rivista semestrale direzione: claudio ciociola, mario mancini, francesco sabatini, cesare segre, alberto varvaro comitato di direzione: stefano asperti, carlo beretta, eugenio burgio, lino leonardi, salvatore luongo, laura minervini volume xxxVIi (vII della iV serie) fascicolo ii salerno editrice • roma mmXiIi Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 5617 del 12.12.2007 Il volume viene stampato con un contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2013 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. TRA NORMA E STI LE: QUE STION I M ETRIC H E E ATTRI BUTIVE DI P OE S IA ROMAN ZA* Prendo lo spunto da un esempio di poesia moderna, da Carducci e dalla terza strofa di La guerra (1891), un’ode alcaica brutta ma interessante alla quale ho dedicato un piccolo saggio per il centenario carducciano:1 Quindi gorgoglia sangue ne i secoli La faticosa storia de gli uomini, Dal Pàrthenon grande a la tua Casa candida, Vasingthòno. 12 Uno di coloro che reagirono a caldo con interventi e opuscoli, Vittorio Da Camino, fece subito notare che il quarto verso è sbagliato, cioè di nove sillabe invece che di dieci.2 Esaminando i foglietti sui quali Carducci elaborò la poesia e la bozza della prima stampa,3 si nota che, sebbene la prima par te del testo sia piuttosto tormentata, a differenza della seconda, per que sto verso non c’è alcuna variante: eppure è certamente sbagliato, come sono sbagliate le prime stesure di altri quarti versi, per i quali a Carducci era scappato un endecasillabo. Insomma, un errore d’autore, che l’autore avreb be certamente corretto se se ne fosse accorto subito, ma che poi lasciò tale e quale raccogliendo l’ode in Rime e ritmi nel 1899. Qui, in effetti, un rimedio del tipo o Vasingthòno (Vashingtòno nella grafia emendata nella stampa in raccolta), con dialefe, sarebbe stato quasi peggiore del male: il verso sareb be stato da riscrivere.4 L’errore di metrica d’autore, particolarmente se è di queste proporzioni (una sillaba in piú o in meno, o una rima imperfetta), è un’eventualità che non mette in crisi la norma, senza la quale non sarebbe un errore, e che si può emendare, quando si disponga di un emendamento almeno ragione* Testo presentato al seminario Il contributo della stilistica alla critica testuale: il cursus e la metrica come strumenti ecdotici, coordinato da Paolo Chiesa, alla Fondazione Ezio Franceschini (Firenze, Certosa del Galluzzo) il 28 novembre 2011, con qualche modesto intervento successivo. 1. P.G. Beltrami, Carducci e ‘La guerra’, in « Per leggere », xiii 2007, pp. 135-49. Testo della prima edizione in opuscolo: La guerra. Ode di Giosue Carducci, Bologna, Zanichelli, 1891 (finito di stampare il 14 novembre 1891, vd. a p. 13). 2. V. Da Camino, La ‘Guerra’ di G. Carducci, Torino, Tipografia Spandre e Lazzari, 1892, p. 19. 3. Conservati nella Biblioteca di Casa Carducci, a Bologna, cartone III 66. 4. G. Carducci, Rime e ritmi, Bologna, Zanichelli, 1899. Vashingtòno per Vasingthòno è l’unica correzione. 241 pietro g. beltrami vole (cioè non sempre), con la motivazione che l’autore l’avrebbe corretto se se ne fosse accorto. Per tradizioni manoscritte da ricostruire, una prima osservazione è però che un errore di questo tipo si confonde con un errore d’archetipo: e se è vero che un archetipo non dimostrabile potrebbe esserci anche in assenza di errori comuni, se la tradizione risalisse a un’unica copia che ha innovato in adiafore (come fa notare Paolo Chiesa nel suo manuale),5 è vero anche che un archetipo potrebbe non esserci se l’unico errore utile a dimostrarlo fosse un errore di metrica di questo tipo. E questo non è un problema da poco, almeno sul piano teorico, perché in una tradizione che risale a un archetipo è molto meno probabile che fra le adiafore ci siano va rianti d’autore rispetto a una tradizione senza archetipo dimostrabile. Una seconda osservazione è che di fronte all’eventualità che un errore di metrica sia d’autore siamo sostanzialmente disarmati, e questo dovrebbe indurci a qualche prudenza al momento di usarlo come un errore non solo certo, ma anche congiuntivo. Ho già osservato, nel mio libriccino sull’edizione critica,6 che una certa prudenza nel dichiarare che certi errori sono congiuntivi è opportuna anche di fronte a errori certi non d’autore, com’è una lacuna di un verso tale da alterare lo schema metrico, ma non il senso né la sintassi, se si presenta in condizioni favorevoli (per la lacuna, non per la critica del testo). L’esempio è la decima strofa di L’autr’ier jost’una sebissa di Marcabruno, tramandata dai canzonieri A D I K N C R T a1, nella quale A e a1 hanno lasciato cadere il terzo verso, tramandato correttamente dagli al tri mss.: ma il verso è uno di dieci eptasillabi rimati in atge, cinque in que sta strofa e cinque nella precedente, terzo di una serie di tre, e sebbene non sia affatto inutile per il senso, difficilmente si capirebbe che manca, se della poesia fosse tramandata soltanto questa strofa e soltanto da A a1; semplicemente si descriverebbe la strofa con un altro schema, con due coppie di rime in atge anziché una terna e una coppia. La caduta, perciò, potrebbe essere poligenetica: Don, hom cochatz de folhatge jur’e pliu e promet guatge; si·m fariatz homenatge, senher, so dis la vilayna; mas ges per un pauc d’intratge 65 [manca in A a1] 5. P. Chiesa, Elementi di critica testuale, Bologna, Pàtron, 2002, pp. 81, 82, 87 (e alle stesse pp. nella seconda ed., 2012). 6. P.G. Beltrami, A che serve un’edizione critica? Leggere i testi della letteratura romanza medievale, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 90-91. 242 tra norma e stile: questioni metriche e attributive no vuelh mon despiuzelhatge camjar per nom de putayna.7 70 In un mio vecchio lavoro ho esaminato una serie di casi di variazioni di schema nella poesia trobadorica, di vario tipo e non di questo, che potrebbero venire al caso per dire, generalizzando, che bisogna almeno distinguere tra variazioni di schema e alterazioni della tradizione manoscritta, e porsi il problema testo per testo.8 Porterebbe ora fuori tema discutere del ben noto e discusso circolo vizioso e virtuoso per cui le norme metriche si deducono dai testi, e i testi si esaminano e allestiscono tenendo conto delle norme metriche, se non per dire che, senza pregiudizio per altre tradizioni, lingue ed epoche, questo segna in particolar modo la poesia romanza medievale, per la quale non ci può essere una tradizione normativa esplicita di lunghissimo periodo come per la metrica latina, e non ci si può appoggiare a descrizioni o normative esplicite contemporanee, se non per alcuni aspetti che coprono solo in parte i problemi che si pongono all’editore, e, per la poesia galloromanza in par ticolare, sono trattati in testi notevolmente piú tardi. In un contributo di me trica dantesca appena scritto, ho fatto comunque notare che non è vero che, attribuendo regole precise alla versificazione delle origini, ci facciamo tradire da una mentalità molto piú tarda; il rischio è esattamente l’opposto, cioè di farsi condizionare dall’apertura della versificazione a tutte le possibilità che è propria della nostra epoca.9 Certo però, come suggeriscono i 7. ‘Signore, un uomo ardente di follia giura e s’impegna e promette un pegno; in effetti mi fareste omaggio, signore, cosí disse la villana; ma per un modesto diritto d’ingresso non voglio affatto dare la mia perdita della verginità in cambio del nome di puttana’. Testo da C. Appel, Provenzalische Chrestomathie, Leipzig, Reisland, 19022, modificato nelle edd. 19205 e 19306 (non so se già nelle due edizioni intermedie), ai vv. 68-69 in « mas ieu per un pauc d’intratge / no vuelh ges mon piuzelhatge » ‘ma io per un modesto diritto d’ingresso non voglio affatto cambiare la mia verginità con il nome di puttana’ (corsivi miei), ma a torto, se si intende, come a me pare logico, despiuzelhatge in senso dinamico come ‘perdita (o sottrazione) della verginità’ anziché in senso risultativo come ‘non verginità’. Cfr. per un’opinione opposta alla mia G. Tavani, Lezioni sul testo, L’Aquila, Japadre, 1997, pp. 42-44, e A. D’Agostino, Capitoli di filologia testuale. Testi italiani e romanzi, Milano, Cuem, 20062, pp. 260-62. Concorda con l’ultimo testo di Appel, a parte varianti grafico-fonetiche, quello edito in Marcabru, A Critical Edition, by S. Gaunt, R. Harvey and L. Paterson, Cambridge, Brewer, 2000, p. 380. 8. P.G. Beltrami, Variazioni di schema e altre note di metrica provenzale: a proposito di Bertran de Born, ‘ Puois Ventadorns’ e ‘ Sel qui camja ’, in « Studi mediolatini e volgari », xxxv 1989 [ma 1991], pp. 5-42. 9. P.G. Beltrami, Incertezze di metrica dantesca, in « Nuova rivista di letteratura italiana », xiii 2010 [ma 2012] (Studi danteschi offerti ad Alfredo Stussi a cinquant’anni dalla laurea), pp. 77-92. 243 pietro g. beltrami due esempi che ho proposto, fra i molti che si potrebbero individuare, pur essendo la norma metrica una guida forte per l’esame delle testimonianze e del testo tràdito, nemmeno gli errori di metrica danno sempre certezze che non si debbano mettere alla prova di un’attenta riflessione. A maggior ragione danno argomento di riflessione i fatti pertinenti alla metrica in cui non è in gioco una norma rigorosamente codificata, ma che appartengono a quella zona della versificazione che si estende dalle norme che ammettono alternative, attraverso le eccezioni di cui si deve riconoscere l’ammissibilità, fino agli usi prevalenti di un ambiente, una scuola, un’epoca, e all’usus scribendi di singoli autori: rientrano in quest’ambito, fra molti al tri, i tre temi su cui propongo in questa sede qualche osservazione: le forme rare del décasyllabe e dell’endecasillabo, la rima identica e la rima leonina. Poiché l’usus scribendi può essere addotto come prova a favore o contro un’attribuzione, i problemi coinvolti sono sia testuali, sia attributivi. 1. Forme rare del décasyllabe e dell’endecasillabo Nella critica del testo dei trovatori, è talvolta possibile valutare due lezioni non in sé erronee in base alla forma del verso, specificamente del déca syllabe. Il décasyllabe dei trovatori, ricordo, è un verso diviso in due emistichi di quattro e sei sillabe; la divisione tra i due emistichi, o cesura, è marcata regolarmente da un limite di parola. Nella grande maggioranza dei casi, la quarta è tonica (cesura maschile), come per esempio nel primo verso di Puois nostre temps4 comens’a brunezir di Cercamon (un testo anteriore alla metà del XII secolo). Se cade in cesura una parola piana, normalmente è collocata con la tonica nella terza sillaba e l’atona nella quarta (cesura lirica): un esempio è il v. 27 dello stesso testo, come si legge nei mss. C e A e nel le edizioni di Dejeanne (1905), Jeanroy (1922) e Wolf-Rosenstein (1983):10 « don proeza4 no cug que sia mais » (C; sia è regolarmente un bisillabo). Talvolta la parola piana può invece essere collocata a cavallo della cesura, generando cosí apparentemente un secondo emistichio di cinque sillabe (cesura cosiddetta italiana).11 Un esempio è dato dallo stesso verso come si 10. J.-M.-L. Dejeanne, Le troubadour Cercamon, in « Annales du Midi », xvii 1905, pp. 27-62; Les poésies de Cercamon, éditées par A. Jeanroy, Paris, Champion, 1922; The Poetry of Cercamon and Jaufre Rudel, edited and translated by G. Wolf and R. Rosenstein, New York & London, Garland, 1983. 11. Ovvero, si deve distinguere fra la bipartizione del verso e la divisione che la realizza nel testo, che Billy chiama rispettivamente césure e coupe prosodique. Nella cesura italiana (detta anche enjambante) la coupe prosodique è eccezionalmente spostata rispetto alla césure (D. Billy, 244 tra norma e stile: questioni metriche e attributive legge nel ms. a1 e nelle edizioni di Tortoreto (1981) e Rossi (2009):12 « per qe proeza5 non cug sia mais ». Nelle varianti di Da I K fa pure capolino la cesura epica, con sillaba tonica e atona finale della parola piana in quarta e quinta sillaba, e il secondo emistichio di misura normale (almeno in Da « per que proeza5 non cug que sia mais », ma si di I K sarà da ricondurre a sia, bisillabo). Riepilogando manoscritti e edizioni:13 per qe proeza5 non cug sia mais14 don proeza4 no cug que sia mais que proessa4 non cuich que sia mais per que proeza5 non cug que sia mais per que proessa5 non cug que si mais per que proesa5 non cug que si mais a1 (Tortoreto 1981, Rossi 2009) C (Dejeanne 1905 [no·n], Jeanroy 1922 [no·n], Wolf-Rosenstein 1983) A Da I K Nella tradizione di Puois nostre temps, come ho osservato discutendo l’edizione Rossi,15 non ci sono ragioni sufficienti per dividere i manoscritti in due rami, a1 da una parte e C A Da I K dall’altra, come Tortoreto ha ritenuto di dimostrare e come Rossi ripete senza ulteriore dimostrazione, ma si devono individuare tre versioni del testo (che hanno in comune le prime cinque strofe, con un testo molto omogeneo), date da a1, da C e da A Da I K. All’eventuale cesura epica di Da I K nessun editore ha dato credito, e giustamente, perché sono davvero sporadiche quelle sicure che si possono trovare in tutta la tradizione trobadorica. Anche la cesura italiana, preferita da Tortoreto e Rossi, è però molto rara, e, da uno spoglio che ne feci per un lavoro del 1990 su endecasillabo e décasyllabe, non se ne trovano di sicure nei trovatori antichi.16 Le lezioni di C e di A, oltre che appartenere a due L’analyse distributionnelle des vers césurés dans la poésie lyrique médiévale occitane et française, in Contacts de langues, de civilisations et intertextualité. Actes du iiième Congrès international de l’Association Internationale d’Études Occitanes, Montpellier, 20-26 septembre 1990, Montpellier, Centre d’études occitanes - S.F.A.I.O., 1992, pp. 805-28; Id., Le flottement de la césure dans le décasyllabe des troubadours, in « Critica del testo », iii 2000, pp. 587-622). 12. Il trovatore Cercamon, edizione critica a cura di V. Tortoreto, Modena, Stem Mucchi, 1981; Cercamon, Œuvre poétique, édition critique bilingue avec introduction, notes et glossaire par L. Rossi, Paris, Champion, 2009. 13. Per la variante iniziale, va notato che per que, don e que sono ugualmente ammissibili per introdurre una consecutiva. 14. ‘Per cui non credo che Prodezza esista piú’ (Tortoreto). 15. P.G. Beltrami, Cercamon ‘trovatore antico’: problemi e proposte (a proposito di una nuova edizio ne), in « Romania », cxxix 2011, pp. 1-22, alle pp. 17-20. 16. P.G. Beltrami, Endecasillabo, décasyllabe, e altro, in « Rivista di letteratura italiana », viii 1990, pp. 465-513, alle pp. 501-7. 245 pietro g. beltrami versioni distinte, sono non solo ineccepibili, ma anche, in assenza di ragioni in contrario, superiori alla lezione di a1, la cui cesura italiana è almeno molto sospetta a questa data. I vecchi editori, a mio avviso, avevano dunque ra gione.17 In questo caso la cronologia dell’uso, sempre modesto, della cesura italiana dà un argomento per preferire una lezione contro un’altra. In un altro caso, la cesura italiana può fornire un argomento attributivo. Si tratta di No·s pot sufrir ma lenga q’ill non dia, tramandata dal solo ms. Sg (c. 81r) sotto la rubrica Guiraut de borneill, e a Giraut de Borneil attribuita, nonostante obiezioni antiche, dalle due edizioni monografiche, quella di Kolsen (1910-1935) e quella di Sharman (1989).18 Già De Lollis, nella sua edizione di Sordello (1896),19 opponeva che l’attribuzione a Giraut de Borneil « ripugna per la po ca classicità di alcune forme » (nelle annotazioni pubblicate nel 1935, Kolsen, contro il cui libro Guiraut von Bornelh, del 1894,20 p. 64, era rivolta l’obiezione, gli rimprovera di non dire quali), mentre, prosegue De Lollis, « il ricorso di pensieri ed espressioni bornelliane che l’A. [scil. Kolsen] invoca a favore dell’autenticità di tale attribuzione potrebbe servire a dimostrare il contrario ». Per parte mia, in nota a una discussione del libro di Mario Mancini, Metafora feudale,21 ho fatto presente che per l’usus scribendi di Giraut de 17. Da notare per converso che C sembra reagire contro la cesura italiana in Pons de Cap duoill, De toz chaitius, sui eu aicel qe plus (375,7, in A. Martorano, Ricerche sul testo delle poesie di Pons de Capduoill, tesi di dottorato, Firenze 2007, ma cito dalla versione in preparazione per la stampa), trasformando in cesure epiche quelle dei vv. 40 « qui lauza pobles lauza dominus » (so lauza) e 43 « la lauzen l’angel ab joi et ab chan » (ab gran joy). Avalle nota l’« insofferenza per la cesura 4’+5(’) » da parte dei copisti (Peire Vidal, Poesie, edizione critica e commento a cura di d’A.S. Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, vol. i p. 23) e le varianti introdotte per eliminarle (il copista di C sembra attivo piú di altri) nelle note ai testi i (364,10) 25; xxix (364,30) 33; xxxvii (364,36) 18 e 21; xxxviii (364,4) 26; xli (364,42) 26; xliii (364,40) 12, 22 e 29. Questo vuol dire che, seppure ormai introdotta nell’uso (e Peire Vidal è quello di cui ho contato piú esempi, ben 17, in Endecasillabo e décasyllabe, cit., p. 503), questa cesura ha continuato a restare ai mar gini del décasyllabe regolare. 18. Sämtliche Lieder des Trobadors Giraut de Bornelh […], hrsg. von A. Kolsen, Halle a.S., Nie meyer, 1910-1935 (rist. anast. Genève, Slatkine, 1973), testo n. 69; R.V. Sharman, The ‘cansos’ and ‘sirventes’ of the troubadour Giraut de Borneil: a critical edition, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1989, testo n. 68. 19. Vita e poesie di Sordello di Goito, per C. De Lollis, Halle, Niemeyer, 1896 (rist. anast. Bologna, Forni, 1969). 20. A. Kolsen, Guiraut von Bornelh, der Meister der Trobadors, Berlin, Vogts, 1894. 21. P.G. Beltrami Per la storia dei trovatori: una discussione, in « Zeitschrift für französische Sprache und Literatur », cviii 1998, pp. 27-50, a p. 33 n. 17 (su M. Mancini, Metafora feudale. Per una storia dei trovatori, Bologna, Il Mulino, 1993). L’intervento di Madeleine Tyssens cit. alla n. 246 tra norma e stile: questioni metriche e attributive Borneil due cesure italiane nello stesso testo, anzi nella stessa strofa (la seconda), sono troppe: Le setgles es camiatz de corteszia en vilanatge5 et en perdizo: plus es lauzatz qui tot tol a bando que sel qui dona5 per sa manentia22 9 (ms. esc) 13 Nel cospicuo corpus delle poesie di Giraut de Borneil, infatti, c’è soltanto un’altra cesura italiana, in Per solatz revelhar (59 « lo comtes entre5 lor com us bos chans »), e un’altra in Gen m’estava e suau e en paz (3 « q’eu non amava5 ni non era amatz »), una poesia che il ms. P, testimone unico, gli attribuisce quasi certamente a torto, come si può sostenere con ragioni non metriche.23 Il sospetto era fondato. La poesia (come già notavano i primi commen tatori) ha lo stesso schema metrico e quasi le stesse rime di una canzone di crociata del troviero francese Hugues de Berzé, S’onques nus hom por dure de partie, e di un partimen di Sordello, Bertrans, lo joy de dompnas e d’amia. In un contributo al convegno su Sordello del 1997, Madeleine Tyssens ha dimostrato con argomenti indipendenti che il primo dei tre testi è quello di Hugues de Berzé, che Sordello ha cambiato una rima dell’ultima strofa da er a an per poter mettere in rima nella tornada il nome dell’interlocutore, Bertran, e che l’autore di No·s pot sufrir ha ripreso da Sordello la forma con la nuova rima.24 Per quanto riguarda l’endecasillabo italiano, un punto fermo, fra le diverse opinioni degli studiosi, è che la forma normale abbia tonica almeno la 24 precede la pubblicazione della mia discussione, che però era già scritta, e infatti al convegno se ne parlò: cfr. p. 229 n. 24. 22. Testo di Sg in trascrizione interpretativa: ‘Il mondo è cambiato passando dalla cortesia alla villania e alla perdizione: è piú lodato chi si appropria di tutto liberamente che colui che dona grazie alla sua ricchezza’. Forse meglio, al v. 13, pert (ed. Sharman, di cui va però rifiutato l’emendamento concomitante donan), intendendo ‘perché colui che dona perde la sua ricchezza’, con emendamento che non incide sulla metrica. 23. Cfr. F. Gambino, Osservazioni sulle attribuzioni “inverosimili” nella tradizione manoscritta pro venzale (i), in Le rayonnement de la civilisation occitane à l’aube d’un nouveau millénaire. Actes du 6e Congrès International de l’A.I.E.O., Wien, 12-19 septembre 1999, Wien, Praesens, 2001, pp. 372-90, a p. 384 (con un riesame della bibliografia pregressa): il testo è posteriore al 1220 per via della menzione di Beatrice di Savoia come contessa di Provenza (sebbene il nome non sia fatto, il che lascia aperta una minima possibilità di discussione); inoltre P è particolarmente ricco, nella stessa sezione, di attribuzioni avventate a Giraut de Borneil, censite e discusse nel lo stesso saggio. 24. M. Tyssens, Sordello et la lyrique d’oïl, in « Cultura neolatina », lx 2000 (Sordello da Goito. Atti del Convegno internazionale di Goito-Mantova, 13-15 novembre 1997), pp. 223-32. 247 pietro g. beltrami quarta o in alternativa la sesta sillaba, sebbene non sia altrettanto condiviso che cosa ciò significhi (a una nuova discussione di questo problema ho dedicato alcune pagine della quinta edizione della Metrica italiana).25 Un secondo punto condiviso è che nella poesia antica gli endecasillabi con quarta e sesta atona siano legittimi, cioè attribuibili all’autore, e perciò non necessariamente da emendare; per es. l’incipit di un sonetto di Cecco Angiolieri: Se ’l cor di Becchina fosse diamante.26 Al di là della diversità delle opinioni, è però un fatto che anche nella poesia antica questi endecasillabi sono molto rari. A mio parere, è perciò corretta, per fare un esempio positivo, la scelta testuale di Antonelli nel sonetto Sí come il sol che manda la sua spera,27 tramandato dal solo canzoniere V. Ai vv. 7-8, il ms. legge « fere in tale loco che l’o mo non spera, / e passa per gli ochi e lo core diparte ». Al v. 7, la riduzione di tale a tal è ovvia, e non si può nemmeno considerare un emendamento, poiché si tratta del noto uso grafico, particolarmente frequente in V, di scrivere in forma piena le parole apocopate (esiste l’uso di stampare la forma piena con punto sottoscritto alla vocale da espungere, ma la sostanza non cambia). Al v. 8, però, secondo Antonelli la riduzione di core a cor produrrebbe un verso con quella che lo stesso chiama una « cesura eccezionale »: « e passa per gli ochi e lo cor diparte », cioè di fatto uno schema con quarta e sesta sillaba entrambe atone; perciò l’editore espunge la e iniziale, e stampa fere in tal loco che l’omo non spera, passa per gli ochi e lo core diparte 8 Generalizzando, un principio che vale a mio parere per tutte le forme ec cezionali (inclusa la cesura italiana in un trovatore antico, come si è visto prima) è che queste si possono accettare solo dopo avere esaminato e scartato tutte le soluzioni alternative. Questo a me pare un buon compromesso fra la difficoltà di accertare regole veramente cogenti per la versificazione antica e la ragionevole certezza acquisita riguardo ad alcune regole, sia pu re passibili di eccezioni; ed è un principio di coerenza del comportamento editoriale. Va detto però che, soprattutto in presenza di tradizioni monotestimoniali o molto ridotte, cosí come nelle edizioni fondate su un manoscritto di base, la tendenza attuale della critica del testo romanza è piuttosto 25. P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 20115, pp. 30-53. 26. Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Milano, Rizzoli, 1956, testo n. 12. 27. I poeti della Scuola siciliana, Edizione promossa dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani, i. Giacomo da Lentini, edizione critica con commento a cura di R. Antonelli, Milano, Mondadori, 2008, testo 1.21 e nota alle pp. 424-25. 248 tra norma e stile: questioni metriche e attributive di conservare comunque la lezione tràdita: senza fare processi alle intenzioni, non so se qui Antonelli avrebbe emendato se non avesse comunque dovuto sanare l’ipermetria del manoscritto, sia pure solo grafica.28 2. La rima identica Per rima identica s’intende quella senza equivocazione (Di Girolamo, nel passo che cito oltre, la chiama “tautologica”; si può chiamare anche “rima ripetuta”, in provenzale mot o rim tornat); il problema si pone al di fuori di determinate strutture compositive, cioè se la rima identica non è parolarima, dal caso della rima-refrain a quello della sestina. Per cominciare questa volta accennando ad un problema attributivo, anzi ad uno dei problemi attributivi piú discussi della poesia italiana delle origini, Pasquale Stoppelli, in un libro molto interessante uscito da poco,29 ha dato particolare rilievo alla rima identica in relazione alla paternità del Fiore. Stoppelli nota, discutendoli tutti singolarmente, che nel Fiore si trovano 26 casi di rime « davvero identiche », di cui a suo parere « soltanto 3 sono imputabili con sufficiente certezza a errore di copia » (p. 45). Contini, infatti, l’editore con il quale Stoppelli si confronta, reagisce quasi ad ogni rima identica del manoscritto unico cercando di emendarla, con maggiore o minore successo, con l’assunto almeno di un dubbio metodico, se non della cer tezza, che non sia verosimile attribuirla all’autore; Stoppelli dal canto suo è critico sulla fondatezza della maggior parte di questi interventi, sostenu to da una fiducia a mio parere eccessiva nella qualità della testimonianza (è questa una critica di principio che gli si può avanzare, a prescindere dal pro blema della paternità dell’opera); riassuntivamente (p. 54): […] come attribuire a errore di copia la presenza in clausola di una parola di significato pertinente ripetuta nella stessa posizione a distanza di quattro, cinque e ta lora addirittura sette versi, e che questo avvenga piú volte e che il fenomeno per giunta si ispessisca in particolari tratti di testo? Essendo assurda l’ipotesi che nel manoscritto di Montpellier o in un suo antigrafo un amanuense manometta intenzionalmente il testo al fine di peggiorarne la qualità, insomma che agisca da sabotatore, non resta che attribuire all’autore la paternità di versi che alla luce degli svi 28. Discutendone alla fine del seminario, Aldo Menichetti mi ha suggerito (e concordo) come migliore soluzione per il v. 8 di Sí come il sol l’espunzione di per, non necessario, o almeno meno necessario di e iniziale: « e passa gli ochi e lo core diparte ». Un’analisi dello stesso verso è in A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 20114. 29. P. Stoppelli, Dante e la paternità del ‘Fiore’, Roma, Salerno Editrice, 2011. 249 pietro g. beltrami luppi futuri delle regole di versificazione o soltanto per occasionale imperizia appaiono malfatti. Non importa ora discutere quante volte l’argomentazione di Stoppelli sia convincente; il punto è che la presenza di cosí (relativamente) numerose rime identiche viene presentata come un argomento contro la paternità dantesca, considerando la rima identica immotivata una caduta di stile, o un tratto di stile non compatibile con l’usus di Dante; al quale, per la verità, è sostanzialmente estranea nelle opere di paternità certa (altra cosa sono le terne di per ammenda in Purg., xx 65-69, di Cristo tre volte, in Par., xii 71-75, Par., xiv 104-8, Par., xxxii 83-87, e di vidi in Par., xxx 95-99).30 Varrà come controprova il fatto che nella recentissima edizione del Fiore di Paola Al legretti, caratterizzata da un lato dall’attribuzione a Dante esibita senz’al tro nel frontespizio, dall’altro da una fiducia ancora maggiore, per non dire massima, nella bontà della testimonianza, la parafrasi cerca di diversificare il senso delle rime identiche censite da Stoppelli, per accreditarle come rime equivoche tutte le volte che sia anche minimamente possibile.31 Per la rima identica (s’intende senza equivocazione) nella filologia trobadorica, si può partire da una formulazione sempre valida di Costanzo Di Girolamo:32 30. La rima identica in realtà è sostanzialmente estranea alla poesia lirica italiana fin dalle origini, per cui piuttosto che « alla luce degli sviluppi futuri » i versi di cui si dice nella citazione da Stoppelli appaiono « malfatti » alla luce della normale pratica poetica, escluse particolari aree stilistiche; il che però non incide sull’argomento di Stoppelli. 31. Dante Alighieri, Fiore. Detto d’Amore, a cura di P. Allegretti, Firenze, Le Lettere, 2011. Il lavoro di Allegretti merita una discussione approfondita, che sarebbe riduttivo inserire in queste pagine. Mi limito ad una sola nota a una delle rime identiche del ms. registrate da Stoppelli e promosse a equivoche da Allegretti, perché l’emendamento di Contini (Il ‘Fiore’ e il ‘Detto d’Amore’ attribuibili a Dante Alighieri, a cura di G. Contini, Milano, Mondadori, 1984) è citato, ovviamente come tale, nella voce adornamento del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (online http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO). Nel sonetto 165, vv. 2-5 editi da Allegretti secondo il ms. « come ciascuna dé andar parata / che per sua falta non fosse lasciata / sí ch’ella fosse senza intendimento. / In ben lisciarsi sia su’ ’ntendimento », Allegretti parafrasa « come ciascuna debba andare conciata, che non sia abbandonata per difetto nel sistemarsi, cosí come se ella fosse senza accortezza. Suo impegno sia in agghindarsi bene », ma al v. 4 adornamento di Contini si impone per ragioni di contenuto; intendimento è un errore di anticipo che sarebbe evidente anche in prosa, anche a non considerare bien atiree del passo corrispondente del Roman de la Rose, cit. da Contini. Il testo dice che ogni donna deve andare acconciata (parata) in modo da non restare (non fosse lasciata) senza abbellimento (adornamento); sí ch’ella fosse non è traducibile « come se ella fosse », e di abbandono (da parte dell’amante?) qui non si parla. 32. C. Di Girolamo, Elementi di versificazione provenzale, Napoli, Liguori, 1979, p. 37. 250 tra norma e stile: questioni metriche e attributive La rima tautologica, ovvero la riproposta, nella stessa strofe o in strofi diverse, del la medesima parola in rima con uguale significato e funzione grammaticale (mot tornat), è riprovata dai trattatisti: benché vi incorrano pure trovatori illustri, come Bernart de Ventadorn, Giraut de Bornelh, Peire Vidal ecc. Nella tornada, è invece lecito e comune riprendere una o piú parole in rima impiegate nelle strofe precedenti. Ugualmente ammessa, in qualsiasi sede, è la rima tra forme identiche, ma che entrano in composti o che esibiscono un prefisso. Ovvero: la censura della rima identica è una regola di stile, la cui infrazione produce un testo censurabile secondo un certo criterio estetico, piuttosto che una norma metrica, la cui infrazione produce un errore. La rima identica non è invece censurabile nella tornada,33 dove al contrario è assolutamen te comune, a volte si direbbe addirittura come un effetto di eco volutamente ricercato in uscita del testo. Meno generalmente, non parrebbe censu rabile nemmeno nella strofa finale, che talvolta fa le funzioni di una tor nada, in assenza della stessa, talvolta ne presenta alcune caratteristiche, pur in presenza di essa (cosí secondo un saggio importante di Roberto Anto nelli).34 Escludere le occorrenze di rime identiche nella tornada e nella strofa finale, considerandole legittime, è produttivo, perché riconduce a una regola la maggior parte dei casi e riduce la rima identica, al di fuori di queste due po sizioni, a un caso marcato e raro. Per es., la schedatura a colpo d’occhio impressionante di rime « equivoche e identiche » presentata da Anna Radaelli nell’edizione di Raimon Gaucelm de Béziers,35 dove questo viene detto « uno degli aspetti versificatori piú evidenti del canzoniere di RmGauc » (p. 67, vd. pp. 67-70), si riduce, per quanto riguarda la rima identica, da 38 schede a cinque (oltre i casi di equivocità, la tornada è coinvolta in ben 22 casi). In uno di questi cinque casi (Joan Miralhas, si Dieu vos gart de dol, BdT 401,6, Radaelli ix), non solo c’è ancora una « leggera differenza semantica » (ix 3 tro·l sol ‘fino a terra’, 27 per sol ‘per strada’), ma i versi appartengono ai due diversi autori coinvolti nella tenzone. Fra gli altri quattro, merita attenzione A penas vau en 33. Intendo tornada in senso metrico, come una strofa conclusiva piú breve di una strofa normale, con la forma esatta della parte finale dell’ultima strofa per il numero di versi corrispondente. 34. R. Antonelli, Rima equivoca e tradizione rimica in Giacomo da Lentini, in « Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani », xiii 1977, pp. 20-126. Cfr. anche Id., Ripetizione di rime, neutralizzazione di « rimemi »?, in MR, v 1978, pp. 169-206; Id., Equivocatio e repetitio nella lirica trobadorica, in Id., Seminario romanzo, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 111-54. 35. Raimon Gaucelm de Béziers, Poesie, edizione critica a cura di A. Radaelli, Firenze, La Nuova Italia, 1995. 251 pietro g. beltrami loc qu’om no·m deman (401,3, Radaelli iv, mss. C R), dove si trova in rima es (3a pers. sing. di essere), cinque volte piú una sesta nella tornada, fra cui due volte in due versi consecutivi, nella terza e nella quinta strofa. Questa si direbbe una precisa scelta stilistica, come che la si voglia qualificare: se ne può citare un altro esempio piú antico, in Bernart Marti, D’entier vers far ieu non pes (63,6, Beggiato v, ms. unico C),36 dove lo stesso es è in rima sette volte, e nella stessa strofa per due volte (la decima e l’undicesima), e un’ottava occorrenza potrebbe nascondersi in un problema testuale che l’editore ha risolto con un entrebesques (congiuntivo imperfetto) che rima in ès invece che nell’atteso és, per il quale rinvio a un mio vecchio saggio.37 Qualcosa di simile si può vedere nella canzone della dompna soiseubuda di Bertran de Born (Dompna, puois de mi no·us cal, 80,12),38 dove sono in rima tre volte vos (ma una nell’ul tima strofa prima della tornada) e due volte deman (piú una terza in equivoca). In presenza di rime identiche, un elemento da considerare è perciò lo stile del testo, piú ancora che quello dell’autore in generale. Un paio di esempi di comportamento editoriale normale si possono prendere dall’edizione di Pons de Capduoill a cura di Antonella Martorano, per ora in tesi di dottorato, ma in preparazione per la stampa.39 La canzone Tuit disen q’el temps de pascor (375,25, Martorano xviii) è tramandata da due mss., piú esattamente da a in cinque strofe, delle quali Da conserva solo la prima, la terza e i primi due versi della quinta. Il ms. a porta in rima fi namen ai vv. 3 e 11; Da offre una soluzione alternativa per il v. 3, che perciò Martorano emenda: Tuit disen q’el temps de pascor son plus alegr’e plus jauzen, qan l’auzel chanton douzamen […] (Da, finamen a) Pauc val totz lo mons ses amor, per q’ieu i ai mes finamen lo cor e·l saber e·l talen […] 40 1 10 36. Il trovatore Bernart Marti, edizione critica a cura di F. Beggiato, Modena, Stem Mucchi, 1984. 37. P.G. Beltrami, ‘ Er auziretz ’ di Giraut de Borneil e ‘Abans qe·il blanc puoi ’ di autore incerto: note sulla rima dei trovatori, in « Cultura neolatina », lii 1992, pp. 259-321, alle pp. 288-89 e n. 111. 38. Ed. in P.G. Beltrami, Bertran de Born poeta galante: la canzone della ‘dompna soiseubuda’, in Ensi firent li ancesor. Mélanges de philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1996, pp. 101-17. 39. Martorano, op. cit. 40. ‘Tutti dicono che nella stagione primaverile sono piú allegri e felici, quando gli uccelli 252 tra norma e stile: questioni metriche e attributive Cosí aveva fatto Napolski (xviii),41 e cosí probabilmente farebbe qualunque altro editore, che non sia iperconservativo nei confronti del ms. base. Nella canzone De toz chaitius sui eu aicel qe plus (BdT 375,7, Martorano xvi), invece, dire in rima identica ai vv. 8 e 17 è attestato compattamente da una tradizione abbastanza numerosa (A B C D I K M O R Sg T a b2), e perciò rimane a testo: Morz trairiz! Ben vos puosc en ver dire que no·n pogues el mon meillor ausire! que tuit li ben i son c’om puosca dire, e de toz mals la pot hom escondire.42 8 17 Anche in questo caso il comportamento è lo stesso del vecchio Napolski (xxiv) e, presumibilmente, di qualunque altro editore potenziale di oggi. Una riflessione però va fatta: non è la compattezza dell’attestazione in sé che può giustificare la conservazione della rima identica, perché un’attestazione compatta può discendere da un errore d’archetipo. Quale che sia l’i dea da cui si parte sulla possibilità o legittimità di costruire stemmi e di trar ne conseguenze testuali, non si può mai escludere che una lezione del testo tràdito risalga a un errore o a un’innovazione iniziale. Dunque il fatto è che ci si sente abbastanza sicuri dell’inferiorità di una rima identica da scartarla in favore di lezioni alternative se la tradizione ne presenta, ma non abbastanza da intervenire sul testo, tanto meno con un emendamento, quando la tradizione è unanime. Si può dare uno sguardo, da questo punto di vista, alla tradizione di Folchetto di Marsiglia. Nei manoscritti che tramandano Chantan volgra mon fin cor descobrir (BdT 155,6, Squillacioti xvii), 43 che sono A Ab B Da Dc E G I K L cantano dolcemente […] Vale poco (avere) tutto il mondo senza (avere) amore, e perciò vi ho messo compiutamente cuore e senno e desiderio’ (Martorano). 41. M. von Napolski, Leben und Werke des Trobadors Ponz de Capduoill, Halle, Niemeyer, 1879. 42. ‘Morte traditrice! Posso ben dirvi, in verità, che non ne avreste potuto uccidere migliore al mondo. […] perché in lei sono tutte le virtú che si possano dire e di tutti i peccati la si può perdonare’ (Martorano). Cfr. ancora in Coras qe·m tengues jauzen (375,6, Martorano x), 23 jauzen A D I K (già al v. 1), considerato un possibile errore congiuntivo, ma solo dubitativamente; in So qu’hom plus vol e don es plus cochos (375,22, Martorano vii), allo stesso v. 1 e plus es voluntos A G I K ρ (torna in rima al v. 25), ma in una costruzione che risulta cosí molto dubbia. 43. Le poesie di Folchetto di Marsiglia, edizione critica a cura di P. Squillacioti, Pisa, Pacini, 1999. 253 pietro g. beltrami M N O P Q R S T V ls, si incontrano numerose rime identiche, ma la maggior parte ha alternative nella tradizione, per le quali l’editore può argomen tare una preferenza. Ne restano tre, ma due di queste hanno la seconda oc correnza nella tornada, e quindi si possono dire regolari. La terza ha la seconda occorrenza nella strofa finale se si adotta l’ordine strofico di A B E M O Q R ls: questo è reversibilmente un argomento per adottare tale ordine strofico e per far rientrare la rima identica in un caso in cui è legittima. Ciò ammesso, si legittimano le scelte testuali a favore della rima non identica nei casi in cui la tradizione la testimonia in alternativa all’identica, tutti estranei alla tipologia della tornada e della strofa finale. L’unico caso, in Folchetto, in cui è testimoniata compattamente una rima identica che non coin volge né tornada né ultima strofa è A pauc de chantar no·m recre 44 (155,2, dubbia, Squillacioti xix), tramandata da A C Da E I K N P R V f, in cui la parola in rima nel primo verso si ritrova al v. 21, primo della strofa iii: « Doncx be soi fols car no·m recre ».45 Stron;ski emenda la seconda occorrenza in no·m refre,46 ed è emendamento seducente, che farebbe pensare ad un archetipo (che Stron;ski però non ipotizza: cfr. Squillacioti, p. 381), ma per questa particolare ripetizione si potrebbe anche pensare a un’intenzione retorica. C’è ancora un caso, però, sempre nella tradizione di Folchetto, che ci ricorda che la tradizione trobadorica è fatta non solo di copisti meccanici (se mai ce ne sono stati), ma anche e frequentemente di copisti-editori, nel quale si direbbe che la rima identica abbia suscitato lo stesso dubbio che su scita in noi in un editore antico, che potrebbe aver emendato. Nella canzone Amors, merce: non mueira tan soven (BdT 155,1, Squillacioti v), tramandata da A B C D Dc E Fa G H I J K Kp L M N O P Q R S U V f ls, la maggior parte della tradizione ha in rima martire al v. 4 e al v. 26: et enaissi doblatz me mon martire Non cujera·l vostre cors ergueilhos poges el mieu tan lonc dezir assire; […] ai! quar vostr’ueilh non vezon mon martire? 47 4 22 26 44. ‘Per poco non mi pento di cantare’ (Squillacioti). 45. ‘Dunque sono ben folle perché non mi pento / di amarla’ (Squillacioti). 46. ‘Non mi trattengo’. 47. ‘e cosí raddoppiate in me il mio martirio […] Non avrei creduto che la vostra persona orgogliosa potesse collocare nella mia un desiderio cosí persistente […] ahi! perché i vostri occhi non vedono il mio martirio?’ (Squillacioti). 254 tra norma e stile: questioni metriche e attributive ma al v. 26 C Q V hanno cossire, che nel contesto è plausibile nel senso di ‘tormento amoroso’, come ripresa del dezir fatto entrare dalla donna nel l’amante: perché i suoi occhi non lo vedono? Anche martire, naturalmente, a parte il problema della rima è del tutto plausibile nello stesso contesto, e, pur in assenza di uno stemma, è veramente improbabile che non sia questa la lezione all’origine della tradizione, considerato non solo quanti, ma anche quali mss. la portano. È però ben possibile che cossire sia un rimedio contro la rima identica, come non si può escludere a priori che martire sia un errore d’archetipo, sebbene di un archetipo non dimostrabile. In questo ca so avremmo una lezione originaria ignota, un errore d’archetipo e una congettura. Verrebbe voglia di stampare cossire, non come lezione originaria, ma come congettura antica, cosí come ha fatto Appel in un testo di Bernart de Ventadorn dove il problema non era di rima, ma di sillabismo.48 Non è questo certamente un campo vergine, e molto si può trovare nelle annotazioni degli editori ai singoli luoghi testuali, ma un riesame si stematico della materia sarebbe utile. È chiaro però (e nemmeno questa è un’osservazione nuova) che l’atteggiamento produttivo è di considerare la rima identica non una figura comunque pacificamente possibile, ma un fenomeno marcato, che deve sempre e comunque sollecitare una riflessione, e che un esame attento caso per caso tende a ridurne sensibilmente la portata. 3. La rima leonina, Jean de Meun e Guillaume de Lorris La rima leonina, nella poesia galloromanza medievale, è quella in cui le parole in rima si corrispondono a partire dalla vocale della penultima sillaba, che è la tonica nelle rime femminili (per es. songes : mençonges nell’incipit del Roman de la Rose),49 e la protonica nelle rime maschili (per es. apa48. Bernart von Ventadorn, Seine Lieder, mit Einleitung und Glossar herausgegeben von C. Appel, Halle a.S., Niemeyer, 1915. Il caso in questione riguarda la tenzone Amics Bernartz de Ventadorn (70,2, Appel 2), ed è trattato in Beltrami, A che serve un’edizione critica?, cit., § 83.1. 49. Salvo dichiarazione esplicita, cito con il testo e la numerazione dell’edizione di Langlois: Le Roman de la Rose par Guillaume de Lorris et Jean de Meun, publié par E. Langlois, Paris, Firmin-Didot, 1914-1924, 5 voll. Cito inoltre le seguenti edizioni posteriori: G. de L. et J. de M., Le Roman de la Rose, publié par F. Lecoy, Paris, Champion, 1965-1970; Iid., Le Roman de la Rose, […], par D. Poirion, Paris, Garnier-Flammarion, 1974; Iid., Le Roman de la Rose, Édition d’après les manuscrits BN 12786 et BN 378 […], par A. Strubel, Paris, Le Livre de Poche, 1992. 255 pietro g. beltrami rant : garant ai vv. 5-6 dello stesso romanzo, d’ora in poi anche RR). Da questo punto di vista tutte le rime femminili sono leonine: probabilmen te a questo si riferisce il Crestiiens (chiunque sia) che dà la prima attestazio ne nota della parola all’inizio del Guillaume d’Angleterre, dicendo di volere « conter un conte par rime / U consonant u lionime » (vv. 3-4),50 cioè in rime maschili (consonant) e femminili. La rima leonina maschile è invece un caso particolare della rima ricca, comprendente non solo la consonante che precede la tonica (per es. frarin : serin, RR 69-70), ma anche la vocale precedente. Questa figura, come anche quella della rima ricca, è eseguita anche in sintagmi anziché in parole singole, per es. enuiz : de nuiz (leonina, RR 17-18), pesanz : dis anz (ricca, RR 217-18). La rima leonina maschile ha una certa frequenza nei romanzi di Chré tien de Troyes, ed è stata usata come criterio di scelta fra lezioni attestate, in particolare nell’edizione di Foulet e Uitti.51 Ne ho trattato in un mio vec chio lavoro,52 e non tornerò ora sull’argomento: proporrò invece qualche os servazione sul Roman de la Rose. In questo, si può notare una rilevante disparità d’uso tra le due parti del romanzo attribuite ai due diversi autori: nella parte di Guillaume de Lorris la rima maschile è frequentemente leonina, non di rado soltanto ricca, talvolta anche solo “sufficiente” (come si è detto poi nella tradizione metricologica francese, per es. plot : n’ot, 27-28), sia pure raramente.53 Nella parte di Jean de Meun la rima maschile è sempre leonina; Langlois, che nel primo volume della sua edizione dà uno spoglio completo, dichiara due sole eccezioni, grezeis : franceis (16827-28), che è solo ricca, e deduiant : orient (16807-8) che non è nemmeno ricca.54 Il punto, che come si vede Langlois aveva già fissato con chiarezza nel 1914, è interessante perché la doppia paternità del romanzo è ritornata argomento di discussione, non inutilmente, perché si è cosí risollevato il problema dell’unità dell’opera come risultato finale, comunque siano andate le cose. Vale dunque la pena di rileggere Langlois con l’occhio alla questione attributiva. 50. Cito da Chrétien [de Troyes], Guglielmo d’Inghilterra, a cura di G.C. Belletti, Parma, Pratiche, 1991. 51. Chrétien de Troyes, Le Chevalier de la Charrette (Lancelot), texte établi […] par A. Foulet et K.D. Uitti, Paris, Bordas, 1989. 52. P.G. Beltrami, Chrétien de Troyes, la rima leonina e qualche osservazione sui criteri metrici nelle scelte testuali, in Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, a cura di A. Ferrari, Spoleto, Centro Italiano di Studi sul l’Alto Medioevo, 1999, pp. 193-218. 53. Cfr. Langlois, ed. cit., vol. i pp. 56-57. 54. Ivi, pp. 58-59. 256 tra norma e stile: questioni metriche e attributive Com’è noto, Jean de Meun dichiara al centro del romanzo che Guillaume de Lorris è arrivato a scrivere fino ai versi, che cita, « Jamais n’iert rien qui me confort / Se je pert vostre bienvoillance, / Que je n’ai mais aillors fiance » (4056-58, ripetuti ai vv. 10558-60), e che lui ha cominciato con i versi, che di nuovo cita, « E si l’ai je perdue, espeir: / A po que ne m’en desespeir » (4059-60, ripetuti ai vv. 10595-96).55 Va notato che attraverso la saldatura il discorso fluisce quasi senza soluzione di continuità, e che senza la dichiarazione esplicita di Jean de Meun, e senza l’allestimento della gran parte dei manoscritti che marcano la cesura in modi diversi, il cambio d’autore sarebbe difficilmente sospettabile, come anche resterebbe ignoto il nome del pri mo autore. Il passo di Jean de Meun è di grande complessità letteraria, con un gioco di prospettive che funziona perfettamente ad una lettura ingenua, ma diventa difficile da districare quando lo si esamini da vicino, e ciò ha dato spazio ai dubbi che sono stati sollevati sul carattere fattuale delle sue dichiarazioni. Lungo una linea interpretativa che va da Roger Dragonetti a Luciano Rossi, passando attraverso David Hult, si è perciò messa in dubbio o negata la duplicità degli autori reali del romanzo.56 Le questioni coinvolte sono numerose, a cominciare dalla tradizione ma noscritta, e non le toccherò in questa sede; ma in questo contesto non par rà inutile un confronto preciso, a titolo di campione ristretto significativo, fra gli ultimi 200 versi della prima parte (vv. 3859-4058 dell’ed. Langlois, 3841-4028 dell’ed. Lecoy) e i primi 200 della seconda (rispettivamente vv. 4059-258 e 4029-228). Quello che interessa verificare non è la regola enunciata da Langlois, che trova facile conferma: i 200 versi finali della prima par te contengono 54 distici a rima maschile, e di questi una ventina con rima non leonina (vd. infra), di cui 9 con rima nemmeno ricca; i 200 versi inizia55. ‘Non ci sarà mai piú nulla che mi conforti se perdo la vostra benevolenza, perché non confido in nient’altro altrove. Eppure l’ho perduta, forse: manca poco che mi disperi’. 56. Cfr. R. Dragonetti, Pygmalion ou les pièges de la fiction dans le ‘Roman de la Rose’, in Orbis Mediaevalis. Mélanges de langue et de littérature médiévales offerts à Reto Raduolf Bezzola […], éd. par G. Güntert, M.-R. Jung, K. Ringger, Berne, Francke, 1978, pp. 89-111; D.F. Hult, Self-fulfill ing Prophecies. Readership and authority in the first ‘Roman de la Rose’, Cambridge-London-New York, Cambridge Univ. Press, 1986; L. Rossi, Alain de Lille, Jean de Meun, Dante: ‘nodi’ poetici e d’esegesi, in « Critica del testo », vii 2004, pp. 851-75; Id., De Jean Chopinel à Durante: la série ‘Roman de la Rose-Fiore’, in De la Rose, Études publiées par C. Bel et H. Braet, Louvain-Paris-Dudley (MA), Peeters, 2006, pp. 273-98; Id., La tradizione allegorica: da Alain de Lille al ‘Tesoretto’, al ‘Ro man de la Rose’, in « Letture Classensi », 37. Le tre Corone. Modelli e antimodelli della ‘Commedia’, a cura di M. Picone, Ravenna, Longo, 2007, pp. 143-79. Della prima parte del romanzo va segnalata l’edizione (testo Langlois) con traduzione curata da Salvatore Battaglia: Guillaume de Lorris, Le Roman de la Rose, a cura di S. B., Napoli, Morano, 1947. 257 pietro g. beltrami li della seconda parte contengono 59 distici a rima maschile, tutti con rima leonina. Interessa piuttosto domandarsi fino a che punto incidano su questi dati i comportamenti degli editori. A questo fine ho collazionato il testo degli editori, nei punti rilevanti, con i manoscritti accessibili alla consultazione nel sito Roman de la Rose Di gital Library, fra quelli inclusi nell’insieme di ‘codici antichi’ identificato e studiato da Matteo Ferretti nella sua tesi di dottorato,57 con l’aggiunta, sempre entro questo corpus di manoscritti antichi, del Vat. Urb. lat. 376 (Urb); precisamente: Ab Bâ Bodm Ca Ha/Ab Paris, BnF, fr. 1576 (XIV, 2o q.) Cologny-Genève, Bibliotheca Bodmeriana, 79 (1308) Dijon, Bibliothèque Municipale, 526 (1310 ca.) [ms. di controllo di Lecoy = C] Chev Dortmouth College Library, Rauner Codex 3206 (1300 ca.) CxM Cod. ‘Cox Macro Rose’, già della John Rylands University, privato (1310 ca.) Da Paris, BnF, fr. 12786 (1300 ca.) [ms. di controllo di Lecoy = D; base di Strubel per GdL; contiene solo la prima parte] Fi/Lq Paris, BnF, fr. 9345 (XIV, 2o q.) Frankfurt, Stadt und Universitätsbibliothek, Lat. Qu. 65 (1310-’20 ca.) Ha/Ab Paris, BnF, fr. 1573 (XIII ex.) [base di Lecoy = H] Jo Paris, BnF, fr. 1569 (1320 ca.) La Paris, BnF, fr. 1559 (1290-1300 ca.) [ms. di controllo di Lecoy = L] Lq Fi/Lq λα/Lz Paris, BnF, 12587 (1310-’20 ca.) Urb Vat. Urb. lat. 376 (1280-’90 ca.) Za Paris, BnF, fr. 25523 [ms. di controllo di Lecoy = Z; base di Poirion e già di Méon] θα Paris, BnF, fr. 378 [base di Strubel per JdM] Uso come base di collazione il testo di Ha/Ab, ms. base dell’ed. Lecoy. Per quanto riguarda la prima parte, 7 rime non ricche sono in monosillabo, giusta l’osservazione di Langlois (i p. 56), secondo cui « En général, les rimeurs qui s’imposaient cette règle [la regola della rima ricca] s’en affranchissaient pour les monosyllabes et pour les noms propres ». 57. M. Ferretti, Il ‘Roman de la Rose’: dai codici al testo. Studio della piú antica tradizione mano scritta, tesi di dottorato, Bologna 2011; da qui traggo anche la datazione dei codici. Com’è noto, le sigle doppie si riferiscono, secondo l’uso di Langlois, che sigla secondo la sua recensio per fa miglie (lettera maiuscola) e codici (lettera minuscola), rispettivamente alle due sezioni del ro manzo, dall’una all’altra delle quali piú codici cambiano famiglia. 258 tra norma e stile: questioni metriche e attributive 1) 3863-64 Ha De bon mur fort et quarniaus bas / Si que cheval ne puent pas58 Lecoy 3845-46 puënt, Langlois ne pueent. Non riguarda la rima la dispersione di varianti al verbo: accanto a Ha Bodm puent, Za poent, Urb Ca La Chev Fi Jo pueent, CxM peuent, con il singolare (nonostante cheval) Bâ puet (-1, se non va inteso puet variante di puent per pueent), Da poist, θα peust, Frankfurt pouait. λα qui manca. 2) 3893-94 Ha Vet sovent et vient quant il set / Quil doit la nuit fere le guiet 59 Lecoy 3875-76. La rima set : guiet non si direbbe perfetta; Ca Jo Bâ quant il set : le guet. Trascurando per il resto il gioco delle varianti sinonimiche, è piú convincente il tipo quant li siet : le guiet di La Bodm Frankfurt, o quant il li siet : guiet di Da Urb Za θα Chev CxM Langlois: Vait il e vient quant il li siet, / Qu’il doit la nuit faire le guiet ‘Va e viene quando gli va (a suo piacimento), perché deve fare la guardia di notte’, non ‘quando sa che deve fare la guardia di notte’. λα manca. 3) 3947-48 Ha Puet ele estre bien aseur / Mes ie cui sui de hors le mur 60 Lecoy 3919-20 (qui sui, come Langlois). Senza varianti di rilievo. 4)4005-6 Ha Gardez moi seviaus vostre cuer / Et ne soffrez a neis un fuer 61 Lecoy 3977-78. Senza varianti di rilievo. 5) 4009-10 Ha Ausi come ele a fet le cors / Et sel vos chastie de hors 62 ms. le cros, corretto da Lecoy 3981-82. dehors o de hors alterna con defors Da Urb La Bodm Jo Fi λα e Langlois. 6)4041-42 Ha Si ai poor et desconfort / Qui me donroit ce croi la mort 63 Lecoy 4013-14. Senza varianti di rilievo. 7)4051-52 Ha Et se divient si ont il fet / Je ne sai or coment il vet 64 Lecoy 4021-22. Senza varianti di rilievo. Gli altri due casi sono registrati fra le eccezioni alla rima ricca in assenza di monosillabi da Langlois, i p. 56: 8) 3895-96 Ha Il monte le soir as quarniaus / Et atrempre ses chalumiaus 65 Lecoy 3877-78. Senza varianti di rilievo (non incidono sulla rima le forme con -eCa calemiaus, Urb Za Fi chalemiaus, Jo qualemiaus, Bâ chalemeauz; λα qui manca). 58. ‘Di forti mura e merlature basse, cosicché i cavalli non possono […]’. 59. ‘va e viene spesso quando sa che deve fare la guardia di notte’. 60. ‘(Gelosia) può considerarsi bene al sicuro. Ma io che sono al di fuori del muro […]’. 61. ‘conservatemi almeno il vostro cuore, e non sopportate a nessun patto […]’. 62. ‘cosí come (Gelosia) ha fatto (ha messo in servitú) il cuore; e se vi reprime esteriormente […]’. 63. ‘e ne ho paura e sconforto, tali da darmi, credo, la morte’. 64. ‘e può essere che l’abbiano già fatto. Io non so ora come va […]’. 65. ‘la sera sale sui merli e dà fiato alle sue zampogne’ (Battaglia). 259 pietro g. beltrami 9)4021-22 Ha Vos vengiez seviaus em pensant / Que vos ne poes autrement 66 Lecoy 3993-94. Si noteranno come curiosità Fi en passant e Ca en pensant / A moi qui sui vostre seriant. In altri 11 casi la rima è ricca, ma non leonina: 10)3875-76 Ha Qui ovre par devers midi / El fu molt sage et si vos di67 Lecoy 3857-58. Senza varianti di rilievo (λα qui manca). 11) 3885-86 Ha Si ne luevre pas molt sovent / Que quant ele ot bruire le vent 68 Lecoy 3867-68. Senza varianti di rilievo (λα qui manca). 12)3929-30 Za Que amors a ses gens depart / En sa jonece bien sa part 69 Lecoy 3908c-d (su Za, om. Ha). Da notare che Ca se part darebbe una rima leonina, ma -e è un tratto linguistico del ms., cfr. le mort al v. 4092, se querele per sa quere le al v. 4090, variante di la querele. Nessun’altra variante di rilievo (λα manca). 13)3941-42 Ha Son chastel quele vit si fort / Li a done molt bon confort 70 Lecoy 3913-14. Va notato solo che, tra i mss. consultati, molt bon confort di Ha è isolato contro grant reconfort (Da reconforz). 14)3969-70 Ha Et lesperance au vilain tost / Qui le voit muer trop tost (-1) 71 Lecoy 3941-42 Qu’il avoit eüe trop tost 72 (sui 4 mss. di controllo). Nessuna variante di rilievo in rima (salvo Da au vilain tout : tost, Bâ a vilain tout : trop tout). Per il v. 3970, la lezione accolta a testo da Lecoy è quasi generale. Frankfurt legge Qui le voit meurer trop tost,73 che ha l’aspetto di una lezione buonissima e difficilmente sostituibile all’altra per corruzione, che potrebbe essere all’origine di muer ipometro di Ha, coerentemente con l’idea sostenuta da Ferretti che Ha, per la pri ma parte del romanzo, sia particolarmente vicino all’originale. Resterebbe però da capire come si sia conservata (solo?) in Frankfurt. L’esistenza di qualche pro blema nella tradizione è suggerita da λα, dove su rasura, scritto con inchiostro diverso, si legge Q<uant il> la voit <venir> tost. 66. ‘vendicatevi almeno col pensiero, giacché non potete altrimenti’. 67. ‘(la porta) che si apre verso mezzogiorno. (Onta) era molto avveduta, e vi dico […]’. 68. ‘e non l’apre molto spesso, perché quando sente rumoreggiare il vento […]’. 69. ‘(del bene e dell’angoscia) che Amore distribuisce ai suoi servitori (ebbe) bene la sua parte in giovinezza’. 70. ‘il suo castello, che vede cosí forte, la (= Gelosia) ha molto riconfortata’. 71. ‘e toglie la speranza al villano che la (= ‘la speranza’, con le per il femminile, o ‘il grano’, con le maschile) vede mutare troppo presto’. 72. ‘e toglie al villano la speranza che aveva avuto troppo presto’. 73. ‘e toglie la speranza al villano, che lo (= il grano) vede maturare troppo presto’ (che troppo presto si rallegra vedendolo maturare). 260 tra norma e stile: questioni metriche e attributive 15)3977-78 Ha (A belacueil qui aprestez) / Estoit de recevoir mes gieus / Mes amors est si corageus74 Lecoy 3949-50. corageus, a testo anche in Langlois, è lezione di Ha Ca Bâ Fi λα. Molto piú appropriata al contesto (in cui si paragona la delusione dell’Amante a quella del contadino che vede la messe distrutta dal maltempo) è la lezione orageus di Urb La Za Bodm Jo (a testo in Poirion sul ms. base Za), di cui Da θα Chev Frankfurt outrageus (a testo in Strubel sul ms. base Da, con traduzione ‘excessif ’), CxM outraieus, si può considerare una conferma. Nessuna delle tre varianti dà una rima leonina. Data la facilità, in questo caso, di un’oscillazione poligenetica, non esiterei a promuovere a testo orageus. 16)3987-88 Ha Et quant ele veut ele met / Le plus bas amont ou somet 75 Lecoy 3959-60. Nessuna variante di rilievo, tranne CxM Et quant elle veult elle monte / Le plus bas amont elle monte. 17)3991-92 Ha Et ie sui cil qui est versez / Mar vi les murs et le fossez76 Lecoy 3963-64. Nessuna variante di rilievo. 18)4003-4 Ha Hai belacueil biau douz amis / Se vos estes em prison mis77 Lecoy 3975-76. Nessuna variante di rilievo. 19)4011-12 Ha Aiez dedenz cuer daimant / Encontre son chastiement78 Lecoy 3983-84. Nessuna variante di rilievo. 20)4025-26 Ha Mes ie sui en molt grant sousi / Que vos ne fasiez pas einsi79 Lecoy 3997-98. Nessuna variante di rilievo, tranne Urb sousi : ausi, che sarebbe leonina ammettendo che, grafie a parte, la protonica sia o in entrambi i casi. In un paio di casi la tradizione offre una rima leonina tra altre possibilità. Lecoy, Poirion e Strubel seguono il loro ms. base: Lecoy, con Ha, stampa due rime non leonine, Poirion, con Za, due rime leonine, Strubel, con Da, la rima leonina in 21 e la non leonina in 22, all’inverso di Langlois: 21)3917-18 Ha Amont en la tor enserrez / Dont li huis est si bien barez 80 ms. ensersez, corretto da Lecoy 3899-900 (enserrez : barez). La rima enserrez : barrez 74. ‘a Bel Accueil, che era pronto ad accogliere i miei approcci. Ma Amore è cosí animoso (corageus, trad. Battaglia) / tempestoso (orageus) / oltracotante (outrageus) […]’. 75. ‘e quando vuole, (Fortuna) mette quelli che sono in basso su in cima’. 76. ‘e sono io quello che è rovesciato giú; per mia disgrazia ho visto i muri e i fossati’. 77. ‘ah, Bel Accueil, caro dolce amico, se voi siete chiuso in prigione’. 78. ‘abbiate dentro di voi un cuore di diamante contro le sue rampogne’. 79. ‘ma sono in grande preoccupazione che voi non facciate mica cosí’. 80. ‘chiuso su nella torre la cui porta è cosí bene sbarrata (barrez, ferrez) / serrata (serrez) / chiusa (fermez)’. 261 pietro g. beltrami (cosí a testo in Langlois) è condivisa da Urb La θα Bodm enserrez : barrez, Fi en serres : barres, Frankfurt enserre : barre. Nella tradizione c’è però anche la rima leo nina: Ca enseres : seres, Da CxM enserrez : serrez (e cosí Strubel), Jo enserres : serres (ma con il v. 3918 preceduto dal 3919), Za enserrez : ferrez (e cosí Poirion); Bâ invece enserrez : fermez, con rima non ricca (λα qui manca). Ma è possibile che serrez e ferrez siano normalizzazioni sulla rima leonina, comunque molto frequente anche nella prima parte del romanzo. 22)3921-22 Ha (Une veille […]) a avec lui por lui garder / Qui ne fet nul autre mes tier 81 Lecoy 3923-24 garder : mestier col ms. base; le stesse rime in Da, e perciò in Strubel. Langlois invece stampa la rima leonina di Urb La θα Bodm Jo Bâ gaitier : mestier, Za Chev Fi CxM guetier : mestier (e cosí Poirion), Ca aguetier : mestier, Frankfurt mettier : gaitier (vv. invertiti). λα qui manca. La situazione della rima leonina nella prima parte del romanzo, verificata su un piccolo campione, è tale che scelte testuali basate sull’unico criterio della conformità della lezione alla rima leonina presentano un buon grado di incertezza. Ben diversamente nella seconda parte, sia stando allo spoglio di Langlois, sia a giudicare dall’esame del secondo piccolo campione. Qui registro quattro casi in cui la rima leonina è mancata solo in uno o due manoscritti, con lezioni che in tre casi (23, 24, 25) si potrebbero emendare anche in manoscritto unico, mentre nel quarto (26) sarebbe comunque giustificato un forte sospetto: 23)4091-92 Ab (Que le meilleur de la querele) / Eust cil qui la tient o soi / Si sui fox quant blasmer losoi82 Lecoy 4061-62. Za de soi (e cosí Poirion). 24)4121-22 Ab Sanz faille biaus dons y a mes / Il ne me vaudront riens iames 83 Lecoy 4091-92. Za y ot mes (e cosí Poirion), Urb biau don ne biau mes. 25)4125-26 Ab Por lui mourrai au mien avis / Quil nen istra ce croi ia vis 84 Lecoy 4095-96. Bodm Frankfurt ia ce croy vis. 26)4107-8 Ab Et sai que se avoir ne le puis / En brief tans ia ne vivre puis 85 81. ‘c’è con lui una vecchia per sorvegliarlo, che non ha altro compito […]’. 82. ‘che avesse il sopravvento nella contesa quello che la (= Amore) tiene con sé. Perciò sono un pazzo ad avere osato biasimarlo’. 83. ‘certo questi sono bei doni (in questo ci sono bei doni); non mi serviranno mai a nulla […]’. 84. ‘morirò per lui, a quanto mi pare, perché, credo, non ne uscirà mai vivo’. 85. ‘e so che se non lo posso avere in breve tempo non vivrò piú, poi’. 262 tra norma e stile: questioni metriche e attributive Lecoy 4077-78. Urb Chev Et sai que s’avoir ne le puis / En brief tens ien aurai trop pis (Chev se avoir nel puis, en aurai). In un solo caso la lezione non leonina è molto ampiamente diffusa nei manoscritti consultati: 27)4181-82 Ab Ton servise prandrai de gre / Et te metrai en haut degre 86 Lecoy 4151-52. θα (e cosí Strubel) Bâ p. de gre, Urb Ca La Za (e cosí Poirion) Bodm Chev Jo Frankfurt Lq λα CxM p. en gre. La lezione de gré, stampata da Langlois, e poi da Lecoy e da Strubel seguendo i loro mss. base, è però equivalente all’altra, con la locuzione avverbiale (‘prenderò, accetterò il tuo servizio di buon grado’), a fronte della costruzione preposizionale di prendere (‘prenderò in grado, accetterò con favore’), e l’oscillazione, favorita anche da en haut degré del secondo verso, è facile e poligenetica. Oltre il fatto comunque già evidente, e ben descritto da Langlois, della differenza nell’uso della rima leonina tra le due parti del romanzo (e di conseguenza del diverso valore della rima leonina come criterio di scelta testuale), quello che si nota considerando i 200 versi di ognuna delle due parti in contatto con l’altra è che il passaggio da un uso all’altro non è graduale, come sarebbe ragionevole osservare in un autore che si evolve nel corso di un’opera che lo impegna abbastanza a lungo, ma è assolutamente brusco, e avviene nel mezzo di un passo, il lamento dell’Amante, che non presenta cesure strutturali, nel punto preciso in cui Jean de Meun dice, a distanza, di avere ripreso l’opera di un predecessore. Che abbia inventato lui il nome di quest’ultimo, e magari anche la notizia dell’interruzione del romanzo per via della morte, è teoricamente possibile (ma l’unico dato cer to è che non abbiamo notizie extraletterarie di un Guillaume de Lorris, co me di non pochi altri autori medievali), ed è evidente che sulla duplicità del l’autore Jean de Meun gioca non poco, e abilmente; ma mi pare inverosimile, piú ancora che improbabile, che abbia cambiato di punto in bianco la tecnica della rima dopo quattromila versi con l’intenzione di ingannare il lettore, dopo altri seimila, con un gioco di artifici letterari. Pietro G. Beltrami Università di Pisa [email protected] 86. ‘accetterò il tuo servizio di buon grado, e ti metterò in alto grado’. 263