l’antifascista
periodico degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LIX - n° 6,7,8,9 Giugno-Luglio-Agosto-Settembre 2012
L’editoriale
Giorni terribili sono arrivati
di Guido Albertelli
Giorni terribili sono arrivati.
Un’intera regione, il Lazio, travolta
non solo da una non politica, ma da
comportamenti inimmaginabili dei
suoi componenti. I ladri all’ombra
dell’Istituzione si dividevano a loro
piacimento risorse dei cittadini per
un uso rozzo, volgare e personale.
Viene giù anche la Regione
Lombardia col suo presidente. Un
cattolico, timorato di Dio, appartenente a un movimento che pone la
solidarietà, il rispetto e la fede come
obiettivo di vita, vive quella personale usufruendo del lusso messogli
a disposizione da amici che fanno affari con la Regione. Non se ne pente,
anzi ne è fiero e vuole continuare a
sedere sul seggio, dimostrando all’opinione pubblica che non c’è limite
alla spudoratezza e alla mancanza di
sensibilità, finché viene travolto perché si scopre che la ‘ndrangheta si
era infiltrata nel Consiglio regionale.
Questi sono gli esempi che diamo a
un Paese impoverito e disamorato. Il
fango sale e la gente si accorge che ha
già i piedi bagnati.
È una vita che l’Anppia conduce la
sua battaglia, tesa a riportare i valori morali al livello di una volta, ricordando esempi di vita di politici
antifascisti che si batterono fino alla
morte restando poveri e disinteressati. Questo mondo passato resta
un punto di riferimento per tutte le
persone anziane che hanno vissuto il
dopoguerra, ricostruendo un futuro
per i figli, mangiando sul lavoro pane
e cicoria e avendo un solo vestito
buono lungo la loro esistenza. Cosa
penseranno ora, sul declino della loro
vita, guardando quest’Italia irriconoscibile e amorale? Potranno raccontare ai nipoti il tempo migliore che
fu, ma i nipoti non vogliono ascoltare
perché sono presi dal mondo dei cellulari e degli ipad. E allora subentra
la tristezza e la malinconia che porta
Quando la mafia mi condannò a morte
Il giudice Imposimato ricostruisce per noi la stagione delle stragi e il rapporto
criminalità-servizi deviati
di Ferdinando Imposimato
N
on c’è mai stata soluzione di continuità tra la strage di Piazza Fontana e
tutte le altre che hanno insanguinato l’Italia fino al 1993. Le stragi sono
state strumento di lotta politica, per stabilizzare il potere esistente o per
consentire alle forze conservatrici di conquistarlo nel momento in cui le forze
democratiche stavano operando il cambiamento. Le prove di questa drammatica
verità sono emerse in molte inchieste. Ma i giornali e la Tv non ne parlano, se non
in modo superficiale e deviante.
Non si vuole che gli italiani
sappiano la verità.
La trattativa e le stragi
Molti anni fa, eravamo nel
1992, una giornalista americana, Judith Harris, del Reader’s
digest, mi chiese quale fosse
la differenza tra Br e mafia.
Senza pensarci due volte risposi:
«Le Br sono contro lo Stato,
la mafia è con lo Stato. E spiegai che la capacità della mafia
è di intessere legami stretti con
istituzioni, politica, magistratura, servizi segreti, a tutti i
livelli. Con le buone o le cattive
maniere. Chi resiste, come Boris
Giuliano, Dalla Chiesa, Falcone e
segue a pagina 2
Ferdinando Imposimato
I luoghi della storia
Porta Lame a Bologna
di Mario Tempesta
Attualità
Imposimato
a pagina 2
Cultura
Nivola
Nella cultura popolare il nome di questa città viene spesso
indicato con alcuni aggettivi che la contraddistinguono:
turrita, dotta, grassa, rossa. Turrita per le numerosi torri
che caratterizzano la città medievale, dotta per l’Università
più antica d’Europa, grassa per l’opulenza della sua cucina
tradizionale, rossa per il colore dei muri e dei tetti delle sue
abitazioni ma anche per la sofferta lotta antifascista, per la
quale è stata decorata di medaglia d’oro il 24 novembre 1946
dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola.
segue a pagina 14
a pagina 8
Memorie
Russo
a pagina 18
Noi
Nuove destre
a pagina 21
Congresso Nazionale ANPPIA
Lettere
Il XVII Congresso nazionale si terrà a Roma presso
l’Hotel S. Bernardo nei giorni 9, 10 e 11 novembre 2012
9 martiri
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
a pagina 21
2
Attualità
L’editoriale
all’indifferenza. Ma ce ne sono molti
che non si arrendono e hanno trasmesso ai figli la visione dei confini
ideali della vita. I confini etici che
non possono essere superati perché
sono sopra di tutti e validi per sempre. Il ladro non li vede, ma il mondo
delle ombre di chi ha costruito nobilmente il Paese che è sotto di loro, sì,
li vede e ha memoria.
Gli antifascisti devono essere i primi, in questo momento di disfatta
morale, a cambiare comportamenti.
Accantoniamo, per momenti migliori, le fasce nere al braccio che virtualmente portiamo a ricordo dei caduti
nelle ricorrenze, facciamo riposare
gli stendardi che esponiamo nelle
manifestazioni repubblicane, smettiamo di scambiarci i ricordi delle
imprese dei nostri padri, ma chiamiamoci a raccolta per la difesa della
Repubblica. Andiamo nelle piazze
con le nostre bandiere per vivere una
rivoluzione senza violenza insieme a
centinaia di migliaia di cittadini che
non intendono essere spettatori di un
degrado che non hanno provocato e
vogliono un’immediata azione della
parte di classe politica che forse è
stata troppo alla finestra, ma non è
direttamente responsabile.
Oggi il cielo è nuvolo e ingrugnito.
Si aspettano temporali e sono quelli che fanno paura perché arrivano
improvvisamente e scuotono le coscienze, distruggono le incertezze,
armano i pavidi e gli indecisi, danno
corpo alla rabbia di chi ha ragione,
di chi è povero per colpa di altri, di
chi non ha lavoro, di chi non crede
più alle fole della politica di casta. In
un’atmosfera così sono nati il biennio
rosso, il fascismo armato, l’antifascismo senza armi durate il ventennio,
la guerra civile, la Resistenza, piazzale Loreto e la libertà tradita.
Guardiamo indietro e impariamo,
così non saremo travolti in avventure
pericolose. Siamo vigili e coraggiosi
a un tempo, ma impegnamoci nella lotta senza criticare da lontano.
Guardiamo a uomini che sono ancora sopra le parti e che possono con
la loro autorevolezza guidarci senza
ambizioni verso la conferma della
democrazia pulita e di elezioni veramente libere.
Borsellino, viene
eliminato, senza
pietà.
Collante
tra mafia e Stato
è stata sempre
la
massoneria o qualche
altra
entità
multicentrica,
come
Gladio
o
Staybehind.
Questo sistema
di legami, che
La tessera da repubblichino di Licio Gelli
risale alla strage
di Portella della Ginestra, non si è mai di Licio Gelli. Questi già allora era
interrotto nel corso degli anni, ma, legato a Totò Riina, il capo di Cosa
anzi, si è rafforzato ed è diventato più nostra, e si recava in Sicilia per
sofisticato. Tuttavia molti hanno fatto avere rapporti con esponenti della
finta che non esistesse. Complice la mafia. Furono diversi i mafiosi a
stampa manovrata da potenti lobbies rivelare questo collegamento tra
Gelli e Riina.
economiche.
I servizi segreti di quel tempo
Da qualche anno è affiorato, nelle
indagini sulle stragi mafiose del 1992 e non persero tempo: strinsero patti
del 1993, il tema della possibile tratta- scellerati con Pippo Calò, il minitiva avviata da Cosa nostra tra lo Stato stro delle finanze di Riina, e con la
e la mafia dopo la strage di Capaci, per banda della Magliana, sulla quale,
indurre lo Stato ad accettare le richie- senza rendermene conto, fin dal
ste mafiose. Il rifiuto della trattativa 1975, avevo cominciato a indagare,
sarebbe stato il movente dell’uccisione assieme al Pm Vittorio Occorsio.
di Paolo Borsellino. Non ho dubbi che Con lui trattavo alcuni processi
le cose siano andate proprio in questo per sequestri di persona, tra cui
modo, almeno in parte. Ma è anche quelli di Amedeo Ortolani, figlio di
vero che Borsellino stava scoprendo i Umberto, uno dei capi della P2, di
nessi tra mafia, potere politico e isti- Gianni Bulgari e di Angelina Ziaco;
tuzioni. E venne ucciso non per la sequestri che vedevano coinvolti
trattativa, ma perché non doveva esponenti della Magliana, della
scoprire una verità drammatica e Loggia Propaganda 2 e del terrorisconvolgente, che riguardava pezzi smo nero. Tra gli affiliati alla loggia
di Gelli era un noto avvocato penainsospettabili delle istituzioni.
Per capire quello che si è verificato lista, riciclatore del denaro dei
agli inizi degli anni ‘90 occorre rivol- sequestri, che poi venne stranamente assolto, dopo che Occorsio
gere uno sguardo verso il passato.
aveva dato parere contrario alla sua
Tutto comincia con l’assassinio
scarcerazione.
di Moro
Di quella banda facevano parte
Partendo dall’assassinio di Aldo uomini della Magliana, legati alla
Moro e da ciò che lo precedette e lo mafia e ai servizi segreti. Occorseguì. Con la riforma del 1977, che isti- sio, che aveva scoperto l’intreccio
tuì il Sismi, il servizio segreto militare, tra la strage di Piazza Fontana,
e il Sisde, servizio segreto democra- l’eversione nera, la massoneria
tico, i primi atti del presidente del e pezzi dello Stato, venne assasConsiglio Giulio Andreotti e del mini- sinato l’11 luglio 1976. Egli aveva
stro dell’Interno Francesco Cossiga sentito due giorni prima Licio Gelli,
furono la cacciata di funzionari seri su cui stava indagando. Per l’attene coraggiosi, come i prefetti Emilio tato vennero condannati Pier Luigi
Santillo e Gaetano Napoletano, e la Concutelli e Gianfranco Ferro.
nomina, ai vertici dei servizi segreti e L’aspetto singolare di questa storia,
degli organi di sicurezza, di ufficiali ma non il solo, fu la scoperta che
nelle mani di persone che Moro definì Concutelli risultava iscritto alla
come estranee all’amministrazione: loggia Camea di Palermo. Giovanni
Giuseppe Santovito e Giulio Gras- Falcone, nel corso di una perquisisini, due generali affiliati alla Loggia zione, trovò la sua carta di identità.
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Attualità
Di quella Loggia facevano parte
potenti uomini di Cosa nostra,
uomini dei servizi segreti e terroristi come Concutelli. Allora Falcone
cominciò a morire; era il 1981.
Io condannato a morte
La mia condanna a morte fu
pronunciata, probabilmente dalla
stessa associazione massonica che
controllava i servizi segreti, subito
dopo che fui incaricato di istruire il
caso Moro, in cui apparvero uomini
della mafia, guidati da Pippo Calò,
braccio destro di Riina, i capi dei
servizi manovrati dalla banda
della Magliana e politici amici
di Gelli. A raccontarlo al giudice
Otello Lupacchini fu il mafioso
Antonio Mancini; costui disse che
verso la fine del 1979 o i primi del
1980, avendo fruito di una licenza
dalla Casa di lavoro di Soriano del
Cimino, non era rientrato nella Casa
di lavoro; in occasione di un incontro conviviale in un ristorante di
Trastevere, l’Antica Pesa o Checco
il carrettiere, al quale aveva partecipato assieme a Danilo Abbruciati,
a Edoardo Toscano, ai fratelli Pellegrinetti, a Maurizio Andreucci e a
Claudio Vannicola, mentre si discuteva del controllo del territorio del
Tufello per il traffico di stupefacenti, si parlò «di un attentato alla
vita del giudice Ferdinando Imposimato». «Dal discorso si capiva che
non si trattava di un’idea estemporanea: era evidente che erano
stati effettuati dei pedinamenti nei
confronti del magistrato e della
moglie; che erano stati verificati
i luoghi nei quali l’attentato non
avrebbe potuto essere eseguito con
Il ritrovamento del corpo di Moro ucciso dalle BR
successo; si era stabilito che comunque
non si trattava di un obiettivo impossibile, per carenze della sua difesa nella
fase degli spostamenti in auto: il luogo
dove l’attentato poteva essere realizzato era in prossimità del carcere di
Rebibbia, dove la strada di accesso
all’istituto si restringeva e non vi erano
presidi militari di alcun genere»
«Quando sentimmo il discorso che si
fece a tavola, io e Toscano pensammo
che l’attentato dovesse essere una sorta
di vendetta per l’impegno profuso dal
magistrato nei processi per sequestri di persona da lui istruiti e che
avevano visto coinvolti i commensali,
i quali parlavano del giudice Imposimato definendolo “quel cornuto che
ci ha portato al processo”». «Successivamente», chiarì Antonio Mancini,
parlando dell’attentato ai danni del
giudice Imposimato, «Danilo Abbruciati mi spiegò che, al di là delle ragioni
Franco Imposimato, fratello di Ferdinando, coi figli piccoli Giuseppe e Filiberto
personali che pure aveva, aveva ricevuto una richiesta in tal senso “da
personaggi legati alla massoneria”,
dei quali il giudice Imposimato aveva
toccato gli interessi» (dichiarazione di
Antonio Mancini; ordinanza di rinvio
a giudizio numero 1154/87A GI del 13
agosto 1994 contro Abatino Maurizio
più 230).
Due misteriosi agenti segreti
In seguito, durante il processo
contro Giulio Andreotti per l’omicidio di Mino Pecorelli, il procuratore
della Repubblica di Perugia accertò
che alla riunione, nel corso della quale
si parlò dell’attentato a me, avevano
partecipato due uomini dei servizi
segreti militari italiani di cui Mancini
fece i nomi: essi furono incriminati
e rinviati a giudizio per favoreggiamento.
Ma poi furono assolti. Sennonché
i due funzionari dei servizi mi avvicinarono dicendomi che «loro due
non c’entravano niente con quella
riunione» e che evidentemente «c’era
stato uno scambio di persone da
parte di Mancini», altri due uomini
del servizio erano coloro che avevano
preso parte a quell’incontro in cui
venne annunciata la mia condanna a
morte.
Ovviamente non fui in grado di
stabilire chi fossero i due agenti
dei servizi che avevano partecipato alla riunione in cui si decise di
farmi fuori. Restava il fatto che c’era
stato un summit tra agenti segreti e
mafiosi per decidere di eliminare, per
ordine della massoneria, un giudice
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che istruiva due processi scottanti:
quello sulla banda della Magliana e
il processo per la strage di via Fani,
il sequestro e l’assassinio di Aldo
Moro. Né io potevo occuparmi di una
vicenda che mi riguardava in prima
persona come obiettivo da colpire. Ma
nessuno, tranne Falcone, che seppe
da Giuffrè del progetto di assassinio
di mio fratello, si preoccupò di stabilire chi dei servizi avesse partecipato
al summit in cui era stata annunciata
l’imminente esecuzione dell’assassinio del giudice che in quel momento
si stava occupando del caso Moro.
Processo in cui, 30 anni dopo, venne
alla luce il ruolo della massoneria,
della mafia e della politica, che erano
state determinanti nell’uccisione di
Moro: infatti presero parte alla turpe
operazione del Lago della Duchessa, in
cui un falso comunicato delle Brigate
Rosse, il n. 7, preparato da un uomo
della Magliana, annunciava la esecuzione, mediante suicidio, di Aldo
Moro. Di quest’operazione, secondo il
racconto di uno dei congiurati, Steve
Piecznick, si resero complici il ministro dell’Interno pro tempore e alcuni
componenti del Comitato di crisi istituito presso il Viminale.
L’uccisione di mio fratello
In quel periodo, io mi occupavo
non solo di sequestri di persona, ma
anche del falso sequestro di Michele
Sindona, anche lui uomo della P2, e
dell’assassinio di Vittorio Bachelet,
del giudice Girolamo Tartaglione, del
giudice Riccardo Palma e, naturalmente, del sequestro e dell’omicidio di
Aldo Moro e dei cinque uomini della
scorta; e avrei accertato, dopo anni,
che della gestione del sequestro Moro
si erano occupati, nei 55 giorni della
prigionia, i vertici dei servizi segreti
che erano affiliati alla P2 e legati alla
banda della Magliana. Ma tutto questo
io all’epoca non lo sapevo: la scoperta
delle liste di Licio Gelli avvenne
nella primavera del 1981. Ciò che è
certo è che il capo del Sismi, generale Giuseppe Santovito, affiliato alla
loggia P2, era nelle mani di uomini
della Magliana, articolazione della
mafia a Roma. E dunque il racconto
di Mancini era vero in tutto e per
tutto. Qualcuno voleva evitare che la
mia istruttoria su Moro e quella sulla
banda della Magliana mi portassero a
scoprire il complotto politico-massonico che, con la strumentalizzazione
I giudici Falcone e Borsellino
di sanguinari e ottusi brigatisti, aveva
decretato l’uccisione di Aldo Moro per
fini che nulla avevano a che vedere con
la linea della fermezza.
Il disegno di costringermi a lasciare
il processo sulla Magliana e quello
sulla strage di via Fani riuscì, ma non
secondo il piano dei congiurati. La
mia uccisione non ebbe luogo per le
precauzioni che riuscii a mettere in
atto, ma nel 1983, nel pieno delle indagini su Moro, mio fratello Franco
venne ucciso da uomini della mafia
manovrati da Pippo Calò, legato a
Gelli: quegli stessi che avevano ordito
la vergognosa messinscena del 18
aprile 1978, ossia che il corpo di Moro
era nel Lago della Duchessa. Quell’operazione venne esattamente percepita
da Moro, che nella prigione di via
Montalcini, venne informato dai suoi
biechi e barbari carcerieri. Egli, nel
suo memoriale, ricordando gli ignobili articoli che avevano avallato come
vera quella operazione del potere
assassino, scrisse: «La stessa macabra
grande edizione sulla mia esecuzione
può rientrare in una logica, della quale
forse non è necessario dare ulteriori
indicazioni» (pagina 154 memoriale
trovato in via Montenevoso).
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Attualità
Attualità
I servizi segreti militari (Sismi),
che si erano serviti del mafioso
Antonio Chichiarelli per preparare il falso comunicato n. 7, erano
tutt’uno con la mafia della quale si
servivano per compiere operazioni
sporche di ogni genere, compresa
quella del Lago della Duchessa,
che provocò una reazione violenta
delle Br contro Aldo Moro, divenuto
«pericoloso».
Mafia, massoneria e stragismo
Sennonché, a distanza di 33
anni dal processo Moro, ho avuto
la possibilità di scoprire quali
fossero le ragioni del progetto
criminale. Progetto che aveva
visto
impegnata
quell’agenzia
criminale, la banda della Magliana,
che agiva in proprio, ma anche per
eseguire gli assassini per conto dei
servizi segreti, e cioè per conto
dello Stato: impedirmi di conoscere
il complotto contro Moro.
Era non una trattativa tra Stato e
mafia, ma l’esecuzione di omicidi in
forza di un vero e proprio accordo
tra servizi, mafia e massoneria
che, con la benedizione dei politici,
aveva sancito, prima, l’eliminazione
di Moro, poi, la mia esecuzione e
poi la morte di Giovanni Falcone
e Paolo Borsellino. La mia esecuzione prevista per il 1979 e poi
differita al 1980, 1981 e 1982, fallì. Il
risultato fu che io dovetti abbandonare tutte le inchieste sulla mafia e
sui legami tra mafia, massoneria e
stragismo.
Durante le indagini che io conducevo a Roma per il falso sequestro
Sindona, Falcone a Palermo per
associazione mafiosa, e Turone e
Colombo a Milano per l’omicidio
di Giorgio Ambrosoli, venne fuori
a Castiglion Fibocchi, nella villa di
Gelli, l’elenco degli iscritti alla P2.
Enorme fu la sorpresa degli inquirenti: esso comprendeva i capi
dei servizi segreti italiani e del
Cesis, l’organismo che coordinava
i servizi, e di quelli che facevano
parte del Comitato di crisi del
Viminale, che era stato istituito da
Francesco Cossiga con l’avallo di
Giulio Andreotti. Dopo la scoperta
venne decisa, dal ministro Virginio
Rognoni, l’epurazione degli uomini
di Gelli dai servizi e dal ministero
dell’Interno; ma di fatto non fu così.
La Loggia del venerabile maestro
mantenne il controllo sui servizi
segreti, come ebbe modo di accertare la Commissione parlamentare
sulla P2; e le deviazioni continuarono
con la complicità di vari governi che si
susseguirono.
L’agenda rossa di Borsellino
Oggi è riesplosa sulla stampa, per
pochi giorni, la storia legata alla
morte di Paolo Borsellino, subito
silenziata dai mass media. La magistratura di Caltanissetta ha riaperto un
vecchio processo che collega la tragica
morte di Paolo Borsellino e della sua
scorta a moventi inconfessabili, legati
a menti raffinate delle stesse istituzioni. L’ipotesi investigativa prospetta
la possibilità che Borsellino sia rimasto
schiacciato nell’ingranaggio micidiale
messo in moto da Cosa Nostra e da
una parte dello Stato in sintonia con
la mafia, allo scopo di trattare la
fine della violenta stagione stragista in cambio di concessioni ai mafiosi
responsabili di crimini nefandi, tra cui
la strage di Capaci e le altre stragi del
1992. Si tratta di un’autentica vergogna, un’offesa a Giovanni Falcone e
ai cinque poliziotti coraggiosi morti
per proteggerlo. Salvatore Borsellino
dice, e io ne sono certo, che le prove di
questa ricostruzione erano nell’agenda
rossa sparita di Paolo Borsellino. Paolo,
informato di questa infame proposta,
probabilmente ha reagito con sdegno e
rabbia: egli sapeva che lo Stato voleva
scendere a patti con gli assassini di
eroici combattenti. Di qui la decisione
di accelerare la sua fine.
Ricordo che in quel tragico luglio
del 1992, poco prima della strage di via
D’Amelio, ero alla Camera dei deputati dove le forze contigue alla mafia
erano ancora prevalenti e rifiutavano di approvare la legge voluta da
Falcone, da me e da molti altri magistrati antimafia, ma anche dal ministro
Vincenzo Scotti e dal ministro Claudio
Martelli: l’approvazione della legge sui
pentiti e dell’articolo 41 bis sull’isolamento rigoroso dei mafiosi in carcere
per evitare che questi continuassero a
dettare legge dall’interno del carcere,
ordinando omicidi e stragi. Quella
legge, nonostante la morte di Falcone,
non aveva la maggioranza. Fu necessaria la morte di Borsellino per il varo
di quella legge che oggi si vorrebbe
abrogare. Io ne fui testimone diretto
e rimasi sbalordito del livello di penetrazione della mafia nel Parlamento
italiano.
Oggi i magistrati di Palermo hanno
ripreso il lavoro di Falcone e Borsellino, ma sono stati isolati e vilipesi.
Noi siamo con loro, poiché sappiamo
che senza verità questo paese non si
rifonda. E non si salva.
STATO LAICO O CONFESSIONALE?
La difesa delle libertà nelle istituzioni pubbliche
Dal testamento biologico, alla fecondazione assistita, dalla legge 194 all’insegnamento della religione nelle
scuole pubbliche: tutti temi sui quali trovare una piattaforma d’incontro scevra da ogni posizione radicale e inutili
fondamentalismi e rispettosa dei diritti di ogni cittadino
di Enrico Modigliani
S
ono tanti i temi per i quali è urgente battersi per la difesa della laicità
nelle pubbliche istituzioni.
Prima di elencarli ed esaminarli occorre sottolineare che la difesa
della laicità non implica una lotta contro la religione, il rispetto della quale
è un diritto di ogni cittadino (come è diritto dei cittadini atei quello di non
credere). Ma il godimento di questi diritti non deve essere strumentalizzato
da fondamentalismi o, peggio, dall’uso del potere finalizzato al godimento di
privilegi.
Quanto all’uguaglianza dei diritti la nostra Costituzione un problema lo
pose con la redazione dell’articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica
hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino
con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per
legge sulla base di intese con le relative rappresentanze» e dell’art 7, secondo il
quale una religione è più uguale delle altre: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono,
ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati
dai Patti Lateranensi».
La Costituzione della Repubblica
Romana, madre della nostra Costituzione, nei Principi Fondamentali fu
più equa e sintetica. Con il principio
VII stabiliva che «dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti
civili e politici»; con il principio VIII
affermava che «il Capo della Chiesa
Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le
guarentigie necessarie per l’esercizio
indipendente del potere spirituale».
Se si considera che fino al 1848 a
Roma c’erano solo due religioni, la
cattolica e quella ebraica, che era relegata nel ghetto, mentre in Italia, oggi,
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Attualità
ce ne sono oltre 50, tra veri e propri
culti che affondano le radici nel
passato e nuove sette, si comprende
quanto sia importante difendere, da un
lato, l’uguale libertà per tutti i fedeli
e dall’altro separare la gestione della
cosa pubblica dalla religione.
Anche se in questa legislatura non
sarà possibile, sarà importante che
il Parlamento vari una legge sulla
libertà religiosa che risolva tanti
problemi ancora in sospeso, come
le intese non ancora approvate, la
gestione dei luoghi di culto, e altro
ancora.
La dinamica della società civile si
è dimostrata non solo con i referendum sul divorzio e sull’aborto, ma con
il crescere del numero di matrimoni
civili rispetto a quelli religiosi e con
la diffusione delle convivenze, anche
omosessuali, alle quali però ancora
non si riconoscono diritti.
È qui che si sviluppa il contrasto
tra coloro, presenti in entrambi gli
schieramenti politici, che aderiscono
alla difesa dei «valori non negoziabili» elencati dalla Chiesa e intendono
imporre regole di origine cattolica
anche ai non credenti, o diversamente
credenti, causando il deficit di laicità
nelle nostre istituzioni.
Oltre al tema già citato delle unioni
civili, si pensi alle regole sulla fecondazione assistita che costringono le
coppie che se lo possono permettere a
recarsi all’estero. Va detto che alcune
parti della legislazione sulla fecondazione assistita sono state bocciate
dall’Europa che le ha sanzionate come
incoerenti e non in linea con la normativa europea. Si pensi alle pressioni
esercitate sui medici, che dovrebbero
praticare l’aborto, perché si rifiutino
e pratichino la cosiddetta obiezione di
coscienza. A 34 anni dalla sua nascita,
la legge 194 sull’interruzione di gravidanza viene ostacolata e si cerca di
affossarla.
Per lo meno nel Lazio, come ha
denunciato la Laiga (Libera associazione dei ginecologi per l’applicazione
della legge 194) il 91,3 per cento dei
ginecologi ospedalieri è obiettore di
coscienza, e in 12 strutture pubbliche su 31 non si eseguono aborti. Ma il
tema più significativo, non solo per la
sua importanza, ma per la dinamica
delle strumentalizzazioni politiche
che suscita, è quello del Testamento
Biologico.
La Costituzione, con l’art. 32,
stabilisce che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Il cosiddetto «decreto Calabrò», approvato al Senato durante il governo
Berlusconi, ma per fortuna ancora non discusso alla Camera, rappresenta
il massimo della forzatura nel togliere valore alle volontà del cittadino sulle
terapie da accettare in caso di incapacità di intendere e di volere, lasciando
le decisioni solo al medico curante. Il colmo dell’ambiguità è definire l’idratazione e la respirazione forzata non trattamento sanitario, ma semplice
alimentazione, quindi non rifiutabile dal paziente.
Altro tema significativo è l’ora di religione cattolica nelle scuole. Se con
il nuovo Concordato del 1984 tale ora è facoltativa, ci sono ancora alcuni
problemi: innanzitutto tale ora potrebbe essere disposta fuori dell’orario
scolastico, dato che per coloro che non hanno scelto questa materia non ci
sono in pratica insegnamenti alternativi; poi l’insegnante è scelto dal vescovo
locale e, qualora dovesse essere rimosso, resterebbe come insegnante ordinario senza aver vinto alcun concorso; infine, su iniziativa del laico ministro
Fioroni (con il governo D’Alema) l’insegnamento dell’ora di religione garantisce all’alunno che l’abbia seguita un credito scolastico che si somma ai risultati
della maturità. In tal modo, nel caso d’iscrizione a facoltà universitarie con
numero chiuso, gli alunni che non hanno seguito quell’ora sono svantaggiati.
I temi da affrontare sono tanti; ma se si riuscirà a costruire una società
davvero democratica nella quale prevalga il dialogo nel reciproco rispetto,
senza fondamentalismi di qualsiasi natura né strumentalizzazioni, chissà che
non si riesca, con tutte le difficoltà nelle quali vive il nostro paese, a cooperare
con serenità!
Affile, protesta contro il sacrario fascista
La manifestazione organizzata dal Comitato antifascista
Chiuso il mausoleo dal sindaco per rimuovere alcune scritte
Mostre e dibattiti nella cittadina blindata
Ha preso il via ad Affile – paese dell’Alta Valle dell’Aniene in provincia di Roma,
1700 abitanti - la manifestazione contro il sacrario dedicato al ministro di Salò
Rodolfo Graziani. L’iniziativa, intitolata Non in mio nome, è stata organizzata dal
Comitato “Affileantifascista” dopo le forti polemiche politiche che hanno accompagnato l’inaugurazione del mausoleo costruito all’interno del Parco Radimonte.
L’opera dedicata al ministro della Difesa di Salò, è costata 127 mila euro con fondi
erogati dalla Regione Lazio ed è finita alla ribalta internazionale conquistando, tra
mille polemiche, anche le colonne del prestigioso New York Times.
Il Comitato intanto ha allestito una mostra storica curata dalla Comunità etiope
nel parco della Rimembranza, in piazza San Sebastiano.
Intanto il sindaco di Affile con un’ordinanza ha disposto la chiusura del mausoleo al gerarca fascista nel parco Radimonte, per rimuovere le scritte antifasciste
ivi apparse.
Un momento della manifestazione ad Affile
7
Cultura
Fatta l’Italia, che fine fecero i garibaldini?
Il “dopo Unità” delle camicie rosse
Dimenticate la vulgata retorica sugli eroi del Risorgimento. Qui si narra l’amaro rovescio della medaglia
di Antonella Amendola
D
i tutti i libri usciti per i 150
anni dell’unità d’Italia
quello di Paolo Brogi, «La
lunga notte dei Mille» (Aliberti
editore, con una prefazione di Gian
Antonio Stella) è senz’altro il più
curioso, il più godibile nella sua
tramatura quasi di romanzo on the
road a più voci. Perché Brogi, con il
suo fiuto di segugio dalle tante
passioni, con tutta la simpatia
umana che ha per i perdenti, si
dedica alla ricostruzione un po’
sghemba e delirante di quello che
chiameremmo il secondo tempo. Vi
siete beccati i pistolotti retorici
della magnifica parata di camicie
rosse in marcia da Calatafimi? Ora
incassate l’amaro rovescio della
medaglia. Molto più avvincente e
istruttivo. Che successe a quei valorosi che compirono l’impresa una
volta che il mitico Generale dette
ordine di rompere le righe? Di tutto,
di più. Dimenticate la roboante
retorica dei libri di scuola, mettete
da parte quei santini fotografici
realizzati in bianco e nero dal fotografo Pavia che al Museo del Risorgimento, a Roma, comunicano la
struggente malinconia di una Spoon
River tricolore.
Dopo il trionfo, per la maggioranza dei fantastici 1.089 (tanti
erano) ci fu una diaspora picaresca, quasi da sbandati che, pur
insigniti di una regia pensione,
sentivano di essere di troppo nel
neonato stato italiano. Non li volevano. Il re, Cavour, Costantino
Nigra, gli alti gradi dell’esercito
temevano quell’impasto di generosità guascona, quella brutale
disponibilità all’avventura guerresca, quell’ingenua fede repubblicana
che piacevano così tanto a Garibaldi. Le camicie rosse furono
percepite dai nascenti poteri
centrali come potenzialmente eversive, isolate, disperse: il racconto
popolare delle loro gesta fu ammaccato dal silenzio e non riuscì mai a
metter radici in una proposta politica per il futuro.
Ma chi erano? Brogi li mette a
fuoco uno per uno.
La copertina del libro di Paolo Brogi
Il più piccolo, Bepin Marchetti,
era un ragazzino di 11 anni, soffriva
di tisi e buscava scappellotti dal
padre medico sempre su di giri. Il
più vecchio, Tommaso Parodi, di
anni ne aveva 69. Tra loro una sola
donna, 48 analfabeti, 10 ebrei. Morirono sul campo di battaglia in 78, 24
impazzirono, 16 si suicidarono, come
quel Raffaele Piccoli che si piantò
un chiodo nel cervello dopo che gli
avevano tolto la pensione, riducendolo
alla fame.
Se qualche fortunato riuscì a
essere eletto in Parlamento (una
piccola schiera di 37 nomi) o qualcuno, come Pianciani, si conquistò
il suo posto al sole come illuminato
sindaco di Roma, per tanti si aprì la
via dell’esilio. Tre - Martino Franchi,
Agostino Lombardi, Eugenio Ravà
- finirono a combattere contro gli
schiavisti nell’America del Nord; Nino
Bixio sparì nelle isole della Sonda,
Salvatore Castiglia, versatile marinaio, si adattò a Odessa nei ranghi
della diplomazia. E poi ci sono quelli
che, come il medico Edoardo Herter,
ricominciano nell’America del Sud,
chi, come Bartolomeo Marchelli, fa
il mago, chi compra lauree, chi sperimenta la truffa continua vestendo il
saio.
Storie su storie che hanno un unico,
sofferto, collante: la condizione
borderline di chi è costretto a sopravvivere al proprio fulgido mito.
8
Cultura
Cultura
Il libro di Lorenzo di Biase per l’Anppia sarda
Costantino Nivola, un artista contro il regime fascista
di Maurizio Orrù
È
stato uno dei più importanti
artisti contemporanei, negli
Stati Uniti ha lavorato a
contatto con i maestri dell’avanguardia
pittorica, ma la sua terra lo vuole ricordare come antifascista rigoroso della
prima ora. In occasione del centenario
della nascita di Costantino Nivola,
pittore e scultore, mentre sono stati
organizzati eventi culturali a livello
nazionale e mondiale sulla personalità
del grande artista sardo, l’Anppia della
Sardegna ha dato il suo contributo con
la pubblicazione del volume Costantino Nivola, un artista contro il
regime fascista (Ed. Anppia Sardegna
2012).
L’autore del saggio, Lorenzo Di
Biase, docente della scuola superiore, giornalista pubblicista, noto ai
lettori dell’Antifascista per una serie
di pubblicazioni di storia dell’antifascismo sardo e nazionale, ha avuto il
merito di aver scandagliato la figura di
Costantino Nivola da un punto di vista
umano e politico, o meglio, attraverso
il suo antifascismo militante: il suo
libro è il frutto di un’accurata ricerca
bibliografica e, in particolare, archivistica, condotta presso gli archivi
pubblici e privati. Il risultato è stato
quello di approfondire, con un carteggio inedito, il ruolo di Costantino
Nivola fiero oppositore del regime
mussoliniano, che imperava sovrano in
Italia.
Facciamo un passo indietro. Costantino Nivola nasceva a Orani, provincia
di Nuoro, nel 1911, da una famiglia
numerosa e umile. Il padre esercitava il
mestiere di muratore, che condivideva
con alcuni suoi figli maschi copreso
Costantino che fin da piccolo mostrava
inclinazione per le arti e veniva notato
da Mario Delitala, pittore e incisore
di valenza europea, che gli fece, nel
corso del tempo, da nume tutelare.
Nivola, ispirato autodidatta, iniziava
il suo percorso di formazione artistica
frequentando corsi di arti decorative e
figurative in alcuni scuole presenti nel
Nord Italia. In seguito lasciava l’Italia e soggiornava a Parigi, ospite di una
parente, nella cui casa conobbe alcuni
militanti
antifascisti:
l’occasione
propizia per un approccio politico di
stampo democratico ed antifascista.
Al rientro in Italia conobbe le prime
durezze del regime fascista: con
sanzioni amministrative fu sospeso
dalle lezioni dell’anno scolastico
‘34-’35 per essersi rifiutato di fare il
saluto fascista.
Per Costantino Nivola il 1938 fu un
anno cruciale: da una parte il varo
delle leggi razziali, dall’altra il suo
matrimonio con Ruth Guggenheim,
una ragazza ebrea tedesca. I coniugi
Nivola dovettero in tutta fretta abbandonare l’Italia e riparare oltre confine,
a Parigi, dove Costantino entrava in
contatto con i fuoriusciti antifascisti italiani, come Emilio Lussu e Leo
Valiani, e una nutrita pattuglia di antifascisti sardi come Giovanni Gadoni,
Bernadina Serra in Soru e Pietro
Golosio, stretti nel vincolo di solidarietà della “Concentrazione di azione
antifascista” che operava in Francia.
Le frequentazioni politiche antifasciste di Costantino Nivola entrarono
presto nel mirino dell’Ovra, potente
e famigerata polizia politica fascista.
Molti i rapporti “confidenziali” stilati
sul nostro scultore. A tale riguardo
scrive Dino Fabris, Ispettore Generale
Nel 1983 Costantino Nivola fu
inserito nella lista dei 100 personaggi italiani più famosi negli
Stati Uniti dove fu molto apprezzata l’energia con la quale riuscì a
coniugare la sua cultura materica
sarda con la progettualità del design industriale. Il Nivola scultore
lavorò sull’archetipo mediterraneo della dea madre realizzando
forme petrose, allargate in senso
orizzontale, che molto ricordano
la primitiva arte cicladica, ma anche il paesaggio sardo. Frequentò
intensamente Le Corbusier, cui
si ispirò per il rigore e l’astrazione e forse dall’intenso rapporto
con Pollock, il genio dell’action
painting, trasse l’entusiasmo per
quelle gettate di cemento sulla
sabbia che contraddistinguono
la sua creatività architettonica.
Fu affascinato dal ritmo convulso
della vita di New York che consegnò ad opere dallo stile informale,
mentre la sua poetica dei ricordi
è tutta racchiusa nei coloratissimi
acquerelli.
di P.S.: “Per il pittore Nivola, che
attualmente si trova all’estero,
sarebbe bene, a mio subordinato
avviso, farlo iscrivere in rubrica di
frontiera per l’arresto”. L’artista
antifascista era nel mirino, imminente la cattura. I coniugi Nivola
per sottrarsi all’arresto decidevano,
di comune accordo, di trasferire la
loro residenza negli Stati Uniti, a
New York. Attraverso puntuali e
circonstanziate delazioni il regime
apprendeva i nuovi spostamenti dei
Nivola. Al riguardo leggiamo in un
dispaccio ministeriale: “Con riferimento alla nota sopradistinta, si
comunica che Nivola Costantino pare
risieda attualmente a New York. Non
è stato possibile finora accertare il di
lui preciso recapito”.
A New York la situazione lavorativa di Costantino migliorava
notevolmente. Grazie alla sua
eclettica bravura artistica otteneva importanti incarichi in alcune
prestigiose riviste americane e
internazionali.
Ma l’impegno e l’ideale antifascista non erano sopiti nell’animo
del Nostro, che ospitava, tra
gli altri, nella sua residenza
privata, il dirigente sardista
Dino Giacobbe anch’egli esule in
America, desideroso di organizzare una sezione territoriale del
Partito Sardo d’Azione, partecipava a convegni e manifestazioni
politiche, come quelle curate
e organizzate dalla “Mazzini
Society”, importante e meritoria
associazione politica democratica
e antifascista.
Costantino Nivola è stato uno
dei più importanti artisti del
secolo scorso, celebrato nei più
grandi musei: sue opere ospitate
nell’area antistante e prospiciente
gli uffici del Consiglio regionale della Sardegna, a Cagliari,
testimoniano che nonostante
le fertili esperienze di lavoro in
America rimaneva indissolubilmente legato alla sua terra e alla
sua comunità pastorale (morirà
a Long Island il 5 maggio 1988;
Ruth il 18 gennaio 2008). Il libro
di Lorenzo Di Biase, arricchito
da una prefazione di Carlo Dore,
presidente regionale dell’Anppia della Sardegna, è un prezioso
strumento per riscoprirlo e dargli
il posto che merita nella storia
dell’antifascismo.
Nel 1952 Costantino Nivola rientra per la prima volta in Sardegna dopo la fuga negli USA per evitare le
persecuzioni del fascismo a seguito delle leggi razziali.
Nivola percorre in lungo e in largo l’isola con l’incarico di realizzare una serie di illustrazioni per documentare
la lotta contro la malaria condotta dall’ERLAAS (Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna), un
ente che godeva dei finanziamenti della Fondazione Rockefeller.
L’articolo (anonimo) dal titolo DDT in Sardinia e i gli acquerelli di Nivola vennero pubblicati sul numero di
Marzo del 1953 della rivista Fortune che, tra l’altro, ha la particolarità di avere la copertina illustrata da
Giovanni Pintori, grafico dell’Olivetti e grande amico di Nivola.
Il lavoro di Nivola diventa un vero e proprio reportage costituito da 21 illustrazioni dove l’artista si sofferma sui
tratti salienti della lotta alle zanzare, senza trascurare di documentare caratteristiche e dettagli della vita
quotidiana in Sardegna.
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Cultura
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Memorie
MEMORIE OSCURATE
Il libro di Carlo Greppi
Ugo Forno, il “ragazzo del ponte”
L’ultimo treno
Gli amici e i familiari hanno chiesto quest’anno che un piazzale-giardino del suo quartiere gli sia dedicato
Finora però a Vescovio non è successo niente
Racconti del viaggio verso il lager
di Paolo Brogi
introduzione di David Bidussa
C
Con un registro emotivo particolarmente intenso, Carlo
Greppi racconta gli umori, la fame, gli imbarazzi di una promiscuità forzata, le risse intorno al cibo, ma anche le solidarietà
che nascono intorno al cibo e, proprio attraverso questa fisicità, arriva a definire la comunità del vagone, una delle più
significative novità storiografiche del libro.
Giovanni De Luna, Il Venerdì di Repubblica
T
ra il 1943 e il 1945 più di trentamila persone –
uomini, donne, vecchi e bambini – affollano le
stazioni dell’Italia centro-settentrionale e partono
verso l’ignoto, stipate su treni merci e carri bestiame. L’appassionante studio di Carlo Greppi ricostruisce proprio
questa fase essenziale nell’esperienza dei deportati e nella
memoria dei salvati, il viaggio verso il lager, e lo fa ripercorrendo le vicende di decine di comunità viaggianti, attraverso le voci di centoventi sopravvissuti. Lo scorrere angosciato del tempo nei vagoni piombati, dove i nazisti sono
solo figure sfocate, riempie le narrazioni dei testimoni e
accompagna il racconto dei comportamenti dei fascisti,
della forza pubblica, dei ferrovieri e della popolazione civile.
Durante il tragitto e lungo le rotaie, infatti, questi naufraghi
spaesati incontrano uomini e donne capaci di gesti di grande
coraggio, ma anche di codardia e di indifferenza. Il racconto
del viaggio diventa così l’istantanea di un abbraccio, di una
mano tesa, di una lima nascosta, di un sorriso, ma anche di
uno sguardo che si distoglie, di una lacrima, di uno sputo. È
il ricordo dell’umanità che si incrina, il canto del cigno della
normalità. Viaggiando verso i reticolati d’oltralpe, i deportati fanno amicizia e tentano la fuga, litigano e cantano,
ridono e piangono, mentre cercano di catturare le ultime
immagini di un mondo che si allontana lentamente e per
sempre dietro le loro spalle. E le voci intrecciate dei
reduci, che in queste pagine rievocano il profumo della
libertà e la dignità che svanisce, si trasformano in un
grido ostinato in difesa della condizione umana. Gli
scritti dei deportati si rincorrono in un inedito mosaico
memoriale, schiudendo ai nostri occhi una geografia
della sofferenza, che ci commuove e ci indigna. E che ha
molto da dire al nostro presente.
GIUSEPPE ARAGNO
ANTIFASCISMO E POTERE
Storia di storie
Me l’hanno regalato, è appena uscito e vale la pena di fare una piccola battaglia per procurarselo in libreria o acquistarlo on line, rinunciando al piacere della
ricerca tra gli scaffali. Mi è sembrato davvero un libro prezioso.
Isa Viganò, Recensioni Feltrinelli
N
ella cornice della “grande storia” – guerra, rivoluzione, passioni e
conflitto sociale – uomini e donne in lotta per la dignità. L’antifascismo popolare, la scelta di lottare e resistere, tra coraggio e disperazione, in otto storie attraversate da un filo rosso: la cieca ferocia della “ragion
di Stato” e l’assurda razionalità dell’ordine costituito. Senza rinunciare al
rigore della ricerca, il saggio colloca i fatti nella loro dimensione umana, restituisce la parola a chi non l’ha mai avuta e acquista così i ritmi della narrazione
e i toni del romanzo.
Ne nasce un processo al potere che ha per protagonisti voci sconosciute e
volti dimenticati in cui il lettore ritroverà qualcosa di se stesso e riconoscerà il
presente in un passato che chiamiamo Storia.
’è un quartiere a Roma che
non
ricorda
ciò
che
dovrebbe. È sulla Salaria,
alle porte di Roma, è Vescovio. Lì
nell’ultimo giorno dell’occupazione
nazista si è sacrificato per la libertà
un giovanissimo che tutta Roma e
non solo Vescovio ha faticato troppo
a lungo a ricordare. Forse perché
quel ragazzino che ebbe il coraggio
di fermare un sabotaggio tedesco
nell’ultimo scampolo di presenza
nazifascista in città non era iscritto
a nulla. Forse perché Ugo Forno
con i suoi pantaloncini corti e il
ciuffetto ribelle, 12 anni e due mesi
nel giorno della morte, può essere
apparso come un partigiano assolutamente improprio, troppo piccolo
per essere tale, qualcosa di inusuale,
inaspettato, inspiegabile. E così
quanti anni sono ormai passati dal 5
giugno del 1944? Sessantotto anni,
sessantotto lunghi anni in cui non si
è trovato il tempo di rendere un
vero omaggio al sacrificio del più
piccolo dei difensori della città, un
ragazzino dodicenne che a costo
della sua giovanissima vita riuscì a
impedire il sabotaggio del ponte
ferroviario sull’Aniene da parte dei
tedeschi in fuga da Roma. Ugo
Forno, l’ultimo caduto della difesa
di Roma, morto a Vescovio per una
granata tedesca mentre in città
c’erano già gli americani, non è
ancora ricordato a Vescovio.
Giù in basso, quel ponte salvato
dalla furia degli occupanti di
Roma ridotti alla fuga e oggi usato
dai Frecciarossa s’intitola da
pochi anni al giovane Forno. Una
decisione di Rfi, che ha reso opportunamente omaggio al piccolo eroe.
Bisogna dargliene atto. Ma sull’altura in cui Ugo Forno cadde non
c’è nulla a ricordarlo. Si chiamava
allora Vicolo del Pino il punto in
cui fu colpito, oggi non esiste più,
era una volta, superata via Mascagni, la continuazione in discesa
di via Luigi Mancinelli. Gli amici
e i familiari di Ugo Forno hanno
chiesto quest’anno che un piazzalegiardino lì esistente sia dedicato al
ragazzo. Finora però a Vescovio non è
successo niente.
Eppure è proprio lì che andò a finire
i suoi giorni il ragazzo uscito quella
mattina del 5 giugno dalla sua casa
in via Nemorense 15. Ugo Forno, per
tutti Ughetto, aveva appena finito la
seconda media alla Settembrini di
corso Trieste. La pagella lo ricorda
come bravo ma un po’ irrequieto.
Figlio di Enea Angelo, impiegato
dell’intendenza di finanza, e di Maria
Vittoria uscì presto di casa. Ma poco
dopo la madre lo vide tornare trafelato
a cercare qualcosa. Non un giornaletto o un giocattolo, ma un pacchetto
misterioso. Dentro l’involucro c’erano
due pistole lanciarazzi tedesche che
Ughetto aveva raccolto in quei giorni
e nascosto sotto il letto. Suo fratello
Francesco, diciottenne, a letto con l’influenza, lo ricorda entrare ed uscire
di corsa. Nessuno si rese conto di cosa
stesse succedendo. È l’ultima immagine di Ughetto con i suoi pantaloni
corti che imbocca di corsa le scale con
quel pacco sotto il braccio. Ughetto
aveva infatti saputo dei tedeschi
sull’Aniene e aveva deciso di fare qualcosa.
Alle 7,30 Angiolo Bandinelli lo
aveva già intravisto in una mischia
di persone, tra Via Ceresio e Via
Nemorense mentre gridava: “C’è una
battaglia, lassù oltre piazza Vescovio!
Ci sono i tedeschi, resistono ancora”.
A quel punto Ughetto si era allontanato verso piazza Vescovio mentre
Angiolo Bandinelli era salito in stanza
per prendere la sua pistola e assieme a
Lucio Manisco si era poi diretto verso
il luogo della battaglia. Ma la battaglia
non c’era ancora, a scatenarla sarebbe
stato Ughetto.
Il ragazzino era intanto già arrivato sul posto, la fine della collina di
Vescovio da cui si domina l’ansa del
fiume Aniene accanto alla Salaria e a
quel ponte ferroviario intorno al quale
brulicavano i guastatori tedeschi che
stavano sistemando i candelotti di
dinamite. A Vicolo del Pino c’era un
casolare, lì alcuni contadini erano
riuniti nella pausa del lavoro, arringarli e portarseli dietro fu un attimo.
Erano Antonio e Francesco Guidi,
Luciano Curzi, Vittorio Selvosi e
Sandro Fornari. Ughetto nel frattempo aveva rimediato anche un
fucile, i contadini estrassero due mitra
nascosti nel fieno, così partirono all’attacco dei guastatori tedeschi.
I tedeschi risposero agli spari dei
compagni di Ughetto, usarono le
granate. Il primo a cadere fu Francesco Guidi, aveva 21 anni. A Luciano
Curzi ferirono una coscia, a Sandro
Fornari staccarono un braccio. E poi
fu colpito anche Ughetto, alla testa e
al petto. È così, morente, che lo trovò
un sottotenente partigiano, Giovanni
Allegra. Inutile la corsa col piccolo
corpo ferito a morte verso la clinica
dell’Inail a Monte delle Gioie. Ughetto
non sopravvisse alle terribili ferite
delle granate.
E poi? Roma ha stentato a lungo a
Ugo Forno con la mamma e la zia
ricordarlo. Sotto Darida sindaco gli fu
finalmente dedicata una piccola via,
quasi di campagna, nell’estrema periferia di Casal Bernocchi. L’Anpi gli
ha poi intitolato una sezione, quella
presso l’Istituto superiore della sanità.
Alla scuola Settembrini una targa ne
ricorda il passaggio. Infine nel 2005,
12
Memorie
Memorie
con Veltroni sindaco, un’altra targa è
stata inaugurata al Parco Nemorense
(e non sono mancati poi i vandalismi
vari). Nel frattempo è uscito anche
un libro “Il ragazzo del ponte”, di
Felice Cipriani, edizione Chillemi.
E nella ricorrenza della morte che è
anche quella della liberazione di Roma
sono state celebrate alcune iniziative.
Manca però qualcosa che lo ricordi nel
posto in cui è avvenuto il suo sacrificio. Vescovio sembra distratto da altre
storie e altri interessi.
Fino a quando?
Il parco che si vorrebbe dedicare a Ugo Forno nel quartiere Vescovio di Roma
8 luglio 1944
L’autrice di questa memoria è nata a Civitella in Val di Chiana, piccolo borgo martirizzato dalle efferateze dei tedeschi
Ha insegnato storia dell’arte nei licei
di Anna Magnanini
V
iciomaggio, 8 Luglio 1944,
sono passati dieci giorni dalla
strage di Civitella in Val di
Chiana dove si è consumata una carneficina di uomini, donne e bambini
innocenti, un orrore di fuoco e di
morte messo in atto dai nazisti in ritirata. È sabato, un giorno di sole splendente, sono circa le dieci del mattino;
fuori e nei dintorni ci sono grandi
manovre belliche, i boschi di Civitella
e di Tuori pullulano di tedeschi allo
sbando, si sta avvicinando il passaggio
del fronte. La mamma ventiseienne e il
babbo trentenne se ne stanno rinchiusi
nelle cantine insieme a noi due
bambini, io di tre anni ed il mio fratellino di un anno; tutti insieme agli
abitanti del posto. Una cantina umida
e piena di botti, dove un mucchio di
gente sta assiepata nel poco spazio
disponibile, gente muta, assorta piena
di terrore, che sobbalza ad ogni esplosione di colpi di cannone o di mitraglia. C’è un lungo momento di tregua,
fuori l’aria è ferma ed immota come se
tutto fosse finito. Un amico, proprietario del cascinale, propone al babbo
di uscire per rendersi conto della
situazione; il tragitto all’esterno è
breve: c’è solo da attraversare uno
stradello e salire pochi gradini di un
bel giardino sopraelevato pieno di
verde e di fiori. Il babbo accetta e
istintivamente, con me in braccio, si
avvia verso l’uscita; la mamma mi trattiene, forse mi sono messa a piangere o
forse… un presentimento. Il babbo lo
conosco poco, è stato congedato da
pochi giorni, per malattia, dopo
quattro anni di fronte.
Passano alcuni momenti: una cannonata e una scarica di mitraglia, lunga
e vicinissima, squarciano il silenzio
di quel misero rifugio pieno di famiglie impaurite e disperate. La tragedia
si è compiuta: il babbo è preso in
pieno, vicino alla limonaia, da schegge
mortali, il suo amico morirà dopo
una lunga agonia. Da quel momento
una giovane vita famigliare piena di
speranze è stata troncata di netto,
come con un colpo di mannaia micidiale. Non ricordo la fisionomia del
babbo, ma dalla fotografia del matrimonio appare come un giovane alto
e biondo, pieno di vitalità e voglia di
vivere. Ricordo il cancelletto a cui
sto aggrappata per osservare il mesto
corteo del funerale con una cassa
zincata un anno dopo la tragedia: sì,
perché il babbo viene rimosso dalla
limonaia il giorno dopo per paura di
rappresaglie e messo dentro quattro assi, un po’ alla meglio, da mani
pietose. Inizia un doloroso calvario
per la mia mamma: sola, con noi bimbi
piccoli, ed abbandonata da entrambe le
famiglie e, come si suole dire, “senza
arte né parte”; il nostro destino sembra
segnato da una sorte tragica.
È il 1946, la mamma, vedova di
guerra, trova finalmente lavoro
come bambinaia al Brefotrofio insieme ad altre vedove. Per la
mamma coraggiosa, anzi eroica,
è la salvezza; inizia il suo riscatto
ma deve fare una scelta crudele per
poter lavorare. Prima tocca a me
andare in un collegio per orfani.
Ho solo cinque anni, ma una piena
consapevolezza della situazione in
cui mi trovo. Di colpo sono sola e
abbandonata, un fuscello al vento,
immersa in un mare di solitudine. È
una sensazione di assenze incolmabili, molto ricorrente nella mia vita
futura. Mi sento completamente
orfana. Un incubo notturno ricorrente mi fa svegliare in piena notte
in quel camerone illuminato da
una luna livida ed estranea alle mie
paure: mi trovo in un cunicolo buio,
cammino per trovare un’uscita,
avverto dei passi cadenzati, sempre
più vicini, mi metto a correre piena
di terrore, i passi si fanno sempre
più minacciosi, mi trovo di fronte ad
un muro e non ho scampo, mi volto,
cerco di urlare con tutte le mie
forze ma la voce non mi esce. Ripescando nel mio inconscio, tanti anni
dopo, saranno delle sedute analitiche a liberami da questo incubo
e da tanti altri traumi infantili e
problemi adolescenziali.
La vita in collegio trascorre abbastanza distorta dalla realtà esterna,
le suore fanno quello che possono
sia per la loro mentalità che per
necessità. Più tardi verrà in collegio anche mio fratello. Poche visite
della mamma, solo una volta al
mese per ordine della Superiora,
niente parenti, un deserto affettivo
totale. Ho tre amichette: la Mara,
la Rossana e la Silvana; con loro
trascorro gran parte delle giornate,
specialmente quando puliamo le
scale di servizio o si va alla legnaia
a prendere la legna, oppure siamo in
cucina a sbucciare le patate. L’ambiente del collegio è molto bello,
contrasta con la realtà di tutti i
giorni: grandi spazi, lunghi corridoi con appesi alle pareti ritratti
maestosi, soffitti affrescati, un
grande scalone di accesso, un
cortile interno pieno di reperti
antichi e ceramiche robbiane, un
bel giardino. M’incanto ad osservare tutto questo estraniandomi
dalla realtà, rendendo più leggera
la quotidianità anche perché non
andiamo fuori quasi mai, ma mi
sento come in prigione. Quelle
poche volte che usciamo, però,
indossiamo una bella divisa all’inglese di cui sono molto fiera e della
problemi. Seguo un indirizzo di studi
commerciali che a me non piacciono e
non mi ci sento tagliata, ma è la strada
più breve per trovare un impiego. Sono
sempre più complessata! Continuo
a pensare che stavo meglio in collegio, mi sento inadeguata e fuori posto.
La casa è brutta, vecchia e buia, la
mia sola salvezza è vivere all’esterno.
Mi allargano il cuore la bella chiesa
di San Domenico, che crea un triangolo magico con il Prato e il Duomo,
la vista dei bei palazzi antichi e della
bella campagna lussureggiante poco
lontano, che mi riconcilia col genere
umano. Sono sempre silenziosa ma
osservo molto, la mia adolescenza non
mi piace. Mi sento ingabbiata in una
vita poco consona e con pochi affetti.
Dietro suggerimento di altre persone
la mamma, che si dimostra intelligente,
mi regala dei libri per adolescenti: li
trovo inutili e superficiali, ma uno di
questi intitolato “Le rane non si arrendono” mi fa capire che senza la buona
volontà e la determinazione non si
arriva a nulla e che solo tu puoi essere
artefice della tua vita.
Mi metto a leggere con avidità tutto
ciò che trovo in libreria, con i libri
economici della BUR, sono molto brava
a disegnare e prendo sempre dieci con
i complimenti dell’insegnante. Capisco che devo fare ciò che mi piace e
Il borgo di Viciomaggio ai giorni nostri
quale ho ancora un buon ricordo.
A undici anni esco dal collegio, è
un trauma terribile: il mondo mi è
completamente estraneo, non riesco
a capirci niente, le persone mi fanno
paura, a scuola vado molto male, e
la mamma è molto severa, lei deve
lavorare ed io non le posso creare
così mi iscrivo ad un doposcuola artistico. Incomincio ad allargare il mio
orizzonte e a prendere coscienza di
me e anche un po’ più di sicurezza. Il
salto qualitativo avviene con la decisione di frequentare il Liceo Artistico
a Firenze, dopo aver superato gli esami
di ammissione. Sono anni di grande
13
volontà e determinazione. La mamma,
che nel frattempo è diventata infermiera del Pediatrico, mi sostiene e
anche lei cerca un riscatto nella vita
dopo tante sofferenze e privazioni.
Mio fratello frequenta, con successo,
il Liceo Scientifico. Capisco che io
e lui siamo la sua forza e quindi non
possiamo deludere le sue aspettative.
La mattina esco di casa alle sei meno
un quarto, sono sempre felice e serena,
mi chiudo la porta dietro le spalle con
grande soddisfazione, mi sento libera
di affrontare una giornata piena di
imprevisti e di emozioni, in spazi
aperti e meravigliosi, come solo le
strade e i monumenti fiorentini sanno
dare. Ho sedici anni e finalmente con
grande determinazione sono inserita
in un contesto confacente ai miei desideri. A scuola l’insegnamento è molto
aperto ma rigoroso. Gli insegnanti
sono bravi e gentili ma molto severi e
selettivi, per cui anno dopo anno siamo
sempre meno alunni, consapevoli di
appartenere a un gruppo ristretto.
Di solito ritorno da Firenze alle quattro del pomeriggio, ma due giorni per
settimana alle otto di sera. La mole di
studio è enorme, soprattutto per i disegni geometrici occorre un’applicazione
lunga e sistematica. A volte, mentre
sono china sui fogli, in pieno silenzio
notturno, avverto alle mie spalle un
lieve respiro, una presenza costante e
rassicurante. Mi volto ma la stanza è
vuota.
Un giorno, terminati prima del
previsto i compiti scolastici, la mamma
entra in camera chiedendomi di andare
a comperare un vaso da fiori per la
tomba del babbo. Fuori sta piovendo
e tira un bel po’ di vento. Entro in un
negozio poco lontano dalla nostra casa,
scelgo il vaso e, dopo aver pagato, vado
verso l’uscita che dà direttamente sulla
strada, ma nel momento in cui sto per
attraversare un grosso camion sopraggiunge a gran velocità, sto per essere
investita, ma una forza, forse una
mano, mi trattiene ferma, rigidamente
stretta contro il muro, impedendomi di
andare avanti: risento il respiro dietro
di me, sempre lo stesso. Sono salva.
Da quel momento non mi sono più
sentita abbandonata e, dopo avere
terminato gli studi e ottenuto l’insegnamento, sono felicemente diventata
madre di due splendidi bambini.
I luoghi della storia
14
I luoghi della storia
15
da pagina 13
Porta Lamesegue
a Bologna
di Mario Tempesta
Nella cultura popolare il nome
di questa città viene spesso
indicato con alcuni aggettivi che la
contraddistinguono: turrita, dotta,
grassa, rossa. Turrita per le numerosi
torri che caratterizzano la città
medievale, dotta per l’Università più
antica d’Europa, grassa per l’opulenza
della sua cucina tradizionale, rossa
per il colore dei muri e dei tetti delle
sue abitazioni ma anche per la sofferta
lotta antifascista, per la quale è stata
decorata di medaglia d’oro il 24
novembre 1946 dal Capo provvisorio
dello Stato Enrico De Nicola.
Durante tutto il periodo tra le due
guerre mondiali, Bologna fu infatti
compresa fra il vecchio Ospedale
maggiore, via del Macello, via delle
Lame e viale Pietramellara, 320
partigiani della 7° Brigata GAP
(Gruppo di Azione Patriottica), armati
di mitra, moschetti, pistole, bombe a
mano e 2 mitragliatrici, erano dislocati
all’interno dei ruderi dell’Ospedale
e di uno stabile di via del Macello.
L’inizio dello scontro ebbe origine da
un rastrellamento dei nazifascisti teso
ad eliminare le basi partigiane nella
zona. La scoperta “accidentale” della
base (i fascisti hanno sostenuto da una
“delazione”) da parte di una pattuglia
tedesca motorizzata con 40 unità e di
circa 150 uomini delle Brigate Nere, un
totale inferiore alle forze partigiane,
parte degli attaccanti, i partigiani
avevano abbandonato il luogo della
loro resistenza. Le SS a questo punto
con tutti i loro mezzi ritornarono sulle
loro posizioni. Rimasero a completare
il rastrellamento la compagnia delle
Brigate Nere bolognesi, il Reparto
RAP (Reparto Assalto Polizia), la
compagnia Arditi della GNR e la
pattuglia tedesca, per un totale di
circa 200 uomini.
Al calar delle tenebre, i partigiani
uscirono dalla base; la simultaneità
e l’audacia della sortita consentì ai
“gappisti” di riparare in altri luoghi
più sicuri e di attaccare i tedeschi e i
fascisti in vari punti della città: a Porta
S. Felice, all’angolo di via Riva di Reno,
Il monumento presso Porta Lame con le statue di Minguzzi
teatro di vari fermenti sociali e
particolarmente tenace fu la resistenza
dei bolognesi alla Repubblica di Salò e
all’invasione tedesca.
Uno degli episodi più significativi
della lotta di Liberazione fu la
“battaglia di Porta Lame” del 7
novembre 1944 (anche se si disquisisce
sulla definizione di “battaglia”) che
segnò il momento di una stagione
della guerra nella quale le forze della
Resistenza vennero a contatto in forme
nuove, dirette e più diffuse, rispetto a
quanto era avvenuto in passato sia con
le forze nemiche che con gli Alleati.
All’alba di quel giorno nell’area
trasformò il rastrellamento in una
vera e propria battaglia fra le mura
cittadine; dopo 5 ore di scambio di
fucileria con severe perdite in morti e
feriti, i nazifascisti chiesero rinforzi.
Arrivò la compagnia Arditi della GNR
(Guardia Nazionale Repubblicana) e
un reparto tedesco della Divisione SS
Reichsfuehrer, forse proveniente da
Casalecchio di Reno, con un pezzo
anticarro da 37 mm. e un cannone
antiaereo da 88 mm. Lo scontro si
protrasse per ore fino alla totale
demolizione mediante cannonate della
base di via del Macello; ma al momento
della conquista del caposaldo da
a via delle Lame, a via del Randone.
Le perdite di questo fatto d’arme
furono 17 morti accertati ed altri 50
feriti per i fascisti, non meno di 15 per
i tedeschi, mentre la 7° Brigata GAP
ebbe 12 morti e 15 feriti.
Nell’Italia occupata dalle truppe
naziste, questa battaglia rappresenta
la più rilevante sconfitta dei tedeschi
all’interno di un centro cittadino
e dimostra quanto fosse alta la
combattività e l’ardimento dei giovani
bolognesi e degli antifascisti di
ogni ceto; ma soprattutto evidenzia
quanto fosse socialmente ampio e
diversificato il sostegno popolare alla
lotta partigiana.
Con la battaglia di “Porta
Lame” (nonché della precedente
all’Università e di quella successiva nel
quartiere Bolognina, il 15 novembre
1944), i partigiani - pur vittoriosi
avendo inflitto pesanti perdite al
nemico e tenuto in scacco l’esercito
tedesco all’interno della città - non
riuscirono a modificarne la situazione
bellica. Bologna rimase sotto il rigido
controllo nazifascista fino al 21 aprile
del 1945, data della sua liberazione
ad opera delle truppe del generale
Anders.
Le due battaglie di “Porta Lame”
e della “Bolognina” avvennero quasi
in concomitanza con il Proclama del
generale Harold Alexander del 13
novembre che, esplicitando l’arresto
dell’offensiva sulla “Linea Gotica”,
chiese ai partigiani italiani di cessare
per il momento operazioni organizzate
su vasta scala, di “stare in difesa” e
di conservare le munizioni in attesa
del successivo attacco alleato. La
Linea Gotica, costruita lungo i crinali
appenninici per bloccare l’avanzata
dell’esercito
angloamericano
al
Nord Italia, era lunga oltre 300 km.
e comprendeva bunker, casematte,
trincee, nidi per mitragliatrici,
camminamenti e, lungo la riviera,
torrette, fortificazioni a “denti di
drago” per impedire eventuali sbarchi.
La sua realizzazione aveva comportato
la cacciata dalle proprie case di
collina e di pianura, requisite per
motivi bellici, di decine di migliaia di
contadini, che si rifugiarono a Bologna
con le loro masserizie occupando tutti
gli spazi disponibili della città ove
la popolazione arrivò a superare le
500.000 persone.
Il Proclama incise profondamente
sulle vicende della guerra partigiana
e della Resistenza bolognese, che
dovette frenare lo slancio iniziale e
pagarne le conseguenze con il mancato
raggiungimento dell’obiettivo militare
della campagna. Ne approfittarono
i tedeschi ed i fascisti per scatenare
feroci rastrellamenti e rappresaglie;
gli scontri armati videro impegnati
i partigiani bolognesi in attesa di
rinforzi in condizioni assai difficili
anche per il duro inverno.
L’arresto dell’offensiva alleata era
dovuto al fatto che, nell’estate del
La lapide ai Caduti della Resistenza presso Porta lame
1944 con lo sbarco in Normandia, vi
era stato il mutamento del quadro
strategico generale e l’Italia era
divenuta un fronte secondario; inoltre,
la linea adottata dagli Alleati nei
confronti della Resistenza italiana
era sì di sfruttarne le potenzialità ma
anche di tenere a freno le prospettive
di azione autonoma sia delle forze
combattenti che dei partiti politici che
l’animavano.
A tal fine gli Angloamericani
strinsero alla fine del 1944 un accordo
con il CLN (Comitato di Liberazione
Nazionale), che prevedeva da un
lato il riconoscimento ufficiale della
Resistenza italiana da parte degli
Alleati, dall’altro che, subito dopo la
liberazione, la Resistenza cedesse le
armi e rinunciasse alla costituzione
di propri organi di potere negli ambiti
locali, Comuni e Province. Anche se
tra gli stessi Alleati c’era un differente
sentimento politico: gli Inglesi,
assai più che gli Americani, non
dimenticavano che l’Italia era un paese
sconfitto e che, malgrado gli apporti
del Corpo Italiano di Liberazione e
del Movimento di Resistenza nelle
zone ancora occupate, che pure
venivano accolti e incentivati, l’Italia
doveva rimanere fino al Trattato
di Pace un Paese sconfitto anche se
“cobelligerante”. Insomma il rapporto
non prescindeva che l’Italia, come
Stato aggressore e vinto, dovesse
subire una punizione.
Attualmente a Porta Lame una
Lapide, collocata nel 1964, ricorda
alle successive generazioni il’eroico
sacrificio dei dodici giovani caduti per
l’indipendenza e la libertà. Davanti
all’epigrafe, due figure immerse nello
spazio, due statue senza basamento,
“Il Partigiano” e “La Partigiana”,
dello scultore bolognese Luciano
Minguzzi. Il loro bronzo proviene
dalla statua equestre di Benito
Mussolini, che era collocata sotto la
Torre di Maratona al Littoriale (ora
stadio Dall’Ara); decapitata dal popolo
bolognese il 26 luglio del 1943; era
stata ricavata - a sua volta - dal metallo
dei cannoni sottratti agli Austriaci nel
1848.
Artista di fama internazionale, il
Minguzzi ha forgiato le due opere
in un simbolico realismo: lui in
atteggiamento assorto, pensieroso; lei
- con la bandoliera a tracolla - pronta
per le battaglie delle donne negli anni
a venire. È netto il contrasto con il
vibrante e tormentato espressionismo
che lo stesso scultore forgiò nella
“Porta del Bene e del Male” nella
basilica di S. Pietro a Roma dove nel
pannello del Male, “l’Esercito dei
Martiri” commemora i 13 partigiani
della 63° Brigata Garibaldi, trucidati
il 10 ottobre del 1944 a Casalecchio di
Reno; legati ai cancelli vicino ad un
cavalcavia, passati con il filo spinato
attorno al collo, furono fucilati al
basso ventre e alle gambe in modo
che i corpi, piegandosi, prolungassero
l’agonia; lì rimasero esposti per tre
giorni.
I luoghi
della storia
Memorie
16
I luoghi
della storia
Memorie
PICCOLA STORIA DEL PARTITO D’AZIONE
Quella sconfitta politica è oggi un monito morale
di Giovanni Russo
C
hi ha vissuto in Italia l’esperienza politica di questi anni e
ha scelto di non essere un anticomunista viscerale (senza nulla
concedere alla giustificazione dei
metodi
dittatoriali
dell’ideologia
comunista e ciò soprattutto per evitare
di trovarsi in cattiva compagnia) deve
constatare come siano quasi ignorati, o
comunque ricordati solo marginalmente, il contributo e l’esperienza di
intellettuali o di uomini politici che
hanno cercato, proprio in Italia,
durante il fascismo, una strada in cui si
potesse realizzare la giustizia sociale
mantenendo tutte le garanzie e i valori
della libertà. Parlo del pensiero e
dell’azione dei fondatori di Giustizia e
Libertà Ugo La Malfa e Guido Calogero e dell’esperienza breve, dopo la
fine del fascismo, fallita, ma proprio
per questo ricca di insegnamenti illuminanti, del Partito d’Azione, fino alla
battaglia condotta dal 1949 al 1966 dal
Mondo di Mario Pannunzio, dove
confluirono ex azionisti, liberali,
democratici e socialisti. Il significato
de Il Mondo di Pannunzio è stato
proprio quello di conciliare, da Croce a
Einaudi, azionisti come Ernesto Rossi
e
personalità
come
Gaetano
Salvemini.
Di spalle a sinistra Ugo La Malfa, a destra Giovanni Russo
Nel momento in cui si tratta di
prefigurare una democrazia in cui
ci sia libertà e giustizia c’è da chiedersi perché il pensiero e l’opera di
quel filone al quale facciamo riferimento non siano presi in dovuta
considerazione. Tocca a noi riprenderlo e riproporlo.
Tra il socialismo e Benedetto
Croce
È vero che Palmiro Togliatti,
leader del Pci, fu sprezzante nel
liquidare il Partito d’Azione ed è
ben vero che, da un altro punto di
vista, lo stesso Benedetto Croce
sottopose a critica, considerandoli
concetti contraddittori, i termini
di giustizia e libertà, in quanto
la libertà, egli scrisse, non può
essere in funzione di una questione
economica. Ma è anche vero che,
nonostante questa critica, lo stesso
Croce ha poi finito per riconoscere
che nella libertà l’uomo non può
non ricercare la giustizia sociale.
Intellettuali ex comunisti sostengono che, come esisteva un cattivo
uso dell’ideologia comunista, il
cosiddetto comunismo reale, gli
intellettuali non comunisti avrebbero tralasciato di approfondire la
cosiddetta democrazia reale.
Anche qui appare strano come
si sia dimenticato che tutto il
movimento di Giustizia e Libertà
e del Partito d’Azione nasceva
non solo dalla critica del socialismo tradizionale e del comunismo
cosiddetto reale, contrassegnato
dalla dittatura e da una burocrazia sfruttatrice, ma anche dalla
critica della democrazia reale dei
Paesi capitalisti. Rosselli, Gobetti,
e poi Ernesto Rossi si sono sempre
occupati proprio dei difetti e dei
problemi della democrazia reale.
Nel Malgoverno, un libro pubblicato nel 1954, Ernesto Rossi
scriveva che molti di coloro che si
dicono liberali non hanno alcun
ritegno a rinnegare i principi della
libertà e a presentarli come principi liberali per fare i loro interessi.
Egli ribadiva, appunto, come il vero
liberismo impone pianificazione,
programmazione,
regolamento
anche con rispetto del mercato.
Gli intellettuali che si riunivano intorno a Il Mondo sapevano
pensare a una vera Italia europea. Era l’Italia dell’utopia del
Partito d’Azione, sognata da Ugo La
Malfa. È l’idea di un’Italia di minoranza, ma che rappresenta quelle
radici morali di un Paese che non è
condannato al disprezzo dell’etica,
al servilismo, al conformismo.
Non posso non ricordare Piero
Calamandrei e le sue riflessioni
che hanno ispirato il settimanale
Il Ponte, la rivista che dirigerà fino
alla morte e che ha rappresentato,
insieme al Mondo, una voce così
significativa nella cultura e nella
lotta politica italiana. Calamandrei,
come Leo Valiani hanno avuto un
rapporto dialettico con il pensiero
di Benedetto Croce, che giganteggia su questi personaggi con le
sue critiche. Valiani permette di
cogliere nel pensiero di Croce l’impegno morale della libertà come
una conquista nella vita pratica. È
interessante come Valiani sottolinei
il ruolo positivo di Benedetto Croce
e Adolfo Omodeo.
L’intellettuale disorganico
Mentre con la fine del Partito
comunista è caduto pure il modello
dell’intellettuale che vi faceva riferimento, la morte prematura del
Partito d’Azione non ha portato con
sé la fine di quel modello d’intellettuale, strutturalmente disorganico,
naturalmente impegnato a sinistra.
Gli intellettuali del Partito
d’Azione, checché ne dicano i cosiddetti revisionisti, non erano mai
stati legati da nessuna dipendenza
ideologica e politica diversa dagli
ideali di Giustizia e Libertà.
Come affermava Gennaro Sasso,
il massimo studioso odierno di
Benedetto Croce, che è stato anche
lui un azionista: «Oggi è di moda
dire peste e corna degli azionisti,
accusarli di tutti i mali della Repubblica, come se non ci fossero altri
esempi molto più autorevoli a rappresentare questi mali».
Non posso non ricordare poi
Paolo Vittorelli, che dirigeva con
Aldo Garosci il primo giornale in
cui ho cominciato a scrivere, L’Italia
Socialista, protagonista della lotta
antifascista fin da giovanissimo nel
Nord Africa. Egli, infatti, era nato
17
Russo con la figlia di Benedetto Croce, Elena
ad Alessandria d’Egitto ed era stato
inviato da Giustizia e Libertà al Cairo
dove fondò un gruppo di GL. Dopo
la guerra, insieme a Stefano Terra,
viene dall’Egitto in Italia e diventa uno
degli esponenti del Partito d’Azione.
Il volume, uscito nel 1998, L’età della
speranza, testimonianze e ricordi del
Partito d’Azione di Paolo Vittorelli (che
dimostra il talento di un vero scrittore) è ricco di intuizioni politiche ed è
prezioso per conoscere la storia di quel
partito, ne analizza le ragioni della
crisi e i motivi di una scissione che egli
fino all’ultimo tentò di scongiurare.
Il maestro Guido Calogero
Mi è capitato di sfogliare un libretto
di Guido Calogero, in cui parlava del
suo concetto di liberal-socialismo e
scriveva: «Coerente e autonomo è solo
quel liberalismo che è insieme socialista, o quel socialismo che è insieme
liberale. Si chiami questo poi più
adeguato e approfondito concetto col
nome di liberal-socialismo, di radicalismo, di laburismo, con quella qualsiasi
altra denominazione che si preferisca
come più rispondente al proprio gusto e
opportunità. Quando si vuole la libertà
politica, e non la si vuole solo a metà,
allora si deve volere anche la uguaglianza economica, quando si vuole la
giustizia sociale, e non si accetta che
essa sia una giustizia ipocrita, allora è
forza volere anche la piena libertà politica».
Calogero ha teorizzato il rapporto
tra libertà e giustizia ed è stato protagonista della famosa polemica con
Benedetto Croce, che appose al
liberalsocialismo la definizione di
ircocervo. Il liberalsocialismo di Calogero era, per noi giovani, ricco di
motivi politici e di spunti suggestivi che uscivano dagli schemi
tradizionali, contraddicevano lo storicismo di Croce. E di Calogero vorrei
anche ricordare l’importante ruolo
svolto nel primo congresso del Partito
di Azione, a Roma, nel 1946, al quale
partecipai come rappresentante del
movimento giovanile del Partito
d’Azione del Sud e al quale intervenne
anche Bruno Trentin, che rappresentava il movimento giovanile del
Partito d’Azione del Nord Italia. Trentin insisteva sulla necessità di legare
il Partito d’Azione alle masse operaie,
mentre io, sotto l’influenza lamalfiana,
pensavo che bisognasse mantenere
una completa autonomia. Calogero
riuscì a evitare che lo scontro degenerasse in una crisi.
Un’idea di Europa e di Mezzogiorno
Cos’è rimasto, oggi, di vivo del
pensiero azionista in Italia e in particolare nel Mezzogiorno ?
Vi è stata la riabilitazione, per così
dire, di Carlo Rosselli, che era stato
denigrato da Palmiro Togliatti,
da parte degli ex comunisti, in un
discorso di Walter Veltroni. Le critiche salveminiane alle degenerazioni
delle classi dirigenti meridionali non
hanno perso validità e ad esse ci si può
richiamare quali ragioni ideali nella
lotta alla criminalità organizzata e
alla pratica del clientelismo. È ancora
fondamentale l’esigenza di un Mezzogiorno legato all’Europa, che fu uno
18
Memorie
dei cavalli di battaglia dell’azionismo.
Da non sottovalutare anche il tema del
federalismo, oggi al centro della polemica politica suscitata dalla Lega come
strumento di divisione e spaccatura
fra l’Italia del Nord e del Sud, mentre
in Salvemini e Guido Dorso era invece
considerato un mezzo per modernizzare lo Stato.
Anche sul rapporto con l’Europa le
posizioni che furono degli autori del
Manifesto federalista, Altiero Spinelli
ed Ernesto Rossi, rappresentano
ancora l’obiettivo da raggiungere nella
Comunità Europea. Si può dire perciò
che se il Partito d’Azione perse come
partito, ha vinto come pensiero culturale che ha trionfato sulle vecchie e
tramontate ideologie.
Gli azionisti volevano un’Italia
nuova, coerente agli ideali per i quali
durante la Resistenza si batterono
nelle formazioni di Giustizia e Libertà
per la democrazia italiana. Purtroppo
il loro progetto non ebbe allora fortuna
e l’Azionismo crollò come forza politica, ma è rimasto come forza morale.
Sicché allo stato attuale esso può
pretendere di riproporre, soprattutto
ai giovani, i suoi ideali in un paese
dove prevale, proprio, la mancanza di
ideali.
Piccola storia del partito d’azione
Quando ero un giovane azionista
meridionale
di Giovanni Russo
L
a mia esperienza nel Partito d’Azione è legata alle battaglie politiche
dopo la fine della seconda guerra mondiale in Lucania e nel Sud.
Nel 1943 alcuni giovani, tra cui il sottoscritto, a Potenza, in Lucania, entrarono a far parte del Partito d’Azione. Eravamo un gruppo di amici,
coetanei, tra i 17 e i 19 anni, che, avendo letto la Storia del Liberalismo di De
Ruggiero, la Storia d’Italia di Croce e L’apologia dell’ateismo di Giuseppe Renzi,
vagheggiavano di fondare un movimento politico e culturale che riflettesse
il loro vago antifascismo. Il protagonista di riferimento fu Michele Cifarelli, che era magistrato a Bari, ma già uno dei più noti esponenti del Partito
d’Azione. Fu lui che ci convinse a fondare una sezione a Potenza, di cui
conservo la tessera numero 6. Era l’agosto o il settembre del 1943, poche settimane dopo il 25 luglio, quando Benito Mussolini era stato dimesso da Vittorio
Emanuele III. Ci impegnammo nell’organizzazione e nella propaganda per la
Repubblica in vista del referendum che si tenne nel 1946 insieme alle elezioni
per la Costituente, e riuscimmo a mobilitare sia borghesi che contadini, contribuendo così al successo del voto per la Repubblica.
La nostra bussola Michele Cifarelli
Avevamo letto i libri di Adolfo Omodeo, conoscevamo Rosselli e Gobetti
e, nello stesso tempo, avevamo appreso le idee del liberalsocialismo di Guido
Calogero che uscivano dagli schemi tradizionali, dato che contraddicevano lo
storicismo di Croce. Chi ci aprì a queste letture e a queste idee, e nello stesso
tempo ci impegnò nella lotta politica che portò poi al Congresso dei Comitati
di Liberazione Nazionale di Bari del 1944, fu proprio Michele Cifarelli, grande
organizzatore non solo del congresso a Bari, ma anche avvincente conferenziere che riusciva a raccogliere numerosissimi ascoltatori affascinati dalla sua
oratoria. A Potenza, professionisti, studenti, impiegati
affollavano la sala della Cattedra oraziana dove venivano
a parlare gli esponenti dei partiti politici.
Il più atteso era proprio Cifarelli, che alternava argomentazioni storiche e culturali alle analisi politiche.
Nato a Bari nel 1913, aveva vinto nel 1938 il concorso in
magistratura e aveva maturato la sua critica al fascismo
frequentando casa Laterza, dove spesso si recava Benedetto Croce, insieme con Fabrizio Canfora, Ernesto
De Martino, Giuseppe Bartolo, e dove si incontrava
con Tommaso Fiore, studioso di Virgilio e seguace di
Salvemini. Cifarelli insieme al fratello Raffaele costituì
clandestinamente l’associazione liberalsocialista Giovane
Europa ed elaborò, attraverso i contatti con Tommaso
Fiore e Guido Calogero, un programma in cui si poneva
al primo punto la realizzazione della Repubblica e dove
erano già presenti un richiamo all’Europa unita e un
abbozzo di federalismo insieme ai temi della questione
meridionale. Questa intensa attività clandestina non
sfuggì all’Ovra e nel giugno del ‘43 Cifarelli fu arrestato insieme a Calogero, De Ruggero e Tommaso Fiore
e venne liberato solo il 28 luglio, dopo la caduta del fascismo.
A Bari dopo l’armistizio
Potenza 1945. Carlo Levi (col trench) e Giovanni Russo
19
Memorie
Nel suo libro Il regno del Sud, che ben descrive l’atmosfera politica durante il governo Badoglio, Agostino
degli Espinosa così racconta le iniziative del gruppo di
giovani antifascisti baresi: «A Bari, subito dopo l’annunzio
dell’armistizio, gli uomini del Fronte Nazionale d’Azione,
Da sinistra: Rosario Romeo, Francesco Compagna (seduto), Manlio Rossi Doria e Michele Cifarelli (per gentile concessione dell’Archivio A.N.I.M.I.)
centro dell’antifascismo militante,
capeggiati da Michele Cifarelli, volevano armare il popolo e, sollevando
una rivolta popolare, procedere alla
cattura delle truppe tedesche e si
rivolsero al prefetto». Poi commenta:
«Era una proposta in cui nobilmente
fremeva il mito mazziniano del
combattimento popolare, ma a fatica
un funzionario statale, uso al tecnicismo dell’amministrazione pubblica,
avrebbe potuto accettarla».
Dopo l’8 settembre, Cifarelli
insieme con altri riuscì a prendere in mano Radio Bari, dove
grazie anche al maggiore inglese
Greenless, responsabile del Pwb
(divisione per la guerra psicologica),
amplificò la propaganda democratica a tutto il Sud. In quel periodo
c’era una vivace attività politica e
culturale promossa da uomini del
Partito d’Azione o che a esso si ispiravano. Resta fondamentale il ruolo
di Cifarelli nel primo congresso
nazionale del Cnl, che si tenne al
teatro Piccinni a Bari, il 28 e 29
gennaio del 1944, e che fu determinante per la posizione assunta da
Benedetto Croce nella nascita della
Repubblica e nel porre le premesse
per l’abdicazione del re.
Cifarelli promosse anche la rinascita degli studi meridionalistici
che durante il fascismo erano stati
completamente posti da parte.
In quegli anni fiorirono iniziative culturali e politiche: a Bari
Vittore Fiore, figlio di Tommaso,
fondò Il Nuovo Risorgimento, settimanale di dibattito e di inchieste, che
dovrebbe essere riscoperto e analizzato in quanto dette un vivace impulso
alle idee e alle proposte azioniste.
Il romanzo di Carlo Levi
Svolsero un ruolo importante
nell’attività culturale e politica dell’azionismo il grande critico letterario
e studioso Carlo Muscetta e, dopo
l’uscita del suo famoso romanzo Cristo
si è fermato a Eboli, naturalmente Carlo
Levi. Nel suo libro su Roma, L’Orologio, Levi traccia un vivace ritratto di
Muscetta, giornalista a L’Italia libera.
Com’è stato ricordato nel convegno del 2005, promosso ad Avellino
dal Centro Dorso, che ha rievocato la
multiforme attività di intellettuale,
critico, poeta, organizzatore editoriale di Muscetta, questi fu uno
dei principali redattori de L’Italia
libera clandestina, a Roma condivise
il carcere con Leone Ginzburg e,
dopo il 1944, aderì a una visione della
questione meridionale così come era
stata concepita da Dorso e Gramsci.
Egli considerò sempre Dorso un suo
maestro anche se, sotto l’influenza
del pensiero di Gramsci, nel 1947
aderì al Partito comunista. Il Cristo
si è fermato a Eboli di Carlo Levi può
considerarsi un aspetto della cultura
azionista nel Mezzogiorno perché, al
di fuori degli schemi della ideologia
comunista e della egemonia clericale
democristiana, apriva una grande finestra sul mondo contadino e sulla
meschinità della borghesia dei paesi
del Sud, i «galantuomini».
Carlo Levi partecipò alle elezioni
del 1946 per la Costituente nella lista
presentata a Potenza dal Movimento
democratico repubblicano costituito
da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa
dopo la scissione del Partito d’Azione
avvenuta nel Congresso svoltosi a
Roma nel 1946 e che non dipese, come
si è sostenuto, dal dissidio fra Lussu e
La Malfa.
La scoperta del mondo contadino
Importantissimo è il ruolo che nella
cultura politica azionista nel Mezzogiorno ha ricoperto Manlio Rossi
Doria, con cui ho avuto stretti legami.
Sto rievocando tempi lontani, ma le
motivazioni che ci guidarono allora
sono ancora valide. Oltre a Rossi Doria
e Levi, nella lista che si presentò alle
elezioni per la Costituente, erano
presenti Guido Dorso, Alberto
Cianca e Vincenzo Calace. Ricordo
che a piazza Sedile, a Potenza, esposi
a un balcone la bandiera del Partito
d’Azione prima del comizio che Rossi
Doria tenne a conclusione della campagna per il referendum: un comizio
travolgente che convinse anche molti
contadini a votare per la Repubblica.
Rossi Doria, grande economista agrario, aveva un rapporto umano, e non da
tecnico, con i contadini, e lo dimostrò
proprio attraverso la riforma agraria
20
Memorie
che egli diresse in Calabria e Lucania,
quando doveva stabilire la divisione
dei poderi da assegnare. Seguendolo
in questa sua attività, potei scoprire
il complesso rapporto con il mondo
contadino di cui rispettava l’autonomia. Condivideva con Carlo Levi il
suo affetto per Scotellaro: lo chiamò,
infatti, all’istituto agrario di Portici,
che egli dirigeva, dandogli l’incarico di scrivere il libro Contadini del
Sud, il primo libro di sociologia letteraria in Italia. Rossi Doria, in seguito,
arricchì la concezione meridionalista
della rivista Nord e Sud di Francesco
Compagna, con le sue analisi sulla
questione meridionale.
La battaglia per il Mezzogiorno
C’è stata una continuità del pensiero
meridionalista di ispirazione azionista negli anni in cui si arrivò
all’intervento straordinario e alla istituzione della Cassa del Mezzogiorno,
che fu difesa sia contro le destre,
che non volevano rompere gli equilibri della proprietà meridionale e del
latifondo, sia contro Giorgio Amendola, che era decisamente contrario.
Non si può non tener conto del contributo che venne da Ugo La Malfa, già
dal 1949, nel dibattito sulla questione
meridionale. Egli lanciò uno dei primi
appelli affinché lo Stato si impegnasse
direttamente nel Sud, cosa che aveva
affermato al congresso del Partito
Repubblicano del 1948 a Napoli.
La Malfa, che in quel partito aveva
portato le idee e la visione del Partito
d’Azione, aveva sostenuto, anche
sulla base del rapporto dell’economista Pasquale Saraceno, la necessità
Aldo Garosci, Giovanni Russo e il pittore Mino Maccari
di un intervento straordinario dello
Stato nel Mezzogiorno, idea che già
era stata di Giovanni Amendola,
secondo cui il problema della depressione meridionale è un problema di
interesse italiano. Nell’agosto del 1949,
nell’articolo Le due Italie, pubblicato
ne Il Mondo, aveva ribadito questo
appello. Quando nel 1954 Francesco Compagna fondò la rivista Nord
e Sud Ugo La Malfa e lo storico Rosario Romeo sostennero le posizioni di
un meridionalismo democratico, in
polemica con le tesi del Partito comunista che erano espresse dalla rivista
Cronache meridionali ispirata da Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano
e Gerardo Chiaromonte. Negli anni
‘50 e ‘60 la rivista Nord e Sud è stata
quindi il laboratorio culturale più
importante della politica dell’intervento straordinario nel Sud, alla
quale hanno collaborato Renato
Giordano, Vittorio De Caprariis, Giuseppe Galasso, Guido
Macera e Giuseppe Ciranna:
vennero indicati i mali che ancora
oggi caratterizzano il nostro paese,
il pan sindacalismo e il pan regionalismo, fu sottolineata la necessità di
legare il Mezzogiorno all’Europa.
Il pensiero meridionalista di ispirazione lamalfiana, che fu poi,
come si è detto, ereditato da Nord
e Sud, fu alla base della polemica
con i comunisti, che si erano opposti all’istituzione della Cassa del
Mezzogiorno e anche all’intervento
straordinario. Questa opposizione
fu espressa da Giorgio Amendola
il 20 giugno 1950 nel discorso alla
Camera dei Deputati sulla legge
istitutiva della cassa per il Mezzogiorno e, per 30 anni, fu la posizione
dei comunisti. Al contrario la rivista Nord e Sud aveva un ancoraggio
europeista e Compagna lo illustrò
in un suo libro intitolato Mezzogiorno d’Europa.
Le firme del Mondo
Giorgio Amendola con Russo
21
Memorie
Il settimanale Il Mondo, fondato
nel 1949 da Mario Pannunzio,
raccolse sulle sue pagine personalità, anche di idee e temperamenti
diversi, della tradizione liberale,
a cominciare da Benedetto Croce,
e della tradizione azionista come
Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi,
Leo Valiani, Alessandro Galante
Garrone, Manlio Rossi Doria e Ugo
La Malfa, quindi liberali, crociani,
salveminiani, ex azionisti, ai quali
si aggiunsero poi Vittorio De Caprariis, Rosario Romeo, Francesco
Compagna e Alberto Ronchey. Il
Mondo eredita, proprio attraverso
gli scritti di Compagna e di Rossi
Doria, e con le inchieste sul Mezzogiorno e sui contadini compiute
anche da me insieme ad altri giornalisti, come Andrea Rapisarda,
molta parte del pensiero meridionalista del Partito d’Azione.
Bisogna dire che saranno proprio
Compagna, De Caprariis, Macera
e Giordano a indurre Pannunzio a
inserire nelle pagine de Il Mondo,
in maniera sempre più ampia, la
questione meridionale. Ma capofila è Ugo La Malfa che, come scrive
Francesco Erbani, fissa «i passaggi
di un nuovo manifesto meridionalista» nell’editoriale Finanze e
Mezzogiorno pubblicato nel luglio
1949 proprio nel Mondo. Al settimanale di Pannunzio collaborano tra
il 1949 e il 1966 alcuni tra i più noti
studiosi e giornalisti che si occupano di Mezzogiorno, quali Nello
Ajello, Giovanni Cervigni, Mario
Dilio, Vittorio Fiore, Riccardo
Musatti,
Andrea
Rapisarda,
Atanasio Mozzillo, Leonardo
Sacco e non vorrei averne dimenticati altri.
Il Mondo promuoverà poi la
campagna contro il laurismo, di
cui fu un protagonista l’azionista
Guido Macera, allievo di Dorso, e
soprattutto Vittorio De Caprariis,
che, pur non essendo uno specialista, svolse un ruolo importante in
questa polemica. Raffinato studioso
del Cinquecento e del Seicento e
di Tocqueville, nel Mondo approfondisce l’esame dei temi politici
riguardanti la democrazia italiana
e, in particolare, le condizioni del
Mezzogiorno. Sulle pagine del settimanale si sviluppa così un ampio
dibattito. Sia sulla riforma agraria, nel confronto tra le posizioni
di Rossi Doria, che ne fu artefice e
difensore, e quelle di Carandini,
che invece fu fieramente avverso,
sia sull’intervento straordinario,
dibattito che prelude alla nascita,
a livello nazionale, del governo di
centro sinistra e che riguarderà
anche il tema dell’industrializzazione del Mezzogiorno.
NEL CENTENARIO DELLA NASCITA
Joyce Lussu. Passione civile e
antifascismo militante
di Maurizio Orrù
A
cent’anni
dalla
nascita
vogliamo ricordare Gioconda
Beatrice Salvadori Paleotti,
universalmente conosciuta con il nome
di Joyce Lussu, straordinario esempio
di impegno civile e politico, antesignana delle battaglie femministe,
fondatrice dell’Udi, sostenitrice dei
diritti civili delle popolazioni aborigene e curde, sempre in primo piano
nella lotta per la pace e nell’antifascismo militante.
È stata, secondo l’unanime parere
del mondo culturale e politico a
lei contemporaneo, una donna di
finissima sensibilità umana e di solidissima cultura, come dimostrano le
tante opere pubblicate: Liriche (1939),
Portrait (1988), Il libro delle streghe (1990), Sguardi sul domani (1996),
Padre, Padrone e Padreterno (2009) e
saggi sull’avanguardia africana e sul
poeta turco Nazim Hikmet.
Joyce amava la critica, il dubbio
intellettuale, il confronto teorico, ma
poi si lasciava catturare dalla poesia
e i suoi versi così particolari, quasi il
ritratto di un’anima, hanno conquistato molti lettori.
La forte personalità di Joyce Lussu
è stata oggetto, nel corso del tempo,
di numerose interpretazioni e valutazioni. Scrive Nello Ayello, giornalista
e scrittore: «Fra le donne che lottarono
contro il fascismo a Joyce Lussu va
riconosciuto un posto privilegiato e
originale. Joyce ha sempre posseduto
un’irresistibile forza vitale e rara predisposizione all’autoironia. Il quesito se
coraggio e senso dell’umorismo possano
combinarsi senza stridori riceve, nel suo
caso, una risposta affermativa. Forse la
leggenda più irrepetibile della scrittrice
rimane la sua biografia, vissuta accanto
a un patriota che si chiama Emilio
Lussu, peregrinando avventurosamente
tra fronti e frontiere».
Proprio così, Joyce è stata la compagna tenace e coraggiosa, solidale e
generosa, di uno dei padri dell’antifascismo. Nel 1938 Joyce incontrava
clandestinamente quell’Emilio Lussu,
conosciuto con il nome di battaglia di
Mr. Mill, fondatore del Partito Sardo
d’Azione e del Movimento Giustizia e Libertà, e l’intesa intellettuale e
politica sfociava in un rapporto sentimentale saldissimo che ha attraversato
prove e burrasche senza mai appannarsi. I due si sposarono e vissero a
Parigi fino all’estate del 1940, quando
la città veniva militarmente occupata dalle truppe germaniche. Allora
i coniugi Lussu spostavano la loro
residenza a Marsiglia, dove dettero
impulso a un’organizzazione di espatrio clandestino la quale riusciva a
concertare le partenze di numerosi
antifascisti di diverse nazionalità.
Moglie e marito si distinsero per
saper inquadrare le ragioni dell’antifascismo italiano e i suoi obiettivi nella
più ampia cornice politica mondiale.
Mai il loro punto di vista fu angusto e
provinciale. Trasferivano la loro residenza in Portogallo e in Inghilterra,
dove lei, con una buona dose di anticonformismo vero e non di maniera,
era impegnata in un corso di addestramento alla guerriglia in un campo
militare. La Lussu è stata davvero una
personalità che ha precorso i tempi,
dando prova nei fatti della concreta
Joyce Lussu in un ritratto giovanile
22
parità tra i sessi. Rientrata in Italia nel
luglio 1943, dopo l’arresto di Mussolini, partecipava attivamente alla
Resistenza, in qualità di staffetta,
compiendo numerose e delicate azioni:
il suo eroismo veniva premiato con la
medaglia d’argento al valor militare.
Joyce Lussu ha narrato le sue
rischiose esperienze di vita partigiana in un testo dal titolo Fronti e
frontiere, un classico per chiarezza e
completezza storiografica. Cittadina
del mondo, ha portato il suo personale
contributo nei paesi colonizzati, contro
la guerra, nell’ottica della pace universale.
Scrive nel libro Lotte, ricordi e altro:
«Occorre delegittimare la guerra e
quindi disattivare gli orrendi arsenali
Memorie
sparsi in tutto il mondo, riconvertendo
le industrie belliche, anche se ciò non
sarà un piccolo problema; sostituire
agli eserciti nazionali e nazionalisti con
formazioni internazionali senza insegne
corporative e fornite di armi esclusivamente difensive che escludano quelle
nucleari, chimiche e batteriologiche».
Anche questa era Joyce Lussu, la
quale ha avuto un particolare amore
(ricambiato) nei confronti della “sua”
Sardegna.
Joyce negli ultimi anni della sua
vita impegnava tutte le sue energie
intellettuali nella formazione delle
nuove generazioni, attraverso lezioni
e seminari di studio su percorsi di
poesia, storia e progettualità sociale.
È stata una delle fondatrici e dirigente
regionale sarda dell’ISSRA (Istituto sardo per lo studio della
Resistenza e dell’Autonomia).
Per ricordare questa protagonista così vitale, forte e curiosa della
vita, anticipatrice, nelle scelte, dei
principali movimenti femminili del
secondo Novecento (morì a Roma a
86 anni il 4 novembre 1998) consigliamo una tappa al Museo storico
di Armungia, che attraverso un
particolare percorso fotografico e
multimediale consente di ricostruire la vita difficile, ma intensa e
bellissima dei coniugi Lussu.
Teodoro Bigi il 5 luglio aveva compiuto 100 anni, il 22 è venuto a mancare
Parlando con mio padre
Per ricordarlo pubblichiamo una conversazione del 1986 avuta col figlio Diego
di Diego Bigi
I
l 25 luglio 1943 Benito Mussolini
viene messo in minoranza al Gran
Consiglio del fascismo. Dopo
poche ore è arrestato per ordine del re.
Nuovo capo del Governo è nominato il
Generale Pietro Badoglio dallo stesso
re Vittorio Emanuele III. Quel giorno
mi trovavo richiamato militare a Latisana (Udine) al 26° deposito fanteria.
In tutto il paese e anche lì si svolsero
manifestazioni di strada per la gioia
della caduta del fascismo, inneggiando
alla pace e alla libertà. Vi presi parte
anch’io, organizzando la partecipazione di altri soldati.
In caserma, per la mia attività
antifascista, i dirigenti volevano
evitare ogni contatto tra me e il
resto dei soldati e per questo ero
esentato da tutti i servizi. In conseguenza della caduta di Mussolini e
delle nuove decisioni del Governo
Badoglio fui reintegrato in tutte le
attività. Ben presto però le speranze
suscitate dagli avvenimenti di quelle
ore si rivelarono delle illusioni. Fu
emanato il proclama “La guerra continua” a fianco dell’alleato tedesco, in
altre parole della Germania nazista.
I tedeschi si rivelarono sempre più
come occupanti.
Mio padre si sofferma a pensare per
una domanda che io gli faccio e poi
riprende a parlare.
23
Memorie
Teodoro Bigi in una foto recente. Per lunghi anni è stato dirigente della Federazione di Parma, poi nella
Presidenza onoraria dell’Anppia
Il 27 Luglio 1943 un ufficiale
Colonnello raduna tutti i soldati
per rivolgere loro un discorso in
cui dichiara che la guerra continua a fianco del vecchio alleato, la
Germania di Hitler. Aggiunge inoltre che in Italia ci sono pericoli di
disordini, poiché vi è chi chiede la
fine della guerra e la pace, specificando che deve essere compito
di noi soldati assicurare l’ordine
pubblico in caso di manifestazioni
di protesta per chiedere la fine
della guerra. Dichiara poi che se
sarà richiesto noi soldati dovremo
sparare contro i manifestanti.
Appena l’ufficiale si allontana,
terminato il discorso, decido di
prendere io la parola. Salto in
piedi sopra un tavolo e chiedo ai
soldati di ascoltarmi. Tutti rimangono ad ascoltare. Quello era il mio
primo discorso politico pubblico ed
avveniva in una situazione davvero
drammatica.
“Non sono d’accordo”, inizio a
dire, “con quello che ha detto il
Colonnello. Ha affermato che la
guerra continua a fianco dei tedeschi e che il nostro compito è di
tenere l’ordine rispettando gli
ordini dei comandi superiori, anche
a costo di sparare contro la gente
inerme. Al contrario dobbiamo
anche noi chiedere la fine della
guerra e solidarizzare con i manifestanti che la chiedono. Se ci
ordinano di sparare contro i manifestanti per tenere l’ordine noi non
lo faremo, perché sono la nostra
gente, tra loro ci sono i nostri genitori, i nostri fratelli e le nostre
sorelle. Se costretti spareremo piuttosto contro chi ci ordina di sparare
e ci uniremo ai manifestanti per la
pace. Il nostro compito oggi è quello
di impedire che altri militari tedeschi entrino in Italia, di disarmare i
tedeschi che sono nel nostro paese e
richiamare in patria i nostri soldati
all’estero. Occorre mettere l’Italia in
condizione di combattere a fianco
degli Alleati anti-tedeschi per porre
termine più rapidamente possibile alla guerra con la sconfitta del
nazismo, liberando il nostro Paese
dall’invasore tedesco e portare la
pace in Europa e nel mondo”.
Se i comandi militari e il Governo
avessero deciso quello che io indicavo come via da seguire, si sarebbe
evitato il disastro dell’8 Settembre
Pisticci, 1939. Un gruppo di confinati nella colonia materana. Bigi è quello in ginocchio col gatto in braccio
1943, che segnò la disfatta del nostro
esercito, e gli eccidi di militari e civili
che ne seguirono, come quello di Cefalonia dove i tedeschi uccisero migliaia
di soldati italiani e come quelli di
Marzabotto e S. Anna di Stazzema e
tanti altri, dove trucidarono centinaia
di vecchi, donne e bambini, inclusi
neonati».
Dopo una pausa mio padre riprende a
raccontare.
L’impressione tra i soldati fu
forte, era la ribellione che stava
prendendo corpo. Di questo furono
ben coscienti le autorità militari della
caserma. Il giorno dopo fui arrestato
per questo discorso fatto ai soldati e in
attesa di processo fui trasferito in Via
Tigor, così si chiamava, al carcere militare di Trieste. I 45 giorni del Governo
Badoglio li trascorsi qui.
Badoglio nei primi giorni del settembre 1943 firma l’armistizio con gli
inglesi e gli americani. Alla sera del
famoso 8 settembre lesse alla radio un
breve proclama in cui era reso pubblico
tale fatto. In esso non si invitava alla
lotta per la cacciata dell’esercito tedesco, ma si concludeva con un semplice
“Esse (le Forze Italiane) però reagiranno ad eventuali attacchi da
qualsiasi altra provenienza”. Da quel
momento l’esercito italiano fu abbandonato a se stesso e le truppe tedesche
ebbero tutto il tempo di fronteggiare
la nuova situazione e di occupare
sistematicamente l’Italia. Nelle ore
successive i soldati italiani furono
disarmati e catturati. La stessa cosa
avvenne a Trieste. Una donna ebbe
la possibilità di lanciare all’interno
del cortile del carcere un biglietto in
cui avvertiva i carcerati militari della
necessità di fuggire: “Fuggite, i tedeschi stanno occupando Trieste”.
In una situazione di completo
disordine io e gli altri carcerati
riuscimmo a fuggire prima che i
24
militari tedeschi prendessero possesso
dell’edificio carcerario. Il nostro primo
tentativo di fuga fu impedito dalle
truppe italiane che ancora comandavano nella zona. Il giorno dopo queste
non c’erano più e le guardie carcerarie
fuggirono anch’esse.
In carcere ho conosciuto un
soldato che era lontano parente di
Giovanni Roveda, il noto antifascista con cui avevo condiviso il confino
all’isola di Ventotene. Il mio passato di
antifascista, amico di Roveda mi aveva
fatto conquistare la sua stima.
Al momento della fuga dal carcere
quel soldato mi aiutò conducendomi
da suoi conoscenti a Trieste. Questi
ci accolsero, nonostante il rischio che
correvano, ci fecero lavare, ci diedero
abiti civili che erano indispensabili
per uscire in strada ed anche un aiuto
economico per far fronte alle spese
di viaggio. Dopo aver pernottato ci
mettemmo in cammino per la stazione
alla ricerca di un treno per poter
tornare a casa. Come un cittadino
qualsiasi riuscii a prendere il treno.
Arrivato a Bologna dovetti cambiare
convoglio. Mentre raggiungevo il
nuovo punto di partenza vidi che i
soldati tedeschi arrestavano tutti
quelli che erano in divisa e io non fui
fermato. Durante il viaggio un ferroviere avvertì i militari presenti o
presunti tali, che la stazione di Reggio
Emilia era occupata dai tedeschi e
che procedevano all’arresto di tutti
i soldati italiani e di quelli sospetti di
esserlo. Per sfuggire ad ogni controllo
di identificazione scesi a Rubiera,
un paesino a pochi chilometri da
Reggio Emilia. Attraversando i campi
raggiunsi la mia abitazione a Pratofontana.
Come figlio primogenito di militare morto nella prima guerra
mondiale, mio padre aveva diritto
all’esonero dal servizio militare.
Però, come lui mi racconta, fui richiamato nel 1935. In quel periodo però mi
trovavo in carcere a Reggio Emilia. Ero
stato arrestato per propaganda contro
la guerra di Africa e dovevo venire
giudicato dalla Commissione Provinciale. Venni condannato a 5 anni di
confino. Siccome ero stato richiamato
la pena venne sospesa e fui inviato alla
1a Compagnia di disciplina militare
ed assegnato ad un reparto speciale di
antifascisti a Pizzighettone (Cremona).
L’intento era quello di prepararci militarmente e di farci poi combattere per
Memorie
il fascismo.
Noi perseguitati politici antifascisti facemmo di tutto affinché il
reparto non adempisse ai compiti
per il quale era stato costituito.
Si cominciò subito ad organizzare la
protesta contro la disciplina che si
voleva imporre al reparto.
Venne organizzato un tentativo
di fuga per andare a combattere in
Spagna contro i fascisti e per la Repubblica. Però il gruppo che fuggì, per
delazione di una guida che doveva
portarli oltre confine, venne arrestato. Si trattava di Didimo Ferrari
di Reggio Emilia, il futuro partigiano
Eros, Mazzetti di Bologna e l’avvocato
Boretti di Milano. Dopo quel tentativo di fuga la località venne ritenuta
non più sicura e il reparto fu trasferito
all’isola d’Elba. Io nel frattempo avevo
trascorso i miei tre mesi di addestramento e fui inviato al confine nell’isola
di Ventotene. All’isola d’Elba vi fu una
nuova fuga ed alcuni raggiunsero la
Spagna. Tra questi l’avvocato Boretti
di Milano, morto poi sul fronte
spagnolo e Mazzetti di Bologna.
Per l’azione di noi perseguitati
antifascisti il regime fu costretto a
prendere la decisione di sciogliere il
reparto.
Brevi note biografiche
Teodoro Bigi nasce a Villa Prato
Fontana nel 1912. Già dal 1929 inizia
l’attività clandestina antifascista e
nel ’31 si iscrive al Partito comunista.
Ammonito nel 1933; arrestato nell’agosto 1935 per discorsi contrari alla
preparazione della guerra d’Abissinia
è confinato a Ventotene per 5 anni,
ridotti a 3 in appello. A fine pena
è riassegnato al confino per 3 anni
(Pisticci) perché dimostra di essere
“irriducibile avversario del regime”.
Nel 1940 è condannato a 6 mesi di
carcere (Matera) per contravvenzione agli obblighi confinari. Liberato
nel dicembre 1940, è richiamato alle
armi e costantemente vigilato fino
alla caduta del fascismo (da Quaderni
dell’Anppia n. 3 - Antifascisti nel
Casellario Politico Centrale, 1989)
25
Noi
Dal convegno bolognese dell’ANPPIA la vigilanza democratica
Una Poesia
La poesia di una bambina scritta
nell’ormai lontano 1979 è uscita
da un cassetto di ricordi della sua
allora insegnante di V Elementare
della Scuola “Vittorio Veneto” di
Roma. Insieme a temi di tutti i
bambini, a disegni ed anche a brevi fumetti partecipò ad un concorso sulla “Resistenza” indetto
dall’”Associazione
Nazionale
Partigiani”, “Sezione S. Lorenzo–
Tiburtino” vincendo il 1° Premio
– una targa dorata.
A noi è sembrata meritevole di
pubblicazione per due motivi:
il primo, quello di costituire un
esempio della capacità delle giovani generazioni di saper apprendere gli episodi del nostro passato, di saperli valutare e di trovare
in essi la “forza” e il “coraggio” di
“lottare” per vecchi e nuovi ideali; il secondo, il meritato compenso ad un formatore che ha saputo
svolgere con capacità, passione
ed onestà di intenti il proprio dovere. (M.T)
Contrastare la risorgenza dell’estremismo di destra
Uno stimolante confronto di idee dai contributi di Andrea Mammone, Nicola Tranfaglia, Guido Albertelli
Dal neofascismo post-bellico, alla strategia della tensione, agli attuali episodi di violenza nera una linea conseguente
Responsabilità del periodo berlusconiano
di Massimo Meliconi*
Partigiano
La vita non aveva prezzo
per loro,
appunto si sacrificavano,
appunto combattevano.
Ma nelle loro vene scorreva
sangue glorioso.
E combattevano ovunque,
sulle montagne, nei paesi,
nelle città, sulla neve,
ovunque splende ora
il bel sole d’Italia.
Nei loro cuori
Non regnava paura
Come nei nostri oggi,
ma amore, ma coraggio,
ma forza di lottare,
perché avevano un ideale:
fare la Patria libera.
Rosalba Dastoli
1972, classe Vc, Scuola “Vittorio
Veneto”, Roma (Insegnante
Loguercio Maria Anna)
14 settembre 2012. A Isernia, Molise, i neofascisti di Casa Pound sono stati contestati da sette attivisti antifascisti che hanno avuto l’ardire di cantare “Bella Ciao”.
Il tribunale ha ordinato una settimana di carcere. Si tratta della stessa Procura che aveva archiviato gli esposti sul movimento Fascismo e Libertà, ennesima
vergogna tutta italiana
L’ANPPIA di Bologna ha organizzato
il 21 di giugno scorso nella Cappella
Farnese di Palazzo d’Accursio, residenza del Comune, un convegno sulle
nuove destre europee, con particolare
riferimento ai temi del nazionalismo e
del populismo.
Gli interventi del prof. Andrea
Mammone, docente nella Kingston
University di Londra, del prof. Nicola
Tranfaglia professore emerito di
Storia dell’Europa e del Giornalismo
dell’Università di Torino, e del Presidente nazionale dell’Anppia Guido
Albertelli sono stati puntuali e precisi, e hanno alimentato un dibattito
partecipato ed interessante. Alcune
notizie più recenti, come la richiesta di
un consigliere Pdl di Gualtieri (Reggio
Emilia) di intitolare la scuola elementare della cittadina a Benito Mussolini
(il pretesto: lì aveva insegnato come
maestro elementare il futuro capo
del fascismo dal 1900 al 1904) e la
“punizione” somministrata a Viterbo
dal capo di Casa Pound in persona a un
“traditore”, reo di essere un collaboratore
del presidente Gianfranco Fini, riportano
l’attenzione sul tema del convegno. C’è un
problema di presenza della destra estrema,
(la seconda notizia), ma anche un problema
di memoria (la prima notizia). I due piani
sono evidentemente collegati fra loro: il revisionismo storico, ampiamente praticato
e largamente pubblicizzato negli anni del
governo Berlusconi, ha sicuramente aperto
una strada al nuovo estremismo di destra,
almeno dal punto di vista formale.
Come si ricordava al convegno, l’Italia
uscita dal dopoguerra (gli storici lì sostenevano che non è corretta la definizione
di prima o seconda repubblica, visto che la
Costituzione e le Istituzioni repubblicane
sono sempre quelle) ha avuto il più forte
partito neofascista dell’Europa occidentale, l’Msi di Giorgio Almirante. Questo partito è stato un modello per tutte le destre
europee, mentre in Italia era teoricamente
emarginato dalla vita politica e parlamentare (anche se sappiamo benissimo che veniva usato da altre forze per scopi tutt’altro
che trasparenti).
Berlusconi ha riunito tutte le destre
italiane e sdoganato l’allora ortodosso “camerata” Fini, (dichiarazioni del Cavaliere
il 23 novembre del 1993 a Casalecchio di
Reno), e questo è stato uno degli elementi
che gli ha permesso di governare per
11 degli ultimi 18 anni. Da allora, anche
mediaticamente, è caduto un tabù: si può
esplicitamente parlare in maniera positiva
(a volte cantarne le glorie) del fascismo, e il
dichiararsi fascisti non è più un problema.
Che poi nascano e crescano movimenti
come Casa Pound o Forza Nuova non può
destare molto meraviglia. Può darsi che
nell’Italia dei vecchi partiti che ora non ci
sono più ci fosse una certa dose di ipocrisia
sul Msi, che settori deviati dello Stato
proteggessero o addirittura alimentassero
i neofascisti (i sevizi segreti) con tutto
quello che ne è conseguito (quella che fu
definita la “strategia della tensione” e il suo
portato di orrende stragi come quella del
2 Agosto 1980 a Bologna), certo è che per
noi antifascisti oggi assistere alla aperta
rivalutazione del famigerato ventennio e di
tutte le sue conseguenti eredità politiche,
26
alla nascita di movimenti e associazioni
che si richiamano dichiaratamente e orgogliosamente a quel funesto passato è uno
schiaffo impossibile da assorbire.
La forma, come spesso capita, è diventata
sostanza. Quanto peso poi potranno avere
queste organizzazioni nell’immediato
futuro del nostro paese è difficile da dire;
siamo nel pieno di una terribile crisi economica mondiale, tutti gli economisti paragonano questo momento alla grande crisi
del 1929, che ebbe fra le sue conseguenze
politiche l’ascesa al potere in Germania del
nazismo e infine la guerra più devastante
che l’umanità abbia conosciuto, il secondo
conflitto mondiale.
Non si vogliono qui fare parallelismi
sciocchi e inconsistenti fra ora e allora, visto che noi siamo nel pieno della tempesta
economica e nessuno sa a tutt’oggi come
andrà a finire. Credo però che sia corretto
dire che bisogna comunque mantenere
alto il livello di vigilanza rispetto a questi
fenomeni.
In Europa, in recenti elezioni in vari stati, la destra più becera e razzista ha avuto
consensi ed è presente nei parlamenti nazionali. Ciò è accaduto in Olanda, Francia,
Grecia, per non parlare dell’Ungheria,
dove addirittura i nazionalisti magiari
sono al potere. Sono aspetti che gli studiosi
unanimemente giudicano attualmente
marginali nel grande scacchiere europeo
e, francamente, non ci si può che augurare
che sia così. Tuttavia, anche e soprattutto
in un contesto di gravissima crisi economica, il presidio democratico risulta fondamentale, in Italia come in Europa.
Se da un lato è sicuramente sbagliato
ingigantire questi fenomeni, è un imperdonabile errore minimizzare e sottovalutare.
In particolare nel nostro Paese, per troppo
tempo si è fatto scempio della memoria
storica, del percorso che ci ha portato alla
libertà repubblicana, dell’antifascismo,
della Resistenza e del documento che è
l’espressione principale della nostra democrazia, la Carta Costituzionale.
Qualche effetto, purtroppo, come abbiamo visto, c’e stato. Continuare a difendere
questi valori e contrastare la risorgenza di
forze neofasciste è e continuerà ad essere il
nostro compito.
*Presidente dell’ANPPIA di Bologna
Noi
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Noi
DA ROMA
Ciao Ego!
Il 16 settembre 2012 si è spento a Roma Ego Spartaco Meta, antifascista e
uomo politico nazionale nato a Pratola Peligna (AQ) il 27 giugno 1924. Secondogenito del sindacalista e dirigente anarchico Luigi (1883-1943, attivo per
quarant’anni nelle lotte anticapitaliste e rivoluzionarie in Italia, Francia e Stati
Uniti), a 13 anni è costretto a lasciare la scuola per mancanza di mezzi economici,
essendo la sua famiglia precipitata nell’indigenza a causa delle persecuzioni fasciste e del forzato esilio del padre (1937). Si arrangia prima come scrivano, poi come
contabile. Gli insegnamenti paterni e
l’ingiustizia subita da lui e dalla famiglia, angariata dai fascisti con pedante
continuità, lo spingono giovanissimo
ad abbracciare le idee di un ardente
antifascismo che non abbandonerà
mai.
In questi anni di dittatura, oscurantismo e barbarie trova nella figura di
Rocco Santacroce (antifascista della
prima ora, poi partigiano nelle squadre
del Partito d’Azione) un solido punto
di riferimento morale e politico. Nella
guerra di Resistenza e Liberazione
Ego è attivo patriota nelle formazioni
del Partito d’Azione, organizzazione
politica nella quale milita fino al suo
scioglimento (1947). Dal 1950 è nel
Ego Spartaco Meta per lunghi anni Presidente del
Psdi, dove arriva a far parte del Comi- nostro Collegio sindacale
tato centrale. Ventiduenne approda a
Roma, lavorando ed impegnandosi socialmente in un campo profughi. Faticosamente riprende gli studi interrotti, concludendoli con un diploma, ricostruendo
così anche la sua posizione sociale ed una sua vita personale. Si sposa ed ha due
figli.
La passione sociale ereditata dal padre e la dura scuola dell’antifascismo non
l’abbandonano e lo spingono all’impegno politico, che non gli consente di completare gli studi universitari (Economia e Commercio, poi Scienze Amministrative,
nella cui disciplina gli viene conferita una laurea honoris causa). Ha lavorato
nello Stato fino al 1976. Dal 1964 è distaccato dal ministero dell’Interno a quello
degli Esteri (con Saragat) e poi alla Marina Mercantile (per due volte), al Turismo e Spettacolo, all’Onu (due volte), ai Beni Culturali come Capo della segreteria
particolare del ministro Lupis. Commissario dell’Atac di Roma dal 1961, dal 1971
al 1981 è Consigliere comunale della Capitale e per due volte Assessore.
Membro di Accademie e di Commissioni giudicatrici (a volte come Presidente),
nonché delle Commissioni nazionali statali per le onoranze a Guglielmo Marconi
nel centenario della nascita e di quella per la revisione del trattamento economico e giuridico dei segretari comunali e provinciali. In questi anni ha sempre
avuto vivida la memoria del padre, di cui è stato orgoglioso testimone delle idee
e dell’insegnamento, e non ha mai abbandonato il suo volontario impegno sociale
in cooperative, enti morali ed associazioni al fianco dei più deboli e dei giovani.
Coerente e coraggioso avversario del neoliberismo e del pensiero unico oggi
imperante («sono nato sotto Mussolini e non voglio morire sotto Berlusconi!»,
ripeteva), ha vissuto con dolore e amarezza la “conversione” al capitalismo e la
sottomissione all’ideologia mercatista della “sinistra” parlamentare italiana. Non
ha mai smesso di partecipare alla vita di quelle organizzazioni (Anpi e Anppia)
che continuano a tenere accesi nella società italiana i valori etici e politici della
Resistenza e dell’impegno per la lotta all’ingiustizia sociale. Con spirito democratico, libertario e fieramente anticlericale ha anche seguito e sostenuto le
iniziative editoriali e le attività promosse dal Centro studi libertari “Camillo Di
Sciullo” (Chieti) e dal Centro studi e ricerche “Carlo Tresca” (Sulmona).
a cura del Centro studi libertario “Camillo Di Sciullo”
DA PISA
Il 5 settembre 1938 a San Rossore
la firma delle leggi razziali
«Un atto ignobile che vogliamo
ricordare» ha detto il Sindaco di Pisa.
Ricordare l’infamia come monito
per le generazioni future. Per questo a
Pisa ogni 5 settembre si commemorano
le vittime della persecuzione fascista
degli ebrei e di quei cittadini che fin dal
1922 combatterono il fascismo.
74 anni fa il sovrano Vittorio Emanuele III firmava nella sua residenza di
San Rossore i primi decreti razziali
che diedero il via anche in Italia alla
persecuzione degli ebrei da parte del
regime fascista. I provvedimenti antisemiti vietavano agli ebrei di lavorare
per gli enti pubblici, comprese scuole
e università ma anche banche e assicurazione, di fare i notai e i giornalisti. I
ragazzi dovevano andare in scuole separate. Tra i più fervidi sostenitori delle
leggi razziali il pisano Guido Buffarini
Guidi, già sottosegretario agli Interni
del governo fascista dal 1933 al 1943 e
poi ministro dell’Intero della repubblica sociale di Mussolini.
Anche quest’anno a San Rossore,
presso la lapide posta dove un tempo
sorgeva un edificio nelle cui stanze nel
1938 furono firmate le leggi razziali, si è
svolta la cerimonia di commemorazione
del drammatico avvenimento.
Alla rievocazione erano presenti
con le loro testimonianze il Direttore
della Scuola Normale Superiore Fabio
Beltram; Guido Cava presidente della
Comunità ebraica di Pisa; Massimo
Fornaciari dell’Aned; Sergio Castelli dell’Anppia; Giorgio Vecchiani
dell’Anpi e le autorità civili e militari
cittadine.
«Un tragico evento, un atto ignobile che
ogni anno vogliamo ricordare – ha detto
il Sindaco di Pisa Marco Filippeschi
–. Con la solennità istituita dal Comune
per rinnovare, il 5 settembre di ogni
anno, la memoria di quel giorno infausto
del 1938 in cui furono firmati, in San
Rossore, i regi decreti che promulgavano
la legislazione per la difesa della razza,
abbiamo inteso stabilire un momento
permanente per costruire una memoria
condivisa della nostra storia recente, per
dare ai giovani un messaggio importante
contro il razzismo e contro ogni forma di
discriminazione.
«Un tragico evento, un atto ignobile
che ogni anno vogliamo ricordare – ha
continuato il Sindaco – Ricordando sentiamo di poter dare un contributo alla memoria
di quello che questa firma ha comportato
arrivando fino alle estreme conseguenze del
genocidio e dell’Olocausto. Le leggi razziali
mettono in atto una discriminazione crudele
che arriva da una lontana storia e giunge
fino ai giorni nostri. Non dobbiamo infatti
distogliere l’attenzione dalle odierne forme
di razzismo e discriminazione. Sono passati
20 anni dall’inizio della guerra nella ex – Jugoslavia e dalle stragi che essa ha comportato e tutt’oggi ci sono situazioni che ci devono
preoccupare. Pisa, data la sua visibilità, ha
una missione da assolvere: quella di portare,
come sta facendo, la memoria degli eventi
affinché anche i più giovani possano imparare da quel ricordo.
Anche oggi, mantenendo l’impegno preso,
lo facciamo con un programma ancora più
ampio e articolato che è, insieme, di studio
– con il contributo di autorevoli studiosi – e
di riflessione culturale che vogliamo sia
patrimonio di tutta la comunità, affinché
prosperino i valori di libertà, democrazia e
tolleranza che stanno alla base della nostra
convivenza civile e che sono di grande attualità».
Sono poi seguite le testimonianze del
Direttore della Scuola Normale Superiore, che ha sottolineato l’importanza
del laboratorio antifascista creatosi nella
Scuola ad opera di alcuni suoi valenti
studenti ed il valore scientifico dei docenti
espulsi – insieme ai colleghi dell’Università pisana – in ragione delle leggi razziali,
elenco di seguito; della Comunità ebraica
che ha rievocato come la politica razziale
non sia stato un episodio occasionale, e le
sue rovine hanno travolto non i soli perseguitati, ma la vita intera del Paese; e dell’Aned che ha richiamato l’attenzione sulla
dignità della persona, decoro totalmente
oltraggiato nei campi di concentramento
nazi-fascisti.
Per parte sua l’Anppia ha ricordato
quanto sia oggi importante essere antifascisti in un paese dove razzismo e
omofobia rinnovano quotidianamente la
loro malvagità e dove il dissenso politico
non è ragione di confronto dialettico, bensì
di aggressione fisica. «Oggi siamo qui per
ricordare – ha detto Castelli – e per capire
la capacità di mobilitazione da parte di tutte
le istituzioni locali e da parte delle organizzazioni antifasciste a tutela dei valori scritti
nella Costituzione della Repubblica italiana.
È un ottimo sintomo di salute civica, di un
fronte compatto che è pronto a scendere in
campo perché non ci si abitui, non si alzino
le spalle, non si minimizzi e si normalizzino
gli sfregi ai simboli della Resistenza. Ovvero
Tre momenti della commemorazione di San Rossore
(Pisa). Nella foto qui sopra il direttore della Scuola
Normale, Fabio Beltram, assiste all’intervento del
nostro Sergio Castelli
la messa in discussione delle nostre radici
storiche, delle nostre identità territoriali. Di
questa sollevazione unitaria, non possiamo
che ringraziare sindaci, presidenti, rettori
di università, dirigenti scolastici, forze
armate, organi di stampa, singoli cittadini
che solennizzano con noi questa giornata
perché l’antifascismo non cada nell’oblio.
È, altresì, rilevante trasformare tutti quei
luoghi che furono di morte e sacrificio, in
luoghi di vita e di socializzazione, e nessuno
oserà più profanarli, perché saranno di tutti
e per sempre.»
È seguito l’intervento dell’Anpi, che
ha rammentato alcuni episodi antisemiti
consumati a Pisa dai fascisti.
I docenti espulsi dall’Università di
Pisa
I docenti di ruolo erano cinque, quattro ordinari e uno straordinario, tutti
arruolati in facoltà scientifiche: Enrico
Emilio Franco, ordinario di anatomia
patologica; Attilio Gentili, ordinario di
clinica ostetrico-ginecologica; Giulio Racah, straordinario di fisica teorica; Ciro
Ravenna, ordinario di chimica agraria
e preside della facoltà di agraria; Cesare
Sacerdoti, ordinario di patologia generale.
Ad essi si aggiungevano la libera docente
ed incaricata di entomologia agraria
28
Noi
Enrica Calabresi; il libero docente ed
incaricato di fisica tecnica Leonardo
Cassuto, l’aiuto Bruno Paggi (patologia
chirurgica), gli assistenti Giorgio Millul
(clinica chirurgica), Piero De Cori (chimica generale), Naftoli Emdin (medicina
legale), Aldo Lopez (clinica otorinolaringoiatrica), Renzo Toaff (clinica ostetricoginecologica) e i liberi docenti Aldo
Bolaffi (patologia speciale chirurgica),
Renzo Bolaffi (diritto civile), Salvatore
De Benedetti (patologia clinica oculistica), Roberto Funaro (clinica pediatrica),
Emanuele Hajon Mondolfo (patologia
speciale medica), Raffaello Menasci
(patologia speciale medica dimostrativa)
e il lettore Paul Oskar Kristeller (lingua
tedesca). una perdita complessiva di venti
unità, pari al 5,3% dell’intero corpo docente dell’Ateneo.
DA LIVORNO
“MAI SMETTERE DI RICORDARE”
Un progetto per i giovani che
copre tutte le date significative
dell’antifascismo
“Si può continuare a sperare anche quando il mondo sembra impazzito, quando leggi
ingiuste costringono a lasciare la scuola, gli
amici, la casa e cercare rifugio in un nascondiglio segreto. Si può continuare a sperare
perché si crede in se stessi, nella propria
forza e nella propria pazienza, nel legame
profondo che unisce la famiglia, perché si
trova conforto nei libri, nella musica, nelle
tradizioni del proprio popolo. Soprattutto,
si può continuare a sperare perché esistono
uomini e donne pronti a rischiare la vita per
salvare quella di altri uomini e altre donne”
(Dal libro di Erminia Dell’Oro “La casa segreta, la paura e il coraggio, la speranza di
tornare a vivere”, ed. Bruno Mondadori).
Chi ha vissuto personalmente le leggi
razziali del 1938 ha provato “la paura e il
coraggio, la speranza di tornare a vivere”;
chi ha combattuto il fascismo e ha fatto la
Resistenza si è battuto per i valori altissimi
della democrazia contro quelli aberranti
di nazismo e fascismo. Non ci si deve stancare di ricordarlo soprattutto ai giovani
non solamente attraverso i testi scolastici,
ma attraverso le testimonianze di chi ha
vissuto ed è sopravvissuto a quel nefasto
periodo: senza retorica, ma rendendo quei
valori vivi e attuali con un coinvolgimento
emotivo di chi racconta e di chi ascolta.
L’Anppia di Livorno ha commemorato
in questo modo “Il Giorno della Memoria”:
mercoledì 8 febbraio alla Multisala Grande, nell’ambito del Progetto Mai smettere
di ricordare (dalle leggi razziali alla fine
del fascismo), oltre 300 studenti delle
scuole medie cittadine hanno assistito al
film “Vento di primavera” di Rose Bosch,
una pellicola di memoria e per la memoria
che racconta un episodio poco noto della
storia del Novecento: il rastrellamento di
ebrei francesi deportati nel Velodrome
d’Hiver il 16 luglio del 1942, orchestrato
dal collaborazionismo del governo di Vichy
con Hitler. Il punto di vista che il film assume è quello di alcuni bambini che vivono
nel quartiere di Montmartre e, in particolare, quello del decenne Joseph. Dopo la
visione del film i ragazzi hanno incontrato
Dino Molho, protagonista del libro “La
casa segreta” e, con la mediazione del dottor Leonardo Moggi, regista e responsabile
del Progetto “Lanterne magiche”, sono
intervenuti rivolgendo domande sul film e
sulla storia di Dino ed Esther Molho che,
all’epoca delle persecuzioni razziali, erano
due ragazzini ebrei spensierati, allegri,
aperti al futuro e alle speranze della vita
fino a che il fascismo e le leggi razziali
tolsero loro ogni fondamentale diritto, anche quello della vita. Ed a giudicare dagli
applausi degli alunni a Dino Molho e dalla
partecipazione commossa al film, l’Anppia
è sempre più convinta che tali iniziative
siano quelle giuste per raggiungere la
sensibilità dei giovani.
Ma questa è stata solo la prima fase del
lavoro: gli studenti hanno proseguito in
classe la lettura del libro “La casa segreta”
e, con i loro insegnanti si sono preparati
per la giornata conclusiva che si è tenuta
nell’ambito delle manifestazioni del 25
aprile, anniversario della Liberazione.
Infatti, la mattina del 20 aprile, presso la
Multisala Grande, c’è stata la consegna
degli attestati di partecipazione alle classi,
alla presenza di Dino Molho e di Erminia
Dell’Oro, autrice del libro, e di altri testimoni dell’antifascismo quali Garibaldo
Benifei - fondatore dell’Anppia a livello
nazionale con Umberto Terracini e di cui
oggi è Presidente a Livorno e Presidente
Onorario nazionale - e Osmana Benetti
staffetta partigiana, militante antifascista,
oggi dirigente dell’Anppia. Si è trattato
di un incontro-dibattito tra i ragazzi e i
testimoni che si sono raccontati e hanno
risposto alle domande di alunni e docenti.
E poi il gran finale: la Banda di Corea è
entrata nella sala del cinema e, con i suoi
strumenti a fiato e percussioni, ha coinvolto i ragazzi e tutto il pubblico con emozioni
che solo la musica sa dare. Così, cantando
“Bella ciao” si è conclusa la manifestazione
29
Noi
dedicata ai giovani.
Nel pomeriggio, invece, l’evento è
stato dedicato alla cittadinanza tutta.
Così, alle 17,30 il pubblico livornese ha
affollato lo spazio dibattiti della Libreria Gaia Scienza per ascoltare la storia
di Dino Molho raccontata dallo stesso
protagonista e dall’autrice del libro “La
vita segreta”. È intervenuto Garibaldo
Benifei, il cui impegno politico di militante antifascista dal ’31 fino ad oggi
costituisce la testimonianza più significativa dei valori della democrazia, della
giustizia, della libertà che la celebrazione del 25 Aprile vuole affermare. Ed
infine ha preso la parola Paola Jarach
Bedarida, rappresentante della Comunità Ebraica che, riprendendo il tema
dell’incontro “Mai smettere di ricordare”, è andata oltre le nefandezze della
Shoah per analizzare i recenti episodi
di razzismo che ancora oggi dilagano in
Europa e in tutto il mondo.
Genny De Pas, Donatella Di Martino
DA PISA
Ha scritto la sua storia nel libro “Partigiana per amore” (Del Bucchia editore).
Nella ricorrenza del 25 aprile, il giorno
prima della scomparsa, era stata a
Sant’Anna di Stazzema per glorificare
le vittime dell’atrocità nazifascista, per
celebrare la Festa di Liberazione e per
testimoniare i valori della Resistenza,
un impegno svolto per tutta la vita con
grande dedizione e rispetto. Alla salma
esposta nella sede dell’Anpi di Viareggio, gli antifascisti toscani, per tutto il
giorno, hanno reso omaggio a Didala
“Partigiana per amore”, come spesso
amava definirsi.
Tutto inizia nel 1936 – racconta
Antonio Carollo –, lei, quindici anni,
una fanciulla in fiore dai lunghi capelli
ondulati, un viso dolce e intelligente,
studentessa alle “Medee”, figlia di un
marinaio imbarcato; lui, sedici anni, un
robusto ragazzo occhialuto, gioviale e
intraprendente, studente al Liceo Classico, figlio di un affermato avvocato.
Facevano i giri più strani per potersi
incontrare, all’uscita dalla scuola. Si
rifugiavano in casa dell’amica Nereide
Bertuccelli per stare insieme e fare
quattro salti, sempre in compagnia del-
le amiche di lei e del gruppo dei compagni
di scuola di lui, Sergio Breschi, Delfo Pivot,
Vezio e Valerio De Ambris, Ninì Ciuffreda,
Adelmo Del Frate, Athos Del Magro, Ario
Papi (saranno tutti partigiani). Non secondaria è la figura del professore di filosofia
Giuseppe De Freo, un antifascista che
nei bui anni Trenta parla ai suoi allievi di
libertà, democrazia e giustizia sociale durante le gite domenicali sulle Alpi Apuane.
La storia si snoda con il fidanzamento in
casa (“Se mi vuoi manda la tu’ mamma a
casa mia”), i dispetti e le azioni contro le
autorità fasciste, come la bastonatura al figlio del Duce e l’imbrattamento della targa
della Casa del Fascio; il servizio di leva di
Chittò a Napoli, il matrimonio in tempo di
guerra, il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito repubblichino dopo l’8 settembre,
la fuga in montagna dei due giovani sposi
con il loro figlioletto di pochi giorni in
braccio. E poi, la vita sui monti, i disagi di
una sposina con un bambino da allattare
e accudire dormendo sotto i castagni, la
formazione “Marcello Garosi”, gli altri
compagni Giancarlo Taddei, Gustavo Rontani, Lloyd e Antonio Calvano, Giovannino
Maffei, Ardito Biancalana, “Bori” Biancalana, Sauro Bartelloni, Emilio Jacomelli; le
Cordoglio degli antifascisti
toscani per la morte di Didala
Ghilarducci, «partigiana per
amore»
Aveva 90 anni. Era stata staffetta dei
partigiani della Brigata Garibaldi durante la Liberazione. I tedeschi le avevano ucciso il giovane marito. Il giorno
prima era a Sant’Anna di Stazzema per
le cerimonie del 25 Aprile.
Personalmente ho incontrato Didala
Ghilarducci per l’ultima volta nel
dicembre 2009, perché convocati dalla
Regione Toscana per sensibilizzare i
giovani contro tutte le mafie e parlare
loro dei valori dell’antifascismo, della
libertà e della pace. Nella circostanza
Didala lasciò una bella testimonianza,
ricordando la nostra storia e aiutandoci
a non dimenticare.
È morta il 26 aprile scorso, nella sua
abitazione a Viareggio. Novant’anni,
partigiana viareggina alla quale i tedeschi uccisero il marito Ciro Bertini,
detto “Chittò” nell’agosto del 1944. Ha
vissuto la Resistenza come staffetta
partigiana delle Brigate Garibaldi. Nel
settembre del 1943 lasciò la propria
casa col figlio Riccardo di pochi giorni
per seguire il marito impegnato nella
guerra partigiana sulle Alpi Apuane.
operazioni per assicurare i collegamenti e
le segnalazioni per i lanci di viveri e armi
da parte degli aerei alleati, le rappresaglie
tedesche, la cattura e l’evasione di Sergio
Breschi dal carcere di Pisa, le uccisioni,
l’umanità di un commissario repubblichino, Milano Giannecchini, che aiutò Didala
a sfuggire ad un rastrellamento. Didala
seguiva il suo uomo, senza paura, con dedizione, svolgendo compiti di comunicazione
con le altre formazioni partigiane. Poi,
improvvisa la tragedia: Chittò, Giancarlo
Taddei e Gustavo Rontani caddero in un
agguato teso dai tedeschi mentre erano in
perlustrazione. Erano disarmati per evitare eventuali rappresaglie contro i civili.
Rontani riuscì a fuggire. Chittò e Taddei
furono uccisi a freddo; i loro cadaveri
rimasero sul terreno per giorni. Ora, per la
Memoria mancherà una voce importante
soprattutto nelle scuole, dove Didala aveva
raccolto le sue ultime energie per le nuove
generazioni, perché ciò che è accaduto non
potesse ritornare.
Sergio Castelli
DA LIVORNO
Commemorato il 69° anniversario
della caduta del fascismo (25 luglio
1943)
Didala Ghilarducci col marito Ciro Bertini in una foto giovanile
A Livorno si sono svolte numerose manifestazioni.
In mattinata sono state deposte presso
il monumento simbolo dei Perseguitati
Politici Antifascisti situato in viale della
Libertà – Parco della Pinetina, due corone
di alloro, una dell’Anppia, l’altra del Comune di Livorno.
Erano presenti - oltre al presidente
dell’Anppia livornese Garibaldo Benifei
- il Prefetto ed il Questore di Livorno, rappresentanze delle Autorità Civili e Militari
e rappresentanti dell’Anpi e dell’Anei.
Alle 11,00, presso il palazzo della Questura omaggio alla lapide che ricorda il
sacrificio di otto Agenti del Corpo delle
Guardie di Pubblica Sicurezza trucidati
dai nazifascisti in fuga nel 1944.
Nel pomeriggio, presso la Sala riunioni della Circoscrizione 1 si è tenuta la
conferenza del prof. Nicola Tranfaglia
dell’Università di Torino, noto storico e
saggista, il cui tema è stato Il fascismo e la
sua parabola tra le due guerre mondiali.
L’illustre storico ha esaminato le condizioni che in Italia, Germania, Spagna
e Portogallo, hanno portato all’avvento
della dittatura fascista, indicando le con-
30
Noi
dizioni sociali, politiche, economiche che
in questi paesi hanno portato al potere
dittatori come Franco, Salazar, Mussolini
e Hitler. Ha quindi messo in rilievo come,
dopo la seconda guerra mondiale, sorsero
movimenti che si ispiravano ai modelli del
fascismo europeo in Asia e in Africa fino
a quelli nati in America Latina, citando gli
esempi di Peron in Argentina e di Vargas
in Brasile.
Tranfaglia ha concluso guardando alla
situazione italiana nell’attuale momento
storico dicendo che “Non è retorica parlare
oggi di possibili ritorni all’indietro, che sono
particolarmente facili quando, problemi
politici e legislativi essenziali, conflitti di
interessi, falsi bilanci non controllati, leggi
elettorali inaccettabili, non sono stati ancora
risolti e, da parte sua, il sistema delle comunicazioni non risponde ancora ai requisiti
che la Costituzione Democratica ha dettato
fino dal gennaio del 1948.”
Al termine della conferenza i componenti della Banda del Quartiere Circoscrizione 1 hanno eseguito canzoni popolari e
della resistenza.
DA VERONA
Un viaggio a Fossoli, Carpi e
Gattatico e due buone iniziative
d’estate
L’Anppia di Verona in collaborazione
con l’Anpi, l’Aned e l’Istituto veronese per
la storia della Resistenza e dell’età contemporanea ha organizzato domenica 15 aprile
2012 una escursione con visite guidate a
tre luoghi che ricordano pagine dolorose
del periodo 1943-1945 e che videro tanti
italiani pagare con la vita il desiderio di
riscatto nazionale.
Il giorno prima, sabato 14 aprile, per
introdurre le motivazioni della nostra gita,
lo storico Carlo Saletti aveva presentato
il libro di Costantino Di Sante Stranieri
indesiderabili. Il campo di Fossoli e i centri
raccolta profughi in Italia (1945-1970), edito
da ombre corte nel 2011.
Saletti e Di Sante ci hanno accompagnato anche nel viaggio verso questi luoghi
della Memoria intrattenendo il gruppo
dei cinquanta partecipanti con spiegando
gli avvenimenti che avevano condotto a
queste tragedie in modo da poter usufruire
appieno della visita.
La prima tappa è stata Fossoli dove
abbiamo percorso il perimetro del campo,
visitato le baracche, o meglio quel che ne
resta, e le guide ci hanno illustrato, all’interno della baracca ricostruita, quella che
con appropriata definizione è stata indicata come “la memoria stratificata del campo
di Fossoli”. Ci siamo quindi trasferiti a
Carpi per ammirare il suggestivo Museo
Monumento politico e razziale opera di
architetti italiani che avevano conosciuto
il dramma della deportazione.
Nel primo pomeriggio siamo arrivati a
Gattatico nella bassa pianura reggiana
dove nella casa in cui la famiglia Cervi
abitò dal 1934 è stato allestito il Museo che
ricorda la vita contadina di questo solido
nucleo familiare e il sacrificio dei sette
fratelli.
A nome delle nostre associazioni al campo di Fossoli e al Museo Cervi sono state
deposte due corone di fiori tricolori per
Una sala del Museo Cervi di Gattatico, visitato dai nostri associati di Verona (foto Massimo Dallaglio)
31
Lettere
onorare i tanti italiani caduti.
Sono stati poi realizzati due incontri
durante la stagione estiva.
A San Zeno di Montagna, presso Palazzo Ca’ Montagna, l’8 agosto ha avuto
luogo Cefalonia, Kalavrita. La Grecia
nel cuore. L’appuntamento organizzato
dalla Biblioteca Comunale di San Zeno
di Montagna ha visto la proiezione di
un dvd curato da Roberto Buttura
che ha montato le fotografie del viaggio
scattate da Valeria Brutti, Flavia
Cominelli e Laura Vigna. Marco e
Valeria Cazzavillan hanno parlato del
massacro di Kalavrita (una delle tante
Marzabotto greche) avvenuto il 13 dicembre 1943. Silvio Pozzani, autore di
Byron e la Grecia, ha illustrato la figura
del grande poeta inglese morto nel 1824
a Missolungi, e ha narrato l’eroismo dei
patrioti ellenici e dei volontari, accorsi
da tutta Europa, per difendere la libertà
della Grecia contro i turchi. L’incontro
è stato introdotto da Roberto Bonente
che ha ricordato l’eroico sacrificio di
migliaia di Italiani nell’isola di Cefalonia nel settembre 1943.
Il 29 settembre scorso, presso la sala
“Berto Perotti” dell’IVrR, ha avuto
luogo la presentazione del libro dal
titolo Prigionia e deportazione nel veronese 1943-1945 di Gracco Spaziani
e Paola Dalli Cani.
Sono intervenuti Gino Spiazzi, presidente della sezione veronese dell’Aned,
Tiziana Valpiana, vicepresidente
dell’Aned e gli autori del volume. Il
libro è stato presentato dal nostro da
Roberto Bonente.
23 settembre 1943-2012
il sacrilego oltraggio nella Piazza Nove Martiri Aquilani
Una decina di giorni fa mi ero recato
nella centralissima Piazza Nove
Martiri Aquilani. Per fare un po’ di
compagnia a quei nove giovani, d’età
compresa tra i 17 ed i 21 anni, trucidati
da un plotone di nazisti e fascisti il 23
settembre 1943 come “franchi tiratori”
alle Casermette dell’Aquila. I resti
dei martoriati corpi riesumati dalle
due fosse comuni scavate con le loro
stesse mani, fu possibile solamente a
metà giugno del 1944 con l’avvenuta
Liberazione della città. Alcuni giorni
dopo si tennero i solenni funerali e la
contestuale intitolazione dell’omonima
piazzetta in loro onore, nonché la
successiva erezione di un sacrario nel
cimitero monumentale dell’Aquila.
Ebbene. Il desolante scenario d’una
ingiustificabile incuria della più
rappresentativa coscienza civicomemoriale aquilana (la Piazza Nove
Martiri, appunto) coincideva con il
dolore di due pugni sferrati contro me
a tradimento dall’Amministrazione
comunale. Il primo dato allo
stomaco; l’altro sugli occhi. Una
corona rinsecchita appoggiata su
un muro sbriciolato dal terremoto
e una demenziale, graffitara scritta
rossastra, sfiguravano già di per sé i
nomi dei Nove Martiri scolpiti nelle
soprastanti tre targhe commemorative.
Il subitaneo strazio non finiva qui.
Guardandomi intorno non riconoscevo
più quella stessa piazzetta rimessa a
nuovo, tra il marzo e l’aprile del 2010,
dalle quattro incursioni corsare del
Popolo delle carriole. A quel tempo la
zona era “ancora rossa” (dalla e per la
vergogna posso ribadire ancor oggi),
nonostante fosse passato già un anno
dal sisma del 6 aprile. La rimozione dei
cumuli d’immondizia e delle macerie,
le ordinate cataste di mattoni, pietre e
coppi, le violette piantate nelle aiuole,
il reading di poesie tenuto il 25 aprile,
lasciavano ben sperare. Nulla di più
deludente. Ora, davanti a me, nella ex
“zona rossa”, quelle disordinate cataste
abbandonate a se stesse, sono state
saccheggiate dai turisti delle rovine e,
molto probabilmente, da costruttori
citazionisti; le aiole fanno più che
pena; l’azzittita fontana con la bella
scultura del D’Antino danneggiata
dal sisma, attorniata da rifiuti. In una
parola: un’imperante sporcizia fisica
I funerali dei 9 martiri aquilani
ed estetica. Di chi le responsabilità di
tanta sciatteria se non del Comune? Fosse
finito qui, il mio cahier des doleances!
Il peggio del peggio doveva ancora avvenire.
Puntualmente, purtroppo, il 23 aprile del
2012. Ieri, cioè. In cuor mio mi ero augurato
che in occasione delle celebrazioni ufficiali
previste per il 69 anniversario della strage,
la piazzetta fosse ritornata “bella, linda e
pinta”, così com’era stata a suo tempo ri/
consegnata alla città da Il Popolo delle
carriole. Fiducioso, intorno alle ore 11, mi
ero recato sul “luogo del delitto” con un
mazzetto di fiori viola Settembrini, detti
anche Astri (chiara metafora indirizzata
ai nomi dei Nove Martiri: Anteo, Pio,
Francesco, Fernando, Bernardino, Bruno,
Carmine, Sante, Giorgio). Non l’avessi mai
fatto! Questa volta una vera e propria botta
in testa mi era stata data da un ingombrante
furgone rosso con la vistosa scritta
giallognola “Paninoteca” parcheggiato
ad una trentina di centimetri dall’area
monumentale. Ostruendola, perciò, sia
visivamente che fisicamente. L’appassita
corona ricordata più sopra, si trovava
ora affissa nella sua parte posteriore alla
stregua di un carro funebre, occultante in
gran parte la scritta “La vera porchetta”.
Che ci faceva lì, quel sacrilego furgone?
Osservando l’oltraggiosa, incredibile
scena, la risposta mi veniva data da un
filo della corrente che dal mezzo arrivava
nel vicino locale “ ex Avana” (un pub?) a
suo tempo chiuso sine die dal terremoto.
Un faro sovrastante l’insegna, acceso in
pieno giorno forse sin dal 6 aprile del
2009, spiegava l’arcano: il furgone stava
succhiando energia elettrica per ricaricare
la cella frigorifero. Chi era stato l’autore di
cotanta infamia? Perché l’Amministrazione
civica ha consentito un vero e proprio
stupro memoriale, lasciando la piazzetta
alla mercé di sconsiderati? Perché non
aveva, invece, provveduto a ridare un
minimo di dignità urbana a quel luogo sacro
tanto amato dagli aquilani? Prima di fuggire
inorridito, ho segnalato telefonicamente
il tutto alla Polizia Municipale. Avrà
provveduto ad elevare almeno una
contravvenzione al parcheggiatore abusivo?
O peggio ancora: era stato forse autorizzato
da qualcuno a compiere quell’empietà?
Un’ultima riflessione. È diventata strana,
molto strana, la mia città sgretolata.
Architettonicamente sfigurata.
Completamente imbalsamata nei suoi
puntellamenti piranesiani. Socialmente
imbarbarita e smemorata. Istituzionalmente
imbelle ed inutilmente vendicativa verso i
suoi figli migliori. La riprova? Il prossimo
25 ottobre quattro concittadini (E.B., A.P.C.,
D.G.A. e M.S.) dovranno presentarsi davanti
al giudice per essersi inoltrati insieme ad
altre centinaia di aquilani, il 28 marzo 2010
(nonostante il ridicolo sequestro delle
carriole da parte della DIGOS), proprio
nella “zona rossa” della Piazza Nove Martiri
per rimuovere macerie e immondizia.
In base all’art. 650 del codice penale
rischiano l’arresto fino a tre mesi oltre il
pagamento di una sostanziosa ammenda.
Per un’altra settantina di concittadini de Il
Popolo delle Carriole (me compreso) sono
previsti a breve altri processi. Sul tragico
sfondo della realtà sino a qui descritta, la
municipalità aquilana sventola l’oppiacea
bandiera di “L’Aquila capitale europea
della cultura 2019”. Con quale faccia tosta
sta presentando la sua candidatura? Un
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suggerimento piccolo piccolo ai disamministratori della res publica. Se la
“retta via” della ri/nascita è stata, come lo
è, completamente smarrita, per trovarla e
ritrovarla, si prendano nuove, vitali energie
dalla lettura di una toccante poesia scritta
da Carmine Mancini, uno dei giovani
Martiri trucidati: “Oh, io vedo la mia
strada! / La nostra strada! /È lunga tanto,
tanto lunga e lontana, / ma anche breve se
essa conduce alla morte / E quanto sole vi
splende! / E poi tutto sorride laggiù…! / E io
ci credo, noi ci crediamo..! / Ed io ci vado,
ci vado correndo / con i miei compagni
di lotta, / con tutto il bagaglio di chimere,
/ di sogni e di ideali. / Ci vado, sicuro di
non restar solo / con la mia speranza”.
Carissimo Carmine, carissimi altri otto
sventurati compagni della protoresistenza
italiana. Continuate a riposare tranquilli:
gli aquilani più sensibili (ce ne sono ancora
tanti, nonostante la persistente diaspora)
continueranno ad esservi più che vicini.
Antonio Gasbarrini (L’Aquila)
Sulle orme di Ugo
Muccini
“Coltivare la memoria di quanto è accaduto
affinché non si ripeta”. A questo fine sono
sorti negli ultimi anni i numerosi centri
museali (nella sola zona della Battaglia
dell’Ebro, 5 Centri di interpretazione e 15
spazi storici), emanazione del progetto
“memorial democràtic” sulla Guerra civile
spagnola (1936 – 1939) promosso dalla
Comunità Autonoma della Catalogna,
regione duramente colpita durante
l’avanzata franchista e nella repressione
seguente. Quando scorrono le immagini
dell’Istituto Luce nel “Centro 115 dias”
di Corbera d’Ebre che abbiamo visitato
(i bombardamenti, le strette di mano
tra Franco e Mussolini, i “volontari” del
Littorio inviati a combattere la Repubblica
democratica spagnola), è difficile non
provare un remoto senso di responsabilità
vergognosa. La consapevolezza greve
che i materiali forniti dalle nostre
industrie belliche, esposti oggi nelle
mensole, hanno contribuito al successo
del colpo di stato militare sostenuto da
monarchici, latifondisti e chiesa cattolica,
per soffocare la giovane democrazia
spagnola, è solo in parte mitigata dall’aiuto
apportato dai nostri antifascisti.
Anche a questo è servito il viaggio intrapreso
dall’ANPI Sarzana “sulle orme di Ugo
Muccini”, per spargere un pugno di terra
della natia Arcola nel bosco della Sierra
Cavalls (Valle dell’Ebro) e avere in cambio
Lettere
maggiori conoscenze su un episodio cruciale
del Novecento, poco ricordato rispetto alla
sua rilevanza. Ci ha supportato in questo
pellegrinaggio storico il gentilissimo sindaco
di Corbera d’Ebre, Sebastian, avvertito a
sorpresa via telefono della nostra presenza
(sabato, tra l’altro), quindi impossibilitato
a riceverci in maniera ufficiale, senza
pasticcini e gagliardetti, ma fermo nel volerci
incontrare, puntualissimo davanti alla porta
del municipio, che ha aperto invitandoci a
entrare. Interloquendo col nostro presidente
Piero Guelfi, sopra la bandiera della
brigata (Divisione Garibaldi “U. Muccini”,
appunto) spiegata sul tavolo, il sindaco ha
reso omaggio al sacrificio dei volontari
internazionali come Ugo Muccini (morto a
28 anni su queste montagne), dimostrando
di conoscere e apprezzare la differenza che
passava tra il Governo del Regno d’Italia e
certi italiani. Ma quanto possono redimerci
collettivamente gli esempi rappresentati da
chi, come Muccini, ha sentito la necessità di
prestare soccorso alla Spagna democratica
e repubblicana sotto l’attacco dei fascismi
europei? Possono redimerci nella misura
in cui noi stessi siamo capaci, nel nostro
tempo, di compiere scelte scomode e
portarle innanzi senza i tentennamenti
dovuti agli interessi personali, con
spirito di servizio per le cause comuni,
coltivando la propria coscienza critica.
Altro incontro emozionante il giorno
seguente, alle pendici della Sierra Cavalls,
con l’anziano signore basco al quale
abbiamo spiegato il motivo della nostra
visita e che, rivolto a Piero, per la prima
volta in questi luoghi a 85 anni, ha detto:
“Anche se in ritardo, molte grazie!”.
Molto spesso sentiamo dire che l’idea
dell’Europa contemporanea è nata dalla
guerra di Liberazione dal nazifascismo;
ebbene, questa guerra di Liberazione è
nata in Spagna nel 1936 e, nonostante abbia
provvisoriamente fallito, ha posto le basi
per la vittoria del 1945, una volta fatto
tesoro, come ci ricordano i partigiani, del
valore dell’unità, disatteso in terra iberica.
Il legato di tale vittoria, scritto a chiare
lettere nella Costituzione della Repubblica
Italiana, può essere garantito solamente
rifondando l’Europa (e non solo) sui valori
della solidarietà umana e sulla volontà di
costruire un mondo giusto, non su dottrine
economiche che portano gli interessi dei
popoli europei a divergere e politiche
nazionali volte all’abuso neocoloniale di
rendite di posizione sempre più esigue;
quest’ultima via, lo abbiamo già visto, porta
alla guerra. Ma questo viaggio in terra di
Spagna, il cui Ventennio è durato il doppio
del nostro, ci impone una riflessione anche
sul camaleontismo fascista. Quali sono le
parole d’ordine, gli atteggiamenti, i canali
di diffusione della cultura fascista? Quali
gli attuali centri decisionali sostenuti
dagli stessi poteri che, mutatis mutandis,
90 anni fa si tutelarono attraverso le
politiche fasciste? Dove si nasconde il
pericolo fascista internazionale, oggi?
Sotto un fez? No. Dietro un manganello?
Non solo. Soprattutto si nasconde
nelle politiche orientate al razzismo,
all’individualismo, allo smantellamento
dei diritti nati dal sistema dello “Stato
sociale europeo”, alla gestione immorale
della res publica, all’inaridimento
degli spazi di espressione democratica,
alla costrizione del libero arbitrio,
all’imbarbarimento culturale. Il
compito di individuarlo e combatterlo
è, qui, ora, e sempre, di tutte le persone
antifasciste. Prima che la storia si ripeta.
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Antonella Amendola
REDAZIONE:
Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma
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HANNO COLLABORATO A
QUESTO NUMERO:
Guido Albertelli, Antonella Amendola,
Diego Bigi, Paolo Brogi, Ferdinando
Imposimato, Anna Magnanini, Massimo
Meliconi, Enrico Modigliani, Maurizio
Orrù, Giovanni Russo, Mario Tempesta
TIPOGRAFIA
Cierre Grafica srl
Roma - Via del Mandrione 103A
PROGETTO GRAFICO
Marco Egizi www.3industries.org
Prezzo a copia: 2 euro
Abbonamento annuo: 15,00 euro
Sostenitore: da 20,00 euro
Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista”
Chiuso in redazione il: 17 Ottobre 2012
finito di stampare il: 25 Ottobre 2012
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
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