1•La sanità alla fine della guerra Un paese “avvilito e stremato” L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale è stata descritta come “un paese avvilito e stremato” in cui lo sfaldamento del tessuto sociale prevaleva sulle distruzioni materiali (Lanaro, 1992:35). Le condizioni dell’economia italiana e le sue prospettive di sviluppo non erano comparativamente molto peggiori delle estese distruzioni subite da Francia e Germania, le grandi potenze europee d’anteguerra (Sapelli, 2008). In Italia, strade e ferrovie avevano subito danni ingenti e la produzione agricola si era dimezzata, ma i danni dell’industria erano stimati dalla Banca d’Italia attorno all’otto per cento del valore degli impianti (De Cecco, 1974:285) e secondo le valutazioni di Benedetto Saraceno già nel 1949 il reddito nazionale raggiunse livelli non distanti da quelli d’anteguerra (Saraceno, 1969). Le condizioni di vita della popolazione erano invece pessime per svariati motivi fra cui il difficile ritorno della grande massa di reduci dai teatri di guerra e dai campi di prigionia; l’elevata disoccupazione e la fortissima inflazione che erodeva il potere d’acquisto ed aumentava il costo della vita (il “carovita”), cresciuto di ben 29 volte nel 1946 e di ben 44 volte nel 1947 rispetto al 1939 (Silei, 2004:35), anche per i generi di più immediata necessità (il “caropane”). Persino un rigidissimo inverno esacerbava gli effetti dell’esperienza dell’ultimo anno di guerra combattuta nel territorio nazionale (Lanaro, 1992:11 e segg.). Il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione aveva provocato fin dai primi anni di guerra un aumento delle malattie infettive, che invertiva l’andamento emergente alla fine degli anni ‘30 (D’Alessandro e Bevere, 1951). Descrivendo nel dicembre 1944 la condizione sanitaria nelle zone liberate dell’Italia del Sud, il capo della delegazione medica americana Myron Taylor aveva segnalato che “se dovesse scoppiare un’epidemia qui, spazzerebbe via tutti, tanto basse sono le resistenze di tutta la popolazione. Le medicine sono molto scarse e, fino a poco tempo fa, praticamente inesistenti” (cit. in Bud, 2007:85). Nel 1941 vi era stato un aumento generalizzato delle malattie infet- 18 Politiche sanitarie in Italia tive notificate, passate ad un tasso complessivo di 8,1 per mille rispetto al 6,4 del 1940, il valore più basso dell’ultimo quinquennio. Nel 1942, a fronte di una riduzione nel tasso complessivo di notifiche da imputarsi presumibilmente ad una ridotta segnalazione, vi era stato un aumento superiore al 25% rispetto all’anno precedente dei casi di tifo e paratifo, uno degli indici più sensibili delle condizioni igieniche, oltre all’incremento di malaria e sifilide (Russo, 1948). Una pubblicazione ISTAT che metteva ordine nelle statistiche delle cause di morte del decennio 1938-1948 documenta che la mortalità generale aveva cominciato ad aumentare fin dal 1940 raggiungendo il picco di 15,9 morti per mille abitanti nel 1944, contro il 13,4 per mille del 1939 (Tizzano, 1950) (Figura 1.1). Il progressivo aumento della mortalità generale durante gli anni della guerra era dovuto principalmente alle malattie infettive ed in particolare alla recrudescenza dei flagelli tipici del periodo fra le due guerre, tubercolosi (+28%), malaria Mortalità generale per 1000 abitanti Mortalità infantile per 1000 nati vivi 18 140 16 120 Tasso 12 10 8 100 80 60 6 40 4 20 2 - 1949 1950 1948 1948 1947 1946 1945 1944 1947 Anno 1943 1942 1941 1940 1938 1950 1949 1948 1947 1946 1945 1944 1943 1942 1941 1940 1939 1938 1939 Tasso 14 Anno Mortalità per malattie infettive e per tubercolosi, per milione di abitanti Mortalità per polmonite e per malattie cardiovascolari, per milione di abitanti 2500 2000 Tasso 1000 Anno Figura 1.1 • Mortalità generale e per cause specifiche, 1938-1950 1946 1945 1944 1943 1942 1941 1940 Malattie cardiovascolari 1939 - 1938 1950 1949 1948 1947 1946 1945 1944 1943 1942 1941 1940 Anno Polmonite 500 Tbc 1939 - 1500 1000 Malattie infettive 500 1938 Tasso 2000 1500 La sanità alla fine della guerra 19 (+54%) e tifo (+44%), la cui mortalità si mantenne elevata rispetto al periodo pre-bellico anche quando la mortalità generale cominciò ad attestarsi attorno a valori analoghi a quelli osservati nel 1939 (Petragnani, 1953). La gravissima epidemia di tifo che aveva colpito la città di Napoli (Soper et al., 1947), descritta da Curzio Malaparte nel suo romanzo “La pelle” (Malaparte, 2010), mise in grande allarme le forze armate alleate che la combatterono con un massiccio spargimento di DDT sulle persone e sulle cose (Wheeler, 1946), documentato anche fotograficamente dalle riviste americane dell’epoca (cfr. Fred Soper’s papers in www.profiles.nlm.nih.gov.). La malaria era ricomparsa anche nelle aree dichiarate indenni, con una recrudescenza analoga a quella osservata durante la prima guerra mondiale che si protrasse oltre la fine della guerra (Snowden, 2006:182). L’epidemia che investì la provincia di Latina nel 1944-1946 e persistette a lungo malgrado l’uso del DDT (Mosna e Alessandrini, 1950 e 1951) non aveva però nulla di naturale, in quanto provocata dall’allagamento delle paludi Pontine con acqua salmastra per il sabotaggio delle pompe di drenaggio da parte dell’esercito tedesco in ritirata. Snowden considera questo uno dei primi atti moderni di guerra biologica (Snowden, 2008) non senza contestazioni sul piano strettamente giuridico (Geissler e Guillemin, 2010). L’allagamento fu certamente realizzato scientificamente e con piena consapevolezza degli effetti sanitari di lungo periodo, malgrado l’intervento di Missiroli e Mosna dell’Istituto Superiore di Sanità su due altolocati malariologi nazisti ed una inutile lettera di segnalazione del direttore Marotta alla Direzione generale sanità del Ministero dell’Interno (Majori e Napolitani, 2010:39 e 137). L’aumento della mortalità per tubercolosi e di quella polmonare in particolare, passata da 625 morti per milione di abitanti del 1939 a 802 nel 1943, aveva interrotto il progressivo declino osservato per tutti gli anni ‘30 (Tizzano, 1950; D’Alessandro e Bevere, 1951). Nel 1945 i morti per tubercolosi sopravanzarono quelli osservati nel 1939 di oltre 8000 casi, con un tasso di mortalità specifico passato da 761 a 930 per milione di abitanti, dopo di che la mortalità per tubercolosi riprese l’andamento decrescente già presente negli anni ‘30, per scendere a 475 morti per milione nel 1948 e ridursi di oltre il 70% fra il 1947 ed il 1953, senza però una concomitante riduzione della frequenza di malattia (Drolet e Lowell, 1955), anche grazie alla lenta diffusione della terapia con streptomicina, sottoposta ad un severo razionamento (vedi oltre). La mortalità per polmonite rimase però per alcuni anni in crescita, rappresentando la causa di morte più frequente in età pediatrica. Le istituzioni sanitarie versavano in una profonda crisi finanziaria e strutturale. Gli Enti ospedalieri, inegualmente distribuiti nel territorio nazionale fra nord e sud e fra città e campagna, duramente provati dalle distruzioni e dalle requisizioni subite durante la guerra, vedevano i loro patrimoni falcidiati dalla svalutazione e dall’inflazione (cfr. Capitolo 4). L’apparato previdenziale, di cui erano parte integrante anche le casse mutue sanitarie anarchicamente proliferate durante il regime, era descritto alla fine della guerra come “un imponente edificio in rovina” (Cabibbo, 1944), in cui alla crisi strutturale si erano aggiunti gli eventi congiunturali della disoccupazione, dell’inflazione dei prezzi e della 20 Politiche sanitarie in Italia svalutazione della moneta (De Cecco, 1974) che avevano determinato una crisi finanziaria all’intero settore previdenziale che si sarebbe protratta fino agli anni ‘50 (Rocchi, 1954). Poiché erano stabilite in misura fissa, tutte le prestazioni economiche erogate dagli istituti previdenziali, a cominciare dalle pensioni, diventarono largamente inadeguate rispetto al costo della vita. Inflazione e svalutazione avevano depauperato anche le riserve degli Enti previdenziali e dell’INPS in particolare, affidate alla capitalizzazione ed investite in titoli di stato, mentre gli alti tassi di disoccupazione avevano ridotto il gettito contributivo di tutti gli enti. Inoltre, la divisione in due dell’Italia aveva interessato anche l’amministrazione degli Enti previdenziali nazionali, in particolare dell’INPS, con una sede a Bari amministrata da un Commissario straordinario nominato dal governo provvisorio del Regno del Sud e l’altra a Vittorio Veneto, nella Repubblica Sociale Italiana che deteneva la quasi totalità del patrimonio finanziario stimato in 8 miliardi di lire (Sepe, 1999:270; Silei, 2004:29). In molti paesi “guerra e welfare erano andati a braccetto” (Judt, 2003:73) alimentando grandiosi progetti di riforma sociale. In Gran Bretagna già nel 1942 il Rapporto elaborato da William Beveridge (cfr. Capitolo 2) aveva minuziosamente descritto i capisaldi del nuovo stato sociale che le nazioni alleate avrebbero realizzato dopo l’immancabile vittoria tracciando la strada verso la “nuova Gerusalemme” (Beveridge, 1942; Harris, 1975). Il grandioso progetto di “liberazione dal bisogno” lanciato dall’eroica Inghilterra venne raccolto da un gran numero di paesi (Witte, 1945). Negli Stati Uniti, il Presidente Truman col suo discorso al Congresso del novembre del 1945 aveva rinnovato il sogno di un’assicurazione sanitaria universale di cui fece anche uno dei punti centrali della sua vittoriosa campagna elettorale del 1948 (Starr, 1982:280; Engel, 2002:235). In Canada, il Rapporto sulla Sicurezza Sociale preparato nel 1943 da Leonard Marsh, un allievo di Beveridge alla London School of Economics, seguiva fedelmente le linee del Rapporto inglese di un “minimo sociale garantito” a tutti i cittadini, che comprendeva anche un’assicurazione sanitaria universale (Marsh, 1975; Maioni, 2004). In Francia, Alessandro Parodi, Ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale del primo governo della Francia liberata costituito il 9 settembre 1944, istituì la Cassa Nazionale della Sicurezza Sociale, in un vasto progetto riformatore consolidato dalle ordinanze Laroque dell’ottobre 1945 ed alimentato dal piano Debré in cui la riforma del sistema ospedaliero, la riorganizzazione della formazione medica e lo sviluppo della ricerca (Debré, 1944) erano elementi fondamentali del progetto di modernizzazione perseguito dal governo De Gaulle (Larcan e Lamaire, 1995). Il preambolo alla Costituzione della IV Repubblica votato nel 1946 prometteva a tutti i francesi un nuovo sistema universale di assicurazione sociale che avrebbe portato “prosperità e felicità alla nazione” (Masulli, 2005). In Svezia, la legge sull’assicurazione sanitaria nazionale in attuazione del documento dei “27 punti” (la versione svedese del Rapporto Beveridge) venne approvata all’unanimità nel 1947, col supporto anche dei medici (Immergut, 1989). In Italia invece il drammatico peggioramento delle condizioni di salute della popolazione e la profonda crisi del sistema previdenziale, vanto del regime fascista, La sanità alla fine della guerra 21 provocarono soltanto una serie interventi di emergenza destinati ad integrare le provvidenze economiche di alcune categorie ma non indussero a dedicare un’attenzione altro che marginale alle politiche sociali e a quelle sanitarie in particolare. Malgrado l’apparente concordia (seppure discordante, come sottolineava Dossetti) che sembrava animare i governi creati dai partiti antifascisti, i lavori dell’Assemblea Costituente impegnata nell’elaborazione della nuova Costituzione repubblicana (Novacco, 2000) ed il “consenso previdenziale” di esperti, partiti politici e organizzazioni sindacali (Giua, 1947), i propositi di una nuova politica sociale rimasero limitati ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori, rigidamente separati fra i “previdenzialisti”, attenti agli aspetti politici ed istituzionali degli istituti previdenziali esistenti, e i “sanitari”, di prevalente estrazione igienistica e principalmente interessati all’organizzazione della sanità pubblica. L’inerzia italiana nel campo delle politiche sociali contrasta soprattutto con il progetto di trasformazione sociale che portò, fra l’altro, all’approvazione in Gran Bretagna della legge istitutiva del National Health Service (NHS) nel 1946. L’avvio del National Health Service nel “giorno designato”, il 5 luglio 1948, fu interpretato come una scommessa sul futuro, una sfida di civiltà alle avverse condizioni economiche del momento, tanto che il primo bilancio del governo laburista di Attlee, uscito inaspettatamente trionfatore dalle elezioni politiche del dopoguerra, si dice venisse steso dal Ministro Dalton con “a song in his heart”, ed un sorriso sul volto (Page, 2007). Il principale artefice della realizzazione del NHS Aneurin Bevan, Ministro della Sanità, lasciò scritto di quei giorni che “dobbiamo essere orgogliosi del fatto che, malgrado tutte le nostre preoccupazioni sulla situazione economica e finanziaria, siamo comunque stati capaci di fare la cosa più civile (decent) che esista al mondo – anteporre il benessere delle persone malate a qualsiasi altra considerazione” (Bevan, 1950). A differenza della Gran Bretagna, l’Italia non si dimostrò capace di fare “la cosa più civile che esista al mondo”, limitandosi ad inseguire le necessità del momento piuttosto che attuare le nuove politiche sociali intraprese in altri paesi, di cui pure le giungevano gli echi. Anche le mozioni timidamente riformiste della Commissione per la riforma previdenziale presieduta da Ludovico D’Aragona, salutata all’insediamento come “la piccola Costituente della previdenza” e lodata per l’equilibrio delle sue conclusioni, vennero immediatamente e quietamente messe da parte nel silenzio generale di partiti e sindacati. Queste scelte conferirono implicitamente una sostanziale continuità alle istituzioni previdenziali e mutualistiche create dal regime fascista, che transitarono pressoché immodificate negli uomini e nell’organizzazione nel nuovo ordinamento repubblicano. Un sistema sanitario tripartito L’organizzazione sanitaria ereditata dal governo provvisorio di un’Italia spezzata in due tronconi dalla caduta del regime fascista era divisa nei tre comparti dello Stato, dei grandi Enti previdenziali e delle Casse mutue, e degli Enti 22 Politiche sanitarie in Italia ospedalieri, organismi autonomi qualificati come Istituzioni Pubbliche di Assistenza e di Beneficienza (IPAB). Separati sul piano istituzionale, finanziario ed operativo, i tre settori riflettevano la stratificazione dell’ordinamento realizzato dallo stato liberale della fine del secolo e dal sistema previdenziale sviluppato nel periodo fascista che era stata codificata nel Testo Unico delle leggi sanitarie del 1934. Il primo articolo della legge 27 luglio 1934 n.1265 stabiliva che “la tutela della sanità pubblica spetta al Ministero dell’Interno e, sotto la sua dipendenza, ai Prefetti e ai Podestà”, che avevano preso il posto dei Sindaci nel periodo fascista. L’articolo 2 individuava gli organi centrali dell’amministrazione sanitaria presso il Ministero degli Interni nella Direzione generale della Sanità Pubblica e nel Consiglio Superiore di Sanità, precisando che “il Prefetto è l’autorità sanitaria della Provincia” con “alla sua dipendenza” il Medico provinciale ed il Veterinario provinciale, secondo una divisione dei poteri analoga a quella prevista a livello comunale fra Podestà e Ufficiale Sanitario. A Stato, Provincie e Comuni erano riservate le competenze sugli interventi di sanità pubblica, l’assistenza per le malattie infettive contagiose e le malattie veneree e per le patologie neurologiche e psichiatriche “manicomiabili”. Le Provincie gestivano i Laboratori di Igiene e Profilassi e gli istituti manicomiali, mentre ai Comuni incombeva l’obbligo, ai sensi dell’art. 55 del Testo Unico, di provvedere all’assistenza gratuita dei “non abbienti” iscritti nell’elenco comunale di assistenza, attraverso la condotta medica ed ostetrica, il pagamento dei farmaci e il ricovero in ospedale. L’onere del ricovero a carico del Comune seguiva il principio del “domicilio di soccorso” e includeva anche le gestanti povere prive di abitazione idonea dopo l’ottavo mese di gravidanza, le partorienti e le puerpere fino a quattro settimane dopo il parto. La gestione tecnica di queste attività era affidata alla burocrazia professionale del Medico Provinciale e dell’Ufficiale Sanitario del Comune, sottoposta all’autorità politica ed amministrativa del Sindaco e del Prefetto e alla vigilanza della Direzione Generale di Sanità del Ministero degli Interni. L’assistenza ospedaliera era fornita da enti autonomi qualificati come istituzioni caritatevoli disciplinate dalla legge Crispi del 1890 e sottoposte alla vigilanza del Ministero degli Interni attraverso i Prefetti ed il Comitato provinciale per l’assistenza e la beneficienza pubblica in forza del Regio Decreto del 1923 che li aveva inclusi fra le istituzioni di assistenza delle nuove Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficienza (IPAB). Gli ospedali erano finanziati dalle donazioni dei benefattori e dai proventi dei loro patrimoni, mentre le spese per i ricoveri erano remunerate secondo rette giornaliere stabilite da ciascun Ente ed approvate dal Prefetto, poste a carico dei Comuni per gli iscritti nell’elenco dei poveri e degli istituti mutualistici per i loro assicurati (cfr. Capitolo 4). Alla fine della guerra, le Casse mutue per l’assicurazione contro le malattie fornivano provvidenze economiche e copertura assistenziale a circa un terzo della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti del settore privato, cui si erano aggiunti negli ultimi anni di guerra i dipendenti dello Stato e degli Enti locali e i loro familiari (Tabella 1.1).La subordinazione della copertura assicura- 23 La sanità alla fine della guerra Tabella 1.1 - Popolazione assicurata dalle Mutue e assistita dai Comuni, 1943-1970 + Anno+ Popolazione assicurata° % Popolazione assistita° % 1943 1950 1955 1960 1965 1970 15,9 18,9 35,1 40,1 43,3 48,0 35,5 38,6 72,9 80,0 82,3 88,5 n.d. 3,7 3,9 3,2 2,6 1,9 7,3 7,5 8,1 6,1 3,5 o anno più prossimo; ° milioni di persone tiva alla condizione occupazionale in caso di disoccupazione creava una fluttuazione fra assicurazione mutualistica e carità legale del Comune particolarmente marcata nelle regioni del Sud, che avevano anche la maggior incidenza di iscritti negli elenchi dei poveri (Renzulli, 1945). Il sistema previdenziale era organizzato attorno a tre grandi istituti nazionali costituiti in soggetti autonomi durante il regime con il compito di realizzare le politiche sociali dello Stato: l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS), l’Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INFAIL) e l’Ente Mutualità Fascista – Istituto per l’Assistenza di Malattia ai Lavoratori. Gli Enti previdenziali facevano parte del “parastato”, una burocrazia parallela dotata di considerevole autonomia, erano sottoposti alla vigilanza del Ministero delle Corporazioni e, dopo la breve parentesi del Ministero dell’Industria, del Commercio e del Lavoro durante il governo provvisorio, al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (Ginsborg, 1990:150). L’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS), costituito nel 1935 come evoluzione della Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali (CNAS) e transitato poi nell’INPS, era il cuore finanziario del sistema previdenziale, con un bilancio dello stesso ordine di grandezza di quello dello Stato e col compito istituzionale di erogare provvidenze economiche contro una serie di rischi, di cui la gestione più importante era l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia (Giorgi, 2004). L’Istituto costituiva il perno di un circuito finanziario parallelo al Ministero delle Finanze, fortemente integrato con le politiche economiche e sociali del regime (Sepe, 1999:223), tanto che le sue ingenti riserve finanziarie vennero utilizzate per gli scopi più disparati: oltre a riequilibrare i disavanzi delle altre gestioni, i fondi dell’INFPS finanziarono la nascita dell’IRI, lo sviluppo delle ferrovie e persino le campagne coloniali (Cherubini, 1977:278). All’INFPS fu affidata anche la gestione dell’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti del settore privato contro la tubercolosi 24 Politiche sanitarie in Italia “in condizione ricoverabile” in ospedale o in sanatorio, che era stata istituita in attuazione della dichiarazione XXVII della Carta del Lavoro in via transitoria come “avviamento del’assicurazione generale contro le malattie”. La legge del 1927 ed il riordino delle competenze dell’INPFS con la riforma del 1935 prevedevano oltre all’assicurazione contro la tubercolosi anche la costruzione e la gestione di un’imponente rete ospedaliero-sanatoriale che sarebbe arrivata a contare oltre 25.000 posti letto e venne finanziata con mutui sottoscritti dallo stesso Ente sulla gestione separata dalle entrate dell’assicurazione obbligatoria contro invalidità e vecchiaia (cfr. Capitolo 3). All’INFAIL spettava invece la gestione delle provvidenze economiche e dell’assistenza sanitaria per gli infortuni e le otto malattie professionali allora riconosciute. Alla sua istituzione con legge 17 marzo 1898 n. 80 una consolidata tradizione storiografica fa risalire la nascita dello stato sociale in Italia (Ascoli, 1984). L’assicurazione obbligatoria contro le malattie cosiddette “comuni” non oggetto di legislazione specifica era affidata all’Ente Mutualità Fascista – Istituto per l’Assistenza Nazionale di Malattia ai Lavoratori, istituito negli ultimi mesi del regime con legge 11 gennaio 1943 n. 138 come “l’Ente mediante il quale le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori assolvono i compiti enunciati nelle dichiarazioni XXVII e XXVIII della Carta del Lavoro per quanto concerne l’assistenza dei lavoratori e dei loro familiari in caso di malattia” (art. 2). Secondo il R.D. 6 maggio 1943 n. 400, nel nuovo Ente avrebbero dovuto confluire entro il 1o giugno 1943 le Federazioni Nazionali delle Casse mutue dei quattro settori sindacali dello Stato corporativo, che comprendevano commercio, industria, agricoltura, credito, assicurazione e servizi tributari, nonché quelle delle provincie “redente” di Trento e Bolzano (Cherubini, 1977:339 e segg.). Il nuovo Ente assicurava oltre 14 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato, in larga parte operai nell’industria, su un complesso di circa 18 milioni di mutuati e gestiva oltre un miliardo di lire di contributi, ponendosi fin dall’inizio come l’incontrastato dominatore delle politiche sanitarie italiane. L’obiettivo dichiarato dell’istituzione del nuovo Ente, frutto di un lungo processo iniziato a metà degli anni ‘30, era di uniformare e semplificare il frammentato e lacunoso sistema prodotto dalla proliferazione spontanea di Casse mutue locali e aziendali previste dai contratti di lavoro dei diversi settori economici (Angelini, 1937). La costituzione di gestioni separate per ciascuna delle Casse originarie mantenne tuttavia le differenze preesistenti nel contenuto, nei titoli al godimento dei benefici e nella misura del regime contributivo. Inoltre, poiché la competenza del nuovo Ente era determinata in negativo per tutti i casi di malattia “ad esclusione di quelli il cui rischio è coperto, per legge, da altre forme di assicurazione” (art. 5), dall’assicurazione contro le malattie “comuni” restarono escluse l’assistenza per la tubercolosi e per le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro. La normativa transitò indenne nel nuovo ordinamento repubblicano, che si limitò ad eliminare l’aggettivo “Fascista” in forza di un provvedimento generale e a cambiare la denominazione dell’Ente in “Istituto Nazionale Assicurazione Malattie” (INAM), trasformandolo inopinatamente da La sanità alla fine della guerra 25 Ente assistenziale in Ente assicuratore con il D.L.C.P.S. 13 maggio 1947 n. 435 assunto dal Governo De Gasperi. Fra i numerosi altri enti parastatali per l’assistenza sanitaria, assumeva un particolare rilievo l’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia (ONMI). Fondata nel 1925 con il compito di assistere le madri nubili e povere durante la gravidanza, il parto ed il puerperio e l’infanzia abbandonata, e finanziata dallo Stato anche con i proventi della “tassa sui celibi” imposta dal Governo per incentivare la formazione di “floride e feconde famiglie” (Sepe, 1999:205 e segg.), l’ONMI mantenne anche nel periodo repubblicano un ruolo preminente nell’assistenza alla gravidanza ed in quella pediatrica, soprattutto territoriale. I due aspetti più peculiari del disegno politico-istituzionale della sanità italiana alla fine della guerra erano il profondo intreccio fra sistema previdenziale e assicurazione sanitaria, esemplificato dalla funzione assicurativa svolta dall’INPS, l’ente previdenziale per eccellenza, anche in ambito sanitario, e la netta separazione rispetto all’apparato centrale e periferico dello Stato cui competeva la gestione diretta della sanità pubblica e che esercitava una funzione di vigilanza sia sugli Enti ospedalieri che sugli Enti parastatali di previdenza. Entrambi gli aspetti condizionarono fortemente il dibattito riformatore dei primi anni del dopoguerra, delimitando i settori di intervento e collocando in campi separati, e talora contrapposti, “previdenzialisti” e “sanitari”. Il profilo generale dell’organizzazione sanitaria combinava invece la forte centralizzazione negli Enti previdenziali nazionali con la dispersione delle funzioni di vigilanza e controllo in una dozzina di Ministeri e con la frammentazione gestionale ed operativa a livello locale, affidata a Provincie e Comuni, agli organi periferici degli Enti nazionali e alle Casse mutue locali e aziendali. La frattura fra copertura assicurativa, attività assistenziali e interventi di sanità pubblica era istituzionalizzata nella diversa afferenza dei tre sistemi che facevano capo rispettivamente al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (evoluzione del Ministero delle Corporazioni) per gli enti mutualistici e alla Direzione generale sanità nel Ministero degli Interni per gli Enti ospedalieri e per la sanità pubblica. Alla selva istituzionale a livello centrale si aggiunse l’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità Pubblica (Acis) istituito nel luglio del 1945, alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio e privo di un posto in Consiglio dei Ministri, a cui partecipava su invito e senza diritto di voto. L’Alto Commissariato avrebbe dovuto ereditare le attribuzioni spettanti alla soppressa Direzione generale sanità del Ministero dell’Interno ed unificare le competenze sparse in dieci diversi ministeri, ma si rivelò subito “un nome altisonante senza contenuto” (Sepe, 1999:305). Il Decreto Luogotenenziale 12 luglio 1945 n. 417 ed il successivo Decreto Legislativo Luogotenenziale 31 luglio 1945 n. 466 che ne disciplinava attribuzioni ed ordinamento prevedevano generiche competenze di “tutela della sanità pubblica, coordinamento e vigilanza tecnica sulle organizzazioni sanitarie e sugli enti che hanno per scopo di prevenire e combattere le malattie sociali” (art. 1), ponendo sotto la sua responsabilità diretta soltanto la 26 Politiche sanitarie in Italia Croce Rossa Italiana e l’ONMI. Esplicitamente escluse dall’intrusione dell’Acis erano in particolare le competenze prefettizie in materia di igiene e sanità pubblica e i poteri di vigilanza e di tutela sugli enti di assistenza ospedaliera spettanti al Ministero degli Interni, ai Prefetti e ai Comitati Provinciali. Deludendo le aspettative dei riformatori che avevano chiesto l’istituzione di un Ministero della Sanità, l’Acis lasciò intatto il dominio centralistico dell’apparato amministrativo sulla competenza tecnica di Medici Provinciali e Ufficiali Sanitari sia in materia di sanità pubblica sia nella vigilanza sugli enti ospedalieri (Del Vecchio, 1945). Le ipotesi di riforma del sistema previdenziale facevano riferimento al Rapporto Beveridge, cui anche in Italia era stata dedicata grande attenzione fin dalla sua prima pubblicazione nel 1942 e costituì il termine di riferimento delle politiche sociali dei principali partiti e delle organizzazioni sindacali (Cabibbo, 1944). Pur confrontandosi anche con le proposte di riforma del sistema sanitario in Gran Bretagna (cfr. ad esempio: Longo, 1945; Calisti, 1947) il dibattito fra i sanitari aveva invece come riferimento principale la nuova organizzazione data dall’Autorità militare alleata alla sanità pubblica in Sicilia (Crichton, 1994) dove, fin dall’ottobre del 1943, erano stati costituiti Uffici provinciali di sanità pubblica, seguiti dall’istituzione di una Direzione regionale e dal trasferimento ai Medici Provinciali delle funzioni prima svolte dai Prefetti (per una dettagliata documentazione cfr. Bruni, 1970:88 e segg.). La nuova organizzazione al comando del Colonnello Bizzozzero sembrava rispondere ai principi di unificazione, decentramento e autonomia tecnica dal potere politico-amministrativo che costituivano i principali obiettivi dei Medici Provinciali e degli Ufficiali Sanitari (Del Vecchio, 1945; Cramarossa, 1947). Forti opposizioni aveva invece incontrato fra gli igienisti (cfr. Capitolo 2) lo schema di riforma sanitaria elaborato dalla Commissione presieduta da Augusto Giovanardi per la Consulta Veneta di Sanità del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia che riduceva fortemente il ruolo dei Medici Provinciali, in un sistema centrato sui Comuni e sulla Regione (Ministero della Sanità, Centro Studi, 1977). Oltre alle difficoltà sul piano economico, organizzativo e politico-istituzionale, l’Italia si trovò ad affrontare gravi problemi nell’accesso al profluvio di “farmaci miracolosi” scaturiti negli anni dell’immediato dopoguerra dalla collaborazione anglo-americana iniziata durante la guerra da cui era rimasta totalmente isolata sia per quanto riguarda la ricerca farmacologica e clinica che per la produzione industriale. Penicillina e streptomicina divennero disponibili in quantità significative in Italia soltanto a partire dal 1947 (Martelli, 1950; Petragnani, 1953), per importazione dal mercato americano attraverso importatori privati e nell’ambito del programma di aiuti amministrato dalla United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), cui anche l’Italia era stata ammessa nel 1945 (Reinish, 2011), e poi del Piano Marshall. Anche il DDT venne usato in Italia in quantità utile per un’efficace campagna antimalarica solo col Piano quinquennale dell’Acis 1947-1951 (Petragnani, 1953), seguito dal programma speciale di eradicazione condotto in Sardegna in collaborazione con La sanità alla fine della guerra 27 la Fondazione Rockefeller (Tognotti, 1996; Tognotti, 2009). Oltre agli effetti negativi sulla salute della popolazione, colpita da una persistente recrudescenza delle malattie infettive, e agli scontri politici e commerciali sull’importazione e la distribuzione dei nuovi farmaci, la mancanza di esperienze nazionali nella produzione e nella sperimentazione clinica della penicillina e, più tardi, della streptomicina, esercitarono un profondo impatto sulla configurazione dell’industria farmaceutica italiana e produssero un ritardo nello sviluppo di un sistema nazionale della ricerca clinica e di base e della stessa capacità regolatoria dello Stato riguardo all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci che si sarebbe dimostrato impossibile da colmare. La penicillina, la sorella buona della bomba atomica L’irruzione della penicillina nella pratica medica durante la seconda guerra mondiale non produsse soltanto una rivoluzione terapeutica, dotando la medicina di uno strumento di efficacia senza pari, ma ebbe anche un profondo significato simbolico ed un grande impatto economico, industriale e istituzionale. Sul piano simbolico, la bomba atomica e la penicillina sono i due prodotti assurti a simbolo dell’imponente mobilizzazione dell’apparato scientifico ed industriale organizzato e finanziato dal governo americano durante la seconda guerra mondiale a servizio dello sforzo bellico (Lenoir e Hays, 2000). Nella polemica sull’uso militare della scienza dei primi anni del dopoguerra, il “progetto Manhattan per la biomedicina”, basato sulle nuove tecnologie per la produzione di massa della penicillina e sulla ricerca dei nuovi antibiotici, si contrapponeva ai programmi per l’uso pacifico dell’energia nucleare, e la penicillina era presentata come “la sorella buona della bomba atomica” (Gaudillière e Gausemeier, 2005). La penicillina era infatti il simbolo ideale per celebrare i benefici progressi della scienza realizzati durante la guerra perché si era dimostrata egualmente efficace nel curare le infezioni delle ferite riportate nei campi di battaglia e la sifilide e la gonorrea contratte dai soldati, così come nel debellare le polmoniti, le endocarditi batteriche, le infezioni da parto e le tante malattie infettive che avevano decimato la popolazione nel periodo fra le due guerre. Anche le applicazioni pacifiche della produzione nucleare, come i radionuclidi, continuavano ad essere mantenute sotto stretto controllo da parte del governo americano anche dopo la fine della guerra e nei confronti degli stessi alleati che furono inizialmente esclusi dall’uso limitato al mercato interno (cfr. ad esempio: Creager, 2002; Creager, 2009). Alla scoperta, produzione e sperimentazione della penicillina dapprima e della streptomicina poi avevano invece contribuito varie istituzioni pubbliche e private di diversi paesi sotto il coordinamento e con il finanziamento pubblico, contribuendo a costruire in ambito sanitario il sistema di relazioni fra accademia, industria e Stato che sarebbe stato il modello di riferimento per tutti i paesi occidentali nei successivi vent’anni (Kevles e Geison, 1995) producendo una 28 Politiche sanitarie in Italia “americanizzazione” (Krige, 2006) dei sistemi nazionali di ricerca e di innovazione (Godin, 2010). Il nuovo sistema di ricerca scientifica e di innovazione tecnologica integrava senza soluzione di continuità scoperta, produzione industriale e valutazione clinica dei farmaci in una unica traiettoria che comprendeva ricerca di base, applicazione industriale e ricerca clinica, e aveva come soggetti Università, Centri di ricerca pubblici e privati ed imprese commerciali (Gaudillière, 2005). In questa fase si costituì anche in ambito sanitario quel “complesso militare-industriale” (the military-industrial complex) verso cui avrebbe messo in guardia il Presidente degli Stati Uniti Eisenhower nel suo famoso discorso di saluto (Damms, 2000), che fu rielaborato molti anni dopo da Relman come “complesso medico-industriale” (Relman, 1980). Sul piano della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, la penicillina introdusse anche un nuovo “paradigma biotecnologico”, successivamente confermato dallo sviluppo della streptomicina, che rompeva con la strategia della sintesi per via chimica dei nuovi farmaci antinfettivi che aveva determinato il successo dell’industria tedesca con i sulfamidici (Daemmrich, 2009; Bentley, 2009). Sul piano industriale, infine, lo sviluppo delle tecnologie per la produzione di massa della penicillina determinò nuovi rapporti con lo Stato ed impresse una nuova configurazione all’industria farmaceutica. L’industria americana subì un rapidissimo processo di espansione e di concentrazione, passando da un arcipelago di piccole imprese con magri profitti e minuscole quote di mercato, di cui la più grande deteneva appena il 3%, ad un oligopolio di 15 grandi imprese multinazionali ad alta intensità di ricerca ed elevati profitti che controllava oltre l’80% del mercato del farmaco ed era in continua espansione a livello internazionale (Chandler, 2005). Il momento critico che agì da catalizzatore del processo di concentrazione oligopolistica è generalmente identificato nella selezione delle imprese per lo sviluppo delle tecniche più efficienti per la produzione industriale di penicillina effettuata a più riprese a partire dal 1942 dal Comitato per la Ricerca Medica (Committee for Medical Research – CMR) dell’Office of Science and Research Department (OSRD), l’agenzia governativa diretta da Vannevar Bush responsabile di tutta la ricerca americana in tempo di guerra (Kevles, 1977). Il CMR ottenne un’esenzione speciale (waiver) dalla Legge Antitrust per costituire il Consorzio di 21 imprese private chiamate a partecipare allo sviluppo di nuove tecniche di produzione della penicillina in grado di soddisfare il fabbisogno militare (Richards, 1964:442), assicurando loro un contributo statale di 75 milioni di dollari (Williams, 1984:142). La più piccola delle industrie coinvolte, la Pfizer, diede il contributo decisivo con lo sviluppo della tecnica della “fermentazione sommersa” contribuendo ad aumentare la produttività di oltre 7000 volte (Kingston, 2000) ed uscì totalmente trasformata da modesto produttore di acido citrico a colosso mondiale della penicillina dapprima, e della ben più remunerativa terramicina poi (Podolsky, 2010). La penicillina divenne disponibile in quantità sufficiente ai fabbisogni bellici a partire dallo sbarco in Normandia nel giugno del 1944, data da cui iniziò la distribuzione in quantità progressivamente crescenti anche alla popolazione civile (Neushul, 1993). La La sanità alla fine della guerra 29 produzione passò da 400 milioni dei primi cinque mesi del 1943 agli oltre 20 miliardi di Unità Oxford dei sette mesi successivi, per raggiungere i 650 miliardi di Unità al mese a partire dall’agosto 1945 (Grossman, 2008). Crollarono di conseguenza anche i costi di produzione, tanto che nel 1945 il costo di una fiala ammontava a “poco più del costo del materiale e del lavoro necessario per mettere la penicillina nella fiala” (Richards, 1964), e il prezzo di vendita negli Stati Uniti passò da 200 dollari per milione di Unità del 1943 ai 50 centesimi del 1950 (Williams, 1984:149). Sul piano regolatorio, la penicillina fu al centro di modernissime questioni sul problema del brevetto, di processo e di prodotto. A differenza della streptomicina, che fu sviluppata nell’ambito di un contratto fra Waksman e Merck risalente al 1938 e venne immediatamente brevettata (Kingston, 2000:696), la penicillina non era coperta da brevetto, in quanto il Segretario del Medical Research Council, Sir Edward Mellanby, aveva rigettato le ripetute sollecitazioni di Chain come non etiche rispetto ai bisogni della popolazione e non conformi alla pratica scientifica (McFarlane, 1986; Clark, 1985; Bud, 1998). Tuttavia la produzione rispondeva negli Stati Uniti al War Production Board, le cui tecniche erano tecnologie di guerra dichiarate segreto militare e disciplinate da accordi fra i governi alleati. Già nell’ottobre del 1942 era stato concluso un accordo per lo scambio di informazioni su “qualsiasi cosa sia pertinente al problema della sintesi della penicillina” fra il Comitato per la Penicillina del MRC inglese ed il CMR dello OSRD americano che includeva anche le industrie coinvolte, in base al quale venivano prodotti rapporti periodici che furono resi pubblici solo a partire dal 1947 (News and Views, 1947). Inoltre, l’intera produzione veniva acquistata dal governo che riservava ai civili le piccole quantità eccedenti le necessità militari (Adams, 1989). Il rigido controllo della produzione affidato negli Stati Uniti ad uno “zar della penicillina” nel corso del critico anno 1944 (Richards, 1964) assicurò quindi alle imprese selezionate dal CMR: un vantaggio competitivo attraverso la restrizione della circolazione delle informazioni scientifiche assicurata dall’alleanza militare fra Stati Uniti e Gran Bretagna e resa possibile dall’assenza di brevetti sulla scoperta inglese; il supporto scientifico e tecnologico per la selezione dei ceppi e la scelta del medium di coltura fornito dagli istituti governativi del Dipartimento dell’Agricoltura americana; lo sviluppo delle tecniche di fermentazione profonda da parte dell’industria e la base finanziaria assicurata dal contratto governativo per l’acquisto di una produzione sufficiente a soddisfare (almeno) le necessità militari. L’interesse dei governi al rapido trasferimento dei prodotti della ricerca alla pratica clinica a supporto della capacità operativa degli eserciti rivoluzionò anche organizzazione, metodi e strumenti della ricerca clinica (Marks, 1997:98 e segg.). Le prime osservazioni cliniche effettuate in Gran Bretagna alla ripresa degli studi sulla penicillina dopo la “lunga eclisse” fra il 1929 ed il 1940 (Howie, 1986) avevano mostrato le potenzialità nel trattamento delle infezioni da strepto- e stafilococchi, la sua superiorità rispetto ai sulfamidici nelle ferite di guerra (Jeffrey e Thomson, 1944) e l’utilità nella profilassi chirurgica (Mitchell, 30 Politiche sanitarie in Italia 1947). Non appena fu prodotta in quantità sufficiente, l’efficacia della penicillina venne sperimentata negli Stati Uniti per il trattamento della sifilide e della gonorrea, due condizioni che riducevano fortemente le capacità operative militari (Marks, 1997:108 e segg.). Il metodo innovativo adottato fu l’organizzazione di studi osservazionali longitudinali prospettici, condotti su base multicentrica con protocolli comuni e basati su indicatori “oggettivi” di efficacia da una rete coordinata di centri clinici di eccellenza appositamente selezionati. Le indagini multicentriche erano coordinate dalla Divisione per la Ricerca Medica del National Research Council (NRC) costituito durante la prima guerra mondiale come organo di consulenza scientifica dei militari ed il finanziamento era assicurato dal Comitato per la Ricerca Medica dell’Office of Scientific Research and Development. Sul piano scientifico i risultati degli studi multicentrici condotti negli Stati Uniti furono limitati in quanto le deviazioni dal protocollo concordato portarono all’esclusione di oltre la metà dei soggetti arruolati (Marks, 1997:109, nota 53). Tuttavia, gli studi collaborativi multicentrici si imposero come l’infrastruttura standard della ricerca clinica e i loro metodi basati su protocolli comuni di indagine per obiettivi condivisi diventarono lo standard scientifico della professione, sostenuto sia dall’industria che dallo Stato, attratti dalla promessa di ridurre drasticamente il tempo fra la scoperta di un nuovo farmaco e la produzione delle conoscenze cliniche necessarie per il suo trasferimento nella pratica clinica e quindi anche al mercato. Il nuovo metodo delle indagini cooperative multicentriche venne impiegato anche per valutare l’efficacia della streptomicina che si era rapidamente imposta all’attenzione generale, civile e militare, per l’efficacia nella cura della tubercolosi (Hinshaw e Feldman, 1945; Comroe, 1978). Tuttavia, mentre lo studio condotto negli Stati Uniti dalla Veterans Administration continuò ad utilizzare controlli storici (Marks, 1997:102), la limitata quantità di streptomicina acquistata dal governo inglese disponibile per usi civili rese eticamente giustificata la randomizzazione dei pazienti al trattamento con streptomicina contro il trattamento sanatoriale allora in uso che prevedeva riposo a letto, dieta e, eventualmente, pneumotorace (Bradford Hill, 1990; Yoshioka, 1998). Le sperimentazioni cliniche controllate condotte in Inghilterra dal Medical Research Council inglese su diverse forme di tubercolosi con la streptomicina da sola (MRC, 1948) o in associazione con PAS (MRC, 1949) costituiscono lo spartiacque fra gli studi osservazionali e la moderna ricerca clinica sperimentale basata sui randomized clinical trials (Doll, 1998). La combinazione della randomizzazione dei pazienti alle diverse forme di trattamento a confronto con le indagini multicentriche già coordinate dal Medical Research Council, come quella sull’efficacia del patulin nel raffreddore comune (MRC, 1944; Chalmers e Clarke, 2004) divenne in breve lo standard metodologico ed organizzativo della ricerca clinica adottato dalla comunità scientifica internazionale per la valutazione dell’efficacia dei nuovi farmaci (Yoshioka, 2002). Negli anni ‘60 le tecniche di indagine elaborate nei primi anni del dopoguerra entrarono a far parte anche dell’apparato regolatorio dello Stato per la registrazione dei farmaci, assumendo la funzione di “tecnolo- La sanità alla fine della guerra 31 gie della fiducia” quando lo scandalo del talidomide indusse a rivedere i criteri di valutazione della loro efficacia e sicurezza (Marks, 2000). Il nuovo modello di produzione scientifica ed industriale realizzato negli anni della guerra costituiva “una peculiare configurazione di istituzioni, pratiche scientifiche e prodotti materiali” (Keating e Cambrosio, 2007:199) in cui un sistema integrato composto di università, agenzie governative ed industrie produceva nuove conoscenze scientifiche, cliniche e di base, sviluppava le tecnologie necessarie per la loro applicazione pratica e diffondeva i suoi prodotti commerciabili (Pickstone, 2000). Il nuovo modello di “tecnoscienza” che governava l’applicazione alla sanità delle scoperte scientifiche e tecnologiche degli anni di guerra configurava lo sviluppo dei sistemi nazionali della ricerca clinica e di base e, contemporaneamente, della nascente industria farmaceutica e biomedicale. Come la Germania ed i suoi alleati, anche l’Italia fu naturalmente esclusa da questi sviluppi durante la guerra ma, a differenza di altri paesi, come la Francia, decise di rimanerne ai margini anche negli anni critici del dopoguerra. La penicillina e l’Italia L’alternativa fra assicurare una produzione nazionale di penicillina per garantire l’autosufficienza rispetto al fabbisogno della propria popolazione ovvero ricorrere all’importazione dagli Stati Uniti si pose nei primi anni del dopoguerra a tutti i paesi europei, vinti o vincitori, che erano rimasti esclusi dagli sviluppi scientifici, clinici, tecnologici ed industriali degli anni di guerra (Bud, 2007:75 e segg.) La scelta si rivelò profondamente intrecciata con le priorità stabilite per la ricostruzione, la tradizione e la capacità scientifica ed industriale di ciascun paese, con questioni di identità nazionale e persino di schieramento di campo nel nuovo equilibrio imposto dai primi segni della guerra fredda (Gaudillière e Gausemeier, 2005). Italia e Francia intrapresero due percorsi alternativi, i cui effetti condizionarono configurazione e capacità dei rispettivi sistemi nazionali di ricerca, incluso il ruolo dello Stato e le possibilità di sviluppo dell’industria farmaceutica nazionale. In Francia, la produzione nazionale di penicillina fu un atto di resistenza all’occupazione assunto come “simbolo di progresso scientifico e di rinascita nazionale” dopo l’arretratezza ed il provincialismo degli anni ‘20 e ’30 considerati causa della disfatta patita (Gaudillière e Gausemeier, 2005). Il documento elaborato nel 1944 da Robert Debré per il Comitato Medico della Resistenza su “Organizzazione della professione medica e riforma dell’insegnamento” disegnava “una riforma simultanea e coerente della professione medica e dell’organizzazione sanitaria” e attribuiva una grande priorità allo “sviluppo della ricerca e del lavoro scientifico” come strumento perché la Francia “riprenda il suo rango di grande potenza e di centro di riferimento intellettuale” (Debré, 1944). Fin dal 1943, l’Istituto Pasteur aveva segretamente continuato a produrre piccole quantità di penicillina, insufficienti per l’uso clinico (fu trattata appena una tren- 32 Politiche sanitarie in Italia tina di pazienti – Shama, 2009:153) ma con un alto valore simbolico: “Quello che i microbiologi dell’Istituto Pasteur produssero durante gli anni dal 1943 al 1945 fu l’immagine di una nazione più che un semplice farmaco: l’immagine di scienziati che resistono all’occupazione, lavorano per il bene della popolazione, affrontando condizioni avverse e carenza di risorse” (Gaudillière e Gausemeier, 2005:185). Dopo una serie di missioni esplorative in Gran Bretagna venne costituito un centro per la produzione di “penicillina francese”, utilizzando le risorse tecnologiche dell’esercito, le competenze tecniche del suo Corpo di ingegneri (il Corps des ingénieurs des Poudres) e le conoscenze scientifiche dell’Istituto Pasteur, cui si aggiunse poi l’industria farmaceutica attraverso la Rhône-Poulenc. Anche la Francia entrò così nel club della penicillina, ed il dottor Tréfouël, divenuto direttore dell’Istituto Pasteur, partecipò alla riunione del Comitato sanitario della Lega delle Nazioni che il 20 ottobre del 1944 definiva gli standard della penicillina (Dale, 1944). Mentre aveva potuto prontamente beneficiare dei sulfamidici, importati dalla Germania e prodotti anche in Italia fin dal 1936 grazie alle clausole commerciali del celebrato asse Roma-Berlino (Sironi, 1992:146), l’Italia era invece rimasta completamente ai margini della ricerca farmacologica e clinica sui nuovi antibiotici e quindi anche della loro produzione da parte di industrie nazionali. La penicillina giunse in Italia al seguito delle truppe alleate nel 1944 per esclusivo uso militare, fu resa disponibile per la popolazione civile dalla metà del 1945 in quantità limitate ad appena 2500 fiale da 100.000 Unità al mese per cinque mesi, come dava notizia il numero di luglio 1945 de Il Policlinico in una breve nota, e venne utilizzata estensivamente solo dal novembre dell’anno successivo (Petragnani, 1953:637). La penicillina ad uso della popolazione civile era donata all’Italia dalla United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), un’agenzia internazionale finanziata in gran parte dagli Stati Uniti per gli aiuti ai paesi liberati (Reinish, 2011) a cui l’Italia fu ammessa nel 1945 quando la sua attività venne estesa ai paesi ex-nemici. Nel 1947 iniziò anche in Italia una limitata produzione da parte della Società Prodotti Antibiotici (SPA), fondata a Milano lo stesso anno (Sironi, 1992:163-164), ma una produzione significativa fu realizzata soltanto nel 1949 con l’avvio a Roma della Leo, che sfruttava una licenza danese e poteva contare sul finanziamento della Banca Nazionale dell’Agricoltura seguita, più tardi, dalla Palma, un’acquisizione della americana Squibb (Capocci, 2010). Alla produzione privata si aggiunse infine nel 1951 quella della “fabbrica statale della penicillina” presso l’Istituto Superiore di Sanità, finanziata su fondi UNRRA ed esclusa dal circuito commerciale (vedi oltre). Anche per la streptomicina l’Italia ebbe inizialmente assegnati 76 flaconi da 1 grammo al mese, che furono portati nel 1948 ad 11.000 e vennero distribuiti ai 14 “Centri di studio” costituiti dall’Acis presso gli ospedali di altrettante città italiane (Cotellessa, Senato, 11 luglio 1950). La disponibilità di penicillina in quantità significative (a parte quella, apparentemente cospicua, ceduta a borsa nera – Petragnani, 1953) risale all’agosto 1947 e coincide con la sua importazione dagli Stati Uniti su fondi ERP da parte La sanità alla fine della guerra 33 della Endimea, una società controllata dal Ministero del Tesoro appositamente costituita per l’importazione e la distribuzione di beni forniti dagli alleati. Penicillina e streptomicina erano importate in Italia dal mercato americano su licenza Acis anche da intermediari privati per la libera vendita attraverso le farmacie, mentre le importazioni Endimea erano prevalentemente destinate a rifornire gratuitamente ospedali e sanatori attraverso i Medici Provinciali, come descrivono i frequenti dibattiti parlamentari del tempo (cfr. ad esempio Cotellessa, Senato, 11 luglio 1950, in cui l’Alto Commissario ricostruisce i meccanismi di approvvigionamento). L’importazione di penicillina attraverso l’Endimea, per quanto a prezzi dalla metà ad un terzo inferiori rispetto agli importatori privati (303 e 764 lire per milione di Unità Oxford contro 1150 lire), cessò a partire dal gennaio 1949, in ottemperanza al richiamo rivolto al governo dalla missione ECA al rispetto dell’impegno di favorire il pronto ripristino del libero mercato mentre l’importazione “pubblica” di streptomicina continuò fino al novembre dello stesso anno (Cotellessa, ibidem). Complessivamente fra l’agosto 1947 e il dicembre 1948 vennero distribuiti agli ospedali italiani a cura dell’Acis 957 miliardi di Unità Oxford di penicillina e, fino all’ottobre del 1949, 3697 chilogrammi di streptomicina, principalmente concentrate nel 1949 (Martelli, 1950). L’importazione di penicillina e di streptomicina da parte dell’Acis riprese nel 1951 per l’embargo imposto dagli Stati Uniti a causa della guerra di Corea che aveva provocato la scomparsa dal mercato italiano degli antibiotici di produzione statunitense (cfr. ad esempio: Camera, 2 ottobre 1951, per la streptomicina; Senato, 26 marzo 1952, per la penicillina). Per tutto questo periodo, la disponibilità e l’impiego di penicillina e di streptomicina furono sottoposti a procedure di razionamento più blande e rivolte direttamente ai medici per la penicillina, molto più severe e controllate dall’Acis attraverso Comitati costituiti presso le Prefetture per la streptomicina, secondo una complicata procedura in cui i Medici Provinciali trasmettevano attraverso le Prefetture il fabbisogno trimestrale al Ministero dell’Interno, che lo comunicava all’Acis che provvedeva all’assegnazione tramite l’Endimea secondo le disponibilità (Battini, 1946). La penicillina era stata presentata ai medici italiani nel numero unico di luglio 1944 de Il Policlinico, con l’avvertenza che, dato l’alto costo e le ridotte disponibilità, “è lecito […] prevedere che le popolazioni civili, specialmente quelle europee, non potranno punto giovarsi della penicillina, se non a guerra finita” (Iandolo, 1944). Nel settembre 1945, il primo opuscolo in italiano sull’uso della penicillina fu pubblicato come supplemento speciale del Bollettino medico del Servizio americano di intelligence (USIS – United States Information Service) (Pampiglione, 1945). Vere e proprie linee-guida erano invece le istruzioni UNRRA per l’uso dei farmaci americani, diffuse a cura dell’Acis nel 1946 (UNRRA, 1946). L’opuscolo conteneva un lungo capitolo sui sulfamidici, che si riteneva fossero già noti ai medici italiani, ma di cui si metteva in evidenza il diverso dosaggio in quanto “spesso il completo fallimento della terapia sulfamidica con prodotti americani non è dovuto ad altro che all’errato dosaggio e a un cattivo modo di somministrazione”. Il capitolo finale sull’uso della penicillina 34 Politiche sanitarie in Italia Tabella 1.2 - Indicazioni “ufficiali” per la terapia con penicillina (UNRRA, 1946) Osteomielite acuta grave con altre manifestazioni settiche Meningite (esclusa meningococcica) Infezioni gravi da fratture esposte e lesioni chirurgiche complicate da sepsi diffusa Trombosi del seno cavernoso oppure laterale Sepsi stafilococcica e streptococcica Gangrena gassosa Endocarditi acute da pneumococco Setticemia gonococcica con emocoltura positiva elencava le indicazioni “ufficiali” (Tabella 1.2) sottolineando che “essendo la penicillina disponibile in piccole quantità, dovrebbe darsi e serbarsi per quei casi dove esista veramente una questione di vita o di morte” (p. 169). La gravità clinica della condizione non costituiva tuttavia il criterio discriminante, in quanto doveva essere bilanciato con la quantità di farmaco necessario per il trattamento secondo una precipua logica utilitaristica del maggior beneficio per il massimo numero: “La penicillina non si dovrebbe dare quando per ottenere un effetto è necessario usare un quantitativo troppo grande del medicinale; questo sfortunatamente è il caso delle endocarditi subacute e lente e degli ascessi polmonari” che non erano comprese fra le indicazioni cliniche in quanto richiedevano trattamenti con almeno cinque milioni di Unità e “con queste quantità si possono curare da cinque a dieci malati delle malattie elencate più sopra” (p. 168). Anche la streptomicina era importata in Italia a spese dello Stato (e dell’INPS) e venne sottoposta ad un severo razionamento controllato direttamente dall’Acis attraverso le Prefetture. Ancora alla fine del 1948, un’interrogazione parlamentare di Vincenzo Monaldi, prestigioso tisiologo e senatore della Democrazia Cristiana, futuro Alto Commissario e primo Ministro della Sanità, lamentava l’insufficiente quantità acquistata, che lasciava pazienti senza terapia e li costringeva a rivolgersi al mercato privato, e la farraginosità del processo di razionamento, che determinava ritardi nell’inizio ed interruzioni della terapia antibiotica (Monaldi, Senato, 9 dicembre 1948). Riconosciuta “l’azione terapeutica decisiva ed insostituibile” della streptomicina, l’Alto Commissario Cotellessa giustificò la situazione appellandosi a “criteri limitativi di ordine tecnico e finanziario”. Dal punto di vista tecnico, i criteri clinici elaborati dalla Commissione dell’Acis erano analoghi a quelli già stabiliti dalla Commissione Centrale dell’INPS responsabile dell’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi e comprendevano i casi di tubercolosi miliare generalizzata e di meningite tubercolare, assieme ad alcune forme di laringite tubercolare con disfonia e di tisi cosiddetta “galoppante”, indicati anche nell’opuscolo dell’UNRRA per i medici italiani. Le procedure di selezione dei destinatari spettavano invece ad La sanità alla fine della guerra 35 una Commissione Prefettizia che provvedeva all’assegnazione individuale delle quantità disponibili secondo una lista nominativa dei casi ricoverati, documentati clinicamente e radiologicamente, fornita dai direttori di clinica degli ospedali della provincia. La rigidità del processo di razionamento non permetteva quindi di soddisfare la richiesta di lasciare maggiore discrezionalità ai medici curanti. Quanto ad “adeguare l’assegnazione del farmaco alle effettive esigenze dei malati assistiti in regime assicurativo e consorziale”, INPS e Acis avevano concordato di acquistare ciascuno 10.000 flaconi da 1 grammo di streptomicina l’anno, “partendo dal presupposto di un numero uguale di assistiti” fra i pazienti “consorziali”, sotto la giurisdizione dei Dispensari Antitubercolari, e pazienti “sanatoriali”, assicurati dall’INPS. L’Acis tuttavia integrava il suo quantitativo con l’acquisto di altri 10.000 flaconi destinati “ai malati indigenti assistiti a domicilio” e di 40.000 flaconi assegnati agli ospedali di riferimento per essere utilizzati a scopo sperimentale, che “perciò potevano essere impiegati in qualsiasi forma morbosa”. L’Alto Commissario si dichiarò quindi impossibilitato sia ad intervenire sull’INPS sia ad aumentare ulteriormente le quantità acquistate dall’Acis in quanto “non c’è nessuna possibilità di superare le restrizioni esistenti per deficienza dei fondi disponibili”. Sia per la penicillina che per la streptomicina le restrizioni alla fornitura pubblica crearono mercati paralleli privati che configurarono una diffusa borsa nera, che, se “rese possibile non poche guarigioni” (Petragnani, 1953), non fu esente da truffe. Ritardi nella distribuzione ed episodi di accaparramento provocarono disordini in varie parti d’Italia; scandali come l’impiego di oltre 500 milioni di lire stanziati per l’acquisto di penicillina e per la lotta alla tubercolosi per la costruzione di appartamenti per funzionari dell’Acis costarono una richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dalla Magistratura nei confronti degli Alti Commissari Perrotti e Cotellessa (cfr. Atto Camera n. 413, 1952); distrazioni delle assegnazioni individuali continuarono fino al 1952, toccando anche uno dei più prestigiosi ospedali sanatoriali italiani, il Principi di Piemonte di Napoli, in cui “scomparvero” ben 250 chilogrammi di streptomicina (Terranova, Camera 1952). È in questo contesto generale di razionamento e di accaparramento di due farmaci vitali per la popolazione che si inquadra l’ambizioso disegno di Domenico Marotta, dinamico e spregiudicato direttore dell’Istituto Superiore di Sanità fin dalla sua fondazione nel 1935, di sfruttare l’offerta dell’UNRRA rivolta al governo italiano di finanziare la costruzione di una “fabbrica della penicillina” per riportare l’Istituto al centro della ricerca internazionale. Nel gennaio del 1946, l’UNRRA, in collaborazione con il governo canadese, aveva lanciato un programma per la costruzione di fabbriche della penicillina capaci di una produzione di 15-20 miliardi di Unità mensili sufficienti a soddisfare il fabbisogno nazionale, con materiale fornito dagli Stati Uniti e l’assistenza tecnica canadese, lasciando al paese ospite i costi della costruzione. I primi piani avrebbero dovuto riguardare Polonia, Jugoslavia e Cecoslovacchia ma erano previste espansioni a Bielorussia ed Ucraina. L’UNRRA aveva formalmente offerto anche all’Italia 36 Politiche sanitarie in Italia di finanziare la costruzione di una fabbrica della penicillina che ne assicurasse l’autosufficienza già nel 1946, dopo che le offerte rivolte a paesi che, come l’Italia, rischiavano di essere assorbiti nell’orbita dell’Unione Sovietica erano cadute (Bud, 2007:88). L’industria farmaceutica nazionale era in fase di ripresa dopo la profonda crisi del 1943-45 e attraversava un periodo definito di “particolare euforia” dal direttore chimico della Lepetit (Carrara, 1947), da cui il settore degli antibiotici era però rimasto completamente escluso “per i gravissimi impegni finanziari che tale fabbricazione comporta” (ibidem). L’offerta fu inizialmente accettata, se alcuni ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità effettuarono il previsto periodo di formazione in Canada (Capocci, 2010:66). Difficoltà logistiche, controversie nella scelta del sito, per cui si era candidata anche Torino, ma soprattutto il fascino di un nuovo progetto portarono ad una soluzione completamente diversa. Ernst Boris Chain, di recente insignito del Nobel per la Fisiologia e la Medicina assieme a Fleming e Florey per la scoperta della penicillina, in Italia per un ciclo di conferenze organizzato dal British Council, suggerì a Marotta un progetto alternativo che non gli era stato permesso di realizzare ad Oxford (Bud, 2007:89). Anziché impegnare la fabbrica in una produzione nazionale di penicillina entrando in competizione con le industrie multinazionali che si stavano insediando in Italia, Chain propose di utilizzare le risorse promesse per creare un Centro Internazionale di Ricerca di livello mondiale per conquistare la nuova frontiera della produzione di penicilline semisintetiche che richiedeva una quantità di farmaco che poteva essere fornita soltanto da un apparato di produzione di livello semi-industriale come quello che sarebbe stato possibile costruire in Italia (Chain, 1971:309). Le priorità personali di Chain contrastavano con le deliberazioni della prima Assemblea plenaria della OMS subentrata nel frattempo all’UNRRA (Waksman, 1952) e con le conclusioni del suo Comitato di esperti sugli antibiotici, di cui lo stesso Chain era presidente, ma erano coerenti con le strategie di Marotta sullo sviluppo dell’Istituto Superiore di Sanità. L’obiettivo prioritario dell’OMS era “di mettere le conoscenze tecniche sulla produzione della penicillina a disposizione dei paesi che prevedano la costruzione di stabilimenti; facilitare l’acquisizione di penicillina per i paesi non in grado di acquistare questo ed altri farmaci simili”, con particolare riguardo alla streptomicina (WHO, 1950:3-4). La strategia di Marotta per riportare in auge la ricerca di base all’Istituto Superiore di Sanità, analoga a quella che si era già dimostrata efficace in passato, consisteva nel finanziare una ricerca di alto livello internazionale attraverso le risorse assegnate dallo Stato per lo svolgimento delle attività istituzionali dell’Istituto. Lo strumento prescelto fu l’importazione in Italia di due personalità di grande prestigio internazionale, Ernst Boris Chain e Daniel Bovet, proveniente dall’Istituto Pasteur di Parigi e futuro Nobel nel 1957, attorno a cui furono attrezzati due laboratori di ricerca di livello mondiale (Bignami e Carpi de Resmini, 2005). Le risorse necessarie per finanziare il Centro Internazionale di Chimica Microbiologica diretto da Chain derivarono dalla trasformazione di quella che doveva essere in origine “una fabbrica della penicillina” per garantire l’autosufficienza La sanità alla fine della guerra 37 nazionale in un ambizioso progetto di ricerca sulle nuove penicilline semisintetiche. A questo scopo, ai 500 milioni di lire messi a disposizione dell’UNRRA si aggiunse nel 1947 un primo stanziamento di 350 milioni di lire da parte del governo italiano (DLCPS 24 gennaio 1947 n. 26) ed uno ulteriore nel marzo del 1951 di pari dimensioni (Camera, 14 marzo 1951) per un costo complessivo di 1200 milioni dell’epoca, pari a oltre 20 milioni di euro attuali. La prima pietra di quella che continuava ad essere chiamata la “fabbrica statale della penicillina” fu posata il 12 febbraio 1948, in pieno periodo elettorale, alla presenza del Presidente del Consiglio De Gasperi e dell’Ambasciatore degli Stati Uniti Dunn, oltreché dello stesso Chain (Figura 1.2). La “fabbrica” venne inaugurata solo il 24 giugno 1951 e divenne operativa l’anno successivo, nell’ambito del Centro Internazionale di Chimica Microbiologica, dotato di attrezzature che superarono le aspettative dello stesso Chain (Bud, 2007:89) e giunse a contare un centinaio di tecnici e di scienziati di diverse discipline (Gualandi, 1999). La fabbrica, che nel 1955 raggiunse la capacità di 950 miliardi di Unità Oxford (Capocci, 2010), non ebbe alcun impatto sulla disponibilità di penicillina in quanto non poteva produrre per il mercato per una specifica clau- Figura 1.2 • Cerimonia per la posa della prima pietra per l’erigendo Istituto della Penicillina: il Prof. Marotta si appresta ad arrotolare la pergamena (1948). Fonte: Istituto Superiore della Sanità, collezione Storico-Fotografica 38 Politiche sanitarie in Italia sola UNRRA, e le offerte rivolte all’Acis per rifornire gli ospedali vennero comunque declinate per non compromettere la posizione della Leo che dominava il mercato interno, anche grazie agli alti dazi imposti alla penicillina di importazione. Il principale successo scientifico del Centro fu il contributo recato alla scoperta della 6-APA realizzata nel 1959 dai ricercatori della industria inglese Beecham ospiti dell’Istituto (Ballio et al., 1959) che portò alla produzione della meticillina inaugurando l’era delle penicilline semisintetiche. Su questo brevetto la Beecham costruì il suo impero (Walsh, 2003) dopo essere stata convertita negli anni ‘50 alla produzione di penicilline da parte dello stesso Chain, che ne fu il principale consulente e ispiratore fino alla morte (Bud, 2007:124), realizzando un tale intreccio di interessi conflittuali (Clark, 1985:135) che l’annuncio della scoperta della 6-APA procurò non pochi grattacapi (unpleasantness) a Chain e al direttore Marotta, come lasciò scritto lo stesso Chain (ibidem, 139). Considerato addirittura “punto di inizio dello sviluppo delle biotecnologie nel nostro paese” (Pocchiari, 1990:15), soltanto recentemente l’effettivo impatto della breve vita del Centro sulla ricerca biomedica italiana e sullo sviluppo dell’industria farmaceutica nazionale ha cominciato ad essere analizzato criticamente, al di là delle celebrazioni agiografiche (Capocci, 2009; Capocci, 2010). L’isolamento rispetto al contesto nazionale che vedeva stagnare la ricerca biomedica, un’industria farmaceutica votata a copiare processi produttivi altrui ed una clinica che continuava a confrontarsi con i problemi del razionamento di prodotti importati dall’estero sembra piuttosto un limpido esempio dell’ “effetto chiusura” (Gemelli, 1999:194) che caratterizzò molte iniziative di punta negli anni ‘50 e lasciò l’Italia al margine degli sviluppi della ricerca clinica e della capacità regolatoria dell’apparato amministrativo dello Stato, determinando ritardi che si sarebbero manifestati nel corso degli anni ‘60 con il disastro del talidomide e le inerzie della vaccinazione antipoliomielitica (cfr. Capitolo 5).