suo ultimo
libro “Volevo la luna”, non è stato un sognatore, lui che
ha vissuto la politica come dimensione etica e culturale.
Virtù che lo hanno fatto amare sempre da tutto il partito,
per le sue straordinarie doti oratorie certamente, ma
anche per la sua ‘limpidezza’ nell’affrontare ogni battaglia. Nei comizi grande oratore e poeta in privato ma
ancora una volta tutto ‘politico’. “Pensammo una torre,
scavammo nella polvere”, quei versi che condensano il
sogno sconfitto di milioni di uomini. È il poeta comunista e l’eroe dubbioso a spiegare il progetto fallito: “Voglio
registrare chiaramente la sconfitta. Questo è uno dei punti
del mio pensiero. Siamo stati al centro di una grande opera,
di una grande vicenda, ma siamo stati sconfitti”. La curiosità lo ha accompagnato anche negli ultimi anni, tanto
che nel 2011 a ‘soli’ 96 anni, aprì il suo sito web. “Internet non è un mezzo consueto per chi è nato nel 1915; ma è
il mezzo di comunicazione del presente e ho pensato di
usarlo”. Pietro Ingrao era contemporaneo anche a
cento anni.
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Personaggi
Giuseppe Galzerano, l’editore di libri su antifascisti,
anarchici e “ribelli”
Neofascismo
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A MILANO DEVASTATO DA ESTREMISTI DI DESTRA
L'ISTITUTO PEDAGOGICO DELLA RESISTENZA
Negli scaffali della sua abitazione di Casalvelino raccoglie migliaia di testi anche sulla Questione meridionale e la storia
dell’emigrazione. Vite di eroi dimenticati e testimonianze su attentati a re e finanche al duce.
di Pier Luigi RAZZANO
N
S
e chiude gli occhi, il treno nascosto nel buio delle colline del Cilento
riappare, è come un serpente di luce
che procede in tutte le direzioni immaginate su una mappa senza confini. Lo
rivede identico, Giuseppe Galzerano.
Aveva otto anni, e al suo fianco, dietro
la finestra, nella casa di Chiusa dei Cerri
a Castelnuovo, c’era il padre Francesco,
operaio alla fornace di mattoni, che gli
indicava l’elemento senza il quale non
avrebbe mai realizzato se stesso: il movimento, l’azione che conduce alla scoperta del mondo, per conoscere la vita e
altre storie. «Mi ripeteva sempre, “acqua
che non cammina, puzza”», ricorda l’editore Galzerano dell’omonima casa editrice fondata quarant’anni fa. Quando li
riapre è di nuovo circondato dalle scaffalature di centinaia di volumi. Rari giornali d’epoca, documenti, edizioni del 1860,
un mosaico di fonti, le tracce inseguite in
ogni angolo del mondo con inesauribile
sete di conoscenza e solerte perizia dello
storico che ha scritto del movimento anarchico e di questione meridionale, raccontato emigranti, antifascisti, rivoluzionari, episodi di Risorgimento nel cuore del
Cilento. Le vite nascoste e dimenticate
degli altri sono il giacimento che ha riportato alla luce setacciando archivi, emeroteche, testimonianze in corrispondenze
sbiadite su cui esercita intuito da investigatore e pazienza da archeologo «per farle uscire dal buio della Storia, raccontarle
nei loro infiniti e umani dettagli». Così sono
nati i poderosi volumi dedicati all’anarchico Giovanni Passannante che attentò alla vita di Umberto I nel 1878 e fu rinchiuso in manicomio, su Gaetano Bresci
che riuscì invece a uccidere il re Savoia nel
1900, poi la vita e il processo di Angelo
Bardellotto fucilato per l’intenzione di uccidere Mussolini, come Michele
Schirru, tornato dagli Stati Uniti per lottare contro il fascismo (il cui volume è
valso a Galzerano il Premio Deledda nel
2010). Vite che avrebbero potuto dirottare il senso di tante stagioni politiche, come
l’amato, il costante punto di riferimento,
Carlo Pisacane, che lesse già a quattordici anni, nel 1967, quando attraversava a
piedi le campagne «polverose d’estate, con
La copertina del libro edito da Galzerano sull’anarchico Michele Schirru
fango ovunque d’inverno» per andare a scuola. Un ragazzo che l’anno prima, a soli tredici
anni, aveva scritto un’accesa lettera a “L’Unità” nella quale denunciava le condizioni di
un sud depresso e lasciato fuori dalle promesse di sviluppo del Paese. Ogni storia di ribellione raccontata, ricucita in seguito da “Peppino” Galzerano, scocca dalle sue lotte per le
ingiustizie vissute in prima persona. «Avevo solo undici anni quando andai a lavorare nei
campi, portavo l’acqua alle donne che infilzavano le foglie di tabacco sotto il sole rovente.
Provengo da una famiglia contadina, mio padre faceva l’operaio, mia madre Carmela stava
in casa, vivevamo dell’orto, e io, finita la scuola, d’estate, volevo aiutarli e rendermi autosufficiente. Con i primi soldi guadagnati comprai la mia prima macchina da scrivere». Poi dopo
qualche anno comincia anche a distribuire alle operaie nei campi alcuni volantini che lui
stesso scrive. Le incita a ribellarsi, auspica condizioni meno brutalizzanti, ottiene per
loro duecento lire in più al giorno. «Venne anche il padrone a casa mia, spiegandomi che
se glielo avessi chiesto, pensando che volevo un cappotto, una maglia nuova, lui mi avrebbe dato mille lire in più, invece di distribuire un aumento per tutte e settanta operaie. Ma io
non lotto per me, non inseguo il privilegio personale, voglio che tutti stiano bene». Anche
quando si iscrive all’istituto magistrale continua a lavorare d’estate, però all’impianto di
irrigazione delle fragole. Tanta fatica e di nuovo quel desiderio di rovesciare l’andamento del mondo quando alza lo sguardo e attorno vede solo sfruttamento. «Così realizzai un
giornale ciclostilato, “PÈ ‘na jurnata”. Quindici pagine organizzate e scritte da me, più alcuni canti di lavoro dell’Ottocento». Nel frattempo, dal 1967, ha anche instaurato un fitto rapporto epistolare con l’italoamericano Giuseppe Popolizio, libraio negli Stati Uniti che
pubblica testi antifascisti, di socialisti. Ne compra alcuni, nasce un rapporto d’amicizia e
stima, «al punto che quando gli propongo di vendere in Italia i titoli del suo catalogo, lui mi
cede tutte le giacenze, così misi in piedi una libreria antiquaria». Il guadagno lo spedisce
a Popolizio («sono stato l’italiano che mandava i soldi a un emigrante»), intanto scrive nel
1970, a diciassette anni, anche un romanzo di fantapolitica, “I ricchi e gli oppressori non
moriranno più”, racconto di un traffico di organi che i potenti espiantano ai più poveri per allungare la propria vita. Lo pubblica con i suoi risparmi, in pochi mesi esaurisce
tutte le copie; sempre fedele all’insegnamento del padre viaggia in tutta Europa con il
treno per conoscere il mondo, incontra studiosi, bibliofili, esuli spagnoli che lottano contro Franco. «Dormivo sui treni spostandomi di notte da una città all’altra perché non potevo permettermi gli alberghi». La realtà lavorativa delle fragole nella piana dell’Alento gli
appare più infame e insostenibile, denuncia ancora, incoraggia alla coscienza di classe,
ella notte tra martedì 22 e mercoledì 23 settembre
2015 l’Istituto Pedagogico della Resistenza
di via degli Anemoni 6 è stato devastato con un'azione che, per le sue caratteristiche, si richiama alla matrice
della destra eversiva.
Ignoti sono entrati rompendo una finestra del centro
territoriale di recupero, una struttura dell'ospedale San
Carlo dedicata a bambini con disagi. Dopo aver sfondato
una porta hanno fatto irruzione nella sede dell'IPR – Istituto Pedagogico della Resistenza. Sono stati presi di
mira, calpestati e buttati per terra, libri e documenti dedicati alla Resistenza e all'antifascismo.
Poi il locale è stato messo a soqquadro: è stato fatto
cadere un pannello dal soffitto, sono stati aperti cassetti,
rubati 750 euro, un computer e un televisore.
Prima di andare via è stata lasciata, su un foglio A4, la
scritta “maiali”.
Non riteniamo che l'azione sia stata opera di semplici
ladri. Dentro al locale dell'ospedale San Carlo gli autori
dell'ignobile gesto avrebbero potuto fare una ricca spesa,
rubando strumentazioni nuove e costose.
L'ANPI Provinciale di Milano ha subito denunciato
la gravità di quanto accaduto che offende la nostra città,
Medaglia d'Oro della Resistenza, prendendo di mira un
prestigioso Istituto che offre ai visitatori una ricca documentazione sulla Resistenza nazionale e milanese.
L'episodio si ricollega ad un clima caratterizzato dal
ripetersi di rigurgiti neofascisti nella nostra città e nella
Regione Lombardia.
Una settimana prima della devastazione dell'IPR si era
svolto a Castano Primo, nonostante il divieto del Sindaco
e del Prefetto di Milano, il festival nazionale di Casa
Pound e a Cantù, per il terzo anno consecutivo, aveva
avuto luogo la festa di Forza Nuova, con il beneplacito
La sede dell’IPR a Milano devastata dai neofascisti
dell'Amministrazione comunale.
A seguito della devastazione dell'IPR numerosi messaggi
di solidarietà sono giunti all'Istituto. All' ANPI il Prefetto
di Milano Francesco Paolo Tronca ha manifestato la
propria solidarietà e vicinanza.
L'ANPPIA e l'ANPI Provinciale di Milano esprimeono la propria profonda condanna per l'ennesima deturpazione, con svastiche e croci celtiche,
avvenuta nella notte del 29 settembre 2015, del murale
nel quale viene rappresentata la Resistenza a Niguarda.
Questa volta l'ignobile gesto che offende Milano, capitale
della Resistenza, porta la firma dei neofascisti di Forza Nuova.
È la quarta volta in meno di un anno che gruppi della destra eversiva attuano questa gravissima provocazione
avvenuta a distanza di una sola settimana dalla devastazione dell'Istituto Pedagogico della Resistenza.
L'Anpi di Niguarda si dà appuntamento per giovedì mattina, 1 Ottobre, allo scopo di ripristinare il murale.
Mentre esprimiamo la nostra preoccupazione per il ripetersi di rigurgiti neofascisti a Milano e nella nostra
Regione, ci appelliamo alle autorità pubbliche perchè sia
fatto tutto il possibile per individuare gli autori di queste
gravissime provocazioni. (r.c.)
e il padrone lo licenzia approfittando di alcuni giorni di assenza che aveva chiesto per preparare un esame. Da un accordo ottiene trecentomila lire, subito impiegati per piantare il tassello del suo sogno di sempre. Nel 1975 nasce la Galzerano editore. Primo titolo,
inevitabile, di buon auspicio, un suo testo dedicato a Carlo Pisacane. Si laurea in Pedagogia, poi in Lettere, lavora in una cava di marmo, e cresce il catalogo delle sue edizioni (a oggi sono più di trecento), tra questi “America! America!” del 1979, diario di un immigrato
calabrese che supera le ventimila copie e arriva in finale al Premio Viareggio. Non smette di setacciare biblioteche e brandelli di storia,
«ogni libro costa fatica, molti soldi, la passione e il desiderio di raccontare di lotte contro l’oppressione non si esaurisce, quello che scrivo
finanzia il successivo». E così è nato il suo ultimo lavoro, dedicato a Paolo Lega del 2014, tomo di oltre mille pagine, scrupolosa ricostruzione da atti dimenticati sull’anarchico romagnolo e dell’attentato a Francesco Crispi. Galzerano è lo storico che ha anche interpretato un personaggio al quale ha dedicato anni di studio. Infatti Mario Martone, «con cui discussi di rivoluzioni nel Cilento, qui da me a
Casalvelino, sotto un albero di noci, mi raccontò del film che stava per realizzare, e mi sottopose la sceneggiatura di “Noi credevamo”». Gli
propone di interpretare Antonio Galotti, uno dei capi dei moti contro i Borbone del 1828, che Galzerano conosce a fondo.
Sono ancora tante le storie che vuole strappare dall’incertezza, come quella di Andrea Salsedo, l’emigrante siciliano editore e
sindacalista anarchico, arrestato per i suoi opuscoli sovversivi, poi misteriosamente precipitato da una finestra degli uffici dell’Fbi nel
1920. L’antefatto alla tragedia di Sacco e Vanzetti.
«Voglio continuare a far luce, chiarezza su tante ombre del passato».
Perché raccontare una vita, muove anche la sua vita.
Personaggi
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Personaggi
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La morte, a Milano, di un grande combattente per la libertà e valoroso partigiano
ADDIO A TINO CASALI, BANDIERA DELL'ANTIFASCISMO
La morte di Tino Casali ha lasciato un vuoto profondo in tutti noi antifascisti, nei milanesi. Da tempo gravemente malato ha
finito di soffrire in una casa di cura dove era ricoverato.
INTERVISTA AD AMOS LUZZATO:
FERMARE IL RAZZISMO CRESCENTE
di Maurizio GALLI
Le esequie si sono svolte nella Casa della
Memoria di Milano, presente una numerosa
folla di amici ed estimatori
Agostino Casali (nome di battaglia Tino)
nasce a Milano il 25 aprile 1920. Cresciuto in una
famiglia di tradizione mazziniana e garibaldina,
già a scuola ebbe a subire le conseguenze della
mancata adesione alle organizzazioni fasciste.
L'8 settembre 1943 Casali, sotto il nome di
Colombani August, è partigiano nella Francia
meridionale. Rientrato in Italia nei primi mesi del
1944, aderisce al Pci.
Tino Casali a un consiglio nazionale dell’ANPI
Casali viene trasferito da Milano nelle formazioni
Garibaldi dell'Oltrepò Pavese. Prima comandante del Battaglione “Cosenz”, poi commissario della Brigata "Casotti",
"Tino" alla vigilia dell'insurrezione è commissario di guerra della Divisione d'assalto "Antonio Gramsci". Questa formazione di montagna, equipaggiata e armata con mezzi pesanti, dopo aspri combattimenti, superati il Po e il Ticino e
liberate Voghera e Pavia, entra per prima a Milano il 27 aprile 1945.
“La colonna di circa 600 partigiani dell'Oltrepò Pavese – si legge su l'Unità del 27 aprile 1945 – è sfilata per la città, tra
due ali di popolo plaudente; essa ha percorso Corso Italia, ha attraversato piazza Duomo, avviandosi poi, per Corso Buenos
Aires, verso il piazzale Quindici Martiri”, come era stata ribattezzata piazzale Loreto.
Nel maggio del 1945 Tino Casali rappresenta le formazioni dell'Oltrepò nella costituenda Associazioni Partigiani
d'Italia nell'Italia settentrionale finalmente liberata dai nazifascisti.
Negli anni 1951-58 è segretario provinciale e regionale del Movimento dei Partigiani della Pace.
Viene eletto consigliere comunale dal 1955 al 1965. Presiede, dal 1976 al 1981, l'ente ospedaliero milanese “Luigi Sacco”.
Dal 1980 al 1985 ricopre l'incarico di Assessore alla Sanità del Comune di Milano nella Giunta guidata da Carlo Tognoli.
Nel maggio del 1969 Casali è promotore del Comitato Permanente Antifascista per la Difesa dell'Ordine
Repubblicano, riferimento fondamentale negli anni della strategia della tensione e del terrorismo. Casali ha rappresentato per oltre quarant'anni, come Presidente del Comitato Permanente Antifascista e dell'ANPI Provinciale di Milano,
l'antifascismo milanese, e ha svolto una instancabile e continuativa azione a difesa delle istituzioni democratiche e della
Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.
Nel 2006, al Congresso nazionale di Chianciano, Casali diventa Presidente nazionale dell’Anpi, succedendo ad
Arrigo Boldrini, impossibilitato, per motivi di salute, a seguire l'Associazione.
Attualmente rivestiva la carica di Presidente Onorario dell'ANPI nazionale e dell'ANPI provinciale di Milano.
Alle esequie, alla Casa della Memoria, è intervenuto Mario Artali per la Fiap. Erano presenti tutte le rappresentanze delle Associazioni partigiane e antifasciste. Per l’Anppia era presente il suo presidente regionale Gino
Morrone. Tino Casali è stato ricordato da Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano. Ecco una
sintesi del suo intervento.
“Caro Tino, siamo qui a darti l'ultimo commosso saluto. E ci stringiamo con un lungo abbraccio alla tua cara moglie Isa che, ti è
stata affettuosamente vicina in questi anni per te così dolorosi , ai parenti, agli amici e a tutti i tuoi compagni.
Hai rappresentato per oltre quarant'anni, come Presidente dell'ANPI Provinciale di Milano e poi come Presidente nazionale, l'antifascismo non solo milanese, i valori della libertà e della democrazia, e hai svolto una instancabile e continuativa azione a difesa delle
istituzioni democratiche e della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.
Sei cresciuto in una famiglia di tradizione mazziniana e garibaldina. Già a scuola subisti le conseguenze della mancata adesione alle
organizzazioni fasciste.
L'8 settembre 1943 eri già partigiano nella Francia meridionale. Rientrato in Italia nei primi mesi del 1944, hai aderito al PCI.
Caro Tino, quando ho deciso da Presidente di Sezione di Porta Venezia, quasi vent'anni fa, di dedicare il mio impegno nella nostra
Associazione, ho avuto modo di conoscerti. Mi accostavo a te con una certa timidezza per la tua autorevolezza e per la tua figura che
incuteva in me una certa soggezione.
Grande è stato il tuo impegno, per i valori della Resistenza, per il bene del Paese, rimasti sempre nel tuo cuore anche negli anni della
tua lunga malattia. Nominavi sempre negli anni trascorsi nelle case di cura, la Resistenza, l'antifascismo e l'ANPI che hanno costituito
la tua scelta di vita.
Grazie Tino per tutto quello che hai fatto. Sta a noi raccogliere la preziosa eredità che ci hai lasciato e batterci per i valori trasmessici
dalla Resistenza, dall'antifascismo e dalla Costituzione repubblicana”.
Amos Luzzato con il direttore de “l’antifascista”, Gino Morrone
di Gino MORRONE
N
el suo studio
ricco di cimeli, di ricordi
personali e di
tanta memoria
storica, nella
sua casa veneziana di Campo della
Lana, accompagnato dalla moglie
signora Laura, Luzzatto, quando si
parla di discriminazione razziale,
diventa un fiume in piena. Ne approfitto per affrontare con lui una
questione delicata e sorprendente:
la sortita-bomba di Benjamin
Netanyahu, primo ministro israeliano, su Hitler e sull’Olocausto.
Netanyahu fornisce una versione
che per la verità non è piaciuta a
molti ed è inverosimile (“Fu il Gran
Muftì di Gerusalemme a spingere
Hitler a sterminare gli ebrei”)
provocando la reazione risentita e
violenta per prima della cancelliera
tedesca Angela Merkel.
Dice Amos Luzzatto: “Non mi
so immaginare un colloquio tra il
Muftì di Gerusalemme e il creatore
segue dalla prima pagina
e capo assoluto del nazismo. Hitler
non avrebbe mai accettato di sedersi
a un tavolo di trattativa con un interlocutore di razza araba. È chiaro
che con questa scelta si tenta di
trovare una giustificazione a quanto
avviene tra ebrei e palestinesi e alle
sue responsabilità. Tant’è vero che
l’immediato tentativo di rimediare
alla gaffe, dopo le violente e clamorose reazioni suscitate, è una toppa
peggiore del buco. Dice: “Non volevo
assolvere Hitler dalle sue responsabilità, ma mostrare come l’esponente
della nazione palestinese volesse
già allora distruggere gli ebrei. Non
mi pare una grande rettifica tanto è
vero che la Merkel replica chiaro: la
responsabilità della Shoah è soltanto
nazista”.
Il professor Luzzatto si aggiunge
a una folta schiera di intellettuali,
di storici e di contestatori di questa
tesi di Netanyahu. Tra i primi, ricordiamo lo storico e premio Nobel
Elie Wiesel: “Davvero non ho idea di
come quelle parole abbiano potuto
essere pronunciate, a volte i politici dovrebbero pensare a lungo e
inghiottire le parole anziché pronunciarle. È molto triste che tante
persone pubbliche spendano la loro
immagine con simili frasi, anziché
dire la verità più semplice: l’antisemitismo è stupido quanto criminale.” E poi tutti dovrebbero sapere
che la “Soluzione finale” fu decisa
prima dei contatti con il Gran
Muftì. Insomma, una bocciatura
totale sottolineata dalla chiosa:
nessuno può permettersi licenze
speciali davanti al Male assoluto.
Anche il presidente israeliano
Reuven Rivlin ha sentito il bisogno
di precisare che “è stato Hitler a
causare una sofferenza infinita alla
nostra nazione”. E il leader dell’opposizione a Netanyahu, Isaac
Herzog, ha definito l’esternazione
del premier “una pericolosa distorsione”.
Gli esperti della Shoah poi temono
che si voglia riscrivere la storia.
“L’affermazione è totalmente senza
Personaggi
Personaggi
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Immigrati siriani al confine con la Bosnia
basi – dice il direttore del centro
Wiesenthal di Gerusalemme - che
il Muftì favorisse l’invasione della
Palestina da parte nazista è verosimile, ma Hitler non aveva bisogno
di essere convinto da nessuno”.
Proprio come ha sottolineato il
professor Amos Luzzatto. E la
professoressa Dina Porat, direttora
del Dipartimento di Storia dello
Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme e capo del
dipartimento di storia dell’ebraismo dell’università di Tel Aviv aggiunge: “Pur essendo stato un antisemita, non esiste alcuna evidenza
che sostenga le tesi di Netanyahu
su Haj Amin al- Husseini.
Scontate poi le reazioni negative
dei leader del Ramallah, accusati
di soffiare sul fuoco della rivolta
di piazza, accuse che respingono al
mittente.
Adriano Sofri su Repubblica ricostruisce i rapporti tra Hitler e
Al Husseini definendo grottesca
la storiella secondo la quale Hitler
avrebbe chiesto: “Ma che cosa dovrei farne degli ebrei?” avendone
come risposta dal Muftì: “Bruciali!”
Un dialogo surreale che non può
minimamente cambiare il corso
della storia.
Professor Luzzatto, affrontiamo il capitolo migranti.
Qual è il suo pensiero in proposito?
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Guerriglieri dell’ISIS in parata militare
“È una questione epocale. C’è gente
che arriva in Italia e in Europa costrettavi da ragioni drammatiche: la
fame, la guerra, il desiderio di crearsi un futuro decente. Come si può
respingerli? Ogni Paese, ogni gruppo
umano ha il dovere di accoglierli,
di aiutarli. È paradossale, ma non
troppo, che ad erigere muri contro
questi disperati siano popolazioni o,
soprattutto governi, di Paesi che in
passato hanno subito vessazioni, dittature, soprusi, violazioni dei diritti
umani. Io credo che chiunque sia un
sincero antifascista e ami la libertà
debba agire non sulla spinta di calcoli
egoistici ma su quanto gli suggerisce
la propria coscienza, senza vedere
l’estraneo come un
nemico”.
Secondo Lei sparare a un ladro e
ucciderlo è legittima difesa?
“La legittima difesa è un’altra cosa.
È persino facile,
per chi ne è capace,
sparare al petto di
un uomo disarmato.
Chi agisce così non
è giustificabile, ma
chi vede nel diverso
un nemico, plaude
ai giustizieri estemporanei e fa presto a
farli diventare eroi.
Non sono esempi da imitare, chi
ha sentimenti positivi deve sempre rispettare la vita degli altri, se
vuole essere rispettato. Noi ebrei
ne sappiamo qualcosa. Bisogna
scoraggiare questa tendenza a farsi
giustizia con le proprie mani, perché non si sa dove può portare.”
Lei ha scritto diversi libri.
A quale è più affezionato?
“Sicuramente Conta e racconta
perché è una sorta di autobiografia
che mi ricorda la mia infanzia, il
mio passato, i miei errori, le mie
lotte culturali, politiche e di principio. Ma non voglio dimenticare Se
questo è un ebreo o La leggenda di
Concobello, dedicato ai ragazzi o Il
posto degli ebrei.”
Anche il mondo contemporaneo è inquieto. Pensa lei
che il califfato violento o le
tensioni nei Paesi più instabili
come la Libia, la Siria possano
essere stabilizzati?
“Chiariamo subito una cosa.
Sono gli occidentali in primo luogo
i Paesi che creano situazioni di
precarietà per motivi di interessi,
perché in quell’area ci sono troppi
richiami che attirano, a cominciare dal petrolio. L’Italia, con le
sue aziende private e pubbliche,
ha un ruolo non secondario. Detto
questo, le violenze, il terrorismo
sanguinario dell’Isis vanno fermati
se si vuole dare a quei Paesi un
assetto che promuova la pace, il
rilancio economico e il benessere.
Non è facile, ma bisogna provarci
con convinzione perché l’eliminazione delle tensioni nel mondo
arabo significano anche, per
l’Europa e per l’Italia, la drastica
riduzione degli sbarchi dei clandestini, l’isolamento dei mercanti
di uomini, degli scafisti e quindi
anche la riduzione delle stragi in
mare di intere famiglie, compresi
donne e bambini. Ciò faciliterebbe
anche l’accoglienza. Le invasioni
massicce creano paura, disorientamento e reazioni sbagliate. Un
flusso regolabile rasserenerebbe un
po’ l’atmosfera nella convinzione che
“siamo stati tutti migranti” e quindi
chi arriva non è il nemico da isolare e
da emarginare, ma un essere umano
che va capito e aiutato. Diversamente
ogni Paese o popolazione che fa
muro si comporta come se vivesse in
un regime fascista”.
A questo proposito, professor
Luzzatto, come pensa di svolgere il suo ruolo di Presidente
di un’associazione che si richiama apertamente all’antifascismo militante?
“I tempi cambiano e bisogna adeguarsi in fretta. Oggi l’attività di memoria va proseguita con convinzione
perché un popolo senza memoria è
un popolo senza futuro, ma penso che
coloro che credono nei valori e nelle
idee di chi ha subito le persecuzioni e
le camere a gas, oggi devono battersi
in tutti i modi, e pacificamente, perché
non sorgano e si allarghino fonti di
neofascismo che si portano dietro il
sentimento più odioso e da respingere:
il razzismo sotto ogni forma. Non ci
sono uomini bianchi o neri o gialli, ma
soltanto esseri umani che hanno diritto
di vivere in pace, democraticamente,
in una società più giusta e più attenta
ai valori e ai principi che agli interessi
materiali. Se non si rispettano gli altri,
le loro idee, i loro bisogni, si finisce per
essere soltanto degli aguzzini propensi
alle persecuzioni individuali e di massa,
come è capitato nel nefasto periodo
del nazifascismo. Mio padre, per le
sue idee socialiste fu perseguitato, bastonato dai fascisti, umiliato al punto
che trascorse lunghi anni rinchiuso
in un ospedale psichiatrico”.
Una storia tutta da raccontare,
quella di Amos Luzzatto. Venuto a
mancare il padre in quelle tragiche
circostanze, fu allevato ed educato
dal nonno materno, Dante Lattes,
tra i principali esponenti della
cultura ebraica del secolo scorso.
Il trisavolo paterno, Samuel David
Luzzatto, Shadal, fu docente al
Collegio rabbinico di Padova ed
esponente della “Wisssenschaft des
Judentums”. È questo il clima in cui
il giovane Amos cresce e si forma.
Dirà: sono un ebreo di sinistra. E
non poteva essere diversamente.
Costretto, dopo la promulgazione
delle leggi razziali, a emigrare nel
’39 in Palestina insieme alla madre e
ai nonni Lattes, visse l’adolescenza
tra Gerusalemme e Tel Aviv.
Vi rimase fino al 1946. Subito
dopo la Liberazione e, appena diciottenne, studiò Medicina all’Università a Roma e, forte delle convinzioni maturate in quei durissimi
anni, si iscrisse al Pci.
Da presidente dell’Unione delle
comunità ebraiche, fra l’altro, ebbe
il gravoso compito di accompagnare
Gianfranco Fini, il capo della destra
italiana al governo, nella sua visita
allo Yad Vashem, a Gerusalemme.
“È stato uno dei compiti più
Personaggi
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Cultura
Un saggio de “Il presente e la storia” racconta e documenta la parte esercitata dall’Arma
laceranti. Ma quella visita mi permise di fargli un quadro completo delle gravi sofferenze sopportate dagli ebrei
italiani per decisione del regime fascista. Ritengo che almeno una parte delle sue posizioni politiche successive
siano derivate dalla parte da me avuta nel corso di quel viaggio”
Professor Luzzatto, parliamo della sua fede. Lei è religioso?
“Gli ebrei ortodossi non mi qualificherebbero come tale in quanto non posso essere definito un osservante dei
precetti. Sono però uno che non rinuncia ai legami con la nostra storia che parte dalla cultura, dalla lingua, dalla
tradizione scritta e orale, che io continuo a studiare, e qualche volta a insegnare. In Italia esiste una categoria di
persone come me che ha la necessità di confrontarsi su due fronti: quello ebraico e quello politico. La cosa non è
facile, però non è impossibile. Ebreo di sinistra, così mi sono sempre definito. In pochi capivano che cosa volesse
dire, a oltre 80 anni spero di averlo spiegato”.
COMMOVENTE RICORDO
DI SUO PADRE LEONE MICHELE
P
oco lontano dal Ghetto Vecchio e Nuovo di Venezia, nel Sestiere di Santa Croce, (ancora oggi visibile con le sue sinagoghe e dove è stato girato il film “Il mercante di Venezia” con Jeremy Irons e Al
Pacino), vive con sua moglie signora Laura, Amos Luzzatto, neo presidente dell’ANPPIA di Venezia
(Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti), già presidente della Unione della
Comunità Ebraiche Italiane. Il professor Luzzatto dal 2008 è anche stato per alcuni anni presidente del
Centro Internazionale di Studi Primo Levi.
Per cinquant’anni Luzzatto ha svolto attività ospedaliera come chirurgo, impegnato nelle sue ricerche nello studio di
metodi matematici applicati alla medicina. Ha esercitato con successo la sua attività di chirurgo a Venezia, a Dolo, a San
Donà di Piave, a Valdobbiadene fino ad Asti.
Il professor Luzzatto si emoziona quando ricorda le ingiustizie subite dalla sua famiglia. In particolare, nel nominare
suo padre Leone Michele che ha avuto una gioventù «avventurosa e drammatica». Rimasto orfano, venne allevato da
suo zio quando ancora frequentava il ginnasio superiore. “Lo zio di mio padre era professore a Treviso dove è rimasto
fino alla disfatta italiana di Caporetto – racconta Luzzatto – e si occupò anche della educazione di mio padre. Mio
nonno materno era Dante Lattes, uno dei maggiori esponenti della cultura italo-ebraica del Novecento. Mia madre,
Lina Lattes, arrivando da Trieste, aveva conosciuto mio padre a Roma. La sua vita si presentava già complicata. Per
fare meglio chiarezza, mio nonno materno Dante Lattes, essendo suddito italiano, dovette lasciare Trieste alla vigilia
dell’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria nel 1915. Mio padre Leone fu un fervente attivista del Partito Socialista
e dopo la «marcia su Roma» fu oggetto della violenza fascista”.
Luzzatto ricorda anche che il Papà, letterato, era entrato in contatto con ambienti antifascisti. Si radunavano con attivisti presso un ciabattino, nonostante che la pressione del regime fosse sempre più insistente. Benedetto Croce a quei
tempi aveva espresso giudizi critici nei confronti del regime”. Mio padre ebbe l’ingenuità di scrivergli una lettera di
plauso. La posta di Croce era controllatissima e questa iniziativa costò cara a mio padre. Gli fu rifiutato il passaporto
proprio quando aveva deciso di espatriare in Francia. Le pressioni politiche si fecero sempre più dure e, racconta Amos
Luzzatto, l’arresto dell’esponente comunista Emilio Sereni, suo amico di famiglia, scatenò in mio padre una profonda
crisi, un crollo psicologico e neurologico che lo portò a un lungo ricovero. L’odio e il timore nei confronti del fascismo
lo portava a vedere dappertutto agenti fascisti, persino nei medici che lo curavano”.
Resistenza, il ruolo incisivo dei carabinieri
I
l ruolo dell’Arma dei carabinieri nella Resistenza
hanno consumato la loro vendetta facendo vivere di stenti
non è stato mai messo a fuoco per come avrebbe
e seviziando gli oppositori con torture che portarono alla
meritato. Le ragioni sono tante e le illustra bene l’ulloro morte.
timo numero de “il presente e la storia” con
L’Arma dei carabinieri, come detto, ha collaborato
un’ampia e dettagliata documentazione. Il ruolo
in modo incisivo alla liberazione del territorio italiano
dell’Arma nella lotta contro i nazifascisti, fu determidopo l’8 settembre su vari piani operativi: dall’intellinante. Già alla fine della guerra il generale Alexander
gence ai tanti che scelsero di combattere nelle formazioni
dichiarava in una conferenza stampa: ”Non abbiamo mai
partigiane a coloro che, lavorando in servizi governativi
fatto piani dipendenti dalla cooperazione italiana. Un
“nemici”, agirono da talpe fornendo informazioni utilisgrande aiuto ci è venuto dai Carabinieri, che hanno
sime ai combattenti per la libertà del nostro Paese.
mantenuto la legge e l’ordine, lasciando così liberi i
Gustavo Zagrebelsky, nella prefazione de “Il
nostri soldati, risparmiando ai nostri generali ogni
presente e la storia”, fa una lucida analisi del fasciansietà, così come alle truppe italiane”. L’Arma aveva
smo e dell’antifascismo soffermandosi poi su alcune
mobilitato 36 battaglioni, un battaglione di paracadutisti,
commoventi lettere scritte ai familiari dai condannati a
uno squadrone a cavallo, un gruppo autonomo, 19 compamorte. Particolarmente
gnie autonome, un nucleo
toccante
ed
educaper la base tradotte, 410
tiva quella di Paola
sezioni di polizia militare
Garelli,
pettinatrice
e vari altri reparti presso
di Mondovì, fucilata il
i comandi di grandi
primo novembre 1944,
unità, basi aeree e navali,
la quale scrive alla
uffici postali per un
sua bambina : ”La tua
complesso di sessantamamma se ne va pensanmila uomini. All’atto
doti e amandoti mia
dell’armistizio i militi
creatura adorata, sii
dell’Arma, dopo aver
buona e ubbidisci sempre
partecipato attivamente
agli zii che ti allevano,
alla Resistenza, si sono
amali come fossi io. Tu
opposti
all’aggressione
devi dire a tutti i nostri
tedesca in Francia, nei
cari parenti, nonna e
Balcani e nelle isole
altri, che mi perdonino
greche
dove
furono
il dolore che do loro. Non
eliminati o deportati
devi piangere né vergocome a Cefalonia, conflugnarti di me. Quando
irono nella Resistenza in
sarai grande capirai
Jugoslavia dove alcuni Soldati dell’Arma dei Carabinieri prigionieri in Albania nel 1943
meglio. Ti chiedo una
ufficiali costituirono a
cosa sola: studia, io ti
Spalato il Battaglione Carabinieri “Garibaldi” e una
proteggerò dal cielo. La tua infelice mamma”. Ecco, anche
divisione partigiana che fecero assegnare alla bandiera
questo è stato il delirio fascista.
dell’Arma una medaglia d’argento al valore militare. In
Il saggio ricorda numerosi episodi di amor patrio e di
altre regioni, identificati come braccio armato del
grande eroismo. Tra i tanti ci piace rievocare velocefascismo, i carabinieri furono osteggiati dai partigiani.
mente due storie di coraggio e sofferenza.
Clamoroso e doloroso il caso della Colonna Gamucci :
Si tratta di un ufficiale e un sottufficiale, un toscano
129 militari dell’Arma, sfuggiti ai nazisti e unitisi ai
e un cuneese (Angelo Ballerini e Mario Benedetto)
partigiani albanesi, furono poi da questi disarmati e
che hanno fatto la scelta antifascista senza esitazioni e
trucidati.
tentennamenti. Entrambi molto attivi e dinamici, ma con
Nella lotta di Resistenza e nella guerra di Liberasentimento di rispetto anche verso gli italiani schierati
zione i carabinieri contarono 2735 caduti, 6521 feriti.
dall’altra parte, con il nemico invasore.
La loro bandiera è stata decorata con medaglia d’oro al
In uno dei tanti scontri a fuoco con i nazifascisti,
valore militare. A tal proposito val la pena di ricordare
mentre le camicie nere cominciano a sparare in mezzo
l’ ”altra” resistenza opposta dai carabinieri nei lager
alla folla (siamo in una stazione ferroviaria), il gruppo
nazisti assieme a ufficiali e soldati dell’esercito.
partigiano riesce ad avere la meglio e a mettere insieme
Un’ ”attività” dimenticata per tanti anni dalla storioun bel bottino di armi e munizioni.
grafia ufficiale: con il loro rifiuto a svolgere lavori coatti
Seguono altre azioni militari e, per farla breve, i due si
contro ogni regola internazionale, hanno creato non
comportano da autentici eroi guadagnandosi la stima e
pochi problemi agli aguzzini nazisti che, in molti casi,
l’affetto dei compagni e dei superiori. (j.m.)
19
20
Cultura
Cultura
A proposito di migranti che scappano dalle guerre, dalle sofferenze e dalla fame
A Ellis Island sbarcarono a milioni alla ricerca del
paradiso terrestre
Furono inizi duri e pieni di difficoltà e gli Usa subirono il più grande flusso immigratorio mai registrato dall’umanità fino ad
oggi. L’esempio degli italiani Giuliani e La Guardia
di Elisabetta VILLAGGIO
La sala principale del Museo di Ellis Island, dove venivano messi in quarantena gli immigrati appena arrivati negli USA
A
rrivavano nella baia di New York a bordo di navi ed erano pieni di
sogni e speranze. Entravano dall'estuario dell’Hudson River e vedevano la Statua della Libertà, regalo dei francesi agli americani fatto in
segno di amicizia, e monumento simbolo. A sinistra svettava il ponte di
Brooklyn, che all’epoca era il ponte sospeso più grande al mondo, sulla destra il
New Jersey e in fondo l'estremità sud dell'isola di Manhattan. Erano fatti sbarcare a Ellis Island, un isolotto che è stato il maggior punto d’ingresso per gli
emigrati europei. Tutti quelli che arrivarono a New York tra il 1892 e il 1954,
attraversando l’Atlantico, scesero su questa piccola isola che ha visto passare
più di 12 milioni di persone che volevano diventare cittadini americani o
semplicemente lavorare in quella terra che offriva opportunità.
La città di New York, con il più grande porto americano dal 1820, è stata il principale accesso negli Stati Uniti da parte degli immigranti. Dal 1855 erano fatti sbarcare
a Castle Garden nella zona di Battery, la punta a sud di Manhattan, dove scesero
dalle navi 8 milioni di persone che provenivano principalmente dalla Gran Bretagna,
dall’Irlanda, dai paesi scandinavi e dalla Germania e costituirono la prima grande
onda immigratoria che si stabilì negli Stati Uniti. Il numero crescente di persone
portò il governo federale ad assumere il controllo sui nuovi arrivati e il Congresso
approvò, nel 1890, la costruzione di un grosso edificio su Ellis Island dove transitarono tutti gli immigranti che arrivarono a New York. La nuova struttura si aprì il
primo gennaio 1892. La prima immigrante registrata, Annie Moore, era un’adolescente irlandese, arrivata con i suoi due fratelli più piccoli per raggiungere i genitori
che erano sbarcati poco tempo prima e avevano trovato lavoro. E dopo di lei per i
successivi 62 anni 12 milioni di persone varcarono il suo stesso ingresso alla ricerca
di un mondo migliore tra i quali tantissimi italiani. Molte persone morirono sull’isola
e sui registri si legge che più di 3500 persone, tra cui 1400 bambini non sopravvissero. Nello stesso tempo furono registrate le nascite di 355 neonati.
Molte persone arrivarono piene d’illusioni che si sbriciolarono in fretta.
L’America non era la terra che si raccontava in patria: dava opportunità di
lavoro ma duro e pesante. È stata conservata una registrazione di un italiano
che diceva: “Sono venuto qui pensando di trovare le strade d’oro e invece le strade
non ci sono proprio e io le devo costruire”.
Una volta sbarcati dalle navi, con
le loro poche cose spesso infagottate,
i migranti erano assemblati in una
grande stanza, dove era controllato
il loro bagaglio. Qui c’era il terrore
di perdere le valige con i loro pochi
averi che li collegavano alla propria
terra dove moltissimi non sarebbero
mai più tornati. C’era poi il passaggio
dalla stanza delle registrazioni, dove
mostravano i documenti e dichiaravano da quale nave fossero scesi.
Infine c’era un controllo medico,
dove erano contrassegnati i non desiderati e le donne incinte. Attraverso
procedure standard l’ufficio immigrazione non faceva entrare chi sembrava
malato, con problemi mentali o
incapace di guadagnarsi da vivere.
Bisognava passare anche un test di
capacità mentali. La popolazione
d’immigranti variava moltissimo per
educazione e background culturale
e diventava quindi difficile applicare
le stesse regole per tutti. Tuttavia,
tra il 1910 e il 1916, il dottor Howard
Knox, oltre ad usare i test d’intelligenza standard, applicò un metodo,
con varianti complicate che andavano
dall’età all’istruzione della persona,
con il quale sosteneva di poter misurare il livello d’intelligenza di ognuno.
C’era anche la stanza delle
udienze, dove circa il 10%
degli immigrati furono
interrogati. Ci passarono
quelli sospettati di poter
diventare
un
pericolo
pubblico. In realtà soltanto
il 2% tra chi voleva entrare
negli Stati Uniti fu respinto.
Normalmente
se
un
immigrato era in buona
salute e i documenti erano
a posto l’ispezione durava
dalle 3 alle 5 ore ma molti
restarono
per
giorni
prima di poter finalmente
sbarcare a New York e
nei periodi di maggior
affluenza poteva capitare
di rimanere ad aspettare
fuori per ore al freddo
invernale o al caldo afoso Le prime visite agli immigrati italiani
dell’estate senza acqua
nè cibo. Coloro che sbarcarono a New York erano fondamentalmente europei che scappavano da fame, miseria,
dittature, persecuzioni politiche e religiose. Allora l'America era la terra promessa, il sogno che poteva diventare
realtà. Quegli uomini e donne arrivavano pieni di speranze
ma anche di dignità come testimonia la risposta di una
giovane polacca all'interrogatorio di prassi da parte delle
autorità statunitensi per capire l'intelligenza di ciascun
individuo.
“Quanto fa due più due? Quattro. E sette più cinque?
Dodici. Se devi pulire delle scale, da dove cominci? Dal basso
o dall'alto? Non sono venuta in America per pulire scale”.
Nei periodi di maggior flusso migratorio, tra il 1900 e
il 1924, passavano una media di 5000 persone al giorno.
Il picco più alto si ebbe nel 1907 quando approdarono
un milione e duecentocinquantamila persone. Nel 1910,
il 75% dei residenti di New York, Chicago, Detroit,
Cleveland e Boston erano immigrati o figli d’immigrati.
Il flusso diminuì durante la prima guerra mondiale e in
quel periodo alcuni sospetti nemici furono rinchiusi qui
Bambini italiani durante la quarantena a Ellis Island
così come durante la seconda guerra mondiale.
Insomma una generazione europea è arrivata a New
York passando per Ellis Island. Quelle persone, con
grande sofferenza ma anche con molta voglia di un futuro
migliore, intrapresero un viaggio per approdare nella
terra dove volevano costruirsi una vita senza fame, persecuzioni o discriminazioni.
Molti che sono oggi persone di spicco sono figli o nipoti
d’immigrati passati da Ellis Island tra i quali l’ex
sindaco di New York, Rudolph Giuliani i cui quattro
nonni erano immigrati italiani. Fiorello la Guardia,
anch’egli figlio d’immigrati italiani, invece, lavorò a Ellis
Island come traduttore dal 1907 al 1910 e divenne poi
sindaco della città dal ’34 al ’46.
Chiunque vada può cercare il proprio cognome tra quelli
scritti su un lungo muro d’acciaio all’esterno, dove sono
registrati i nomi di tutti quelli che sono passati da qui.
Nel novembre del 1954, dopo che Arne Peterssen, un
marinaio norvegese, varcò i controlli, Ellis Island fu
chiusa e, nel ’65, dall’allora Presidente Johnson, fu dichiarata monumento nazionale. Nel 1990
fu riaperta come Museo dell’Immigrazione. Si calcola che ci siano
circa cento milioni di cittadini americani viventi, che rappresentano il
quaranta per cento dell’intera popolazione, che discendono dalle tante
persone passate da quell’isolotto,
avamposto di New York.
Oggi siamo davanti ad altri flussi
migratori ma non dimentichiamo
che, nel corso dell’Ottocento e più
intensamente nella prima metà del
Novecento, in Europa, a causa delle
guerre, della fame, delle persecuzioni
e dell’instabilità politica c’è stato
il più grande flusso migratorio mai
registrato nella storia dell’umanità
fino ad oggi.
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Luoghi della Memoria
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Luoghi della Memoria
San Vittore, il carcere di Milano mattatoio di antifascisti ed ebrei
di Roberto CENATI
Il carcere di San Vittore, sorto
sull’antico convento dei Cappuccini di San Vittore agli Olmi, chiuso
tutto intorno da alti muraglioni vigilati dalle sentinelle, da oltre 130 anni
sorge imponente e inquietante in
Zona Centro a Milano, con ingresso
al 2 di Via Filangieri. Con l’avvento
della dittatura fascista il carcere di San
Vittore diventa luogo di detenzione dei
numerosi oppositori politici vittime del
Tribunale Speciale.
Dal carcere di San Vittore passò per
breve tempo anche il primo sindaco
della Milano liberata, Antonio Greppi,
dopo l'ingresso dell'Italia in guerra a
fianco della Germania. Così Greppi
ricorda quel periodo, con quella punta di
ironia che sembra contraddistinguerlo,
nel libro Lunga lettera a Bianca: “Sono Il carcere di San Vittore a Milano negli anni ’40
stati pochi giorni di clausura, abbastanza
piacevoli. La polizia politica aveva rinchiuso il fior fiore della democrazia milanese. Ci
sarebbe stato da sentirsi umiliati a essere esclusi dalla selezione.”
Tra il settembre '43 e l’aprile '45 San Vittore conosce il terrore nazifascista.
Occupata Milano sin dall'11 settembre 1943 dai tedeschi, le SS requisiscono immediatamente buona parte del carcere e diventano sovrani assoluti della vita e della
morte di ogni recluso. Tre raggi “accoglievano” i detenuti comuni ed erano sotto la
competenza italiana e gli altri rimasero sotto il controllo assoluto dei tedeschi: il
IV e il VI per i detenuti politici e il V per gli ebrei, in un primo tempo concentrati
all’ultimo piano del IV e poi, con il loro aumentare, anche ai piani inferiori. Con
il regime di terrore instaurato dalle SS fin dal loro arrivo, una infrazione anche
minima al regolamento bastava per il passaggio da un raggio all’altro, oppure “ai
topi” come erano chiamati i sotterranei, tenebrosi, umidi e dotati di strumenti di
tortura. “Primo comandante del settore tedesco è dal settembre 1943 il maresciallo
Helmuth Klemm, un ex fabbro, cui da dicembre si affianca come vice il maresciallo
Klimsa, poi promosso direttore quando Klemm è trasferito nel febbraio-marzo 1944
alla Gestapo. Sostituto di Klimsa è il caporalmaggiore Franz Staltmayer, chiamato
“la belva” o “il porcaro”.
A San Vittore imperversavano anche due criminali italiani: i tenenti Manlio
Melli e Dante Colombo, agenti dell’Ufficio Politico Investigativo (UPI), alle
dipendenze del
maggiore FerdiAntonio Greppi
nando
Bossi.
Gaetano
De
Martino, oppositore
politico
al regime fascista, arrestato il
16 novembre 1943
da tre militi della
Repubblica
di
Salò, nel libro Dal
carcere di San
Vittore ai lager
tedeschi,
così
racconta del suo traumatico impatto
con il carcere: “La piccola cella di circa
metri due e cinquanta per quattro, aveva
una finestra in alto: le solite finestre delle
carceri, dette a tramoggia o bocca di
lupo, da cui si poteva scorgere solo un
po' di cielo e null'altro. Alcune tavolette
infisse nel muro, per sedersi e per appoggiare gli oggetti, una branda sospesa al
muro, una scodella ed una brocca costituivano tutto l'arredamento.
Quanti chilometri avrò percorso nei
lunghi mesi della prigionia, andando su e
giù in quello stretto spazio? Faceva assai
freddo; la mia cella – esposta a nord
– era anche umida, per cui era necessario muoversi. Ma in seguito le gambe
diventavano sempre più pesanti, ed
anche il muoversi riusciva faticoso. Le
pareti della cella erano piene di nomi e
di disegni. Molti detenuti avevano voluto
lasciare il ricordo del proprio nome, con
la data dell'arresto e della liberazione;
alcuni si erano limitati ad incidere il
calendario, segnandovi i giorni della
prigionia. Quanti individui erano passati
prima di me in quella cella? Circa mezzo
litro di liquido con qualche patata e
fagiolo nel fondo, e poi mezzo chilo di
pane: era tutto il cibo della giornata.
Il cibo complessivo era assai scarso;
sentivo che avrei patito la fame. Si prendeva aria in certi recinti circolari, divisi
in settori; al centro una specie di podio
per il guardiano che così poteva facilmente sorvegliare tutti. Vi era qualche
milite di manica larga, ed allora si poteva
girare da un settore all'altro per parlare
con gli amici; ma vi erano pure dei militi
assai aspri. Ricordo un milite siciliano
che aveva sempre il fucile fra le mani
anziché sulla spalla: per piccoli diverbi
si divertiva a puntarlo verso di noi, pur
essendo carico e senza sicura. Vi erano
anche, vestiti da militi, dei ragazzi di
circa quindici o sedici anni: mi fu assicurato che numerosi ragazzi traviati e
ricoverati nell'Istituto Beccaria erano
stati irregimentati nella milizia. Nella
prima settimana dopo il mio arresto vi fu
un grande afflusso di nuovi prigionieri
nelle carceri. Vi erano molti partigiani
che avevano partecipato alla battaglia
di San Martino in Val Cuvia. Parlavano
con calore della loro volontà di battersi
contro i tedeschi. Erano stati sopraffatti dall'aviazione e dall'artiglieria che
in gran numero avevano battuta la zona
finché fu annientata ogni possibilità di
resistenza”. “Era incessante l'arrivo di
nuovi carcerati – si legge sempre nel
libro di De Martino – La maggior parte
di essi, entrando in carcere, era costretta
a fare la conoscenza coi metodi tedeschi:
non erano pochi quelli che entravano
in cella coi segni visibili delle legnate
ricevute. Vidi una mattina numerosi
avvocati: forse, fra le varie categorie di
professionisti, la classe degli avvocati
è quella che maggiormente ha agito ed
ha sofferto. Ad onor del vero va ricordato che in regime fascista gli avvocati generalmente non hanno goduto le simpatie del despota: la legalità fa a pugni con la
prepotenza.” “Un giorno – continua De Martino – arrivò un grosso blocco di operai:
le celle furono tutte piene e nell'ora dell'aria vi fu una grande animazione. Erano gli
operai di alcune officine di Legnano e di Busto Arsizio: avevano scioperato ed erano
finiti in carcere. Un operaio mi riferì che a molte industrie era stato imposto di costruire materiale bellico per i tedeschi: circa 130.000 operai di Legnano, di Busto Arsizio e
delle località vicine si rifiutarono, subendo gravi rappresaglie.”
“Neanche di notte – scrive De Martino - ci lasciavano dormire in pace. Una notte
un giovane detenuto sentì aprire la porta della cella: due militi fascisti, muniti di
lampadine elettriche, gli domandarono dove fosse stato la sera precedente, e prima
ancora che egli rispondesse, gli appiopparono due fortissimi schiaffi da lasciarlo stordito. Il detenuto poté poi gridare che già da un mese era in carcere; i due militi lo
guardarono, riconobbero che non era lui l'uomo ricercato e se ne andarono.”
Ma anche all'interno di questo luogo di sofferenza si registrano episodi di solidarietà.
Bianca Ugo, arrestata perché antifascista, così racconta del suo rapporto con le
altre detenute: “Eravamo tutte unite, tutte concordi, tutte solidali. Se una faceva una
proposta la si discuteva approvando o disapprovando, ma con urbanità, con amore,
direi: l'idea di una poteva divenire l'idea di tutte. E se una riceveva, per certi raccordi
misteriosi, biscotti, o tè o tavolette commestibili, tutte ne beneficiavamo, perché là
veramente quello che era di una era di tutte”.
A San Vittore operano agenti di custodia, come Andrea Schivo che per essersi
prodigato per alleviare le sofferenze di detenuti ebrei, viene deportato nel lager nazista di Flossenburg, da cui non fa ritorno e suore, come Suor Enrichetta Alfieri e
altre 11 suore che fanno ogni sforzo per rendere meno drammatiche le condizioni di
vita dei detenuti.
Anche alcuni medici si prodigano per venire incontro ai detenuti, come il dottor
Gatti che prende servizio a San Vittore il 4 aprile 1944. Ricordato da tutti con
profonda stima e gratitudine, per oltre dieci mesi, con gli scarsi mezzi a disposizione
e con grave rischio personale, si prodigherà come medico per soccorrere ebrei e politici, sarà latore di messaggi all’esterno del carcere, introdurrà somme di denaro per
i partenti per il “Campo di polizia e di transito di Fossoli”, somministrerà farmaci
in grado di causare l’insorgere di sintomatologie da ricovero ospedaliero e ad ogni
partenza per la deportazione riuscirà a far depennare qualcuno dalla lista.
San Vittore sarà liberato dai partigiani delle Brigate Matteotti il 26
aprile 1945.
Una cella nei seminterrati del carcere
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Cinema
Un emozionante thriller, protagonisti due novantenni che inseguono i propri fantasmi
Interessante e documentato approfondimento delle vicende sarde
attraverso il libro Anppia di Lorenzo Di Biase
REMEMBER:
NAZISMO, OLOCAUSTO, VENDETTA, PERDONO E GIUSTIZIA
I carlofortini perseguitati dal fascismo
di Martina PARODI
di Maurizio ORRÙ
L
a Mostra del Cinema di
Venezia di quest’anno ha
saputo scegliere un film che
ci riguarda da vicino e che la nostra
memoria stenta a dimenticare. Un
cast d’eccezione con un Christopher Plummer da Coppa Volpi
per il miglior attore e un Atom
Egoyan regista impeccabile hanno
fatto di “Remember” la sorpresa
di un festival interessante, ma
senza scosse. Un thriller che è in
realtà una meditazione sulla storia,
le responsabilità individuali e la
memoria, dove i suoi novantenni
protagonisti inseguono i propri
fantasmi e le proprie ossessioni,
costretti a misurarsi con il tempo, i
suoi guasti, i suoi cambiamenti.
Dopo Francofonia, Beast of no
Nation, El Clan, Rabin, The Last
Day, la Mostra chiude la sua rilettura del cosiddetto “secolo breve”
andando nel cuore di tenebra della
Seconda guerra mondiale: nazismo,
Olocausto, vendetta, perdono e
giustizia. In una residenza americana per anziani, Max, un
ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, scopre che una delle SS
che assassinò la sua famiglia vive negli Stati Uniti, un nome
nuovo e una nuova identità, quella di Rudy Kurlander,
oramai da settant’anni. Costretto su una sedia a rotelle,
incarica così un altro ospite della casa di riposo, Zev, che fu
con lui nel campo di sterminio e come lui ebbe i genitori
uccisi, di trovare fra quattro possibili sospetti il guardiano
nazista che segnò la loro vita. Individuatolo, lo dovrà uccidere. A quell’età, non c’è più tempo per estradizioni,
processi, condanne: il rischio è che il “colpevole” nel frattempo muoia, così come del resto il suo “giustiziere”.
Zev ha già le prime tracce di Alzheimer, dimentica nomi e
luoghi, spesso non ricorda che sua moglie è morta. Max no,
Max è più che mai lucido, ma oltre a non poter camminare,
per respirare è costretto all’ossigeno.
Sarà dunque la “mente” che guiderà il “braccio”, sempre
più malfermo, dell’amico: promemoria scritti, telefonate,
pianificazione degli spostamenti. Basta che Zev segua le
indicazioni, che esegua gli ordini…
“Fra dieci anni, film così non saranno più possibili, diventeranno film d’epoca, potranno essere girati solo al passato”,
dice Egoyan. “Zev, Max, Rudy sono, per età, gli ultimi testimoni ancora viventi di quei tragici anni. Ne avevano più o
meno venti quando si ritrovarono su sponde opposte, da vittime e da carnefici, e settant’anni dopo il loro passato ritorna,
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Cultura
H
ma a patto di un presente non sempre in grado di ricordare ciò
che è stato e che intanto ha lavorato per cambiarli rispetto a
ciò che erano. La sua chiave è nella memoria, i suoi traumi,
le sue amnesie. Benjamin August, alla cui sceneggiatura perfetta si deve “Remember”, ha raccontato che, avendo sposato
una vietnamita, è rimasto sorpreso di come nella famiglia
della moglie gli orrori della guerra del Vietnam fossero stati
completamente rimossi, quasi che quel conflitto spaventoso
non fosse mai esistito. Ecco, “Remember” è anche questo: svelarne di più non mi sembrerebbe corretto verso chi non lo ha
ancora visto”.
Senza dire altro, “Remember” è un perfetto meccanismo a orologeria dove preda e cacciatore si assomigliano
più di quanto, nei rispettivi ruoli, ciascuno voglia e possa
ammettere.
Non è tanto la “banalità del male” di arendtiana memoria a tenere banco, quanto qualcosa di più complesso dove
l’estremismo religioso, ideologico, razziale, ha nella sua
fissità, nell’incapacità a comprendere l’altro da sé, qualcosa di primordiale, non umano, ovvero troppo umano.
Ottantacinquenne in ottima forma nella vita, Christopher
Plummer disegna sullo schermo un novantenne incerto nei
movimenti, introverso, senilmente fragile e con l’innocenza
un po’ infantile di chi, avendo conosciuto il male, ha deciso
di negarne l’esistenza. Il resto sta a voi scoprirlo. Il film è
nelle sale da metà ottobre.
a fatto bene l’Anppia a
pubblicare il bel volume di
Lorenzo Di Biase sulla
vicenda degli antifascisti calorfortini.
Si tratta di una pubblicazione che
entra a pieno titolo nella biblioteca
dell’antifascismo e della storia contemporanea sarda e nazionale. L’agile e
dotto volume si dimostra, dopo una
attenta lettura, utile non solo per gli
studiosi, ma anche per coloro i quali
sono appassionati alle vicende legate
all’antifascismo militante. Lorenzo Di
Biase nel ricordare gli antifascisti
carlofortini scrive: “Questi oscuri eroi
antifascisti mantennero vivo il loro
ideale e per questo motivo rischiarono di
persona, anche a causa del metodo delle
delazioni, il carcere, il confino, le
continue angherie dei fascisti locali, le
inquietanti perquisizioni domestiche, le
costanti piccole e grandi vessazioni, le
manganellate e l’olio di ricino... ”.
Purtroppo queste erano “le costanti
politiche” che il ventennale regime
mussoliniano aveva creato e diffuso
nella nostra martoriata Italia. L’autore
ha compiuto un lavoro encomiabile e
certosino nel filone del ricordo e della
storia. Nella storia contemporanea
sarda e nazionale vi sono tanti personaggi che sono stati ingiustamente
dimenticati, o meglio oscurati, dalle
vicende storiche e politiche. Questo
lavoro di ricerca si propone di restituire la memoria di otto antifascisti
carlofortini (Biggio Leopoldo, i
fratelli Bonifai Carlo e Luigi,
Bonifai
Saturnino,
Luxoro
Agostino, Plaisant Gregorio
Nicodemo, Rossino Augusto e
Rosso Silvio) con uno spirito divulgativo, che rientra nelle finalità
dell’ANPPIA, che vuole essere, ed è,
una memoria storica militante, che
persegue l’amore per la pace, la democrazia e la libertà. Infatti nell’Italia che
stiamo vivendo, ovvero nell’imbarbarimento della vita pubblica, nella decadenza continua e strisciante dell’etica
e dei costumi, conoscere e studiare alti
esempi di esperienze umane e politiche di militanti dell’antifascismo e
della Resistenza, vuol significare una
storia senza retorica e senza enfasi.
Necessita solo la verità dei fatti, o
meglio onestà intellettuale, così come
vuole da decenni la vita associativa
dell’ANPPIA.
Lorenzo Di Biase vanta anni di
intensa attività di studio dedicato alle
azioni antifasciste e resistenziali sarde
e nazionali. Un lavoro instancabile che
si è concretizzato, oltre che in articoli giornalistici, anche in saggi storici
pubblicati per le edizioni ANPPIA
della Sardegna.
L’autore, per la stesura della ricerca,
si è basato su una rigorosa documentazione che proviene dagli archivi,
dai casellari politici, dalle Prefetture,
ovvero, le fonti necessarie per una
ricostruzione articolata degli avvenimenti e dei contesti storici in cui si
è dipanata la vicenda degli antifascisti carlofortini. Sono dell’avviso che
bisogna riappropriarsi della storia,
delle vicende e dei personaggi che
sono entrati prepotentemente nella
coscienza collettiva dei democratici e
dei progressisti italiani.
Per concludere, volendo dare un
giudizio sintetico, posso affermare,
con cognizione di causa, che si tratta
di un libro ricco di sapienza e di contenuto, così come sono state tutte le
pubblicazioni di Lorenzo Di Biase.
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Giornalismo
Luoghi della Memoria
Cavallari, partigiano della verità
Fu un mitico direttore del Corriere della Sera di via Solferino a Milano
27
Ferramonti, campo di sterminio figlio delle leggi
razziali del 1938
di Filippo SENATORE
“La forza di Sisifo” della casa
editrice torinese Aragno è stato
pubblicato sul finire del 2011.
L’arte del comporre non è solo dei
musicisti. Raccogliere e ricercare
sono culture antiche. L’amor di sintesi
descrive un’epoca, uno stile, un personaggio.
La sensibilità suscita e rinverdisce parole perdute e atmosfere non
sempre riproducibili. Solo la mano
leggera di Marzio Breda, “quirinalista” al Corriere della Sera poteva
produrre un ritratto d’autore autentico con i materiali primigeni
di Alberto Cavallari,
mitico direttore del Corriere
della Sera.
Raccogliere cinquanta anni
di pubblicistica dal multiforme ingegno non era facile,
ma Breda ha seguito con il
fiuto del cronista le orme del
Maestro. Nel Dopoguerra in
un’austera stanza disadorna
di via Solferino Dino Buzzati
accoglie il giovane allievo piacentino
concittadino del giurista illuminista,
Giandomenico Romagnosi, impartendo lezioni memorabili. ”Disciplina
professionale, fedeltà alle regole della
cronaca, rispetto della notizia, castità
di scrittura, capacità di cogliere dettagli da elevare a metafora di una storia”.
Sono i fondamentali di un mestiere
nobile esercitato con “l’austerità di una
grisaglia” che richiama il rigore degli
antichi frequentatori dell’agorà.
Come Albert Camus di passaggio
in Italia che intreccia con Buzzati un
dialogo che colpisce profondamente
Cavallari al punto da forgiare nel suo
profondo uno spirito critico ed eretico
“nel secolo delle catene ideologiche”.
Il titolo di questa antologia di scritti
si ispira alla celebre opera camusiana con un aggettivo che rievoca un
titolo da melodramma (La Forza del
Destino di Giuseppe Verdi) derivato
dall’orgoglio emiliano.
Marzio Breda ha applicato un
metodo archivistico molto rigoroso, scegliendo una sequenza di testi
non cronologica, ma per argomento
quasi volesse far conoscere gli aspetti
multiformi di una scrittura definita
da Indro Montanelli efficace in
funzione della sua sobrietà, della sua
rinunzia ad ogni eloquenza, rarità di
un novello Tacito. Forse uno dei suoi
pezzi più belli è quello del 1979, all’epoca corrispondente a Parigi. Lo
scritto è dedicato agli italiani in esilio
dimenticati nelle “urne dei forti” con
una richiesta all’allora presidente
Pertini di portare non solo le spoglie
“dei prischi eroi” ma le idee, che divenissero canto in un Paese senza
memoria dei Gobetti, dei Turati, dei
Rosselli. La formazione culturale del
giovane cronista affonda nelle radici
laiche di tutto il movimento dell’epopea resistenziale di Giustizia e
Libertà. Scoperto da Elio Vittorini, Cavallari esordisce a 18 anni
facendo la gavetta a “L’Italia libera”.
organo del Partito d’Azione. Nel
1950 entra a Epoca. Nel 1954 lo
assume il Corriere di cui diventa
inviato speciale.
Nel 1965 Cavallari è il primo
giornalista che intervista un Papa.
Lo stile ricorda il pathos narrativo di Thomas S. Eliot. “Paolo VI si
è fermato, portando le mani sopra la
scrivania , guardandole per un attimo,
come sconcertato dalla loro fragilità.
Ma poi le ha nascoste subito, quasi per
un improvviso pudore, ed è passato, con
il realismo che dicevo, alle frasi più illuminanti del suo personaggio di papa
moderno, incapace di illusioni”.
Dopo il 1969 egli ha diretto prima
il “Gazzettino di Venezia" e poi
la redazione romana dell’Europeo.
Alberto Cavallari ha guidato il
Corriere dal 1981 al 1984. Come un
eroe di Conrad, il direttore compie “la
più spaventosa delle traversate con il
mare sempre in tempesta e con il vento
contrario, ogni giorno rischiando il
naufragio”.
Il giornale sull’orlo della bancarotta,
infestato da una banda di corrotti,
rinasce in pochi anni.
Così Cavallari descrive il percorso
di quegli anni: ”Ho cominciato a dirigerlo dopo che la P2 aveva macchiato la
sua bandiera, quando l’onda del discredito minacciava tutti”. I lettori hanno
consentito il miracolo ma il
direttore è isolato dalla prepotenza di una fazione politica.
Gli ultimi anni di Cavallari segnano ancora di più
la sua personalità di uomo
scomodo, inviso ai potenti,
confinato
nell’immaginario deserto dei Tartari. Egli
riflette sull’idea di giornalismo
e
delle
nuove
tecnologie di comunicazione
nelle lezioni, tenute alla Sorbona di
Parigi. Chiamato da Eugenio Scalfari, scrive per “Repubblica”. Una
sorta di nemesi storica, vissuta anni
prima da Alfredo Frassati altro
grande del giornalismo italiano, direttore della Stampa. Il cardinale Achille
Silvestrini, nell’omelia ai funerali del
luglio del 1998, lo definisce “partigiano
della verità”. Ma la definizione più
calzante è dello stesso Cavallari che
ironicamente si prende in giro: “Visse,
scrisse, viaggiò, cioè inutilmente fuggì”.
Una parabola attuale dell’utopia di
chi riparte nella speranza che il tempo
torni ad essere galantuomo.
Alberto Cavallari, La forza di
Sisifo, a cura di Marzio Breda,
Aragno editore, pagine 258, euro 15
S
ono passati più di dieci anni
dall’uscita del libro di
Francesco Folino sul
campo di concentramento di Ferramonti e
la sua attualità rimane indelebile nel
tempo a ricordare che i fascisti non
erano meno feroci dei nazisti: una
leggenda dura a morire. Solo la dinamica bellica – la liberazione del Sud da
parte degli Alleati – impedì il compimento di un eccidio già pianificato con
ferocia da Mussolini. La costruzione
del Campo fu l’attuazione del disegno
ideologico-criminoso tracciato dalle
leggi razziali del 1938. L’autore
evidenzia che “Il 9 agosto il ministero
dell’Educazione nazionale incominciava il censimento del personale di
razza ebraica, che a qualsiasi titolo
dipendesse dal ministero, di ruolo e non
di ruolo, in servizio presso gli uffici o
presso le scuole pareggiate o parificate,
presso gli istituti superiori di ogni
ordine e grado, con l’invito di rispondere ad una scheda già predisposta e di
sottoscriverla”.
Il ministro Bottai epurò in pochi
mesi il personale di origine ebrea. La
Banca di Italia diramò un comunicato per “censire” i conti correnti e i risparmi delle famiglie ebraiche. Pronti
al saccheggio? Il 25 maggio 1940 furono allertati tutti i prefetti per procedere all’internamento di ebrei italiani
e stranieri. Il sottosegretario agli
Interni Buffarini-Guidi comunicò al
Il campo d’internamento di Ferramonti, in Calabria
Capo della Polizia Arturo Bocchini l’ordine mussoliniano di preparare i campi
di concentramento. I rastrellamenti degli ebrei iniziarono con l’entrata in guerra
a fianco di Hitler. Italiani e stranieri furono sottoposti all’arresto e alla deportazione. Il 20 giugno ci furono i primi arrivi degli internati a Ferramonti ancora
in costruzione. Il numero crebbe fino a raggiungere oltre duemila unità. Esseri
umani provenienti da varie nazioni parlavano il tedesco, il croato, il greco, lo
spagnolo, il ceco, e lo jiddish.
Il campo sorgeva in una zona paludosa e malarica a pochi passi dal piccolo comune di Tarsia in provincia di Cosenza. Precisa Folino sui prigionieri: “si
trattava prevalentemente di ebrei stranieri, italiani, di antifascisti e piccoli c ambulanti cinesi”. L’organizzazione tra internati aumentò lo spirito di sopravvivenza.
La qualità di cibo sufficiente nel campo nel 1940 nel tempo diminuì. Nel 1941
scarseggiarono gli alimenti. La fame e la denutrizione nel 1943 avevano colpito i
più deboli, vecchi e bambini. La durezza del regime di internamento fu attenuata
grazie all’intervento dell’ex prefetto fascista Dante Almansi che guidava l’Unione delle Comunità israelitiche. Aiuti arrivarono dall’organizzazione internazionale Joint di New York. Nel 1942 e ‘43 Riccardo Pacifici, rabbino di
Genova fece frequenti visite per rincuorare la propria gente ma, catturato dai fascisti e deportato a Auschwitz, morì il 12 dicembre ‘43.
La Chiesa cattolica e la Croce Rossa internazionale aiutarono gli internati allo
stremo con opere di carità che non bastarono. Si cercò di organizzare la comunità dove c’erano molti bambini con scuole, strutture minime di convivenza, un
comitato di soccorso per i più deboli. La situazione alimentare peggiorò nell’estate del ’43. Fiorì il contrabbando del pane, Con la caduta di Mussolini furono
attenuate le misure di controllo nel campo. Il 27 agosto in un duello aereo tra
germanici e Alleati andò in fiamme un padiglione di Ferramonti provocando
tre morti e 17 feriti. Gli alleati si presentarono al campo il 17 settembre. Gli internati liberati furono assistiti e riforniti di cibo in abbondanza. Lo sgombero
definitivo del campo avvenne nel settembre del ‘45. Il libro è arricchito da documenti storici del Centro di documentazione ebraica di Milano. Francesco
Folino dimostra che Ferramonti è il prodotto delle leggi razziali del ’38, un disegno criminoso del regime non portato a termine per il tempestivo arrivo degli
alleati. Altrimenti ci sarebbe stato lo sterminio degli internati pianificato dai fascisti per compiacere l’alleato germanico. (f.s.)
Francesco Folino, “Ferramonti? Un misfatto senza sconti"
Edizioni Brenner, Cosenza
28
Arte
Arte
Interessante mostra a Palazzo Braschi con immagini degli US Corps e dell’istituto Luce
“War is over”, la Resistenza raccontata dai clic fotografici
di Elisabetta VILLAGGIO
È
stata inaugurata
il 26 settembre la
mostra War is
over! L’Italia della
liberazione
nelle
immagini degli U.S.
Corps e dell’istituto
Luce, 1943-1946, che
sarà ospite fino al 10
gennaio 2016 a Palazzo
Braschi, il Museo di
Roma dove è conservato
l’archivio
fotografico
della città con foto della
capitale che vanno dal
1845, quindi praticamente dalla nascita della
fotografia stessa, e dove
durante il fascismo negli
scantinati di questo
palazzo furono torturate diverse persone.
War is over è un’interessante esposizione
che, attraverso la selezione di circa 140 immagini, con molti scatti inediti, e
filmati d’epoca nel periodo compreso tra il luglio del 1943, cioè lo sbarco degli
alleati in Sicilia, e il 1946, quindi a guerra finita, racconta quel periodo attraverso i suoi protagonisti, italiani e americani, e il confronto, unico e suggestivo,
tra i due differenti punti di vista.
Da una parte gli scatti dell’Istituto Luce, l’organo ufficiale per la documentazione foto-cinematografica del regime, dove il bianco e nero è espressione
prima del cupo declino del fascismo e poi della sobrietà di una classe dirigente
che cerca di ricostruire sulle rovine della guerra.
Dall’altra parte le fotografie dei Signal Corps, l’efficiente servizio di comunicazioni al seguito delle truppe statunitensi, provenienti da un raro repertorio,
conservato presso la NARA (National Archives and Records Administration) di
Washington e solo in parte conosciuto in Italia. Qui il colore diventa il segno
di un’Italia diversa, rivelata da operatori e fotografi più attenti al dato sociale
e uno strumento di esportazione dell’american way of life che, con la ricostruzione, raggiunge anche l’Italia. I Signal Corps sono i corpi militari addetti alla
comunicazione, dotati di un ampio
raggio d’azione, dai collegamenti
telefonici e radiofonici ai filmati per
l’addestramento dei soldati, dalle
fotografie di guerra ai cinegiornali e
ai Combat Film.
“In questa mostra mettiamo a
confronto due diversi sguardi sulla
Liberazione in Italia, che non intendiamo raccontare come un episodio, ma
come un processo. Liberazione è quel
faticoso, lungo e sanguinoso processo
che si apre con lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la caduta del fascismo,
nel luglio del 1943, e prosegue con la
loro lenta avanzata lungo la penisola, mentre l’Italia è divisa tra due
soggetti politico-militari (il “Regno
del sud” cobelligerante con gli Alleati
e la Repubblica Sociale al nord sotto
il dominio tedesco) e nasce la Resistenza, grazie alla quale si compie
materialmente e psicologicamente un
percorso di rigenerazione e di rinascita
del Paese” raccontano i curatori della
mostra Gabriele D’Autilia e Enrico
Menduni.
La scelta delle foto è molto interessante e dimostra come lo sguardo
sia molto diverso se l’occhio è quello
di una macchina fotografica americana o quello italiano dell’Istituto
Luce che raccoglie maggiormente il
momento di dolore che il paese stava
attraversando in quegli anni.
Tra le foto americane a colori
c’è molta sperimentazione: infatti
avevano delle tecniche particolari e
costose. Si doveva trasmettere, attraverso foto colorate, un’idea di guerra
già quasi vinta quindi si guardava in
avanti, al futuro, mentre il bianco e
nero delle foto italiane raffigurava il
vecchio, l’antico e rappresenta l’immagine di quei film neorealisti che si
sarebbero realizzati da lì a poco.
La mostra è divisa in dieci sezioni
dove ognuna pone l’accento sui due
diversi sguardi cioè l’approccio
differente in base alle documentazioni. Così possiamo vedere la foto
americana a colori con la soldatessa
a cavallo di un mulo circondata
da contadine italiane povere e la
foto in bianco e nero italiana che
mostra dolore e morte. Tra le immagini censurate dall’Italia c’erano
tutte quelle che facevano vedere un
divertimento, un ballo o anche solo
dei sorrisi. Tutte le foto censurate
avevano un marchio nero, con scritto
rgr, Reparto Guerra Riservati. Le
foto che raffiguravano qualcosa che
non fosse terribilmente triste, come
per esempio quella di un soldato
italiano sorridente, erano rigorosamente censurate dal regime con tanto
di etichetta. Una tra queste è la bellissima e significante foto che riprende
un palazzo distrutto dove rimane
appesa la targa che indica il nome
della strada: Via Benito Mussolini. La
censura intervenne immediatamente
per bloccare l’immagine perché, oltre
al fatto che la targa fosse in pratica
l’unica cosa rimasta in piedi del
palazzo, c’era anche il doppio gioco
della parola via intesa come strada ma
anche come mandar via.
L’istituto Luce ritrae e mostra
soprattutto un’Italia che soffre, che
va avanti partendo da una situazione
drammatica mentre gli americani
hanno una visione diversa, più futurista, con le immagini a colori, con
soldati sorridenti e l’idea di una ricostruzione già cominciata. Nelle foto
italiane si vede che la guerra lascia sui
volti il segno del dolore anche quando
si rappresentano momenti di spensieratezza o normalità, infatti, gli italiani
non sorridono mai mentre gli americani si mettono in posa allegramente
davanti ai palazzi e alle residenze
sequestrate a Mussolini e ai gerarchi
fascisti.
Tra le foto dell’Istituto Luce ce n’è
una molto particolare che raffigura
il Papa Pio XII nell’agosto del ’43,
dopo che Roma è stata bombardata,
29
mentre distribuisce soldi, vere e proprie mazzette di
denaro. Sullo sfondo si riconosce un giovane Cardinal Montini, il futuro Paolo VI con un’espressione
sconcertata.
Le foto americane erano spedite a Washington nel
giro di un mese, tempi per l’epoca molto rapidi, dove
erano stampate e diffuse a giornali e riviste; infatti,
quasi tutte le foto della stampa americana in tempo di
guerra arrivavano dai Signal Corps. Gli americani,
che erano sempre molto scrupolosi nelle rappresentazioni, dovevano dare tutte le informazioni possibili sui
soggetti fotografati. Molte le donne nelle foto americane, infatti, c’era un esercito misto. Nella sezione
amore e guerra vediamo foto di soldati e soldatesse
americane abbracciati. Inizialmente c’erano regole
ferree e non si voleva certo dare l’idea di un esercito
promiscuo ma a un certo punto certe regole, specialmente alla fine della guerra,
furono abbandonate. Molte foto anche di persone che guardano in alto che sono
tipiche della guerra proprio perché c’erano i bombardamenti.
Anche il dolore aveva i suoi criteri di rappresentazione. Le foto italiane sono
molto evocative con la morte in primo piano ma la morte del nemico, poiché
quella dei propri soldati non si voleva raccontare troppo. La morte non si poteva
negare ma era filtrata. C’è una foto americana esplicativa a questo proposito,
dove si vede un soldato che ha subito un’amputazione ed è curato da un’in-
fermiera esperta che trasmette sicurezza. Il soldato e l’infermiera sorridono
entrambi in posa: il messaggio è di avere tutto sotto controllo anche le conseguenze di una guerra.
Tuttavia c’è un messaggio di speranza soprattutto nelle immagini delle
ultime sezioni quando ormai la guerra era finita e poteva cominciare la ricostruzione. Il quadro generale della mostra War is over è di una grande
lezione sull’importanza della memoria. Tutti i popoli e i paesi vivono di
contraddizioni. I momenti difficili vanno ricordati e qui attraversiamo il
percorso difficilissimo che l’Italia ha fatto e queste immagini testimoniano
come possa essere utile a tutti guardare con più serenità e comprensione quello
che succede intorno a noi oggi.
30
Noi
Noi
MILANO
LIVORNO
PREMIO MATTEOTTI
Al Campo della Gloria ricordati gli eroi antifascisti
Giovedì 29 ottobre al campo della Gloria si è svolta la manifestazione in onore dei Combattenti per
la libertà, dei militari italiani internati dopo l’8 settembre 1943, dei deportati nei lager nazisti per motivi politici e a seguito della persecuzione antisemita.
Sono intervenuti rappresentanti del Comune, della Provincia, della Regione, della Diocesi milanese, il Rabbino capo, il Comandante del Presidio Militare di Milano.
Per l’Anppia era presente Gino Morrone, presidente della Federazione milanese. Ha concluso la cerimonia, a nome
delle Associazioni partigiane e combattentistiche, Mario
Artali, presidente nazionale FIAP. Subito dopo al Cimitero Monumentale si sono svolte le tradizionali cerimonie
al Monumento del deportato e al Cimitero ebraico. Ecco
una sintesi dell’intervento di Artali al Campo della Gloria
“Abbiamo ascoltato il saluto e constatato la partecipazione
attiva di alcune delle più autorevoli organizzazioni che qui
si ritrovano ogni anno alla vigilia del giorno di commemorazione dei defunti per tributare il dovuto omaggio a coloro che
hanno dato la vita per la libertà della Patria.
Mi limiterò quindi a poche considerazioni , quasi una sottolineatura del manifesto approvato dalla Confederazione
Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane
in occasione della celebrazione dell’altra imminente data del
4 Novembre, giornata delle Forze Armate e festa della Unità
Nazionale.
Perché questo noi oggi ricordiamo: quanto è stato difficile e
denso di sacrifici il percorso della libertà e come a noi tocchi
il compito di batterci perché la memoria non vada smarrita.
Mi sono tornate alla mente le poche righe di un grande poeta,
Salvatore Quasimodo, che esprimono più di molti saggi l’orrore di quei giorni:
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telefono ?
Alle fronde di salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al nostro vento.
Contro quell’orrore si sono battuti combattenti di tutti i colori dell’arcobaleno, anche perché la libertà, per sua natura,
non può rivestirsi di un solo colore.
Non c’è dubbio che la riconquista della libertà è stata possibile, prima di tutto, grazie a coloro che si sono sacrificati - nei
lunghi anni della dittatura -nel lavoro clandestino, nelle carceri o al confino, nell’esilio.
È ciò che abbiamo ricordato insieme l’anno scorso - nel 70esi-
mo del suo sacrificio- nel nome di Giacomo Matteotti, così
come abbiamo fatto quest’anno nel 70esimo del 25 Aprile
1945, la data della insurrezione vittoriosa.
Si apre ora il 70esimo anniversario del triennio della costruzione delle libere istituzioni: la Repubblica, l’Assemblea costituente, le elezioni libere e con il voto delle donne, il Trattato di pace e la riconquista della piena libertà, unico tra i paesi
dell’Asse e proprio grazie alla entità delle forze cobelligeranti
e di quelle partigiane.
Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la sconfitta
dell’orrore e gli immensi sacrifici che sono stati necessari.
E chi potrebbe dirlo meglio di quel cha fa Piero Calamandrei,
nel discorso ai giovani pronunciato qui a Milano il 26 gennaio
1955 :
“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata
la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i
partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi
dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.”
Ho iniziato citando il documento della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane a
pochi giorni dal 4 Novembre, giornata delle Forze Armate e
festa della Unità Nazionale.
Non è un atto formale né solo l’adempimento di un dovere
l’omaggio alle Forze Armate, il cui ruolo nella lotta di Liberazione è stato a lungo non adeguatamente riconosciuto nonostante i più di 80.000 caduti tra Esercito, inclusi gli Internati
Militari che rifiutarono la RSI, la Marina che rifiutò la consegna delle Navi e subì gravi perdite, i più di 2000 aviatori.
Ecco perché nel documento della Confederazione che ho ricordato abbiamo voluto scrivere che le Associazioni Combattentistiche e Partigiane manifestano “riconoscenza alle Forze Armate, presidio delle istituzioni repubblicane, ai militari
che all’estero rischiano la vita, per la pace e la convivenza tra
i popoli e le nazioni e a tutti i combattenti per la libertà”.
Dobbiamo ricostruire nelle coscienze e soprattutto nelle
scuole il senso di questo sforzo comune, di quello che fu, ma
non è ancora adeguatamente riconosciuto come tale, il secondo Risorgimento della Nazione”.
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il saggio della storica italo-tunisina,
pubblicato grazie all'ANPPIA NAZIONALE
In occasione del centenario della Grande Guerra l'ANPPIA
di Livorno in collaborazione con il Comune di Livorno,
il CIDI, l'Associazione Don Nesi Corea, il Centro Studi
Non Violenza, la Fondazione Livorno, ha organizzato due
incontri per i giorni 4 e 5 Novembre Nel ricordo della Prima
Guerra Mondiale, preludio violento ai fascismi europei.
L'URLO CONTRO IL REGIME
di Leila El Houssi
con il contributo dell'
ANPPIA Nazionale
Carocci Editore, 2014
Per info contattare:
[email protected]
Il libro ''L'urlo contro il regime. Gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerrÈ'
dell'italo-tunisina Leila El Houssi, finanziato
dall'ANPPIA NAZIONALE si è aggiudicato la XI
Edizione del Premio Giacomo Matteotti, sezione Saggistica, ex aequo con ''La buona politica. Da
Machiavelli alla Terza Repubblica'' di Valdo Spini. Il
Premio, che viene assegnato ad opere che illustrano
gli ideali di fratellanza tra i popoli, di libertà e giustizia sociale che hanno ispirato la vita di Giacomo
Matteotti, verrà materialmente consegnato ai vincitori il 16 ottobre 2015 durante una cerimonia presso
la Presidenza del Consiglio dei ministri. ''Sono profondamente emozionata che al mio volume sia stato
assegnato il prestigioso Premio Matteotti'' spiega ad
ANSAmed la Docente di Storia del Medio Oriente
presso l'Università di Firenze, Leila El Houssi, che
precisa: ''il volume, frutto di un'impegnativa ricerca,
affronta il tema dell'antifascismo italiano in Tunisia
tra le due guerre mondiali e rimette in discussione il
luogo comune secondo cui la numerosa collettività
italiana presente nel paese nordafricano fosse totalmente schierata col regime fascista. In realtà, contro
la dittatura di Mussolini e la sua propaganda sorse
una corrente di opposizione i cui protagonisti furono
membri dell'élite borghese liberale di appartenenza
massonica, militanti del movimento anarchico, esponenti della classe operaia organizzata nei partiti della
sinistra socialista e comunista e aderenti a Giustizia e
Libertà. Nacque così un dinamico laboratorio politico animato da giovani italo-tunisini che vide nei primi anni Trenta la costituzione della sezione tunisina
della Lega italiana dei diritti dell'uomo (Lidu) e, in
seguito, l'apporto di personalità politiche come Velio
Spano e Giorgio Amendola inviati dal Centro estero
del PCI per dare respiro internazionale al movimento antifascista di Tunisia. Le vicende di questo nucleo
antifascista sono state ricostruite attraverso l'analisi
della stampa, della memorialistica e di una vasta documentazione reperita negli archivi tunisini, italiani
e francesi''. ''Dedico questo premio a tutte le donne e
gli uomini che hanno combattuto in nome della democrazia e della libertà'', conclude la El Houssi. SOTTOSCRIZIONI:
OTELLO NICOLINI di Rubiera (RE) i figli Ivano e Silvana versano a sostegno
€ 100.00 ¤
CARLO PORTA di Reggio Emilia la moglie Lea e la figlia Vanna versano a sostegno
€ 50.00 ¤
L'Editoriale
La sede principale della Volkswagen in Germania
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
segue dalla prima pagina
Se l’immagine delle formiche nordiste e delle cicale sudiste è senz’altro fuorviante; se è
vero che l’Ovest è più abituato ai migranti, mentre l’Est vede maggiormente minacciato un
livello di vita da poco acquisito dopo la stagnazione comunista, la vera malattia dell’Europa,
la ragione prima di politiche economiche che hanno diviso il Nord dall’area mediterranea
e che non hanno evitate le chiusure nazionalistiche dell’Est (in primo luogo dell’Ungheria,
con un governo di destra che prima di erigere muri aveva sfidato le banche straniere, garantendo incrementi di Pil ai quali l’Italia ancora aspira), tutto ciò è dovuto al fatto che l’Europa
dell’euro politicamente non esiste e le sue autorità sono subordinate alle multinazionali del
capitalismo globalizzato.
Si è detto che la truffa della Volkswagen è stata scoperta quasi per caso da un funzionario dell’International Council on Clean Transportation che studiava le meraviglie della
tecnologia tedesca, lavorando per un ente privato finanziato da privati. Non è credibile; la
truffa esiste, ma probabilmente siamo di fronte a una competizione tra multinazionali per il
ricco mercato nordamericano e il “Financial Times” ha documentato che al vertice dell’Unione europea si sapeva delle manipolazioni sin dal 2013 (e quindi lo si sapeva anche negli
Stati Uniti, data la nota vicenda delle intercettazioni telefoniche), ma che non si poteva intervenire. Perché non si poteva? Al di là della normativa giuridica, la ragione di fondo è il
condizionamento delle multinazionali sulle autorità politiche europee, come lasciava capire
già nel 2014, all’atto dell’insediamento della commissione Juncker, una ricerca risultato del
lavoro di 80 giornalisti di 26 Paesi, collegati nell’International Consortium of Investigative
Journalist (Icij). Essi hammo spulciato per sei mesi 24.000 pagine di documenti riservati che
documentano come trecento multinazionali si sono serviti del Lussemburgo come paradiso
fiscale (evadendo le tasse nei Paesi ove operano) col sostegno del primo ministro dell’epoca,
Jean Claude Juncker, divenuto nel frattempo capo della Commissione europea che impone
il rigore fiscale e mette alla fame la Grecia perché non persegue gli evasori. L’inchiesta è presto caduta nel dimenticatoio, ma è questa subordinazione dei vertici dell’Ue ai poteri forti
che alimenta la critica detta populista e induce i Paesi dell’Est a osteggiare gli immigranti in
nome del nazionalismo, dopo che nel libro “Tempo guadagnato” (ed. Feltrinelli), Wolfgang
Street, “non un estremista, ma uno dei più noti e stimati ’political economist’ mondiali, auspica come minor male “la fine del sistema monetario europeo” (Michele Salvati, con parere
contrario, su “Il Mulino") col recupero di sovranità nazionali, così come un nostro studioso,
di cultura riformista, del capitale finanziario, è giunto recentemente ad auspicare l’uscita
dell’Italia dall’euro, in base all’art. 50 del Trattato (Luciano Gallino, “la Repubblica”, 22 settembre). Conclusione: o l’Europa diventa un soggetto politico, non più subalterno al potere
forte delle multinazionali, ma in grado di controllarle (ed è dubbio che possa farlo l’attuale
classe dirigente alla Juncker), oppure rischia di esplodere sotto le spinte convergenti degli
scandali alla Volkswagen e dei populismi anti-immigrati dell’Est e delle ispirazioni indipendentiste, dalla Scozia alla Catalogna.
di Giorgio GALLI
Direttore Responsabile:
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In Redazione:
Maurizio Galli
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A QUESTO NUMERO:
Roberto Cenati, Nicola Corda,
Saverio Ferrari,Mimmo Franzinelli,
Giorgio Galli, Maurizio Galli,
Maurizio Orrù, Martina Parodi,
Ferruccio Parri,PierLuigi Razzano,
Theo Salpingidis, Filippo Senatore,
Carlo Tognoli, Elisabetta Villaggio
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a l’antifascista
Chiuso in redazione il: 27/11/2015
finito di stampare il: 4/12/2015
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
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Settembre – Ottobre 2015