Associazione nazionale combattenti e reduci Sezione di Scafati Città Medaglia d’Oro alla Resistenza BANCA DELLA MEMORIA Diario di GENNARO INSERVIENTE da Caporalmaggiore del Regio Esercito a Sottotenente Partigiano di “Giustizia e Libertà” ( il vento del nord) (A cura di Antonio Cimmino) Scafati 2010 Prefazione Continuano a pervenire documenti e fotografie per arricchire la Banca della Memoria istituita dalla nostra Sezione per raccogliere testimonianze dei Combattenti e Reduci. Questo opuscolo contiene il diario dettagliato della vita militare di Gennaro Inserviente, Socio Effettivo del sodalizio. Una mente lucida ed un fisico ancora efficiente a discapito dell’età, egli partecipa a tutte le manifestazioni patriottiche ed ama raccontare le sue avventure belliche. Avventure che bisogna tramandare alle giovani generazioni. Egli, come soldato di artiglieria a cavallo, fu inviato in Croazia inquadrato nel C.S.I.R. (Corpo di Spedizione italiano in Russia) e successivamente facente parte dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia). Nelle steppe russe visse la tragedia di migliaia di soldati italiani inviati a combattere nelle fredde lande dell’est, senza equipaggiamento e senza armi adeguate al clima. Per le sue doti militari fu promosso Caporalmaggiore. Tornato in Patria, dopo l’8 settembre del 1943, senza pensarci due volte, invece di aderire alla Repubblica di Salò, scelse di combattere per la libertà e la democrazia. Nella Brigata “Giustizia e Libertà” partecipò a numerose e rischiose operazioni in Valtellina contro i nazisti ed i fascisti repubblichini loro alleati. Coraggioso ed intelligente si meritò sul campo il grado di Sottotenente Partigiano. Il presente diario - inserito nella collana “Banca della Memoria” organizzata e diretta dal dottor Antonio Cimmino, nostro Revisore dei conti - si legge tutto di un fiato e testimonia la rettitudine morale di Gennaro Inserviente, la sua lucida determinazione in tutte le difficili situazioni nelle quali si è trovato, la scelta di contribuire a far nascere la democrazia in Italia e di cacciare l’invasore, partecipando da protagonista alla Guerra di Liberazione. Il Presidente Cav. Uff. Francesco Bossetti Gennaro Inserviente Mi chiamo Inserviente Gennaro, nato a Boscotrecase (Napoli) il 22 dicembre 1921. Mio padre si chiamava Luciano e lavorava come manovratore delle FF.SS. ed aveva partecipato alla guerra del 1911 per la conquista della Libia (1). Mia madre si chiamava Matrone Filomena. Sono primogenito di sei figli di cui tre maschi e tre femmine. Mia moglie si chiamava Buono Vincenza, moglie e madre affettuosa e laboriosa come sarta. Sono padre di cinque figli, due maschi e tre femmine e nonno di dodici nipoti, più uno di origine ucraina e spero di diventare bisnonno. Sin da ragazzo quando frequentavo la scuola elementare ero vivace ed irrequieto, se venivo provocato, subito reagivo e menavo le mani, per questo mi è rimasto il soprannome di “Gennaro ‘a querela” perché ero querelato da molti genitori di ragazzi con cui avevo fatto a botte. Il soldato il partigiano Dopo il corso di due anni di aggiustore meccanico presso l’Istituto di Avviamento Professionale di Torre Annunziata, andai a lavorare presso l’officina meccanica dei fratelli Ricciardi di Torre Annunziata ove si producevano proiettili per cannoni. Non mi sapevo spiegare, allora, il senso di fastidio che provavo, e non solo io, perché ogni sabato si era obbligati ad andare alle adunate imposte dal regime fascista per la cultura premilitare. Io ed alcuni amici avevamo voglia di andare al mare d’estate ed in autunno in montagna, per i campi ed i boschi alle falde del Vesuvio a cercare funghi. Alle adunate si facevano gli appelli e gli assenti, dopo pochi giorni, venivano convocati presso la caserma dei carabinieri per giustificarsi. Essi severamente ci dicevano di non mancare più alle adunate premiliatri onde evitare severe conseguenze per noi ed i nostri genitori. All’epoca della dittatura fascista bisognava “credere, obbedire e combattere” e “libro e moschetto fascista perfetto” come era scritto sui muri di tutti i comuni d’Italia. (2) Dopo la guerra, quando tornai dal nord Italia, ove avevo partecipato anche come partigiano combattente nella brigata “Giustizia e Libertà” in Valtellina, fui assunto dal comune di Boscotrecase come vigile sanitario; con il mio stipendio ed il lavoro di sarta di mia moglie, si viveva decorosamente. I nostri figli hanno studiato finché hanno voluto e vestivano abbastanza bene in considerazione dei tempi difficili dell’immediato dopoguerra. Sempre d’accordo con mia moglie non abbiamo mai fatto debiti che non potevamo onorare; nei limiti del possibile, non ci siamo fatti mancare niente. Non abbiamo gettato via neanche un tozzo di pane, ricordando i tempi della mia adolescenza quando chiedevo a mia madre un pezzo di pane e lei mi diceva di aspettare dieci minuti in attesa che si cuocesse la pasta e patate, quasi sempre pezzetti di pasta varia. Città di Scafati, atrio del Palazzo comunale‐ incontro con il Sindaco dott. Pasquale Aliberti ( da sn.: M.llo Franoce Federico‐ Consigliere, Sindaco, Cav. Matteo Restaino‐Vicepresidente, Cav.Uff. Francesco Bussetti‐ Presidente, Prof. Pesce‐Storico) Gennaro Inserviente Boscotrecase 2 giugno 2010: Gennaro Inserviente con il figlio dott. Luciano --------------------------note-------------------(1) La guerra di Libia, nota anche come guerra italo-turca, fu combattuta tra l’Italia e l’impero ottomano dal settembre del 1911 all’ottobre del 1912. L’Italia voleva allargare le sue conquiste coloniali a spese dell’agonizzante Turchia. Oltre alla Tripolitania e alla Cirenaica (Libia) furono conquistati l’isola di Rodi e l’arcipelago del Dodecanneso. (2) Ogni sabato, alle ore 13,00 dall’età di 18 anni, si interrompeva il lavoro e ci si dedicava ad attività addestrative di carattere premilitare, politico e sportivo. Si trattava di un servizio preparatorio al servizio militare. Veniva svolto anche la domenica mattina per non far perdere ore di lavoro ai partecipanti. I giovani dovevano imparare a marciare, smontare e rimontare parecchie volte il fucile, fare esercizi ginnici. Il fronte orientale Del Caporal Maggiore Gennaro Inserviente 29 settembre 1940 ( Croazia) Come cittadino di Boscotrecase, appartenevo al Distretto militare di Nola che mi assegnò la matricola 13300. Il 29 settembre del 1940 fui chiamato per il servizio militare presso il 2° Reggimento artiglieria a cavallo di Ferrara, reparto munizioni e viveri con la qualifica di riparatore meccanico. E dopo un mese, partecipai al corso di scuola guida per autocarri. La guida la facemmo su un autocarro della prima guerra mondiale. L’11 novembre 1940 fui promosso Caporale Questo automezzo non aveva ammortizzatori, la guida era a destra, i freni erano meccanici a pedale, la leva per Autocarro Fiat 18 BL‐ 1915 mantenerlo fermo durante le soste (freno a mano) era all’esterno della cabina di guida sul lato destro, le ruote erano di gomma piena senza camera d’aria e per metterlo in moto, si usava la manovella, faceva un rumore assordante. Comunque conseguii la patente. In seguito arrivarono quattro autocarri nuovi ed il 2 aprile 1941 entrammo in Croazia. Finite le ostilità in Croazia il 20 giugno del 1941, rientrammo in Italia ed il 15 luglio 1941 partimmo per il fronte russo. In Croazia ho sempre guidato l’auotocarro nuovo con molta attenzione e senza provocare danni all’automezzo; per questo motivo in Russia divenni capo sezione del reparto munizioni e viveri e responsabile di quattro autocarri. (1). Durante gli spostamenti, il mio autocarro trasportava la cucina da campo, il vettovagliamento ed i viveri per la mensa ufficiali. Dopo circa otto mesi, imparai a comprendere ed a parlare discretamente la lingua russa senza far uso del piccolo vocabolario tascabile in mio possesso. Sempre con il mio autocarro, durante le soste con il tenente Pudoch di Napoli, addetto al vettovagliamento, si andava a ritirare i viveri al deposito della sussistenza e, presso i colcos russi, il mangime ed il fieno per i cavalli e qualcosa di extra per noi. Per me e per i miei amici del reparto, non è mai mancato nulla. Quando entrammo in Croazia non sparammo nemmeno un colpo perché gli Ustascia nazifascisti di Ustascia Ante Pavelic, feroci assassini come le S.S., ci accolsero come liberatori permettendo una nostra facile avanzata nel territorio jugoslavo. Dopo pochi giorni gli Ustascia iniziarono la pulizia etnica contro gli slavi serbi e gli zingari. Noi italiani cercammo, nei limiti del possibile, di porre fine alle persecuzioni contro i non croati.(2) Famiglia serba massacrata dagli Ustascia Durante i tre mesi trascorsi in Croazia, zona di guerra, noi soldati avevamo sempe fame perché la razione di viveri era insufficiente. Un soldato di Palermo di nome Viviani Antonino, grande e grosso, peloso come uno scimpanzé, si lamentava continuamente e qualche volta piangeva perché gli faceva male lo stomaco per la fame. Un giorno si avanzò in zona di operazione per quasi 24 ore ed non fu possibile ai cucinieri preparare il pranzo, per cui fummo autorizzati a mangiare una galletta ed una scatoletta di carne di scorta. Il giorno successivo i cucinieri prepararono pasta asciutta ed il soldato Viviani Antonino, appena ebbe la sua razione, la strinse al petto ed alla prima cucchiaiata nel portarla alla bocca, lanciò un urlo e con i denti piegò il cucchiaio di alluminio. In un momento di pausa tra noi ci si domadava che attività lavorativa svolgesse da civile prima del servizio militare. Antonino disse che faceva il pianista. Noi perplessi, conoscendo il personaggio, dicemmo:”Com’è che fai il pianista?” e lui rispose in dialetto siciliano:”Minchia nun capiscite? Non capite? Giro la manovella del pianino posto su un carrettino trainato da un asino; il carrettino è condotto dal proprietario per le vie della città ed io, con il piattino in mano chiedo le monetine”. Un giorno, in sette in libera uscita, andammo in giro a cercare qualcosa da mangiare. In una radura ai margini di un bosco, c’era un casolare per il deposito degli attrezzi agricoli e notammo che c’erano dei polli che razzolavano mentre i contadini stavano lavorando nei campi. A tarda sera tornammo sul posto, su nostra sollecitazione, entrò nel pollaio attraverso un foro posto sul muro. Strisciando sul ventre ci porse sette polli con il collo spezzato. Quando venne fuori dal pollaio, puzzava maledettamente; era tutto imbrattato di sterco di pollo. Di mattino presto andammo in un boschetto, attraversato un ruscello spennammo i polli, li pulimmo e li cucinammo allo spiedo. Dopo mangiato tornammo subito al reparto; nel pomeriggio il proprietario dei polli venne a reclamare al nostro comando. Il comandante maggiore Li Donni, di origine siciliana, ci fece schierare tutti in fila, e fatto l’appello ci chiese chi aveva rubato i sette polli; naturalmente nessuno rispose. L’ufficiale di picchetto ci passò in rassegna uno per uno, quando giunse vicino al soldato Viviani Antonino questi, pur avendo pulito in qualche modo l’unica divisa in panno grigio-verde che avevamo, puzzava ancora di sterco di pollo e così fu portato davanti al comandante. Fu invitato severamente a fare i nomi dei responsabili del furto dei polli; diede i nomi di noi altri e, portati al cospetto del comandante, questi cominciò a gridare che noi avevamo infangato l’onore dell’esercito italiano come ladri di polli; fece pagare dal furiere i polli al proprietario dicendogli di trattenere i soldi dalla nostra paga. Non contento, il comandante gridò che ci avrebbe comminato dieci giorni di prigione di rigore; questa sfuriata era per dare soddisfazione al contadino proprietario dei polli. Ma, alla fine, non facemmo nessun giorno di prigione né fu defalcata la nosta paga; il comandante sapeva benissimo che avevamo sempre fame. Il 2 febbiaio 1941 fui promosso Caporal Maggiore. Prima di rientare a Pescantina in provincia di Verona ( 20 giugno 1941), il generale di Corpo d’Armata Gariboldi passò in rassegna il nostro reggimento destinato ad andare sul fronte russo, non so perché si fermò, mi sorrise e con fare paterno mi accarezzò la guancia sinistra. --------------------note-------------------------------(1) Quando nel marzo del 1941 i tedeschi invasero la Jugoslavia che capitolò dopo soli nove giorni, l’Italia partecipò alle operazioni militari ed alla successiva spartizione. La Germania concesse all’Italia fascista di trattare direttamente con Ante Pavelic diventato, nel frattempo, capo dello Stato indipendente della Croazia. Questi era il leader del movimento terrorista Ustascia filotedesco e filofascista. Il 18 maggio dello stesso anno ( Trattato di Roma) , Mussolini ottenne la Dalmazia settentrionale 1Il terrorista Ante Pavelic con la città di Spalato e la maggiore delle isole. Alla Croazia restavano la Dalmazia meridionale con Ragusa e altre isole che furono affidate al dittatore ungherese Horty. Le operazioni militari del Regio Esercito, che si mosse dalle basi dell’Istria, dalla Venezia Giulia e dall’Albania, furono condotte dalla 2° Armata - formata da 9 divisioni di fanteria, 4 motorizzate e 1 corazzata- agli ordini del genarale Vittorio Ambrosio. (2) Gli Italiani scoprirono le vere ed autentiche foibe nell'agosto 1941. Erano sull'isola di Pag, nei due campi di sterminio per Ebrei di Siano e Metajna. Per la prima volta gli Italiani scoprirono cosa significava la cosiddetta pulizia etnica. Dal libro di Fabio Mosca “Le foibe degli Ustascia” si apprende che la popolazione della cittadina di Pag” inorridita dai massacri degli ustascia chiese l'intervento degli Italiani. Gli Italiani, dopo la firma dell'Accordo con Pavelic, entrarono a Pag, chiusero campi ustascia e deportarono gli Ebrei ad Arbe, dove li rinchiusero nel loro lager assieme agli Sloveni e Croati rastrellati dall'esercito italiano nelle zone di guerriglia. Almeno non li ammazzarono”. Dal succitato libro si legge ancora:” Nell'agosto 1941 il comandante del V Corpo d'Armata italiano, generale Balocco, fece disseppellire i cadaveri di Pag e li fece bruciare . Nelle tre fosse comuni a Siano si trovarono 791 cadaveri, 407 maschi, 293 femmine e 91 bambini. (…). Ai primi di settembre 1941 gli Italiani trovarono varie altre fosse comuni e valutarono le vittime fra gli 8000 e 9000”. ( a sn.; gli taliani controllano gli effetti delle stragi degli Ustascia). 15 luglio 1941 ( in Russia con il C.S.I.R.) Partii da Verona per il fronte russo con il “Reggimento artiglieria celere a cavallo, secondo reparto munizioni e viveri”, con un treno merci su cui furono caricati munizioni, cavalli grandi e belli, autocarri e tanto vettovagliamento. Prima sosta fu la stazione di Vienna dove fummo accolti bene. Vi era la banda musicale, tavole imbandite e le crocerossine austriache che offrivano bevande e dolciumi. (1) La seconda sosta fu Budapest dove ci fermammo per mangiare e per accudire i cavalli. Il giorno successivo arrivammo a Botosani in Romania al confine con la Moldavia dove finiva il tratto di ferrovia. Ivi scaricammo tutto dal treno ed incominciammo subito l’avanzata in territorio moldavo e bessarabico. Attraversammo due fiumi, il Bug ed il Prut che avevano i ponti intatti perché le truppe russe, forse nel ritirarsi, non ebbero il tempo o gli esplosivi per farli saltare. Così a marce forzate arrivammo a Dnepropetrovsk in Ucraina. (2) Tutti i ponti sul fiume Dnepr erano distrutti, pertanto per circa un mese, il genio militare, sotto la protezione dei nostri cannoni, riuscì a costruire un ponte di barconi. I primi a passare furono i nostri piccoli carri armati leggeri, questi giunti sulla sponda opposta s’impatanarono perché il terreno era paludoso. Passate tutte le truppe riprendemmo l’avanzata. Si viaggiava a tappe forzate, a volte anche di notte. Verso la fine di settembre 1941, di mattina presto giungemmo presso la città di Stalino, ora chiamata Donez sempre in Ucraina. Da lontano vedemmo delle colline e dopo molte centinaia di chilometri di terreno pianeggiante, pensammo di essere arrivati nei pressi dei monti Urali; invece le colline erano tutte di carbon fossile. Continuando ad avanzare senza incontrare resistenza da parte dell’esercito russo, in molti villaggi, grandi e piccoli, ci veniva incontro la popolazione civile con in testa i pope e gli staroschi (sacerdoti e sindaci) e tante giovani donne con vassoi colmi di pane bianco e ventresca affumicata. Alcune ragazze sorridevano, noi avemmo l’impressione di essere benvenuti come liberatori. Altrimenti si comportavano le truppe tedesche, specialmente le S.S. sparavano contro tutti e tutto, bruciavano e saccheggiavano distruggendo interi paesi e facendo molte vittime innocenti. Gli ebrei appena catturati venivano subito fucilati, mentre i giovani ucraini e russi, di ambo i sessi ed in buona salute, venivano radunati per spedirli in Germania a lavorare con la promessa di un lavoro normale ben retribuito. Furono, invece, trattati come schiavi, pertanto dopo la guerra, giustamente il governo federale tedesco ha risarcito economicamente, dopo accurate indagini e accertamenti, i superstiti e le famiglie degli operai che non ce la fecero a sopravvivere. Questa notizia me la ha confermata la mia badante ucraina Konoba Irene ora mia legittima sposa. 1942 luglio, Dnepropetrovsk : soldati italiani con prigionieri russi e con ragazze della cittadina Noi italiani con gli alleati tedeschi fin dal principio, non andavamo molto d’accordo. Loro dimostravano in tutti i modi di sentirsi superiori a noi, non rispettavano i civili russi e ucraini e neppure i nostri ufficiali. I prigionieri russi venivano maltrattati, a volte restavano senza mangiare e se cercavano di scappare venivano sparati senza pietà. I Tedeschi erano brutali. Basti pensare che i commissari politici dell’esercito russo che venivano fatti prigionieri, venivano subito fucilati dai tedeschi, mai dagli italiani. Inoltre, diverse volte di mattina, poco lontano dai centri abitati sono state trovate giovani donne uccise ed impalate, certamente non da noi. Tutti noi italiani abbiamo fraternizzato con la popolazione civile ed anche con i prigionieri che con noi stavano bene, in ogni caso relativamente solo perché in guerra non si sta bene. Eccidi nazisti della popolazione civile e degli ebrei I prigionieri non tentavano di scappare, anzi, quando si andava allo scalo merci della stazione ferroviaria di Orlovaca; il numero dei prigionieri nostri aumentava in quanto, alcuni nel via vai, parlando tra loro, passavano dai tedeschi agli italiani. Ricordo che una volta, dopo aver scaricato un treno proveniente dalla Germania pieno di materiale bellico e vettovaglie, gli stessi prigionieri dei tedeschi iniziarono a caricare i prodotti agricoli russi come patate, carote, cavoli, cipolle, grano, granoturco, olio di semi di girasole, burro, maiali, bovini, pollame, miele. Quel giorno successe una cosa spaventosa, per noi inconcepibile. Un prigioniero russo, in fila con gli altri che caricavano il treno, raccoglieva del grano che cadeva da un foro del sacco del prigioniero che lo precedeva e lo metteva in tasca. Un soldato tedesco di guardia lo vide e con il calcio del fucile lo colpì alla testa con ferocia e violenza spaccandogli il cranio provocando la fuoriuscita di materia cerebrale. Il povero prigioniero cadde sul selciato e morì sul colpo. Noi soldati italiani presenti, autonomamente, in 4 o 5 aggredimmo l’assassino con calci e pugni tanto che dovettero intervenire gli ufficiali sia tedeschi che italiani sparando in aria con le loro pistole per eviatre il linciaggio. Con i tedeschi non correva buon sangue. Il giorno seguente il comando tedesco fece affiggere manifesti in lingua italiana in cui si vietava a noi italiani di fraternizzare con la popolazione civile; si vietava di recarci presso i kolchoz (depositi comunitari russi) per rifornirci di generi alimentari e persino di prendere frutta ed ortaggi dai campi coltivati. Loro, invece, sui treni merci di ritorno in Germania carcavano tutto ciò che razziavano e persino la terra nera e grassa dell’Ucraina, utilissima e perfetta per le coltivazioni. Il comando tedesco nelle retrovie del fronte, organizzò diversi campi recintati con filo spinato e ai quattro lati pose delle torrette munite di mitragliatrici dalle quali, spesso di notte, si sparava nel mucchio dei prigionieri se questi cercavano di scappare o si muovevano soltanto per bisogni corporali. (3) Mi ricordo quano ero in Croazia dove vidi dei treni merci sigillati provenienti dalla Grecia pieni di civili ebrei diretti in Germania. In Russia il comando tedesco invitò il nostro comando a collaborare con loro per dare la caccia agli ebrei russi, ma il nostro comando militare non accettò. I reparti nazisti, invece, muniti di lanciafiamme bruciavano le abitazioni degli ebrei individuali anche grazie all’aiuto di qualche spione locale; se qualcuno riusciva a fuggire salvandosi dalle fiamme, veniva ovviamente sparato alle spalle senza pietà. Incominciò il freddo e le tormente di neve sempre più furiose. Il fronte si fermò e così, sospese le attività belliche, ci accasammo. Io avevo imparato abbastanza bene la lingua russa tanto che una ragazza ucraina mi disse che ero un traditore moldavo e che avevo indossato la divisa di soldato itaiano. Le relazioni di noi soldati con la popolazione civile col passare del tempo, divennero sempre più affettuose e di reciproco rispetto, specialmente con le giovani donne. Feci amicizia con una bella signora sposata con un panettiere che confezionava panini all’olio per la mensa del generale Messe comandante del C.S.I.R. Naturalmente per tutto l’inverno 1941-42 me la sono cavata abbastanza bene, mangiavo e dormivo al caldo e spesso in compagnia quando ero libero dal servizio di pattugliamento notturno. In pieno inverno arrivarono dall’Italia gli scarponi chiodati per non scivolare sul terreno ghiacciato per tutti, ma pochi pastrani foderati di pelle di pecora solo per gli ufficiali e per i soldati che di notte facevano il pattugliamento per la sicurezza di tutti. Gli scarponi forniti all’esercito italiano dai profittatori di guerra erano buoni per non scivolare sul ghiaccio, ma al contatto con il fuoco, che usavamo per scaldarci i piedi, facevano sempre più male. Tutt’ora, d’inverno, accuso dei fastidi specialmente alle dita. Questi scarponi prendevano facilmente fuoco soprattutto le suole che erano di cartone pressato. Come si dice “ la necessità aguzza l’ingegno”, in giro notai che la popolazione civile calzava degli stivali di feltro e calosce. In qualche modo mi procurai gli stivali di feltro (valenghi), li calzai e così salvai i piedi dal sicuro congelamento. Inizio primavera 1942 Il fronte si mise in movimento, ma tutte le strade erano in terra battuta e con lo scioglimento del ghiaccio, le strade divennero impraticabili a causa del fango melmoso, era difficile anche camminare a piedi. Intando per il freddo, a volte anche di 40° sotto zero, i nostri grandi e belli cavalli che dovevano trasportare i cannoni, morirono tutti. Diventarono magrissimi e giorno dopo giorno, ai poveri cavalli cresceva solo il pelame come ai mammut e, a quel punto, furono macellati e mangiati. Dopo una quindicina di giorni di bel tempo ed un po’ di tiepido sole, le strade si asciugarono ed iniziò l’avanzata assieme alla divisione di fanteria rumena male equipaggiata. Come mezzi di trasporto avevano dei carrettini trainati da piccoli cavalli che erano sopravvissuti al terribile inverno russo, diversamente dai nostri. Vi era anche un battaglione di soldati finlandesi che anche quando faceva molto freddo, si lavava a dorso nudo e guardava noi italiani vestiti praticamente di tutto ciò che avevamo, con guanti e passamontagna di lana ed alcuni, come me, con gli stivali di feltro russi. Continuando a viaggiare a tappe forzate, spesso di notte, giungemmo nell’ansa del fiume Don a nord-ovest di Stalingrado ormai accerchiata dai tedeschi. I nostri cannoni furono trasportati a rimorchio degli autocarri e vennero posti sul fronte del grande fiume Don. Regnava la calma, noi sulla sponda ovest e le truppe russe ad est. Tutti i reparti di artiglieria erano schierati in seconda linea del fronte e noi dei reparti munizioni e viveri, in terza linea. Ogni due o tre giorni, secondo le necessità, ero comandato a portare viveri e munizioni agli artiglieri schierati in seconda linea. Io conduttore di autocarro e responsabile di ben quattro automezzi, viaggiavo in testa al convoglio. Feci spostare il telone lato guida della cabina ed a turno, un soldato in piedi, con un colpo di bastone mi segnalava la presenza di animali domestici senza custodia ad esempio pollame, oche, anatre, maiali e bovini per rifornirci di carne fresca. Se batteva due colpi, erano aerei in vista, allora si bloccavano gli autocarri e si scappava lontano; passato il pericolo si riprendeva la marcia. -------------------note---------------- (1) Il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, inviato sul fronte orientale era così formato: -Divisione autotrasportata Pasubio (79° Reggimento di fanteria, 80° Reggimento di fanteria Roma, 8° Reggimento di artiglieria); - Divisione autotrasportata Torino (81° e 82° Reggimento di fanteria, 52° Reggimento di artiglieria); - Divisione Celere Principe Amedeo duca d’Aosta (3° Reg. Cavalleria Savoia Cavalleria, 5° Reg. Lancieri di Novara, 3° Reg. bersaglieri, 3° Reg. artiglieria a cavallo, 3° Gruppo carri SanGiorgio); ‐ Camicie Nere Legione Tagliamento; ‐ 30° Raggruppamento artiglieria di Corpo d’Armata. Nel complesso 2 900 ufficiali, 58 800 uomini, 220 pezzi d'artiglieria, 83 aerei (51 da caccia, 22 da ricognizione, 10 da trasporto), 5 500 automezzi, 4 600 quadrupedi, 61 carri (2) Il CSIR partecipò, nell’ agosto 1941, assieme alla truppe tedesche, alla cosiddetta battaglia dei due fiumi Dniestr a ovest e Bug. La pioggia abbondante aveva trasformato le immense distese russe in enormi pantani che rallentarono la marcia delle Divisioni italiane. Il 21 agosto agosto i reggimenti della Pasubio erano attestati sul Dniepr, nella zona di Verkhnodniprovsk, a circa 50 km a nord-ovest della città di Dniepropetrovsk. Nei giorni seguenti raggiunsero il Dniepr anche i reparti motorizzati della Celere, l'artiglieria della Torino e le altre unità motorizzate del CSIR. Il 28 agosto Benito Mussolini, dopo avere visitato con Hitler il quartier generale del Gruppo di Armate Sud, passò in rassegna i reparti del CSIR a Tekusha. Soltanto il 5 settembre, dopo avere percorso quasi mille chilometri a piedi, anche i reparti non motorizzati della Torino (divisione autotrasportabile) riuscirono a essere finalmente in linea sul Dniepr con il resto del CSIR. tedeschi erano nostri alleati di nome, ma non in realtà. C’era, del resto, astio nli italiani: molti di essi erano telli di coloro che nella prima guerra mondiale erano moerano statiti o erano caduti prigionieri combattendo contro i t (3) Vincenzo Gibelli, un reduce dalla Russia; intervistato a proposito dell’antipatia con i tedeschi, così affermò:”… ma più forte era quella antipatia per la crudeltà verso gli ebrei o i russi. Assistevano a gesti che facevano soffrire il loro cuore: punivano a scudisciate i ragazzi o le donne che ricevevano pane o sigarette dai nostri soldati in viaggio per il fronte. Qualcuno aveva assistito alla fucilazione di ebrei: proprio vicino al nostro comando i tedeschi scaricavano dai camion ebrei o contadini, facevano scavare una fossa, sparavano alla nuca quei poveretti e li seppellivano nella stessa fossa. Ci fu una sentita protesta da parte dei soldati del nostro comando. I tedeschi continuarono le fucilazioni, ma in altre località. Spesso i parenti dei deportati si rivolgevano a noi piangendo e disperati ci chiedevano informazioni sui loro congiunti. A Tarassovka, non lontano da Millerovo, una colonna di contadine che tornava dopo essere state ad acquistare farina e sale, offrendo tutto quello che potevano scambiare era stata aggredita dai tedeschi: i nostri alpini accorsero in aiuto delle contadine e i tedeschi dovettero fuggire. A Leopoli sfila per la Kopernikus Strasse una colonna di ebrei (tuta azzurra con la stella di David gialla sul petto e indietro); una giovane donna al momento del passaggio davanti al comando tappa italiano, prende la rincorsa e scappa dentro: ovviamente è inutile la protesta dell’ufficiale tedesco di riavere la donna”. Luglio 1942 (ARM.I.R. Armata Italiana in Russia) Dal Comando di Divisione giunse la notizia che dovevano arrivare le divise coloniali perché, occupate Mosca, Leningrado e Stalingrado, secondo i calcoli degli alti comandi militari italo-tedeschi, la guerra con l’Unione Sovietica era finita. Pertanto lasciando parte delle truppe italo-tedesche in Russia, come truppe di occupazione, il restante delle forze armate attraversando il Caucaso, la Georgia, l’Armenia, la Siria, il Libano e la Palestina, dopo migliaia di chilometri, doveva raggiungere l’Egitto e congiungersi con le truppe dell’Asse che, nel frattempo, stavano occupando il deserto verso Alessandria. Addirittura si vociferava che l’esercito giapponese che aveva occupato la Cina, doveva giungere in nord Africa attraversando l’India, il Pakistan, l’Afganistan, l’Iran, la Giordania e la Palestina. Così si chiudeva il cerchio ed il mondo intero sarebbe stato dominato dall’allenza italotedesca-giapponese ( Ro.Ber.To. cioè Roma-Berlino-Tokio). Con l’arrivo in Russia dell’A.R.M.I.R. (Armata Italiana in Russia) (1) in circa dieci giorni noi del C.S.I.R. ci ritirammo dal fronte sostituiti dai reparti delle armate appena arrivate. Avemmo un periodo di riposo dopo circa un anno. Con gli amici fraterni del mio reparto, andammo a fare il bagno in un laghetto vicino. Lavati e stesi i panni sull’erba ad asciugare, notanno poco lontano anatre ed oche. Mentre ci accostavamo per catturarle, loro scappavano. A quel punto dissi:” Facciamole calmare e chi sa nuotare sottoacqua mi segua”. Così catturammo, prendendole per le zampe risalendo dal fondo del lago, tre oche e quattro anatre. Incominciammo a pulirle per cucinarle. Due soldati li mandai a prendere pentole, pane, olio e sale presso amici cucinieri chiedendo se volevano partecipare al banchetto con noi. Ad altri tre soldati dissi:”Cercate legna secca e grandi pietre per allestire i focolai”.Mentre si cucinava, gareggiammo per raggiungere il fondo del laghetto e portare alla superficie qualcosa che si trovava li sotto. Meravigliati raccogliemmo dal fondo vongole veraci di acqua dolce. Ne raccogliemmo diversi chili e cucinammo. Il laghetto era profondo circa sei metri. Gli amici cucinieri vennero e portarono il vino. Si mangiò e si bevve tutti contenti e soddisfatti. Incominciammo a vestirci per tornare all’accampamento quando, erano quasi le due pomerdiane, successe il finimondo. L’esercito russo sfondò la linea del fronte tenuta dalla Divisione Sforzesca, da pochi giorni in postazione; essa fu denominata “ciccai” cioè “fuggire”. Alcuni ufficiali di tutte le armi, specialmente un colonnello dei bersaglieri, dai russi chiamati “petuck” cioè “galli” per le piume sul cappello, fecero tornare indietro i soldati che scappavano dalla prima linea; ma dopo circa mezz’ora tornarono indetro ed il colonnello infuriato, con la pistola iniziò a sparare colpendo due soldati perché quasi tutti avevano gettato le armi. La compagnia di mitraglieri della Crimea, piccoli e di pelle scura, fatti prigionieri dall’ultima carica del Reggimento Savoia Cavalleria, cercavano di scappare e anche qualcuno di questi fu sparato (2). La situazione divenne sempre più caotica, intervennero gli aeroplani stukas tedeschi e per ben tre volte lanciarono dei grappoli di razzi luminosi, ma da terra nessuno rispose e naturalmente i piloti tedeschi sganciarono molte bombe con le siene. Ci furono molti morti e feriti tra noi soldati ed i nostri prigionieri. Contemporaneamente arrivarono pure le salve dei razzi delle batterie Katiuscia. Con l’intervento massiccio dell’aviazione tedesca, le batterie Katiuscia furono messe fuori uso ed il fronte si stabilizzò e così ripresero le normali attività. ---------note-------------- (1) L’ARM.I.R. venne costituita nel luglio del 1942 agli ordini del Generale Italo Gariboldi, dopo pochi mesi, raggiunse la consistenza di 230.000 uomini, 16.700 automezzi, 1150 trattori d’artiglieria, 4500 automezzi, 25.000 quadrupedi, 940 cannoni, 31 carri leggeri tipo L6/40, 19 semoventi L40, 64 aerei. Designata come 8° Armata era costituita da: - - Raggruppamento a cavallo Barbç - 9° Raggruppamento artiglieria d’Armata - 9° Raggruppamento artigllieria motorizzata - 201° Reg. artiglieria motorizzato - Battaglione alpini sciatori Monte Cervino - Legione croata - 156° Divisione fateria Vicenza - Divisioni alpine: Tridentina, Julia, Cuneese - Divisioni fanteria: Sforzesca, Ravenna, Cosseria - Raggruppamento Camicie Nere 23 marzo Due Divisioni di fanteria tedesche ed una corazzata. A inizio luglio l'ARMIR prese parte all'offensiva estiva tedesca denominata Operazione Blu. Il 14 luglio le forze italiane occuparono il bacino minerario del fiume Mius, conquistando la città di Krasnyi Luch, e il 31 luglio venne superato il fiume Donetz. L'ARMIR venne proprio in questo periodo posta alle dipendenze del Gruppo di Armate B tedesco e venne destinata alla protezione del fianco sinistro delle truppe impegnate nella battaglia di Stalingrado Tra l'inizio e la metà di agosto l'ARMIR si schierò, infine, lungo il bacino del Don, tra la 2ª Armata ungherese a nord e la 6ª Armata tedesca. La prima avvisaglia che quello degli italiani non sarà un settore facile avvenne tra il 30 luglio e il 13 agosto a Serafimovich (a circa 150 chilometri a nord-ovest di Stalingrado): qui, a un primo tentativo dei russi di oltrepassare il Don, si opposero tenacemente i bersaglieri della Celere che pagarono un altissimo prezzo di vite umane. (2) Il 24 agosto il Savoia Cavalleria con i suoi seicento uomini caricò duemila russi nell'episodio di Izbušenskij, passato agli annali come l'ultima carica della cavalleria italiana nella storia. 2 novembre 1942 Partii per l’Italia dalla Russia dopo 3 anni di servizio militare, perché mi erano stati concessi 30 giorni di licenza straordinaria avendo firmato una dichiarazione che mi obbligava a tornare in Russia dove, al ritorno, avrei ricevuto il grado di sottufficiale (ero già Caporalmaggiore) per poi restare ivi nelle truppe di occupazione. Il viaggio durò 21 giorni in carri bestiame, faceva molto freddo e c’era poco cibo a disposizione. Al centro dei vagoni vi erano delle stufe e, se ti accostavi ti scaldavi davanti e sentivi freddo alle spalle. Attraversammo la Polonia. A Varsavia, quando si fermò il treno, una folla enorme di donne e bambini voleva da noi qualcosa da mangiare. Il treno veniva fermato continuamente sui binari morti per dare la precedenza ai convogli diretti al fronte. In una delle tante fermate da un carro merci diretto in Germania, Varsavia: stazione ferroviaria, donne e bambini affamati prendemmo molte patate e le mettemmo a cucinare nelle gavette sulle stufe. Dopo una quindicina di minuti, affondando le forchette nelle gavette, con nostro rammarico, notammo che c’erano rimasti solo i gusci delle patate. Avevamo tanta fame e freddo, eravamo tutti sporchi ed infestati dai pidocchi e ci si grattava continuamente. Si dormiva sulla paglia per stanchezza. Prima di partire io feci un bagno caldo a casa di una amica russa, dopo gli indumenti erano puliti e stirati. Quando a Vipiteno tutti noi reduci dal fronte russo, denudati prima di andare sotto le docce, fummo passati in rassegna da alcuni ufficiali medici; molti soldati di pelle chiara avevano piaghe su tutto il corpo per il continuo grattarsi. Essi furono portati in infermeria ove furono puliti, disinfettati e medicati. Così facemmo una doccia calda medicata e ci diedero tutto il vestiario nuovo. "Katiuscia" montate su carri 30 gennaio 1943 (ritorno a casa in licenza) Partii e tornai a casa a Boscotrecase, in piazza S.Anna era accampato un reparto di soldati tedeschi. 1 febbraio 1943 (fine della licenza) La sera prima di partire, vestito da militare, andai in piazza S.Anna per salutare la mia ragazza ed alcuni amici. Davanti ad una abitazione a piano terra, notai molte persone che discutevano animatamente, mi accostai e notai 3 militari tedeschi che volevano entrare in casa dove vi era una signora napoletana con 2 figlie adulte, sfollate da Napoli a causa dei bombardamenti aerei. Io mentre cercavo di fargli capire che stavano sbagliando, fui subito aggredito da loro. Reagii immediatamente e ne atterrai due, il terzo soldato scappò; questi erano mezzi ubriachi. Poco dopo intervenne un loro ufficiale chiedendomi se fossi un boxer. Io risposi di no e lui disse “gut” (bravo) e mi invitò in un bar li vicino per offrirmi da bere, poi, dopo aver chiacchierato, ci salutammo e mi augurò buon viaggio di ritorno in Russia. 2 febbraio 1943 Giunsi al Comando tappa di Udine ed invece di tornare in Russia, mi inviarono a Milano dove incontrai alcuni reduci della disfatta in Russia. Mi dissero che durante la ritirata i nostri soldati dovettero abbandonare gli autocarri perché privi di carburante. Alcuni di questi cercavano, invano, di salire sugli autocarri tedeschi e questi, barbaramente, li respingevano a colpi di baionetta sulle mani. In seguito, sempre durante la ritirata, i soldati italiani si dovettero separare dalla truppe a piedi tedesche perché i partigiani russi sparavano a vista non appena vedevano militari tedeschi perché questi avevano agito barbaramente durante tutta l’avanzata. Diversamente, invece, i soldati italiani superstiti furono aiutati dalla popolazione civile, rifocillati e fu loro indicata la strada per proseguire la ritirata; alcuni soldati, in pessime condizioni di salute e semicongelati, si accasarono. Queste notizie le appresi a Milano al centro raccolta reduci dai vari fronti di guerra, dal mio amico Colonna Vincenzo di Ponticelli-Napoli, anche lui caporalmaggiore del 2° Reggimento Artiglieria Celere a cavallo di Ferrara. Lui si pentì di non avermi ascoltato quando lo invitai a firmare per avere il mese di licenza premio e di essermi salvato per miracolo; era molto dimagrito per le sofferenze patite durante la ritirata dal fronte russo. ---------------note-------------------------Tra il 5 agosto 1941 e il 30 luglio 1942, il CSIR ebbe 1 792 morti e dispersi, e 7 858 feriti e congelati. Tra il 30 luglio 1942 e il 10 dicembre 1942, l'ARMIR ebbe 3 216 morti e dispersi, e 5 734 feriti e congelati. Le perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata (11 dicembre 1942 - 20 marzo 1943), le cifre ufficiali parlano di 84 830 militari che non rientrarono nelle linee tedesche, e che furono indicati come dispersi, oltre a 29.690 feriti e congelati che riuscirono a rientrare. Le perdite ammontarono quindi a 114 520 militari su 230 000 . Andarono inoltre perduti il 97% dei cannoni, il 76% di mortai e mitragliatrici, il 66% delle armi individuali, l'87% degli automezzi e l'80% dei quadrupedi. Per quanto riguarda i dispersi a partire dal 1946 vennero rimpatriati dalla Russia 10.030 prigionieri di guerra italiani. E’ quindi possibile calcolare che 74.800 militari italiani morirono in Russia, in quattro distinte fasi: durante i combattimenti sul Don, durante la ritirata, durante le marce di trasferimento verso i campi di prigionia, e durante la prigionia stessa. IMMAGINI DELLA TRAGEDIA DELL’ARMIR NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA . Febbraio 1943 (Fronte occidentale) A Milano, al centro di raccolta reduci dei vari fronti di guerra fui inquadrato in una compagnia di artiglieria di montagna someggiata con muli per trasportare cannoni e munizioni. Il 20 febbraio ci inviarono in Liguria ad Albenga per la difesa costiera. I cannoni furono piazzati a metà collina sotto gli alberi di ulivo, la vita trascorreva tranquilla. Un solo neo, il mangiare che preparavano i cucinieri era sempre più scarso e meno appetibile. Nel mese di maggio notai che qualche mulo della mia sqaudra era un po’ dimagrito, indagando mi accorsi che alcuni soldati, anche di altre squadre, non davano la razione intera di biada ai loro muli. Parlai così con gli altri capisquadra e convocammo i responsabili lontano dall’accampamento speigando loro che i muli indeboliti, in caso di spostamento, non erano in grado di trasportare i cannoni, le munizioni e tutto il vettovagliamento. Ribadimmo che se qualche ufficiale se ne accorgeva, ci denunciava tutti e si correva il rischio di essere processati da un Tribunle Militare per sabotaggio in tempo di guerra. Chiedemmo cosa ne facevano della biadia ed essi risposero che la vendevano ai boscaioli per i loro muli per comprare, poi, quancosa da mangiare. Intanto i cucinieri preparavano delle brodaglie disgustose con rape, barbabietole, tubetti di pasta ed un pezzetto di carne pro capite, il tutto mal condito. Noi mangiavamo solo il pezzetto di carne e la brodaglia la buttavamo. Ai soldati della mia squadra dissi:”Quando andremo in libera uscita, invece di andare in città, andremo per i campi con cautela a prendere qualcosa da mangiare”. Trovammo dei pomodori che incominciavano a maturaree ed anche pannocchie di granoturco. In seguito incominciò a maturare la frutta fino a tutto il mese di agosto e così facemmo una buona dieta. Questa dieta continuò anche quando andammo alla periferia di Torino fino al 12 settembre 1943. 30 luglio 1943 Fummo mandati a Torino poiché gli operai, specialmente quelli delle officine FIAT, erano in agitazione a causa del troppo lavoro e sfruttamento, cominciarono a scioperare perché erano quasi tutti antifascisti. 8 settembre 1943 (Armistizio) Ci fu l’armistizio. I nostri ufficiali di fede monarchica ci dissero di reagire se le truppe tedesche ci avessero attaccati. Gli ufficiali di fede fascista, invece, dicevano di non reagire e quindi di deporre le armi. Per questo, dato che l’Italia era divisa a metà, tutte le unità militari del Nord si sciolsero. --------------------note------------------------------Il dramma dell’esercito italiano scoppia alle 19,45 dell’8 settembre 1943, quando la radio italiana divuiga il messaggio del maresciallo Badoglio nel quale il capo del governo comunicava che l’Italia ha “chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate” e che la richiesta è stata accolta. Il dramma si trasforma nel giro di poche ore in tragedia per centinaia di migliaia di soldati abbandonati a se stessi nell’ora forse più tragica dall’inizio della guerra. Le forze presenti ammontano a un totale di circa 1.090.000 uomini (10 divisioni nell’italia settentrionale, 7 al centro e 4 al sud della penisola e altre 4 in Sardegna), contro circa 400.000 soldati delle unità tedesche; ma mentre queste ultime sono perfettamente efficienti e fortemente dotate di mezzi corazzati, l’esercito italiano è uno strumento bellico estremamente debole, con una buona metà delle divisioni del tutto inefficienti, scarsamente dotate di mezzi corazzati e male armate. A queste forze, numericamente notevoli, vanno sommate le unità italiane dislocate nei vari settori fuori dei confini metropolitani: 230 mila uomini in Francia (e Corsica), 300 mila circa in Slovenia, Dalmazia, Croazia, Montenegro e Bocche di Cattaro, più di 100 mila in Albania e circa 260 mila soldati in Grecia e nelle isole dell’Egeo: in totale 900 mila uomini circa, in teoria una forza formidabile, ma solo in teoria. In realtà si tratta di un esercito assolutamente inadeguato ai tempi, su cui non si può in alcun modo fare affidamento. Se a questa situazione si aggiunge, in quel fatidico 8 settembre, l’assoluta mancanza di direttive da parte dei responsabili della macchina da guerra italiana (e in particolare del capo del governo Badoglio, che pure era un militare, del gen. Ambrosio, capo di Stato Maggiore Generale, e del capo di Stato Maggiore dell’Esercito gen. Mario Roatta) e l’imperdonabile leggerezza con cui si affronta il prevedibile momento della resa dei conti con i tedeschi, si puo capire lo sfacelo, il crollo totale dell’esercito italiano all’indomani dell’annuncio della firma dell’armistizio. Nella dissoluzione generale (al momento della prova, molti comandanti sono lontani dai reparti, o se sono presenti non hanno ricevuto disposizioni), si verificano tuttavia alcuni coraggiosi quanto inutili tentativi di opporsi all’aggressione tedesca: in Trentino-Alto Adige e in Francia le truppe alpine reagiscono all’attacco, ma sono episodi di breve durata; i focolai di resistenza sono spenti con spietata ferocia. In Grecia, nel desolante spettacolo del disarmo dei reparti italiani da parte dei tedeschi, brilla il coraggio della divisione Acqui che a Cefalonia sceglie la lotta e la conseguente autodistruzione: 9646 morti, una vendetta inutile ma feroce. 12 settembre 1943 Soldati del mio plotone mi chiesero: “Maggiore che facciamo”? Io dissi loro:” Preparate i vostri zaini e le armi, stanotte ognuno di noi prenda muli e cavalli, si va in montagna!”, arrivati ivi vendemmo gli animali ai contadini in cambio di indumenti civili e soldi. Ottobre 1943 Sulle alpi piemontesi al confine franco-.svizzero ogni giorno arrivavano militari alleati scappati dai nostri campi di concentramento. Col freddo i soldati alleati, specie quelli di pellenera e scura, soffrivano molto più di noi. Essi erano di diverse nazionalità. Per il freddo il colore della loro pelle diventava paonazzo. Dopo poco tempo, sicuramente con l’impegno dei governi alleati e la collaborazione della croce rossa, passavano in Svizzera e poi furono rimpatriati. A noi ex soldati non fu permesso e neanche potemmo espatriare in Francia perché, per colpa di Mussolini, avevano vigliaccamente attaccato questa nazione che già era in ginocchio. Gli ufficiali del nostro esercito, invece, considerati cittadini di serie A, erano accolti dalle autorità svizzere e di sicuro c’era un accordo segreto con le autorità italiane ed un fondo di garanzia per il loro mantenimento. Come dicevo non potemmo espatriare in Francia perché avevamo colpito alle spalle un popolo da sempre nostro amico. I Masquis (partigiani francesi) in quel perido molto attivi al confine sud franco-italiano sparavano agli italiani che cercavano di entrare in Francia. Sui monti di Giavento e Corazze in Piemonte, restammo solo noi meridionali, quelli del nord Italia tornarono alle loro case. Piccoli aerei tedeschi chiamati cicogne, su tutto l’arco alpino dove presumevano ci fossero dei soldati sbandati, fecero a più riprese lanci di volantini e cartoncini salvacondotti per farci tornare giù dai monti per tornare a casa o arruolarsi volontari. Anche noi li raccogliemmo e ci mettemmo in cammino, costretti dal freddo e dalla fame. Prima per le campagne chiedendo qualcosa da mangiare ai contadini, poi dove funzionavano i treni e specialmente quelli merci che non erano scortati dalle forze armate fasciste, si viaggiava finché si poteva perché gli aerei alleati bombardavano i nodi ferroviari ed i ponti. Con mezzi di fortuna e molte decine di chilometri a piedi, dopo circa venti giorni, arrivammo presso Cassino. Dai monti osservammo i movimenti delle truppe tedesche; noi eravamo in cinque, io calcolai che non era possibile attraversare le linee del fronte né di gionro né di notte; se sfuggivi ai tedeschi, ti potevano sparare gli alleati perché non sapevamo la parola d’ordine. Così decidemmo di tornare indietro ed accasarci presso parenti ed amici. Io con mezzi di fortuna e treni merci, dopo 15 giorni, arrivai a Vipiteno, in provincia di Bolzano, a casa della mia ragazza che avevo conosciuto durante la quarantena di ritorno dal fronte russo (fortunosamente salvo perché avevo firmato una dichiarazione che mi impegnava a tornare in Russia dopo la licenza premio di 30 giorni e avrei ricevuto il grado di sottufficiale). Inverno 1943-1944 La mia ragazza era bella e si chiamava Broli Dolores. Il padre di costei, impiegato comunale, mi procurò la carta annonaria ed un lavoro. Dopo l’8 settembre la comunità austriaca dell’Alto Adige prese il potere civile, politico e militare a scapito della comunità italiana. A me capitò più volte di essere fermato dalla polizia austriaca e mentre controllavano i miei documenti dicevano:” Fahrerfluct foch italien”. La sera chiesi a Dolores il significato di tali parole e lei evase la domanda rassicurandomi; io già pensavo che non era nulla di buono, poi ebbi la conferma quando seppi il significato. Stanco di essere fermato quasi tutte le mattine decisi di scappare a Verona dopo aver salutato e ringraziato la famiglia della ragazza che mi ospitò. A Verona dopo tante peripezie per vivere, mi presentai presso l’U.N.P.A. (Unione Nazionale Protezione Aerea), una specie di protezione civile. Qui mi dettero 3 mila lire, due coperte ed una pala. Noi dell’UNPA dovevamo intervenire per aiutare la popolazione dopi i bombardamenti degli alleati. Presso l’UNPA incontrai Paduano Vittorio di Trecase (Napoli) che faceva l’usciere vestito da fascista. Appena mi vide disse:” Gennaro da dove vieni? Come stai?”. Io gli spiegai il motivo del perché ero scappato da Vipiteno. Dopo aver cenato, Maria la padrona di casa, volle che io andassi a dormire con lei perché ero più giovane e che Vittorio non la riscaldava. Vittorio si rammaricò ma non disse niente. Dopo due giorni dissi a Vittorio che stavamo perdendo la guerra e sarebbe stato opportuno anche per lui procurasi abiti civili e cercare insieme di andare in Svizzera; ma lui non se la sentiva di partire. In giro per Verona lessi un manifesto per l’arruolamento nei bersaglieri e che davano 5 mila lire di premio d’ingaggio. Mi presentai e fui assunto come aiutanto cuoco perché dissi che sapevo cucinare. Quasi ogni mattina con la bicicletta da bersagliere al cui manubrio era attaccato un borsone della croce rossa, portavo lì dentro i viveri a casa della moglie del tenente medico. Dopo una quindicina di giorni riscossi i soldi della decade e di sera, invece di tornare in caserma, prendemmo il treno per andare in Valtellina al confine svizzero. Propaganda fascista per l'arruolamento nella R.S.I. e per lavorare per il Reich Giunti a Sondrio notammo una pattuglia di fascisti sul piazzale della stazione. Invece di scendere ci dividemmo per non dare nell’occhio e scendemmo alla stazione di Tresenda, non c’era nessun fascista in vista. Ci mettemmo in cammino e raggiumgemmo i primi caseggiati, più in alto del fondo valle chiedemmo, pagando, qualcosa da mangiare e se qualcuno, dietro compenso, ci accompagnasse in Svizzera per emigrare. Un contrabbandiere di Sondrio ci accompagnò, ovviamente era esperto della zona che lui spesso utilizzava per i suoi traffici. Il mio compaesano Paduano Vittorio non volle venire con me in Svizzera e tornò a casa sua dopo sei mesi trascorsi nel campo di concentramento di Coltano per i fascisti della Repubblica di Salò. Dopo 5 ore di salita difficoltosa sul monte Disgrazia dove spesso, in alcuni tratti, eravamo su pareti quasi verticali che traversammo grazie all’aiuto di corde metalliche e piccoli buchi nella roccia fatti dai contrabbandieri, arrivammo in cima al monte. La nostra guida ci indicò dove iniziava il territorio svizzero e da quel momento proseguimmo da soli. Il giorno dopo ci presentammo al comando della polizia svizzera per essere internati; ci chiesero i documenti, ci schedarono ma, soprattutto, chiesero armi e soldi. Noi consegnammo qualche migliaio di lire, che erano tutto quello che avevamo. Non capivamo cosa stesse succedendo poi il capo della polizia locale, fece una telefonata e poco dopo 3 poliziotti ci scortarono alla frontiera italiana e ci esplulsero, perché eravamo per loro, soltanto dei poveracci non graditi; altamente graditi, invece, erano quei signori che avevano e portavano ancora denaro in Svizzera. Gennaro Inserviente: Comandante partigiano Giugno 1944 – aprile 1945 Valtellina, passo dell’Aprica località Mortirolo, inizio delle formazioni del primo gruppo di partigiani (Giustizia e Libertà) a maggioranza di soldati del sud Italia; poi vennero due polacchi, un greco, un montenegrino, due reduci della Brigata Internazionale che combattè contro il dittatore spagnolo Francisco Franco nell’anno 1936 . Mi ricordo del socialista Ettore Mascheroni, in seguito arrivarono molti volontari del nord Italia. A metà marzo 1945 si aggiunsero cinque soldati russi prigionieri dei tedeschi che liberai con la mia squadra volante compiendo continuamente atti di sabotaggio e guerriglia. Gennaro Inserviente con i suoi compagni Giugno 1944 Tornammo in Italia fermandoci poi in Valtellina in provincia di Sondrio, sempre in montagna. Vivevamo in delle baite, alimentandoci con frutti del bosco come mirtilli, lamponi, fragole ed anche funghi e pinoli. I contadini locali ci aiutavano secondo le loro possibilità con pane, polenta, burro e formaggio di loro produzione. Intanto sui monti ogni giorno arrivava nuova gente tra cui alcuni reduci della Brigata Internazionale che nell’anno 1936, combattè in Spagna contro il dittatore Francisco Franco (1) Si incominciò a parlare di politica e ad armarci anche con l’aiuto dei lanci di esplosivo da collaudare ed armi automatiche da parte di aerei inglesi che erano in collegamento via radio con un agente inglese che era con noi. (2) Panorama della Valtellina Agosto 1944 (capo squadra partigiano) Si formarono i primi gruppi di partigiani combattenti ben armati. Furono compiuti atti di sabotaggio e guerriglia contro reparti fascisti prima e, in seguito, contro truppe naziste. In Valtellina le Brigate nere di Alessandro Pavolini, aiutate da qualche spione locale, iniziarono a prendere in ostaggio i familiari di alcuni partigiani della zona e li consegnavano al comando tedesco per spedirli in Germania. Noi, a costo della vita, cercammo in tutti i modi, riuscendoci, di fare dei prigionieri tra le truppe tedesche. Questi prigionieri li tenevamo nelle baite di alta montagna custoditi dai carabinieri che, ormai in gran parte, aiutavano noi partigiani. Avvenivano poi gli scambi e per ogni tedesco rilasciato tramite i sacerdoti locali, venivano rilasciati gruppi di popolazione civile anche di 10 persone. Io fui nominato Capo della squadra volante di 12 partigiani e ciò mi permetteva di avere carta bianca per compiere qualsiasi atto di sabotaggio e di guerriglia. Gruppi di partigiani: di vedetta ed in marcia sulle montagne 4 novembre 1944 (mancato attacco al ministro Pavolini) Ci fu segnalato dal Comando generale partigiano di Milano che il ministro Alessandro Pavolini, capo delle Brigate nere, doveva venire in Valtellina per organizzare l’ultima difesa di quello che restava della Repubblica Sociale Italiana. Io e la mia squadra restammo 2 giorni interi sotto un ponte della statale Morbegno-Sondrio. Ci alternavamo in modo tale che sempre un partigiano fosse di turno come vedetta per controllare l’arrivo del ministro Pavolini con la sua auto nera. La mattina del 3° giorno, verso le ore 9, fu avvistato l’arrivo di un’auto nera: non potevamo pensare che al ministro fascista. Gennaro Inserviente (a sn) con un compagno partigiano armati di mitra Stern ad Albosaggio‐Sondrio Eravano sui lati della strada nascosti da una siepe, quando a circa 20 metri dall’auto scattammo fuori per fermarla, ma questa ci sorpassò ed allora diedi l’ordine di sparare fin quando l’auto, dopo una cinquantina di metri, dovette fermarsi. Ci accostammo con le armi puntate ma dentro l’auto c’era l’industriale tessile Felice Fossati purtroppo appena ferito all’anca sinistra. Con le dita gli estrassi la pallottola che non era del tutto penetrata e lo medicai quanto meglio potevo avendo a disposizione un pacchetto di medicazione inglese. Chiesi all’autista perché non si fosse fermato subito e lui mi rispose di non averci visto. A quel punto tornammo in montagna tralasciando la venuta di Pavolini anche se in seguito, questa non fu più segnalata. (3) -------note---------------------------( 1) Tra il 1936 ed il 1937, a difesa del governo repubblicano, arrivarono in Spagna migliaia di volonatri organizzati Brigate Internazionali – divise in battaglioni. Erano fromate da circa 60.000 uomini provenienti da 53 nazioni dei cinque continenti. Gli italiani erano circa 4.000 inquadrati nel Battaglione Garibaldi. Parteciparono alcuni tra i maggiori esponenti dell'antifascismo: i comunisti Togliatti, Longo e Vidali, il socialista Nenni, il repubblicano Pacciardi. Tra gli italiani figuravano anche l'anarchico Camillo Berneri e il dirigente di Giustizia e Libertà Carlo Rosselli, che furono tra i primi ad accorrere in Spagna e già nell’agosto del 1936 costituirono la “Colonna Italiana Francisco Ascaso”, una formazione di circa 300 volontari di ogni fede politica (2) Giustizia e Libertà fu attivissima nell'organizzare bande di partigiani. Numericamente, le bande di GL (dette "gielline" o "gielliste") furono seconde dietro alle bande che si chiamavano garibaldine, riconducibili al Partito Comunista. I partigiani giellini si riconoscevano per fazzoletti di colore verde. Tra i personaggi più importanti di GL durante la Resistenza si possono ricordare Ferruccio Parri, nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) comandante militare unico della Resistenza, Ugo La Malfa, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi, nominato nel 1945 prefetto di Milano dal CLN dell'Alta Italia (CLNAI). Nel gennaio 1943 fu costituito il Partito d'Azione, da componenti di GL e da altri uomini politici di orientamenti liberalsocialisti, repubblicani, socialisti e democratici. Durante la guerra partigiana, il Partito d'Azione rappresentò l'organizzazione politica a cui facevano riferimento i combattenti partigiani di GL F.Parri U.La Malfa E.Lussu R.Lombardi ( 3) Alessandro Pavolini, già ministro della cultura popolare fascista e, successivamente capo delle Brigate nere, ipotizzò di organizzare con queste l’ultima resistenza dei fascisti in Valtellina per combattere gli Alleati. Questo progetto fu chiamato dallo stesso “Ridotto alpino repubblicano” dicendo che “ in Valtellina si consumeranno le Termopoli del fascismo”. La proposta non ebbe seguito. Pavolini fu giustiziato dai partigiani a Dongo il 28 aprile del 1945 ed il suo cadavere fu esposto a Piazzale Loreto a Milano Inizio marzo 1945 (perché uccisi un ufficiale tedesco) Catturai con la mia squadra cinque giovani fascisti senza sparare un colpo. Furono disarmati, li feci spogliare lasciandoli solo in mutande e dissi loro di tornare alle loro case perché essi la guerra l’avevano perduta. Tremavano di paura e di freddo. A quel punto li lasciai andare e loro velocemente scapparono fermandosi poi a poche centinaia di metri presso le abitazioni, lungo la statale Morbegno-Sondrio. Noi li osservavamo da lontano e vedevamo che bussavano con insistenza per entrare in casa anche perché il clima non era il migliore siccome iniziava a piovere e faceva freddo. Ovviamente di fronte a quella scena tra di noi non si poteva che ridere e, ripensandoci, ancora oggi dopo oltre 60 anni mi viene da ridere. Poi chissà quei cittadini che shock subirono quando, nell’aprire le porte di casa, dopo che fu bussato con insistenza, videro i 5 giovani fascisti in mutande sotto la pioggia. Mentre si tornava verso il ponte sul fiume Adda per risalire in montagna, ovviamente sempre protetti dalle siepi lungo la via statale e la ferrovia, si fermò un auto tedesca, subito uscimmo allo scoperto per prenderli in ostaggio. Ci riuscimmo, intimai ai due occupanti di scendere con le mani alzate. Uno degli occupanti, un maresciallo, subito ubbidì mentre l’altro, un ufficiale, non ne voleva sapere. Uno della mia squadra, poco esperto, si accostò troppo vicino allo sportello e l’ufficiale in un attimo, riuscì ad afferrare il mitra dell’incauto giovane partigiano, scendendo contemporaneamente dall’auto, facendolo cadere. Non ebbi tanto tempo per pensare e prima che lui ci sparasse, fui costretto a sparargli per primo mio malgrado. Non ci piaceva uccidere. Il maresciallo tenuto come ostaggio era austriaco e parlava e capiva la nostra lingua. Da lui mi feci dare la sua divisa e lo feci vestire con la divisa fascista presa dai cinque giovani malcapitati. Sembrava uno spaventapasseri perché le divise erano molto piccole per lui. A quel punto caricammo il morto in macchina e prima di farlo partire, dissi semplicemente al maresciallo di dire la verità su quanto era successo quando sarebbe tornato al suo comando, in modo da evitare rappresaglie contro la popolazione civile. Penso che fece come gli fu detto perché dopo non ci fu nessuma rappresaglia e nessun rastrellamento. Durante la conversazione con il maresciallo austriaco, mi fu detto che l’ufficiale era ingegnere del genio militare ed era venuto in Valtellina per allestire sistemi ed opere di difesa militare. Poi prima di salutarci, il maresciallo convenne con me che l’ufficiale era morto solo per colpa sua; ci rimasi male per la morte che avevo dato a quell’ufficiale tanto che, dopo pochi giorni, lo confessai ad un nostro amico sacerdote, lui mi assolse per legittima difesa. Noi tutti della brigata “Giustizia e Libertà” e quelli della brigata “Rinaldi” (1) ci siamo sempre preoccupati di evitare i conflitti a fuoco con il nemico nazifascista, ma con la tattica di mandare in avanscoperta partigiani vestiti con divise tedesche, qusi tutte le azioni di guerriglia si risolsero senza spargimenti di sangue. Noi ci spostavamo continuamente, accampandoci un pò ovunque, sui monti a sinistra e a destra della Valtellina dando l’impressione che fossimo migliaia di partigiani, mentre eravamo Tirano‐Sondrio 1944 soltanto poche centinaia. Metà del mese di marzo 1945 (nomina a vice comandante di distaccamento) Fui nominato vicecomandante di distaccamento con il grado di sottotenente e subito, dopo pochi giorni, mi fu segnalata la presenza sulla sponda sinistra del fiume Adda, di un soldato tedesco con 5 operai che scavavano trincee. A circa trecento metri dalla città di Sondrio, comandati da un sottufficiale tedesco intervenimmo con la squadra. Il tedesco, sorpreso, alzò subito le mani e fu disarmato, lo invitai a seguirci ma lui mi fece capire che non poteva camminare mostrandomi la gamba destra ferita sul fronte russo; io con la pistola mirai alla sua gamba sinistra e lui capì che non scherzavo, anche zoppicando incominciò a camminare. I soldati russi prigionieri indossavano ancora la divisa dell’esercito sovietico, a loro dissi in russo:”davai bistrò” che significa “avanti presto”. Arrivati al nostro accampamento, a metà montagna, feci acompagnare il nostro prigioniero nella baita in alta montagna ove erano altri soldati tedeschi custoditi dai carabinieri. I prigionieri erano in attesa di essere scambiati con gruppi di cittadini locali tenuti in ostaggio dai nazifascisti i quali li minacciavano di deportarli in Germania affinché i loro congiunti partigiani che combattevano sulle montagne costituissero. Ma circostanti, con la si fattiva collaborazione dei sacerdoti avvenivano gli scambi. (2) A noi interssavano le divise tedesche che venivano indossate da alcuni partigiani mandati in avanscoperta, senza destare sospetti, in modo che le azioni di guerriglia avvenivano senza sparatorie e spargimenti di sangue. Dopo mangiato incominciai a parlare in russo con i cinque soldati liberati, mi resi conto che erano affidabili e felici di stare con noi, pertanto furono registrati e armati come tutti noi. Due dei soldati russi liberati il 15 marzo: foto ricordo con dedica regalate a Gennaro 25 marzo 1945 La mattina tramite una staffetta, ci fu segnalata dal Comando generale di Milano, informato a sua volta dai ferrovieri, la venuta in Valtellina di una tradotta di carri merci ed una carrozza di scorta con trenta fascisti a bordo. Facemmo indossare a cinque partigiani le divise tedesche e scendemmo a valle con due distaccamenti di partigiani al completo di circa 70 uomini. Vicino al casello del passaggio a livello, ben in evidenza, si collocarono i cinque partigiani in divisa tedesca per fermare il treno senza destare sospsetti nella scorta fascista. Noi in attesa dell’arrivo della tradotta sistemammo, comunque, due cariche esplosive sotto i binari a circa venti metri dal casello ferroviario. Molto materiale bellico ci veniva paracadutato di notte da aeroplani inglesi, insieme a mitra Stern, munizioni e bombe a mano; nel frattempo decidemmo come condurre l’azione. A capo di 34 uomini mi appostai sul lato destro dei binari dove eravamo distanziati tre-quattro metri l’uno dall’altro, dietro le siepi pronti a scattare appena fermato il treno; lo stesso avrebbe fatto la metà del contingente appostato sul lato sinistro agli ordini di un altro comandante partigiano. Verso le ore 14,00 all’arrivo del treno, noi tutti eravamo pronti allo scontro a fuoco. Il Comandante Gennaro Inseviente ( 2° da sn.) a Sondrio 27 aprile 1945 Per fortuna andò tutto come previsto. Il treno si fermò al posto giusto, i macchinisti del convoglio sapevano cosa stava succedendo. La scorta del treno, vedendo le divise tedesche, non si allarmò e noi contemporaneamente, saltammo fuori dalle siepi senza sparare un colpo. Intimammo alla scorta di alzare le mani e di scendere dalla carrozza; i fascisti furono perquisiti uno per uno e furono scortati in montagna. La popolazione locale che aveva assistito da lontano a tutta l’operazione, ci chiese se era rimasto qualcosa sul treno e se potevano andare a prendere ciò che trovavano. Noi, ovviamente, dicemmo che potevano andare perché c’era ancora tanta roba. Tutti, così, si munirono di carriole, carrettini e gerle e, di corsa, finirono di saccheggiare il treno. I fascisti furono identificati e la lista fu inviata al Comando generale di Milano per competenza ed eventuali accertamenti e provvedimenti. Fino al 25 aprile 1945 ai reparti partigiani arrivavano in montagna ogni giorno, nuovi volontari mentre nei reparti fascisti si disertava. ---------------note---------------------------(1) La brigata era intitolata al comandante partigiano Riccardo Rinaldi, catturato e fucilati dai repubblichini alla vigilia di Natale del 1944. In precedenza la formazione era intitolata “ 40° brigata Matteotti”. La brigata era schierata nella parte centrale della Valtellina. Era comandata da Ettore Mascheroni (Ettore) mentre il commissaro politico era “Germano” (Germano Bodo), Germano entrambi ufficiali dell’esercito italiano entrambi ufficiali dell’esercito italiano. (2) Scrive Germano Bodo (Sondrio, .provincia ieri e oggi) a proposito della collaborazione della popolazione:” Naturalmente, per i lunghi mesi della guerriglia partigiana assolutamente decisivo fu l’appoggio della popolazione valtellinese:non avremmo potuto reggere neanche pochi giorni senza questo appoggio, continuo e incredibilmente generoso. Ci avevano aiutato tutti: i contadini e gli allevatori dei centri piccoli e grandi, gli esponenti della società civile, cittadini benestanti o poverissimi, i preti e le suore un sostegno fondamentale in una zona di salde radici cattoliche come la Valtellina) e persino rappresentanti delle autorità locali come alcuni potestà…l’occupazione tedesca era straordinariamente invisa alla popolazione ed aveva prodotto un irrobustimento del sentimento patriottico con la diffusione di un desiderio di riscatto dopo l’umiliazione del disarmo e della cattura di tanti soldati italiani in seguito all’8 settembre…”. . 26 aprile 1945 (La Liberazione) La mattina noi e tutti i reparti armati scendemmo a valle ed accerchiammo la città di Sondrio. Qui fummo contattati dal comitato locale per porre fine alle ostilità dato che i fascisti e tedeschi volevano trattare. (1) Noi eravamo d’accordo, così prima con i fascisti e dopo qualche ora con i tedeschi, ci incontrammo a metà strada, in un casolare tre le nostre postazioni e la città. Fu nominata una delegazione di quattro partigiani: uno del Partito d’Azione, un comunista, un popolare della D.C. ed io come socialista. (2) Arrivò la delegazione dei fascisti la quale accettò le nostre condizioni di deporre tutte le armi al centro del cortile della prefettura e della caserma della Guardia Nazionale Repubblicana attentendo il nostro arrivo. Dopo un’ora e mezza arrivò la delegazione tedesca composta da un capitano, che parlava abbastanza bene la nostra lingua, e due sottotenenti. Alla nostra richiesta di consegnare le loro armi, dissero di no. Volevano semplicemente andarsene pacificamente per Bormio, S.Caterina Valfurva, Merano, Bolzano e passo del Brennero; soltanto se attaccati avrebbero risposto al La squadra del comandante Inserviente a Sondrio il 27 aprile 1945 fuoco come difesa. Il delegato comunista non fu d’accordo ed iniziò ad alzare la voce mentre io e gli altri due delegati, cercammo di calmarlo chiarendogli la situazione. Lo chiamammo da parte ed io gli dissi di accettare le condizioni della delegazione tedesca perché i tedeschi erano ancora muniti di automezzi corazzati e di armi pesanti, noi invece avevamo solo armi leggere. In caso di uno scontro, di sicuro noi avremmo avuto la peggio unitamente alla popolazione civile. Si sarebbe prospetatta una situazione che per noi non era affatto conveniente dopo tanti pericoli passati già. Avevamo sofferto spesse volte la fame e tanto freddo durante l’inverno sui monti ed era già uno strazio il prospettarsi di altri spargimenti di sangue. Fummo, pertanto, tutti d’accordo e facemmo partire la colonna tedesca secondo la loro proposta. Subito dopo entrammo a Sondrio e prendemmo possesso della Prefettura e della caserma delle Brigate fasciste. Queste ultime ci aspettavano avendo rispettato gli accordi e, una volta presi, li portammo al carcere locale. Quelli che si erano macchiati di atrocità, furono rinchiusi nelle celle in attesa di ordini del Comitatom di Liberazione Alta Italia. Dopo pochi giorni fu costituito il Tribunale del popolo e subito incominciarono i processi. C’era un solo vecchio avvocato d’ufficio per la difesa e, tra le altre cose, io per sei giorni lessi i capi d’accusa che erano stati preparati da una commissione locale. Ci fu una sola condanna a morte contro il tenente delle brigate nere Paganella reo, con la sua squadraccia, di aver messo a ferro e fuoco il piccolo Gennaro Inserviente alla guida di un'auto sequestrata ai tedeschi paese di Buglio in Valtellina. In quella circostanza ci furono diversi morti tra la popolazione e ne vennero presi moltim in ostaggio. Poi fu la volta del maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana, Sanna, di origine sarda. Mi ricordai di lui perché liberò una nostra giovane staffetta di nome Irene la quale era presente in aula. La invitai a deporre e dire la verità, tanto che andò tutto bene per il maggiore. A quel punto io, senza nulla chiedere per il mio operato durante la lotta per la liberazione dell’Italia dal nazifascista, lasciai l’incarico per tornare a casa mia a Boscotrecase che rividi il 10 maggio del 1945. Con me portai, durante il viaggio, le armi che avevo e come si diceva allora:” Il vento del nord per una repubblica democratica”. 27 aprile 1945 Città di Sondrio, capoluogo della provincia liberata. Tutte le formazioni partigiane sfilarono per il corso principale fra due ali di popolo festante e riconoscente lanciando fiori, da un vicolo spuntò uno strano veicolo. Era un piccolo camioncino a cui erano state saldate delle lamiere metalliche per farlo sembrare un autoblindo. Uno guidava, un altro in piedi, da un buco fatto sul tetto della cabina di guida, indossava una vistosa camicia rossa ed agitava la bandiera italiana. Essi cercavano di immettersi in fila tra lo spazio libero della nostra formazione e quella che ci precedeva. Io fra gli altri, ero in prima fila e dissi:”Ma questo buffone chi è e da dove viene?”. Lui sentì e si allontanò con i suoi amici e non si fecero più vedere in giro. Un partigiano locale che lo conosceva, mi disse che si chiamava Carletto Fumagalli e che faceva il contabbandiere con la Svizzera. Voglio precisare che le autorità costituite arrivarono in Valtellina dopo una quindicina di giorni. Liberazione di Sondrio. il Commissario politico Diego Carbonera , nome di battaglia Giorgio ( in primo piano) Alla testa della Brigata “Sondrio” della 1° Divisione Alpina Valtellina di G.L. -------------------------------------note------------------------------(1) In Valtellina, i capi fascisti decidono di trattare le condizioni di resa con il CLN locale. Le proposte vengono offerte tramite il vescovo di Sondrio e valgono per tutte le truppe dislocate nell'intera Valtellina. Sulla carta prevedono garanzie onorevoli per gli sconfitti: tutti coloro i quali non si siano macchiati di reati comuni avranno un salvacondotto e saranno lasciati in libertà. Le ultime speranze stanno svanendo, Mussolini è in mano dei partigiani e proseguire la battaglia sarebbe un inutile e folle spargimento di sangue. Il patto viene poi sottoscritto dal Vescovo di Sondrio che se ne fa garante. 25 aprile 1945, infatti, a Sondrio comandava i circa 3000 uomini della R.S.I. il generale Onorio Onori che avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini al comando del Maggiore Renato Vanna sono a Tirano e cercano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tenta di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma ecco che il generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, federale di Sondrio, gli vanno incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, gli comunicano di essersi arresi il giorno prima e lo invitano a fare altrettanto. E’ il 29 aprile. Tutti i prigionieri vengono chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio. La Provincia di Sondrio fu insignita della Medaglia d’Argento al Valor militare per “ i sacrifici delle sue popolazioni e per la sua attività nella lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale” (2) Il documento ufficiale della resa fu firmato per i fascisti dal generale Onorio Onori, dal federale Parmeggiani e dagli altri ufficiali della R.S.I. presenti. Per i partigiani firmarono il comandante di zona avvocato Teresio Gola, rappresentante della prima divisione alpina; Maio (Mario Abiezzi) per le divisioni garibaldine; Ettore Mascheroni, comandante della brigata Rinaldi; Bill (Alfonso Vinci) comandate di altre formazioni garibaldine e e dall’avvocato Schena del C.L.N. di Sondrio. 2 giugno 1946 (Referendum monarchia-repubblica) Il referendum votò a favore della repubblica, ma al sud e specialmente a Napoli ed in tutta la Campania per la presenza di molti monarchici, di fascisti camuffati dal partito “Uomo Qualunque” e persino di nostalgici dei Borboni, giorno dopo giorno la situazione politica peggiorava. Il re Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto e andò via in esilio in Egitto. I sostenitori della monarchia, nonostante la sconfitta subita, non si rassegnavano, ma si agitavano sempre più minacciosi, bruciavano le sedi dei partiti antifascisti. Noi non potevamo restare a guardare e quindi facevamo altrettanto, così le federazioni Socialista e Comunista erano presidiate da molti compagni armati. Da Boscotrecase andammo a presidiare la federazione Socialista napoletana, io, Franco Casale e Balzani Ferdinando unitamente ad altri compagni di tutte le sezioni socialiste della provincia di Napoli per la difesa della repubblica e della democrazia. Napoli: scontri tra filomonarchici e repuibblicani a Via Medina 12 giugno 1946 Di sera ci fu lo scontro a fuoco presso le federazione comunista e ciò causò qualche morto e diversi feriti. Il comando alleato allora intervenne e invitò Umberto di Savoia (Re di maggio) a dimettersi e partire per l’esilio e così andò in Portogallo con la sua famiglia il gionro 14 giugno 1946 evitando, così, una guerra civile. Umberto era succube del padre ma anche antifascista unitamente a sua moglie la principessa Josè del Belgio. Peccato solo che non contavano niente. Napoli: un ferito degli scontri a piazza Borsa ----------------------------------------------------------------------Un mese prima del referendum sulla scelta monarchia o repubblica, Vittorio Emanuele III abdicò a favoe del figlio Umberto ) che regnando nei soli mesi di maggio e parte di giugno, fu chiamato “Re di maggio”). Nella giornata del 2 giugno e la mattina del 3 giugno 1946 ebbe dunque luogo il referendum per scegliere fra monarchia o repubblica. Il 10 giugno, alle ore 18:00, nella Sala della Lupa a Montecitorio la Corte di Cassazione diede lettura dei risultati del referendum così come gli erano stati inviati dalle prefetture (la repubblica ottenne 12.717.923 voti, mentre i favorevoli alla monarchia risultarono 10.719.284), senza però procedere alla proclamazione della repubblica e rimandando al 18 giugno il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami. Nonostante che Umberto II denunciasse brogli elettorali questi, appurato che gli americani non lo avrebbero appoggiato e per evitare una guerra civile, lasciò l’Italia Ritorno in Valtellina Dal ritorno dalla Germania, dove mia moglie era andata a trovare mia figlai Lidia, ci fermammo a San Gallo, Sait Moritz e Tirano in Valtellina per farle vedere tutti i paesi e le montagne in cui avevo combattuto i nazifascisti rischiando la vita tante volte. In quei luoghi sono stato fortunato e mi sono pure divertito. Ho agito sempre a favore della popolazione civile perché loro aiutavano noi tutti in tutti i modi, fornendoci informazioni e, in caso di bisogno, viveri ed indumenti. Facemmo sosta ad Albosaggia in provicnia di Sondrio in cerca di Paganoni Benito, il più giovane partigiano della mia squadra. Lì chiesi a delle donne che stavano sedute davanti ad un’abitazione a parlare tra loro, informazioni su dove abitava il mio amico Paganoni Benito. Una di loro si accostò alla macchina, mi riconobbe e disse:”Gennaro, tu sei il napoletano? Ne parla ancora tutta la valle”. Ed erano passati ben 33 anni. Mia moglie buon’anima affettuosa e sospettosa, voleva sapere di che cosa parlavano. A casa di Benito fummo accolti con benevolenza. Dopo tanti anni anche lui era sposato, era stato emigrante in Australia, aveva una bella casa e faceva l’autotrasportatore di gasolio con la Svizzera. Ricordi di Russia Da ricerche e interviste agli ultimi reduci viventi dei campi di concentramento dell’unione sovietica e specialmente dai racconti di Stefanile Francesco di Trecase (Napoli), internato in Siberia, ove ha sofferto molto freddo, fame e privazioni, ho saputo che accanto al campo di concentramento dei soldati italiani, vi era anche un campo di concentramento di donne moldave, ucraine e russe, ree di aver fraternizazato con noi. Effettivamente noi soldati italiani abbiamo fatto amicizia con tutta la popolazione russa. Nell’inverno 1941/42 il fronte era fermo. Vicino Stalino, ora Donec’K, vi era un lago ghiacciato, vi erano molti giovani che pattinavano. Io, che avevo la moto Guzzi Alce, chiesi ad un uomo che era fermo sulla sponda del lagno se potevo transitare con la moto senza problemi. Lui mi disse che il lago era completamente ghiacciato e che potevano transitare anche gli autocarri. Incominciai a girare con la moto ed alcuni ragazzi si accostarono e mi chiesero il permesso di attaccarsi dietro la moto; io acconsentii e cinque ragazzi per volta li accontetai tutti, questi felici e contenti mi ringraziarono. Altro reduce Lavano Giuseppe classe 1924 da Boscoreale tornò dalla prigionia dal lontano Tagikistan dopo otto anni ed in buona salute. Io gli domandai cosa mangiava e lui mi rispose, un pò titubante, che come tutti i prigionieri deportati in Uzbekistan e Kazakistan mangiavano le testuggini arrostite sulla brace. **************************************************************************************************************************** Considerazione del curatore Del diario di Gennaro Inserviente (ricopiato senza apportare nessuna correzione ma riportando delle brevi note a piè di pagina) ho preso solo le parti che riguardano le vicende belliche che l’hanno visto protagonista, tralasciando alcune pagine nelle quali, con lucida analisi, tratta di politica e storia connesse sia al periodo della seconda guerra mondiale e sia a quello post bellico. Ho estrapolato, però, alcuni brani che riportano aneddoti personali, specialmente quelli che riguardano la sua passione politica e le sue scelte di campo che condivido totalmente. ******************************************************************************* Sui comunisti (da: Cenni di storia dell’Unione Sovietica) (…) Una sera mi recai presso la sezione del P.C.I. di Boscotrecase in cerca di un mio amico; c’era un’assemblea politica. Quando fu pronunciato il nome di Togliatti e di Stalin si alzarono in piedi battendo le mani i fratelli Cipriani, Fiorentino Daniele e Giovanni seguiti da tutta l’assemblea; questo avveniva nell’immediato dopoguerra, penso anche in altre sezioni del P.C.I. Io pensai:” Ma questi sono fanatici!”. Quando in Europa incominciarono ad arrivare le prime notizie raccapriccianti sugli orrori commessi in Unione Sovietica, specialmente durante l’era staliniana, in un incontro tra socialisti e comunisti, io dissi:” Meno male che noi del Fronte Popolare abbiamo perdute le elezioni politiche del 1948”, intervenne risentito l’insegnate elementare comunista, lettore e venditore ambulante dell’Unità, Carotenuto Angelo che mi disse:” Gennaro che stai dicendo?” ed io risposi:” Angelo ma tu leggi solo l’Unità?”, finì la discussione e conclusi che avevano ragione i democratici cristiani che dicevano:” I comunisti italiani avevano portato i cervelli all’ammasso”. I militanti comunisti di base in buona fede non sapevano cosa succedeva nell’Unione sovietica. Palmiro Togliatti (il Migliore) non fece nulla per aiutare le famiglie dei comunisti italiani scomparsi in Russia, eppure lui era uno dei massimi esponenti del Cominform, organismo supremo del comunismo internazionale e neanche a favore dei soldati italiani prigionieri dei russi che fuorno portati nel lontano Tagichistan. I pochi superstiti furono adibiti a raccogliere cotone. Uno di questi a nome di Lavano Giuseppe classe 1924, abitante al piano-Napoli del comune di Boscoreale, è tornato dalla prigionia dopo ben 8 anni. (…) Sui socialisti ( da: Capitolo Tangentopoli) Durante il periodo della guerra di Liberazione noi partigiani, tutti volontari, nei momenti di pausa si incominciava a parlare di politca. Vennero in montagna da noi in Valtellina, due reduci della guerra civile spagnola del 1936. Uno si chiamava Ettore Mascheroni, socialista, dell’altro non ricordo il nome, entrambi avevavno combattuto contro il franchismo nelle Brigata Internazionale. A me piacque l’ideale socialista fino allo scandolo di tangentopoli. Era Bettino Craxi appena eletto a segretario del P.S.I. cambiò il simbolo del partito a me tanto caro perché rappresentava intellettuali, operai e contadini. Ci rimasi male. L’assassinio del fratello Giuseppe ad opera dei tedeschi ( da: Settembre 1943) (…) Iniziarono anche i rastrellamenti dei giovani. Qundo tornai a casa a Boscotrecase dopo circa sei anni, non trovai mio fratello Giuseppe di 18 anni, domandai ai miei genitori ed essi mi dissero che i soldati tedeschi lo uccisero mentre scappava. Con lo sbarco a Salerno degli Alleati anglo-americani fu liberata Napoli dopo le 4 giornate. mio fratello Pietro di anni 17 fu picchiato da un gruppo di soldati americani perché indossava una camiciola tinta di nero in segno di rispetto per la morte del fratello Giuseppe assassinato dai nazisti. Stamattina mi sono alzato o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao stamattina mi sono alzato e ci ho trovato l'invasor. O partigiano, portami via o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao o partigiano, portami via che mi sento di morir. E se muoio da partigiano o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao e se muoio da partigiano tu mi devi seppellir. Seppellire lassù in montagna o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao seppellire lassù in montagna sotto l'ombra di un bel fior. E le genti che passeranno o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao e le genti che passeranno e diranno: o che bel fior!. E questo il fiore del partigiano morto per la libertà PIETA' L'E' MORTA Lassù sulle montagne bandiera nera: è morto un partigiano nel far la guerra. E' morto un partigiano nel far la guerra, un altro italiano va sotto terra. Laggiù sotto terra trova un alpino, caduto nella Russia con il Cervino. Ma prima di morire ha ancor pregato: che Dio maledica quell'alleato! Che Dio maledica chi ci ha tradito lasciandoci sul Don e poi è fuggito. Tedeschi traditori, l'alpino è morto ma un altro combattente oggi è risorto. Combatte il partigiano la sua battaglia: Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia! Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia! Gridiamo a tutta forza: Pietà l´è morta! FISCHIA IL VENTO Fischia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar, a conquistare la rossa primavera dove sorge il sol dell'avvenir. Ogni contrada e' patria del ribelle ogni donna a lui dona un sospir, nella notte lo guidano le stelle forte il cuore e il braccio nel colpir. Se ci coglie la crudele morte dura vendetta verra' dal partigian; ormai sicura e' gia la dura sorte contro il vile che noi ricerchiam. Cessa il vento, calma e' la bufera, torna a casa fiero il partigian Sventolando la rossa sua bandiera; vittoriosi e alfin liberi sia Antonio Cimmino, nato a Castellammare di Stabia il 4 ottobre del 1947, è stato imbarcato su nave Volturno e nave Etna e promosso, dopo il congedo, Capo di 1° Classe. Già dipendente del cantiere navale di Castellammare di Stabia e funzionario direttivo di un’azienda di public utility, è un cultore della storia della Marina. Ha scritto diverse pubblicazioni sia di carattere socio‐sanitario e sia vertente su problematiche marinare; ha condotto un corso per tecnici navali presso l’I.T.I.S. Renato Elia di Castellammare di Stabia. È socio simpatizzante e revisore dei conti della sezione ANCR di Scafati, così come della Federazione di Napoli dell’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti e decorati. Già vicepresidente dell’Associazione Marinai di Castellammare di Stabia, è socio effetivo dell’U.N.S.I. di Pompei e socio aggregato dell’Associazione Nazionale Combattenti Guerra di Liberazione di Castellammare di Stabia. Collabora con diverse riviste e siti per la storia della Marina e dei Marinai ( L’opinione di Stabia, il Sentiero Tricolore, Il Nastro Azzurro, www.marimai.it , www.liberoricercatore,www.l a vocedelmarinaio.com)