l’antifascista periodico degli antifascisti di ieri e di oggi Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LIX - n° 6,7,8,9 Giugno-Luglio-Agosto-Settembre 2012 L’editoriale Giorni terribili sono arrivati di Guido Albertelli Giorni terribili sono arrivati. Un’intera regione, il Lazio, travolta non solo da una non politica, ma da comportamenti inimmaginabili dei suoi componenti. I ladri all’ombra dell’Istituzione si dividevano a loro piacimento risorse dei cittadini per un uso rozzo, volgare e personale. Viene giù anche la Regione Lombardia col suo presidente. Un cattolico, timorato di Dio, appartenente a un movimento che pone la solidarietà, il rispetto e la fede come obiettivo di vita, vive quella personale usufruendo del lusso messogli a disposizione da amici che fanno affari con la Regione. Non se ne pente, anzi ne è fiero e vuole continuare a sedere sul seggio, dimostrando all’opinione pubblica che non c’è limite alla spudoratezza e alla mancanza di sensibilità, finché viene travolto perché si scopre che la ‘ndrangheta si era infiltrata nel Consiglio regionale. Questi sono gli esempi che diamo a un Paese impoverito e disamorato. Il fango sale e la gente si accorge che ha già i piedi bagnati. È una vita che l’Anppia conduce la sua battaglia, tesa a riportare i valori morali al livello di una volta, ricordando esempi di vita di politici antifascisti che si batterono fino alla morte restando poveri e disinteressati. Questo mondo passato resta un punto di riferimento per tutte le persone anziane che hanno vissuto il dopoguerra, ricostruendo un futuro per i figli, mangiando sul lavoro pane e cicoria e avendo un solo vestito buono lungo la loro esistenza. Cosa penseranno ora, sul declino della loro vita, guardando quest’Italia irriconoscibile e amorale? Potranno raccontare ai nipoti il tempo migliore che fu, ma i nipoti non vogliono ascoltare perché sono presi dal mondo dei cellulari e degli ipad. E allora subentra la tristezza e la malinconia che porta Quando la mafia mi condannò a morte Il giudice Imposimato ricostruisce per noi la stagione delle stragi e il rapporto criminalità-servizi deviati di Ferdinando Imposimato N on c’è mai stata soluzione di continuità tra la strage di Piazza Fontana e tutte le altre che hanno insanguinato l’Italia fino al 1993. Le stragi sono state strumento di lotta politica, per stabilizzare il potere esistente o per consentire alle forze conservatrici di conquistarlo nel momento in cui le forze democratiche stavano operando il cambiamento. Le prove di questa drammatica verità sono emerse in molte inchieste. Ma i giornali e la Tv non ne parlano, se non in modo superficiale e deviante. Non si vuole che gli italiani sappiano la verità. La trattativa e le stragi Molti anni fa, eravamo nel 1992, una giornalista americana, Judith Harris, del Reader’s digest, mi chiese quale fosse la differenza tra Br e mafia. Senza pensarci due volte risposi: «Le Br sono contro lo Stato, la mafia è con lo Stato. E spiegai che la capacità della mafia è di intessere legami stretti con istituzioni, politica, magistratura, servizi segreti, a tutti i livelli. Con le buone o le cattive maniere. Chi resiste, come Boris Giuliano, Dalla Chiesa, Falcone e segue a pagina 2 Ferdinando Imposimato I luoghi della storia Porta Lame a Bologna di Mario Tempesta Attualità Imposimato a pagina 2 Cultura Nivola Nella cultura popolare il nome di questa città viene spesso indicato con alcuni aggettivi che la contraddistinguono: turrita, dotta, grassa, rossa. Turrita per le numerosi torri che caratterizzano la città medievale, dotta per l’Università più antica d’Europa, grassa per l’opulenza della sua cucina tradizionale, rossa per il colore dei muri e dei tetti delle sue abitazioni ma anche per la sofferta lotta antifascista, per la quale è stata decorata di medaglia d’oro il 24 novembre 1946 dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. segue a pagina 14 a pagina 8 Memorie Russo a pagina 18 Noi Nuove destre a pagina 21 Congresso Nazionale ANPPIA Lettere Il XVII Congresso nazionale si terrà a Roma presso l’Hotel S. Bernardo nei giorni 9, 10 e 11 novembre 2012 9 martiri Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma a pagina 21 2 Attualità L’editoriale all’indifferenza. Ma ce ne sono molti che non si arrendono e hanno trasmesso ai figli la visione dei confini ideali della vita. I confini etici che non possono essere superati perché sono sopra di tutti e validi per sempre. Il ladro non li vede, ma il mondo delle ombre di chi ha costruito nobilmente il Paese che è sotto di loro, sì, li vede e ha memoria. Gli antifascisti devono essere i primi, in questo momento di disfatta morale, a cambiare comportamenti. Accantoniamo, per momenti migliori, le fasce nere al braccio che virtualmente portiamo a ricordo dei caduti nelle ricorrenze, facciamo riposare gli stendardi che esponiamo nelle manifestazioni repubblicane, smettiamo di scambiarci i ricordi delle imprese dei nostri padri, ma chiamiamoci a raccolta per la difesa della Repubblica. Andiamo nelle piazze con le nostre bandiere per vivere una rivoluzione senza violenza insieme a centinaia di migliaia di cittadini che non intendono essere spettatori di un degrado che non hanno provocato e vogliono un’immediata azione della parte di classe politica che forse è stata troppo alla finestra, ma non è direttamente responsabile. Oggi il cielo è nuvolo e ingrugnito. Si aspettano temporali e sono quelli che fanno paura perché arrivano improvvisamente e scuotono le coscienze, distruggono le incertezze, armano i pavidi e gli indecisi, danno corpo alla rabbia di chi ha ragione, di chi è povero per colpa di altri, di chi non ha lavoro, di chi non crede più alle fole della politica di casta. In un’atmosfera così sono nati il biennio rosso, il fascismo armato, l’antifascismo senza armi durate il ventennio, la guerra civile, la Resistenza, piazzale Loreto e la libertà tradita. Guardiamo indietro e impariamo, così non saremo travolti in avventure pericolose. Siamo vigili e coraggiosi a un tempo, ma impegnamoci nella lotta senza criticare da lontano. Guardiamo a uomini che sono ancora sopra le parti e che possono con la loro autorevolezza guidarci senza ambizioni verso la conferma della democrazia pulita e di elezioni veramente libere. Borsellino, viene eliminato, senza pietà. Collante tra mafia e Stato è stata sempre la massoneria o qualche altra entità multicentrica, come Gladio o Staybehind. Questo sistema di legami, che La tessera da repubblichino di Licio Gelli risale alla strage di Portella della Ginestra, non si è mai di Licio Gelli. Questi già allora era interrotto nel corso degli anni, ma, legato a Totò Riina, il capo di Cosa anzi, si è rafforzato ed è diventato più nostra, e si recava in Sicilia per sofisticato. Tuttavia molti hanno fatto avere rapporti con esponenti della finta che non esistesse. Complice la mafia. Furono diversi i mafiosi a stampa manovrata da potenti lobbies rivelare questo collegamento tra Gelli e Riina. economiche. I servizi segreti di quel tempo Da qualche anno è affiorato, nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992 e non persero tempo: strinsero patti del 1993, il tema della possibile tratta- scellerati con Pippo Calò, il minitiva avviata da Cosa nostra tra lo Stato stro delle finanze di Riina, e con la e la mafia dopo la strage di Capaci, per banda della Magliana, sulla quale, indurre lo Stato ad accettare le richie- senza rendermene conto, fin dal ste mafiose. Il rifiuto della trattativa 1975, avevo cominciato a indagare, sarebbe stato il movente dell’uccisione assieme al Pm Vittorio Occorsio. di Paolo Borsellino. Non ho dubbi che Con lui trattavo alcuni processi le cose siano andate proprio in questo per sequestri di persona, tra cui modo, almeno in parte. Ma è anche quelli di Amedeo Ortolani, figlio di vero che Borsellino stava scoprendo i Umberto, uno dei capi della P2, di nessi tra mafia, potere politico e isti- Gianni Bulgari e di Angelina Ziaco; tuzioni. E venne ucciso non per la sequestri che vedevano coinvolti trattativa, ma perché non doveva esponenti della Magliana, della scoprire una verità drammatica e Loggia Propaganda 2 e del terrorisconvolgente, che riguardava pezzi smo nero. Tra gli affiliati alla loggia di Gelli era un noto avvocato penainsospettabili delle istituzioni. Per capire quello che si è verificato lista, riciclatore del denaro dei agli inizi degli anni ‘90 occorre rivol- sequestri, che poi venne stranamente assolto, dopo che Occorsio gere uno sguardo verso il passato. aveva dato parere contrario alla sua Tutto comincia con l’assassinio scarcerazione. di Moro Di quella banda facevano parte Partendo dall’assassinio di Aldo uomini della Magliana, legati alla Moro e da ciò che lo precedette e lo mafia e ai servizi segreti. Occorseguì. Con la riforma del 1977, che isti- sio, che aveva scoperto l’intreccio tuì il Sismi, il servizio segreto militare, tra la strage di Piazza Fontana, e il Sisde, servizio segreto democra- l’eversione nera, la massoneria tico, i primi atti del presidente del e pezzi dello Stato, venne assasConsiglio Giulio Andreotti e del mini- sinato l’11 luglio 1976. Egli aveva stro dell’Interno Francesco Cossiga sentito due giorni prima Licio Gelli, furono la cacciata di funzionari seri su cui stava indagando. Per l’attene coraggiosi, come i prefetti Emilio tato vennero condannati Pier Luigi Santillo e Gaetano Napoletano, e la Concutelli e Gianfranco Ferro. nomina, ai vertici dei servizi segreti e L’aspetto singolare di questa storia, degli organi di sicurezza, di ufficiali ma non il solo, fu la scoperta che nelle mani di persone che Moro definì Concutelli risultava iscritto alla come estranee all’amministrazione: loggia Camea di Palermo. Giovanni Giuseppe Santovito e Giulio Gras- Falcone, nel corso di una perquisisini, due generali affiliati alla Loggia zione, trovò la sua carta di identità. 3 Attualità Di quella Loggia facevano parte potenti uomini di Cosa nostra, uomini dei servizi segreti e terroristi come Concutelli. Allora Falcone cominciò a morire; era il 1981. Io condannato a morte La mia condanna a morte fu pronunciata, probabilmente dalla stessa associazione massonica che controllava i servizi segreti, subito dopo che fui incaricato di istruire il caso Moro, in cui apparvero uomini della mafia, guidati da Pippo Calò, braccio destro di Riina, i capi dei servizi manovrati dalla banda della Magliana e politici amici di Gelli. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini fu il mafioso Antonio Mancini; costui disse che verso la fine del 1979 o i primi del 1980, avendo fruito di una licenza dalla Casa di lavoro di Soriano del Cimino, non era rientrato nella Casa di lavoro; in occasione di un incontro conviviale in un ristorante di Trastevere, l’Antica Pesa o Checco il carrettiere, al quale aveva partecipato assieme a Danilo Abbruciati, a Edoardo Toscano, ai fratelli Pellegrinetti, a Maurizio Andreucci e a Claudio Vannicola, mentre si discuteva del controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefacenti, si parlò «di un attentato alla vita del giudice Ferdinando Imposimato». «Dal discorso si capiva che non si trattava di un’idea estemporanea: era evidente che erano stati effettuati dei pedinamenti nei confronti del magistrato e della moglie; che erano stati verificati i luoghi nei quali l’attentato non avrebbe potuto essere eseguito con Il ritrovamento del corpo di Moro ucciso dalle BR successo; si era stabilito che comunque non si trattava di un obiettivo impossibile, per carenze della sua difesa nella fase degli spostamenti in auto: il luogo dove l’attentato poteva essere realizzato era in prossimità del carcere di Rebibbia, dove la strada di accesso all’istituto si restringeva e non vi erano presidi militari di alcun genere» «Quando sentimmo il discorso che si fece a tavola, io e Toscano pensammo che l’attentato dovesse essere una sorta di vendetta per l’impegno profuso dal magistrato nei processi per sequestri di persona da lui istruiti e che avevano visto coinvolti i commensali, i quali parlavano del giudice Imposimato definendolo “quel cornuto che ci ha portato al processo”». «Successivamente», chiarì Antonio Mancini, parlando dell’attentato ai danni del giudice Imposimato, «Danilo Abbruciati mi spiegò che, al di là delle ragioni Franco Imposimato, fratello di Ferdinando, coi figli piccoli Giuseppe e Filiberto personali che pure aveva, aveva ricevuto una richiesta in tal senso “da personaggi legati alla massoneria”, dei quali il giudice Imposimato aveva toccato gli interessi» (dichiarazione di Antonio Mancini; ordinanza di rinvio a giudizio numero 1154/87A GI del 13 agosto 1994 contro Abatino Maurizio più 230). Due misteriosi agenti segreti In seguito, durante il processo contro Giulio Andreotti per l’omicidio di Mino Pecorelli, il procuratore della Repubblica di Perugia accertò che alla riunione, nel corso della quale si parlò dell’attentato a me, avevano partecipato due uomini dei servizi segreti militari italiani di cui Mancini fece i nomi: essi furono incriminati e rinviati a giudizio per favoreggiamento. Ma poi furono assolti. Sennonché i due funzionari dei servizi mi avvicinarono dicendomi che «loro due non c’entravano niente con quella riunione» e che evidentemente «c’era stato uno scambio di persone da parte di Mancini», altri due uomini del servizio erano coloro che avevano preso parte a quell’incontro in cui venne annunciata la mia condanna a morte. Ovviamente non fui in grado di stabilire chi fossero i due agenti dei servizi che avevano partecipato alla riunione in cui si decise di farmi fuori. Restava il fatto che c’era stato un summit tra agenti segreti e mafiosi per decidere di eliminare, per ordine della massoneria, un giudice 4 che istruiva due processi scottanti: quello sulla banda della Magliana e il processo per la strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Né io potevo occuparmi di una vicenda che mi riguardava in prima persona come obiettivo da colpire. Ma nessuno, tranne Falcone, che seppe da Giuffrè del progetto di assassinio di mio fratello, si preoccupò di stabilire chi dei servizi avesse partecipato al summit in cui era stata annunciata l’imminente esecuzione dell’assassinio del giudice che in quel momento si stava occupando del caso Moro. Processo in cui, 30 anni dopo, venne alla luce il ruolo della massoneria, della mafia e della politica, che erano state determinanti nell’uccisione di Moro: infatti presero parte alla turpe operazione del Lago della Duchessa, in cui un falso comunicato delle Brigate Rosse, il n. 7, preparato da un uomo della Magliana, annunciava la esecuzione, mediante suicidio, di Aldo Moro. Di quest’operazione, secondo il racconto di uno dei congiurati, Steve Piecznick, si resero complici il ministro dell’Interno pro tempore e alcuni componenti del Comitato di crisi istituito presso il Viminale. L’uccisione di mio fratello In quel periodo, io mi occupavo non solo di sequestri di persona, ma anche del falso sequestro di Michele Sindona, anche lui uomo della P2, e dell’assassinio di Vittorio Bachelet, del giudice Girolamo Tartaglione, del giudice Riccardo Palma e, naturalmente, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta; e avrei accertato, dopo anni, che della gestione del sequestro Moro si erano occupati, nei 55 giorni della prigionia, i vertici dei servizi segreti che erano affiliati alla P2 e legati alla banda della Magliana. Ma tutto questo io all’epoca non lo sapevo: la scoperta delle liste di Licio Gelli avvenne nella primavera del 1981. Ciò che è certo è che il capo del Sismi, generale Giuseppe Santovito, affiliato alla loggia P2, era nelle mani di uomini della Magliana, articolazione della mafia a Roma. E dunque il racconto di Mancini era vero in tutto e per tutto. Qualcuno voleva evitare che la mia istruttoria su Moro e quella sulla banda della Magliana mi portassero a scoprire il complotto politico-massonico che, con la strumentalizzazione I giudici Falcone e Borsellino di sanguinari e ottusi brigatisti, aveva decretato l’uccisione di Aldo Moro per fini che nulla avevano a che vedere con la linea della fermezza. Il disegno di costringermi a lasciare il processo sulla Magliana e quello sulla strage di via Fani riuscì, ma non secondo il piano dei congiurati. La mia uccisione non ebbe luogo per le precauzioni che riuscii a mettere in atto, ma nel 1983, nel pieno delle indagini su Moro, mio fratello Franco venne ucciso da uomini della mafia manovrati da Pippo Calò, legato a Gelli: quegli stessi che avevano ordito la vergognosa messinscena del 18 aprile 1978, ossia che il corpo di Moro era nel Lago della Duchessa. Quell’operazione venne esattamente percepita da Moro, che nella prigione di via Montalcini, venne informato dai suoi biechi e barbari carcerieri. Egli, nel suo memoriale, ricordando gli ignobili articoli che avevano avallato come vera quella operazione del potere assassino, scrisse: «La stessa macabra grande edizione sulla mia esecuzione può rientrare in una logica, della quale forse non è necessario dare ulteriori indicazioni» (pagina 154 memoriale trovato in via Montenevoso). 5 Attualità Attualità I servizi segreti militari (Sismi), che si erano serviti del mafioso Antonio Chichiarelli per preparare il falso comunicato n. 7, erano tutt’uno con la mafia della quale si servivano per compiere operazioni sporche di ogni genere, compresa quella del Lago della Duchessa, che provocò una reazione violenta delle Br contro Aldo Moro, divenuto «pericoloso». Mafia, massoneria e stragismo Sennonché, a distanza di 33 anni dal processo Moro, ho avuto la possibilità di scoprire quali fossero le ragioni del progetto criminale. Progetto che aveva visto impegnata quell’agenzia criminale, la banda della Magliana, che agiva in proprio, ma anche per eseguire gli assassini per conto dei servizi segreti, e cioè per conto dello Stato: impedirmi di conoscere il complotto contro Moro. Era non una trattativa tra Stato e mafia, ma l’esecuzione di omicidi in forza di un vero e proprio accordo tra servizi, mafia e massoneria che, con la benedizione dei politici, aveva sancito, prima, l’eliminazione di Moro, poi, la mia esecuzione e poi la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mia esecuzione prevista per il 1979 e poi differita al 1980, 1981 e 1982, fallì. Il risultato fu che io dovetti abbandonare tutte le inchieste sulla mafia e sui legami tra mafia, massoneria e stragismo. Durante le indagini che io conducevo a Roma per il falso sequestro Sindona, Falcone a Palermo per associazione mafiosa, e Turone e Colombo a Milano per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, venne fuori a Castiglion Fibocchi, nella villa di Gelli, l’elenco degli iscritti alla P2. Enorme fu la sorpresa degli inquirenti: esso comprendeva i capi dei servizi segreti italiani e del Cesis, l’organismo che coordinava i servizi, e di quelli che facevano parte del Comitato di crisi del Viminale, che era stato istituito da Francesco Cossiga con l’avallo di Giulio Andreotti. Dopo la scoperta venne decisa, dal ministro Virginio Rognoni, l’epurazione degli uomini di Gelli dai servizi e dal ministero dell’Interno; ma di fatto non fu così. La Loggia del venerabile maestro mantenne il controllo sui servizi segreti, come ebbe modo di accertare la Commissione parlamentare sulla P2; e le deviazioni continuarono con la complicità di vari governi che si susseguirono. L’agenda rossa di Borsellino Oggi è riesplosa sulla stampa, per pochi giorni, la storia legata alla morte di Paolo Borsellino, subito silenziata dai mass media. La magistratura di Caltanissetta ha riaperto un vecchio processo che collega la tragica morte di Paolo Borsellino e della sua scorta a moventi inconfessabili, legati a menti raffinate delle stesse istituzioni. L’ipotesi investigativa prospetta la possibilità che Borsellino sia rimasto schiacciato nell’ingranaggio micidiale messo in moto da Cosa Nostra e da una parte dello Stato in sintonia con la mafia, allo scopo di trattare la fine della violenta stagione stragista in cambio di concessioni ai mafiosi responsabili di crimini nefandi, tra cui la strage di Capaci e le altre stragi del 1992. Si tratta di un’autentica vergogna, un’offesa a Giovanni Falcone e ai cinque poliziotti coraggiosi morti per proteggerlo. Salvatore Borsellino dice, e io ne sono certo, che le prove di questa ricostruzione erano nell’agenda rossa sparita di Paolo Borsellino. Paolo, informato di questa infame proposta, probabilmente ha reagito con sdegno e rabbia: egli sapeva che lo Stato voleva scendere a patti con gli assassini di eroici combattenti. Di qui la decisione di accelerare la sua fine. Ricordo che in quel tragico luglio del 1992, poco prima della strage di via D’Amelio, ero alla Camera dei deputati dove le forze contigue alla mafia erano ancora prevalenti e rifiutavano di approvare la legge voluta da Falcone, da me e da molti altri magistrati antimafia, ma anche dal ministro Vincenzo Scotti e dal ministro Claudio Martelli: l’approvazione della legge sui pentiti e dell’articolo 41 bis sull’isolamento rigoroso dei mafiosi in carcere per evitare che questi continuassero a dettare legge dall’interno del carcere, ordinando omicidi e stragi. Quella legge, nonostante la morte di Falcone, non aveva la maggioranza. Fu necessaria la morte di Borsellino per il varo di quella legge che oggi si vorrebbe abrogare. Io ne fui testimone diretto e rimasi sbalordito del livello di penetrazione della mafia nel Parlamento italiano. Oggi i magistrati di Palermo hanno ripreso il lavoro di Falcone e Borsellino, ma sono stati isolati e vilipesi. Noi siamo con loro, poiché sappiamo che senza verità questo paese non si rifonda. E non si salva. STATO LAICO O CONFESSIONALE? La difesa delle libertà nelle istituzioni pubbliche Dal testamento biologico, alla fecondazione assistita, dalla legge 194 all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche: tutti temi sui quali trovare una piattaforma d’incontro scevra da ogni posizione radicale e inutili fondamentalismi e rispettosa dei diritti di ogni cittadino di Enrico Modigliani S ono tanti i temi per i quali è urgente battersi per la difesa della laicità nelle pubbliche istituzioni. Prima di elencarli ed esaminarli occorre sottolineare che la difesa della laicità non implica una lotta contro la religione, il rispetto della quale è un diritto di ogni cittadino (come è diritto dei cittadini atei quello di non credere). Ma il godimento di questi diritti non deve essere strumentalizzato da fondamentalismi o, peggio, dall’uso del potere finalizzato al godimento di privilegi. Quanto all’uguaglianza dei diritti la nostra Costituzione un problema lo pose con la redazione dell’articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze» e dell’art 7, secondo il quale una religione è più uguale delle altre: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi». La Costituzione della Repubblica Romana, madre della nostra Costituzione, nei Principi Fondamentali fu più equa e sintetica. Con il principio VII stabiliva che «dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici»; con il principio VIII affermava che «il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale». Se si considera che fino al 1848 a Roma c’erano solo due religioni, la cattolica e quella ebraica, che era relegata nel ghetto, mentre in Italia, oggi, 6 Attualità ce ne sono oltre 50, tra veri e propri culti che affondano le radici nel passato e nuove sette, si comprende quanto sia importante difendere, da un lato, l’uguale libertà per tutti i fedeli e dall’altro separare la gestione della cosa pubblica dalla religione. Anche se in questa legislatura non sarà possibile, sarà importante che il Parlamento vari una legge sulla libertà religiosa che risolva tanti problemi ancora in sospeso, come le intese non ancora approvate, la gestione dei luoghi di culto, e altro ancora. La dinamica della società civile si è dimostrata non solo con i referendum sul divorzio e sull’aborto, ma con il crescere del numero di matrimoni civili rispetto a quelli religiosi e con la diffusione delle convivenze, anche omosessuali, alle quali però ancora non si riconoscono diritti. È qui che si sviluppa il contrasto tra coloro, presenti in entrambi gli schieramenti politici, che aderiscono alla difesa dei «valori non negoziabili» elencati dalla Chiesa e intendono imporre regole di origine cattolica anche ai non credenti, o diversamente credenti, causando il deficit di laicità nelle nostre istituzioni. Oltre al tema già citato delle unioni civili, si pensi alle regole sulla fecondazione assistita che costringono le coppie che se lo possono permettere a recarsi all’estero. Va detto che alcune parti della legislazione sulla fecondazione assistita sono state bocciate dall’Europa che le ha sanzionate come incoerenti e non in linea con la normativa europea. Si pensi alle pressioni esercitate sui medici, che dovrebbero praticare l’aborto, perché si rifiutino e pratichino la cosiddetta obiezione di coscienza. A 34 anni dalla sua nascita, la legge 194 sull’interruzione di gravidanza viene ostacolata e si cerca di affossarla. Per lo meno nel Lazio, come ha denunciato la Laiga (Libera associazione dei ginecologi per l’applicazione della legge 194) il 91,3 per cento dei ginecologi ospedalieri è obiettore di coscienza, e in 12 strutture pubbliche su 31 non si eseguono aborti. Ma il tema più significativo, non solo per la sua importanza, ma per la dinamica delle strumentalizzazioni politiche che suscita, è quello del Testamento Biologico. La Costituzione, con l’art. 32, stabilisce che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Il cosiddetto «decreto Calabrò», approvato al Senato durante il governo Berlusconi, ma per fortuna ancora non discusso alla Camera, rappresenta il massimo della forzatura nel togliere valore alle volontà del cittadino sulle terapie da accettare in caso di incapacità di intendere e di volere, lasciando le decisioni solo al medico curante. Il colmo dell’ambiguità è definire l’idratazione e la respirazione forzata non trattamento sanitario, ma semplice alimentazione, quindi non rifiutabile dal paziente. Altro tema significativo è l’ora di religione cattolica nelle scuole. Se con il nuovo Concordato del 1984 tale ora è facoltativa, ci sono ancora alcuni problemi: innanzitutto tale ora potrebbe essere disposta fuori dell’orario scolastico, dato che per coloro che non hanno scelto questa materia non ci sono in pratica insegnamenti alternativi; poi l’insegnante è scelto dal vescovo locale e, qualora dovesse essere rimosso, resterebbe come insegnante ordinario senza aver vinto alcun concorso; infine, su iniziativa del laico ministro Fioroni (con il governo D’Alema) l’insegnamento dell’ora di religione garantisce all’alunno che l’abbia seguita un credito scolastico che si somma ai risultati della maturità. In tal modo, nel caso d’iscrizione a facoltà universitarie con numero chiuso, gli alunni che non hanno seguito quell’ora sono svantaggiati. I temi da affrontare sono tanti; ma se si riuscirà a costruire una società davvero democratica nella quale prevalga il dialogo nel reciproco rispetto, senza fondamentalismi di qualsiasi natura né strumentalizzazioni, chissà che non si riesca, con tutte le difficoltà nelle quali vive il nostro paese, a cooperare con serenità! Affile, protesta contro il sacrario fascista La manifestazione organizzata dal Comitato antifascista Chiuso il mausoleo dal sindaco per rimuovere alcune scritte Mostre e dibattiti nella cittadina blindata Ha preso il via ad Affile – paese dell’Alta Valle dell’Aniene in provincia di Roma, 1700 abitanti - la manifestazione contro il sacrario dedicato al ministro di Salò Rodolfo Graziani. L’iniziativa, intitolata Non in mio nome, è stata organizzata dal Comitato “Affileantifascista” dopo le forti polemiche politiche che hanno accompagnato l’inaugurazione del mausoleo costruito all’interno del Parco Radimonte. L’opera dedicata al ministro della Difesa di Salò, è costata 127 mila euro con fondi erogati dalla Regione Lazio ed è finita alla ribalta internazionale conquistando, tra mille polemiche, anche le colonne del prestigioso New York Times. Il Comitato intanto ha allestito una mostra storica curata dalla Comunità etiope nel parco della Rimembranza, in piazza San Sebastiano. Intanto il sindaco di Affile con un’ordinanza ha disposto la chiusura del mausoleo al gerarca fascista nel parco Radimonte, per rimuovere le scritte antifasciste ivi apparse. Un momento della manifestazione ad Affile 7 Cultura Fatta l’Italia, che fine fecero i garibaldini? Il “dopo Unità” delle camicie rosse Dimenticate la vulgata retorica sugli eroi del Risorgimento. Qui si narra l’amaro rovescio della medaglia di Antonella Amendola D i tutti i libri usciti per i 150 anni dell’unità d’Italia quello di Paolo Brogi, «La lunga notte dei Mille» (Aliberti editore, con una prefazione di Gian Antonio Stella) è senz’altro il più curioso, il più godibile nella sua tramatura quasi di romanzo on the road a più voci. Perché Brogi, con il suo fiuto di segugio dalle tante passioni, con tutta la simpatia umana che ha per i perdenti, si dedica alla ricostruzione un po’ sghemba e delirante di quello che chiameremmo il secondo tempo. Vi siete beccati i pistolotti retorici della magnifica parata di camicie rosse in marcia da Calatafimi? Ora incassate l’amaro rovescio della medaglia. Molto più avvincente e istruttivo. Che successe a quei valorosi che compirono l’impresa una volta che il mitico Generale dette ordine di rompere le righe? Di tutto, di più. Dimenticate la roboante retorica dei libri di scuola, mettete da parte quei santini fotografici realizzati in bianco e nero dal fotografo Pavia che al Museo del Risorgimento, a Roma, comunicano la struggente malinconia di una Spoon River tricolore. Dopo il trionfo, per la maggioranza dei fantastici 1.089 (tanti erano) ci fu una diaspora picaresca, quasi da sbandati che, pur insigniti di una regia pensione, sentivano di essere di troppo nel neonato stato italiano. Non li volevano. Il re, Cavour, Costantino Nigra, gli alti gradi dell’esercito temevano quell’impasto di generosità guascona, quella brutale disponibilità all’avventura guerresca, quell’ingenua fede repubblicana che piacevano così tanto a Garibaldi. Le camicie rosse furono percepite dai nascenti poteri centrali come potenzialmente eversive, isolate, disperse: il racconto popolare delle loro gesta fu ammaccato dal silenzio e non riuscì mai a metter radici in una proposta politica per il futuro. Ma chi erano? Brogi li mette a fuoco uno per uno. La copertina del libro di Paolo Brogi Il più piccolo, Bepin Marchetti, era un ragazzino di 11 anni, soffriva di tisi e buscava scappellotti dal padre medico sempre su di giri. Il più vecchio, Tommaso Parodi, di anni ne aveva 69. Tra loro una sola donna, 48 analfabeti, 10 ebrei. Morirono sul campo di battaglia in 78, 24 impazzirono, 16 si suicidarono, come quel Raffaele Piccoli che si piantò un chiodo nel cervello dopo che gli avevano tolto la pensione, riducendolo alla fame. Se qualche fortunato riuscì a essere eletto in Parlamento (una piccola schiera di 37 nomi) o qualcuno, come Pianciani, si conquistò il suo posto al sole come illuminato sindaco di Roma, per tanti si aprì la via dell’esilio. Tre - Martino Franchi, Agostino Lombardi, Eugenio Ravà - finirono a combattere contro gli schiavisti nell’America del Nord; Nino Bixio sparì nelle isole della Sonda, Salvatore Castiglia, versatile marinaio, si adattò a Odessa nei ranghi della diplomazia. E poi ci sono quelli che, come il medico Edoardo Herter, ricominciano nell’America del Sud, chi, come Bartolomeo Marchelli, fa il mago, chi compra lauree, chi sperimenta la truffa continua vestendo il saio. Storie su storie che hanno un unico, sofferto, collante: la condizione borderline di chi è costretto a sopravvivere al proprio fulgido mito. 8 Cultura Cultura Il libro di Lorenzo di Biase per l’Anppia sarda Costantino Nivola, un artista contro il regime fascista di Maurizio Orrù È stato uno dei più importanti artisti contemporanei, negli Stati Uniti ha lavorato a contatto con i maestri dell’avanguardia pittorica, ma la sua terra lo vuole ricordare come antifascista rigoroso della prima ora. In occasione del centenario della nascita di Costantino Nivola, pittore e scultore, mentre sono stati organizzati eventi culturali a livello nazionale e mondiale sulla personalità del grande artista sardo, l’Anppia della Sardegna ha dato il suo contributo con la pubblicazione del volume Costantino Nivola, un artista contro il regime fascista (Ed. Anppia Sardegna 2012). L’autore del saggio, Lorenzo Di Biase, docente della scuola superiore, giornalista pubblicista, noto ai lettori dell’Antifascista per una serie di pubblicazioni di storia dell’antifascismo sardo e nazionale, ha avuto il merito di aver scandagliato la figura di Costantino Nivola da un punto di vista umano e politico, o meglio, attraverso il suo antifascismo militante: il suo libro è il frutto di un’accurata ricerca bibliografica e, in particolare, archivistica, condotta presso gli archivi pubblici e privati. Il risultato è stato quello di approfondire, con un carteggio inedito, il ruolo di Costantino Nivola fiero oppositore del regime mussoliniano, che imperava sovrano in Italia. Facciamo un passo indietro. Costantino Nivola nasceva a Orani, provincia di Nuoro, nel 1911, da una famiglia numerosa e umile. Il padre esercitava il mestiere di muratore, che condivideva con alcuni suoi figli maschi copreso Costantino che fin da piccolo mostrava inclinazione per le arti e veniva notato da Mario Delitala, pittore e incisore di valenza europea, che gli fece, nel corso del tempo, da nume tutelare. Nivola, ispirato autodidatta, iniziava il suo percorso di formazione artistica frequentando corsi di arti decorative e figurative in alcuni scuole presenti nel Nord Italia. In seguito lasciava l’Italia e soggiornava a Parigi, ospite di una parente, nella cui casa conobbe alcuni militanti antifascisti: l’occasione propizia per un approccio politico di stampo democratico ed antifascista. Al rientro in Italia conobbe le prime durezze del regime fascista: con sanzioni amministrative fu sospeso dalle lezioni dell’anno scolastico ‘34-’35 per essersi rifiutato di fare il saluto fascista. Per Costantino Nivola il 1938 fu un anno cruciale: da una parte il varo delle leggi razziali, dall’altra il suo matrimonio con Ruth Guggenheim, una ragazza ebrea tedesca. I coniugi Nivola dovettero in tutta fretta abbandonare l’Italia e riparare oltre confine, a Parigi, dove Costantino entrava in contatto con i fuoriusciti antifascisti italiani, come Emilio Lussu e Leo Valiani, e una nutrita pattuglia di antifascisti sardi come Giovanni Gadoni, Bernadina Serra in Soru e Pietro Golosio, stretti nel vincolo di solidarietà della “Concentrazione di azione antifascista” che operava in Francia. Le frequentazioni politiche antifasciste di Costantino Nivola entrarono presto nel mirino dell’Ovra, potente e famigerata polizia politica fascista. Molti i rapporti “confidenziali” stilati sul nostro scultore. A tale riguardo scrive Dino Fabris, Ispettore Generale Nel 1983 Costantino Nivola fu inserito nella lista dei 100 personaggi italiani più famosi negli Stati Uniti dove fu molto apprezzata l’energia con la quale riuscì a coniugare la sua cultura materica sarda con la progettualità del design industriale. Il Nivola scultore lavorò sull’archetipo mediterraneo della dea madre realizzando forme petrose, allargate in senso orizzontale, che molto ricordano la primitiva arte cicladica, ma anche il paesaggio sardo. Frequentò intensamente Le Corbusier, cui si ispirò per il rigore e l’astrazione e forse dall’intenso rapporto con Pollock, il genio dell’action painting, trasse l’entusiasmo per quelle gettate di cemento sulla sabbia che contraddistinguono la sua creatività architettonica. Fu affascinato dal ritmo convulso della vita di New York che consegnò ad opere dallo stile informale, mentre la sua poetica dei ricordi è tutta racchiusa nei coloratissimi acquerelli. di P.S.: “Per il pittore Nivola, che attualmente si trova all’estero, sarebbe bene, a mio subordinato avviso, farlo iscrivere in rubrica di frontiera per l’arresto”. L’artista antifascista era nel mirino, imminente la cattura. I coniugi Nivola per sottrarsi all’arresto decidevano, di comune accordo, di trasferire la loro residenza negli Stati Uniti, a New York. Attraverso puntuali e circonstanziate delazioni il regime apprendeva i nuovi spostamenti dei Nivola. Al riguardo leggiamo in un dispaccio ministeriale: “Con riferimento alla nota sopradistinta, si comunica che Nivola Costantino pare risieda attualmente a New York. Non è stato possibile finora accertare il di lui preciso recapito”. A New York la situazione lavorativa di Costantino migliorava notevolmente. Grazie alla sua eclettica bravura artistica otteneva importanti incarichi in alcune prestigiose riviste americane e internazionali. Ma l’impegno e l’ideale antifascista non erano sopiti nell’animo del Nostro, che ospitava, tra gli altri, nella sua residenza privata, il dirigente sardista Dino Giacobbe anch’egli esule in America, desideroso di organizzare una sezione territoriale del Partito Sardo d’Azione, partecipava a convegni e manifestazioni politiche, come quelle curate e organizzate dalla “Mazzini Society”, importante e meritoria associazione politica democratica e antifascista. Costantino Nivola è stato uno dei più importanti artisti del secolo scorso, celebrato nei più grandi musei: sue opere ospitate nell’area antistante e prospiciente gli uffici del Consiglio regionale della Sardegna, a Cagliari, testimoniano che nonostante le fertili esperienze di lavoro in America rimaneva indissolubilmente legato alla sua terra e alla sua comunità pastorale (morirà a Long Island il 5 maggio 1988; Ruth il 18 gennaio 2008). Il libro di Lorenzo Di Biase, arricchito da una prefazione di Carlo Dore, presidente regionale dell’Anppia della Sardegna, è un prezioso strumento per riscoprirlo e dargli il posto che merita nella storia dell’antifascismo. Nel 1952 Costantino Nivola rientra per la prima volta in Sardegna dopo la fuga negli USA per evitare le persecuzioni del fascismo a seguito delle leggi razziali. Nivola percorre in lungo e in largo l’isola con l’incarico di realizzare una serie di illustrazioni per documentare la lotta contro la malaria condotta dall’ERLAAS (Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna), un ente che godeva dei finanziamenti della Fondazione Rockefeller. L’articolo (anonimo) dal titolo DDT in Sardinia e i gli acquerelli di Nivola vennero pubblicati sul numero di Marzo del 1953 della rivista Fortune che, tra l’altro, ha la particolarità di avere la copertina illustrata da Giovanni Pintori, grafico dell’Olivetti e grande amico di Nivola. Il lavoro di Nivola diventa un vero e proprio reportage costituito da 21 illustrazioni dove l’artista si sofferma sui tratti salienti della lotta alle zanzare, senza trascurare di documentare caratteristiche e dettagli della vita quotidiana in Sardegna. 9 10 Cultura 11 Memorie MEMORIE OSCURATE Il libro di Carlo Greppi Ugo Forno, il “ragazzo del ponte” L’ultimo treno Gli amici e i familiari hanno chiesto quest’anno che un piazzale-giardino del suo quartiere gli sia dedicato Finora però a Vescovio non è successo niente Racconti del viaggio verso il lager di Paolo Brogi introduzione di David Bidussa C Con un registro emotivo particolarmente intenso, Carlo Greppi racconta gli umori, la fame, gli imbarazzi di una promiscuità forzata, le risse intorno al cibo, ma anche le solidarietà che nascono intorno al cibo e, proprio attraverso questa fisicità, arriva a definire la comunità del vagone, una delle più significative novità storiografiche del libro. Giovanni De Luna, Il Venerdì di Repubblica T ra il 1943 e il 1945 più di trentamila persone – uomini, donne, vecchi e bambini – affollano le stazioni dell’Italia centro-settentrionale e partono verso l’ignoto, stipate su treni merci e carri bestiame. L’appassionante studio di Carlo Greppi ricostruisce proprio questa fase essenziale nell’esperienza dei deportati e nella memoria dei salvati, il viaggio verso il lager, e lo fa ripercorrendo le vicende di decine di comunità viaggianti, attraverso le voci di centoventi sopravvissuti. Lo scorrere angosciato del tempo nei vagoni piombati, dove i nazisti sono solo figure sfocate, riempie le narrazioni dei testimoni e accompagna il racconto dei comportamenti dei fascisti, della forza pubblica, dei ferrovieri e della popolazione civile. Durante il tragitto e lungo le rotaie, infatti, questi naufraghi spaesati incontrano uomini e donne capaci di gesti di grande coraggio, ma anche di codardia e di indifferenza. Il racconto del viaggio diventa così l’istantanea di un abbraccio, di una mano tesa, di una lima nascosta, di un sorriso, ma anche di uno sguardo che si distoglie, di una lacrima, di uno sputo. È il ricordo dell’umanità che si incrina, il canto del cigno della normalità. Viaggiando verso i reticolati d’oltralpe, i deportati fanno amicizia e tentano la fuga, litigano e cantano, ridono e piangono, mentre cercano di catturare le ultime immagini di un mondo che si allontana lentamente e per sempre dietro le loro spalle. E le voci intrecciate dei reduci, che in queste pagine rievocano il profumo della libertà e la dignità che svanisce, si trasformano in un grido ostinato in difesa della condizione umana. Gli scritti dei deportati si rincorrono in un inedito mosaico memoriale, schiudendo ai nostri occhi una geografia della sofferenza, che ci commuove e ci indigna. E che ha molto da dire al nostro presente. GIUSEPPE ARAGNO ANTIFASCISMO E POTERE Storia di storie Me l’hanno regalato, è appena uscito e vale la pena di fare una piccola battaglia per procurarselo in libreria o acquistarlo on line, rinunciando al piacere della ricerca tra gli scaffali. Mi è sembrato davvero un libro prezioso. Isa Viganò, Recensioni Feltrinelli N ella cornice della “grande storia” – guerra, rivoluzione, passioni e conflitto sociale – uomini e donne in lotta per la dignità. L’antifascismo popolare, la scelta di lottare e resistere, tra coraggio e disperazione, in otto storie attraversate da un filo rosso: la cieca ferocia della “ragion di Stato” e l’assurda razionalità dell’ordine costituito. Senza rinunciare al rigore della ricerca, il saggio colloca i fatti nella loro dimensione umana, restituisce la parola a chi non l’ha mai avuta e acquista così i ritmi della narrazione e i toni del romanzo. Ne nasce un processo al potere che ha per protagonisti voci sconosciute e volti dimenticati in cui il lettore ritroverà qualcosa di se stesso e riconoscerà il presente in un passato che chiamiamo Storia. ’è un quartiere a Roma che non ricorda ciò che dovrebbe. È sulla Salaria, alle porte di Roma, è Vescovio. Lì nell’ultimo giorno dell’occupazione nazista si è sacrificato per la libertà un giovanissimo che tutta Roma e non solo Vescovio ha faticato troppo a lungo a ricordare. Forse perché quel ragazzino che ebbe il coraggio di fermare un sabotaggio tedesco nell’ultimo scampolo di presenza nazifascista in città non era iscritto a nulla. Forse perché Ugo Forno con i suoi pantaloncini corti e il ciuffetto ribelle, 12 anni e due mesi nel giorno della morte, può essere apparso come un partigiano assolutamente improprio, troppo piccolo per essere tale, qualcosa di inusuale, inaspettato, inspiegabile. E così quanti anni sono ormai passati dal 5 giugno del 1944? Sessantotto anni, sessantotto lunghi anni in cui non si è trovato il tempo di rendere un vero omaggio al sacrificio del più piccolo dei difensori della città, un ragazzino dodicenne che a costo della sua giovanissima vita riuscì a impedire il sabotaggio del ponte ferroviario sull’Aniene da parte dei tedeschi in fuga da Roma. Ugo Forno, l’ultimo caduto della difesa di Roma, morto a Vescovio per una granata tedesca mentre in città c’erano già gli americani, non è ancora ricordato a Vescovio. Giù in basso, quel ponte salvato dalla furia degli occupanti di Roma ridotti alla fuga e oggi usato dai Frecciarossa s’intitola da pochi anni al giovane Forno. Una decisione di Rfi, che ha reso opportunamente omaggio al piccolo eroe. Bisogna dargliene atto. Ma sull’altura in cui Ugo Forno cadde non c’è nulla a ricordarlo. Si chiamava allora Vicolo del Pino il punto in cui fu colpito, oggi non esiste più, era una volta, superata via Mascagni, la continuazione in discesa di via Luigi Mancinelli. Gli amici e i familiari di Ugo Forno hanno chiesto quest’anno che un piazzalegiardino lì esistente sia dedicato al ragazzo. Finora però a Vescovio non è successo niente. Eppure è proprio lì che andò a finire i suoi giorni il ragazzo uscito quella mattina del 5 giugno dalla sua casa in via Nemorense 15. Ugo Forno, per tutti Ughetto, aveva appena finito la seconda media alla Settembrini di corso Trieste. La pagella lo ricorda come bravo ma un po’ irrequieto. Figlio di Enea Angelo, impiegato dell’intendenza di finanza, e di Maria Vittoria uscì presto di casa. Ma poco dopo la madre lo vide tornare trafelato a cercare qualcosa. Non un giornaletto o un giocattolo, ma un pacchetto misterioso. Dentro l’involucro c’erano due pistole lanciarazzi tedesche che Ughetto aveva raccolto in quei giorni e nascosto sotto il letto. Suo fratello Francesco, diciottenne, a letto con l’influenza, lo ricorda entrare ed uscire di corsa. Nessuno si rese conto di cosa stesse succedendo. È l’ultima immagine di Ughetto con i suoi pantaloni corti che imbocca di corsa le scale con quel pacco sotto il braccio. Ughetto aveva infatti saputo dei tedeschi sull’Aniene e aveva deciso di fare qualcosa. Alle 7,30 Angiolo Bandinelli lo aveva già intravisto in una mischia di persone, tra Via Ceresio e Via Nemorense mentre gridava: “C’è una battaglia, lassù oltre piazza Vescovio! Ci sono i tedeschi, resistono ancora”. A quel punto Ughetto si era allontanato verso piazza Vescovio mentre Angiolo Bandinelli era salito in stanza per prendere la sua pistola e assieme a Lucio Manisco si era poi diretto verso il luogo della battaglia. Ma la battaglia non c’era ancora, a scatenarla sarebbe stato Ughetto. Il ragazzino era intanto già arrivato sul posto, la fine della collina di Vescovio da cui si domina l’ansa del fiume Aniene accanto alla Salaria e a quel ponte ferroviario intorno al quale brulicavano i guastatori tedeschi che stavano sistemando i candelotti di dinamite. A Vicolo del Pino c’era un casolare, lì alcuni contadini erano riuniti nella pausa del lavoro, arringarli e portarseli dietro fu un attimo. Erano Antonio e Francesco Guidi, Luciano Curzi, Vittorio Selvosi e Sandro Fornari. Ughetto nel frattempo aveva rimediato anche un fucile, i contadini estrassero due mitra nascosti nel fieno, così partirono all’attacco dei guastatori tedeschi. I tedeschi risposero agli spari dei compagni di Ughetto, usarono le granate. Il primo a cadere fu Francesco Guidi, aveva 21 anni. A Luciano Curzi ferirono una coscia, a Sandro Fornari staccarono un braccio. E poi fu colpito anche Ughetto, alla testa e al petto. È così, morente, che lo trovò un sottotenente partigiano, Giovanni Allegra. Inutile la corsa col piccolo corpo ferito a morte verso la clinica dell’Inail a Monte delle Gioie. Ughetto non sopravvisse alle terribili ferite delle granate. E poi? Roma ha stentato a lungo a Ugo Forno con la mamma e la zia ricordarlo. Sotto Darida sindaco gli fu finalmente dedicata una piccola via, quasi di campagna, nell’estrema periferia di Casal Bernocchi. L’Anpi gli ha poi intitolato una sezione, quella presso l’Istituto superiore della sanità. Alla scuola Settembrini una targa ne ricorda il passaggio. Infine nel 2005, 12 Memorie Memorie con Veltroni sindaco, un’altra targa è stata inaugurata al Parco Nemorense (e non sono mancati poi i vandalismi vari). Nel frattempo è uscito anche un libro “Il ragazzo del ponte”, di Felice Cipriani, edizione Chillemi. E nella ricorrenza della morte che è anche quella della liberazione di Roma sono state celebrate alcune iniziative. Manca però qualcosa che lo ricordi nel posto in cui è avvenuto il suo sacrificio. Vescovio sembra distratto da altre storie e altri interessi. Fino a quando? Il parco che si vorrebbe dedicare a Ugo Forno nel quartiere Vescovio di Roma 8 luglio 1944 L’autrice di questa memoria è nata a Civitella in Val di Chiana, piccolo borgo martirizzato dalle efferateze dei tedeschi Ha insegnato storia dell’arte nei licei di Anna Magnanini V iciomaggio, 8 Luglio 1944, sono passati dieci giorni dalla strage di Civitella in Val di Chiana dove si è consumata una carneficina di uomini, donne e bambini innocenti, un orrore di fuoco e di morte messo in atto dai nazisti in ritirata. È sabato, un giorno di sole splendente, sono circa le dieci del mattino; fuori e nei dintorni ci sono grandi manovre belliche, i boschi di Civitella e di Tuori pullulano di tedeschi allo sbando, si sta avvicinando il passaggio del fronte. La mamma ventiseienne e il babbo trentenne se ne stanno rinchiusi nelle cantine insieme a noi due bambini, io di tre anni ed il mio fratellino di un anno; tutti insieme agli abitanti del posto. Una cantina umida e piena di botti, dove un mucchio di gente sta assiepata nel poco spazio disponibile, gente muta, assorta piena di terrore, che sobbalza ad ogni esplosione di colpi di cannone o di mitraglia. C’è un lungo momento di tregua, fuori l’aria è ferma ed immota come se tutto fosse finito. Un amico, proprietario del cascinale, propone al babbo di uscire per rendersi conto della situazione; il tragitto all’esterno è breve: c’è solo da attraversare uno stradello e salire pochi gradini di un bel giardino sopraelevato pieno di verde e di fiori. Il babbo accetta e istintivamente, con me in braccio, si avvia verso l’uscita; la mamma mi trattiene, forse mi sono messa a piangere o forse… un presentimento. Il babbo lo conosco poco, è stato congedato da pochi giorni, per malattia, dopo quattro anni di fronte. Passano alcuni momenti: una cannonata e una scarica di mitraglia, lunga e vicinissima, squarciano il silenzio di quel misero rifugio pieno di famiglie impaurite e disperate. La tragedia si è compiuta: il babbo è preso in pieno, vicino alla limonaia, da schegge mortali, il suo amico morirà dopo una lunga agonia. Da quel momento una giovane vita famigliare piena di speranze è stata troncata di netto, come con un colpo di mannaia micidiale. Non ricordo la fisionomia del babbo, ma dalla fotografia del matrimonio appare come un giovane alto e biondo, pieno di vitalità e voglia di vivere. Ricordo il cancelletto a cui sto aggrappata per osservare il mesto corteo del funerale con una cassa zincata un anno dopo la tragedia: sì, perché il babbo viene rimosso dalla limonaia il giorno dopo per paura di rappresaglie e messo dentro quattro assi, un po’ alla meglio, da mani pietose. Inizia un doloroso calvario per la mia mamma: sola, con noi bimbi piccoli, ed abbandonata da entrambe le famiglie e, come si suole dire, “senza arte né parte”; il nostro destino sembra segnato da una sorte tragica. È il 1946, la mamma, vedova di guerra, trova finalmente lavoro come bambinaia al Brefotrofio insieme ad altre vedove. Per la mamma coraggiosa, anzi eroica, è la salvezza; inizia il suo riscatto ma deve fare una scelta crudele per poter lavorare. Prima tocca a me andare in un collegio per orfani. Ho solo cinque anni, ma una piena consapevolezza della situazione in cui mi trovo. Di colpo sono sola e abbandonata, un fuscello al vento, immersa in un mare di solitudine. È una sensazione di assenze incolmabili, molto ricorrente nella mia vita futura. Mi sento completamente orfana. Un incubo notturno ricorrente mi fa svegliare in piena notte in quel camerone illuminato da una luna livida ed estranea alle mie paure: mi trovo in un cunicolo buio, cammino per trovare un’uscita, avverto dei passi cadenzati, sempre più vicini, mi metto a correre piena di terrore, i passi si fanno sempre più minacciosi, mi trovo di fronte ad un muro e non ho scampo, mi volto, cerco di urlare con tutte le mie forze ma la voce non mi esce. Ripescando nel mio inconscio, tanti anni dopo, saranno delle sedute analitiche a liberami da questo incubo e da tanti altri traumi infantili e problemi adolescenziali. La vita in collegio trascorre abbastanza distorta dalla realtà esterna, le suore fanno quello che possono sia per la loro mentalità che per necessità. Più tardi verrà in collegio anche mio fratello. Poche visite della mamma, solo una volta al mese per ordine della Superiora, niente parenti, un deserto affettivo totale. Ho tre amichette: la Mara, la Rossana e la Silvana; con loro trascorro gran parte delle giornate, specialmente quando puliamo le scale di servizio o si va alla legnaia a prendere la legna, oppure siamo in cucina a sbucciare le patate. L’ambiente del collegio è molto bello, contrasta con la realtà di tutti i giorni: grandi spazi, lunghi corridoi con appesi alle pareti ritratti maestosi, soffitti affrescati, un grande scalone di accesso, un cortile interno pieno di reperti antichi e ceramiche robbiane, un bel giardino. M’incanto ad osservare tutto questo estraniandomi dalla realtà, rendendo più leggera la quotidianità anche perché non andiamo fuori quasi mai, ma mi sento come in prigione. Quelle poche volte che usciamo, però, indossiamo una bella divisa all’inglese di cui sono molto fiera e della problemi. Seguo un indirizzo di studi commerciali che a me non piacciono e non mi ci sento tagliata, ma è la strada più breve per trovare un impiego. Sono sempre più complessata! Continuo a pensare che stavo meglio in collegio, mi sento inadeguata e fuori posto. La casa è brutta, vecchia e buia, la mia sola salvezza è vivere all’esterno. Mi allargano il cuore la bella chiesa di San Domenico, che crea un triangolo magico con il Prato e il Duomo, la vista dei bei palazzi antichi e della bella campagna lussureggiante poco lontano, che mi riconcilia col genere umano. Sono sempre silenziosa ma osservo molto, la mia adolescenza non mi piace. Mi sento ingabbiata in una vita poco consona e con pochi affetti. Dietro suggerimento di altre persone la mamma, che si dimostra intelligente, mi regala dei libri per adolescenti: li trovo inutili e superficiali, ma uno di questi intitolato “Le rane non si arrendono” mi fa capire che senza la buona volontà e la determinazione non si arriva a nulla e che solo tu puoi essere artefice della tua vita. Mi metto a leggere con avidità tutto ciò che trovo in libreria, con i libri economici della BUR, sono molto brava a disegnare e prendo sempre dieci con i complimenti dell’insegnante. Capisco che devo fare ciò che mi piace e Il borgo di Viciomaggio ai giorni nostri quale ho ancora un buon ricordo. A undici anni esco dal collegio, è un trauma terribile: il mondo mi è completamente estraneo, non riesco a capirci niente, le persone mi fanno paura, a scuola vado molto male, e la mamma è molto severa, lei deve lavorare ed io non le posso creare così mi iscrivo ad un doposcuola artistico. Incomincio ad allargare il mio orizzonte e a prendere coscienza di me e anche un po’ più di sicurezza. Il salto qualitativo avviene con la decisione di frequentare il Liceo Artistico a Firenze, dopo aver superato gli esami di ammissione. Sono anni di grande 13 volontà e determinazione. La mamma, che nel frattempo è diventata infermiera del Pediatrico, mi sostiene e anche lei cerca un riscatto nella vita dopo tante sofferenze e privazioni. Mio fratello frequenta, con successo, il Liceo Scientifico. Capisco che io e lui siamo la sua forza e quindi non possiamo deludere le sue aspettative. La mattina esco di casa alle sei meno un quarto, sono sempre felice e serena, mi chiudo la porta dietro le spalle con grande soddisfazione, mi sento libera di affrontare una giornata piena di imprevisti e di emozioni, in spazi aperti e meravigliosi, come solo le strade e i monumenti fiorentini sanno dare. Ho sedici anni e finalmente con grande determinazione sono inserita in un contesto confacente ai miei desideri. A scuola l’insegnamento è molto aperto ma rigoroso. Gli insegnanti sono bravi e gentili ma molto severi e selettivi, per cui anno dopo anno siamo sempre meno alunni, consapevoli di appartenere a un gruppo ristretto. Di solito ritorno da Firenze alle quattro del pomeriggio, ma due giorni per settimana alle otto di sera. La mole di studio è enorme, soprattutto per i disegni geometrici occorre un’applicazione lunga e sistematica. A volte, mentre sono china sui fogli, in pieno silenzio notturno, avverto alle mie spalle un lieve respiro, una presenza costante e rassicurante. Mi volto ma la stanza è vuota. Un giorno, terminati prima del previsto i compiti scolastici, la mamma entra in camera chiedendomi di andare a comperare un vaso da fiori per la tomba del babbo. Fuori sta piovendo e tira un bel po’ di vento. Entro in un negozio poco lontano dalla nostra casa, scelgo il vaso e, dopo aver pagato, vado verso l’uscita che dà direttamente sulla strada, ma nel momento in cui sto per attraversare un grosso camion sopraggiunge a gran velocità, sto per essere investita, ma una forza, forse una mano, mi trattiene ferma, rigidamente stretta contro il muro, impedendomi di andare avanti: risento il respiro dietro di me, sempre lo stesso. Sono salva. Da quel momento non mi sono più sentita abbandonata e, dopo avere terminato gli studi e ottenuto l’insegnamento, sono felicemente diventata madre di due splendidi bambini. I luoghi della storia 14 I luoghi della storia 15 da pagina 13 Porta Lamesegue a Bologna di Mario Tempesta Nella cultura popolare il nome di questa città viene spesso indicato con alcuni aggettivi che la contraddistinguono: turrita, dotta, grassa, rossa. Turrita per le numerosi torri che caratterizzano la città medievale, dotta per l’Università più antica d’Europa, grassa per l’opulenza della sua cucina tradizionale, rossa per il colore dei muri e dei tetti delle sue abitazioni ma anche per la sofferta lotta antifascista, per la quale è stata decorata di medaglia d’oro il 24 novembre 1946 dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Durante tutto il periodo tra le due guerre mondiali, Bologna fu infatti compresa fra il vecchio Ospedale maggiore, via del Macello, via delle Lame e viale Pietramellara, 320 partigiani della 7° Brigata GAP (Gruppo di Azione Patriottica), armati di mitra, moschetti, pistole, bombe a mano e 2 mitragliatrici, erano dislocati all’interno dei ruderi dell’Ospedale e di uno stabile di via del Macello. L’inizio dello scontro ebbe origine da un rastrellamento dei nazifascisti teso ad eliminare le basi partigiane nella zona. La scoperta “accidentale” della base (i fascisti hanno sostenuto da una “delazione”) da parte di una pattuglia tedesca motorizzata con 40 unità e di circa 150 uomini delle Brigate Nere, un totale inferiore alle forze partigiane, parte degli attaccanti, i partigiani avevano abbandonato il luogo della loro resistenza. Le SS a questo punto con tutti i loro mezzi ritornarono sulle loro posizioni. Rimasero a completare il rastrellamento la compagnia delle Brigate Nere bolognesi, il Reparto RAP (Reparto Assalto Polizia), la compagnia Arditi della GNR e la pattuglia tedesca, per un totale di circa 200 uomini. Al calar delle tenebre, i partigiani uscirono dalla base; la simultaneità e l’audacia della sortita consentì ai “gappisti” di riparare in altri luoghi più sicuri e di attaccare i tedeschi e i fascisti in vari punti della città: a Porta S. Felice, all’angolo di via Riva di Reno, Il monumento presso Porta Lame con le statue di Minguzzi teatro di vari fermenti sociali e particolarmente tenace fu la resistenza dei bolognesi alla Repubblica di Salò e all’invasione tedesca. Uno degli episodi più significativi della lotta di Liberazione fu la “battaglia di Porta Lame” del 7 novembre 1944 (anche se si disquisisce sulla definizione di “battaglia”) che segnò il momento di una stagione della guerra nella quale le forze della Resistenza vennero a contatto in forme nuove, dirette e più diffuse, rispetto a quanto era avvenuto in passato sia con le forze nemiche che con gli Alleati. All’alba di quel giorno nell’area trasformò il rastrellamento in una vera e propria battaglia fra le mura cittadine; dopo 5 ore di scambio di fucileria con severe perdite in morti e feriti, i nazifascisti chiesero rinforzi. Arrivò la compagnia Arditi della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) e un reparto tedesco della Divisione SS Reichsfuehrer, forse proveniente da Casalecchio di Reno, con un pezzo anticarro da 37 mm. e un cannone antiaereo da 88 mm. Lo scontro si protrasse per ore fino alla totale demolizione mediante cannonate della base di via del Macello; ma al momento della conquista del caposaldo da a via delle Lame, a via del Randone. Le perdite di questo fatto d’arme furono 17 morti accertati ed altri 50 feriti per i fascisti, non meno di 15 per i tedeschi, mentre la 7° Brigata GAP ebbe 12 morti e 15 feriti. Nell’Italia occupata dalle truppe naziste, questa battaglia rappresenta la più rilevante sconfitta dei tedeschi all’interno di un centro cittadino e dimostra quanto fosse alta la combattività e l’ardimento dei giovani bolognesi e degli antifascisti di ogni ceto; ma soprattutto evidenzia quanto fosse socialmente ampio e diversificato il sostegno popolare alla lotta partigiana. Con la battaglia di “Porta Lame” (nonché della precedente all’Università e di quella successiva nel quartiere Bolognina, il 15 novembre 1944), i partigiani - pur vittoriosi avendo inflitto pesanti perdite al nemico e tenuto in scacco l’esercito tedesco all’interno della città - non riuscirono a modificarne la situazione bellica. Bologna rimase sotto il rigido controllo nazifascista fino al 21 aprile del 1945, data della sua liberazione ad opera delle truppe del generale Anders. Le due battaglie di “Porta Lame” e della “Bolognina” avvennero quasi in concomitanza con il Proclama del generale Harold Alexander del 13 novembre che, esplicitando l’arresto dell’offensiva sulla “Linea Gotica”, chiese ai partigiani italiani di cessare per il momento operazioni organizzate su vasta scala, di “stare in difesa” e di conservare le munizioni in attesa del successivo attacco alleato. La Linea Gotica, costruita lungo i crinali appenninici per bloccare l’avanzata dell’esercito angloamericano al Nord Italia, era lunga oltre 300 km. e comprendeva bunker, casematte, trincee, nidi per mitragliatrici, camminamenti e, lungo la riviera, torrette, fortificazioni a “denti di drago” per impedire eventuali sbarchi. La sua realizzazione aveva comportato la cacciata dalle proprie case di collina e di pianura, requisite per motivi bellici, di decine di migliaia di contadini, che si rifugiarono a Bologna con le loro masserizie occupando tutti gli spazi disponibili della città ove la popolazione arrivò a superare le 500.000 persone. Il Proclama incise profondamente sulle vicende della guerra partigiana e della Resistenza bolognese, che dovette frenare lo slancio iniziale e pagarne le conseguenze con il mancato raggiungimento dell’obiettivo militare della campagna. Ne approfittarono i tedeschi ed i fascisti per scatenare feroci rastrellamenti e rappresaglie; gli scontri armati videro impegnati i partigiani bolognesi in attesa di rinforzi in condizioni assai difficili anche per il duro inverno. L’arresto dell’offensiva alleata era dovuto al fatto che, nell’estate del La lapide ai Caduti della Resistenza presso Porta lame 1944 con lo sbarco in Normandia, vi era stato il mutamento del quadro strategico generale e l’Italia era divenuta un fronte secondario; inoltre, la linea adottata dagli Alleati nei confronti della Resistenza italiana era sì di sfruttarne le potenzialità ma anche di tenere a freno le prospettive di azione autonoma sia delle forze combattenti che dei partiti politici che l’animavano. A tal fine gli Angloamericani strinsero alla fine del 1944 un accordo con il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), che prevedeva da un lato il riconoscimento ufficiale della Resistenza italiana da parte degli Alleati, dall’altro che, subito dopo la liberazione, la Resistenza cedesse le armi e rinunciasse alla costituzione di propri organi di potere negli ambiti locali, Comuni e Province. Anche se tra gli stessi Alleati c’era un differente sentimento politico: gli Inglesi, assai più che gli Americani, non dimenticavano che l’Italia era un paese sconfitto e che, malgrado gli apporti del Corpo Italiano di Liberazione e del Movimento di Resistenza nelle zone ancora occupate, che pure venivano accolti e incentivati, l’Italia doveva rimanere fino al Trattato di Pace un Paese sconfitto anche se “cobelligerante”. Insomma il rapporto non prescindeva che l’Italia, come Stato aggressore e vinto, dovesse subire una punizione. Attualmente a Porta Lame una Lapide, collocata nel 1964, ricorda alle successive generazioni il’eroico sacrificio dei dodici giovani caduti per l’indipendenza e la libertà. Davanti all’epigrafe, due figure immerse nello spazio, due statue senza basamento, “Il Partigiano” e “La Partigiana”, dello scultore bolognese Luciano Minguzzi. Il loro bronzo proviene dalla statua equestre di Benito Mussolini, che era collocata sotto la Torre di Maratona al Littoriale (ora stadio Dall’Ara); decapitata dal popolo bolognese il 26 luglio del 1943; era stata ricavata - a sua volta - dal metallo dei cannoni sottratti agli Austriaci nel 1848. Artista di fama internazionale, il Minguzzi ha forgiato le due opere in un simbolico realismo: lui in atteggiamento assorto, pensieroso; lei - con la bandoliera a tracolla - pronta per le battaglie delle donne negli anni a venire. È netto il contrasto con il vibrante e tormentato espressionismo che lo stesso scultore forgiò nella “Porta del Bene e del Male” nella basilica di S. Pietro a Roma dove nel pannello del Male, “l’Esercito dei Martiri” commemora i 13 partigiani della 63° Brigata Garibaldi, trucidati il 10 ottobre del 1944 a Casalecchio di Reno; legati ai cancelli vicino ad un cavalcavia, passati con il filo spinato attorno al collo, furono fucilati al basso ventre e alle gambe in modo che i corpi, piegandosi, prolungassero l’agonia; lì rimasero esposti per tre giorni. I luoghi della storia Memorie 16 I luoghi della storia Memorie PICCOLA STORIA DEL PARTITO D’AZIONE Quella sconfitta politica è oggi un monito morale di Giovanni Russo C hi ha vissuto in Italia l’esperienza politica di questi anni e ha scelto di non essere un anticomunista viscerale (senza nulla concedere alla giustificazione dei metodi dittatoriali dell’ideologia comunista e ciò soprattutto per evitare di trovarsi in cattiva compagnia) deve constatare come siano quasi ignorati, o comunque ricordati solo marginalmente, il contributo e l’esperienza di intellettuali o di uomini politici che hanno cercato, proprio in Italia, durante il fascismo, una strada in cui si potesse realizzare la giustizia sociale mantenendo tutte le garanzie e i valori della libertà. Parlo del pensiero e dell’azione dei fondatori di Giustizia e Libertà Ugo La Malfa e Guido Calogero e dell’esperienza breve, dopo la fine del fascismo, fallita, ma proprio per questo ricca di insegnamenti illuminanti, del Partito d’Azione, fino alla battaglia condotta dal 1949 al 1966 dal Mondo di Mario Pannunzio, dove confluirono ex azionisti, liberali, democratici e socialisti. Il significato de Il Mondo di Pannunzio è stato proprio quello di conciliare, da Croce a Einaudi, azionisti come Ernesto Rossi e personalità come Gaetano Salvemini. Di spalle a sinistra Ugo La Malfa, a destra Giovanni Russo Nel momento in cui si tratta di prefigurare una democrazia in cui ci sia libertà e giustizia c’è da chiedersi perché il pensiero e l’opera di quel filone al quale facciamo riferimento non siano presi in dovuta considerazione. Tocca a noi riprenderlo e riproporlo. Tra il socialismo e Benedetto Croce È vero che Palmiro Togliatti, leader del Pci, fu sprezzante nel liquidare il Partito d’Azione ed è ben vero che, da un altro punto di vista, lo stesso Benedetto Croce sottopose a critica, considerandoli concetti contraddittori, i termini di giustizia e libertà, in quanto la libertà, egli scrisse, non può essere in funzione di una questione economica. Ma è anche vero che, nonostante questa critica, lo stesso Croce ha poi finito per riconoscere che nella libertà l’uomo non può non ricercare la giustizia sociale. Intellettuali ex comunisti sostengono che, come esisteva un cattivo uso dell’ideologia comunista, il cosiddetto comunismo reale, gli intellettuali non comunisti avrebbero tralasciato di approfondire la cosiddetta democrazia reale. Anche qui appare strano come si sia dimenticato che tutto il movimento di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione nasceva non solo dalla critica del socialismo tradizionale e del comunismo cosiddetto reale, contrassegnato dalla dittatura e da una burocrazia sfruttatrice, ma anche dalla critica della democrazia reale dei Paesi capitalisti. Rosselli, Gobetti, e poi Ernesto Rossi si sono sempre occupati proprio dei difetti e dei problemi della democrazia reale. Nel Malgoverno, un libro pubblicato nel 1954, Ernesto Rossi scriveva che molti di coloro che si dicono liberali non hanno alcun ritegno a rinnegare i principi della libertà e a presentarli come principi liberali per fare i loro interessi. Egli ribadiva, appunto, come il vero liberismo impone pianificazione, programmazione, regolamento anche con rispetto del mercato. Gli intellettuali che si riunivano intorno a Il Mondo sapevano pensare a una vera Italia europea. Era l’Italia dell’utopia del Partito d’Azione, sognata da Ugo La Malfa. È l’idea di un’Italia di minoranza, ma che rappresenta quelle radici morali di un Paese che non è condannato al disprezzo dell’etica, al servilismo, al conformismo. Non posso non ricordare Piero Calamandrei e le sue riflessioni che hanno ispirato il settimanale Il Ponte, la rivista che dirigerà fino alla morte e che ha rappresentato, insieme al Mondo, una voce così significativa nella cultura e nella lotta politica italiana. Calamandrei, come Leo Valiani hanno avuto un rapporto dialettico con il pensiero di Benedetto Croce, che giganteggia su questi personaggi con le sue critiche. Valiani permette di cogliere nel pensiero di Croce l’impegno morale della libertà come una conquista nella vita pratica. È interessante come Valiani sottolinei il ruolo positivo di Benedetto Croce e Adolfo Omodeo. L’intellettuale disorganico Mentre con la fine del Partito comunista è caduto pure il modello dell’intellettuale che vi faceva riferimento, la morte prematura del Partito d’Azione non ha portato con sé la fine di quel modello d’intellettuale, strutturalmente disorganico, naturalmente impegnato a sinistra. Gli intellettuali del Partito d’Azione, checché ne dicano i cosiddetti revisionisti, non erano mai stati legati da nessuna dipendenza ideologica e politica diversa dagli ideali di Giustizia e Libertà. Come affermava Gennaro Sasso, il massimo studioso odierno di Benedetto Croce, che è stato anche lui un azionista: «Oggi è di moda dire peste e corna degli azionisti, accusarli di tutti i mali della Repubblica, come se non ci fossero altri esempi molto più autorevoli a rappresentare questi mali». Non posso non ricordare poi Paolo Vittorelli, che dirigeva con Aldo Garosci il primo giornale in cui ho cominciato a scrivere, L’Italia Socialista, protagonista della lotta antifascista fin da giovanissimo nel Nord Africa. Egli, infatti, era nato 17 Russo con la figlia di Benedetto Croce, Elena ad Alessandria d’Egitto ed era stato inviato da Giustizia e Libertà al Cairo dove fondò un gruppo di GL. Dopo la guerra, insieme a Stefano Terra, viene dall’Egitto in Italia e diventa uno degli esponenti del Partito d’Azione. Il volume, uscito nel 1998, L’età della speranza, testimonianze e ricordi del Partito d’Azione di Paolo Vittorelli (che dimostra il talento di un vero scrittore) è ricco di intuizioni politiche ed è prezioso per conoscere la storia di quel partito, ne analizza le ragioni della crisi e i motivi di una scissione che egli fino all’ultimo tentò di scongiurare. Il maestro Guido Calogero Mi è capitato di sfogliare un libretto di Guido Calogero, in cui parlava del suo concetto di liberal-socialismo e scriveva: «Coerente e autonomo è solo quel liberalismo che è insieme socialista, o quel socialismo che è insieme liberale. Si chiami questo poi più adeguato e approfondito concetto col nome di liberal-socialismo, di radicalismo, di laburismo, con quella qualsiasi altra denominazione che si preferisca come più rispondente al proprio gusto e opportunità. Quando si vuole la libertà politica, e non la si vuole solo a metà, allora si deve volere anche la uguaglianza economica, quando si vuole la giustizia sociale, e non si accetta che essa sia una giustizia ipocrita, allora è forza volere anche la piena libertà politica». Calogero ha teorizzato il rapporto tra libertà e giustizia ed è stato protagonista della famosa polemica con Benedetto Croce, che appose al liberalsocialismo la definizione di ircocervo. Il liberalsocialismo di Calogero era, per noi giovani, ricco di motivi politici e di spunti suggestivi che uscivano dagli schemi tradizionali, contraddicevano lo storicismo di Croce. E di Calogero vorrei anche ricordare l’importante ruolo svolto nel primo congresso del Partito di Azione, a Roma, nel 1946, al quale partecipai come rappresentante del movimento giovanile del Partito d’Azione del Sud e al quale intervenne anche Bruno Trentin, che rappresentava il movimento giovanile del Partito d’Azione del Nord Italia. Trentin insisteva sulla necessità di legare il Partito d’Azione alle masse operaie, mentre io, sotto l’influenza lamalfiana, pensavo che bisognasse mantenere una completa autonomia. Calogero riuscì a evitare che lo scontro degenerasse in una crisi. Un’idea di Europa e di Mezzogiorno Cos’è rimasto, oggi, di vivo del pensiero azionista in Italia e in particolare nel Mezzogiorno ? Vi è stata la riabilitazione, per così dire, di Carlo Rosselli, che era stato denigrato da Palmiro Togliatti, da parte degli ex comunisti, in un discorso di Walter Veltroni. Le critiche salveminiane alle degenerazioni delle classi dirigenti meridionali non hanno perso validità e ad esse ci si può richiamare quali ragioni ideali nella lotta alla criminalità organizzata e alla pratica del clientelismo. È ancora fondamentale l’esigenza di un Mezzogiorno legato all’Europa, che fu uno 18 Memorie dei cavalli di battaglia dell’azionismo. Da non sottovalutare anche il tema del federalismo, oggi al centro della polemica politica suscitata dalla Lega come strumento di divisione e spaccatura fra l’Italia del Nord e del Sud, mentre in Salvemini e Guido Dorso era invece considerato un mezzo per modernizzare lo Stato. Anche sul rapporto con l’Europa le posizioni che furono degli autori del Manifesto federalista, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, rappresentano ancora l’obiettivo da raggiungere nella Comunità Europea. Si può dire perciò che se il Partito d’Azione perse come partito, ha vinto come pensiero culturale che ha trionfato sulle vecchie e tramontate ideologie. Gli azionisti volevano un’Italia nuova, coerente agli ideali per i quali durante la Resistenza si batterono nelle formazioni di Giustizia e Libertà per la democrazia italiana. Purtroppo il loro progetto non ebbe allora fortuna e l’Azionismo crollò come forza politica, ma è rimasto come forza morale. Sicché allo stato attuale esso può pretendere di riproporre, soprattutto ai giovani, i suoi ideali in un paese dove prevale, proprio, la mancanza di ideali. Piccola storia del partito d’azione Quando ero un giovane azionista meridionale di Giovanni Russo L a mia esperienza nel Partito d’Azione è legata alle battaglie politiche dopo la fine della seconda guerra mondiale in Lucania e nel Sud. Nel 1943 alcuni giovani, tra cui il sottoscritto, a Potenza, in Lucania, entrarono a far parte del Partito d’Azione. Eravamo un gruppo di amici, coetanei, tra i 17 e i 19 anni, che, avendo letto la Storia del Liberalismo di De Ruggiero, la Storia d’Italia di Croce e L’apologia dell’ateismo di Giuseppe Renzi, vagheggiavano di fondare un movimento politico e culturale che riflettesse il loro vago antifascismo. Il protagonista di riferimento fu Michele Cifarelli, che era magistrato a Bari, ma già uno dei più noti esponenti del Partito d’Azione. Fu lui che ci convinse a fondare una sezione a Potenza, di cui conservo la tessera numero 6. Era l’agosto o il settembre del 1943, poche settimane dopo il 25 luglio, quando Benito Mussolini era stato dimesso da Vittorio Emanuele III. Ci impegnammo nell’organizzazione e nella propaganda per la Repubblica in vista del referendum che si tenne nel 1946 insieme alle elezioni per la Costituente, e riuscimmo a mobilitare sia borghesi che contadini, contribuendo così al successo del voto per la Repubblica. La nostra bussola Michele Cifarelli Avevamo letto i libri di Adolfo Omodeo, conoscevamo Rosselli e Gobetti e, nello stesso tempo, avevamo appreso le idee del liberalsocialismo di Guido Calogero che uscivano dagli schemi tradizionali, dato che contraddicevano lo storicismo di Croce. Chi ci aprì a queste letture e a queste idee, e nello stesso tempo ci impegnò nella lotta politica che portò poi al Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale di Bari del 1944, fu proprio Michele Cifarelli, grande organizzatore non solo del congresso a Bari, ma anche avvincente conferenziere che riusciva a raccogliere numerosissimi ascoltatori affascinati dalla sua oratoria. A Potenza, professionisti, studenti, impiegati affollavano la sala della Cattedra oraziana dove venivano a parlare gli esponenti dei partiti politici. Il più atteso era proprio Cifarelli, che alternava argomentazioni storiche e culturali alle analisi politiche. Nato a Bari nel 1913, aveva vinto nel 1938 il concorso in magistratura e aveva maturato la sua critica al fascismo frequentando casa Laterza, dove spesso si recava Benedetto Croce, insieme con Fabrizio Canfora, Ernesto De Martino, Giuseppe Bartolo, e dove si incontrava con Tommaso Fiore, studioso di Virgilio e seguace di Salvemini. Cifarelli insieme al fratello Raffaele costituì clandestinamente l’associazione liberalsocialista Giovane Europa ed elaborò, attraverso i contatti con Tommaso Fiore e Guido Calogero, un programma in cui si poneva al primo punto la realizzazione della Repubblica e dove erano già presenti un richiamo all’Europa unita e un abbozzo di federalismo insieme ai temi della questione meridionale. Questa intensa attività clandestina non sfuggì all’Ovra e nel giugno del ‘43 Cifarelli fu arrestato insieme a Calogero, De Ruggero e Tommaso Fiore e venne liberato solo il 28 luglio, dopo la caduta del fascismo. A Bari dopo l’armistizio Potenza 1945. Carlo Levi (col trench) e Giovanni Russo 19 Memorie Nel suo libro Il regno del Sud, che ben descrive l’atmosfera politica durante il governo Badoglio, Agostino degli Espinosa così racconta le iniziative del gruppo di giovani antifascisti baresi: «A Bari, subito dopo l’annunzio dell’armistizio, gli uomini del Fronte Nazionale d’Azione, Da sinistra: Rosario Romeo, Francesco Compagna (seduto), Manlio Rossi Doria e Michele Cifarelli (per gentile concessione dell’Archivio A.N.I.M.I.) centro dell’antifascismo militante, capeggiati da Michele Cifarelli, volevano armare il popolo e, sollevando una rivolta popolare, procedere alla cattura delle truppe tedesche e si rivolsero al prefetto». Poi commenta: «Era una proposta in cui nobilmente fremeva il mito mazziniano del combattimento popolare, ma a fatica un funzionario statale, uso al tecnicismo dell’amministrazione pubblica, avrebbe potuto accettarla». Dopo l’8 settembre, Cifarelli insieme con altri riuscì a prendere in mano Radio Bari, dove grazie anche al maggiore inglese Greenless, responsabile del Pwb (divisione per la guerra psicologica), amplificò la propaganda democratica a tutto il Sud. In quel periodo c’era una vivace attività politica e culturale promossa da uomini del Partito d’Azione o che a esso si ispiravano. Resta fondamentale il ruolo di Cifarelli nel primo congresso nazionale del Cnl, che si tenne al teatro Piccinni a Bari, il 28 e 29 gennaio del 1944, e che fu determinante per la posizione assunta da Benedetto Croce nella nascita della Repubblica e nel porre le premesse per l’abdicazione del re. Cifarelli promosse anche la rinascita degli studi meridionalistici che durante il fascismo erano stati completamente posti da parte. In quegli anni fiorirono iniziative culturali e politiche: a Bari Vittore Fiore, figlio di Tommaso, fondò Il Nuovo Risorgimento, settimanale di dibattito e di inchieste, che dovrebbe essere riscoperto e analizzato in quanto dette un vivace impulso alle idee e alle proposte azioniste. Il romanzo di Carlo Levi Svolsero un ruolo importante nell’attività culturale e politica dell’azionismo il grande critico letterario e studioso Carlo Muscetta e, dopo l’uscita del suo famoso romanzo Cristo si è fermato a Eboli, naturalmente Carlo Levi. Nel suo libro su Roma, L’Orologio, Levi traccia un vivace ritratto di Muscetta, giornalista a L’Italia libera. Com’è stato ricordato nel convegno del 2005, promosso ad Avellino dal Centro Dorso, che ha rievocato la multiforme attività di intellettuale, critico, poeta, organizzatore editoriale di Muscetta, questi fu uno dei principali redattori de L’Italia libera clandestina, a Roma condivise il carcere con Leone Ginzburg e, dopo il 1944, aderì a una visione della questione meridionale così come era stata concepita da Dorso e Gramsci. Egli considerò sempre Dorso un suo maestro anche se, sotto l’influenza del pensiero di Gramsci, nel 1947 aderì al Partito comunista. Il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi può considerarsi un aspetto della cultura azionista nel Mezzogiorno perché, al di fuori degli schemi della ideologia comunista e della egemonia clericale democristiana, apriva una grande finestra sul mondo contadino e sulla meschinità della borghesia dei paesi del Sud, i «galantuomini». Carlo Levi partecipò alle elezioni del 1946 per la Costituente nella lista presentata a Potenza dal Movimento democratico repubblicano costituito da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa dopo la scissione del Partito d’Azione avvenuta nel Congresso svoltosi a Roma nel 1946 e che non dipese, come si è sostenuto, dal dissidio fra Lussu e La Malfa. La scoperta del mondo contadino Importantissimo è il ruolo che nella cultura politica azionista nel Mezzogiorno ha ricoperto Manlio Rossi Doria, con cui ho avuto stretti legami. Sto rievocando tempi lontani, ma le motivazioni che ci guidarono allora sono ancora valide. Oltre a Rossi Doria e Levi, nella lista che si presentò alle elezioni per la Costituente, erano presenti Guido Dorso, Alberto Cianca e Vincenzo Calace. Ricordo che a piazza Sedile, a Potenza, esposi a un balcone la bandiera del Partito d’Azione prima del comizio che Rossi Doria tenne a conclusione della campagna per il referendum: un comizio travolgente che convinse anche molti contadini a votare per la Repubblica. Rossi Doria, grande economista agrario, aveva un rapporto umano, e non da tecnico, con i contadini, e lo dimostrò proprio attraverso la riforma agraria 20 Memorie che egli diresse in Calabria e Lucania, quando doveva stabilire la divisione dei poderi da assegnare. Seguendolo in questa sua attività, potei scoprire il complesso rapporto con il mondo contadino di cui rispettava l’autonomia. Condivideva con Carlo Levi il suo affetto per Scotellaro: lo chiamò, infatti, all’istituto agrario di Portici, che egli dirigeva, dandogli l’incarico di scrivere il libro Contadini del Sud, il primo libro di sociologia letteraria in Italia. Rossi Doria, in seguito, arricchì la concezione meridionalista della rivista Nord e Sud di Francesco Compagna, con le sue analisi sulla questione meridionale. La battaglia per il Mezzogiorno C’è stata una continuità del pensiero meridionalista di ispirazione azionista negli anni in cui si arrivò all’intervento straordinario e alla istituzione della Cassa del Mezzogiorno, che fu difesa sia contro le destre, che non volevano rompere gli equilibri della proprietà meridionale e del latifondo, sia contro Giorgio Amendola, che era decisamente contrario. Non si può non tener conto del contributo che venne da Ugo La Malfa, già dal 1949, nel dibattito sulla questione meridionale. Egli lanciò uno dei primi appelli affinché lo Stato si impegnasse direttamente nel Sud, cosa che aveva affermato al congresso del Partito Repubblicano del 1948 a Napoli. La Malfa, che in quel partito aveva portato le idee e la visione del Partito d’Azione, aveva sostenuto, anche sulla base del rapporto dell’economista Pasquale Saraceno, la necessità Aldo Garosci, Giovanni Russo e il pittore Mino Maccari di un intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno, idea che già era stata di Giovanni Amendola, secondo cui il problema della depressione meridionale è un problema di interesse italiano. Nell’agosto del 1949, nell’articolo Le due Italie, pubblicato ne Il Mondo, aveva ribadito questo appello. Quando nel 1954 Francesco Compagna fondò la rivista Nord e Sud Ugo La Malfa e lo storico Rosario Romeo sostennero le posizioni di un meridionalismo democratico, in polemica con le tesi del Partito comunista che erano espresse dalla rivista Cronache meridionali ispirata da Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte. Negli anni ‘50 e ‘60 la rivista Nord e Sud è stata quindi il laboratorio culturale più importante della politica dell’intervento straordinario nel Sud, alla quale hanno collaborato Renato Giordano, Vittorio De Caprariis, Giuseppe Galasso, Guido Macera e Giuseppe Ciranna: vennero indicati i mali che ancora oggi caratterizzano il nostro paese, il pan sindacalismo e il pan regionalismo, fu sottolineata la necessità di legare il Mezzogiorno all’Europa. Il pensiero meridionalista di ispirazione lamalfiana, che fu poi, come si è detto, ereditato da Nord e Sud, fu alla base della polemica con i comunisti, che si erano opposti all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno e anche all’intervento straordinario. Questa opposizione fu espressa da Giorgio Amendola il 20 giugno 1950 nel discorso alla Camera dei Deputati sulla legge istitutiva della cassa per il Mezzogiorno e, per 30 anni, fu la posizione dei comunisti. Al contrario la rivista Nord e Sud aveva un ancoraggio europeista e Compagna lo illustrò in un suo libro intitolato Mezzogiorno d’Europa. Le firme del Mondo Giorgio Amendola con Russo 21 Memorie Il settimanale Il Mondo, fondato nel 1949 da Mario Pannunzio, raccolse sulle sue pagine personalità, anche di idee e temperamenti diversi, della tradizione liberale, a cominciare da Benedetto Croce, e della tradizione azionista come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Alessandro Galante Garrone, Manlio Rossi Doria e Ugo La Malfa, quindi liberali, crociani, salveminiani, ex azionisti, ai quali si aggiunsero poi Vittorio De Caprariis, Rosario Romeo, Francesco Compagna e Alberto Ronchey. Il Mondo eredita, proprio attraverso gli scritti di Compagna e di Rossi Doria, e con le inchieste sul Mezzogiorno e sui contadini compiute anche da me insieme ad altri giornalisti, come Andrea Rapisarda, molta parte del pensiero meridionalista del Partito d’Azione. Bisogna dire che saranno proprio Compagna, De Caprariis, Macera e Giordano a indurre Pannunzio a inserire nelle pagine de Il Mondo, in maniera sempre più ampia, la questione meridionale. Ma capofila è Ugo La Malfa che, come scrive Francesco Erbani, fissa «i passaggi di un nuovo manifesto meridionalista» nell’editoriale Finanze e Mezzogiorno pubblicato nel luglio 1949 proprio nel Mondo. Al settimanale di Pannunzio collaborano tra il 1949 e il 1966 alcuni tra i più noti studiosi e giornalisti che si occupano di Mezzogiorno, quali Nello Ajello, Giovanni Cervigni, Mario Dilio, Vittorio Fiore, Riccardo Musatti, Andrea Rapisarda, Atanasio Mozzillo, Leonardo Sacco e non vorrei averne dimenticati altri. Il Mondo promuoverà poi la campagna contro il laurismo, di cui fu un protagonista l’azionista Guido Macera, allievo di Dorso, e soprattutto Vittorio De Caprariis, che, pur non essendo uno specialista, svolse un ruolo importante in questa polemica. Raffinato studioso del Cinquecento e del Seicento e di Tocqueville, nel Mondo approfondisce l’esame dei temi politici riguardanti la democrazia italiana e, in particolare, le condizioni del Mezzogiorno. Sulle pagine del settimanale si sviluppa così un ampio dibattito. Sia sulla riforma agraria, nel confronto tra le posizioni di Rossi Doria, che ne fu artefice e difensore, e quelle di Carandini, che invece fu fieramente avverso, sia sull’intervento straordinario, dibattito che prelude alla nascita, a livello nazionale, del governo di centro sinistra e che riguarderà anche il tema dell’industrializzazione del Mezzogiorno. NEL CENTENARIO DELLA NASCITA Joyce Lussu. Passione civile e antifascismo militante di Maurizio Orrù A cent’anni dalla nascita vogliamo ricordare Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, universalmente conosciuta con il nome di Joyce Lussu, straordinario esempio di impegno civile e politico, antesignana delle battaglie femministe, fondatrice dell’Udi, sostenitrice dei diritti civili delle popolazioni aborigene e curde, sempre in primo piano nella lotta per la pace e nell’antifascismo militante. È stata, secondo l’unanime parere del mondo culturale e politico a lei contemporaneo, una donna di finissima sensibilità umana e di solidissima cultura, come dimostrano le tante opere pubblicate: Liriche (1939), Portrait (1988), Il libro delle streghe (1990), Sguardi sul domani (1996), Padre, Padrone e Padreterno (2009) e saggi sull’avanguardia africana e sul poeta turco Nazim Hikmet. Joyce amava la critica, il dubbio intellettuale, il confronto teorico, ma poi si lasciava catturare dalla poesia e i suoi versi così particolari, quasi il ritratto di un’anima, hanno conquistato molti lettori. La forte personalità di Joyce Lussu è stata oggetto, nel corso del tempo, di numerose interpretazioni e valutazioni. Scrive Nello Ayello, giornalista e scrittore: «Fra le donne che lottarono contro il fascismo a Joyce Lussu va riconosciuto un posto privilegiato e originale. Joyce ha sempre posseduto un’irresistibile forza vitale e rara predisposizione all’autoironia. Il quesito se coraggio e senso dell’umorismo possano combinarsi senza stridori riceve, nel suo caso, una risposta affermativa. Forse la leggenda più irrepetibile della scrittrice rimane la sua biografia, vissuta accanto a un patriota che si chiama Emilio Lussu, peregrinando avventurosamente tra fronti e frontiere». Proprio così, Joyce è stata la compagna tenace e coraggiosa, solidale e generosa, di uno dei padri dell’antifascismo. Nel 1938 Joyce incontrava clandestinamente quell’Emilio Lussu, conosciuto con il nome di battaglia di Mr. Mill, fondatore del Partito Sardo d’Azione e del Movimento Giustizia e Libertà, e l’intesa intellettuale e politica sfociava in un rapporto sentimentale saldissimo che ha attraversato prove e burrasche senza mai appannarsi. I due si sposarono e vissero a Parigi fino all’estate del 1940, quando la città veniva militarmente occupata dalle truppe germaniche. Allora i coniugi Lussu spostavano la loro residenza a Marsiglia, dove dettero impulso a un’organizzazione di espatrio clandestino la quale riusciva a concertare le partenze di numerosi antifascisti di diverse nazionalità. Moglie e marito si distinsero per saper inquadrare le ragioni dell’antifascismo italiano e i suoi obiettivi nella più ampia cornice politica mondiale. Mai il loro punto di vista fu angusto e provinciale. Trasferivano la loro residenza in Portogallo e in Inghilterra, dove lei, con una buona dose di anticonformismo vero e non di maniera, era impegnata in un corso di addestramento alla guerriglia in un campo militare. La Lussu è stata davvero una personalità che ha precorso i tempi, dando prova nei fatti della concreta Joyce Lussu in un ritratto giovanile 22 parità tra i sessi. Rientrata in Italia nel luglio 1943, dopo l’arresto di Mussolini, partecipava attivamente alla Resistenza, in qualità di staffetta, compiendo numerose e delicate azioni: il suo eroismo veniva premiato con la medaglia d’argento al valor militare. Joyce Lussu ha narrato le sue rischiose esperienze di vita partigiana in un testo dal titolo Fronti e frontiere, un classico per chiarezza e completezza storiografica. Cittadina del mondo, ha portato il suo personale contributo nei paesi colonizzati, contro la guerra, nell’ottica della pace universale. Scrive nel libro Lotte, ricordi e altro: «Occorre delegittimare la guerra e quindi disattivare gli orrendi arsenali Memorie sparsi in tutto il mondo, riconvertendo le industrie belliche, anche se ciò non sarà un piccolo problema; sostituire agli eserciti nazionali e nazionalisti con formazioni internazionali senza insegne corporative e fornite di armi esclusivamente difensive che escludano quelle nucleari, chimiche e batteriologiche». Anche questa era Joyce Lussu, la quale ha avuto un particolare amore (ricambiato) nei confronti della “sua” Sardegna. Joyce negli ultimi anni della sua vita impegnava tutte le sue energie intellettuali nella formazione delle nuove generazioni, attraverso lezioni e seminari di studio su percorsi di poesia, storia e progettualità sociale. È stata una delle fondatrici e dirigente regionale sarda dell’ISSRA (Istituto sardo per lo studio della Resistenza e dell’Autonomia). Per ricordare questa protagonista così vitale, forte e curiosa della vita, anticipatrice, nelle scelte, dei principali movimenti femminili del secondo Novecento (morì a Roma a 86 anni il 4 novembre 1998) consigliamo una tappa al Museo storico di Armungia, che attraverso un particolare percorso fotografico e multimediale consente di ricostruire la vita difficile, ma intensa e bellissima dei coniugi Lussu. Teodoro Bigi il 5 luglio aveva compiuto 100 anni, il 22 è venuto a mancare Parlando con mio padre Per ricordarlo pubblichiamo una conversazione del 1986 avuta col figlio Diego di Diego Bigi I l 25 luglio 1943 Benito Mussolini viene messo in minoranza al Gran Consiglio del fascismo. Dopo poche ore è arrestato per ordine del re. Nuovo capo del Governo è nominato il Generale Pietro Badoglio dallo stesso re Vittorio Emanuele III. Quel giorno mi trovavo richiamato militare a Latisana (Udine) al 26° deposito fanteria. In tutto il paese e anche lì si svolsero manifestazioni di strada per la gioia della caduta del fascismo, inneggiando alla pace e alla libertà. Vi presi parte anch’io, organizzando la partecipazione di altri soldati. In caserma, per la mia attività antifascista, i dirigenti volevano evitare ogni contatto tra me e il resto dei soldati e per questo ero esentato da tutti i servizi. In conseguenza della caduta di Mussolini e delle nuove decisioni del Governo Badoglio fui reintegrato in tutte le attività. Ben presto però le speranze suscitate dagli avvenimenti di quelle ore si rivelarono delle illusioni. Fu emanato il proclama “La guerra continua” a fianco dell’alleato tedesco, in altre parole della Germania nazista. I tedeschi si rivelarono sempre più come occupanti. Mio padre si sofferma a pensare per una domanda che io gli faccio e poi riprende a parlare. 23 Memorie Teodoro Bigi in una foto recente. Per lunghi anni è stato dirigente della Federazione di Parma, poi nella Presidenza onoraria dell’Anppia Il 27 Luglio 1943 un ufficiale Colonnello raduna tutti i soldati per rivolgere loro un discorso in cui dichiara che la guerra continua a fianco del vecchio alleato, la Germania di Hitler. Aggiunge inoltre che in Italia ci sono pericoli di disordini, poiché vi è chi chiede la fine della guerra e la pace, specificando che deve essere compito di noi soldati assicurare l’ordine pubblico in caso di manifestazioni di protesta per chiedere la fine della guerra. Dichiara poi che se sarà richiesto noi soldati dovremo sparare contro i manifestanti. Appena l’ufficiale si allontana, terminato il discorso, decido di prendere io la parola. Salto in piedi sopra un tavolo e chiedo ai soldati di ascoltarmi. Tutti rimangono ad ascoltare. Quello era il mio primo discorso politico pubblico ed avveniva in una situazione davvero drammatica. “Non sono d’accordo”, inizio a dire, “con quello che ha detto il Colonnello. Ha affermato che la guerra continua a fianco dei tedeschi e che il nostro compito è di tenere l’ordine rispettando gli ordini dei comandi superiori, anche a costo di sparare contro la gente inerme. Al contrario dobbiamo anche noi chiedere la fine della guerra e solidarizzare con i manifestanti che la chiedono. Se ci ordinano di sparare contro i manifestanti per tenere l’ordine noi non lo faremo, perché sono la nostra gente, tra loro ci sono i nostri genitori, i nostri fratelli e le nostre sorelle. Se costretti spareremo piuttosto contro chi ci ordina di sparare e ci uniremo ai manifestanti per la pace. Il nostro compito oggi è quello di impedire che altri militari tedeschi entrino in Italia, di disarmare i tedeschi che sono nel nostro paese e richiamare in patria i nostri soldati all’estero. Occorre mettere l’Italia in condizione di combattere a fianco degli Alleati anti-tedeschi per porre termine più rapidamente possibile alla guerra con la sconfitta del nazismo, liberando il nostro Paese dall’invasore tedesco e portare la pace in Europa e nel mondo”. Se i comandi militari e il Governo avessero deciso quello che io indicavo come via da seguire, si sarebbe evitato il disastro dell’8 Settembre Pisticci, 1939. Un gruppo di confinati nella colonia materana. Bigi è quello in ginocchio col gatto in braccio 1943, che segnò la disfatta del nostro esercito, e gli eccidi di militari e civili che ne seguirono, come quello di Cefalonia dove i tedeschi uccisero migliaia di soldati italiani e come quelli di Marzabotto e S. Anna di Stazzema e tanti altri, dove trucidarono centinaia di vecchi, donne e bambini, inclusi neonati». Dopo una pausa mio padre riprende a raccontare. L’impressione tra i soldati fu forte, era la ribellione che stava prendendo corpo. Di questo furono ben coscienti le autorità militari della caserma. Il giorno dopo fui arrestato per questo discorso fatto ai soldati e in attesa di processo fui trasferito in Via Tigor, così si chiamava, al carcere militare di Trieste. I 45 giorni del Governo Badoglio li trascorsi qui. Badoglio nei primi giorni del settembre 1943 firma l’armistizio con gli inglesi e gli americani. Alla sera del famoso 8 settembre lesse alla radio un breve proclama in cui era reso pubblico tale fatto. In esso non si invitava alla lotta per la cacciata dell’esercito tedesco, ma si concludeva con un semplice “Esse (le Forze Italiane) però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Da quel momento l’esercito italiano fu abbandonato a se stesso e le truppe tedesche ebbero tutto il tempo di fronteggiare la nuova situazione e di occupare sistematicamente l’Italia. Nelle ore successive i soldati italiani furono disarmati e catturati. La stessa cosa avvenne a Trieste. Una donna ebbe la possibilità di lanciare all’interno del cortile del carcere un biglietto in cui avvertiva i carcerati militari della necessità di fuggire: “Fuggite, i tedeschi stanno occupando Trieste”. In una situazione di completo disordine io e gli altri carcerati riuscimmo a fuggire prima che i 24 militari tedeschi prendessero possesso dell’edificio carcerario. Il nostro primo tentativo di fuga fu impedito dalle truppe italiane che ancora comandavano nella zona. Il giorno dopo queste non c’erano più e le guardie carcerarie fuggirono anch’esse. In carcere ho conosciuto un soldato che era lontano parente di Giovanni Roveda, il noto antifascista con cui avevo condiviso il confino all’isola di Ventotene. Il mio passato di antifascista, amico di Roveda mi aveva fatto conquistare la sua stima. Al momento della fuga dal carcere quel soldato mi aiutò conducendomi da suoi conoscenti a Trieste. Questi ci accolsero, nonostante il rischio che correvano, ci fecero lavare, ci diedero abiti civili che erano indispensabili per uscire in strada ed anche un aiuto economico per far fronte alle spese di viaggio. Dopo aver pernottato ci mettemmo in cammino per la stazione alla ricerca di un treno per poter tornare a casa. Come un cittadino qualsiasi riuscii a prendere il treno. Arrivato a Bologna dovetti cambiare convoglio. Mentre raggiungevo il nuovo punto di partenza vidi che i soldati tedeschi arrestavano tutti quelli che erano in divisa e io non fui fermato. Durante il viaggio un ferroviere avvertì i militari presenti o presunti tali, che la stazione di Reggio Emilia era occupata dai tedeschi e che procedevano all’arresto di tutti i soldati italiani e di quelli sospetti di esserlo. Per sfuggire ad ogni controllo di identificazione scesi a Rubiera, un paesino a pochi chilometri da Reggio Emilia. Attraversando i campi raggiunsi la mia abitazione a Pratofontana. Come figlio primogenito di militare morto nella prima guerra mondiale, mio padre aveva diritto all’esonero dal servizio militare. Però, come lui mi racconta, fui richiamato nel 1935. In quel periodo però mi trovavo in carcere a Reggio Emilia. Ero stato arrestato per propaganda contro la guerra di Africa e dovevo venire giudicato dalla Commissione Provinciale. Venni condannato a 5 anni di confino. Siccome ero stato richiamato la pena venne sospesa e fui inviato alla 1a Compagnia di disciplina militare ed assegnato ad un reparto speciale di antifascisti a Pizzighettone (Cremona). L’intento era quello di prepararci militarmente e di farci poi combattere per Memorie il fascismo. Noi perseguitati politici antifascisti facemmo di tutto affinché il reparto non adempisse ai compiti per il quale era stato costituito. Si cominciò subito ad organizzare la protesta contro la disciplina che si voleva imporre al reparto. Venne organizzato un tentativo di fuga per andare a combattere in Spagna contro i fascisti e per la Repubblica. Però il gruppo che fuggì, per delazione di una guida che doveva portarli oltre confine, venne arrestato. Si trattava di Didimo Ferrari di Reggio Emilia, il futuro partigiano Eros, Mazzetti di Bologna e l’avvocato Boretti di Milano. Dopo quel tentativo di fuga la località venne ritenuta non più sicura e il reparto fu trasferito all’isola d’Elba. Io nel frattempo avevo trascorso i miei tre mesi di addestramento e fui inviato al confine nell’isola di Ventotene. All’isola d’Elba vi fu una nuova fuga ed alcuni raggiunsero la Spagna. Tra questi l’avvocato Boretti di Milano, morto poi sul fronte spagnolo e Mazzetti di Bologna. Per l’azione di noi perseguitati antifascisti il regime fu costretto a prendere la decisione di sciogliere il reparto. Brevi note biografiche Teodoro Bigi nasce a Villa Prato Fontana nel 1912. Già dal 1929 inizia l’attività clandestina antifascista e nel ’31 si iscrive al Partito comunista. Ammonito nel 1933; arrestato nell’agosto 1935 per discorsi contrari alla preparazione della guerra d’Abissinia è confinato a Ventotene per 5 anni, ridotti a 3 in appello. A fine pena è riassegnato al confino per 3 anni (Pisticci) perché dimostra di essere “irriducibile avversario del regime”. Nel 1940 è condannato a 6 mesi di carcere (Matera) per contravvenzione agli obblighi confinari. Liberato nel dicembre 1940, è richiamato alle armi e costantemente vigilato fino alla caduta del fascismo (da Quaderni dell’Anppia n. 3 - Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, 1989) 25 Noi Dal convegno bolognese dell’ANPPIA la vigilanza democratica Una Poesia La poesia di una bambina scritta nell’ormai lontano 1979 è uscita da un cassetto di ricordi della sua allora insegnante di V Elementare della Scuola “Vittorio Veneto” di Roma. Insieme a temi di tutti i bambini, a disegni ed anche a brevi fumetti partecipò ad un concorso sulla “Resistenza” indetto dall’”Associazione Nazionale Partigiani”, “Sezione S. Lorenzo– Tiburtino” vincendo il 1° Premio – una targa dorata. A noi è sembrata meritevole di pubblicazione per due motivi: il primo, quello di costituire un esempio della capacità delle giovani generazioni di saper apprendere gli episodi del nostro passato, di saperli valutare e di trovare in essi la “forza” e il “coraggio” di “lottare” per vecchi e nuovi ideali; il secondo, il meritato compenso ad un formatore che ha saputo svolgere con capacità, passione ed onestà di intenti il proprio dovere. (M.T) Contrastare la risorgenza dell’estremismo di destra Uno stimolante confronto di idee dai contributi di Andrea Mammone, Nicola Tranfaglia, Guido Albertelli Dal neofascismo post-bellico, alla strategia della tensione, agli attuali episodi di violenza nera una linea conseguente Responsabilità del periodo berlusconiano di Massimo Meliconi* Partigiano La vita non aveva prezzo per loro, appunto si sacrificavano, appunto combattevano. Ma nelle loro vene scorreva sangue glorioso. E combattevano ovunque, sulle montagne, nei paesi, nelle città, sulla neve, ovunque splende ora il bel sole d’Italia. Nei loro cuori Non regnava paura Come nei nostri oggi, ma amore, ma coraggio, ma forza di lottare, perché avevano un ideale: fare la Patria libera. Rosalba Dastoli 1972, classe Vc, Scuola “Vittorio Veneto”, Roma (Insegnante Loguercio Maria Anna) 14 settembre 2012. A Isernia, Molise, i neofascisti di Casa Pound sono stati contestati da sette attivisti antifascisti che hanno avuto l’ardire di cantare “Bella Ciao”. Il tribunale ha ordinato una settimana di carcere. Si tratta della stessa Procura che aveva archiviato gli esposti sul movimento Fascismo e Libertà, ennesima vergogna tutta italiana L’ANPPIA di Bologna ha organizzato il 21 di giugno scorso nella Cappella Farnese di Palazzo d’Accursio, residenza del Comune, un convegno sulle nuove destre europee, con particolare riferimento ai temi del nazionalismo e del populismo. Gli interventi del prof. Andrea Mammone, docente nella Kingston University di Londra, del prof. Nicola Tranfaglia professore emerito di Storia dell’Europa e del Giornalismo dell’Università di Torino, e del Presidente nazionale dell’Anppia Guido Albertelli sono stati puntuali e precisi, e hanno alimentato un dibattito partecipato ed interessante. Alcune notizie più recenti, come la richiesta di un consigliere Pdl di Gualtieri (Reggio Emilia) di intitolare la scuola elementare della cittadina a Benito Mussolini (il pretesto: lì aveva insegnato come maestro elementare il futuro capo del fascismo dal 1900 al 1904) e la “punizione” somministrata a Viterbo dal capo di Casa Pound in persona a un “traditore”, reo di essere un collaboratore del presidente Gianfranco Fini, riportano l’attenzione sul tema del convegno. C’è un problema di presenza della destra estrema, (la seconda notizia), ma anche un problema di memoria (la prima notizia). I due piani sono evidentemente collegati fra loro: il revisionismo storico, ampiamente praticato e largamente pubblicizzato negli anni del governo Berlusconi, ha sicuramente aperto una strada al nuovo estremismo di destra, almeno dal punto di vista formale. Come si ricordava al convegno, l’Italia uscita dal dopoguerra (gli storici lì sostenevano che non è corretta la definizione di prima o seconda repubblica, visto che la Costituzione e le Istituzioni repubblicane sono sempre quelle) ha avuto il più forte partito neofascista dell’Europa occidentale, l’Msi di Giorgio Almirante. Questo partito è stato un modello per tutte le destre europee, mentre in Italia era teoricamente emarginato dalla vita politica e parlamentare (anche se sappiamo benissimo che veniva usato da altre forze per scopi tutt’altro che trasparenti). Berlusconi ha riunito tutte le destre italiane e sdoganato l’allora ortodosso “camerata” Fini, (dichiarazioni del Cavaliere il 23 novembre del 1993 a Casalecchio di Reno), e questo è stato uno degli elementi che gli ha permesso di governare per 11 degli ultimi 18 anni. Da allora, anche mediaticamente, è caduto un tabù: si può esplicitamente parlare in maniera positiva (a volte cantarne le glorie) del fascismo, e il dichiararsi fascisti non è più un problema. Che poi nascano e crescano movimenti come Casa Pound o Forza Nuova non può destare molto meraviglia. Può darsi che nell’Italia dei vecchi partiti che ora non ci sono più ci fosse una certa dose di ipocrisia sul Msi, che settori deviati dello Stato proteggessero o addirittura alimentassero i neofascisti (i sevizi segreti) con tutto quello che ne è conseguito (quella che fu definita la “strategia della tensione” e il suo portato di orrende stragi come quella del 2 Agosto 1980 a Bologna), certo è che per noi antifascisti oggi assistere alla aperta rivalutazione del famigerato ventennio e di tutte le sue conseguenti eredità politiche, 26 alla nascita di movimenti e associazioni che si richiamano dichiaratamente e orgogliosamente a quel funesto passato è uno schiaffo impossibile da assorbire. La forma, come spesso capita, è diventata sostanza. Quanto peso poi potranno avere queste organizzazioni nell’immediato futuro del nostro paese è difficile da dire; siamo nel pieno di una terribile crisi economica mondiale, tutti gli economisti paragonano questo momento alla grande crisi del 1929, che ebbe fra le sue conseguenze politiche l’ascesa al potere in Germania del nazismo e infine la guerra più devastante che l’umanità abbia conosciuto, il secondo conflitto mondiale. Non si vogliono qui fare parallelismi sciocchi e inconsistenti fra ora e allora, visto che noi siamo nel pieno della tempesta economica e nessuno sa a tutt’oggi come andrà a finire. Credo però che sia corretto dire che bisogna comunque mantenere alto il livello di vigilanza rispetto a questi fenomeni. In Europa, in recenti elezioni in vari stati, la destra più becera e razzista ha avuto consensi ed è presente nei parlamenti nazionali. Ciò è accaduto in Olanda, Francia, Grecia, per non parlare dell’Ungheria, dove addirittura i nazionalisti magiari sono al potere. Sono aspetti che gli studiosi unanimemente giudicano attualmente marginali nel grande scacchiere europeo e, francamente, non ci si può che augurare che sia così. Tuttavia, anche e soprattutto in un contesto di gravissima crisi economica, il presidio democratico risulta fondamentale, in Italia come in Europa. Se da un lato è sicuramente sbagliato ingigantire questi fenomeni, è un imperdonabile errore minimizzare e sottovalutare. In particolare nel nostro Paese, per troppo tempo si è fatto scempio della memoria storica, del percorso che ci ha portato alla libertà repubblicana, dell’antifascismo, della Resistenza e del documento che è l’espressione principale della nostra democrazia, la Carta Costituzionale. Qualche effetto, purtroppo, come abbiamo visto, c’e stato. Continuare a difendere questi valori e contrastare la risorgenza di forze neofasciste è e continuerà ad essere il nostro compito. *Presidente dell’ANPPIA di Bologna Noi 27 Noi DA ROMA Ciao Ego! Il 16 settembre 2012 si è spento a Roma Ego Spartaco Meta, antifascista e uomo politico nazionale nato a Pratola Peligna (AQ) il 27 giugno 1924. Secondogenito del sindacalista e dirigente anarchico Luigi (1883-1943, attivo per quarant’anni nelle lotte anticapitaliste e rivoluzionarie in Italia, Francia e Stati Uniti), a 13 anni è costretto a lasciare la scuola per mancanza di mezzi economici, essendo la sua famiglia precipitata nell’indigenza a causa delle persecuzioni fasciste e del forzato esilio del padre (1937). Si arrangia prima come scrivano, poi come contabile. Gli insegnamenti paterni e l’ingiustizia subita da lui e dalla famiglia, angariata dai fascisti con pedante continuità, lo spingono giovanissimo ad abbracciare le idee di un ardente antifascismo che non abbandonerà mai. In questi anni di dittatura, oscurantismo e barbarie trova nella figura di Rocco Santacroce (antifascista della prima ora, poi partigiano nelle squadre del Partito d’Azione) un solido punto di riferimento morale e politico. Nella guerra di Resistenza e Liberazione Ego è attivo patriota nelle formazioni del Partito d’Azione, organizzazione politica nella quale milita fino al suo scioglimento (1947). Dal 1950 è nel Ego Spartaco Meta per lunghi anni Presidente del Psdi, dove arriva a far parte del Comi- nostro Collegio sindacale tato centrale. Ventiduenne approda a Roma, lavorando ed impegnandosi socialmente in un campo profughi. Faticosamente riprende gli studi interrotti, concludendoli con un diploma, ricostruendo così anche la sua posizione sociale ed una sua vita personale. Si sposa ed ha due figli. La passione sociale ereditata dal padre e la dura scuola dell’antifascismo non l’abbandonano e lo spingono all’impegno politico, che non gli consente di completare gli studi universitari (Economia e Commercio, poi Scienze Amministrative, nella cui disciplina gli viene conferita una laurea honoris causa). Ha lavorato nello Stato fino al 1976. Dal 1964 è distaccato dal ministero dell’Interno a quello degli Esteri (con Saragat) e poi alla Marina Mercantile (per due volte), al Turismo e Spettacolo, all’Onu (due volte), ai Beni Culturali come Capo della segreteria particolare del ministro Lupis. Commissario dell’Atac di Roma dal 1961, dal 1971 al 1981 è Consigliere comunale della Capitale e per due volte Assessore. Membro di Accademie e di Commissioni giudicatrici (a volte come Presidente), nonché delle Commissioni nazionali statali per le onoranze a Guglielmo Marconi nel centenario della nascita e di quella per la revisione del trattamento economico e giuridico dei segretari comunali e provinciali. In questi anni ha sempre avuto vivida la memoria del padre, di cui è stato orgoglioso testimone delle idee e dell’insegnamento, e non ha mai abbandonato il suo volontario impegno sociale in cooperative, enti morali ed associazioni al fianco dei più deboli e dei giovani. Coerente e coraggioso avversario del neoliberismo e del pensiero unico oggi imperante («sono nato sotto Mussolini e non voglio morire sotto Berlusconi!», ripeteva), ha vissuto con dolore e amarezza la “conversione” al capitalismo e la sottomissione all’ideologia mercatista della “sinistra” parlamentare italiana. Non ha mai smesso di partecipare alla vita di quelle organizzazioni (Anpi e Anppia) che continuano a tenere accesi nella società italiana i valori etici e politici della Resistenza e dell’impegno per la lotta all’ingiustizia sociale. Con spirito democratico, libertario e fieramente anticlericale ha anche seguito e sostenuto le iniziative editoriali e le attività promosse dal Centro studi libertari “Camillo Di Sciullo” (Chieti) e dal Centro studi e ricerche “Carlo Tresca” (Sulmona). a cura del Centro studi libertario “Camillo Di Sciullo” DA PISA Il 5 settembre 1938 a San Rossore la firma delle leggi razziali «Un atto ignobile che vogliamo ricordare» ha detto il Sindaco di Pisa. Ricordare l’infamia come monito per le generazioni future. Per questo a Pisa ogni 5 settembre si commemorano le vittime della persecuzione fascista degli ebrei e di quei cittadini che fin dal 1922 combatterono il fascismo. 74 anni fa il sovrano Vittorio Emanuele III firmava nella sua residenza di San Rossore i primi decreti razziali che diedero il via anche in Italia alla persecuzione degli ebrei da parte del regime fascista. I provvedimenti antisemiti vietavano agli ebrei di lavorare per gli enti pubblici, comprese scuole e università ma anche banche e assicurazione, di fare i notai e i giornalisti. I ragazzi dovevano andare in scuole separate. Tra i più fervidi sostenitori delle leggi razziali il pisano Guido Buffarini Guidi, già sottosegretario agli Interni del governo fascista dal 1933 al 1943 e poi ministro dell’Intero della repubblica sociale di Mussolini. Anche quest’anno a San Rossore, presso la lapide posta dove un tempo sorgeva un edificio nelle cui stanze nel 1938 furono firmate le leggi razziali, si è svolta la cerimonia di commemorazione del drammatico avvenimento. Alla rievocazione erano presenti con le loro testimonianze il Direttore della Scuola Normale Superiore Fabio Beltram; Guido Cava presidente della Comunità ebraica di Pisa; Massimo Fornaciari dell’Aned; Sergio Castelli dell’Anppia; Giorgio Vecchiani dell’Anpi e le autorità civili e militari cittadine. «Un tragico evento, un atto ignobile che ogni anno vogliamo ricordare – ha detto il Sindaco di Pisa Marco Filippeschi –. Con la solennità istituita dal Comune per rinnovare, il 5 settembre di ogni anno, la memoria di quel giorno infausto del 1938 in cui furono firmati, in San Rossore, i regi decreti che promulgavano la legislazione per la difesa della razza, abbiamo inteso stabilire un momento permanente per costruire una memoria condivisa della nostra storia recente, per dare ai giovani un messaggio importante contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione. «Un tragico evento, un atto ignobile che ogni anno vogliamo ricordare – ha continuato il Sindaco – Ricordando sentiamo di poter dare un contributo alla memoria di quello che questa firma ha comportato arrivando fino alle estreme conseguenze del genocidio e dell’Olocausto. Le leggi razziali mettono in atto una discriminazione crudele che arriva da una lontana storia e giunge fino ai giorni nostri. Non dobbiamo infatti distogliere l’attenzione dalle odierne forme di razzismo e discriminazione. Sono passati 20 anni dall’inizio della guerra nella ex – Jugoslavia e dalle stragi che essa ha comportato e tutt’oggi ci sono situazioni che ci devono preoccupare. Pisa, data la sua visibilità, ha una missione da assolvere: quella di portare, come sta facendo, la memoria degli eventi affinché anche i più giovani possano imparare da quel ricordo. Anche oggi, mantenendo l’impegno preso, lo facciamo con un programma ancora più ampio e articolato che è, insieme, di studio – con il contributo di autorevoli studiosi – e di riflessione culturale che vogliamo sia patrimonio di tutta la comunità, affinché prosperino i valori di libertà, democrazia e tolleranza che stanno alla base della nostra convivenza civile e che sono di grande attualità». Sono poi seguite le testimonianze del Direttore della Scuola Normale Superiore, che ha sottolineato l’importanza del laboratorio antifascista creatosi nella Scuola ad opera di alcuni suoi valenti studenti ed il valore scientifico dei docenti espulsi – insieme ai colleghi dell’Università pisana – in ragione delle leggi razziali, elenco di seguito; della Comunità ebraica che ha rievocato come la politica razziale non sia stato un episodio occasionale, e le sue rovine hanno travolto non i soli perseguitati, ma la vita intera del Paese; e dell’Aned che ha richiamato l’attenzione sulla dignità della persona, decoro totalmente oltraggiato nei campi di concentramento nazi-fascisti. Per parte sua l’Anppia ha ricordato quanto sia oggi importante essere antifascisti in un paese dove razzismo e omofobia rinnovano quotidianamente la loro malvagità e dove il dissenso politico non è ragione di confronto dialettico, bensì di aggressione fisica. «Oggi siamo qui per ricordare – ha detto Castelli – e per capire la capacità di mobilitazione da parte di tutte le istituzioni locali e da parte delle organizzazioni antifasciste a tutela dei valori scritti nella Costituzione della Repubblica italiana. È un ottimo sintomo di salute civica, di un fronte compatto che è pronto a scendere in campo perché non ci si abitui, non si alzino le spalle, non si minimizzi e si normalizzino gli sfregi ai simboli della Resistenza. Ovvero Tre momenti della commemorazione di San Rossore (Pisa). Nella foto qui sopra il direttore della Scuola Normale, Fabio Beltram, assiste all’intervento del nostro Sergio Castelli la messa in discussione delle nostre radici storiche, delle nostre identità territoriali. Di questa sollevazione unitaria, non possiamo che ringraziare sindaci, presidenti, rettori di università, dirigenti scolastici, forze armate, organi di stampa, singoli cittadini che solennizzano con noi questa giornata perché l’antifascismo non cada nell’oblio. È, altresì, rilevante trasformare tutti quei luoghi che furono di morte e sacrificio, in luoghi di vita e di socializzazione, e nessuno oserà più profanarli, perché saranno di tutti e per sempre.» È seguito l’intervento dell’Anpi, che ha rammentato alcuni episodi antisemiti consumati a Pisa dai fascisti. I docenti espulsi dall’Università di Pisa I docenti di ruolo erano cinque, quattro ordinari e uno straordinario, tutti arruolati in facoltà scientifiche: Enrico Emilio Franco, ordinario di anatomia patologica; Attilio Gentili, ordinario di clinica ostetrico-ginecologica; Giulio Racah, straordinario di fisica teorica; Ciro Ravenna, ordinario di chimica agraria e preside della facoltà di agraria; Cesare Sacerdoti, ordinario di patologia generale. Ad essi si aggiungevano la libera docente ed incaricata di entomologia agraria 28 Noi Enrica Calabresi; il libero docente ed incaricato di fisica tecnica Leonardo Cassuto, l’aiuto Bruno Paggi (patologia chirurgica), gli assistenti Giorgio Millul (clinica chirurgica), Piero De Cori (chimica generale), Naftoli Emdin (medicina legale), Aldo Lopez (clinica otorinolaringoiatrica), Renzo Toaff (clinica ostetricoginecologica) e i liberi docenti Aldo Bolaffi (patologia speciale chirurgica), Renzo Bolaffi (diritto civile), Salvatore De Benedetti (patologia clinica oculistica), Roberto Funaro (clinica pediatrica), Emanuele Hajon Mondolfo (patologia speciale medica), Raffaello Menasci (patologia speciale medica dimostrativa) e il lettore Paul Oskar Kristeller (lingua tedesca). una perdita complessiva di venti unità, pari al 5,3% dell’intero corpo docente dell’Ateneo. DA LIVORNO “MAI SMETTERE DI RICORDARE” Un progetto per i giovani che copre tutte le date significative dell’antifascismo “Si può continuare a sperare anche quando il mondo sembra impazzito, quando leggi ingiuste costringono a lasciare la scuola, gli amici, la casa e cercare rifugio in un nascondiglio segreto. Si può continuare a sperare perché si crede in se stessi, nella propria forza e nella propria pazienza, nel legame profondo che unisce la famiglia, perché si trova conforto nei libri, nella musica, nelle tradizioni del proprio popolo. Soprattutto, si può continuare a sperare perché esistono uomini e donne pronti a rischiare la vita per salvare quella di altri uomini e altre donne” (Dal libro di Erminia Dell’Oro “La casa segreta, la paura e il coraggio, la speranza di tornare a vivere”, ed. Bruno Mondadori). Chi ha vissuto personalmente le leggi razziali del 1938 ha provato “la paura e il coraggio, la speranza di tornare a vivere”; chi ha combattuto il fascismo e ha fatto la Resistenza si è battuto per i valori altissimi della democrazia contro quelli aberranti di nazismo e fascismo. Non ci si deve stancare di ricordarlo soprattutto ai giovani non solamente attraverso i testi scolastici, ma attraverso le testimonianze di chi ha vissuto ed è sopravvissuto a quel nefasto periodo: senza retorica, ma rendendo quei valori vivi e attuali con un coinvolgimento emotivo di chi racconta e di chi ascolta. L’Anppia di Livorno ha commemorato in questo modo “Il Giorno della Memoria”: mercoledì 8 febbraio alla Multisala Grande, nell’ambito del Progetto Mai smettere di ricordare (dalle leggi razziali alla fine del fascismo), oltre 300 studenti delle scuole medie cittadine hanno assistito al film “Vento di primavera” di Rose Bosch, una pellicola di memoria e per la memoria che racconta un episodio poco noto della storia del Novecento: il rastrellamento di ebrei francesi deportati nel Velodrome d’Hiver il 16 luglio del 1942, orchestrato dal collaborazionismo del governo di Vichy con Hitler. Il punto di vista che il film assume è quello di alcuni bambini che vivono nel quartiere di Montmartre e, in particolare, quello del decenne Joseph. Dopo la visione del film i ragazzi hanno incontrato Dino Molho, protagonista del libro “La casa segreta” e, con la mediazione del dottor Leonardo Moggi, regista e responsabile del Progetto “Lanterne magiche”, sono intervenuti rivolgendo domande sul film e sulla storia di Dino ed Esther Molho che, all’epoca delle persecuzioni razziali, erano due ragazzini ebrei spensierati, allegri, aperti al futuro e alle speranze della vita fino a che il fascismo e le leggi razziali tolsero loro ogni fondamentale diritto, anche quello della vita. Ed a giudicare dagli applausi degli alunni a Dino Molho e dalla partecipazione commossa al film, l’Anppia è sempre più convinta che tali iniziative siano quelle giuste per raggiungere la sensibilità dei giovani. Ma questa è stata solo la prima fase del lavoro: gli studenti hanno proseguito in classe la lettura del libro “La casa segreta” e, con i loro insegnanti si sono preparati per la giornata conclusiva che si è tenuta nell’ambito delle manifestazioni del 25 aprile, anniversario della Liberazione. Infatti, la mattina del 20 aprile, presso la Multisala Grande, c’è stata la consegna degli attestati di partecipazione alle classi, alla presenza di Dino Molho e di Erminia Dell’Oro, autrice del libro, e di altri testimoni dell’antifascismo quali Garibaldo Benifei - fondatore dell’Anppia a livello nazionale con Umberto Terracini e di cui oggi è Presidente a Livorno e Presidente Onorario nazionale - e Osmana Benetti staffetta partigiana, militante antifascista, oggi dirigente dell’Anppia. Si è trattato di un incontro-dibattito tra i ragazzi e i testimoni che si sono raccontati e hanno risposto alle domande di alunni e docenti. E poi il gran finale: la Banda di Corea è entrata nella sala del cinema e, con i suoi strumenti a fiato e percussioni, ha coinvolto i ragazzi e tutto il pubblico con emozioni che solo la musica sa dare. Così, cantando “Bella ciao” si è conclusa la manifestazione 29 Noi dedicata ai giovani. Nel pomeriggio, invece, l’evento è stato dedicato alla cittadinanza tutta. Così, alle 17,30 il pubblico livornese ha affollato lo spazio dibattiti della Libreria Gaia Scienza per ascoltare la storia di Dino Molho raccontata dallo stesso protagonista e dall’autrice del libro “La vita segreta”. È intervenuto Garibaldo Benifei, il cui impegno politico di militante antifascista dal ’31 fino ad oggi costituisce la testimonianza più significativa dei valori della democrazia, della giustizia, della libertà che la celebrazione del 25 Aprile vuole affermare. Ed infine ha preso la parola Paola Jarach Bedarida, rappresentante della Comunità Ebraica che, riprendendo il tema dell’incontro “Mai smettere di ricordare”, è andata oltre le nefandezze della Shoah per analizzare i recenti episodi di razzismo che ancora oggi dilagano in Europa e in tutto il mondo. Genny De Pas, Donatella Di Martino DA PISA Ha scritto la sua storia nel libro “Partigiana per amore” (Del Bucchia editore). Nella ricorrenza del 25 aprile, il giorno prima della scomparsa, era stata a Sant’Anna di Stazzema per glorificare le vittime dell’atrocità nazifascista, per celebrare la Festa di Liberazione e per testimoniare i valori della Resistenza, un impegno svolto per tutta la vita con grande dedizione e rispetto. Alla salma esposta nella sede dell’Anpi di Viareggio, gli antifascisti toscani, per tutto il giorno, hanno reso omaggio a Didala “Partigiana per amore”, come spesso amava definirsi. Tutto inizia nel 1936 – racconta Antonio Carollo –, lei, quindici anni, una fanciulla in fiore dai lunghi capelli ondulati, un viso dolce e intelligente, studentessa alle “Medee”, figlia di un marinaio imbarcato; lui, sedici anni, un robusto ragazzo occhialuto, gioviale e intraprendente, studente al Liceo Classico, figlio di un affermato avvocato. Facevano i giri più strani per potersi incontrare, all’uscita dalla scuola. Si rifugiavano in casa dell’amica Nereide Bertuccelli per stare insieme e fare quattro salti, sempre in compagnia del- le amiche di lei e del gruppo dei compagni di scuola di lui, Sergio Breschi, Delfo Pivot, Vezio e Valerio De Ambris, Ninì Ciuffreda, Adelmo Del Frate, Athos Del Magro, Ario Papi (saranno tutti partigiani). Non secondaria è la figura del professore di filosofia Giuseppe De Freo, un antifascista che nei bui anni Trenta parla ai suoi allievi di libertà, democrazia e giustizia sociale durante le gite domenicali sulle Alpi Apuane. La storia si snoda con il fidanzamento in casa (“Se mi vuoi manda la tu’ mamma a casa mia”), i dispetti e le azioni contro le autorità fasciste, come la bastonatura al figlio del Duce e l’imbrattamento della targa della Casa del Fascio; il servizio di leva di Chittò a Napoli, il matrimonio in tempo di guerra, il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito repubblichino dopo l’8 settembre, la fuga in montagna dei due giovani sposi con il loro figlioletto di pochi giorni in braccio. E poi, la vita sui monti, i disagi di una sposina con un bambino da allattare e accudire dormendo sotto i castagni, la formazione “Marcello Garosi”, gli altri compagni Giancarlo Taddei, Gustavo Rontani, Lloyd e Antonio Calvano, Giovannino Maffei, Ardito Biancalana, “Bori” Biancalana, Sauro Bartelloni, Emilio Jacomelli; le Cordoglio degli antifascisti toscani per la morte di Didala Ghilarducci, «partigiana per amore» Aveva 90 anni. Era stata staffetta dei partigiani della Brigata Garibaldi durante la Liberazione. I tedeschi le avevano ucciso il giovane marito. Il giorno prima era a Sant’Anna di Stazzema per le cerimonie del 25 Aprile. Personalmente ho incontrato Didala Ghilarducci per l’ultima volta nel dicembre 2009, perché convocati dalla Regione Toscana per sensibilizzare i giovani contro tutte le mafie e parlare loro dei valori dell’antifascismo, della libertà e della pace. Nella circostanza Didala lasciò una bella testimonianza, ricordando la nostra storia e aiutandoci a non dimenticare. È morta il 26 aprile scorso, nella sua abitazione a Viareggio. Novant’anni, partigiana viareggina alla quale i tedeschi uccisero il marito Ciro Bertini, detto “Chittò” nell’agosto del 1944. Ha vissuto la Resistenza come staffetta partigiana delle Brigate Garibaldi. Nel settembre del 1943 lasciò la propria casa col figlio Riccardo di pochi giorni per seguire il marito impegnato nella guerra partigiana sulle Alpi Apuane. operazioni per assicurare i collegamenti e le segnalazioni per i lanci di viveri e armi da parte degli aerei alleati, le rappresaglie tedesche, la cattura e l’evasione di Sergio Breschi dal carcere di Pisa, le uccisioni, l’umanità di un commissario repubblichino, Milano Giannecchini, che aiutò Didala a sfuggire ad un rastrellamento. Didala seguiva il suo uomo, senza paura, con dedizione, svolgendo compiti di comunicazione con le altre formazioni partigiane. Poi, improvvisa la tragedia: Chittò, Giancarlo Taddei e Gustavo Rontani caddero in un agguato teso dai tedeschi mentre erano in perlustrazione. Erano disarmati per evitare eventuali rappresaglie contro i civili. Rontani riuscì a fuggire. Chittò e Taddei furono uccisi a freddo; i loro cadaveri rimasero sul terreno per giorni. Ora, per la Memoria mancherà una voce importante soprattutto nelle scuole, dove Didala aveva raccolto le sue ultime energie per le nuove generazioni, perché ciò che è accaduto non potesse ritornare. Sergio Castelli DA LIVORNO Commemorato il 69° anniversario della caduta del fascismo (25 luglio 1943) Didala Ghilarducci col marito Ciro Bertini in una foto giovanile A Livorno si sono svolte numerose manifestazioni. In mattinata sono state deposte presso il monumento simbolo dei Perseguitati Politici Antifascisti situato in viale della Libertà – Parco della Pinetina, due corone di alloro, una dell’Anppia, l’altra del Comune di Livorno. Erano presenti - oltre al presidente dell’Anppia livornese Garibaldo Benifei - il Prefetto ed il Questore di Livorno, rappresentanze delle Autorità Civili e Militari e rappresentanti dell’Anpi e dell’Anei. Alle 11,00, presso il palazzo della Questura omaggio alla lapide che ricorda il sacrificio di otto Agenti del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza trucidati dai nazifascisti in fuga nel 1944. Nel pomeriggio, presso la Sala riunioni della Circoscrizione 1 si è tenuta la conferenza del prof. Nicola Tranfaglia dell’Università di Torino, noto storico e saggista, il cui tema è stato Il fascismo e la sua parabola tra le due guerre mondiali. L’illustre storico ha esaminato le condizioni che in Italia, Germania, Spagna e Portogallo, hanno portato all’avvento della dittatura fascista, indicando le con- 30 Noi dizioni sociali, politiche, economiche che in questi paesi hanno portato al potere dittatori come Franco, Salazar, Mussolini e Hitler. Ha quindi messo in rilievo come, dopo la seconda guerra mondiale, sorsero movimenti che si ispiravano ai modelli del fascismo europeo in Asia e in Africa fino a quelli nati in America Latina, citando gli esempi di Peron in Argentina e di Vargas in Brasile. Tranfaglia ha concluso guardando alla situazione italiana nell’attuale momento storico dicendo che “Non è retorica parlare oggi di possibili ritorni all’indietro, che sono particolarmente facili quando, problemi politici e legislativi essenziali, conflitti di interessi, falsi bilanci non controllati, leggi elettorali inaccettabili, non sono stati ancora risolti e, da parte sua, il sistema delle comunicazioni non risponde ancora ai requisiti che la Costituzione Democratica ha dettato fino dal gennaio del 1948.” Al termine della conferenza i componenti della Banda del Quartiere Circoscrizione 1 hanno eseguito canzoni popolari e della resistenza. DA VERONA Un viaggio a Fossoli, Carpi e Gattatico e due buone iniziative d’estate L’Anppia di Verona in collaborazione con l’Anpi, l’Aned e l’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea ha organizzato domenica 15 aprile 2012 una escursione con visite guidate a tre luoghi che ricordano pagine dolorose del periodo 1943-1945 e che videro tanti italiani pagare con la vita il desiderio di riscatto nazionale. Il giorno prima, sabato 14 aprile, per introdurre le motivazioni della nostra gita, lo storico Carlo Saletti aveva presentato il libro di Costantino Di Sante Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i centri raccolta profughi in Italia (1945-1970), edito da ombre corte nel 2011. Saletti e Di Sante ci hanno accompagnato anche nel viaggio verso questi luoghi della Memoria intrattenendo il gruppo dei cinquanta partecipanti con spiegando gli avvenimenti che avevano condotto a queste tragedie in modo da poter usufruire appieno della visita. La prima tappa è stata Fossoli dove abbiamo percorso il perimetro del campo, visitato le baracche, o meglio quel che ne resta, e le guide ci hanno illustrato, all’interno della baracca ricostruita, quella che con appropriata definizione è stata indicata come “la memoria stratificata del campo di Fossoli”. Ci siamo quindi trasferiti a Carpi per ammirare il suggestivo Museo Monumento politico e razziale opera di architetti italiani che avevano conosciuto il dramma della deportazione. Nel primo pomeriggio siamo arrivati a Gattatico nella bassa pianura reggiana dove nella casa in cui la famiglia Cervi abitò dal 1934 è stato allestito il Museo che ricorda la vita contadina di questo solido nucleo familiare e il sacrificio dei sette fratelli. A nome delle nostre associazioni al campo di Fossoli e al Museo Cervi sono state deposte due corone di fiori tricolori per Una sala del Museo Cervi di Gattatico, visitato dai nostri associati di Verona (foto Massimo Dallaglio) 31 Lettere onorare i tanti italiani caduti. Sono stati poi realizzati due incontri durante la stagione estiva. A San Zeno di Montagna, presso Palazzo Ca’ Montagna, l’8 agosto ha avuto luogo Cefalonia, Kalavrita. La Grecia nel cuore. L’appuntamento organizzato dalla Biblioteca Comunale di San Zeno di Montagna ha visto la proiezione di un dvd curato da Roberto Buttura che ha montato le fotografie del viaggio scattate da Valeria Brutti, Flavia Cominelli e Laura Vigna. Marco e Valeria Cazzavillan hanno parlato del massacro di Kalavrita (una delle tante Marzabotto greche) avvenuto il 13 dicembre 1943. Silvio Pozzani, autore di Byron e la Grecia, ha illustrato la figura del grande poeta inglese morto nel 1824 a Missolungi, e ha narrato l’eroismo dei patrioti ellenici e dei volontari, accorsi da tutta Europa, per difendere la libertà della Grecia contro i turchi. L’incontro è stato introdotto da Roberto Bonente che ha ricordato l’eroico sacrificio di migliaia di Italiani nell’isola di Cefalonia nel settembre 1943. Il 29 settembre scorso, presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR, ha avuto luogo la presentazione del libro dal titolo Prigionia e deportazione nel veronese 1943-1945 di Gracco Spaziani e Paola Dalli Cani. Sono intervenuti Gino Spiazzi, presidente della sezione veronese dell’Aned, Tiziana Valpiana, vicepresidente dell’Aned e gli autori del volume. Il libro è stato presentato dal nostro da Roberto Bonente. 23 settembre 1943-2012 il sacrilego oltraggio nella Piazza Nove Martiri Aquilani Una decina di giorni fa mi ero recato nella centralissima Piazza Nove Martiri Aquilani. Per fare un po’ di compagnia a quei nove giovani, d’età compresa tra i 17 ed i 21 anni, trucidati da un plotone di nazisti e fascisti il 23 settembre 1943 come “franchi tiratori” alle Casermette dell’Aquila. I resti dei martoriati corpi riesumati dalle due fosse comuni scavate con le loro stesse mani, fu possibile solamente a metà giugno del 1944 con l’avvenuta Liberazione della città. Alcuni giorni dopo si tennero i solenni funerali e la contestuale intitolazione dell’omonima piazzetta in loro onore, nonché la successiva erezione di un sacrario nel cimitero monumentale dell’Aquila. Ebbene. Il desolante scenario d’una ingiustificabile incuria della più rappresentativa coscienza civicomemoriale aquilana (la Piazza Nove Martiri, appunto) coincideva con il dolore di due pugni sferrati contro me a tradimento dall’Amministrazione comunale. Il primo dato allo stomaco; l’altro sugli occhi. Una corona rinsecchita appoggiata su un muro sbriciolato dal terremoto e una demenziale, graffitara scritta rossastra, sfiguravano già di per sé i nomi dei Nove Martiri scolpiti nelle soprastanti tre targhe commemorative. Il subitaneo strazio non finiva qui. Guardandomi intorno non riconoscevo più quella stessa piazzetta rimessa a nuovo, tra il marzo e l’aprile del 2010, dalle quattro incursioni corsare del Popolo delle carriole. A quel tempo la zona era “ancora rossa” (dalla e per la vergogna posso ribadire ancor oggi), nonostante fosse passato già un anno dal sisma del 6 aprile. La rimozione dei cumuli d’immondizia e delle macerie, le ordinate cataste di mattoni, pietre e coppi, le violette piantate nelle aiuole, il reading di poesie tenuto il 25 aprile, lasciavano ben sperare. Nulla di più deludente. Ora, davanti a me, nella ex “zona rossa”, quelle disordinate cataste abbandonate a se stesse, sono state saccheggiate dai turisti delle rovine e, molto probabilmente, da costruttori citazionisti; le aiole fanno più che pena; l’azzittita fontana con la bella scultura del D’Antino danneggiata dal sisma, attorniata da rifiuti. In una parola: un’imperante sporcizia fisica I funerali dei 9 martiri aquilani ed estetica. Di chi le responsabilità di tanta sciatteria se non del Comune? Fosse finito qui, il mio cahier des doleances! Il peggio del peggio doveva ancora avvenire. Puntualmente, purtroppo, il 23 aprile del 2012. Ieri, cioè. In cuor mio mi ero augurato che in occasione delle celebrazioni ufficiali previste per il 69 anniversario della strage, la piazzetta fosse ritornata “bella, linda e pinta”, così com’era stata a suo tempo ri/ consegnata alla città da Il Popolo delle carriole. Fiducioso, intorno alle ore 11, mi ero recato sul “luogo del delitto” con un mazzetto di fiori viola Settembrini, detti anche Astri (chiara metafora indirizzata ai nomi dei Nove Martiri: Anteo, Pio, Francesco, Fernando, Bernardino, Bruno, Carmine, Sante, Giorgio). Non l’avessi mai fatto! Questa volta una vera e propria botta in testa mi era stata data da un ingombrante furgone rosso con la vistosa scritta giallognola “Paninoteca” parcheggiato ad una trentina di centimetri dall’area monumentale. Ostruendola, perciò, sia visivamente che fisicamente. L’appassita corona ricordata più sopra, si trovava ora affissa nella sua parte posteriore alla stregua di un carro funebre, occultante in gran parte la scritta “La vera porchetta”. Che ci faceva lì, quel sacrilego furgone? Osservando l’oltraggiosa, incredibile scena, la risposta mi veniva data da un filo della corrente che dal mezzo arrivava nel vicino locale “ ex Avana” (un pub?) a suo tempo chiuso sine die dal terremoto. Un faro sovrastante l’insegna, acceso in pieno giorno forse sin dal 6 aprile del 2009, spiegava l’arcano: il furgone stava succhiando energia elettrica per ricaricare la cella frigorifero. Chi era stato l’autore di cotanta infamia? Perché l’Amministrazione civica ha consentito un vero e proprio stupro memoriale, lasciando la piazzetta alla mercé di sconsiderati? Perché non aveva, invece, provveduto a ridare un minimo di dignità urbana a quel luogo sacro tanto amato dagli aquilani? Prima di fuggire inorridito, ho segnalato telefonicamente il tutto alla Polizia Municipale. Avrà provveduto ad elevare almeno una contravvenzione al parcheggiatore abusivo? O peggio ancora: era stato forse autorizzato da qualcuno a compiere quell’empietà? Un’ultima riflessione. È diventata strana, molto strana, la mia città sgretolata. Architettonicamente sfigurata. Completamente imbalsamata nei suoi puntellamenti piranesiani. Socialmente imbarbarita e smemorata. Istituzionalmente imbelle ed inutilmente vendicativa verso i suoi figli migliori. La riprova? Il prossimo 25 ottobre quattro concittadini (E.B., A.P.C., D.G.A. e M.S.) dovranno presentarsi davanti al giudice per essersi inoltrati insieme ad altre centinaia di aquilani, il 28 marzo 2010 (nonostante il ridicolo sequestro delle carriole da parte della DIGOS), proprio nella “zona rossa” della Piazza Nove Martiri per rimuovere macerie e immondizia. In base all’art. 650 del codice penale rischiano l’arresto fino a tre mesi oltre il pagamento di una sostanziosa ammenda. Per un’altra settantina di concittadini de Il Popolo delle Carriole (me compreso) sono previsti a breve altri processi. Sul tragico sfondo della realtà sino a qui descritta, la municipalità aquilana sventola l’oppiacea bandiera di “L’Aquila capitale europea della cultura 2019”. Con quale faccia tosta sta presentando la sua candidatura? Un 32 suggerimento piccolo piccolo ai disamministratori della res publica. Se la “retta via” della ri/nascita è stata, come lo è, completamente smarrita, per trovarla e ritrovarla, si prendano nuove, vitali energie dalla lettura di una toccante poesia scritta da Carmine Mancini, uno dei giovani Martiri trucidati: “Oh, io vedo la mia strada! / La nostra strada! /È lunga tanto, tanto lunga e lontana, / ma anche breve se essa conduce alla morte / E quanto sole vi splende! / E poi tutto sorride laggiù…! / E io ci credo, noi ci crediamo..! / Ed io ci vado, ci vado correndo / con i miei compagni di lotta, / con tutto il bagaglio di chimere, / di sogni e di ideali. / Ci vado, sicuro di non restar solo / con la mia speranza”. Carissimo Carmine, carissimi altri otto sventurati compagni della protoresistenza italiana. Continuate a riposare tranquilli: gli aquilani più sensibili (ce ne sono ancora tanti, nonostante la persistente diaspora) continueranno ad esservi più che vicini. Antonio Gasbarrini (L’Aquila) Sulle orme di Ugo Muccini “Coltivare la memoria di quanto è accaduto affinché non si ripeta”. A questo fine sono sorti negli ultimi anni i numerosi centri museali (nella sola zona della Battaglia dell’Ebro, 5 Centri di interpretazione e 15 spazi storici), emanazione del progetto “memorial democràtic” sulla Guerra civile spagnola (1936 – 1939) promosso dalla Comunità Autonoma della Catalogna, regione duramente colpita durante l’avanzata franchista e nella repressione seguente. Quando scorrono le immagini dell’Istituto Luce nel “Centro 115 dias” di Corbera d’Ebre che abbiamo visitato (i bombardamenti, le strette di mano tra Franco e Mussolini, i “volontari” del Littorio inviati a combattere la Repubblica democratica spagnola), è difficile non provare un remoto senso di responsabilità vergognosa. La consapevolezza greve che i materiali forniti dalle nostre industrie belliche, esposti oggi nelle mensole, hanno contribuito al successo del colpo di stato militare sostenuto da monarchici, latifondisti e chiesa cattolica, per soffocare la giovane democrazia spagnola, è solo in parte mitigata dall’aiuto apportato dai nostri antifascisti. Anche a questo è servito il viaggio intrapreso dall’ANPI Sarzana “sulle orme di Ugo Muccini”, per spargere un pugno di terra della natia Arcola nel bosco della Sierra Cavalls (Valle dell’Ebro) e avere in cambio Lettere maggiori conoscenze su un episodio cruciale del Novecento, poco ricordato rispetto alla sua rilevanza. Ci ha supportato in questo pellegrinaggio storico il gentilissimo sindaco di Corbera d’Ebre, Sebastian, avvertito a sorpresa via telefono della nostra presenza (sabato, tra l’altro), quindi impossibilitato a riceverci in maniera ufficiale, senza pasticcini e gagliardetti, ma fermo nel volerci incontrare, puntualissimo davanti alla porta del municipio, che ha aperto invitandoci a entrare. Interloquendo col nostro presidente Piero Guelfi, sopra la bandiera della brigata (Divisione Garibaldi “U. Muccini”, appunto) spiegata sul tavolo, il sindaco ha reso omaggio al sacrificio dei volontari internazionali come Ugo Muccini (morto a 28 anni su queste montagne), dimostrando di conoscere e apprezzare la differenza che passava tra il Governo del Regno d’Italia e certi italiani. Ma quanto possono redimerci collettivamente gli esempi rappresentati da chi, come Muccini, ha sentito la necessità di prestare soccorso alla Spagna democratica e repubblicana sotto l’attacco dei fascismi europei? Possono redimerci nella misura in cui noi stessi siamo capaci, nel nostro tempo, di compiere scelte scomode e portarle innanzi senza i tentennamenti dovuti agli interessi personali, con spirito di servizio per le cause comuni, coltivando la propria coscienza critica. Altro incontro emozionante il giorno seguente, alle pendici della Sierra Cavalls, con l’anziano signore basco al quale abbiamo spiegato il motivo della nostra visita e che, rivolto a Piero, per la prima volta in questi luoghi a 85 anni, ha detto: “Anche se in ritardo, molte grazie!”. Molto spesso sentiamo dire che l’idea dell’Europa contemporanea è nata dalla guerra di Liberazione dal nazifascismo; ebbene, questa guerra di Liberazione è nata in Spagna nel 1936 e, nonostante abbia provvisoriamente fallito, ha posto le basi per la vittoria del 1945, una volta fatto tesoro, come ci ricordano i partigiani, del valore dell’unità, disatteso in terra iberica. Il legato di tale vittoria, scritto a chiare lettere nella Costituzione della Repubblica Italiana, può essere garantito solamente rifondando l’Europa (e non solo) sui valori della solidarietà umana e sulla volontà di costruire un mondo giusto, non su dottrine economiche che portano gli interessi dei popoli europei a divergere e politiche nazionali volte all’abuso neocoloniale di rendite di posizione sempre più esigue; quest’ultima via, lo abbiamo già visto, porta alla guerra. Ma questo viaggio in terra di Spagna, il cui Ventennio è durato il doppio del nostro, ci impone una riflessione anche sul camaleontismo fascista. Quali sono le parole d’ordine, gli atteggiamenti, i canali di diffusione della cultura fascista? Quali gli attuali centri decisionali sostenuti dagli stessi poteri che, mutatis mutandis, 90 anni fa si tutelarono attraverso le politiche fasciste? Dove si nasconde il pericolo fascista internazionale, oggi? Sotto un fez? No. Dietro un manganello? Non solo. Soprattutto si nasconde nelle politiche orientate al razzismo, all’individualismo, allo smantellamento dei diritti nati dal sistema dello “Stato sociale europeo”, alla gestione immorale della res publica, all’inaridimento degli spazi di espressione democratica, alla costrizione del libero arbitrio, all’imbarbarimento culturale. Il compito di individuarlo e combatterlo è, qui, ora, e sempre, di tutte le persone antifasciste. Prima che la storia si ripeta. l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Direttore Responsabile: Antonella Amendola REDAZIONE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it anppia.blogspot.com [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Guido Albertelli, Antonella Amendola, Diego Bigi, Paolo Brogi, Ferdinando Imposimato, Anna Magnanini, Massimo Meliconi, Enrico Modigliani, Maurizio Orrù, Giovanni Russo, Mario Tempesta TIPOGRAFIA Cierre Grafica srl Roma - Via del Mandrione 103A PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista” Chiuso in redazione il: 17 Ottobre 2012 finito di stampare il: 25 Ottobre 2012 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954