I REATI CONTRO LA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE
TIFORMA c/o UNIONCAMERE
Firenze, 23 e 31 ottobre 2013
Relatore
Avv. Gabriele Martelli
Avvocato del Foro di Firenze – Consulente per Enti Locali e Aziende
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I reati contro la pubblica amministrazione sono suddivisi
in due settori. Da un lato si collocano i reati che
rappresentano un’aggressione ad interessi della pubblica
amministrazione che proviene dall’interno della stessa,
cioè commessi da soggetti che appartengono alla
pubblica amministrazione. Si tratta di reati propri
commessi da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico
servizio (articolo 314-335). E’ poi prevista un a seconda
categoria di reati commessi da privati ai danni della
pubblica
amministrazione
(articoli
334-356),
comprendente situazioni molto diverse, quali, ad
esempio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, i reati
di oltraggio e di interruzione di pubblico servizio.
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E’ ESTREMAMENTE IMPORTANTE ACCERTARE quando un
soggetto può essere definito pubblico ufficiale od
incaricato di pubblico servizio.
La versione originaria del codice conteneva due definizioni
sostanzialmente tautologiche; infatti, si riteneva pubblico
ufficiale il soggetto che svolgeva una pubblica funzione ed
incaricato di pubblico servizio chi svolgeva un pubblico
servizio.
Il legislatore del 1990, con la legge 86, nel quadro di una
modifica non complessiva, ma sicuramente articolata, dei
reati contro la pubblica amministrazione, ha cercato di
affrontare la questione cercando di offrire qualche
indicazione in più rispetto al passato.
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ARTICOLO 357 CODICE PENALE – Nozione di pubblico ufficiale
[1] Agli effetti della legge penale sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica
funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. [2] Agli stessi effetti è pubblica la funzione
amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata
dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal
suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.
ARTICOLO 358 CODICE PENALE – Nozione della persona incaricata di un pubblico servizio:
[1] Agli effetti della legge penale, sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a
qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. [2] Per pubblico servizio deve intendersi
un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla
mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici
mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.
Che differenze ci sono tra Pubblico Ufficiale ed incaricato di pubblico servizio?
-
I pubblici ufficiali sono coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o
amministrativa.
Ricoprono una pubblica funzione legislativa i membri del Parlamento ed i membri dei Consigli
Regionali.
Ricoprono una pubblica funzione giudiziaria, concetto forse meno intuitivo di quello
precedente, ma ricollegabile all’esercizio di uno dei classici poteri individuati dalla tripartizione
risalente a Montesquieu, coloro che operano nel settore della giurisdizione, compresi i
soggetti che non svolgono propriamente una funzione giurisdizionale, ma una semplice
funzione di supporto alla stessa.
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Area magmatica e di difficile individuazione risulta quella
residuale, che, in maniera puramente riassuntiva, viene
definita pubblica funzione amministrativa. Il legislatore
del 1990 ha cercato di cimentarsi proprio su questo
terreno, dettando qualche direttiva di identificazione. Ai
sensi del secondo comma dell’articolo 357, si considera
pubblica funzione amministrativa quella disciplinata
da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi. La
norma enuncia, inoltre, una serie di parametri (concetti di
formazione e manifestazione della volontà della pubblica
amministrazione oppure il suo svolgersi per mezzo di
poteri autoritativi o certificativi) che servono proprio per
distinguere il pubblico ufficiale dall’incaricato di pubblico
servizio.
Infatti per pubblico servizio, ai sensi del secondo comma dell’articolo 358,
si intende un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica
funzione.
Alla persona incaricata di pubblico servizio però non sono attribuiti i
poteri tipici della pubblica funzione. Inoltre, situazioni che, di per sé,
rientrerebbero nella definizione di pubblico servizio, vengono escluse per
evitare un’eccessiva dilatazione delle qualifiche soggettive (e quindi
dell’applicazione dello Statuto Penale della Pubblica Amministrazione).
Non sono considerate persone incaricate di pubblico servizio coloro che
svolgono semplici mansioni di ordine o prestano opera meramente
materiale. Dall’analisi delle due disposizioni, così come sono state
riformulate da legislatore nel 1990, si evince che, in definitiva, la prima
operazione da effettuare (di fatto piuttosto difficoltosa) consiste
nell’identificare l’attività pubblicisticamente qualificata, all’interno della
quale occorrerà poi distinguere la pubblica funzione dal pubblico servizio
in senso stretto, contrapponendolo alle attività di natura privata (non
soggette allo Statuto Penale della Pubblica Amministrazione). Proprio in
quest’ambito si gioca la partita più importante in quanto una volta che è
stato chiarito che un certo settore rientri tra le attività
pubblicisticamente rilevanti sarà sufficiente individuare l’esercizio di
determinati poteri, segnalati nella seconda parte della definizione della
funzione amministrativa, per distinguere tra pubblico ufficiale ed
incaricato di pubblico servizio. In pratica, risulta pubblico ufficiale il
soggetto che ricopre poteri autoritativi ed autocertificativi che lo
distinguono dal semplice incaricato di pubblico servizio, cui questi poteri
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non sono attribuiti.
Come si identificano le attività di natura pubblicistica?
La risoluzione del problema inerente l’identificazione
dell’attività che possa rientrare nella definizione di pubblica
amministrazione, venendo di conseguenza regolamentata
da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, risulta
fondamentale perché determina l’applicazione della
disciplina penalistica. Infatti, deve essere tenuto ben
presente che il ricorso alla disciplina penalistica prevede in
alcune situazioni l’applicazione del reato A anziché del
reato B (vedi ad esempio la dicotomia peculato –
appropriazione indebita) ed in altri casi l’applicazione di
una norma penale in vicende che se commesse da un
privato risulterebbero penalmente irrilevanti (rifiuto di
atti d’ufficio, abuso d’ufficio, ecc…).
NON E’ SEMPLICE CAPIRE QUANDO SIAMO DIFRONTE
AD UN’ATTIVITA’ DI NATURA PUBBLICISTICA.
Anzitutto attività pubblicistica non significa ATTIVITA’ SVOLTA DA UN
SOGGETTO PUBBLICO essendo sufficiente che il servizio, anche se
concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalità
pubbliche.
Si tratta dunque di attività regolamentate da norme di diritto pubblico,
che vincolano l'operatività dell'agente o ne disciplinano la
discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare
spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia
privata.
E COSA SONO LE NORME DI DIRITTO PUBBLICO?
Sono norme con cui una determinata attività viene finalizzata al
perseguimento di interessi pubblici ed in cui la pubblica autorità
interviene in maniera più vincolante e più presente che in altri
settori.
(Per quanto attiene alle Camere di Commercio non si dimentichi che
queste sono menzionate tra le Pubbliche Amministrazioni di cui al D.
Lgs. 165/2001 e quindi senz’altro la loro attività ha finalità pubbliche,
anche se non necessariamente tutta l’attività)
Le norme di diritto pubblico (che appunto delimitano l’attività e l’area
pubblicisticamente rilevante, all’interno della vengono individuati i P.U.
ed I.P.S.) sono norme volte al perseguimento di una pubblica
finalità ed alla tutela di un interesse pubblico e, come tali,
contrapposte alle norme di diritto privato (che perseguono un fine
privato)
LA NATURA PUBBLICISTICA DELL’ATTIVITA’
DEVE ESSERE
VERIFICATA IN CONCRETO IN BASE AD UN CRITERIO
OGGETTIVO FUNZIONALE
Ad esempio l’attività del funzionario della Cassa Edile che cura la
riscossione delle somme versate dagli imprenditori del settore edilizio
a titolo di accantonamento della parte di retribuzione differita dovuta ai
propri dipendenti e la successiva erogazione a questi ultimi delle
medesime somme, che concernono il trattamento economico
contrattuale relativo alle ferie, alla gratifica natalizia e alle festività
infrasettimanali, meccanismo questo imposto dalle peculiari
connotazioni dello specifico rapporto di lavoro e dall'esigenza di
garantire ai lavoratori del settore minimi salariali inderogabili, è
un’attività pubblicistica ed il funzionario E’ SENZ’ALTRO UN
INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO PERCHE’ svolge
un’attività diretta oggettivamente al raggiungimento della pubblica
finalità ex «art. 36 Cost. di «assicurare minimi inderogabili di
trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli
appartenenti ad una medesima categoria»
Un dirigente/dipendente di un ente che compie
un’attività ed emette un atto/provvedimento che
incide sulla programmazione dell’ente, sull’assetto
organizzativo e sulla destinazione specifica delle
risorse finanziarie disponibili compie senz’altro
un’attività di natura pubblicistica, che concorre alla
formazione della volontà dell’ente, ed essendo
titolare, in forza della sua posizione, di poteri
autoritativi, è P.U.
Il commercio, invece, in genere si rivolge al pubblico, ma
non risulta un pubblico servizio, anche se nel suo ambito
si incontrano situazioni non sempre chiare (le farmacie,
per esempio, seguono una disciplina che potrebbe
consentire di qualificarle come pubblico servizio). In
pratica, è presente una serie di settori in cui il problema si
pone in maniera più complessa di quanto potrebbe
apparire a prima vista. In questi campi non si può mai
dare per scontato che vi sia una qualifica pubblicistica in
gioco in quanto è necessario analizzare attentamente la
disciplina di settore
I dipendenti bancari non sono considerati I.P.S. perché
svolgono un’attività imprenditoriale di natura privata.
I portieri dell’ospedale non sono considerati incaricati di
pubblico servizio perché svolgono un’attività di mera custodia
senza fornire un contributo concreto alle finalità del servizio
pubblico
•
•
UNA VOLTA DELINETA L’AREA PUBBLICISTICAMENTE RILEVANTE SI DISTINGUE
COME DETTO TRA:
Chi ha poteri autoritativi o certificativi è PUBBLIO UFFICIALE
Chi non ha tali poteri è INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO salvo che svolga
semplici mansioni d’ordine o attività puramente materiali. Si tratta di soggetti
che svolgono la loro attività inquadrati nell’ambito di un pubblico servizio, ma
non risultano incaricati di pubblico servizio perché il loro compito è puramente
esecutivo o comunque si esaurisce nel compimento di attività meramente
materiali.
E’ QUI CHE, NELLA VITA QUOTIDIANA, SI GIOCA LA PARTITA PiU’
IMPORTANTE: MA COME SI FA A CAPIRE SE L’INCARICATO SVOLGE SOLO
MANSIONI D’ORDINE O PURAMENTE MATERIALE?
Dottrina e giurisprudenza sostengono che per includere un soggetto nel
novero degli incaricati di pubblico servizio sia necessaria la possibilità di
svolgere un’attività almeno autonoma (se non discrezionale).
Occorre dunque accertare se i compiti risultino meramente esecutivi o
implichino un ambito, seppure molto ristretto, di scelta
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Ad esempio, l’autista di un mezzo pubblico, NON E’ CONSIDERATO I.P.S. in virtù
del fatto che è tenuto ad eseguire un’attività prevalentemente programmata
da altri e NON HA ALCUN MARGINE DI AUTONOMIA E DI SCELTA. Qualche
discussione in più si è avuta riguardo gli autisti di mezzi di soccorso
(autoambulanze) cui, in alcuni casi è stata attribuita la qualifica di incaricati di
pubblico servizio.
Il tassista NON è CONSIDERATO I.P.S. in quanto l’attività non lascia al soggetto
margini di autonoma determinazione. Il tassista è, infatti, obbligato a
contrarre con il pubblico ed è obbligato a seguire il percorso più conveniente
per raggiungere la meta indicatagli dal cliente (quindi si presenta con una
veste analoga a quella dell’autista della linea filoviaria, tranviaria o
automobilistica che è tenuto a seguire un percorso più o meno obbligato ed è
privo di margini di autodeterminazione).
L’operatore ecologico non è considerato IPS perché svolge funzioni meramente
materiali.
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UNA DELLE TEMATICHE PIU’ DISCUSSE E’ QUELLA RELATIVA ALLA
QUALIFICAZIONE DI INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO PER CHI
“GESTISCE” I CONTRATTI DI APPALTO
Secondo la giurisprudenza che si è formata su tale specifica questione, il pubblico
servizio deve comportare una prestazione resa da un soggetto pubblico (o privato
che, in forza di diversi meccanismi giuridici, si sostituisca a quello pubblico) alla
generalità degli utenti (Cass., sez. un. 30 marzo 2000, n. 71).
La nozione di pubblico servizio come prestazione resa alla generalità, da parte di un
soggetto, anche privato, che sia inserito nel sistema dei pubblici poteri o sia a questi
collegato e che sia sottoposto ad un regime giuridico derogatorio dal diritto comune
(Cass. sez. un. 30 marzo 2000, n. 72) è condivisa anche dal CDS.
Sulla scia dell'adeguamento agli altri ordinamenti europei (Cons. Stato, ad. plen. ord.
30 maggio 2000, n. 1), la nozione di servizio pubblico nel sistema nazionale postula
una sua interpretazione in senso oggettivo, intesa come prestazione necessaria a
favore della generalità (art. 16 -ex 7D- del Trattato CE) e si presta a ricomprendere,
nell'alveo dei servizi di interesse generale, le attività di servizio, commerciale o non,
considerate d'interesse generale dalle pubbliche autorità, e per tale ragione
sottoposte ad obblighi specifici di servizio pubblico (cfr. art. 16 -ex art. 90- del
Trattato CE).
Secondo il diritto comunitario primario e il diritto nazionale,
va esclusa dall'alveo dei pubblici servizi la fornitura di beni
ad un'amministrazione aggiudicatrice o ad un ente
aggiudicatore da parte di un soggetto privato, in
esecuzione di un contratto di appalto, solo quando la
fornitura stessa sia estranea alla specifica missione
dell'amministrazione o dell'ente: al compito cioè che essi
assolvono nell'ambito dell'ordinamento e ne giustifica la
prerogativa dello speciale regime pubblicistico (Cass. sez. un.
23 aprile 2008, n. 10443; 12 novembre 2001, n. 14032; 12
febbraio 1988 n. 1500); e ciò diversamente dall'affidamento
della gestione di servizi aggiuntivi o integrativi che si
pongono come accessorio rispetto al servizio reso alla
generalità, di cui costituiscono complemento essenziale
per il corretto funzionamento ed esercizio (Cass. sez. un.
27 maggio 2009, n. 12252).
Ad esempio è indubbio il carattere di
complementarità della fornitura, manutenzione e
gestione delle paline indicatrici di fermata, rispetto
al servizio di trasporto esercitato.
Anche il dipendente addetto allo svolgimento delle
funzioni di tesoriere riveste la qualità di persona
incaricata di pubblico servizio, in considerazione
del ruolo servente del reparto di amministrazione
finanziaria cui è preposto e del rapporto di diretta
complementarietà rispetto al buon funzionamento
dell'erogazione dei servizi (e pertanto risponde ad
esempio di peculato . Cass. Pen. 42098/2009).
I SINGOLI REATI CONTRO LA P.A.
Con tale accezione vengono identificate situazioni che possono
essere realizzate soltanto da chi occupa una determinata
posizione all’interno dell’ordinamento, rivestendo la qualifica di
pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, una
qualifica quindi penalisticamente rilevante. Questo gruppo di
fattispecie costituisce quello che con formula riassuntiva viene
indicato come lo “Statuto penale della pubblica
amministrazione”, cioè quella disciplina che riguarda la pubblica
amministrazione in senso lato. Lo Statuto Penale della pubblica
amministrazione prevede fattispecie reato che se commesse da
soggetti non inquadrati nella pubblica amministrazione non
costituirebbero illecito penale (ad esempio, l’omissione di atti
d’ufficio individua comportamenti che fuori dal settore pubblico
non hanno alcuna rilevanza penale), oppure darebbero vita ad
una diversa imputazione (ad esempio certe forme di peculato se
non fossero previste come tali sarebbero punibili ai sensi
dell’appropriazione indebita).
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IL REATO DI CORRUZIONE, CONCUSSIONE ED INDEBITA…
IL REATO DI CORRUZIONE E’ STATO MODIFICATO DALLA L.
190/2012
Prima della L. 190/2012 il codice penale distingueva due tipi di reati di
corruzione:
1)
Il reato di corruzione per un atto di ufficio ex art. 318 (c.d. corruzione
impropria) ove il fatto incriminato al comma primo era quello del
“pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve per
sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è
dovuta o ne accetta la promessa” (c.d. corruzione impropria
antecedente) e, al comma secondo, quello del pubblico ufficiale che
“riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto” (c.d.
corruzione impropria susseguente). Esempio di scuola: il pubblico
ufficiale al fine di ottenere il pagamento di una tangente ritarda il rilascio
di una licenza ad un privato legalmente qualificato ad ottenere tale
licenza.
2)
Il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio ex art. 319
(c.d. corruzione propria) ove il fatto incriminato era (e tutt’oggi è) quello
del “pubblico ufficiale che per omettere o ritardare o per aver omesso o
ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un
atto contrario ai doveri di ufficio riceve per sé o per un terzo denaro
od altra utilità o ne accetta la promessa” . Esempio di scuola: il privato
chiede al pubblico ufficiale l’ottenimento di un servizio che non ha diritto
ad avere.
La differenza tra i due reati si basava proprio sul binomio atto conforme
(318 c.p.c.) e atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.).
Dunque l’elemento (c.d. costitutivo) dei reati era rappresentato proprio
dall’atto conforme (318 c.p.) o contrario (319 c.p.) ai doveri d’ufficio e la
pubblica accusa (visto il principio costituzionale di presunzione di innocenza
sino a prova contraria) doveva provare (al di là di ogni ragionevole dubbio) la
sua esistenza ED ANCHE che proprio in ragione di tale atto il pubblico ufficiale
aveva ottenuto (o accettato la promessa di) una utilità non dovuta.
Tale operazione però era particolarmente complessa, soprattutto in situazioni
di illegalità diffusa, dove la dazione di una utilità andava a remunerare un
pubblico ufficiale per atti assunti da altri pubblici ufficiali vicino al primo, in una
logica di scambi e protezioni reciproche.
Inoltre l’individuazione dello specifico atto oggetto di scambio risultava difficile
nel caso di pubblici ufficiali c.d. “a libro paga”intendendo con ciò il pubblico
ufficiale che veniva dal privato “pagato in maniera forfettaria o periodicamente
non perché compia un determinato atto o ometta un determinato atto, ma
perché sia disponibile a compiere od omettere tutti gli atti che dovessero essere
utili al privato, che lo sovvenziona”.
In questi casi ciò che viene pagato e remunerato non è un atto bensì l’impegno
ad attivarsi su ordine del privato
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Per sopperire a tale difficoltà la giurisprudenza (sia pure con riferimento alla
sola corruzione propria) non solo ha attribuito alla nozione di atto di ufficio,
intesa dunque in senso lato, una vasta gamma di comportamenti,
effettivamente o potenzialmente riconducibili all'incarico del pubblico ufficiale
(e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, la
formulazione di richieste o di proposte, l'emissione di pareri, ma anche la
tenuta di una condotta meramente materiale o il compimento di atti di diritto
privato (seppur individuabi): (vedi, tra le altre, Sez. 6, n. 38698 del
26/09/2006,; Sez. 6, n. 23804 del 17/03/2004), ma è giunta anche a
prescindere dalla necessaria individuazione, ai fini della configurabilità del
reato, di un atto al cui compimento collegare l’accordo corruttivo, ritenendo
sufficiente che la condotta presa in considerazione dall'illecito rapporto tra
privato e pubblico ufficiale sia individuabile anche genericamente, in ragione
della competenza o della concreta sfera di intervento di quest'ultimo, così da
essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non
preventivamente fissati o programmati (Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012; Sez.
6, n. 2818 del 02/10/2006), sino al punto di affermare che integra il reato di
corruzione (in particolare di quella cosiddetta "propria“) SIA l'accordo per il
compimento di un atto non necessariamente individuato "ab origine“ ma
comunque individuabile, SIA l'accordo che abbia ad oggetto l'asservimento più o meno sistematico - della funzione pubblica agli interessi del privato
corruttore, che si realizza nel caso in cui il privato prometta o consegni al
soggetto pubblico, che accetta, denaro od altre utilità, per assicurarsene,
senza ulteriori specificazioni, i futuri favori (Sez. fer., n. 34834 del
25/08/2009).
20
1)
2)
Tale orientamento giurisprudenziale è stato positivizzato dal legislatore che
con la L. 190/2012 ha riscritto l’art. 318 c.p. lasciando però immutato l’art.
319 c.p. (relativamente al quale sono state inasprite le pene).
Il nuovo art. 318 c.p. rubricato, oggi, semplicemente “Corruzione per l’esercizio
della funzione” dispone che “Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue
funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o
altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque
anni”.
Le differenze rispetto al vecchio art. 318 c.p. sono molteplici:
Anzitutto viene meno la distinzione tra corruzione impropria antecedente e
susseguente
Il secondo e più evidente segno di differenziazione tra la vecchia e la nuova
ipotesi di “corruzione impropria” è rappresentato dalla soppressione del
necessario collegamento della utilità ricevuta o promessa con un atto, da
adottare o già adottato, dell’ufficio, divenendo quindi possibile la
configurabilità del reato anche nei casi in cui l’esercizio della funzione
pubblica non debba concretizzarsi in uno specifico atto (recependo così
l’interpretazione giurisprudenziale sopra esposta). La nuova norma pur
continuando ad essere formalmente rubricata come “corruzione”, avrebbe in
realtà introdotto, secondo alcune prime letture dottrinali, la figura di un vero e
proprio “asservimento” del soggetto pubblico ai desiderata del soggetto
privato, stante la non necessità di dimostrare appunto un legame tra il
compenso ed uno specifico atto di ufficio.
21
NOTA CRITICA: La eliminazione dalla fattispecie di cui all’art. 318 c.p. di
qualsiasi riferimento all’atto oggetto di scambio sembrerebbe far venir
meno quell’elemento che sino ad oggi ha distinto la corruzione
impropria dalla corruzione propria, e costituito dalla promessa o
dazione illecita per il compimento di un atto, rispettivamente, proprio
dell’ufficio ovvero contrario ai doveri di ufficio del pubblico ufficiale.
A seguito della novella, dunque, la sola corruzione “propria” (art. 319
c.p.) continua oggi ad essere impostata sul riferimento ad un atto
dell’ufficio mentre quella impropria no.
Insomma il fatto che il legislatore abbia deciso di escludere la necessità
di individuazione dell’atto solo per il reato di cui all’art. 318 c.p
(corruzione impropria) ed abbia altresì deciso coscientemente di non
modificare l’art. 319 c.p. (corruzione propria) -ancorato all’atto
contrario ai doveri d’ufficio- lascia intendere che per tale ultimo reato
occorra la dimostrazione e la prova dell sinallagma dazione o promessa
di utilità - compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio
NONOSTANTE la giurisprudenza richiamata nelle precedenti slides, con
riferimento alla corruzione propria abbia sino ad oggi ritenuto di dover
prescindere dalla individuazione di tale atto.
22
3)
Il terzo elemento di differenziazione è costituita dal fatto che nel vecchio
art. 318 c.p. si faceva riferimento ad una “retribuzione non dovuta” sotto
forma di danaro o altra utilità mentre nel nuovo art. 318 c.p. si fa
riferimento al pubblico ufficiale che indebitamente riceve denaro o altra
utilità.
L’inserimento dell’avverbio “indebitamente” in luogo di “retribuzione non
dovuta” non sembra aggiungere efficacia selettiva alla norma, essendo
riferito non all’atto amministrativo o alla condotta svolta nell’esercizio delle
funzioni, ma alla ricezione o all’accettazione della promessa di denaro o
altre utilità. Viene così esclusa la rilevanza penale dei casi in cui l’utilità
promessa o corrisposta al pubblico ufficiale è effettivamente dovuta allo
stesso, per ragioni inerenti all’ufficio, ovvero è dovuta all’amministrazione
per conto della quale il soggetto pubblico la riceve.
La sostituzione della locuzione “retribuzione” con “denaro o altre utilità” è
invece di fondamentale importanza in quanto proprio la qualificazione
“retributiva” della dazione aveva alimentato quelle posizioni
giurisprudenziali secondo cui la stessa traduceva la precisa volontà del
legislatore di escludere dall’ambito di operatività della incriminazione tutte
quelle situazioni non caratterizzate da un vero e proprio rapporto
“sinallagmatico” tra la prestazione del corruttore e quella del corrotto e di
includervi, al contrario, solo quelle dazioni o promesse proporzionate al
tipo e all’importanza della prestazione richiesta al pubblico ufficiale, sicché,
in definitiva, il reato doveva essere escluso sia nel caso di minima entità
dell’utilità sia in quello di evidente sproporzione rispetto al vantaggio
ottenuto (Sez. 6, n. 4072 del 09/02/1994)
23
4)
5)
6)
Sotto il profilo soggettivo la legge 190/2012 è intervenuta modificando l’art. 320
c.p. attraverso l’eliminazione del riferimento al pubblico impiegato per la
punibilità dell’incaricato di pubblico servizio. Nel senso che precedentemente
l’art. 320 c.p. prevedeva che il reato di cui all’art. 318 c.p. si applicava alla
persona incaricata di pubblico servizio “qualora rivesta la qualità di pubblico
impiegato” mentre il nuovo art. 320 c.p. si limita a stabilire che “Le disposizioni
degli art. 318 e 319 si applicano anche all’incaricato di un pubblico servizio.” e
dunque anche se non riveste la qualità di pubblico impiegato” . E’ comunque
prevista la riduzione di un terzo della pena.
La pena prevista per il reato di cui all’art. 318 c.p. è stata aumentata. Prima era
della reclusione da sei mesi a tre anni (comma 1) e di quella fino ad un anno
(comma 2). Oggi invece è della reclusione da uno a cinque anni, il che consente
l’utilizzo di tutti quegli strumenti investigativi , prima esclusi, tra i quali
soprattutto le intercettazioni telefoniche. È stata inasprita (in maniera
significativa) la pena per il reato di corruzione propria ex art. 319 c.p.. Prima era:
reclusione da 2 a 5 anni. Oggi è: reclusione da 4 a 8 anni
Le modifiche all’art. 318 hanno poi necessariamente comportato l’adeguamento
alla nuova struttura del reato della previsione dell’art. 322 c.p. in tema di
“istigazione alla corruzione”, il cui primo comma è stato modellato nel senso
che chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti ad un pubblico
ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, per l’esercizio delle sue funzioni
o dei suoi poteri, soggiace, qualora la promessa o l’offerta non sia accettata, alla
pena stabilita dal primo (ed oggi unico) comma dell’art. 318 ridotta di un terzo,
mentre, in forza del comma terzo, la medesima pena si applica al pubblico
ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o
dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi
poteri.
24
GIURISPRUDENZA:
CASSAZIONE PENALE N. 27719/2013
Per “spesa di rappresentanza” imputabile a un ente pubblico, deve intendersi solo
quella destinata a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente al fine di
accrescere il prestigio dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca
(nella specie, da queste premesse, è stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di
condanna ove si era ravvisato il reato di truffa nei confronti del presidente del
consiglio di amministrazione di una società per azioni che si assumeva avesse
fraudolentemente ottenuto dalla società il rimborso delle spese effettuate per pranzi
non riferibili alla sua carica istituzionale, ma alla sua attività politica: era emerso,
infatti, che i pranzi organizzati e per cui era stato ottenuto il rimborso, nulla avevano
a che fare per loro oggetto e identità dei partecipanti con attività di rappresentanza o
promozionali della società) MA non è configurabile il delitto di corruzione per atto di
ufficio ex art. 318 cod. pen. - nel testo vigente prima delle modifiche della l. n. 190
del 2012 - nei confronti del Presidente di una società di gestione di una tratta
autostradale, perché, pur rivestendo quest'ultimo la qualifica di incaricato di pubblico
servizio, non può essere considerato un pubblico impiegato.
CASSAZIONE PENALE N. 14451/2013
Risponde del reato di corruzione il sovrintendente di
Polizia Penitenziaria responsabile dell'Ufficio
Matricola della Casa Circondariale di (OMISSIS),
che ha ricevuto gratuitamente in tempi diversi da
(OMISSIS),
detenuto
presso
detta
Casa
Circondariale, (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)
e (OMISSIS), due gommoni marini, per operarsi in
favore del detenuto nelle pratiche relative alla
concessione di permessi-premio o di misure
alternative
alla
detenzione
(accertato
in
(OMISSIS)).
CASSAZIONE PENALE N. 38762/2012
In tema di corruzione, non può essere ricondotta alla
nozione di "atto di ufficio" la "segnalazione" o
"raccomandazione" con cui un pubblico ufficiale sollecita
il compimento di un atto da parte di altro pubblico
ufficiale, trattandosi di condotta commessa "in occasione"
dell'ufficio che, quindi, non concreta l'uso di poteri
funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell'agente.
(Nella specie, la Corte ha escluso il delitto di cui
all'art. 318, comma secondo, cod. pen. nei confronti del
sindaco di un comune che aveva ricevuto un regalo per
avere, in precedenza, sollecitato al direttore di una ASL il
trasferimento di un sanitario).
1)
Vi sono due ulteriori tematiche da affrontare:
La prima è quella della compatibilità del reato corruttivo con
l’adozione di atti discrezionali. Prima della riforma dell’art. 318 c.p. la
dottrina e giurisprudenza (ritenendo compatibile l’atto discrezionale
con il reato corruttivo) si ponevano il problema di distinguere in quali
casi l’atto discrezionale era conforme (corruzione impropria) o
contrario (corruzione propria) ai doveri di ufficio. La distinzione era di
fondamentale importanza sia sotto il profilo sanzionatorio (la
corruzione per atto contrario era punita con pena sensibilmente più
alta) sia sotto il profilo della prescrizione del reato, sia infine sotto il
profilo dell’ammissibilità delle intercettazioni e delle misure cautelari
personali, applicabili all’epoca solo per il reato di cui all’art. 319 c.p.
(corruzione propria).
La giurisprudenza e la dottrina ritenevano che l’esercizio della
discrezionalità da parte del pubblico ufficiale viziata ed inquinata dalla
promessa o indebita dazione di denaro, non poteva che dar luogo ad
un atto contrario ai doveri di ufficio (con la conseguente applicabilità
dell’art. 319 c.p.) comprendendo tali doveri anche i generali obblighi
di imparzialità, onestà ed esclusivo perseguimento dell’interesse
pubblico.
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In particolare secondo la Cassazione si configurava il reato di
corruzione impropria ex art. 318 c.p. in relazione ad un atto
discrezionale solo ed esclusivamente “qualora sia dimostrato che lo
stesso atto sia stato determinato dall’esclusivo interesse della
pubblica amministrazione e che pertanto sarebbe stato comunque
adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche
indipendentemente dalla indebita retribuzione” (Cass. n. 36083 del
2009), stabilendo così una “presunzione di contrarietà” per tutti gli
altri atti discrezionali assunti dal p.u. a fronte dell’illecita
retribuzione o promessa di remunerazione
Con la nuova formulazione dell’art. 318 c.p., non ponendosi più
problemi di distinzione tra atto conforme e atto contrario ai doveri
di ufficio (art. 319 c.p.), può darsi che spinga la giurisprudenza a
cambiare opinione sulla sopra detta “presunzione di contrarietà”
(peraltro criticata da parte della dottrina) MA sinceramente non
sembra in grado di mettere in discussione la compatibilità del reato
corruttivo con l’attività discrezionale della P.A.
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2)
La seconda questione riguarda invece il momento consumativo dei
delitti di corruzione.
La nuova fattispecie dell’art. 318 c.p. punisce già l’accordo corruttivo
senza che sia necessario che alla promessa segua la dazione
dell’utilità. Analoga previsione è contenuta nell’art. 319 c.p. che non
richiede per l’integrazione del reato, né che la illecita retribuzione
venga effettivamente corrisposta né che l’atto contrario venga
posto in essere dal pubblico ufficiale. Il problema principale
concerne la rilevanza, ai fini di individuare il tempo ed il luogo del
reato, dell’effettivo pagamento che intervenga successivamente ed
in esecuzione dell’accordo già concluso. Secondo parte della
dottrina il pagamento costituirebbe un post factum non punibile,
con la conseguenza che per individuare il dies a quo di decorrenza
del termine di prescrizione occorrerebbe far riferimento a tempo in
cui l’accordo è stato raggiunto. La giurisprudenza invece ha
elaborato una soluzione c.d. a duplice schema per cui “il delitto di
corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della
promessa ovvero con la dazione/ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove
alla promessa faccia seguito la dazione/ricezione è solo in tale
ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene
a consumazione” (Cass. Sez. Unite n. 15208 del 2010)
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Per quanto attiene alla posizione del CORRUTTORE,
l’art. 321 c.p., richiamando espressamente ed
esclusivamente l’ art. 318 comma 1 sanzionava il
corruttore solo in caso di c.d. corruzione impropria
antecedente. L’art. 321 c.p., verosimilmente per un
difetto di coordinamento, non è stato modificato
dalla legge 190/2012; ciò non toglie che per effetto
dell’inglobamento di corruzione antecedente e
susseguente all’interno di un’unica fattispecie, il
conduttore possa essere punito anche per la
corruzione susseguente, configurandosi in tal modo
una ipotesi di nuova incriminazione, insuscettibile,
come tale, di applicazione retroattiva.
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Il reato di corruzione è “aggravato” (cioè la pena è aumentata, ed è aumentata anche
la sanzione ex D. Lgs. 231/2001) se, il fatto di cui all'articolo 319 ha per oggetto il
conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti
nei quali sia interessata l'amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene
nonché il pagamento o il rimborso di tributi (art. 319 bis). Poco felice è il riferimento
al “pagamento o rimborso di tributi”.
La formula normativa utilizzata dal legislatore potrebbe apparire generica e suscitare
perplessità nella ricostruzione degli esatti confini della nuova fattispecie. Infatti, la
legge non chiarisce, se il legislatore abbia voluto circoscrivere l'aggravamento della
pena alla sola ipotesi in cui l'attività contraria ai doveri d'ufficio sia diretta
all'alterazione dei pagamenti e dei rimborsi, ovvero se i due termini («pagamento» e
«rimborso») assumano un significato più generico e, conseguentemente, se oggetto
del l'aggravante sia la corruzione posta in essere per lo svolgimento di qualunque
attività in grado di condizionare l'entità di debiti e crediti fiscali.
La Corte di Cassazione ritiene che la nuova aggravante del delitto di corruzione – che
interessa il personale dell'amministrazione finanziaria – riguardi solo le ipotesi di
pagamento o rimborso di tributi, senza possibilità di estensione ad altre attività
illecite in grado di condizionare l'entità di debiti e crediti fiscali.
L’art. 319 ter c.p. invece prevede l’ipotesi della
corruzione in atti giudiziari.
Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono
commessi per favorire o danneggiare una parte in
un processo civile, penale o amministrativo, si
applica la pena della reclusione da quattro a dieci.
Se dal fatto deriva l'ingiusta condanna di taluno alla
reclusione non superiore a cinque anni, la pena è
della reclusione da cinque a dodici anni; se deriva
l'ingiusta condanna alla reclusione superiore a
cinque anni o all'ergastolo, la pena e della
reclusione da sei a venti anni
Strettamente connesso al reato di corruzione è quello di istigazione
alla corruzione (articolo 322 codice penale) –reato che anch’esso
compare tra i c.d. reati presupposto ex D. Lgs 231/2001- che completa
l'articolato sistema dei reati di corruzione (articoli da 318 a 321 codice
penale), volti a tutelare il corretto funzionamento, il prestigio e
l'imparzialità della Pubblica Amministrazione, preservando l'esercizio
della funzioni pubbliche e dei pubblici servizi dai pericoli e dai danni
che possono derivare da indebite retribuzioni private.
La norma, in sostanza, punisce il tentativo di corruzione.
L'articolo 322 codice penale prevede diverse ipotesi, distinguendo tra
istigazione alla corruzione attiva (commi 1 e 2) e istigazione alla
corruzione passiva (commi 3 e 4): le prime sanzionano il privato
cittadino che offre o promette denaro o altra utilità non dovuta per
indurre il soggetto pubblico a compiere, omettere o ritardare un atto
dell'ufficio o contrario ai doveri dell'ufficio. Le seconde, invece,
puniscono il soggetto pubblico che “sollecita”, esercitando una
pressione psicologica sul privato, una promessa o dazione di denaro o
di altra utilità per compiere, omettere o ritardare un atto conforme o
contrario
ai
doveri
d'ufficio.
34
In tutti i casi deve trattarsi di promesse, offerte o richieste effettive,
serie e potenzialmente idonee a alla realizzazione dello scopo, ossia
tali da turbare psicologicamente il soggetto e indurlo, sia pure in
astratto, ad accettare la proposta illecita, anche se poi, in concreto,
tale
proposta
non
deve
essere
accettata.
IL REATO DI ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE ATTIVA si realizza nel
momento in cui viene messa disposizione l'utilità al soggetto pubblico
o comunque allorché quest'ultimo venga a conoscenza della promessa.
IL REATO DI ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE PASSIVA DEL PUBBLICO
FUNZIONARIO, invece, si perfeziona nel momento in cui la
sollecitazione
viene
a
conoscenza
del
privato.
Deve mancare, in entrambi i casi, l’accettazione della promessa o
l’adesione alla sollecitazione perché altrimenti si risponde per il reato
di corruzione consumato.
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IN CONCRETO IL REATO IN PAROLA SI CONFIGURA TUTTE LE VOLTE IN CUI IL
RPIVATO CI CONSEGNA “DELLE UTILITA’” AL FINE DI…MA SE SI TRATTA
DINPICCOLE UTILITA’ (O REGALIE) COME BISOGNA COMPORTARCI?
Presentare un'offerta di scarso valore economico può costare la condanna per
istigazione alla corruzione. Per configurare il reato, dunque, basterà l'aver proposto
al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio una qualsiasi utilità, anche
modesta, al fine di realizzare un proprio vantaggio. A precisarlo è la Cassazione,
sezione
VI
penale,
con
la
sentenza
n.
33724/10.
Coinvolto nei fatti, un uomo ritenuto colpevole – dal giudice per l'udienza preliminare
– di istigazione alla corruzione (articolo 322 del codice penale). Lo stesso, come
era emerso durante il processo, aveva consegnato a un coadiutore giudiziario una
busta chiusa contenente un carnet da dieci buoni benzina. L'obiettivo era di indurlo
ad adoperarsi in suo favore nel procedimento relativo ad alcune aziende operanti nel
settore del gas e sottoposte ad amministrazione giudiziaria (tra le società, una era
debitrice della ditta gestita dall'imputato). Questi, in altre parole, aveva offerto una
sorta di vantaggio patrimoniale – ticket per l'acquisto del carburante – allo scopo di
conseguire, tramite l'ausilio dell'impiegato, una rapida liquidazione del credito
vantato
dalla
propria
impresa.
La sentenza di condanna trova conferma in appello e il caso arriva in Cassazione.
L'amministratore societario, secondo il legale, meritava di essere assolto dalle
accuse mosse nei suoi confronti. In effetti – sostiene la difesa – un'utilità così esigua
come quella offerta non era idonea a realizzare lo scopo, nel senso che non avrebbe
mai potuto indurre il destinatario a compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio.
Insomma, c'era un'evidente sproporzione tra il valore del bene promesso e il
vantaggio che l'imprenditore avrebbe potuto realizzare ottenendo il credito vantato. A
escludere il reato, poi, il fatto che l'offerta non fosse stata rivolta a un pubblico
ufficiale, ma a un semplice coadiutore giudiziario, che non poteva ritenersi tale,
essendo chiamato a svolgere solo un'attività di carattere tecnico-contabile «priva di
valenza esteriore nei rapporti tra l'amministrazione e gli altri soggetti».
La Cassazione, però, conferma la sentenza di condanna, ritenuta la sussistenza
del reato di istigazione alla corruzione. L'offerta – si legge nella pronuncia – era
idonea a configurare il delitto, in quanto «con essa l'imputato non intendeva
ottenere il mero adempimento di un'obbligazione» a cui aveva diritto, ma il
«pagamento del credito in tempi e modi anticipati e preferenziali rispetto agli
altri creditori». La condotta del ricorrente era tesa ad alterare la realtà delle
cose volgendole a proprio favore. Invece di attendere una definizione corretta e
trasparente della procedura in atto, egli aveva intenzione di procurarsi le proprie
spettanze scavalcando le posizioni dei creditori concorrenti (violando, così, i
doveri di imparzialità e correttezza che avrebbero dovuto caratterizzare il
procedimento di composizione delle pendenze debitorie). Infine – circa la
supposta mancata qualità di pubblico ufficiale dell'impiegato destinatario
dell'offerta – i giudici di legittimità precisano che va riconosciuta anche in capo
al coadiutore nominato nell'ambito di una procedura di amministrazione
giudiziaria.
Nel rilevarlo, richiamano una precedente pronuncia (n. 13107 del 21 gennaio
2009) con cui era stato sciolto il nodo della questione: il soggetto nominato, su
designazione del comitato dei creditori, come coadiutore del curatore del
fallimento della società – cooperando a titolo oneroso alla funzione di custodia
giudiziaria dell'azienda – svolge un ruolo di indubbia rilevanza pubblicistica.
D'altro canto, sostiene la sentenza, anche a volerlo ritenere un mero incaricato
di pubblico servizio e non un pubblico ufficiale, ciò non varrebbe a escludere la
rilevanza penale dell'istigazione al reato commessa dall'imputato. L'articolo 322
del codice penale – conclude la Corte di cassazione – si riferisce
indifferentemente all'una o all'altra figura. Nel caso specifico, il coadiutore
aveva svolto (su specifica autorizzazione del giudice) una «qualificata funzione
di collaborazione alla realizzazione della procedura giudiziaria, unitamente
all'amministratore giudiziario».
ANCHE SE RECENTEMNTE
la Corte di Cassazione Penale sez. VI 15/2/2013 n. 7505 ha avuto modo
di precisare che se le utilità sono veramente di modesta entità allora il
reato non si configura
I fatti traggono origine dal comportamento di un utente accusato di
istigazione alla corruzione (art. 322 codice penale) per “aver offerto a
due agenti della polizia stradale la somma di Euro 10,00 al fine di
indurli a compiere un atto contrario al proprio dovere di ufficio e più
precisamente l’omettere la contestazione dell’infrazione al codice della
strada appena commessa dal omissis, condotta concretatasi nel porre
la banconota in vista nella carta di circolazione consegnata ai due
agenti, profferendo al contempo all’indirizzo degli stessi la frase
“lassate stare e pilliatevi nu cafè”, ripetuta con insistenza.”
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Ha ritenuto la Corte di Cassazione che non sussiste il reato a carico del
cittadino per l’improbabilità che l’offerta fosse accettata tenuto conto
dell’irrisorio valore della somma (ovviamente avrebbe risposto dei
reati previsti l’agente che comunque avesse accettato l’offerta).
Ha ritenuto infatti la Corte di Cassazione Penale che “l’esibizione della
somma di Euro 10,00, corrispondenti ad una utilità pari a Euro 5 per
ciascuno dei pubblici ufficiali operanti e destinatari dell’istigazione, al
fine di far loro omettere – e quindi in concreto impedire – la
preannunciata contravvenzione, per la sua palese irrisorietà, possa
semmai configurare il reato di oltraggio, per l’implicita offesa all’onore
ed al prestigio del pubblico ufficiale destinatario della dazione stessa.”
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MENTRE
Qualora dagli atti acquisiti al processo risulti in modo univoco che
l'imputato abbia offerto, senza successo, in occasione della
contestazione di alcune violazioni al Codice della Strada, agli agenti
intervenuti tutto il denaro di cui era in possesso perché evitassero di
ritirargli la patente ed il veicolo e non lo denunciassero per il reato di
guida in stato di ebbrezza, è evidente la sussistenza del reato di cui
all'art. 322, comma 2, c.p.. Ed infatti, il netto rifiuto degli agenti ha
impedito che la condotta corruttiva raggiungesse il suo scopo, con
conseguente integrazione della fattispecie in parola. Ciò è quanto
verificatosi nel caso di specie ove l'offerta di denaro ai pubblici ufficiali
è stata ritenuta seria e credibile, tanto più che il mantenimento di una
patente valida era assolutamente indispensabile all'imputato per
continuare a svolgere la sua attività lavorativa di corriere ed in
considerazione del fatto che la predetta offerta illecita fu reiterata più
volte dall'imputato, anche dopo che gli agenti lo avevano invitato a
desistere, rappresentandogli che sarebbe stato denunciato anche per
questo ulteriore reato. (TRIBUNALE DI MONZA 408/2013)
MA IN COSA CONSISTE LA CONDOTTA DI SOLLECITAZIONE?
La condotta di sollecitazione, punita dal comma quarto dell'art. 322 cod.
pen., si distingue sia da quella di costrizione - cui fa riferimento
l'art. 317 cod. pen., nel testo come modificato dall'art. 1, comma 75
della l. n. 190 del 2012 - che da quella di induzione - che caratterizza
la nuova ipotesi delittuosa dell'art. 319 quater cod. pen, introdotta dalla
medesima l. n. 190 - in quanto si qualifica come una richiesta
formulata dal pubblico agente senza esercitare pressioni o suggestioni
che tendano a piegare ovvero a persuadere, sia pure allusivamente, il
soggetto privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi
paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall'assenza sia di
ogni tipo di minaccia diretta o indiretta sia, soprattutto, di ogni ulteriore
abuso della qualità o dei poteri. (Nella specie, la Corte ha ritenuto
integrata l'ipotesi di cui al comma quarto dell'art. 322 cod. pen. in un
caso in cui un consulente tecnico di ufficio in una causa civile per la
determinazione dell'indennità di esproprio aveva contattato una parte
processuale, prospettandole una supervalutazione del bene immobile
come alternativa alla corretta valutazione, che avrebbe comunque
effettuato, in cambio di una percentuale sulla differenza). CASS.
19190/2013
IL REATO DI INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITA’
Il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità introdotto dalla L. 190/2012 è
strettamente connesso (perché deriva) al reato di concussione.
Il previgente art. 317 c.p. (la vecchia disposizione sulla concussione) disponeva che “Il
p.u. o l’incaricato di pubblico servizio, che abusando della sua qualità o dei suoi poteri,
costringe o induce taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro
od altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni”.
La legge 190/2012 ha scisso la precedente fattispecie incriminatrice nelle due fattispecie
di concussione per costrizione (nuovo art. 317 rubricato “Concussione”) e concussione
per induzione (art. 319 quater, rubricato “Indebita induzione a dare o promettere
utilità”).
Il nuovo art.317 c.p. rubricato “concussione” dispone che “Il p.u. che abusando delle sue
qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un
terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.
La nuova formulazione limita il novero dei soggetti attivi ai soli pubblici ufficiali, in
quanto il legislatore ha ritenuto che l’effetto della costrizione all’indebita dazione possa
ricollegarsi soltanto all’abuso di alte prerogative amministrative. Configurazione questa
che però non considera che anche condotte minacciose di un incaricato di pubblico
servizio possono, nella realtà, avere un effetto di integrale soggezione del privato.
In ogni caso, estromessa la figura dell’incaricato di pubblico servizio, qualora la condotta
prevaricatrice di quest’ultimo si connoti in termini di minaccia o violenza, la prospettabile
qualificazione del fatto sarà quella di estorsione aggravata dall’abuso di poteri inerenti un
pubblico servizio (art. 61, n. 9, c.p.) con una conseguenza che appare irragionevole, in
quanto, sia pure per effetto dell’aggravante suscettibile di bilanciamento, l’incaricato di
p.s. è sanzionato con una pena più severa (pari al massimo a dieci anni di reclusione più
l’aumento di un terzo) di quella massima prevista dall’art. 317 c.p. per il p.u. (pari a dodici
anni di reclusione)
42
I PRESUPPOSTI DEL REATO DI CONCUSSIONE (ED ANCHE DI QUELLO DI INDUZIONE) SONO:
A) ABUSO DEI POTERI
Si realizza ogni qual volta un soggetto qualificato strumentalizza i poteri, che gli derivano dal fatto di
ricoprire una determinata pubblica funzione o di svolgere un determinato pubblico servizio, come mezzo di
pressione sul privato o come vero strumento coercitivo, o, comunque come strumento di pressione.
L’agente di polizia che si fa consegnare una somma di denaro da un soggetto, minacciando di arrestarlo,
evidentemente realizza una costrizione con abuso dei poteri inerenti alla sua funzione e strumentalizza i poteri
per spingere il privato a compiere qualcosa che spontaneamente non avrebbe compiuto.
Un episodio, che ha riguardato un vigile urbano, che si era fatto consegnare un oggetto d’oro minacciando
una ritorsione consistente nel sequestro della vettura, in relazione ad un presunto illecito stradale, è stato
chiaramente classificato come ipotesi di abuso dei poteri inerenti alla funzione. A volte può, infatti,
accadere che un pubblico ufficiale prospetti l’uso di un potere, che, in realtà, esula completamente dalla
sua competenza. Il privato, però, non sempre è in grado di percepire se il pubblico ufficiale disponga del
titolo giuridico per esercitare quello specifico potere. Infatti, se chiunque è in grado di comprendere che un
professore universitario non è nelle condizioni di sequestrare una macchina, non tutti capiscono che un
pubblico ufficiale, che svolge funzioni di polizia giudiziaria, non può minacciare di sequestrare una
macchina se il contesto non lo giustifica. Quindi, l’episodio del vigile urbano rientra nelle ipotesi di abuso
dei poteri, anche se si tratta di un potere probabilmente non spettante al soggetto nel caso concreto. Lo
stesso accade quando un’appartenente alle forze dell’ordine minaccia di arrestare un soggetto in flagranza
per un reato che non ammette l’arresto in flagranza. Il privato, non conoscendo, spesso e volentieri, per quali
reati sia previsto l’arresto in flagranza, subisce la pressione in relazione all’abuso dei poteri, non potendosi
rendere conto che, in concreto, il soggetto qualificato non avrebbe potuto esercitare quel potere.
La condotta di abuso dei poteri può essere realizzata anche con una condotta omissiva attraverso il mancato
esercizio della funzione o del servizio, per esempio mediante un’omissione o il ritardo di un atto dovuto come
accade quando un soggetto viene invitato a pagare dal pubblico ufficiale perché venga rallentata una verifica
fiscale
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Abusare dei poteri dunque implica che il pubblico ufficiale faccia uso dei
poteri corrispondenti alla propria
condizione soggettiva. Siamo
dunque in presenza di un abuso sotto il profilo oggettivo, che si
manifesta attraverso la minaccia di compiere un preciso atto o di
tenere un determinato comportamento, indipendentemente dal fatto
che l’atto o il comportamento rientrino nella sua sfera di competenza
tecnica. L’abuso potrà dunque consistere nell’esercizio del potere al di
fuori dei casi di legge, ovvero nell’esercizio del potere non per
l’attuazione dei fini previsti dalla legge, ma come mezzo per
conseguire propri fini illeciti, ovvero nel non esercizio del potere pur
ricorrendone i presupposti di legge, ovvero ancora nell’esercizio del
potere nei casi di legge, ma in modi diversi da quelli previsti
dall’ordinamento, ovvero, infine, nella minaccia di tenere uno dei
comportamenti fin qui descritti (nella concussione, a differenza che
nell’abuso di ufficio, non si richiede necessariamente l’esecuzione di
un atto di abuso di potere, bastandone la minaccia). Ben potrà
configurarsi una condotta di abuso anche in relazione ad atti vincolati o
dovuti, tutte le volte che l’agente ponga in essere quell’atto in modo
che risulti viziato (ad esempio ritardandolo o adottandolo in maniera
difforme dal modello legale o non adottandolo e ponendo in essere
condotte ostruzionistiche), poiché ciò che conta è sempre la
deviazione dell’esercizio dalla sua causa tipica.
B) ABUSO DELLE QUALITÀ
Il concetto di abuso delle qualità si presenta in maniera più sfumata in quanto non risulta sempre
facilmente percepibile. In genere, ricorre ad un abuso della qualità il pubblico ufficiale che esercita
una pressione sul privato, non collegandola con un concreto uso (o meglio abuso) dei poteri inerenti
alla funzione o al servizio, bensì semplicemente facendo pesare, da un punto di vista statico, la sua
funzione all’interno della pubblica amministrazione in modo che il privato non sia immediatamente
minacciato dall’uso del potere, ma si renda conto che si trova a che fare con una persona inquadrata
in una branca della pubblica amministrazione con la quale, un domani (non oggi, ma un domani),
potrebbe avere a che fare e dalla quale, quindi, potrebbe anche subire un pregiudizio. Il soggetto
passivo, per questo motivo, è spinto ad assecondare la condotta di costrizione, pur non essendo,
come avviene, invece, nell’abuso dei poteri, di fronte al rischio di una ritorsione immediata effettuata
attraverso una strumentalizzazione del potere da parte del soggetto qualificato. Quando si abusa
delle qualità non viene posto un aut aut collegato ad una vicenda concreta, ma viene insinuato il
dubbio, nella mente del soggetto passivo, che, non aderendo alla richiesta del soggetto qualificato,
si potrà prima o poi intersecare la propria strada con quella del pubblico ufficiale ed avere problemi.
Se, per esempio, un imprenditore edile si sentisse chiedere da un magistrato o da un prefetto la
vendita di un immobile ad un prezzo stracciato, in assenza di minaccia o di prospettazione di
immediate sanzioni o procedimenti esecutori nei suoi confronti, ma semplicemente venendo messo a
conoscenza della veste importante ricoperta dall’interlocutore nel contesto sociale, potrebbe essere
indotto a riflettere su quanto gli viene richiesto, mentre normalmente, se la stessa richiesta gli venisse
effettuata da un privato, non la prenderebbe neppure in considerazione. L’imprenditore è indotto a
riflettere sull’eventualità che, dietro la richiesta effettuata dai soggetti qualificati, vi sia una
prospettazione futura di qualche problema finalizzata ad indurlo ad accettare una proposta
sicuramente non vantaggiosa. Un caso capitato a Genova ha coinvolto alcuni agenti di un reparto
celere che avevano l’abitudine di recarsi presso alcuni negozi per comprare merce a prezzi irrisori,
non minacciando perquisizioni o conseguenze collegate alla loro funzione (sarebbe stata, in questo
caso un’ipotesi classica di abuso dei poteri), ma semplicemente esibendo la divisa (d’altra parte ci
sono situazioni, ad esempio in piccoli centri, in cui un maresciallo dei carabinieri può avere una
posizione di prestigio e di peso tale da poter far pesare l’abuso delle qualità). Certamente, l’abuso
della qualità non risulta sempre facilmente individuabile.
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Abusare della qualità implica pertanto che il pubblico ufficiale
faccia pesare la sua condizione personale per conseguire lo
scopo sanzionato, avvalorando e rendendo credibile ed idoneo
- appunto grazie alla propria qualità soggettiva - l’atto
intimidatorio con il quale si induce o costringe la persona offesa
a dare o a promettere l’indebito. Siamo dunque in presenza di
un abuso sotto il profilo soggettivo, di un uso indebito della
propria condizione personale
(indipendentemente e a
prescindere dall’esercizio dei poteri a queste corrispondenti), di
un generico sfruttamento della qualità di pubblico ufficiale, non
direttamente collegato alla adozione di specifici ed individuati
atti amministrativi (tanto che in giurisprudenza si è evidenziato
che per l’integrazione del reato è sufficiente che la qualità
soggettiva dell’agente abbia avvalorato o comunque reso
credibile la sussistenza di una specifica competenza,
indipendentemente dal fatto che l’agente abbia in effetti i poteri
che si attribuisce).
CASO PRATICO (sentenza n. 20792/2010)
L’imputato, direttore generale di una Asl, era stato condannato per il delitto di tentata
concussione nei confronti del presidente della Commissione invalidi civili, per averlo
più volte invitato a riconoscere lo stato di grave invalidità di un soggetto, e per averlo
infine, a seguito del rifiuto di quello di aderire alla richiesta, rimosso dall'incarico. I
giudici di merito evidenziavano che la sequenza cronologica degli atti posti in essere
dall’imputato era indicativa della strumentalizzazione della propria posizione di
preminenza, nella prospettiva non certo di perseguire l'interesse pubblico, ma di
assicurare un indebito vantaggio a un soggetto privato. Il difensore dell’imputato
ricorre per cassazione deducendo tra l’altro l’insussistenza dell’elemento oggettivo
del reato, mancando l’l'abuso della qualità e/o dei poteri da parte dell’imputato, che
agì nell'ambito delle sue prerogative e solo per perseguire l’interesse pubblico. La
Suprema Corte accoglie il ricorso, annullando senza rinvio la sentenza di condanna,
rilevando che nel caso di specie manca tanto l’abuso della qualità (poiché l’imputato
“agì nell'ambito delle sue potestà funzionali, tra le quali deve certamente ritenersi
compresa quella di vigilare sulla funzionalità dei vari servizi e di garantire l'uniformità
di orientamento e, quindi, l'imparzialità dell'attività amministrativa”), quanto l’abuso
dei poteri (“non risultando che l'imputato sia andato oltre le sue prerogative e abbia
perseguito finalità estranee all'interesse pubblico, la cui tutela non può non aver di
mira anche la posizione soggettiva del singolo individuo, che non deve essere
pregiudicata da decisioni affrettate, scarsamente meditate e non in sintonia con le
linee guida dell'attività amministrativa”).
CASO PRATICO (sentenza n. 28123/2010)
L’imputato, responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Ceregnano,
era stato condannato per il delitto di tentata concussione, per aver
posto in essere atti idonei diretti ad indurre l’esercente di una attività
industriale di recupero dei rifiuti a versargli la somma di 100 milioni di
lire, minacciandolo in caso contrario di bloccare o quantomeno
ritardare la procedura relativa al rilascio di una autorizzazione relativa
all'attività di recupero dei rifiuti.
La Suprema Corte conferma la condanna, rilevando tra l’altro la
sussistenza nel caso di specie dell'abuso “della qualità pubblica, cioè
l'utilizzazione per tornaconto personale del ruolo che l’agente ha
assunto nell'ambito dell'organizzazione
amministrativa e quindi
dell'ufficio, distorcendo il suo scopo di servizio a mezzo per limitare o
condizionare la volontà del terzo”, e ciò indipendentemente “da ogni
valutazione circa le attribuzioni che il Comune avesse nell'ambito della
procedura attivata dal F. per ottenere l'autorizzazione .. e al potere di
interdizione eventualmente spettante all'ente comunale”. Il pubblico
ufficiale agì dunque “strumentalizzando la sua funzione, nonché
sfruttando a fini di privato vantaggio la sua posizione di preminenza
connessa all'esercizio di un potere pubblicistico”.
C) COSTRIZIONE
Solitamente, la costrizione si presenta nel reato di concussione
sotto forma di minaccia. E’, invece, più complicato che si possa
ravvisare un’ipotesi di violenza in quanto, in genere, il pubblico
ufficiale non ha bisogno di esercitare violenza sul soggetto
passivo (tra l’altro se il soggetto qualificato fa ricorso alla
violenza probabilmente non ricorre all’abuso dei poteri o delle
qualità e risponde del reato di rapina autonomamente
considerato). Quando il soggetto qualificato abusa dei poteri o
della qualità, lo fa, in genere, prospettando una conseguenza
spiacevole, quindi realizzando tipicamente la condotta di
minaccia. In presenza di minaccia, esplicita o larvata si è di
fronte a quella forma di concussione definita come concussione
esplicita, ovvero mediante costrizione.
49
Il concetto di costrizione secondo la recente giurisprudenza: Sentenza 11942
del 14 marzo 2013
IL FATTO: Un appartenente alla Polizia di Stato minacciando il titolare di
poligono di tiro di non rinnovargli la convenzione per i tiri, faceva risultare per
ogni esercitazione un numero di agenti superiore a quelli effettivamente
impegnati e si faceva poi consegnare le somme per le esercitazioni mai
effettuate.
Secondo la Corte di Cassazione nel caso di specie la coartazione del privato era
tale da non lasciargli “libertà di scelta” E pertanto del tutto corretta era la
qualifica del reato come reato di concussione.
La Corte ha precisato che nel nuovo reato di concussione per costrizione il
PU agisce con modalità ovvero con forme di pressione tali da non lasciare
margine alla libertà di autodeterminazione al destinatario della pretesa
illecita (come appunto accaduto nel caso di specie ove al privato era stato
minacciato il danno della mancata rinnovazione della licenza) E proprio sotto
tale profilo si distingue dalla nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p.
50
D) OGGETTO DELLA DAZIONE O PROMESSA
Per quanto riguarda l’oggetto della dazione o promessa da parte del soggetto concusso la
norma parla di denaro o altre utilità. Il concetto di denaro non pone alcun problema
interpretativo a differenza della nozione di “altre utilità”, sul cui significato si sono profilate
rilevanti incertezze interpretative. Un primo orientamento giurisprudenziale proponeva
un’interpretazione ampia del concetto di utilità, facendovi rientrare qualsiasi forma di
vantaggio, anche di natura morale. In base a questo orientamento, quando il pubblico ufficiale,
anziché denaro o vantaggi economici, richiedeva alla vittima prestazioni di natura sessuale si
configurava una concussione. Tuttavia, in seguito, questo orientamento era stato messo in
discussione da una serie di pronunce che tendevano a negare la rilevanza delle prestazioni di
natura sessuale nel quadro del concetto di utilità. In particolare, la Cassazione nel 1988, aveva
affermato che l’utilità, idonea a configurare un reato di concussione dovesse rappresentare un
vantaggio per il patrimonio e la personalità, negando che profili meramente sentimentali
nonché vantaggi sessuali potessero rientrare in quest’ambito. In un altro intervento del 1991 la
Cassazione, partendo dalla definizione di utilità in termini di vantaggio per il patrimonio o per
la personalità del soggetto attivo, aveva avvallato la tesi restrittiva, che trovava fondamento
nell’affinità che dovrebbe intercorrere tra denaro ed altra utilità, stabilendo che il concetto di
altra utilità dovesse necessariamente denotare un contenuto economico patrimoniale. In
particolare la Cassazione aveva sottolineato come il concetto di utilità nel reato di concussione,
ex articolo 317, dovesse necessariamente consistere in un vantaggio per il patrimonio e la
personalità del soggetto attivo qualificato sostenendo che la nozione di “altre utilità”, indicata
senza alcuna specificazione in alternativa al denaro come dazione o promessa conseguente alla
condotta del concussore, fosse stata posta come parametro di affinità con il denaro, nel senso
che sia il denaro che le altre utilità dovevano denotare un contenuto economico patrimoniale.
In pratica, in base ad una presunta natura giuridica del termine, potevano rientrare nel
concetto di utilità macchine, gioielli, case ecc…, ma non rapporti di natura sessuale.
51
In ultimo, per risolvere definitivamente la questione, sono
intervenute nel 1993 le Sezioni Unite della Cassazione che
hanno negato l’omogeneità tra denaro ed utilità, sostenendo
che l’intenzione del legislatore del 1990 fosse chiaramente
quella di attribuire al termine “altre utilità” il significato
utilizzato nel linguaggio corrente. Le Sezioni Unite hanno
correttamente affermato che il termine utilità presente
nell’ambito del reato di concussione indichi tutto quello che
possa rappresentare un vantaggio per la persona materiale o
morale, patrimoniale o non patrimoniale, consistente sia in un
dare quanto in un fare e ritenuto rilevante dalla consuetudine o
dal convincimento comune. Per questo motivo le prestazioni
sessuali, che rappresentavano il problema maggiore, rientrano
nella categoria delle “altre utilità” ogni qual volta il pubblico
ufficiale ne ottenga la promessa o l’effettiva prestazione
52
Il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità
di cui all’art. 319 quater, deriva proprio da quello di
concussione (317 c.p. ed ha in parte i medesimi
presupposti. “Salvo che il fatto costituisca più grave
reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri,
induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui
o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la
reclusione da tre a otto anni. Nei casi previsti dal primo
comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito
con la reclusione fino a tre anni”.
Nella nuova fattispecie incriminatrice la condotta del p.u.
o dell’incaricato di p.s. è stata ritenuta meritevole di una
pena mitigata MENTRE la condotta del privato che si
lascia indurre all’indebita promessa o dazione è stata
innovativamente ritenuta meritevole di sanzione penale
53
CHE COSA SIGNIFICA INDUZIONE?
Sulla base di un’assonanza con un concetto usato nell’ambito della truffa, una
parte della dottrina (ed in qualche caso anche la giurisprudenza) ha ritenuto
che la condotta induttiva fosse equivalente all’induzione in errore di cui si
parla all’articolo 640. La “induzione indebita a dare o promettere utilità”
risulterebbe, di conseguenza, un comportamento in cui un soggetto
qualificato, abusando dei poteri o delle qualità, trae in inganno il privato
inducendolo ad una dazione o ad una promessa di denaro o di altra utilità. Da
più parti si è obiettato se fosse plausibile questa equiparazione tra una
condotta di concussione implicita ed un comportamento che, così descritto
non sembra essere altro che una truffa. In realtà, non si vede il motivo di
unificare queste due prospettive. Inoltre, potrebbe apparire squilibrato punire
con la durezza della concussione un comportamento da semplici imbroglioni.
Per uscire da questa interpretazione, si è sottolineato che la norma in
questione non parla di induzione in errore, ma solo genericamente di
induzione. L’articolo descrive quindi un fenomeno diverso, ossia una condotta
meno pesante della costrizione, in quanto finalizzata ad esercitare una
pressione sul privato, sia pure con maggiore garbo, senza essere
esplicitamente aggressivi, ma sostanzialmente con lo stesso risultato.
54
La “induzione indebita a dare o promettere utilità” deve essere tenuta
distinta dalla truffa che può essere commessa, senza problemi, anche
da un pubblico ufficiale. Si configura reato di truffa, ai sensi
dell’articolo 640 quando la qualità del pubblico ufficiale concorre in via
accessoria alla determinazione della volontà del soggetto passivo che
viene convinto con artifici o raggiri ad una prestazione che egli crede
dovuta (in pratica, viene ingannato a dare o promettere ciò che non è
dovuto); sussiste, invece, “induzione indebita a dare o promettere
utilità” quando il pubblico ufficiale assume un atteggiamento
prevaricatore allo scopo di ottenere una prestazione non dovuta e
pretesa proprio in virtù del suo potere e non già inducendo in
inganno la parte offesa (in pratica, il soggetto passivo dell’induzione,
pur non essendo messo “nell’angolo” da un soggetto qualificato
particolarmente aggressivo, si rende conto di essere di fronte ad una
richiesta, ad una pressione che lo porta a dare o promettere quanto
non dovuto).
55
Ad esempio, se il pubblico ufficiale ricorre a mezzi ingannevoli per convincere
un soggetto a consegnargli una somma di denaro, si resta nell’ambito della
truffa (è il caso dell’addetto alla riscossione dei ticket sanitari che convince un
parente del paziente del fatto che occorra versare una cifra superiore rispetto
al solito, in questo caso avviene un inganno ed il soggetto passivo adempie
credendo di pagare il dovuto). Se, invece, il pubblico ufficiale tiene un
comportamento che, pur se non esplicitato in forma minacciosa (è sufficiente
l’utilizzazione di termini ambigui, come la prospettazione di difficoltà), rende il
soggetto consapevole di dare o promettere ciò che non è dovuto, venendo
“indotto” da colui che in quel momento sta abusando dei poteri inerenti il suo
servizio, si rientra nell’ambito della “induzione”. Si configura tale reato, ad
esempio, quando, di fronte ad un atteggiamento magari ostruzionistico o ad
un’esplicita richiesta, il paziente è indotto a dare una somma di denaro per
essere curato in tempi accettabili. Il soggetto passivo si rende perfettamente
conto di consegnare una somma non dovuta, ma adempie in quanto indotto,
attraverso un abuso dei poteri, dall’incaricato di pubblico servizio (magari
perché gli viene prospettata la possibilità di fruire in tempi ragionevoli delle
prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale).
56
A fronte di quanto finora illustrato, sembra corretta quella formula,
piuttosto risalente e che non deve essere interpretata in chiave
strettamente psicologica, che, nella descrizione del fatto tipico della
concussione, faceva leva sul cosiddetto “metus publicae potestatis”. Si
sosteneva, infatti, che a caratterizzare la concussione fosse il fatto che
il privato subisse il timore della pubblica autorità, fatto che significava
che il soggetto passivo, per risultare vittima della concussione, dovesse
percepire di subire una prevaricazione in quanto se fosse stato invece
ingannato non avrebbe avvertito la pressione del soggetto qualificato.
L’induzione consiste nello spingere un soggetto, senza ricorrere allo
strumento della minaccia, ad una dazione o ad una promessa che,
autonomamente, mai si sarebbe piegato a compiere.
57
La concussione mediante induzione (quella che oggi è induzione
indebita a dare o promettere utilità), attraverso questa lettura,
mantiene, una maggiore omogeneità rispetto alla concussione
mediante costrizione, ponendosi come forma più sfumata di
pressione. In questi termini, la concussione mediante induzione si
rivela un fatto sostanzialmente omogeneo alla costrizione, ma meno
evidente, e che viene previsto proprio perché il legislatore si è reso
conto che, strumentalizzando la forza, derivante da una determinata
posizione all’interno della pubblica amministrazione, il soggetto
qualificato non è obbligato ad uscire allo scoperto e non è obbligato
ad essere necessariamente aggressivo e minaccioso; anzi, può anche
portare il privato a compiere la prima mossa, quasi a chiedere di
essere concusso per sbloccare una situazione per lui difficoltosa.
58
Il comportamento induttivo non risulta vincolato a forme
predeterminate e tassative, ma è necessario che si riveli in concreto
idonea ad influenzare l’intelletto e la volontà della vittima
convincendola dell’opportunità di provvedere all’immediata o differita
esecuzione dell’ingiusta dazione per evitare conseguenze dannose. Di
conseguenza il comportamento del concussore può realizzarsi anche
attraverso comportamenti surrettizi, concretizzantisi in suggestione
tacita, ammissioni o silenzi, per avere la vittima la convinzione di
adeguarsi ad una prassi ineluttabile, confermata dal comportamento
del pubblico ufficiale.
59
Una recente pronuncia della Cassazione: Sentenza n. 17285 del 15
aprile 2013.
IL FATTO: due funzionari, inducevano un imprenditore agricolo a
promettere loro indebitamente una somma di denaro per ottenere
l’esito positivo di un’istanza avente ad oggetto il contributo
comunitario per favorire i metodi di agricoltura e di allevamento a
regime biologico. La vittima, accortosi della stranezza della richiesta, si
confrontava con il suo tecnico che gli consigliava di rivolgersi alla
Polizia. Così è stato. All’incontro successivo con i funzionari
l’imprenditore si presentava munito di registratore e i due funzionari
ribadivano la richiesta di soldi. La corresponsione effettiva del denaro
non avveniva solo perché i due funzionari si rifiutavano di riceverla.
Tuttavia, i Giudici di merito condannavano gli imputati per il reato di cui
all’art. 317 c.p. (concussione), atteso che tale ultimo comportamento
si era verificato in un momento successivo alla consumazione del reato
avvenuta con la promessa di denaro accettata dai due funzionari.
60
La Corte di Cassazione, dopo aver ENUNCIATO ILPRINCIPIO DI DIRITTO
IN BASE AL QUALE
la condotta di induzione richiesta per la configurabilità del delitto di
cui all'art. 319-quater cod. pen. (introdotto dalla legge n. 190 del
2012) è integrata da un'attività di suggestione, di persuasione o di
pressione morale, posta in essere da un pubblico ufficiale o da un
incaricato di un pubblico servizio nei confronti del privato, che,
percepita come illecita da quest'ultimo, non ne condiziona
gravemente la libertà di autodeterminazione, essendo possibile di
non accedere alla pretesa del soggetto pubblico; diversamente
sarebbe configurabile la fattispecie di concussione di cui all'art. 317 c.p.
a carico del pubblico ufficiale o quella di estorsione aggravata di cui agli
artt. 629 - 61, n. 9, c.p. a carico dell'incaricato di un pubblico servizio.
HA RITENUTO CHE NEL CASO DI SPECIE non è revocabile in dubbio che
la richiesta di tangente formulata dai due funzionari non recava con se
alcuna costrizione della vittima, avendo il tempo ed il modo di agire a
tutela dei suoi interessi riqualificando il fatto nel delitto di cui al 319
quater c.p.,
61
ED ANCORA
CASS. PEN. 26285/2013: A seguito dell'entrata in vigore
della L. 6 novembre 2012, n. 190, la minaccia, esplicita o
implicita, di un danno ingiusto, finalizzata a farsi dare o
promettere denaro o altra utilità, posta in essere con
abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di
concussione se proveniente da pubblico ufficiale ovvero
di estorsione se proveniente da incaricato di pubblico
servizio mentre sussiste il delitto di induzione indebita,
previsto dall'art. 319 quater cod. pen., qualora il pubblico
ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, abusando della
qualità o dei poteri, prospetti conseguenze sfavorevoli
derivanti dall'applicazione della legge per farsi dare o
promettere il denaro o l'utilità.
IL PROBLEMA PRINCIPALE E’ QUELLO DI COMPRENDERE
MATERIALMENTE QUANDO SI REALIZZA LA “COSTRIZIONE” E
QUANDO INVECE SI REALIZZA L’ “INDUZIONE”.
La Giurisprudenza di merito (Corte di Appello dell’Aquila 2422/2013) ha
recentemente statuito che ciò che differenzia la concussione dalla
corruzione ed oggi dalla nuova fattispecie di cui all'art 319 quater c.p.,
sta non tanto nelle modalità, nel tono utilizzato dal Pubblico Ufficiale,
ma nel vantaggio o danno che viene prospettato a sostegno della
richiesta; viceversa, le fattispecie della corruzione e quella nuova della
induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano a
seconda della formazione del volere in capo al privato, che nella
corruzione rimane sostanzialmente insensibile rispetto al ruolo ed al
contegno del soggetto pubblico, potendo la strumentalizzazione
del potere valere al più da mero spunto di un trattativa paritaria,
destinata a sfociare in un accordo, potendo risultare illuminante in tal
senso l'iniziativa o lo sviluppo di vere e proprie trattative. Nella
concussione il privato è vittima del reato, che è così ipotizzabile solo
quando l'abuso del Pubblico Ufficiale realizzi un pericolo di
pregiudizio. Se invece il privato effettua la dazione o la promessa allo
scopo precipuo di trarre un vantaggio, che non sia una mera
conseguenza indiretta del pregiudizio o del maggior danno evitato, non
è prospettabile la fattispecie concussiva, in quanto in tal caso egli
finisce con l'accedere alla richiesta mirando ad assicurarsi un
vantaggio illecito, incompatibile con lo stato di soggezione e
coartazione.
Orbene, commette il reato di concussione chi costringe taluno abusando dei suoi
poteri o della sua qualità prospettando un danno ingiusto per ricevere denaro o altra
utilità; mentre commette il reato ex art 319 quater c.p. chi per ricevere
indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa o un
vantaggio indebito. Nel primo caso l'agente prospetta che se non si paga ne deriverà
un pregiudizio, nel secondo che il pregiudizio sarebbe legittimo e che lo si può
evitare pagando, così realizzando un vantaggio non dovuto, motivo per cui ad una
tale richiesta si può e si deve resistere e, conseguentemente, la nuova fattispecie
sanziona anche il privato. Da quanto detto, è possibile, dunque, affermare che il
privato è vittima di concussione quando il Pubblico ufficiale l'ha posto, pur
senza brutali modalità attuative, nell'alternativa secca di accettare la pretesa
indebita o subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto, per cui di fatto non
gli ha lasciato alcun margine di scelta perché si determina a dare solo per
evitare l'ingiusto pregiudizio minacciato. Al contrario, si configura l'ipotesi
delittuosa di cui all'art.319 quater c.p., quando l'agente, abusando della sua
posizione, formula una richiesta ponendola come condizione per il mancato
compimento di un atto doveroso o per il compimento di un atto favorevole per
l'interessato. (Questo è quanto accaduto nel caso in esame, ove l'imputato
approfittando del clima generale in cui si innestava la vicenda, della sua posizione,
con iniziativa autonoma, faceva pressioni sulla vittima affinché desse denaro e ciò al
fine evidente di assicurarsi ulteriori appoggi e coperture per continuare a lucrare
nell'illecito, prospettando il rischio della fine di tutto ciò. Condotta integrante il reato di
cui all'art. 319 quater c.p.).
CASSAZIONE PENALE N. 11946/2013
Non integra la fattispecie di concussione ex art. 317 cod.
pen. o di induzione ex art. 319 quater cod. pen. la
condotta di semplice richiesta di denaro o altre utilità da
parte del pubblico ufficiale in presenza di situazioni di
mera pressione ambientale, non accompagnata da atti di
costrizione o di induzione. (Nella specie, la Corte ha
ritenuto integrato il delitto di corruzione per atto di ufficio
nel caso di cittadini stranieri che spontaneamente si
rivolgevano ad un faccendiere che a sua volta li metteva
in contatto con agenti di polizia che, dietro compenso, si
interessavano alle pratiche inerenti il rilascio o il rinnovo
del permesso di soggiorno).
CASS. PENALE N. 19190/2013
L'abuso richiesto per la configurazione dei reati di “concussione” (art. 317 c.p.) e di
“induzione indebita” (art. 319 quater, c.p.) non può essere sic et simpliciter
identificato, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla recente novella
legislativa, nella indebita richiesta di denaro o di altra utilità, rivolta dal pubblico
ufficiale al privato, poiché la mera "sollecitazione" in tal senso, ancorché reiterata, si
sviluppa comunque attraverso forme comportamentali inidonee a determinare quella
condotta costrittiva propria del primo modello sopra indicato - che, pur non
eliminandola del tutto, incide gravemente sulla libertà di autodeterminazione del
soggetto passivo - ed integra, di norma, nel caso sia rifiutata, il reato di istigazione
alla corruzione punito dall'art. 322, c. 3 e 4, c.p., e, se accolta, quello di corruzione
consumata, punito dall'art. 318, o, rispettivamente, dall'art. 319 c.p.. Sotto altro,
ma connesso profilo, anche la condotta induttiva prevista per la configurabilità della
diversa ipotesi delittuosa prevista dall'art. 319 quater, c.p., così come introdotta
dall'art. 1, c. 75, della L. n. 190 del 2012, richiede un quid pluris consistente
nell'esigenza che la medesima attività sollecitatrice sia preceduta o accompagnata
da uno e più atti che costituiscono estrinsecazione del concreto abuso delle qualità o
del potere dell'agente pubblico.
La difficoltà della questione è tale che la
Cassazione con Ordinanza 13 maggio 2013, n.
20430 ha rimesso la questione alle Sezioni
Unite: In tema di reati contro la pubblica
amministrazione, ai sensi dell’articolo 618 del Cpp,
deve essere rimessa alle sezioni Unite la
questione relativa ai presupposti di applicabilità
degli articoli 317 e 319-quater del codice
penale (come rispettivamente sostituito e
introdotto dalla legge 6 novembre 2012 n. 190,
contenente «Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e della illegalità nella
pubblica amministrazione») e quali gli elementi di
distinzione delle relative fattispecie incriminatrici.
IL REATO DI CORRUZIONE TRA PRIVATI
L’art. 2635 c.c. introduce, seppur debolmente, nel nostro
ordinamento una fattispecie generale di corruzione tra privati.
Esempi tipici del reato di corruzione tra privati sono: il
responsabile dell’ufficio acquisti di un impresa che preferisce un
fornitore, magari meno conveniente, agli altri in ragione della
tangente che gli è stata promessa; il manager di un istituto di
credito che chiede una remunerazione in denaro per prestare il
proprio consenso ad una operazione di fusione non vantaggiosa
per la banca; l’amministratore di una società commerciale che
affida pratiche ad un legale in cambio di una percentuale sul
compenso riconosciuto al professionista.
Si tratta di condotte che, inserendosi in attività commerciali e
d’affari, sono motivate dal perseguimento di un indebito
vantaggio patrimoniale e si traducono nella violazione dei doveri
collegati alla funzione ed alla posizione dell’agente nell’ambito
della persona giuridica privata.
68
art. 2635 c.c. ante riforma
Infedeltà a seguito di dazione o promessa
di utilità.
Gli amministratori, i direttori generali, i
dirigenti preposti alla redazione dei
documenti contabili societari, i sindaci e i
liquidatori, i quali, a seguito della dazione o
della promessa di utilità compiono od
omettono atti, in violazione degli obblighi
inerenti al loro ufficio, cagionando
nocumento alla società sono puniti con la
reclusione sino a tre anni.
La stessa pena si applica a chi dà o
promette l'utilità.
La pena e' raddoppiata se si tratta di
societa' con titoli quotati in mercati
regolamentati italiani o di altri Stati
dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico
in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116
del testo unico di cui al decreto legislativo
24 febbraio 1998, n. 58.
Si procede a querela della persona offesa.".
Art. 2635 c.c. dopo riforma
Corruzione tra privati
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli
amministratori, i direttori generali, i dirigenti
preposti alla redazione dei documenti contabili
societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito
della dazione o della promessa di denaro o altra
utilità, per sé o per altri, compiono od omettono
atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro
ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando
nocumento alla società, sono puniti con la
reclusione da uno a tre anni.
Si applica la pena della reclusione fino a un anno e
sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto
alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti
indicati al primo comma.
Chi dà o promette denaro o altra utilità alle
persone indicate nel primo e nel secondo comma è
punito con le pene ivi previste.
Le pene stabilite nei commi precedenti sono
raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati
in mercati regolamentati italiani o di altri Stati
dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in
misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo
unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria, di cui al decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive
modificazioni.
Si procede a querela della persona offesa, salvo
69
che dal fatto derivi una distorsione della




La modifica normativa ha ampliato il novero dei soggetti attivi: oggi, oltre agli
amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti
contabili societari, sindaci e liquidatori, rispondono del reato anche i soggetti ad essi
subordinati (ovvero i dipendenti, para-subordinati, agenti ed ogni altro soggetto
sottoposto alla direzione o vigilanza dei soggetti qualificati), ma le pene sono ridotte.
Quanto alla condotta oggetto di incriminazione essa è tuttora integrata dal
compimento o dall’omissione, a fronte della corresponsione o della promessa di
denaro o di altra utilità, di atti in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio, a
cui oggi si aggiunge la violazione di un più generico obbligo di fedeltà. Verranno
pertanto in rilievo tutti gli obblighi in cui si traduce il rapporto fiduciario esistente tra
l’agente e la società nonché il generale dovere di lealtà e buona fede nell’esecuzione
del rapporto esistente con la società
Il reato in questione continua inoltre a dipendere dalla causazione dell’evento
costituito dal procurato nocumento alla società che, non essendo specificato che
deve essere di natura patrimoniale, potrà essere rappresentato anche dal c.d. danno
all’immagine.
Il fatto corruttivo resta procedibile a querela di parte, salvo che dall’illecito consegua
una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi, ovvero che la
corruzione del funzionario privato non sia solo stata finalizzata ad acquisire una
fornitura a discapito di un concorrente, ma anche che abbia in concreto comportato
una violazione di una sorta dipar condicio dei fornitori.
Secondo la giurisprudenza l’atto il cui
compimento od omissione integra il
reato di corruzione tra privati può
essere costituito anche da un parere o
da un voto espresso ai fini della
formazione di una delibera di un organo
collegiale della società (Corte di
cassazione 5848/2012)
IL REATO DI PECULATO
ARTICOLO 314 CODICE PENALE – Peculato: Il pubblico ufficiale o l’incaricato di
pubblico servizio che avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso
o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne
appropria è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole
ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa dopo
l’uso momentaneo è stata immediatamente restituita.
. E’ stata tra le altre cose eliminata la vecchia dicotomia tra peculato (articolo
314) e malversazione a danno di privati (articolo 315, ora abrogato), fattispecie
pressoché coincidenti che si distinguevano per il semplice fatto che nel
peculato il denaro o la cosa mobile appartenevano alla pubblica
amministrazione mentre nella malversazione appartenevano al privato,
ancorché in possesso della pubblica amministrazione Per fare un esempio,
quando gli organi competenti sequestravano un bene ad un privato,
affidandolo alla segreteria del giudice per la custodia ai fini giurisdizionali, il
fatto dell’appropriazione di quel bene, da parte di un soggetto inquadrato nella
pubblica amministrazione, dava luogo formalmente ad una malversazione
anche si trattava né più né meno di una forma di peculato. Tra le altre cose, le
pene previste per le due fattispecie erano perfettamente coincidenti. Il
legislatore per risolvere il problema di dicotomia, ha utilizzato, parlando di
denaro o di altra cosa mobile, nell’ambito del nuovo articolo 314, l’accezione
“altrui”, che sta a significare l’appartenenza alla pubblica amministrazione o ad
un privato.
72
Oltre ad avere riscritto la figura di peculato in senso stretto, il
legislatore ha introdotto nel secondo comma, l’ipotesi del
peculato d’uso, che, è stata distinta sotto il profilo
sanzionatorio, dalla fattispecie dal peculato in senso stretto.
Con questo intervento, quanto mai opportuno, è stato
definitivamente risolto il dubbio sulla configurabilità di un
peculato mediante momentaneo utilizzo illecito di una cosa,
differenziando la risposta sanzionatoria rispetto alla vera e
propria appropriazione. Il secondo comma del vecchio articolo
314, inerente l’interdizione dai pubblici uffici, pena accessorie
che consegue alla condanna, è confluito, senza alcun
cambiamento rilevante, in una norma autonoma che riguarda
anche il reato di concussione. Trattasi dell’art. 317 bis c.p. in
base al quale la condanna per i reati di peculato e concussione
comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici E se per
circostanza attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo
inferiore a tre ani, la condanna importa l’interdizione
temporanea.
A) Peculato in senso stretto
Nel quadro generale del reato di peculato, il punto di partenza, che consente di
mantenere l’opportuna simmetria rispetto al reato comune di appropriazione
indebita, è rappresentato dal fatto che l’autore del reato (pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio) detiene il possesso o la disponibilità del denaro o
dell’altrui cosa mobile per ragioni dell’ufficio. Semplificando la questione, si può
affermare che il peculato si rivela una sorta di appropriazione indebita commessa
dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio ed avente oggetto non
una qualsiasi cosa, bensì una cosa di cui abbia il possesso per ragioni d’ufficio o
del servizio; questo collegamento è necessario affinché il fatto transiti da una
semplice appropriazione indebita ad un peculato.
1) Possesso e disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio
Il possesso o la disponibilità per ragioni dell’ufficio o del servizio rappresenta
elemento costitutivo e presupposto fondamentale della fattispecie di
peculato. Il possesso e la disponibilità non si configura solo quando sussiste
un rapporto molto stretto tra il denaro o la cosa mobile ed il pubblico ufficiale
o l’incaricato di pubblico servizio (nel senso che la cosa era abbinata in via
esclusiva alla cura ed alla possibilità di disporre da parte del pubblico
ufficiale), ma anche quando è possibile, da parte del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di pubblico servizio, esercitare in qualche misura un’azione
illegittima sulla cosa o sul denaro approfittando della posizione occupata
all’interno della pubblica amministrazione.
74
Non èindispensabile un rapporto di disponibilità immediata della cosa da parte
del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che il pubblico ufficiale, usando i propri
poteri o comunque approfittando del suo inquadramento nella pubblica
amministrazione, riesca a mettere le mani sul denaro o sulla cosa mobile
appropriandosene nei termini della condotta descritta dall’articolo 314.
IL RAPPORTO DI DISPONIBILITÀ, si noti, può essere materiale, ma anche
giuridico. Infatti, sembra ridicolo che l’ordinamento consenta, per esempio,
l’incriminazione di chi svolge servizio di cassa presso un’Unità sanitaria Locale e si
appropria di poche centinaia di euro contenute in cassa non colpendo, invece, il
soggetto che, emettendo un provvedimento cartaceo, riesce a spostare miliardi
mettendoli a disposizione di un altro soggetto (a lui legato) in maniera illegittima.
E’ evidente che IL POSSESSO non si realizzi soltanto quando il denaro o la cosa
mobile sono posti nella diretta disponibilità del pubblico ufficiale, ma anche quando il
pubblico ufficiale riesca ad influirne sulla destinazione. In questo caso, si realizza
una forma di peculato in cui, almeno in partenza, non è presente un rapporto
immediato con la cosa, anche se risulta chiaro, come si ricava dal codice, che il
pubblico ufficiale gode della possibilità di utilizzarla.
N.B.: LA NORMA PARLA DI POSSESSO E DETENZIONE NON A QUALSIASI
TITOLO bensì per ragioni dell’ufficio o del servizio.
CHE COSA SIGNIFICA “PER RAGIONI DELL’UFFICIO O DEL SERVIZIO”?
L’accezione “ragioni dell’ufficio o del servizio” non significa
necessariamente che debba essere presente una stretta competenza
funzionale da parte del soggetto in quanto si ammette che la
disponibilità possa anche derivare da prassi illegittime, da situazioni
normativamente non regolamentate o da situazioni di disponibilità di
fatto (ipotesi in cui dovrebbero essere soggetti diversi a disporre di
quel denaro o di quella cosa).
Le ragioni di ufficio consistono dunque nella disponibilità o possesso
dei beni in conseguenza delle specifiche competenze e funzioni svolte
dal PU o IPS, DERIVANTI SIA DA NORME (DI LEGGE E REGOLAMENTO)
SIA DA PRASSI SIA DA CONSUETUDINI CHE CONSENTONO di dirottare
l’utilizzazione della cosa dalla destinazione a pubblica utilità al
patrimonio privato del soggetto che agisce (o di terzi a lui legati).
76
Si escludendo solamente quelle disponibilità o possesso collegati a rapporti di mera
occasionalità di tipo materiale.
Occasionalità: il dirigente che distrae somme di denaro che gli sono state consegnate in via
fiduciaria dal ragioniere per il pagamento trimestrale IVA, ha il possesso e la disponibilità delle
somme per un fatto meramente occasionale e non risponde di peculato. Il Ragioniere che
invece di pagare l’IVA si intasca i soldi risponde di peculato.
Il Dirigente che per prassi o consuetudine ha accesso alla cassa dell’ente e distrae le somme di
denaro ivi contenute, risponde di peculato. Se invece la cassa è affidata ad un dipendente e il
dirigente né per prassi né per consuetudini vi ha accesso, in caso di “appropriazione” di quelle
somme non risponderà di peculato
Altro fatto estremamente importante è che secondo un orientamento giurisprudenziale non
commette peculato il soggetto che si appropria di cose di modesto o insignificante valore. La
ratio di questa posizione può essere ricercata, come sottolineato dalla Cassazione, nelle finalità
della sanzione penale in base alle quali è volontà dell’ordinamento applicare la sanzione solo
“in quei casi in cui l’afflizione legislativamente stabilita sia proporzionale al fatto commesso ed
il soggetto appaia bisognoso dell’emenda connessa a quell’afflizione”.
77
2. Condotta appropriativa
L’individuazione della condotta appropriativa risulta meno semplice di
quanto, si possa pensare. Il primo problema che si pone concerne la
possibilità di far rientrare all’interno di tale concetto, quelle condotte
caratterizzate dalla “distrazione delle somme di denaro o della cosa
mobile a favore proprio od altrui”.
ANCHE LA DISTRAZIONE DEI BENI RIENTRA NEL CONCETTO DI
APPROPRIAZIONE.
Nel MOMENTO IN CUI il PU o IPS sposta (c.d. distrazione) delle somme
dall’obiettivo A (perseguimento di un interesse pubblico) all’obiettivo B
(privilegio di un interesse privato) ECCO che quel PU od IPS si
comporta con i soldi dell’ente come se fossero di sua proprietà (“uti
propri”).
E
comportandosi con quei soldi come se fossero suoi di fatto se ne è
appropriato. Se poi quei soldi invece di prenderseli lui, li ha dati a altri
si avrà distrazione.
78
La Cassazione prevede che “è pertanto
configurabile solo la distrazione quando si tratti
di pagamenti indebiti in favore di terzi, operati
pur sempre in nome e per conto della pubblica
amministrazione”. D’altra parte, pare un po’
difficile pensare che un pubblico ufficiale riesca
a realizzare un’appropriazione in nome proprio
in quanto verrebbe meno anche la
giustificazione formale dell’erogazione.
79
B) Peculato d’uso
La fattispecie di peculato costituisce un reato autonomo ove il fine perseguito
dall’agente di fare un uso momentaneo impedisce di inquadrare il fatto nel peculato
ordinario, che prevede, invece, un’appropriazione definitiva o continuata.
Esempio tipico l’uso indebito dell’auto blu della pubblica amministrazione, ad esempio
per andare in gita nel week-end, rappresenta un distoglimento della cosa, sia pure
limitato nel tempo, sia pure non così devastante come l’alienazione della res o il suo
introitamento nel patrimonio del privato
1. Concetto di uso momentaneo - Naturalmente l’uso deve risultare momentaneo e
deve essere accompagnato dalla restituzione della cosa. Uso momentaneo significa che
si può avere peculato d’uso quando si è di fronte ad abusi di tipo sporadico, mentre,
invece, quando si è di fronte ad un abuso sistematico può scattare il reato più grave,
cioè il peculato per appropriazione.
Per la Cassazione ha più volte confermato che l’uso prolungato della cosa di proprietà
della pubblica amministrazione, non risulta condotta tipica della fattispecie di peculato
d’uso, ma della più grave fattispecie di peculato.
Naturalmente vi rientra anche l’ipotesi in cui venga effettuato un impossessamento per
un’utilizzazione momentanea, ma la restituzione non possa avvenire per un fatto non
imputabile al soggetto (caso fortuito, caso forza maggiore, ecc…).
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2. Peculato d’uso su cose fungibili - Un punto che rimane dubbio, ed è oggetto
di pronunce contraddittorie, riguarda la possibilità di configurare il peculato
d’uso su cose fungibili ed in particolare sul denaro. Normalmente si ravvisa
peculato per appropriazione non solo nell’ipotesi in cui il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio intaschi definitivamente i soldi della pubblica
amministrazione, ma anche nel caso in cui il denaro venga trattenuto
indebitamente per un tempo apprezzabile per poi essere restituito, ipotesi in
cui sistematicamente si ritarda il versamento delle somme riscosse a vario
titolo.
La possibilità di configurare il reato di peculato d’uso si nega in quanto,
essendo il denaro una cosa fungibile (cioè una cosa, che una volta spesa, non
può essere sostituita con un’altre equivalente), non si può realizzare
un’appropriazione momentanea perché l’appropriazione riguarda proprio
quella cosa determinata di cui si aveva il possesso e di cui si è fatto un uso
indebito.
Su questa base, l’orientamento prevalente è indirizzato nel senso di ritenere
non configurabile il peculato d’uso nei confronti delle cose fungibili e, quindi,
ovviamente, di ritenere in questi casi configurabile il peculato in senso proprio.
Tra l’altro deve essere rimarcato che il comma 1 dell’articolo 314 parla di
denaro o di altra cosa mobile, mentre il comma 2 (peculato d’uso) fa
riferimento solamente ad una cosa mobile.
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3.Uso indebito dell’utenza telefonica
Cassazione Penale Sez. Unite, 2 maggio 2013, n. 19054 PREMESSO CHE Con ordinanza 24 settembre 2012,
n. 36760, è stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: "Se l’utilizzo per fini personali di utenza
telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione richiesta per la configurazione
del delitto di peculato ex art. 314, comma primo, cod. pen. ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta
rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello
Stato". HA STATUITO Con sentenza resa all'esito dell'udienza del 20 dicembre 2012 le Sezioni Unite,
superando il precendente più rigoroso orientamento che qualificava la condotta in esame in termini di
peculato ordinario CHE L’USO INDEBITO COSTITUISCE PECULATO D’USO.
la condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono
assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica
amministrazione o di terzi o una concreta lesione alle funzionalità dell'ufficio, è sussumibile nel
delitto di peculato d'uso di cui all'art. 314, comma secondo, codice penale". Non può non rilevarsi si legge inoltre nella sentenza - "che il raggiungimento della soglia della rilevanza
penale presuppone comunque l'offensività del fatto, che, nel caso del peculato d'uso, si realizza con
la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della P.A. o di terzi ovvero (ricordando la
plurioffensività alternativa del delitto di peculato) con una concreta lesione della funzionalità
dell'ufficio: eventualità quest'ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo
nelle situazioni regolate da contratto c.d. ‘tutto incluso'". (CON IL PIANO GARIFFARIO TUTTO
INCLUSO
E’
DIFFICILE
PARLARE
DI
DANNI)
Non si dimentichi poi l’’articolo 10 comma 5 del decreto del ministro per la funzione pubblica del
31/03/1994, in base al quale il pubblico dipendente, in casi eccezionali può effettuare chiamate personali
della linee telefoniche dell’ufficio.
Non si dimentichi inoltre: AUTORIZZAZIONE E FORZA MAGGIORE
82
4. Uso di internet.
E’ PECULATO D’USO: La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20326/08,
ha fissato il principio in base al quale il PU o IPS che navighi su
Internet per scopi personali, indipendentemente dal tipo di
connessione utilizzato dal datore di lavoro, incorre nel reato di
peculato al pari di chi utilizza il telefono d'ufficio per scopi personali.
Sulla scorta della pronuncia delle Sezioni Unite, però , occorre un uso
illegittimo ai fini personali che produca un apprezzabile danno al
patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una
concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio.
Vi rientra però anche la condotta di chi naviga scaricando files non
inerenti alla pubblica funzione ( files di carattere pornografico).
NB: state attenti ad e-mule ed ad altri programmi simili. Il rischio di
scaricare files non voluti e di carattere compromettente è serio e reale
(ed è tutto rintracciabile)
83
ABUSO D’UFFICIO
ARTICOLO 323 CODICE PENALE – Abuso d’ufficio: Salvo che il fatto non
costituisca un più grave reato (clausola di sussidiarietà) , il pubblico ufficiale,
o l’incaricato di pubblico servizio, che, nello svolgimento delle funzioni o del
servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento (tipizzazione della
condotta ) ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio
o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente
procura (escluso dolo eventuale) sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale (solo vantaggio economicamente valutabile) ovvero reca ad
altri un danno ingiusto (reato di evento) è punito con la reclusione da uno a
quattro anni.
La pena è aumentata nei casi un cui il vantaggio o il danno hanno un
carattere di rilevante gravità.
Il soggetto qualificato per realizzare un abuso d’ufficio nello svolgimento delle
funzioni o del servizio deve commettere una violazione di legge o di
regolamento oppure una violazione del dovere di astensione incombente in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o di eventuali altri
casi in cui l’astensione sia imposta dalla legge.
Nella norma sull’abuso d’ufficio rientrano solamente condotte che siano
espressione dell’attività pubblica affidata all’agente, al contrario quando la
funzione ed il servizio risultano del tutto estranei alle attribuzioni dei soggetti
qualificati, non è ravvisabile la fattispecie di abuso d’ufficio ma tutt’al più
differenti fattispecie reato (ad esempio usurpazione di funzioni pubbliche, ex
articolo 347)
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A) Il soggetto avvantaggiato dall’abuso d’ufficio può essere sia colui che
assume tale condotta sia un terzo.
Anche il terzo risponde (art. 110 c.p.) del reato di abuso d’ufficio SOLO
ED ESCLUSIVAMENTE quando non si sia limitato a godere del vantaggio
MA abbia posto in essere una condotta aggiuntiva ulteriore, che vada
oltre la condotta minima non punibile di parte speciale, ossia il
semplice usufruire del vantaggio patrimoniale (determinazione,
accordo, istigazioni, ecc…).
nb: Nell’ipotesi in cui si scopra che il soggetto passivo ha remunerato
il soggetto qualificato per commettere un abuso d’ufficio entrambi
risponderanno del più grave reato di corruzione .
85
B) Salvo che il fatto non costituisca più grave reato si risponde di abuso d’ufficio. Il
reato di abuso d’ufficio è norma tipicamente residuale e come tale, in virtù della
clausola di riserva, è applicabile solo quando non si configuri un reato più grave.
Ad esempio, il reato di corruzione assorbe quello di abuso d’ufficio nell’ipotesi in
cui l’abuso d’ufficio consista in condotte funzionali all’accordo corruttivo,
Il reato di turbata libertà degli incanti ex articolo 353, comma 2, non da luogo a
concorso formale con l’abuso d’ufficio, che viene assorbito nel reato più grave
(chiaramente in questo caso entrambe le norme tutelano lo stesso interesse ossia il
buon andamento della pubblica amministrazione). Risultano più controversi i
rapporti dell’abuso d’ufficio con i reati di falso in quanto la Cassazione ha assunto al
riguardo posizioni diverse. Secondo una pronuncia del 2002, che ha confermato un
indirizzo già emerso nel 2001, i reati di falso ideologico, ex articolo 479, ed abuso
d’ufficio, ex articolo 323, risultano posti a tutela di due interessi diversi, buon
andamento della pubblica amministrazione in una caso ed interesse alla veridicità
dei mezzi di certezza pubblica nell’altro (il che sarebbe già sufficiente a negare
un’eventuale concorso apparente di norme), ed inoltre non sarebbero nemmeno
caratterizzati da un rapporto di specialità in astratto in quanto secondo la
Cassazione il reato di falso non potrebbe assorbire il reato di abuso d’ufficio
essendo privo di alcuni elementi costitutivi come il procurare un danno ingiusto o
un vantaggio patrimoniale ingiusto. Nel 1999 la Cassazione si era invece espressa
per il concorso apparente di norme in virtù della clausola di riserva prevista all’inizio
dell’articolo 323, il che significherebbe l’assorbimento dell’abuso d’ufficio nel più
grave reato di falso che prevede una cornice edittale da tre a dieci anni.
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C) La norma si presente come reato a dolo generico, ma qualificato, in quanto ciò che in precedenza
rappresentava il dolo specifico è diventato l’evento del reato con la novità che è sparito il riferimento al
vantaggio non patrimoniale. Il procurare (intenzionalmente), a sé o al altri, un ingiusto vantaggio
patrimoniale o, in alternativa, l’arrecare ad altri un danno ingiusto risultano eventi che devono essere
necessariamente realizzati perché il reato possa ritenersi consumato.
l’avverbio intenzionalmente: chi, per esempio, senza regalare niente a nessuno, utilizza lo strumento della
trattativa privata in situazioni non legittime non perché amico del soggetto invitato alla gara informale,
bensì perché, a fronte di una scadenza vicina, ritiene di essere in difficoltà a seguire le normali procedure,
non utilizza quella trattativa per arrecare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno
ingiusto.
La Cassazione, in un intervento del 2000, non ha ravvisato abuso d’ufficio per assenza del dolo intenzionale
in un caso in cui alcuni amministratori comunali avevano violato la normativa edilizia al fine di evitare lo
spopolamento della montagna favorendo però in questo modo alcuni proprietari immobiliari.
In ultimo è opportuno ricordare che, come sottolineato anche dalla Cassazione nel 2001, ai fini della
configurabilità del dolo intenzionale, risulta del tutto irrilevante il movente, che induce a perseguire, come
fine della condotta, la realizzazione del reato. Di conseguenza dolo del reato “de quo” sussiste anche quando
l’evento patrimoniale procurato è il mezzo che il pubblico ufficiale si raffigura e vuole per realizzare uno
scopo ulteriore, magari lecito.
1) Rettore di Università che assume personale trimestrale con troppa disinvoltura - manca l’intenzionalità di attribuire
ai trimestrali un vantaggio patrimoniale
2) Presidente di seggio elettorale che, sbagliando, non consente a un elettore di votare - manca il dolo intenzionale nei
confronti dell’elettore
3) Presidente di un Municipio della città di Roma che aveva “requisito” alloggi vuoti a favore di persone sfrattate manca il dolo intenzionale
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D) Violazione del dovere di astensione
E’ importante ricordare la portata della cosiddetta violazione del
dovere di astensione, in merito al quale è opportuno non ritenere
automatica la realizzazione del reato con una semplice violazione. Non
è possibile che la semplice violazione del dovere di astensione possa
risultare sufficiente a configurare la fattispecie reato. E’ necessario,
invece, che la violazione sia strumentale al perseguimento
intenzionale di un vantaggio patrimoniale ingiusto, elemento che fa
parte della struttura oggettiva della fattispecie.
Il medico in servizio presso una ASL che dopo aver visitato un paziente
lo indirizza verso un laboratorio medico non convenzionato di cui è
socio, non avvertendo il paziente della possibilità di eseguire l’esame
anche presso una struttura convenzionata e violando di conseguenza il
dovere di astensione cui era tenuto, risponde del reato di abuso
d’ufficio perchè intenzionalmente procura a sé
un vantaggio
patrimoniale
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E) Violazione di leggi
La condotta del nuovo articolo 323 prevede la violazione di norme di legge o di
regolamento.
Ci si chiede se per violazione di legge si debba intendere quel vizio
“amministrativo” che ricomprende anche l’eccesso di potere.
La risposta è estremamente importante perché la patologia dell’eccesso di
potere ricomprende una vasta gamma di condotte invece non ricomprese nella
violazione formale delle norme di legge.
L’eccesso di potere, violando i principi di buon andamento e di imparzialità
della pubblica amministrazione (art. 97 Cost). Ricomprende infatti
comportamenti che, in sé e per sé, non sono direttamente confliggenti con
una specifica norma (penale, amministrativa, ecc…).
Si tratta quindi di capire se per violazione di legge si possa intendere anche
violazione del buon andamento ed imparzialità di cui all’art. 97 Cost e quindi
violazione dell’art. 97 Cost.
La giurisprudenza sostiene ANZITUTTO che per violazione di legge si deve
intendere violazione di una norma che abbia la forma della norma di legge o
regolamento E CHE ABBIA NATURA PRECETTIVA, imponendo cioè un preciso
“facere” che miri appunto ad inibire e prescrive che il destinatario assuma una
condotta che in maniera molto generica potremmo definire “antigiuridica”
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Pertanto, ad esempio, la violazione di una delibera o determinazione, non
avendo la forma o meglio la veste formale di una legge o regolamento non può
rientrare nella nozione della violazione di legge.
Per quanto attiene invece alla violazione dell’art. 97 Cost (che sicuramente ha
la veste formale di norma di legge, è la legge delle leggi) il problema si suole
dire che:
- il BUON ANDAMENTO è da considerarsi norma programmatica, priva di valore
precettivo. Tutte le norme di carattere programmatico, non avendo valore
precettivo, non possono integrare il reato in parola
- L’IMPARZIALITA’ invece può in determinati casi assumere valore di norma di
legge avente carattere precettivo e dunque può rilevare ai fini del reato in
parola Quando si verifica tale condizione?
Quando l’imparzialità non viene intesa nel suo senso comune come SOGGETO
AL DI SOPRA DELLE PARTI (concetto questo privo di valore precettivo) bensì
quando viene inteso come tutela ad un interesse nel confronto con l'insieme
degli altri interessi pubblici e privati con i quali deve essere "ponderato“
perché in tal caso l’imparzialità è rivolta al perseguimento di obiettivi specifici.
90
In tal senso imparzialità significa obbligo per l'amministrazione di
trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili con la
medesima misura. E dunque divieto di favoritismi.
E’ dunque il divieto di favoritismi che ha i caratteri e i contenuti
precettivi richiesti dall'art. 323 c.p., in quanto impone all'impiegato o
al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento,
di immediata applicazione.
Pertanto "il preferenziale disbrigo di pratiche" (ad esempio invece di
seguire l’ordine di protocollo di fa lassare avanti la pratica dell’amico,
del parente etc) a discapito delle altre agenzie di pratiche
automobilistiche configura l’ipotesi di favoritismo in violazione del
principio fissato dall'art. 97 Cost., che, in quanto riferibile non solo
all'organizzazione dell'ufficio, ma alla condotta della persona fisica
del funzionario, può essere presa in considerazione come violazione di
legge ai sensi dell'art. 323 c.p..
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F) Violazioni di regolamenti
Anche sul versante della violazione di regolamenti si è aperto un ampio
dibattito. Il regolamento deve essere inteso in senso tecnico, quindi deve farsi
riferimento alla tipica fonte di normazione secondaria della pubblica
ammnistrazione, quali i regolamenti dipendenti, delegati e di esecuzione, di cui
all’articolo 17 della legge 23 Agosto 1988, n.400 (regolamenti governativi) che
presentano determinate caratteristiche (tra cui quella più importante di essere
adottati, in genere, dall’autorità centrale). Per quanto riguarda gli enti locali si
deve fare riferimento all’articolo 5 della legge 8 Giugno 1990, n.142 (ora,
articolo 7 del D.Lgs. 18 Agosto 2000, n.267). Non hanno, invece, natura di
regolamento le circolari, in quanto, essendo sprovviste di forza normativa,
contengono soltanto criteri tecnico-amministrativi la cui violazione può
integrare solo il vizio dell’eccesso di potere.
Anche nel caso in cui vengano violate regole di competenza è stata riscontrata
la violazione di legge
Caso dubbio: violazione norme di CCNL
In un caso la delibera di rimborso di spese legali per sindaco e dipendente del
comune a causa di un procedimento penale costituisce una violazione di una
norma del CCNL e quindi non integra l’abuso d’ufficio. In altro caso la nomina
di un soggetto privo dei requisiti ad una determinata posizione organizzativa è
stata configurata come abuso d’ufficio: se è vero che il regolamento e il CCNL
prevedevano la laurea che il soggetto non aveva, questa violazione aveva
portato di conseguenza anche la violazione di norme di legge.
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G) Profitto ingiusto e danno ingiusto
Vantaggio patrimoniale oppure in alternativa danno (non necessariamente
patrimoniale).
Attualmente, invece, una volta riscontrata la violazione di legge occorre
dimostrare che la violazione abbia generato un vantaggio patrimoniale
ingiusto in quanto, quando il vantaggio si può ritenere conforme al diritto,
anche se è stato realizzato seguendo un iter sbagliato, vi potrà essere, tutt’al
più, una contestazione di responsabilità sul piano politico, disciplinare
amministrativo o contabile, ma non si potrà parlare di fatto penalmente
rilevante. Illegittimità dell’atto, d’altra parte, non può significare
automaticamente illiceità penale del comportamento.
L’ingiusto vantaggio patrimoniale può essere ravvisato in qualsiasi utilità
economicamente apprezzabile per il soggetto favorito dall’abuso, come per
esempio la vittoria di un concorso pubblico per l’assunzione presso la
pubblica amministrazione avvenuta sine iure grazie all’abuso d’ufficio
realizzato da un commissario che ha suggerito la prova di esame. Lo stesso
discorso è valido per l’illegittimo rilascio di una concessione edilizia in sanatoria
o di una autorizzazione amministrativa, entrambe comportanti vantaggi di
natura economica.
93
•
•
•
Riguardo al danno ingiusto:
un primario che esclude un medico dipendente dalla struttura dei
servizi inerenti la propria qualifica per via di dissapori violando la
normativa in tema di organizzazione del servizio sanitario.
L’autista (sempre che possa essere considerato pubblico ufficiale) che
dopo un diverbio decide di fare scendere tutti i passeggeri dall’autobus
causando loro un danno ingiusto
Un’ipotesi tutt’altro che infrequente di danno ingiusto è rappresentata
ancora dall’atteggiamento ostruzionistico assunto da chi si trova al
vertice di un ente locale nei confronti di chi occupa una posizione di
minoranza, come avviene quando un sindaco impedisce ad un partito
avversario di affiggere i propri manifesti.
94
L) Momento consumativo del reato
L’aver spostato il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto da oggetto del dolo specifico a
condizione di evento strutturale del reato ha portato cambiamenti sul piano delle
conseguenze concrete nell’ipotesi in cui il vantaggio non venga raggiunto per l’intervento di
qualche fattore impeditivo nella conclusione della vicenda.
Se il vantaggio od il danno non si verificano, si rimane nell’ipotesi di tentativo di abuso d’ufficio.
Il reato di abuso d’ufficio si considera, comunque, consumato anche qualora il profitto sia
stato solo parzialmente realizzato. Secondo la Cassazione nelle ipotesi di abuso d’ufficio
commesso mediante il rilascio di una concessione edilizia illegittima, il vantaggio
patrimoniale ingiusto per il privato beneficiario del titolo è integrata dalla semplice
attribuzione dello “ius aedficandi”, anche a prescindere dall’effettiva realizzazione dell’opera
assentita.
Un altro esempio può essere rappresentato dal soggetto qualificato che agisce per motivi di
rancore personale nei confronti di un sottoposto, che non ha rispettato la sua posizione
gerarchica, adoperandosi per farlo trasferire nel classico reparto ghetto in cui nessuno vuole
andare, perché si lavoro molto e si è poco gratificati. Una volta disposto il trasferimento,
qualora intervenga un’autorità superiore che rilevi l’illegittimità dell’atto, bloccando il
trasferimento, il soggetto qualificato, che ha cercato di recare il danno ingiusto al sottoposto,
è sanzionabile per tentativo di abuso d’ufficio. Ai sensi della normativa precedente, la
situazione sarebbe stata valutata come un abuso d’ufficio consumato in quanto, in precedenza,
era sufficiente agire al fine di recare un danno ingiusto.
95
ART. 328 c.p.: Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione.
Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio,
che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che,
per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di
ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere
compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei
mesi a due anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico
ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro
trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non
compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre
le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad
un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta
deve essere redatta in forma scritta ed il termine di
trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta
96
stessa
Esaminiamo gli elementi costitutivi del reato in questione.
1) Soggetti attivi: Tale reato può essere commesso solo dal
pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio. È
necessario inoltre che questi abbiano COMPETENZA a
compiere l’atto richiesto. Nel caso di procedimento
amministrativo il cui iter coinvolga più uffici appartenenti alla
medesima amministrazione, gli atti o le attività interne, la cui
omissione dovrebbe trovare rimedio nella previsione di attività
sostitutive di altri soggetti e sanzione nel promovimento del
giudizio disciplinare, non sono penalmente rilevanti, ricadendo
nella fattispecie della norma penale solo gli atti esterni, costituiti
dal provvedimento finale o quelli che, precedendo il
provvedimento finale, si presentano come atti necessari dotati di
autonoma rilevanza.
97
2) Elemento oggettivo: 2 ipotesi:
a) il I° comma fa riferimento al PU o IPS che “indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che per
ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica di ordine pubblico o di igiene e sanità deve essere compiuto
senza ritardo”.
Il reato si perfeziona con la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva
adozione, incidente su beni di valore primario (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e
santità)
b) Il II° comma prende in considerazione la condotta consistente nel non compiere entro trenta giorni
dalla richiesta di chi abbia interesse, l'atto dovuto, senza rispondere esponendo le ragioni del ritardo.
Perché sia integrata la condotta di cui al secondo comma dell'articolo 328 c.p. è necessario che
sussistano alcuni presupposti:
una richiesta scritta da parte del privato (messa in mora), da cui decorre il termine di 30 giorni per
l'adozione dell'atto dovuto o per la formulazione della risposta negativa. La richiesta deve provenire
non da un privato qualsiasi, bensì solo da chi abbia un interesse qualificato al compimento dell'atto.
N.B. Le norme che consentono di verificare l'idoneità della domanda ed il conseguente obbligo
dell'ufficio sono quelle che regolano il procedimento amministrativo;
un obbligo di avvio del procedimento, non essendo sufficiente la mera richiesta del privato, che
potrebbe avere un oggetto non attinente ai compiti dell'Amministrazione interpellata;
un'assenza di risposta da parte della Pubblica Amministrazione, la quale non giustifichi il ritardo
nell'adozione del provvedimento. La forma scritta richiesta dal comma 2 dell'articolo 328 c.p. deve
rispettare i principi generali dell'ordinamento, che richiedono la forma scritta per gli atti destinati ad
essere controllati da un'autorità sovra ordinata e per quelli la cui verifica - l'esistenza ed il suo
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contenuto - sia rimessa non all'autorità amministrativa, ma a quella giudiziaria.
N.B. Per poter verificare se la condotta posta in essere da chi è preposto all'ufficio integri o meno il
reato di omissione d'atti d'ufficio, è necessario individuare il momento in cui il termine di 30 giorni
inizia a decorrere.
Sul punto la giurisprudenza non è univoca: parte della giurisprudenza di legittimità ritiene che il
comportamento inerte del pubblico ufficiale inizi a decorrere solo successivamente allo scadere del
termine di 30 giorni, previsti in linea generale dalla legge 241 del 1990, dopo una successiva messa in
mora. Questa tesi si basa sul fatto che, perché si possa configurare il delitto di cui all'articolo 328 c.p.,
è necessario una prima istanza alla quale è connesso l'avvio del procedimento amministrativo ed una
seconda istanza di messa in mora, con la quale si richiede per iscritto all'Amministrazione di
provvedere. E' necessario, infatti, perché l'istanza di messa in mora sia valida, che il termine del
procedimento amministrativo sia scaduto, cioè sia decorso inutilmente l'originario termine di 30
giorni. Decorso l'ulteriore termine di 30 giorni previsto dall'articolo 328, 2° comma c.p., il reato si
perfeziona.
Per meglio comprendere in quali casi sia integrato il delitto di omissione di atti d'ufficio, è necessario
tenere presente che non ogni silenzio della Pubblica Amministrazione è significativo: solo in alcuni
casi, infatti, una norma specifica attribuisce al silenzio il significato di assenso o rifiuto e quindi il
valore di atto amministrativo.
Nel caso in cui il silenzio non sia significativo dal punto di vista amministrativo, i presupposti richiesti
dalla norma penale di cui all'articolo 328 c.p. ricorrono, in quanto la sequenza "obbligo di attivazione inadempimento"
è
pienamente
integrata.
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Nei casi, invece, di silenzio significativo il legislatore, come si è
detto, attribuisce al silenzio il valore di un atto amministrativo
positivo o negativo a tutti gli effetti. Ad esempio l'articolo 25
comma 4 della legge 241/90, nell'attribuire rilevanza giuridica al
silenzio della P.A., funge da scriminante. Infatti di fronte alla
legge penale che incrimina in linea generale la condotta del
pubblico ufficiale, il quale richiesto di provvedere ad un atto del
proprio ufficio non risponda nel termine previsto di 30, le
disposizioni di legge specifiche, che prevedono la fattispecie del
silenzio-assenso, autorizzano il pubblico ufficiale a non
rispondere all'istanza rivoltagli per iscritto, potendosi avvalere di
tale
modalità
di
risposta.
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3) Elemento soggettivo:
Per la configurabilità del reato si richiede, sotto il profilo
psicologico, il dolo generico, cioè la volontà cosciente da parte
del pubblico ufficiale di rifiutare, ritardare, omettere l’atto da lui
dovuto. L’avverbio indebitamente non comporta l’esigenza di un
dolo specifico, ma sottolinea la necessità della consapevolezza
di agire in violazione dei doveri imposti. Il dolo generico deve
comunque ritenersi escluso in caso di omissione o rifiuto
realizzati in buona fede, sempre che di questa sia stata fornita la
prova.
NB: recentemente la cassazione con la sentenza dell’8 maggio
2013 n. 19759 ha condannato gli operatori del 118 che a seguito
di una chiamata non avevano inviato l’autoambulanza.
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Secondo parte della giurisprudenza il mero inadempimento ed il rilevo
che l’atto amministrativo omesso sia anche qualificabile come dovuto,
non si traducono in un’automatica responsabilità penale del pubblico
ufficiale ove questo si sia limitato ad uniformare il proprio
comportamento ad una prassi già in vigore ed attuata nei confronti di
tutti. In tal caso se da un lato le ragioni che determinano l’insorgere ed
il consolidarsi della prassi non possono assurgere a cause giustificative
dell’omissione, dall’altro lato, ai fini della configurabilità del dolo è
comunque necessario che si sia raggiunta la prova che il pubblico
ufficiale, nel caso concreto abbia deliberatamente voluto omettere lo
specifico atto (Cass. Pen. n. 175623/1987)
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