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La casa del Petrarca ad Arquà
La leggenda è stata ideata e recitata a Battaglia Terme, in occasione di “Spettacoli di Mistero”, novembre 2010
In copertina: Marie Spartali Stillman, Petrarca e Laura s'incontrano nella chiesa di Santa Chiara in Avignone
© 2010. Editrice La Galiverna
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GIANFRANCO TURATO
IL RITORNO DI LAURA
Una nuova leggenda nata nel Parco
PERSONAGGI
Narratore
Petrarca
Laura
Francesca (figlia del poeta)
Brigante
EDIZIONI LA GALIVERNA
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FRANCESCO PETRARCA
“Allo spuntar dell’alba, il lunedì 20 luglio, nella città di Arezzo e nel borgo dell’Orto...” nacque Francesco Petrarca: la madre si chiamava Eletta Cangiani, il padre,
ser Petracco, era notaio in Firenze.
Fin da piccolo Francesco fu costretto a seguire i lunghi spostamenti del padre, che
lo portarono fino ad Avignone, in Francia, dove all’epoca si era trasferito il papato.
Il fatto più importante della sua vita fu quando, a 23 anni, incontrò ad Avignone,
nella chiesa di Santa Chiara, Laura, e se ne innamorò. Questo amore non venne ricambiato, ma rimase sempre il motivo centrale della sua opera.
Da Avignone si trasferì poco lontano, a Valchiusa, dove acquistò una casa. In questi
luoghi visse e studiò per molti anni. Proprio qui da due relazioni nacquero i figli
Francesca e Giovanni, quest’ultimo morì, ancor giovane, di peste a Milano. La figlia
invece gli fu sempre vicina, specie ad Arquà. Un altro grande evento per il Petrarca
avvenne quando fu incoronato poeta a Roma, in Campidoglio, aveva 37 anni.
Francesco Petrarca fu una persona che viaggiò molto, in tutta Europa e in Italia,
come ambasciatore, in missioni di vario tipo e come studioso.
Francesco da Carrara, signore di Padova, gli donò un terreno ad Arquà e qui il poeta
passò gli ultimi quattro anni della sua vita, curato dalla figlia Francesca e attorniato
da molti amici.
Morì nella notte tra il 18 e 19 luglio 1374, esattamente alla vigilia del suo settantesimo compleanno.
L’opera che lo rese famoso è quella che noi oggi conosciamo col nome di Canzoniere, il cui tema principale è l’amore per Laura.
UNA CURIOSITÀ
Se visitate la casa del Petrarca, in una stanza troverete, almeno così vuole la
tradizione, la famosa gatta del poeta, imbalsamata dentro una teca di vetro. Sotto
c’è una lapide, scritta in latino, che tra l’altro dice:
“Quand’ero in vita tenevo lontani i topi dalla sacra soglia, perché non distruggessero gli scritti del mio padrone. E ora, pur morta, li faccio tremare ancora
di paura: nel mio petto esanime è sempre viva la fedeltà di un tempo”.
La “gatta” imbalsamata
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La leggenda, pur essendo frutto di fantasia, ripercorre gli ultimi anni del Petrarca ad
Arquà, con riferimenti al borgo stesso, alla fontana, alla Chiesa della S.S. Trinità e inoltre: al “sentiero del monte Calbarina”, al laghetto di Arquà, al Canale della Battaglia,
al monte Cinto, al “buso dei briganti” e al monte Gemola.
Le date, i luoghi, i personaggi citati nella leggenda si riferiscono ad avvenimenti realmente accaduti e documentati. Frutto di invenzione sono soltanto la figura di Laura che
appare al poeta e il brigante del monte Cinto.
IL RITORNO DI LAURA
Narratore
Quella mattina Francesco si era alzato presto e, come sua abitudine, aveva dato
un’occhiata all’orto assieme al servitore Pancaldo, il quale aveva un nome un po’
buffo, ma sapeva curare bene le piante, aveva, come si dice oggi, il pollice verde. Su
suggerimento del poeta, che era un bravo ortolano, nel piccolo appezzamento di terreno venivano coltivati diversi ortaggi e piante: rosmarino, finocchio, spinaci, salvia,
ruta e tante altre varietà di verdure.
Nel brolo attorno alla casa era coltivata la vite, una bella pergola di uva duracina, qua
e là spuntava qualche ulivo, non mancava, esposto al sole, un bell’albero di giuggiole,
ma soprattutto numerosi erano gli esemplari di “dolce lauro”, l’ albero preferito del
poeta, quello che gli ricordava la sua amata Laura.
Il sole era già alto quando, rientrato in casa un po’ affaticato e sudato, si era seduto
vicino ad una finestra che dava sul grazioso borgo di Arquà. Stava gustando una
pesca che aveva raccolto poco prima, quando sentì la voce della figlia Francesca che
si era appena svegliata. La donna gli si avvicinò e lo rimproverò amorevolmente:
Francesca:
Caro il mio “poeta giardiniere”, ti vedo un po’ affaticato, guarda che hai quasi 70
anni, non potresti riposare un po’ di più, invece di stancarti in questo modo? Lascia
che il nostro bravo servitore se ne occupi lui, in fin dei conti è il suo mestiere.
Petrarca:
Mi fa bene la mattina respirare l’aria pura, essere baciati dal primo sole, e poi faccio conversazione con Pancaldo che mi ricorda tanto Raymond, il mio contadino di
Valchiusa. Ti ricordi di lui?
Francesca:
Me ne hai parlato molte volte, ma io non l’ho mai conosciuto personalmente. So che
lì, nel tuo rifugio campestre, trascorrevi molto tempo con questo tuo buon contadino che ti custodiva, oltre che la casa, anche i tuoi amati libri.
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Petrarca:
Aveva una vera ammirazione per i miei volumi, a volte li toccava, se li appoggiava
al petto e mi diceva: “Stringendoli tra le mani, mi sembra di diventare più dotto e
più saggio”.
Era bravissimo, pensa che una volta camminando lungo la Sorga, sai quel fiume che
passa vicino a Valchiusa...
Francesca:
Sì, sì lo so, me ne avrai parlato centinaia di volte. Valchiusa, Avignone, Carpentras
e questa Sorga “regina di tutte le fonti”. Ma quanti viaggi hai fatto su e giù dall’Italia alla Francia e dalla Francia all’Italia? E come mai oggi non hai ancora nominato la tua bella Laura? Ormai, mio caro padre, sono solo nostalgie di tempi passati,
ora siamo ad Arquà e qui devi vivere, hai molti amici: Giovanni Dondi, il tuo medico, Francesco da Carrara, signore di Padova, e Lombardo... che vive con noi. E
inoltre un grande letterato: Giovanni Boccaccio, che hai incontrato recentemente a
Padova. A proposito, un corriere ha portato una lettera per te, credo sia proprio lui
che ti scrive.
Petrarca:
Ah, bene, la leggerò con calma questa sera. Ma, senti Francesca, lasciamo stare per
ora questi discorsi. Stamattina mi sento quasi felice, come se qualcuno mi avesse
dato una tisana magica, sento una forza insolita dentro di me, c’è qualcosa di nuovo
oggi nel mio animo.
Ti prego, fammi un favore, metti nella mia sacca qualche frutto e magari un tozzo
di pane, voglio fare una lunga passeggiata, vorrei spingermi fino alla casa di Gerardo, sai quel contadino che ha lo stesso nome di mio fratello, quello che abita nei
pressi del laghetto, alle pendici del colle.
Ogni volta che vado lì mi racconta un mucchio di cose, fatti semplici s’intende, ma
gradevoli, e poi sua moglie Berta mi offre sempre una buona zuppa di verdure. Io in
cambio do loro qualche moneta e sono contenti come se avessero ospitato un re.
Francesca:
Va bene, fa ciò che ti piace di più, almeno non ti vedrò come sempre curvo sui libri,
tutto il giorno e la notte. Però non affaticarti, va tranquillo e cerca di tornare prima
del tramonto, mi raccomando.
Per non fare troppi sforzi, vuoi andare a cavallo?
Magari ti accompagna Pancaldo...
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Petrarca:
Ma, dico, stai scherzando? Lo sai bene che non posso sopportare i cavalli. Mi ricordo ancora la botta che ho preso a Bolsena da un cavallo imbizzarrito ...mi spezzò
quasi un braccio.
E quando caddi in piena notte vicino a Reggio? Per fortuna trovai rifugio nella rocca
di Scandiano e scampai anche ad un agguato... ma lasciamo perdere. A piedi, cara
Francesca, pedibus calcantibus, che, come sai, significa “camminando”, come fanno
quasi tutti, così, calci non ne prendo di sicuro.
Un giorno vorrei condurre Eletta con me, magari per una breve escursione qui vicino a raccogliere erbe e fiori. E’ ancora a letto, vero?
Francesca:
Certo, ancora dorme. Tra poco la sveglierò. Vai pure, un giorno lascerò che ti accompagni.
Narratore:
E così Francesco si avviò verso la meta che si era prefissato. Scese in paese lungo
una ripida scarpata, salutato da tutti con deferenza, sostò presso la fontana, che ancora oggi si trova alla fine della discesa, riempì una borraccia d’acqua e s’incamminò
verso il sentiero che conduceva al laghetto. Bisognava salire un po’ in alto per poi
ridiscendere verso valle.
Oggi questo sentiero si chiama “sentiero del monte Calbarina”, ed è un bella stradina
che si può percorrere a piedi senza alcuna fatica, ma un tempo il viottolo era appena
accennato e si snodava tra alberi e arbusti di ogni tipo: biancospini, rovi, robinie,
aceri, castagni e corbezzoli, dai gustosi frutti rossi, e i bellissimi alberi di Giuda.
Camminava il nostro poeta tranquillamente e una quantità senza fine di pensieri occupava la sua mente: gli anni felici della gioventù, gli amici lontani e quelli che
ormai non avrebbe più potuto rivedere; il suo grande amore, Laura, era sempre presente in lui, come una magnifica ossessione.
Ogni tanto, procedendo lentamente e osservando i colli lontani gli tornavano alla
memoria alcune sue poesie che molti avevano già letto e apprezzato. E recitava qualche verso, per così dire, a se stesso:
Petrarca:
“Di pensier in pensier, di monte in monte/ mi guida Amor...”
“Ove porge ombra un pino alto od un colle/ talor m’arresto e pur nel primo sasso/
disegno co la mente il suo bel viso...”.
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Narratore:
All’improvviso, dopo un folto cespuglio, gli apparve uno splendido laghetto. Dall’alto sembrava una pennellata d’argento nel verde della pianura. Lontano si scorgeva
anche il Canale della Battaglia, che ogni tanto era solito percorrere in barca per recarsi a Padova.
E guardando l’estesa pianura, le acque, i verdi colli si ricordò improvvisamente, non
si sa se per contrapposizione o per accostamento, della famosa scalata al Mont Ventoux intrapresa col fratello Gerardo. Certo il Ventoux era tutta un’altra cosa, un monte
alto quasi 2000 metri, sassoso, senza alberi, ventoso; dalla cima si vedeva il mare di
Marsiglia, il fiume Rodano, l’immensa pianura. Era stata veramente un’impresa, ma
erano altri tempi e allora aveva appena 32 anni e la vita davanti a sé.
Poco lontano, ecco la modesta casetta dell’altro Gerardo, l’amico contadino che subito s’accorse della sua presenza dall’abbaiare dei cani. L’uomo e la moglie lo accolsero festosamente, come sempre del resto, lo rifocillarono con la famosa zuppa,
volevano anche fargli assaggiare il loro profumato vino bianco, ma il poeta rifiutò.
Amava “sorella acqua”, come predicava San Francesco d’Assisi, il vino non entrava
nei suoi pasti quotidiani, solo raramente ne assaggiava qualche sorso, al contrario del
suo amico Boccaccio che definiva il vino “l’allegro compagno della vita”.
Francesco si fermò parecchio tempo nella modesta abitazione, Gerardo era un buon
conversatore, un po’ rozzo, ma intelligente. Il poeta s’interessava del lavoro nei
campi, dei raccolti, chiedeva consigli per la semina di certi ortaggi. E il contadino a
spiegargli, magari confusamente, a dirgli tutto ciò che sapeva ed era per lui un grande
onore poter aiutare una persona così famosa e dotta. Tra l’altro ebbe anche il tempo
di raccontargli la leggenda del lago di Arquà che, secondo lui, non era una leggenda,
ma un fatto realmente accaduto. Sorridendo il poeta alla fine lo salutò:
Petrarca:
“Racconterò questa storia alla mia nipotina, vedrai che anche lei si convincerà che
è un avvenimento realmente accaduto”
Narratore:
Il sole era alto sopra i colli, ma la strada era ancora lunga per ritornare al borgo.
Diede un’ultima occhiata al laghetto e quasi automaticamente gli tornarono alla
mente quei versi, oggi famosi in tutto il mondo.
Petrarca:
“Chiare, fresche et dolci acque,/ ove le belle membra/ pose colei che sola a me par
donna...”
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Narratore:
Abbastanza riposato intraprese quindi il viaggio di ritorno, attraverso lo stesso sentiero pieno di cespugli e di sassi. Aveva percorso circa un miglio di strada, immerso
come sempre nei suoi pensieri, quando un rumore lontano ed indistinto attirò la sua
attenzione. Era come un calpestio che si avvicinava sempre più, erano sterpi rotti,
rami secchi spezzati, un frastuono che si spandeva per tutto il bosco.
Francesco, dopo un primo momento di sbigottimento e di confusione,capì subito
che verso di lui, giù dal monte veniva un animale inseguito o impaurito, non si sa da
chi o da che cosa, una bestia non certo piccola, se faceva tutto quel fracasso. Francesco rimase immobile, non sapendo bene cosa fare. All’improvviso gli apparve un
grossa femmina di cinghiale con tutta una schiera di piccoli. Puntava verso di lui
che, impietrito, aspettava senza rendersene conto l’urto fatale. Chiuse istintivamente
gli occhi attendendo l’impatto, sentì invece come un grande abbraccio, una forza lo
sollevava senza che nessuno lo toccasse. Aprì gli occhi e si ritrovò seduto su un
masso, guardò verso il basso: del cinghiale nessuna traccia, solo uno strepito sordo
che si perdeva nel bosco.
Seduto sul masso il poeta sentì una presenza accanto a lui, si girò e una luce quasi
lo abbagliò, al centro scorse una figura: era Laura, la dolce figura sorridente della sua
Laura.
Soltanto un soffio gli uscì dal petto:
Petrarca:
Laura.
Laura:
Sì sono Laura, ma il mio corpo non è qui. Sono venuta per salvarti, per allontanarti
dalle passioni terrene e sono venuta anche per aiutarti a terminare la poesia che hai
iniziato e che non riesci a completare. Tu sai bene di che cosa parlo: i tuoi primi
versi sono perfetti: “Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo
Sole piacesti sì, che ‘n te Sua luce ascose...”
Io ti aiuterò nella tua nobile fatica, ti infonderò nuove idee e darò nuova luce ai tuoi
pensieri.
Questo sarà il tuo più bel canto poetico, l’eco della tua invocazione si espanderà
oltre la terra.
Ti assisterò, sarò accanto a te, anche quando non mi vedrai
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Petrarca:
È così grande il mio turbamento che non so parlare, non son capace ...non riesco...
Laura:
Su, fatti coraggio, parlami pure, dimmi ciò che ti affligge. Hai discusso con papi,
con re e con dogi, hai scritto un tempo per me poesie bellissime, versi a non finire e
ora non sai trovare una frase...
Petrarca:
Ora è tutta un’altra cosa. Sì, finirò l’invocazione alla Vergine, col tuo prezioso aiuto,
ma fammi tornare indietro nel tempo della mia vita. Ricordi tanti anni fa? Ad Avignone, era il 6 aprile, avevo 23 anni, ti vedevo per la prima volta, eri bellissima, i tuoi
capelli d’oro illuminavano la chiesa di Santa Chiara. Ma tu ti sei accorta di me? Cosa
hai pensato allora?
Laura:
Certo, i miei occhi hanno incrociato i tuoi, e posso anche dirti che in seguito ho corrisposto il tuo affetto, ma ho voluto comportarmi sempre onestamente per il bene
tuo e mio. Tu mi hai resa immortale nella terra con la tua poesia, ma ora le cose terrene non mi riguardano più.
Petrarca:
Io, da quel giorno, sono stato rapito dalla tua grazia e dalla tua bellezza e da quel momento ti ho amata per sempre. Non ti sto ora a raccontare tutti i miei pensieri, in
tutti questi anni, in qualsiasi posto io mi sia recato, sempre la tua celeste sembianza
mi ha fatto compagnia.
E le poesie che ti ho dedicato! Innumerevoli, scritte e riscritte, migliaia di persone
le hanno lette ed io di ciò mi compiacevo, non per far vanto di me, ma per far conoscere a tutti le tue virtù e l’incanto della tua beltà.
E ti porto sempre con me. Ho qui, sul petto sotto la veste, una piccola miniatura che
mi accompagna sempre. È opera, come tu sai, del grande pittore Simone Martini.
Il tuo ritratto è sempre vicino al mio cuore, vuoi vederlo?
Laura:
Sono cose che a te dicono ancora qualcosa, per me sono forme scomparse: noi non
abbiamo né tempo, come lo intendi tu, né spazio. Ma non puoi capire...
Le tue poesie sono il massimo della dolcezza e della bellezza che un uomo possa
scrivere, ma esse hanno allontanato la tua anima da ciò che è la vera luce.
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Narratore:
Detto questo scomparve, in un attimo, così come era apparsa. Francesco la chiamò,
la invocò alcune volte, ora sommessamente, ora con maggior forza. Nessuna risposta. Rimase lì, seduto, confuso e sbalordito dall’evento. Si fece coraggio pensando
che Laura gli sarebbe ancora apparsa, del resto gli aveva assicurato il suo appoggio
per la poesia alla Vergine.
Ad un certo punto si rese conto che il sole era quasi tramontato, così si alzò e con
passo lesto si diresse verso il borgo. Camminando rifletté su quanto era accaduto e
pensò che era meglio non dicesse nulla a sua figlia, né a nessun altro. Innanzitutto
non gli avrebbero creduto e poi lo avrebbero trattato da visionario, se non peggio.
L’incontro con Laura doveva rimanere un segreto.
Quando si avvicinò all’uscio di casa, trovò Francesca che lo aspettava preoccupata
e ansiosa, gli andò incontro, lo prese sottobraccio, lo accompagnò in cucina e lo
fissò bene in faccia. Suo padre ricambiò lo sguardo e sorrise.
Lei allora, stupita di vederlo così sereno e quasi allegro, gli chiese:
Francesca:
Babbo mio caro,ma cosa ti è capitato? Dove sei stato fino ad ora? Come mai così
sorridente?
Sono mesi che non ti vedo così sereno, e non sei neppure affaticato! Ma hai fatto la
passeggiata che ti ripromettevi?
Petrarca:
Bambina mia, sta calma, quante domande... adesso ti spiego. Ho fatto tutto come
previsto, sono andato dal mio amico Gerardo, gentile come sempre... sai la solita ottima zuppa. Sulla via del ritorno, poiché mi sentivo un po’ stanco, mi sono seduto
su un masso, ho appoggiato la testa sul tronco di un albero e mi sono addormentato.
Per un bel pezzo immagino, perché al risveglio il sole era già tramontato. Tutto qui.
Anzi, no. Dov’è Eletta? Sai, il buon Gerardo mi ha raccontato una leggenda che vorrei far conoscere anche alla mia nipotina, mi sembra adatta a lei. E’ la leggenda del
lago di Arquà.
Pensa che lui crede che non sia una favola, ma un fatto realmente accaduto.
Francesca:
Eh... la conosco anch’io, qui in paese le vecchiette la narrano ai nipotini, ai bambini
e anche agli adulti. Gli ingenui ci credono.
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Tu adesso te ne vai a letto, ti porterò una tazza di latte caldo con un po’ di miele e
per questa notte sei a posto. Vai pure.
Io intanto chiamerò la mia bambina e le racconterò la storia del lago, magari le dirò
che me l’hai narrata tu.
Eletta, vieni qui che ti racconto una bella storia.
LA LEGGENDA DEL LAGO DI ARQUA’
Siamo ai tempi di Attila, re degli Unni, così feroce che si diceva dove fosse passato
lui non cresceva neppure l’erba.
Pressappoco in quegli anni in un convento, costruito nei pressi del lago, il fraticello
Martino stava raccogliendo qualche verza che doveva servire per cena. Ogni tanto
si fermava ad ammirare ed osservava la natura circostante, gli uccelli, il cielo, lo
splendido tramonto... A rompere quest’estasi ci pensò il padre priore in persona:
È lunga questa raccolta? Cosa stai contando? le nuvole che passano. Muoviti che
bisogna preparare da mangiare.
Il fraticello distolse lo sguardo dal cielo e in breve tempo raccolse una notevole quantità di verdura.
Il cielo intanto si era oscurato, il vento cominciava soffiare con sempre maggior
forza e non prometteva nulla di buono.
Le finestre del convento sbatacchiavano rumorosamente, gli alberi si curvavano e si
rizzavano, tutt’intorno rumori sinistri da far venire la pelle d’oca. I frati del convento
di Arquà se ne stavano spauriti e silenziosi: chi pensava agli spiriti, chi alle anime
del purgatorio, chi pregava sommessamente.
Si ritrovarono a cena. Era un pasto povero: zuppa di cipolle, un po’ di pane e qualcos’altro, però alla fine due dita di vinello di monte rinfrancavano lo stomaco.
Poi i frati se ne andarono in chiesa per le ultime preghiere, e il vento soffiava che
sembrava volesse sradicare la casa.
Mentre con devozione e con voce cupa cantavano i salmi, si sentì il battente del
portone picchiare tre colpi, tre suoni da far battere il cuore di paura.
“Non apriamo, figlioli”- disse il padre priore.
Dopo un po’ i colpi si ripeterono. E poi ancora “toc, toc, toc”
“Aprite per amor di Dio” diceva una voce fioca, con evidente sforzo per farsi intendere.
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Al sentire la frase “per amor di Dio”, i frati si guardarono l’un l’altro sbiancando in
volto. Non era “l’amor di Dio” la missione della loro vita?
“Padre”- disse Martino timoroso al priore – “che cosa si dirà in cielo se non apriamo
a chi c’invoca per amor di Dio”
“Non preoccuparti, fratello, sono dei facinorosi, dei prepotenti”
Un frate propose di guardare dallo spioncino della porta. C’era ancora un po’ di
luce e il frate vide un povero pellegrino, tutto intirizzito, con una sacca sulle spalle.
Il frate portinaio lo comunicò a tutti e aggiunse:
“Padre, che cosa si dirà domani se si saprà che abbiamo negato un tozzo di pane a
un mendicante?”
“Vai alla porta e apri”, acconsenti bruscamente il priore.
Il padre portinaio si avviò all’uscio, aprì la porta e consegnò al mendicante un pezzo
di pane, ma proprio in quel mentre l’uomo, stremato dagli stenti, svenne.
Lo fecero rinvenire con metodi un po’ bruschi, come si usava allora.
Il pellegrino, appena aperti gli occhi, chiese asilo per quella notte.
“Ma per l’amor di Dio” -andava dicendo il priore- “ci vorrebbe anche questa, che
si stabilisse qui!”
E brontolando continuava:
“Magari domani sta male ancora, e abbiamo un ‘altra bocca da sfamare... coi tempi
che corrono. Le verze, i salami, il vinello dei colli, mica li possiamo dare a tutti”
I frati che avevano fatto tanto bene da poveri, poiché avevano ricevuto in seguito cospicue donazioni, anche da un certo Agilulfo, un guerriero pentito di Attila, che voleva guadagnarsi una cameretta in Paradiso.
I frati, si diceva, un po’ alla volta si erano affezionati alle ricchezze e il novello priore
aveva cominciato a trovare che la vita costava cara, che bisognava aver la testa sul
collo e tener d’occhio i conti. Tenuti d’occhio i conti gli sembrò che per la carità restasse ben poco.
E così fecero uscire il mendicante, che s’arrangiasse! Il povero fraticello si rattristò
molto quando vide il mendico che si allontanava nella notte intirizzito.
Ritornato in chiesa fu colto da grande vergogna e dentro di sé si chiedeva:
“Ma come, noi, che abbiamo come voto la carità, stiamo qui ben riparati e sazi,
mentre il pellegrino, tutto solo, lotta contro il vento con nello stomaco soltanto un
tozzo di pane?”
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Sentendosi in colpa, appena i frati furono nelle loro celle, si levò pian piano, andò
in cerca della chiave del portone che trovò in cucina e aprì l’uscio senza far rumore.
Una folata di vento gli tolse quasi il respiro, ficcò gli occhi nel buio e tenendo ferma
la porta perché non sbattesse, cominciò sommessamente a chiamare:
“Pellegrino, pellegrino...” Non rispose che il vento. “Pellegrino...” continuò. Nulla.
Si protese allora in avanti e i suoi occhi intravidero nell’oscurità un mucchietto di
cenci a ridosso del muro. Accostò la porta e scrollò il poverello che con occhi pietosi lo guardò. Lo aiutò ad alzarsi e lo portò in convento, lo fece sdraiare nel suo giaciglio e lo coprì con la sua coperta. Poi si mise in un angolo e cercò di dormire
anche lui.
Più che dormire sonnecchiò, tanta era la paura che venisse l’alba e i frati scoprissero
che il mendicante era lì. Ai primi barlumi di luce il frate svegliò il mendicante, gli
consegnò qualcosa da mangiare e di soppiatto lo fece uscire. Poi se ne andò a dormire.
Lo svegliò un frate gridandogli:
“Ma cos’hai stamane Martino? dormi che non ti sveglierebbe neppure un terremoto”.
Il fraticello si alzò in fretta e fece i soliti lavori di ogni mattina: portò del fieno in
stalla, abbeverò l’asino e le mucche, poi andò in orto a cogliere le ultime verze.
Il cielo era sereno, non c’era vento, ma si avvertiva qualcosa nell’aria, come se la natura stesse prepararando una sorpresa. E la visita inaspettata venne verso sera: lenta,
lenta scese la neve, che coprì tutta la terra, i colli, i tetti delle case, gli alberi che
sembravano rivestiti di fiori bianchi. Per due giorni cadde la neve, anche il laghetto,
vicino al convento, divenne anch’esso un soffice, candido tappeto.
Terminata la cena, i frati si accingevano ad andare in chiesa quando: “Toc... toc...
toc”, risuonò il battente con un cupo eco per tutto il convento.
Stavolta andò il padre priore in persona, e chi vide? Il mendicante di due giorni prima
che chiedeva pane e ricovero per amor di Dio.
“Ma ti pare, amico? Siamo poveri anche noi. Magari si potessero sfamare tutti i vagabondi! Cammina, figliolo, troverai più avanti.”
Recitato il vespero i frati salirono per il riposo notturno. Martino però, da una finestrella, aveva nel frattempo chiamato e fatto cenno al poverello di aspettarlo.
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Calato il silenzio nel convento, Martino si avvicinò all’uscio e silenziosamente lo
aprì. Vide il poverello accucciato al posto dell’altra volta. Gli si avvicinò, lo aiutò
ad alzarsi e lo prese per mano per introdurlo di soppiatto in convento. Ma quale fu
il suo stupore quando trovò il portone chiuso: lui l’aveva lasciato ben aperto e vento
non ce n’era! Con tutta la forza che aveva cominciò a scrollare l’uscio gridando più
volte:
“Aprite, fratelli, aprite!”. Nessuno rispose.
Martino pensò che tutto ciò fosse stata opera del priore, che così lo voleva punire.
Si accingeva con rassegnazione a passare la notte all’aperto, quando il pellegrino, lo
prese per mano con un’energia inaspettata, poi gli disse:
“Vieni con me, ti condurrò io in un ricovero”.
Camminarono silenziosamente nella neve per un breve tratto, quando improvvisamente si udì alle loro spalle un rombo cupo, come un boato. Il fraticello si voltò e
vide levarsi, dov’era prima il convento, colonne d’acqua altissime fra un guizzare di
lampi e orrendi fragori. Sarebbe caduto se il pellegrino non lo avesse sostenuto e
mentre lo teneva tra le braccia gli ripeteva:
“Non temere”.
Poi tutto cessò, al posto del convento c’era solo acqua fumante con grandi chiazze
di zolfo.
Una voce risuonò nel buio:
“Vieni con me, non girarti, lascia i morti ai morti. Gesù è sceso dal cielo per ricevere un pezzo di pane e tu glielo hai dato. Il convento era salvo finché un alito di carità lo animava, uscito te, è restato privo di vita e come un corpo morto è sepolto nel
fondo del lago”.
Giunsero ad un capanno abbandonato che Martino non ricordava di avere mai visto,
alzò allora gli occhi verso il suo compagno e lo vide radioso, come illuminato da una
grande luce, poi il chiarore e il pellegrino sparirono.
Il fraticello il giorno dopo proseguì il suo cammino, confortato nel cuore da quella
visione divina, si ritirò sul mote Gemola e visse da santo eremita.
Da quella volta una parte dell’acqua del lago di Arquà è solforosa e così profonda
che nessuno mai ne toccò il fondo. Da allora tutti dissero che comunica direttamente
con l’inferno.
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Narratore:
Quella notte il poeta dormì poco davvero, con tutto quelle che gli era capitato...
Naturalmente pensava incessantemente a Laura e ripeteva a se stesso continuamente:
la rivedrò ancora? E quando? Di che cosa parlerò? Cosa posso chiederle?
Riposò solo poche ore. Al primo biancheggiare del cielo era già in piedi, si accomodò
al tavolo dove abitualmente scriveva, trasse da sotto un volume alcune carte, e là
c’erano bozze di poesie, pensieri sparsi, in un foglio soltanto erano scritte solo poche
righe e la sua attenzione si fissò su quello: era l’invocazione alla Vergine di cui Laura
gli aveva parlato; aveva scritto alcuni versi poi aveva accantonato il lavoro.
Si era alzato appena sveglio, anche perché dentro di sé aveva sentito una nuova forza
poetica che lo spingeva a continuare lo scritto.
La stanza dove il Petrarca leggeva e scriveva era piena di libri, sul tavolo accanto a
sé teneva il suo “Virgilio”, il libro più caro al poeta, il volume conteneva alcune
opere del grande poeta latino, inoltre il Petrarca in una pagina aveva annotato, tra l’altro, anche la data della morte di Laura.
Per terra, appoggiato ad uno stipite, si notava un libro enorme che conteneva gli
scritti di Cicerone, uno dei suoi autori preferiti, era un volume così pesante che un
giorno mentre lo spostava gli cadde addosso e per poco non gli spezzò una gamba.
E poi qua e là altri volumi, pacchi di lettere, fogli di ogni tipo.
Quella mattina lavorò sempre, fino a quando la figlia non lo chiamò per andare a
mangiare.
Francesca:
Babbo, il pranzo è pronto. Basta con queste scartoffie, libri, poesie, epistole, ma non
ti stanchi mai?
Petrarca:
La poesia è la mia vita. Quando scrivo versi rifletto sulla vita, mia e di tutti gli esseri, sull’amore, sull’anima, su ogni cosa...
Francesca:
Sì, sì d’accordo. Però vieni a gustare il pranzetto che ti ho preparato oggi: una zuppa
con verdure del “tuo” orto, poi ho cucinato allo spiedo anche un fagiano, quello catturato da Pancaldo, e ci ho messo attorno, mentre rosolava, per profumarlo, anche
alcune foglie di lauro.
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Petrarca:
Eh, lo so, che vuoi stuzzicarmi pronunciando questa parola, ma non ci casco.
Francesca:
No, nessuna allusione; ci mancherebbe... Però sbrigati, altrimenti tutto si raffredda.
Per farti compagnia ho invitato anche il tuo amico Lombardo e il copista Bartolomeo.
Per completare il quadretto, non invitata, c’è anche Filomena, la tua amatissima
gatta, che ha gli occhi fissi sul fagiano e si lecca i baffi.
Petrarca:
Tu ce l’hai un po’ su con la mia gatta, mi pare...
Francesca:
Per forza, è sempre tra i piedi: è ladra e anche irascibile. Ieri ha graffiato una mano
ad Eletta che voleva solo accarezzarla.
Petrarca:
Su, non farla tanto lunga. Se non ci fosse lei le mie carte sarebbero tutte rosicchiate
dai topi. È la guardiana della mia poesia.
Narratore:
A tavola la nipotina gli chiese insistentemente di raccontarle ancora la leggenda del
laghetto.
Petrarca:
Te la narrerò di sicuro, oggi sono stanco. Lasciami riposare, ieri ho fatto una lunga
passeggiata e la stanchezza affiora adesso.
Narratore:
Da quel giorno in poi Francesco non ebbe più pace, pensava sempre di recarsi sul
luogo dove aveva incontrato Laura. La figlia Francesca era preoccupata, lo trovava
strano, instabile; ne aveva parlato anche con l’amico medico Giovanni Dondi, che era
venuto ad Arquà per invitarlo ad andare a Padova.
Dondi era l’unico medico che il Petrarca potesse sopportare, con gli altri aveva avuto
cattivi rapporti, tanto che contro questi “ciarlatani” aveva scritto addirittura alcuni
opuscoli.
Questa volta Francesco non diede nessun peso ai consigli e ai pareri del suo amico medico. Niente da fare, il pensiero fisso di Petrarca erano le passeggiate. “Piccole manie
delle persone di una certa età”, aveva sentenziato il Dondi, e se ne era tornato in città.
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E finalmente venne il giorno di un nuovo incontro, più o meno là dove si erano visti
la prima volta.
Era domenica, lontano le campane di Arquà spandevano il loro suono gioioso. Francesco, seduto accanto ad un ulivo, con la testa appoggiata al tronco e con gli occhi
socchiusi pensava e sognava: quanti paesi,villaggi, città aveva visitato! Era un irrequieto, aveva girato l’Europa in lungo e in largo: Avignone, Roma, Napoli, Praga,
Parigi, Parma, Venezia ed ora era lì, in un solitario piccolo paesetto in mezzo ai colli.
Sentì all’improvviso come un fruscìo, aprì gli occhi: era lei, splendente come un
raggio di sole.
Laura:
Bravo Francesco, la tua canzone alla Vergine è una preghiera dettata dal cuore, un
inno così intenso che mai nessuno potrà uguagliare. Tra non molto l’avrai finita e allora mi rivedrai.
Petrarca:
No, Laura, non andartene. Ho aspettato questo momento da giorni e giorni. Vorrei
parlare con te, chiederti..., sentire la tua voce.
Ricordo sempre il giorno che appresi della tua morte, la peste ti aveva raggiunto e
tu non eri più di questa terra. Scrissi una poesia:
“Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo/ oimè il leggiadro portamento altero...”.
Laura:
Sì, sì, Francesco, ho visto la tua disperazione che così bene hai espresso nei tuoi
versi, per te è stata un’angoscia, per me una liberazione. Sono andata là dove ogni
umano affanno non conta nulla. Ora so tutto di te, anche se non ero presente in vita
accanto a te. Mi hai resa famosa e i tuoi versi sono così belli e intensi che ti sei meritato l’onore di essere laureato “poeta”.
Petrarca:
Hai ricordato uno dei giorni più felici della mia vita. Avevo 37 anni, il nobile Orso
dell’Anguillara mi mise la corona sul capo, m’incoronò poeta a Roma, in Campidoglio. Indossavo il “manto d’onore” che mi aveva regalato il re di Napoli, Roberto
d’Angiò. Ricordo gli squilli di tromba, gli applausi della folla, le lodi dei letterati e
dei nobili.
Riposi poi la corona d’alloro sull’altare principale della chiesa di San Pietro.
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Laura:
Un bel gesto, verso Dio e verso la Chiesa. La tua vita è stata un inno alla poesia, ai
sentimenti, la poesia piace a tutti, ma come hai scritto tu in un famoso sonetto:
“quanto piace al mondo è breve sogno”.
Prega Francesco, per te e per i tuoi cari. Verrò presto...
Narratore:
Francesco non riuscì a dire più nulla, nemmeno una parola, ma dentro di sé era pervaso da grande gioia e serenità.
I giorni nella sua casa di Arquà passavano tranquilli, tra letture di autori famosi e
riletture delle sue poesie per correggere, aggiungere, aggiustare i versi, le rime, le parole.
Andava ancora a passeggiare tra i boschi e le colline, riceveva amici che giungevano
anche da lontano per salutarlo ed omaggiarlo. Era anche andato, anche più di una
volta, a conversare con l’amico Gerardo.
Un pomeriggio si spinse abbastanza lontano, in un sentiero poco frequentato. Percorse circa due miglia e si sedette all’ombra di un castagno, trasse dalla sua sacca la
lettera che gli aveva spedito tempo prima l’amico Boccaccio e cominciò a leggerla.
Era una lettera che conteneva diverse notizie riguardanti amici comuni e anche un
invito a recarsi a Firenze. Il Boccaccio inoltre lo ringraziava per aver voluto tradurre
magistralmente in latino una delle sue cento novelle, l’ultima, quella di Griselda, l’umile guardiana di pecore.
La cosa però che lo stupì di più e lo fece sorridere era il fatto che Giovanni Boccaccio gli inviava una spiritosa novella, quella di Chichibìo e la gru. Giovanni scriveva
che voleva dedicare la novella a Eletta, che lui aveva conosciuto a Venezia e che gli
ricordava tanto la sua figlioletta Violante, scomparsa purtroppo a 5 anni e mezzo.
Francesco stava per iniziare a leggere la novella quando sentì in lontananza uno scalpitìo di zoccoli. Non fece neppure in tempo ad alzarsi che si trovò davanti due brutti
ceffi a cavallo. Senza tanti complimenti, gli intimarono di salire su un cavallo. Il
poeta, come noto, non amava queste bestie e stava lì fermo, senza fiatare, ma i due
gaglioffi lo alzarono di peso e lo misero in groppa a uno di questi animali, uno di loro
poi montò a cavalcioni assieme a lui e tutti si diressero verso una fitta boscaglia.
Francesco provò a chiedere spiegazioni ai due, ma era come parlare a un muro. Allora se ne stette zitto. Dentro di sé pensava: “Questi banditi mi hanno rapito, ma perché ? Vogliono soldi o cosa? Sanno chi sono? E dove mi portano?”.
Aveva avuto ancora a che fare con dei “poco di buono”. Si ricordò di quando in barca
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navigò sul Po, da Milano al mare: i barcaioli e i suoi servitori erano terrorizzati alla
vista di certi gaglioffi che li fermarono, ma quando il poeta si fece riconoscere, tutti
lo ossequiarono e lo riempirono di doni.
“Speriamo sia così anche stavolta”, pensò Francesco. Intanto, trascorso un bel po’ di
tempo, finalmente raggiunsero un luogo aperto, pieno di rocce, di sassi e di caverne.
Era il luogo che oggi chiamano “el buso dei briganti”, presso il monte Cinto. Anche
allora era un covo di malfattori e di banditi, ma anche di fuggiaschi, accusati, magari ingiustamente, di delitti che non avevano mai commesso.
Era quasi notte, i due banditi tirarono giù il malcapitato da cavallo e lo fecero sedere
su un masso, accanto ad un piccolo falò.
Ad un certo punto gli si parò dinnanzi un uomo, dall’aspetto fiero, vestito con rozzi
abiti di pelle di animali, il viso aveva però lineamenti regolari e armoniosi e questo
rassicurò un po’ il poeta.
Brigante:
Chi sei? Come ti chiami?
Petrarca:
Mi chiamo Francesco Petrarca e sono...
Brigante:
Francesco Petrarca? Ma sei il poeta? Il cantore di Laura? Stai scherzando?
Petrarca:
Non ho proprio nessuna voglia di scherzare. Sono proprio chi ho detto di essere
Brigante:
Per la misera assassina! Ma guarda questi miei stupidi compari cosa mi hanno combinato. Mio illustre poeta, i due poveri ignoranti a cavallo l’hanno combinata grossa.
Dovevano rapire un signorotto del posto, che forse assomiglia un po’ a te, e si sono
sbagliati. Ti hanno visto ben vestito, dall’aspetto nobile, ben curato e hanno pensato
di fare il colpo grosso.
Petrarca:
I miei di casa mi staranno cercando: staranno in ansia, mia figlia Francesca, la mia
nipotina.
Se avete sbagliato, riportatemi a casa subito, te ne prego.
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Brigante:
Eh, non è così facile. Intanto ora è impossibile, è notte fonda e nessuno si può muovere. Solo i lupi, con questo buio, sanno orientarsi. Ti troverò un posto accogliente
dove tu possa passare una notte tranquilla. Per il rispetto che provo per te, ti cederò
la mia capanna.
Petrarca:
Sì, sì, capisco. Però domani riportami ad Arquà anche per la tua tranquillità.
Non vorrei che Francesco da Carrara, mio amico e signore di Padova, venisse a conoscenza del rapimento e sguinzagliasse i suoi soldati in queste zone per ricercare
me. Sarebbero dolori per tutti.
Brigante:
I Da Carrara! Buoni quelli! So chi sono e come si comportano! Bella razza!
Petrarca:
Perché disprezzi i Carraresi? Io ho avuto da loro grandi favori, pensa che Francesco
da Carrara mi ha regalato un terreno con una casupola ad Arquà, qui ho fatto costruire la mia confortevole abitazione.
Ma tu, di grazia, chi sei?
Brigante:
Io mi chiamo... no, il mio vero nome non voglio rivelarlo. Sappi che ero al servizio
dei Carraresi, sono anch’io di nobile famiglia, frequentavo la corte dei Carraresi ed
ero amico di molti potenti. Un giorno però, ma... lasciamo stare. Per farla breve,
sono stato accusato di far parte di una congiura il cui scopo era quello di uccidere
un nobile di grande fama amico dei Da Carrara. Non c’entravo nulla, però ebbi notizia che volevano imprigionarmi. Ho scelto la libertà per evitare la tortura, la forca,
l’impiccagione.
E mi sono rintanato sui colli, nessuno sa dove io possa essere. Qui vivo in mezzo a
gente di ogni specie: banditi, ladri, malfattori, ma anche fuggiaschi come me o individui che non vogliono essere servi di nessuno. Io sono il loro capo e, per quel che
posso, cerco che almeno non diventino assassini. Se vuoi darmi un nome chiamami,
come tutti qui, “il Brioso” e qualcuno aggiunge: “brigante amoroso”. “Brioso” perché, anche se non pare, sono allegro e buontempone, “amoroso” perché mi piacciono e corteggio tutte le belle ragazze.
Ed ora, mio nobile poeta, è meglio andare a riposare, ti auguro sonni tranquilli.
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Narratore:
Alcuni uomini fecero accomodare Francesco in una capanna appoggiata ad una roccia. Per terra c’era una specie di materasso che conteneva cartocci di granoturco,
sopra erano stese pelli di pecora e di capra, il letto insomma non era poi così diverso
da quello di casa sua.
La luna era alta nel cielo e la luce filtrava attraverso le canne fino al giaciglio di
Francesco. Il poeta con gli occhi fissi al soffitto della casupola cominciò a pensare
ai suoi, a Francesca, alle congetture che tutti in quel momento stavano facendo sulla
sua scomparsa. Forse immaginavano che si fosse smarrito o caduto in una fossa o...
chissà.
E cominciò ad invocare Laura perché lo salvasse, lo aiutasse, lo consolasse almeno.
E Laura improvvisamente gli apparve: tutta la catapecchia s’illuminò, come se la
luna fosse entrata assieme alla donna amata.
Laura:
Caro Francesco, capisco la tua pena, la tua ansia. Sono venuta solo per pochi attimi,
per incoraggiarti e confortarti. Non avere paura, non succederà nulla.
Petrarca:
Mia dolce consolatrice, non temo per me, ma penso a mia figlia. Sarà disperata,
non si darà pace e darà la colpa a se stessa per non avermi accompagnato. Penso in
questo momento a mio fratello Gerardo, beato lui, si è fatto frate, ora è tranquillo
nel suo convento, prega Dio e pensa solo alla sua anima. Non ha figli e perciò nessuna preoccupazione terrena. Potessi anch’io raggiungere la sua pace.
Laura:
Era la scelta che dovevi fare anche tu un tempo: dedicarti solo a Dio. Ma la ricerca
della gloria, la poesia e l’ amore per la mia persona ti hanno sempre distolto.
Non preoccuparti per tua figlia, tra non molto tornerai a casa, stai in pace
Narratore:
Francesco, sentite queste parole, chiuse gli occhi senza pensare a nulla. Riposò tranquillo, come un bambino al quale la mamma abbia dato la dolce carezza della buona
notte.
La mattina dopo fu svegliato quasi di soprassalto dalle grida dei briganti: chi dava
ordini, chi imprecava, chi diceva che doveva andare...
Apparve ad un certo punto sulla soglia il gran capo dei briganti, il Brioso appunto,
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che invitò il poeta ad alzarsi e, diciamo così, a far colazione: latte di capra e formaggio pecorino. “Niente male, però” pensò dentro di sé Francesco.
Brioso, ad un certo punto, fece accomodare su una pietra a forma di sedile e ricoperta di pelle di montone, il Petrarca, che sembrava un po’ spaurito e non proprio a
suo agio.
Brigante:
Tranquillizzati, mio gradito ospite, non aver timore. In giornata i miei uomini andranno in perlustrazione e se vedranno che in paese tutto è calmo, ti condurremo ad
Arquà. Spero che stanotte tu abbia ben riposato
Petrarca:
Sinceramente, poche volte ho dormito così profondamente. Solo che stamattina mi
sono accorto che le zanzare mi hanno divorato, saranno state centinaia, ho punture
dappertutto.
Brigante:
Eh, qui le zanzare sono grosse come cavallette...
Petrarca:
Non posso sopportare questi insetti. Pensa che una sera a Luzzara, in Emilia, alcuni
miei amici e notabili del posto mi avevano preparato una sontuosa cena. Solo che ad
un certo punto ci assalì uno stuolo di mosche e soprattutto di zanzare; cena rovinata
e gran dispiacere per i miei amici. Per giunta quando sembrava che questi insetti se
ne fossero andati, la stanza fu invasa da centinaia di rane saltellanti sbucate da chissà
dove. Un disastro!
Brigante:
Chissà quante cose ti saranno capitate, quante città avrai visitato e quanti fatti interessanti, piacevoli o sgradevoli avrai vissuto. Il tuo nome è conosciuto dappertutto.
Quando ero a Padova ho incontrato un nobile che ti aveva ossequiato a Napoli, al
tempo di Roberto d’Angiò.
Petrarca:
Ah, il d’Angiò... il re di Napoli. Fu lui che mi invitò in quella città perché fossi incoronato poeta, poi andai a Roma e lì mi cinsero il capo con la corona d’alloro, in
Campidoglio.
Oltre al d’Angiò, nella città del Vesuvio, conobbi una donna straordinaria, la chiamavano “Maria la pazza”, aveva una forza incredibile. Una volta l’ho incontrata, ho
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parlato con lei, le ho perfino dedicato una breve poesia. Dopo averla letta, mi ha abbracciato e sollevato come avesse tra le mani un bambino. Mi hanno narrato che
morì eroicamente combattendo contro i pirati.
Brigante:
Anche tra noi ci sono donne coraggiose che hanno seguito i loro uomini,anche se
avrebbero potuto starsene comode nelle loro case.
Certo, non fanno una vita tra agi, trine e merletti, ma forse sono più felici delle dame
che certamente hai conosciuto tu, magari alla corte di D’Angiò.
Petrarca:
Tornai anni dopo a Napoli, Roberto d’Angiò era morto e la città era in rovina, in
tutti i sensi.
Un giorno fui testimone di un fatto che non dimenticherò mai: un maremoto di proporzioni enormi distrusse il porto e sfasciò letteralmente tutte le imbarcazioni, tranne
una. E sai chi c’era in questa barca? Un gruppo di briganti!
Brigante:
I briganti sanno sempre cavarsela! Ma dimmi, ti voglio fare una domanda un po’
personale.
Ti chiamano “il cantore di Laura”, ho letto qualche tuo sonetto scritto per lei e,
quando ero a Padova, certi letterati mi hanno riferito che hai scritto centinaia di poesie per questa donna, versi e versi che, a quando dicevano, trattavano argomenti, per
così dire, spirituali, celestiali, mistici.
Ma tu, l’hai mai almeno baciata questa Laura? Hai conosciuto altre donne oltre a lei,
Hai dei figli?
Petrarca:
Sono domande alle quali non posso e non voglio rispondere. Tu forse vivi in un
mondo che non mi appartiene. Laura è la poesia, è l’amore puro, è... e non voglio aggiungere altro.
Brigante:
Mi scuso della mia sfacciataggine e villania. Mi piacerebbe leggere i tuoi componimenti, forse l’animo mio sarebbe meno rozzo e allora mi rivolgerei alle donne che
conosco e che corteggio con parole gradevoli, poetiche, dolci.
Ma, senti un po’, tu che hai scritto migliaia di versi d’amore, non potresti suggerirmi qualche bella frase, diciamo così, che faccia innamorare, dolce, invitante...
Ho conosciuto una bella ragazza bionda in un paese qui vicino. A rischio di essere
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arrestato ogni tanto vado a trovarla, ma non mi dà retta, pare che di me non le importi nulla. Magari con qualche bella frase...
Petrarca:
La tua richiesta fa sorridere, mi ricorda la mia giovinezza. Posso anche suggerirti
qualche frase per così dire “amorosa, ma...
Brigante:
Per esempio? Dimmene qualcuna.
Petrarca:
Dunque, vediamo un po’.
Se lei è bionda le puoi dire: “I tuoi bei capelli, che fanno l’oro e il sol parer men
belli”.
Oppure, che so, se desideri puntare sull’amabilità, dirai: “tu porti dolcezza che uomo
mortal non sentì mai”.
O anche, se vuoi essere proprio “poeta”, potrai esprimerti così:“quand’io vedo dal
ciel scender l’aurora, amor m’assale e dico sospirando: tu sei lì ora”.
Però, ognuno deve parlare, comunicare come gli detta il cuore, in prosa o in poesia,
non ha importanza. Ciò che conta è dimostrare sincerità.
Brigante:
Anche da questi tuoi pochi versi comprendo che sei un grande poeta. Non so se riuscirò a ripetere quanto mi hai suggerito, parole così stonerebbero dette da me
Petrarca:
Ci si può esprimere benissimo anche in prosa, un bel racconto, una bella storia a
volte affascinano
Guarda, ho qui una lettera di un mio amico, Giovanni Boccaccio. Pensa che questo
narratore ha scritto cento novelle, una più originale dell’altra.
Stavo leggendo questa lettera quando i tuoi uomini mi hanno rapito. Questo mio
amico mi ha anche inviato, assieme alla lettera, una novella dedicata alla mia nipotina, è piuttosto divertente, avrei dovuta raccontargliela la sera del mio rapimento.
La storiella parla di un cuoco veneziano e di una gru, se vuoi te lo leggo, tanto, mi
pare, di tempo ne abbiamo.
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Brigante:
Certo. Però prima di andare avanti dimmi cos’è una gru, lo sai che io non ne ho mai
visto una? Come sono fatte?
Petrarca:
Le gru sono uccelli acquatici che vivono nelle paludi e lungo i fiumi. Hanno delle
lunghe gambe e, stranezze della natura, quando dormono si appoggiano solitamente
su una gamba sola
CHICHIBÌO E LA GRU
Viveva a Firenze un nobile cittadino chiamato messer Corrado, generoso con tutti,
il quale, buon cavaliere, si dilettava continuamente di cani e di uccelli, per non parlare delle sue opere di maggior conto.
Un giorno, nei pressi di Peretola, egli prese col falcone una bella gru e, trovatala
giovane e grassa, la mandò ad un suo abile cuoco, un veneziano che si chiamava
Chichibìo, con l’ordine di arrostirla con ogni cura e servirgliela a cena.
Chichibìo la prese e si preparò per cuocerla. Quando la cottura fu quasi al termine,
cominciò a diffondersi un odore gradevolissimo. Venne a passar di lì una ragazzetta
della contrada, la quale era chiamata Brunetta e di cui il buon Chchibìo era innamoratissimo. Ella entrò nella cucina e nel sentire l’odore della gru e nel vederla sul
fuoco, si mise a pregare Chchibìo di dargliene una coscia.
-No davvero- rispose Chichibìo,- proprio non posso.
Donna Brunetta se ne corrucciò molto e infine disse:
-In fede di Dio, se non me la date, vi giuro che non vi guarderò più in faccia.
E così andarono avanti a litigare, finché Chichibìo, per non vederla adirata, tagliò una
coscia alla gru e gliela diede.
La gru fui portata così, senza una coscia, alla mensa di Corrado che aveva invitato
un amico suo. Corrado, molto stupito, fece chiamare Chichibìo e gli chiese cosa
fosse avvenuto dell’altra coscia della gru.
Il brav’uomo rispose subito:
-Le gru hanno una coscia sola e una gamba.
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-Cosa diavolo dici, hanno una sola coscia e una gamba? - domandi
- domandò Corrado.- E’ forse questa la prima gru che vedo?
-Messere, -insistè Chichibìo, - è proprio così, come vi dico; e ve lo farò vedere negli
uccelli vivi quando vorrete.
Corrado, per non far discorsi davanti ad un invitato, volle tagliar corto e concluse:
-Va bene, lo vedremo domattina, e se sarà come dici sarò contento: Ma ti giuro che,
se sarà altrimenti, ti farò conciare in maniera tale che ti ricorderai di me finché
campi.
Per quella sera non fu detto altro, ma il mattino dopo, appena sorto il sole, Corrado,
a cui non era sbollita affatto l’ira durante la notte, si alzò ancor pieno di stizza e comandò di sellare i cavalli. Fece poi montare Chichibìo sopra un ronzino e lo condusse sulla rive di un fiume, dove, sul far del giorno, si vedevano sempre delle gru.
-Adesso vedremo chi di noi due ha mentito ieri sera - disse Corrado minaccioso.
Chchibìo, vedendo che l’ira del suo padrone era ancora viva e che doveva provare
la sua bugia, cavalcava pieno di paura a fianco di Corrado senza sapere cosa dovesse
fare. Se la sarebbe volentieri data a gambe, se avesse potuto, ma , poiché purtroppo
non poteva, si guardava ora davanti, ora dietro, ora di fianco, e in tutto ciò che gli appariva gli sembrava di vedere delle gru piantate su due gambe.
Arrivati però nelle vicinanze del fiume, riuscì a vedere prima degli altri ben dodici
gru, le quali se ne stavano tutte su una gamba sola, come sogliono fare quando dormono. Chichibìo si affrettò dunque a mostrarle a Corrado dicendo:
-Messere, potete vedere molto bene che ieri sera vi dissi il vero. Le gru hanno una
sola coscia e un solo piede, guardate là.
Corrado lo guardò un poco e poi rispose:
-Aspetta, e ti farò vedere che ne hanno due.
E, avvicinatosi agli uccelli, gridò:
- Oh ! Oh !
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A quel grido le gru mandarono giù l’altro piede e, fatto qualche passo, presero a fuggire.
Corrado si rivolse allora a Chchibìo dicendo:
-Che ti pare furfante? Non ti sembra che ne abbiano due?
Chichibìo, mezzo tramortito, non sapendo in che mondo fosse, rispose:
-Messer sì, ma voi non avete gridato “oh ! oh!! alla gru di ieri sera, se aveste gridato così essa avrebbe mandato fuori l’altra coscia e l’altro piede, come hanno
fatto queste.
A Corrado questa risposta piacque tanto che tutta la sua ira si convertì in riso e allegria, e disse:
-Hai ragione Chichibìo, dovevo far così.
E Chichibìo, con la sua pronta risposta, sfuggì al pericolo e si rappacificò col suo padrone.
Brigante:
Divertente questa storia. Mi piacerebbe conoscerlo, questo Boccaccio. Che mi raccontasse magari qualche altra sua novella.
Petrarca:
Ogni tanto viene a trovarmi o mi scrive. Mi piacerebbe che lo incontrassi, basta che
non ti salti in mente di farlo rapire come è capitato a me...
Narratore:
Letta la novella i due parlarono ancora a lungo del più e del meno, delle loro esperienze, della loro vita.
Francesco però, malgrado le velate insistenze del Brioso, non disse nulla né di Laura,
né dei due figli che aveva avuti nel corso della sua esistenza, né tanto meno del fatto
che gli era apparsa Laura diverse volte.
Accennò solo al fatto che la donna da lui tanto amata era morta di peste anni prima
quando lui aveva più di 40 anni, ma questa sventura non gli aveva impedito di amarla
come e più di prima e di scrivere sonetti e altre poesie per lei.
L’avventura dei briganti, non del tutto sgradevole, a ben vedere, finì presto. Il Brioso
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lo accompagnò personalmente con il suo cavallo vicino al sentiero che portava ad
Arquà, si scusò ancora con lui e gli regalò persino il suo coltello dall’impugnatura
d’argento.
Ritornato alla sua abitazione il poeta fu accolto dalla figlia e dagli abitanti del borgo
con enorme gioia e grande stupore. E tutti a chiedergli dove era andato, cosa aveva
fatto, chi aveva incontrato.
Francesco non parlò della sua avventura, accampò scuse piuttosto banali, disse che
aveva perso la memoria, che gli pareva di essere stato ospite di un contadino, che
aveva la testa confusa, e così via.
Passavano i giorni e il poeta continuava a leggere, scrivere, rivedere i suoi componimenti, rare le passeggiate ormai e, per volere della figlia, sempre accompagnato da
qualcuno, dopo quello che era successo...
Una sera, era il 18 luglio, Francesco si affacciò alla finestra, il sole sfiorava i colli,
sembrava volesse accarezzarli, le viuzze pietrose del borgo erano deserte, lontano si
sentivano soltanto alcune grida di fanciulli che si rincorrevano, dall’oratorio della
SS. Trinità, costruito a pochi passi dalla casa del poeta, si levavano i lenti rintocchi
dell’Ave Maria: un saluto agli uomini e alla natura prima che il buio ricoprisse ogni
cosa. Il poeta si fece il segno della croce, si allontanò dal balcone e si sedette accanto
a Francesca. Parlarono a lungo di tante cose, degli amici lontani, della poesia e dei
poeti, dei viaggi e delle città, della piccola Eletta.
Ad un certo punto Francesco sospirò profondamente e.
Petrarca:
Quanti ricordi, vero Francesca? I rintocchi delle campane mi hanno riempito di
grande tristezza, mi vengono alla mente le persone che ho amato e che sono scomparse. Tuo fratello Giovanni, povero ragazzo, morto a Milano di peste a soli 24 anni.
Mi ha dato tanti dispiacerei, ma in fondo aveva un animo generoso.
Francesca
Me ne hai parlato pochissime volte, ma gli sei stato vicino?
Petrarca:
Ho cercato di dargli un’educazione conveniente, ha avuto ottimi maestri, ma non
c’è stato nulla da fare e io purtroppo ero sempre in viaggio. “Più giro il mondo e
meno mi piace”, ogni tanto ripetevo a me stesso. Ma il desiderio di conoscere, di scoprire, di ricercare i testi degli antichi scrittori mi ha spinto a vagabondare per tutta
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l’Europa. E ora sono qui accanto a te, che mi assisti amorevolmente, forse trascurando anche tuo marito
Francesca:
Guarda che Francescuolo non si è mai minimamente lamentato, lui ti ammira e ti rispetta come nessun altro.
Petrarca:
Gli sono grato. Ora, Francesca, vado a riposare, sono molto stanco e la testa mi pesa
come un macigno. Sai, ho completato l’invocazione alla Vergine: è una preghiera
che mi è sgorgata dal cuore, ho scritto come se qualcuno mi guidasse la mano... Domani te la farò leggere.
Narratore:
Francesco si ritirò nella sua camera e si sedette al tavolo. Anche se era spossato voleva rivedere la poesia che aveva appena terminato. La rilesse, gli parve il più bel
componimento poetico che avesse mai scritto.
Prese poi il libro che gli era accanto, era il “suo Virgilio”, aprì il volume con lentezza
e i suoi occhi caddero sul risguardo, su quel foglio aveva annotato anni prima, con
mano tremante, la data della morte della sua Laura.
Una fresca brezza entrò a poco a poco nella stanza, il soffio di vento si fece sempre
più forte finché la candela accesa posata sullo scrittoio si spense.
Francesco sentì un brivido attraversargli il corpo, chinò la testa sul libro.
Un chiarore apparve accanto al suo viso, gli occhi socchiusi lo scorsero appena,
sentì però una carezza che lo sfiorava e una voce sussurrò:
Dormi Francesco, mio dolce poeta, io ti accompagnerò verso la vera luce.. dormi
Francesco.
E gli occhi del grande poeta si chiusero per sempre.
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LXI
Benedetto sia ‘l giorno, et ‘l mese, et l’anno,
et la stagione, e ‘l tempo, et l’ora, e ‘l punto,
e ‘l bel paese, e ‘l loco ov’io fui giunto
da’ duo bei occhi che legato m’ànno;
et benedetto il primo dolce affanno
ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l’arco, et le saette ond’io fui punto,
et le piaghe che ‘infin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch’io
chiamando il nome de la mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e ‘l desio;
et benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio,
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’à parte.
Benedetto sia il giorno, il mese, l’anno, la stagione, il tempo, e il momento, e il bel
paese (la Provenza), e il luogo (la chiesa di S. Chiara in Avignone), dove fui raggiunto da uno sguardo che giungeva da due occhi meravigliosi che mi legarono per
sempre a loro, e sia benedetta la prima dolce sofferenza che provai nell’essermi innamorato, e siano benedetti l’arco e le frecce dalle quali fui colpito, e le ferite che
giungono fino al cuore.
Siano benedette tutte le numerose parole che io ho diffuso parlando della mia amata,
così come i sospiri, le lacrime e il desiderio, e siano benedetti tutti i versi con cui io
la rendo famosa, e il mio pensiero è occupato soltanto da lei, di modo che nessun’altra donna può trovarvi spazio.
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Il lago di Arquà visto dal Calbarina
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