Quaderns d’Italià 11, 2006 147-179 «Una filosofia numerosa et ornata» Filosofia naturale e scienza della retorica nelle letture cinquecentesche delle «Canzoni Sorelle» Giancarlo Alfano Seconda Università di Napoli Abstract In virtù della loro compattezza come «sottoinsieme» all’interno del capolavoro petrarchesco, le «Canzoni degli occhi» (Rvf, 71-73) costituiscono uno specimen ideale per valutare l’atteggiamento dei commentatori cinquecenteschi delle «rime sparse». Dall’edizione senza note del Bembo (1501) al commento di Vellutello (1525), e ancora dal lavoro di Andrea Gesualdo (1533) sino al grande commento pubblicato postumo del Castelvetro (1582) con il quale in più di un senso si chiude il secolo, si sono contrapposti in Italia due atteggiamenti interpretativi. Da un lato si collocano quelli che come Vellutello o Castelvetro rappresentano i campioni della explication du texte, ossia la critica del «ciò è» che mira a rendere comprensibile la lettera senza sovraccaricarla di significati sapienziali o filosofici; dall’altra parte si sistema invece la critica del «peroché», fatta propria da chi, in particolare gli accoliti dell’Accademia fiorentina (da Varchi a de’ Vieri), cercava nell’opera petrarchesca la fonte di un sapere enciclopedico e semmai esemplare anche dal punto di vista spirituale. Lo studio ripercorre questa storia cinquecentesca attraversando sia i commenti sia le lezioni dedicate a singoli componimenti del Canzoniere e mostrando il passaggio dalla identificazione tra «spirito» poetico e «corpo» tipografico tipica del primo Cinquecento alla tendenza a separare tra «spirito» filosofico e «lettera» poetica presente nella seconda metà del secolo XVI. Parole chiave: Petrarca (Canzoniere), commenti poetici, cultura letteraria s. XVI (Italia). Abstract In virtue of their consistency as «subsets» within the Petrarch masterpiece, the «Canzoni degli occhi» («Songs of the eyes») (Rvf, 71-73) are a perfect specimen for appraising the attitude of 5th Century annotators towards «scattered rhymes». Two interpretative, opposing attitudes have existed in Italy, which are evident in various writings, from the obscure work of Bembo (1501) to the comments of Vellutello (1525), and from the work of Andrea Gesualdo (1533) up to the great posthumous commentary of Castelvetro (1582), which brought an ambiguous end to the century. On the one hand, there is the viewpoint of Vellutello or Castlevetro, who represent the protectors of the explication du texte, or rather the critic of the ciò è («that is»), which seeks to explain the letter without overstating knowledgeable or philosophical meanings; on the other hand, is the criticism of peroché, through which acolytes of the Florentine Academy (from Varchi to de’ Vieri) in particular, have searched the patriarchal work for the source of encyclopaedic knowledge and, perhaps, exemplars even from a spiritual point of view. The study retraces this 16th Century histo- 148 Quaderns d’Italià 11, 2006 Giancarlo Alfano ry, passing through both comments and readings regarding individual compositions from the Canzoniere («Song Book») as well as highlighting the process of identification between the poetic «spirit» and typographic «body» typical of the first five centuries. The study also addresses the tendency to separate between philosophical «spirit» and poetic «letter», present in the second half of the 16th Century. Key words: Petrarch (Canzoniere), poetic commentaries, 16th Century literary culture (Italy). Mercuzio ha appena lanciato la sua stoccata contro quei nuovi damerini che parlano prezioso, i «new tuners of accent», quelli che insomma modulano frasi ingentilite dalla ricca aggettivazione e dalla ritmica compassata delle cortesie, quando entra in scena Romeo proveniente dalla cella di frate Lorenzo dove ha combinato il matrimonio segreto con la sua Giulietta. «Here comes Romeo, here comes Romeo!», strepita Benvolio, e il giovane salace e più che un po’ sboccato commenta che l’amico in arrivo gli pare diventato tale e quale un’aringa secca, non più carne viva e sanguigna, ma carne smunta, anzi «fishified», piscificata. E sùbito deve tornargli a mente l’invettiva contro i leziosi signorini che hanno imparato le moine moderne (e noi potremmo dire le grazie italianisants importate nei palazzi inlgesi cinquecenteschi), se nel suo vecchio compagnon d’armi duelli e bravate vede un altro di quelli che, mutata la spada con la penna, si esercitano nei numbers, in quella scrittura numerosa di cui fu maestro il Petrarca, e che con lo stesso Petrarca entrano adesso in gara dichiarando Laura, a petto della loro amata, non esser altro che una sguattera di cucina. Ma Laura, sacramenta Mercuzio, ebbe ben altro amante, capace, lui sì, di «berhyme her», metterla in rime, non certo come saprebbero solo malamente fare questi nuovi poetastri.1 Non ci sarebbe forse bisogno di cercare tra i giovinastri veronesi trapiantati in Inghilterra conferma di quella straordinaria moda del petrarchismo che pervase la cultura poetica e non solo poetica nel secolo XVI, se non fosse che proprio il mondo anglosassone offre una divertente controprova, tanto dell’opposizione tra spadaccini e damerini (quasi verrebbe da dire tra Rockers e Mods del celebre anniversario della Battaglia di Hastings: 1066-1966), quanto della profonda penetrazione del culto pel Petrarca, nonché della sua ampia fungibilità quale spunto e pretesto per una conversazione galante. Inviando in dono alla sua Dama un’edizione delle rime petrarchesche, il poeta Henry Constable vi accompagnava, come usava all’epoca, un sonetto amoroso intitolato «To his Mistrisse upon occasion on a Petrarch he gave her». Titolo piattamente referenziale, alla prima apparenza, se non che il poeta gentiluomo non mancava di approfittare già nel paratesto della ghiotta occasione per mostrare la sua 1. «Benvolio: “Here comes Romeo, here comes Romeo!” Mercutio: “Without his roe, like a dried herring. O flesh, flesh, how art thou fishified! Now is he for the numbers that Petrarch flowed in. Laura to his lady was a kitchen wench —marry, she had a better love to berhyme her”» (Romeo and Juliet, II 3). «Una filosofia numerosa et ornata» Quaderns d’Italià 11, 2006 149 competenza letteraria e illustrare alla Donna amata e al generico lettore «the reason why the Italian Commentaries dissent so much in the exposition thereof».2 Petrarca non voleva dire solo rime, dunque, e rimari e vocabolari, ma anche contenuti e metafore e concetti; egli non era maestro soltanto di lingua e di tecnica versificatoria, ma anche di pensiero e di retorica, come del resto ci si doveva aspettare da colui che Benedetto Varchi aveva definito un «dotto amante». E dottrina voleva dire necessità di commenti, e commenti di necessità voleva dire divergenza di opinioni e spiegazioni: il dissenso dei commentatori, potremmo insomma dire noi, era congenito a una declinazione sapienziale del far poesia, all’interpretazione «dottrinale» in senso esteso, e semmai filosofica in senso proprio, della rimeria amorosa. Se pure è vero, come ha ricordato Quitslund, che Cristoforo Landino aveva dissertato su Petrarca nello Studio fiorentino già nel lontano 1467,3 è altrettanto vero che il Cinquecento era stato inaugurato da ben diverso evento, la pubblicazione congiunta di Canzoniere e Trionfi per le cure di Pietro Bembo nella preziosa stampa aldina, priva di ogni e qualsivoglia indicazione di commento o supporto paratestuale, del 1501. La forza anche simbolica di quella stampa prestigiosa era anzi consistita proprio nella presentazione absoluta del testo, nella assolutizzazione del dettato poetico.4 Il che non voleva dire, tuttavia, autonomia della poesia rispetto a ogni ordine del discorso istituzionalizzato, ché anzi l’astuzia del Bembo consitette nell’imbrigliare stret2. Henry CONSTABLE, The Poems, ed. Joan Grundy, Liverpool: Liverpool University Press, 1960, p. 133 (sonetto I, iii, 4), cit. in Jon A. QUITSLUND, «Spenser’s “Amoretti VIII” and Platonic Commentaries on Petrarch», Journal of Warburg and Courtauld Institutes XXXVI (1973), p. 256-276. 3. ID., p. 275. Cfr. Roberto CARDINI, «Cristoforo Landino e l’umanesimo volgare», La Rassegna della Letteratura italiana, LXXII, serie VII (1968), p. 267-296, che alle p. 292-296 pubblica la Orazione fatta per Cristofaro da Pratovecchio quando cominciò a leggere in Studio i Sonetti di messer Francesco Petrarca, ossia la prolusione del Landino al suo corso universitario. Nell’articolo di Cardini si trova inoltre (p. 286, n. 32) il riferimento a un luogo del commento landiniano a Orazio, in cui l’autore riferisce di una discussione polemica durante il suo corso universitario su Petrarca intorno alla realtà storica di Laura, tesi alla quale Landino è assolutamente favorevole, risultando all’inverso contrario a ogni lettura (il cui iniziatore fu in fondo lo stesso Boccaccio) di carattere allegorico. Sulla trafila allegorico«poetologica» della musa petrachiana, cfr. Giuseppe BILLANOVICH, «Laura fantasma del “Canzoniere”», Studi Petrarcheschi n.s. XI (1994), p. 149-157. E per una differente ipotesi sull’esistenza di Laura si rileggano queste righe di Giorgio Manganelli: «Nell’Ottocento si discuteva se Francesco Petrarca fosse “veramente innamorato” di Laura. Naturalmente non lo era, e probabilmente una qualche Laura esisteva, giacché scrivere poesie d’amore per una donna esistente e che non si ama è del tutto in carattere con quella punta di sadismo astratto che alimenta la fantasia di uno scrittore» («Per soldi sì, per amore mai», in Giorgio MANGANELLI, Il rumore sottile della prosa, Milano: Adelphi, 1994, p. 86). Uno studio pregevole sulla rappresentazione figurativa di Laura e del Poeta si trova adesso nel bel libro di Nicholas MANN, Pétrarque: les voyages de l’esprit, Grenoble: Jérôme Millon, 2004, p. 73-111. 4. «L’edizione aldina del 1501, come ha insegnato Dionisotti, rompe con la tradizione quattrocentesca, con l’età del commento, e si ritorna ad una pagina con i margini netti, tesa a garantire la propria autorità e a prodursi come testo di lingua»: così Gino BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo, Padova: Antenore, 1992, p. 130. 150 Quaderns d’Italià 11, 2006 Giancarlo Alfano tamente la compagine testuale al suo supporto materiale, nello stringere spirito poetico e corpo tipografico in un abbraccio che sarebbe risultato tanto avvincente quanto infine vittoriosa nella storia letteraria del secolo che proprio quell’anno si apriva. Lo ha fatto notare Gino Belloni qualche anno fa riportando alla luce la figura di Antonio da Canal, anziano patrizio veneziano che mentre tra il 1509 e il 1516 viene commentando il Canzoniere, si lascia sfuggire, lui lettore abituato al libro manoscritto, un moto di fastidio contro chi (cioè Aldo Manuzio, e Bembo dietro di lui) aveva imbrattato le lettere di apostrofi e segni diacritici: «E costoro per acolorar miracoli et vender ben le sue stampe lo ha adulterato talmente che, se non se trovase altra copia de quela da i tituli, veramente besogneria che chi volesse sentir la dolcezza di ben dire in rime vulgar … andase prima a studiar el bosco dei tituli, e quando gli avese imparati, alora ghe saperia meno».5 Quaranta anni dopo la situazione si sarebbe addirittura rovesciata, tanto che un esperto del mondo tipografico come Ludovico Dolce avrebbe potuto sostenere, nelle parole di Belloni, che la «situazione di illeggibilità precedeva il tempo del Bembo e non viceversa». Ma era nel frattempo scattata la data fatidica del 1525, anno in cui appaiono sia le Prose della volgar lingua sia il commento di Alessandro Vellutello, prima della quale non era per nulla ovvio utilizzare Petrarca anche come maestro di lingua e dizione; normale era invece vedere in lui un maestro di vita, un modello di moralità ed erudizione nel senso di quella ricercata unità di religio e doctrina che è ispirazione comune di tanta cultura umanistica più o meno curiosa ed eterodossa. Eppure il seme del 1525 era stato gettato proprio nel 1501 da quell’edizione aldina leggera e maneggevole che quasi si contrapponeva all’altro prodotto della casa veneziana, la lussureggiante e si direbbe fiammeggiante Hypnerotomachia Poliphili appena pubblicata l’anno prima come a sigla e sunto di una stagione trascorsa. Tra il ricco volume in folio repleto di silografie preziose, quasi un libro da banco, e il «petrarchino» si disponevano insomma due modi di fare letteratura e di interpretare il destino culturale d’Italia: una lingua mutevole, varia, fantastica, da una parte; una selezione attenta di lemmi, giri sintattici e realtà predicabili dall’altra. Il mondo ancora linguisticamente ibrido delle corti venete e padane con la sovrapposizione di latino, volgare locale e toscano, tipico delle cosiddette lingue di koinè regionale, di contro al mondo consapevolmente monolinguistico della comunicazione sovramunicipale e ben presto sovranazionale. Che poi significa la contrapposizione tra un mondo ancora impastato delle scorie dell’oralità e un mondo oramai proiettato verso il mutuo riconoscimento delle «carte parlanti». È difficile dunque sopravvalutare il ruolo di quell’aldina e del Bembo in quegli anni, ma anche senza voler pretendere che un libriccino abbia potuto segnare l’identità italiana per i secoli a venire, possiamo ribadire, col Dioni5. La citazione è tratta dalla carta 416v del manoscritto citato nel terzo capitolo, Antonio da Canal e polemiche aldine, di Gino BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo, cit., p. 106: da qui proviene anche l’osservazione dello studioso citata a testo subito più avanti. «Una filosofia numerosa et ornata» Quaderns d’Italià 11, 2006 151 sotti e con la generazione di studiosi a lui successiva, che da lì scaturì l’invenzione di un «carattere» specifico del «carattere degli Italiani», ossia l’invenzione di quel «linguaggio letterario italiano»6 che sarebbe infine risultato profittevolmente esportabile insieme a un codice di comportamento e a una disposizione di valori etici e retorici. Quelli contro cui Mercuzio avrebbe scagliato la sua maldicenza. Quel volume seminale presentava tuttavia un ulteriore elemento che non solo lo impreziosiva agli occhi del lettore informato, ma che addirittura lo trasformava in reliquia: quel libro era stato infatti esemplato a partire da un manoscritto che a parere di Bembo non poteva che essere l’autografo del Poeta, la traccia biologica, potremmo dire, della sua esistenza sentimentale e letteraria. Era certo il segnale preciso del passaggio da un’epoca di approssimazione nella edizione delle opere volgari a un’epoca nuova caratterizzata da scrupolo filologico e disamina critica dei testimoni; ed era anche il segnale del passaggio da una stagione di unica, in cui ogni codice era «testo a sé», unico nella sua materialità, a una stagione di copie uniformi di un Unicum, possibilmente l’originale. Dal fattizio al feticcio, insomma: il Corpo del Testo in cui s’incarnava lo Spirito del Poeta veniva da questo momento in poi garantito dalla moltepicità uniforme (con un quasi pentecostale diffondersi dell’Uno nei molti).7 E il poeta diveniva così Modello: di lingua, di stile, di vita; un modello fungibile perché unico e vero comunque.8 In tal senso, nel senso cioè di un epocale cambiamento del modo di concepire il rapporto tra testo e autore, non è affatto paradossale che l’atteggia6. Cfr. Carlo DIONISOTTI, «Pietro Bembo e la nuova letteratura» [1967], in ID., Scritti sul Bembo, a cura di Claudio VELA, Torino: Einaudi, 2002, p. 79-91. 7. A proposito di questa devozione feticista nei confronti dell’autografo (ma si ricordi che, dopo l’utilizzazione da parte di Bembo e Manuzio, il manoscritto petrarchiano sarebbe poi rimasto a lungo negletto) è di qualche interesse notare che Ludovico Antonio Muratori, nel pubblicare Le Rime di Francesco Petrarca riscontrate co i Testi a penna della Libreria Estense e co i fragmenti dell’Originale d’esso Poeta accompagnate dalle considerazioni di Tassoni, Muzio e sue proprie (Modena: Bartolomeo Soliani Stampatore Ducale, 1711), si sarebbe opposto all’atteggiamento di «chi osservando sì minutamente notati [nel manoscritto autografo, n.d.r.] i giorni, i mesi, e gli anni, anzi i momenti stessi, in cui il Petrarca rivedeva le sue Rime, sino a notarvi l’interrompimento dell’opera per essere stato chiamato a cena» finiva col rendere involontariamente comico «lo stesso Petrarca» allo stesso modo che avrebbe fatto «il Franchi nel libro intitolato I Petrarchisti» (Dedica, p. XVIII). 8. Luigi BALDACCI («Introduzione» ai Lirici del Cinquecento, Milano: Longanesi, 19752, p. XV) e Roberto FEDI (La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma: Salerno editrice, 1990, p. 73) hanno ricordato la lettera con la quale il Bembo rispose nel 1529 alle perplessità di Niccolò Astemio intorno alla realtà storica della figura di Laura. In questa lettera il grande letterato rimprovera scandalizzato l’interlocutore per non essersi lasciato convincere dalla più evidente delle prove, cioè dalle stesse rime del poeta e in particolare dal primo sonetto, la cui sincerità sentimentale è a suo parere assolutamente incontestabile. A causa della «stittichezza (per così dire) d’una mano di zucche secche, che non voglion che sia licito dir cosa non detta da lui, né diversamente da quello ch’egli la disse» avrebbe invece dichiarato di prender le mosse Alessandro Tassoni per preparare le sue annotazioni al Canzoniere (cfr. «Vicededicatoria» in Le Rime di Francesco Petrarca riscontrate co i Testi a penna, cit., p. XXI). 152 Quaderns d’Italià 11, 2006 Giancarlo Alfano mento bembiano sopravvivesse proprio in chi avrebbe invece contestato l’autografia del manoscritto utilizzato dall’illustre patrizio veneziano e che su tale convincimento avrebbe provveduto a ridisporre tutte le tessere dei Rerum vulgarium per cavarne fuori il corpo glorioso. Se così, per riprendere le celebri espressioni di Luigi Baldacci, era stato Bembo a considerare l’esempio del poeta aretino «come il documento più illustre di un romanzo d’amore», fu poi Alessandro Vellutello a scrivere «il vero romanzo di Messer Francesco e di Madonna Laura», nella persuasione che «il senso di una vicenda terrena e diaristica» fosse fissato dentro «una trama ingegnosissima di rapporti».9 E questo «letterato di provincia e non professionale», che per patente lesa maestà bembiana sarebbe rimasto per sempre esterno ai circoli letterari importanti di Venezia, avrebbe allestito un tale romanzo obbedendo alle più tradizionali leggi della narrativa, procurando cioè una biografia dei personaggi (la Vita e costumi del poeta e la vita di Laura da lui ricostruite) e individuando il cronotopo adeguato in una Provenza reale riprodotta cartograficamente ad apertura di libro. L’immagine di Petrarca da lui così offerta risultava insomma come la sintesi di una vita e di un’opera letteraria (vita e opere, come per ogni santificazione…), ma la sintesi era ottenuta per emulsione del solo testo, della sola opera, scandagliata con premura e acribia. Era questo il frutto dello stesso presupposto da cui egli era partito, presupposto in base al quale, se il testo presentato da Bembo non era originale, questo andava evidentemente ricostruito. A questo scopo era necessario che ogni cambiamento nella disposizione dei singoli componimenti poetici fosse giustificato nel dettaglio. Ma giustificare voleva dire commentare, sia nel senso della discussione in progress di quella che noi oggi chiameremmo la «nota al testo», sia nel senso dell’ispezione, dell’indagine, dell’analisi delle tracce offerte dai testi per stabilire i raggruppamenti originali e le originarie sequenze dell’«organismo» adesso sfigurato. Il Commento finiva così col fare come un unico corpo col Testo, nel compito di giustificarlo e anzi garantirlo.10 La vita e l’opera del Modello risultavano insomma attingibili grazie al lavoro di una seconda mano che, se nella realtà storica, finiva involontariamente col sostituirsi alla traccia grafica della prima mano, quella, biologica, dell’autore, dal punto di vista del metodo ambiva precisamente, quella mano prima o primaria, a ricostruirla, restaurarla. Centralità del testo, dunque, rispetto a ogni deriva filosofica o in generale dottrinaria. In tal senso Vellutello prosegue sulla linea che in quegli stessi anni delineava Pietro Bembo quando dichiarava che «Dante molta più dottrina e 9. Luigi BALDACCI, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova: Liviana, 19742, p. 52 e 55. 10. «Per Vellutello l’ordinamento dell’aldina non era originale. E senza un testo originale non vi poteva essere commento. Se l’ordinamento si doveva ad un raccoglitore qualsiasi, foss’anche stato l’ultimo amico del Petrarca, bisognava ricostruire l’originale: in ogni caso e ad ogni costo affrontare il problema, ristabilire il testo prima di esporlo. Di necessità il commento ai singoli componimenti, giustificandone la nuova localizzazione, veniva a costituire la vera nota al testo» (Gino BELLONI, Laura tra Petrarca e Bembo, cit., p. 65: con questo libro chi scrive è in debito di numerosi e importanti spunti). «Una filosofia numerosa et ornata» Quaderns d’Italià 11, 2006 175 tore ultimava per la pubblicazione la sua Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta—; ma pure è interessante che Ludovico Antonio Muratori abbia riportato nel Settecento la notizia secondo cui il commento sarebbe stato terminato, almeno in una prima «forma» già nel 1545, ossia proprio in quell’anno così profondamente significativo nella storia del cultura poetica italiana. Quale che sia l’evidenza filologica, in altri termini, il fatto che Castelvetro abbia continuato a lavorare al suo commento fino agli ultimi mesi di vita non toglie nulla al fatto che abbia probabilmente cominciato a dedicarvisi in quei cruciali anni ‘40 quando le posizioni diverse, in campo religioso quanto genericamente culturale, presero ad assumere l’aspetto di contrapposizioni insanabili. Il letteralismo e il convenzionalismo del modenese l’avrebbero condotto in un breve giro di anni non solo a lanciare il suo affondo contro il Caro, ma a condannare recisamente le posizioni assunte in campo linguistico proprio da quel Benedetto Varchi, già suo amico e a quel tempo maestro riconosciuto dei più giovani accademici fiorentini.52 La questione è di estrema delicatezza, e tocca alcuni dei principali punti della cultura mediocinquecentesca, in particolare il diverso modo con cui venne interpretata l’eredità umanistica in una stagione che si avviava a portare fino in fondo quella separazione tra res e verba, che abbiamo anche visto in talune battute del Varchi e che nel Castelvetro diventa il presupposto per un modo nuovo, edonistico e appunto convenzionalistico, di concepire il fatto poetico al di fuori di ogni «investitura “teologica”» del poeta.53 Al contrario, per l’erudito modenese metro del poetico, stante la «destinazione popolare dell’opera d’arte», è innanzitutto il pubblico, la comunità degli «idioti», degli inesperti, di chi non ha competenze tecniche e solo si ferma ad Annibal Caro, in una confluenza di interessi grammaticali e di critica militante che conferma le tesi sostenute da Stefano JOSSA in Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali (1540-1560), Napoli: Vivarium, 1996 e adesso in ibid., «Petrarchismo e umorismo. Ludovico Castelvetro poeta», in corso di stampa (ringrazio Jossa per avermi permesso di leggere questo suo nuovo importante intervento ancora in bozze). 52. Per il primo testo mi limito a ricordare una battuta celeberrima: «Adunque l’ombra del giglio, non è seguita, et cercata da niuno animale con desiderio, che si sappia, et ciò aviene forse per ciò che non è molta per sottilità del torso suo insieme con la non ismoderata altezza. Perché io a ciò riguardando, et motteggiando già dissi, che le muse del Caro dovevano essere di schiatta Pigmaica, se bastava loro così fatta ombra a difenderle dal sole»; cfr. Lodovico CASTELVETRO, Ragioni d’alcune cose segnate nella Canzone di Messer Annibal Caro «Venite a l’ombra de gran Gigli d’oro», in Venetia appresso Andrea Arrivabene, 1560, c. 38r. Per le posizioni linguistiche, cfr. Lodovico CASTELVETRO, Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de’ verbi di messer Pietro Bembo [Modena, per gli eredi di Gadaldino, 1563], a cura di Matteo MOTOLESE, Padova, Antenore, 2004; Lodovico CASTELVETRO, Corretione d’alcune cose del «Dialogo delle lingue» di Benedetto Varchi [Basilea, Pietro Perna, 1572], a cura di Valentina GROHOVAZ, Padova: Antenore, 1999. Cfr. inoltre l’importante articolo di Werther ROMANI, «Lodovico Castelvetro e il problema del tradurre», Lettere italiane, XVIII (1976), p. 152-179. 53. Giancarlo MAZZACURATI, «Aristotele a corte: il piacere e le regole (Castelvetro e l’edonismo)» [1985], in ID., Rinascimenti in transito, Roma: Bulzoni, 1996, p. 144. Mi permetto di rinviare inoltre a Giancarlo ALFANO, «“Rechimisi creta”, Castelvetro, le Muse e il “fatto” poetico», Filologia e critica, XXVI (2001), p. 114-127. 176 Quaderns d’Italià 11, 2006 Giancarlo Alfano agli effetti immaginari.54 Da queste due premesse, centralità del poema rispetto al poeta e destinazione popolare, consegue la necessità da parte del critico di verificare se e quanto l’autore abbia rispettato le regole interne dell’arte, l’insieme delle convenzioni che ne determinano lo spazio di azione simbolica; che poi vuol dire, com’è stato spiegato, che la sua attenzione «è rivolta esclusivamente al testo, alla cui intelligenza va indirizzato ogni sforzo, liberandosi da qualunque sovrastruttura di tipo ideologico o dottrinale», prospettiva a partire dalla quale «il Castelvetro imposta la sua polemica contro gli accademici fiorentini».55 Ma se il Modenese si distingue dallo stile interpretativo dei fiorentini (e a maggior raggione da quello di Erizzo), egli è altrettanto e forse ancor più distante dalla posizione di un Vellutello; e non tanto per le scarse e generiche osservazioni di carattere filosofico sparse qua e là dal Lucchese, quanto piuttosto per la sua coerente ricerca di sovrapporre Petrarca alla sua opera e così subordinare il poema (nel senso delle regole dell’arte) al poeta (nel senso dell’ispirazione soggettiva).56 Sin dalla dedica A’ lettori Castelvetro spiega pertanto che nelle pagine successive non si sarebbe trovata né la vita del Petrarca, né quella di Laura, né la descrizione del «sito di Valchiusa». Il nuovo commento si presentava insomma privo di tutti quei supporti che costituivano la necessaria strumentazione di ogni edizione petrarchesca, secondo quello stile inaugurato dall’iniziativa del Vellutello e favorevolmente adottato nel sistema editoriale del tempo. Se così, per esempio, il Petrarca giolitino curato dal Dolce nel 1559 si fregiava della novità ermeneutica dei «dottissimi avertimenti di M. Giulio Camillo», esso non mancava però della consueta strumentazione paratestuale —la vita del Poeta con l’«Origine di Madonna Laura [e] con la descrittione di Valchiusa del luogo ove il poeta a principio di lei s’innamorò»— siglando l’oramai consueto «cronotopo poetico» con la celebre cartina geografica allestita dal letterato lucchese sin dal 1525. Nei suoi quasi trent’anni di lavoro Castelvetro non viene invece mai tentato dall’ipotesi di vincolare il testo a un’esperienza individua, vera verosimile o falsa che sia. Il che deve anche farci intendere che quando egli rifletteva in termini di «senso comune» e di «opinione», poneva in realtà una ragione rego54. Valentina GROHOVAZ, «Introduzione» a Lodovico CASTELVETRO, Corretione d’alcune cose, cit., p. 14. 55. Ibid., p. 41. 56. È stato osservato a proposito del commento dantesco del Vellutello, che «al di là della diffidenza che il Castelvetro sembra nutrire nei confronti del personaggio, sono probabilmente motivi di ordine metodologico a renderlo così avverso ad una esegesi, che pur con i suoi limiti, ottenne tra i contemporanei un notevole successo editoriale. La prassi interpretativa dell’erudito lucchese, per lo più aliena da interessi di tipo linguistico, è infattti decisamente orientata a mettere in luce i concetti teologici, filosofici e scientifici che animano il poema dantesco, realizzando un genere di lettura che rivela punti in comune con l’attività di commento svolta dal Varchi» (ibid., p. 45). Se la diffidenza nei confronti del commento dantesco del Vellutello si fece diffusa nella seconda metà del secolo, anche per un certa eccessiva dipendenza dal quattrocentesco lavoro del Landino, è a mio avviso improbabile che il gufo castelvetrino adocchiasse nelle pagine del Petrarcha con l’espositione una qualche eccessiva ricerca di riscontri filosofici: la questione era qui legata alla poesia, specificamente, non all’arte letteraria in generale. «Una filosofia numerosa et ornata» Quaderns d’Italià 11, 2006 177 lativa astratta, estranea alla fruizione storica concreta di un certo ambiente e di una certa epoca. In altri termini, il fatto che l’opera d’arte sia innanzitutto indirizzata a un pubblico di «idioti» impone all’artista e al suo critico il rispetto dei principi della costruzione unitaria della favola, del credibile, delle caratteristiche convenzionali del personaggio, non certo della personalità dell’autore, della sua biografia sentimentale, che infatti non è suscettibile di generalità, cioè non rientra tra gli «universali empirico-astratti» derivabili dalla Poetica aristotelica.57 L’arte è insomma per Castelvetro, per riprendere i termini del suo commento alla Poetica aristotelica, un procedimento «similitudinario»: è un «Make-believe» direbbe Kendall Walton.58 Per questo motivo essa deve rispettare le sue procedure interne, i suoi propri protocolli di funzionamento. Oltre a rifuggire da ogni ipotesi allegorizzante e «scientifizzante», il metodo di lavoro del letterato modenese mostra anche una certa estraneità rispetto agli aspetti retorici e metrici. Proprio perché si tratta degli strumenti specificamente artistici, senza i quali nessun poeta può essere considerato tale, un commento non deve descrivere le figure retoriche o metriche, ma controllare che queste siano congruenti con l’intenzione complessiva e con l’oggetto specifico. L’esposizione castelvetrina mostra così il suo carattere piuttosto regolativo e normativo che descrittivo: il suo obiettivo non è compilare il regesto delle venustà, ma verificare che queste non appaiano posticce; esso sarà pertanto vòlto a intendere la lettera del testo soffermandosi tanto sull’«individuazione delle fonti e delle corrispondenze interne» quanto sulla «ricostruzione della tessitura tematica dei componimenti». Nei cappelli introduttivi Castelvetro scompone allora la «sostanza tematica» del componimento per poi ricomporla e riordinarla secondo «schemi dotati di una loro organicità e congruenza logica».59 Se dunque 57. Cfr. Galvano DELLA VOLPE, Poetica del Cinquecento, Bari: Laterza, 1954. Se ne rilegga un brano come il seguente: «secondo verosimiglianza vuol dire quindi: secondo un’adeguazione alla verità o categorialità della esperienza […] come secondo necessità (o possibilità) vuol dire la stessa cosa in altri termini: e cioè: secondo un’adeguazione al rationale dell’esperienza (rationale non-contraddittorio)» (p. 89). 58. Cfr. Lodovico CASTELVETRO, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, edizione critica a cura di Werther ROMANI, Bari: Laterza, 1978. Kendall L. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of the Representational Arts, Cambridge, Massachussets-London, England: Harvard University Press, 1990. 59. Emilio BIGI, «L’interesse per le strutture tematiche nel Commento petrarchesco del Castelvetro», Studi Petrarcheschi, IV (1987), Filologia ed esegesi petrarchesca tra Tre e Cinquecento. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Trieste 19-21 settembre 1986), p. 191-217 (le citt. a p. 196 e 197; a p. 213 Bigi si sofferma sull’analisi tematica dedicata a Rvf 72). Interessante anche quanto Bigi osserva riguardo alla tendenza a far procedere di concerto il rifiuto di ogni lettura filosofica e l’analisi delle strutture tematiche, sintomo della sua rigorosa attenzione testuale: «è da notare [a proposito dell’introduzione ai Trionfi, n.d.r.] non solo l’implicito ma netto rifiuto dell’interpretazione allegorica accolta dai precedenti commentatori, secondo i quali, per riprendere le parole del Vellutello, il poeta nella sua opera avrebbe voluto “vari stati dell’anima razionale esprimere”; ma anche il riordinamento della materia tematica secondo uno schema di distinzioni e sottodistinzioni binarie, schema certo discutibile, ma governato da una simmetria che, a parte l’eccessiva rigidezza, non sarebbe forse dispiaciuta al Petrarca» (ibid., p. 215-6). 178 Quaderns d’Italià 11, 2006 Giancarlo Alfano quella di Varchi, dei fiorentini e di Erizzo era una critica del «percioché», della illustrazione del fondamento dottrinario da cui scaturisce il testo, quella del Modenese è invece una filologia del «ciò è», della spiegazione puntuale di ogni singolo passaggio, della riduzione del testo a «lettera» in base al principio che bisogna spiegare solo «l’ordine» del componimento e il suo «sentimento». Allo Spirito dell’autore affiorante nel suo Testo, Castelvetro contrappone il Corpo della Lettera, senza compromessi nei confronti di quel «paganesimo» che accomunava il poeta aretino e i suoi commentatori, quelli di cui poi il Muratori avrebbe detto esser capaci di «adorare infin gli embrioni di Mess. Francesco».60 Il suo è al contrario un lavoro di lettura delle strutture, dei rapporti, degli equilibri, come lì dove introduce l’esposizione alla «Canzone IX» (Gentil mia Donna i’ veggio) spiegando che Due cose principalmente intende di dimostrare in questa canzone [il Poeta], che egli s’innalza veggendo gli occhi di L. al cielo, l’altra che si mette a studiare. Ma perché non s’inalzerebbe al cielo se non fosser di divina bellezza, primieramente gli commenda di bellezza. Né si metterebbe a studiare, se non fosse il desiderio di vedergli. E per la utilità e per la gioia che ne prende, veggendogli, secondamente gli commenda d’utilità che porgono altrui.61 Oppure è un lavoro stretto sulla lettera del testo, teso a interpretare e giustificare ogni immagine o metafora (non a spiegare che cosa sia una metafora, ma a rivelarne il contenuto letterale, il che è un evidente scarto rispetto alla tradizione cinquecentesca dei commenti a Petrarca); come quando illustra il sintagma «quel dond’io mai non son satio» (Rvf 71, v. 71) osservando che par che nasca un dubbio. Come è che qui mai non si satia, e altrove si chiama felice senza bramar più. Rispondi che non esser satio in questo luogo non si dice perché la qualità del cibo non pasce pienamente, ma per la dolcezza. (p. 145). Si vede qui con chiarezza quel letteralismo quasi estremistico che spesso è stato contestato al Modenese, e al quale tuttavia egli è così fedele da esserne indotto a commentare il celebre verso «facendomi d’uom vivo un lauro verde» (Rvf 23, 39) con una lucidità che se per noi rasenta il comico involontario, per uno spirito rigoroso come il suo significava soltanto l’ossequio del lettore alla trasparenza del testo: Dice d’Uom vivo per mostrar il miracolo; che se dicesse d’Uom morto, non saria miracolo, perché, come vogliono i Filosofi, quodlibet fit ex quodlibet, perché 60. Lodovico Antonio MURATORI, «Dedica», cit., p. XVIII. Forse non è un caso che contro il paganesimo degli umanisti si fosse scagliato duramente Erasmo nel suo Ciceronianus: cfr. Desiderii ERASMI ROTERODAMUS, Ciceronianus [1528], in Iulii Cæsaris SCALIGERI, Adversus Desid. Ersasmum orationes duae eloquentiae romanae vindices, Tolosae Tectosagum, Typis Raym. Colomerii Regis et Universitatis Typographi, MDCXXI. 61. Lodovico CASTELVETRO, Le Rime del Petrarca brevemente sposte, cit., p. 146. «Una filosofia numerosa et ornata» Quaderns d’Italià 11, 2006 179 piglia un Uom morto, e fallo marcire, e piantagli sopra un Lauro, vedrai che nascerà, sicché non saria miracolo; ma dicendo «vivo» viene ad esprimere il miracolo.62 Ecco, in questa interpretazione, impressionante per la concretezza dell’immagine e per la serietà dell’applicazione, sembra come compiersi un’epoca, rivolgersi una stagione, critica e teorica quanto fabbrile, artigianale. Partiti come siamo dal nuovo culto del Corpo tipografico —come venerazione per l’autografo e come tentativo di ristabilire l’ordine del Libro— con cui si inaugurò il secolo della massima devozione per Petrarca, e dopo aver assistito alla ricerca dello Spirito del Testo (la trasfigurazione di una vicenda individua in percorso imitabile perché definito in confini testuali precisi; il riconoscimento del senso morale o metafisico o spirituale che si nasconde sotto la vana scorza delle finzioni), il nostro percorso si chiude col rigore paolino e riformista di Lodovico Castelvetro, con la sua strenua fedeltà alla spiegazione grammaticale, letterale, superficiale che ricorda all’uomo come l’unico livello cui il corpo possa giungere sia il livello delle parole, di quei verba che oramai si sono definitivamente separati dalle res. Chi restava a partire da queste condizioni ancora fedele all’eredità umanistica non poteva, come lui, che disdegnare ogni surrettizia giustificazione filosofica; non poteva che separare rigidamente l’esercizio poetico, col suo esclusivo fine edonistico, dalla ricerca della verità, filosofica o teologica che fosse. Chi di questa voleva pascersi, doveva abituarsi a vivere tra il fumo degli incendi, delle carneficine, dei roghi. D’altra parte, un letteralismo e un convenzionalismo coerenti, non erano che il volto mondano di un convinto spiritualismo vòlto a lo divino. E lo sapeva bene uno che, come lui, dopo essere sfuggito all’Inquisizione ed esser scampato al massacro di Lione del settembre 1567 dove aveva dovuto lasciare gran parte delle sue carte, si trovava oramai ridotto a lavorare con un «libro solo», quello attaccato al suo corpo, la «caduca e trascorrevole sua memoria».63 62. Lodovico CASTELVETRO, «Esposizione ovvero discorso nella prima canzone del Petrarca, la qual comincia: “Nel dolce tempo della prima etate”, cavata da un manoscritto non più stampato che si conserva presso ‘l Signor Dottore Girolamo Baruffaldi […]», in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici tomo nono all’illustrissimo ed eruditissimo Signore Ignazio Maria COMO, in Venezia, appresso Cristoforo Zane, MDCCXXXIII, p. 405-432 (p. 417). 63. Lodovico CASTELVETRO, Corretione d’alcune cose del «Dialogo delle lingue», cit., p. 88.