FEBBRAIO 2011 - N. 25 ciclostilato in proprio - distribuzione gratuita AGESCI - LOREO 1 www.lalenteloreo1.altervista.org e-mail: [email protected] SOTTO LA LENTE… L’INTERCULTURALITA’ Dopo un bel po’ di anni, cresciuti e invecchiati, ritorniamo con l’edizione del nostro giornalino associativo. Manteniamo lo stesso nome perché l’ispirazione alla base è sempre la stessa: indagare con “La Lente” dello scoutismo ciò che accade intorno a noi, partendo dalla piccola realtà loredana per sconfinare in altri Paesi e continenti. Lo scoutismo sarà il mezzo per scoprire e interpretare il nostro tempo e il nostro mondo. Guidati dai valori che fondano l’associazione e l’educazione che essa propone, tratteremo in ogni numero un tema diverso e attuale, citato nell’editoriale. Questo per far sì che i nostri corrispondenti dispongano di un campo sul quale confrontarsi, sotto l’egida del senso comune dello scoutismo, apportando esempi di vita vissuta dentro e fuori il gruppo del Loreo 1. Proprio per dar l’idea di come intendiamo viaggiare dalla piccola alla grande realtà, come primo tema abbiamo scelto “l’interculturalità”, la fusione tra diverse culture e religioni che avviene anche in luoghi semplici e raccolti qual è il nostro paese. Lo scoutismo e l’integrazione si possono considerare come un intervento educativo sulla società ed entrando in contatto si arricchiscono vicendevolmente: l’associazionismo insegna i valori di solidarietà e uguaglianza, l’interculturalità apporta nuovi stimoli e accattivanti sfide in un gruppo sempre al passo con il contesto in cui si espande. Una delle sfide AGESCI più recenti e discusse è se sia giusto o no accettare all’interno di un gruppo scout un ragazzo straniero che, pur essendo ben inserito nel tessuto sociale italiano, non è cattolico. Qui entra in gioco la variabile fondamentale dello scoutismo, cioè la totale rinuncia a decretare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Lo scoutismo affronta e vive l’esistente senza cedere a inutili sofismi e senza perdersi la bellezza e l’opportunità di crescita racchiusa in ogni contrasto. Proprio per il fatto che siamo tutti uguali, non ha senso non accettare qualcuno all’interno dell’associazione perché non professante il nostro credo. Lo stesso cattolicesimo, che fonda e guida la nostra unione, è in linea con questo principio: se non lo fosse, lo riconosceremmo come integralismo e striderebbe con quanto tentiamo di insegnare ai nostri ragazzi. Proprio perché la nostra è un’associazione cattolica può comprendere i non cattolici. Una professione di fede consapevole prevede che il credere sia un percorso a cui si arriva pian piano, non un’etichetta culturale data dal posto in cui si è nati, per forza e non per dono. L’adesione ad un gruppo scout cattolico propone questo percorso e permette di conoscere meglio la religione e la cultura italiana agli stessi cattolici. Sarà poi coscienza e responsabilità dell’individuo scegliere cosa essere. Ma come si fa a scegliere senza aver visto e vissuto le alternative? Non si finirà mai di scoprire quanto dobbiamo allo scambio con esseri umani tanto diversi e tanto uguali a noi e negli articoli di questo numero ve ne daremo un assaggio. Max Forsyte, autore della rubrica sulla storia dell’AGESCI, spiegherà come lo stesso scoutismo debba la sua origine alla lontana cultura africana. La lupetta Beatrice esprime invece la sua candida e convincente posizione sul fatto che la nostra diversità è talmente ovvia e bella da esser più facile a dirsi che a farsi. Laura e Alberto, infine, ex capi scout partiti per mete remote, porteranno l’esempio di come vengano a contatto tutti i giorni con l’interculturalità e i suoi paradossi, sempre in debito con il Loreo 1 che ha insegnato loro quale sia la strada da seguire per sentirsi sempre a casa. E infine vista la concomitanza della nostra uscita con la “Giornata del Pensiero”, abbiamo pubblicato gli auguri dei Responsabili Nazionali, perché possano essere uno stimolo critico sulla nostra strada quotidiana. In un gruppo come il nostro si devono affrontare sfide sempre nuove, senza mai avere la certezza di come fare per tirarsene fuori. Ciò nonostante, sappiamo bene come “essere” in ogni sfida: essere scout. E pian piano vi faremo sapere cosa significa… Estote Parati! E buona lettura. (F.M.) LA VOCE DEL BRANCO... Mi è stato chiesto di scrivere il mio pensiero in relazione ad una parola un po’ difficile da spiegare: interculturalità. Letteralmente significa scambio tra culture diverse. Oggi nella nostra società vivono genti provenienti da diverse nazioni del mondo, ognuna delle quali ha una storia, abitudini e religioni diverse, ma una cosa comune a tutti: la vita, e quindi il bisogno di mangiare, avere una casa, interagire con altre persone. Italiani, africani, cinesi ecc… apparentemente così “diversi” da noi, sono invece uguali nei bisogni. Eppure ciò che è “diverso” ci spaventa, ci rende diffidenti e ci fa sentire superiori a chi materialmente ha meno di noi. Ma se ci pensiamo bene il “diverso da noi” non è solo chi viene da lontano, bensì anche il nostro vicino di casa, chi ci sta antipatico e tante persone che non condividono i nostri pensieri e i nostri valori, o che non si vestono come noi. Quindi siamo tutti diversi!! Per fortuna! Sai che noia parlare, pensare ed agire tutti allo stesso modo… E lo scautismo è al passo con i tempi? Mi sono chiesta, scavando nella mia esperienza scout, se ci sono state occasioni per vivere questa “interculturalità” e mi sono venute in mente tutte le Cacce di Primavera in cui si ha sempre la possibilità di conoscere Lupi provenienti da altri paesi, ma anche, più semplicemente, il fatto di trovare nel nostro Branco bambini di paesini limitrofi. Il Libro della Giungla stesso d’altra parte parla di un mondo, la giungla appunto, in cui Mowgli il cucciolo d’uomo vive e cresce con un branco di lupi e dove i suoi migliori amici sono Baloo l’orso, Bagheera la pantera e Kaa il pitone. Eppure, nonostante le loro diversità, convivono fraternamente seguendo la Legge della Giungla. Sarebbe bello trovare il modo di “scambiarci” le nostre diversità e trarre dagli altri esempi e insegnamenti che potrebbero tornarci utili nella vita; come un grande mercatino dove ognuno porta la propria merce per cederla in cambio di qualcos’altro. Questo dovrebbe essere il significato essenziale della parola in questione. (B.C.) ARIA DI REPARTO... Diciamocelo chiaro e tondo: per noi giovani l’interculturalità può sembrare una parolona uscita da chissà quale libro; ma in realtà non è così difficile. Significa sapersi rapportare con gli stranieri e la loro cultura! Noi scout siamo una comunità molto aperta, ma ovviamente è molto più facile a dirsi che a farsi. Cerchiamo di essere gentili con tutti e tendiamo la mano al prossimo! I nostri ideali ci insegnano a rispettare le persone anche se sono diverse da noi, per il colore della pelle, per gli usi e costumi e la loro “cultura” ; perché il nostro obiettivo è quello di rendere il mondo migliore di come lo abbiamo trovato e, soprattutto, perché alla fine siamo tutti uguali e siamo tutti sotto lo stesso cielo! Quando all’inizio dicevo che siamo aperti è perché rispettiamo e apprendiamo tutto il possibile da una cultura diversa dalla nostra e questo a mio avviso è un requisito importantissimo per essere una persona giusta e ben proiettata verso il mondo!!! In un certo senso questi ideali ci aiuteranno per il futuro perché spesso ci troveremo a contatto con persone diverse da noi…e che magari all’inizio ci sembrano pure degli alieni!!! Le persone bisogna conoscerle e capirle per poterle giudicare ecco perché i nostri capi ci insegnano a non giudicare un libro dalla copertina!! Un rito molto importante per noi ragazzi del reparto e che si lega al discorso dell’interculturalità è il “Totem”. Un tempo per la cultura africana il Totem aveva un significato simbolico particolare per una singola persona e per tutta la sua tribù. In un certo senso si trattava di una sorta di cerimonia di iniziazione, dove l’intero clan accoglieva il nuovo membro del gruppo. Per noi ragazzi altro non è che un bellissimo gioco notturno da svolgere durante il campo estivo, dove i nuovi entrati all’interno del Reparto vengono celebrati con un gioco d’onore per renderli ufficialmente protagonisti della vita del gruppo. Come ogni tribù che si rispetti, anche ai nostri nuovi arrivati viene affibbiato un nomignolo simpatico; questo è la fusione tra il nome di un animale e un aggettivo ed entrambi devono rispecchiare il pregio ed il difetto più originale e vistoso della persona. (I.D.) In principio C’è una necessità scritta nelle pieghe profonde della realtà degli uomini: tornare alle origini, arrivare da dove si è partiti. Non per percorrere sempre senza senso la vita in continui ritorni sempre uguali (non è una ciclicità chiusa e disperata nella quale esistiamo), ma per crescere e diventare noi stessi. L’immagine che mi aiuta a visualizzare questa dinamica è quella delle scale di casa, che permettono di salire dal primo al secondo, al quarto … all’ottavo piano. Ogni volta salire è faticare, ma anche tornare sui propri passi e ritrovarsi con la visuale delle finestre che rivela lo stesso panorama, lo stesso orizzonte. Lo stesso, eppure diverso, perché ogni piano più su lo sguardo si allarga e si approfondisce sulla realtà, completandola . Così è per il corpo, così succede per la memoria, questo accade per il nostro apprendimento, per l’intelligenza e il nostro mondo emotivo. Le nostre relazioni, il nostro rapporto col mondo e con Dio sottostanno a questa dinamica evolutiva. Il passo di oggi chiede di essere la continuazione di quello di ieri: simile e diverso, uguale e più ampio. A volte però, delle rotture fanno perdere l’orientamento e il senso, e occorre riavvolgere il nastro per ritrovare il segno e le radici perdute. Gesù rimprovera i farisei e gli scribi di essere fin troppo bravi nell’inventare tradizioni umane, e scardinando l’ordine divino che permette di stare a contatto con la realtà (Mc 7,13): in nome di una presunta spiritualità o purità spingono, allontanando dal vero, con l’unica pretesa di essere quelli che sono nel giusto. Riavvolgere il nastro è tornare all’In principio di Dio, dove impariamo a togliere le mani dalla creazione per accettare il riposo che permette la gioia di stare in ciò che è (Gn 2,2). I farisei e gli scribi del Vangelo non sono altro da noi, dal nostro mondo interiore. Anzi: fanno parte del mare di voci e opinioni che popolano il nostro universo e pretendono attenzione. Sono istanze che porto in cuore che necessitano conversione, questa selva di voci che prende il posto del serpente capace di ingannare prima Eva, poi Adamo, per arrivare a provarci anche con me, sapendo che io non sono migliore o più forte. Solo che ho dalla mia Gesù, che mi insegna la libertà dalle catene inventate e spacciate come fondamentali, e invece sono solo tradizioni di uomini. Don Paolo Capita ovunque, come fatto comune ed unico allo stesso tempo. Un ragazzo si reca al lavoro a bordo del suo motorino. Un incidente, i suoi 23 anni che se ne volano via ed e’ tragedia… come sempre quando i genitori sopravvivono ai figli. Morto al mattino presto, cremato al pomeriggio… usanza del paese a religione musulmana, dove mi trovo e dal quale sto scrivendo. L’azienda dove lavorava il povero ragazzo, la stessa dove sto anch’io raccoglie un generosa colletta da devolvere alla famiglia. Che ricambia e il venerdì successivo, giorno di preghiera, invita tutte le maestranze ad una cerimonia in ricordo del ragazzo. Pregheranno insieme, e siederanno poi a mangiare insieme. Arriva venerdì, a metà giornata come di consueto la produzione si ferma, gli uffici si svuotano. Silenzio. Io cosa faccio? Non so…so già che gli inglesi non andranno, non ho bisogno di chiederlo. Alla fine decido di andare. Partiamo in tre. Il villaggio e’ ad una mezz’ora di strada, verso l’interno. Colline basse, giungla, piantagioni di palme, qualche insediamento lungo la strada. Il sole fa ancora capolino tra le nuvole ma il vento sta portando su umidità dal mare, presto pioverà. Sbaglio strada un paio di volte, qualche saliscendi ma alla fine arriviamo al kampung, al villaggio. Strade strette, case in ordine sparso in legno e lamiere, decorose, perlopiù ad un piano, alcune su palafitte (qua quando piove…. piove!). Tanto verde tutt’intorno, palme, alberi di papaya, piante grasse, orchidee, cespugli fioriti…un botanico apprezzerebbe. Scorgo la scuola, un campo di calco ben tenuto, la clinica…. e la moschea? Dov’e’ la moschea? Ah eccola là! la nostra meta è lì vicino. Parcheggio un po’ distante, ci guardiamo attorno, c’è un po’ di gente che va e viene, li seguiamo ed arriviamo alla casa dove abitava il ragazzo, tutt’intorno su qualche spiazzo hanno allestito delle tavolate all’ombra di alberi e tende. Tanta persone, ci sono i vicini di casa, e la gente che lavora da noi. Molti stanno già mangiando altri parlano tra loro ma non c’è troppo chiasso. Atmosfera sobria, non contrita. Mi sfilo gli occhiali da sole. Mi corre incontro il fratello del defunto, anche lui lavorava da noi, ora non più. “Welcome boss, thanks thanks… Please come”. Gli stringo la mano e poi la porto al petto come si usa qui. Gli altri due che erano con me li ho già persi. D’istinto e un po’ in imbarazzo mi dirigo verso chi conosco, là ci sono i ragazzi del controllo qualità con i quali spesso ho giocato a calcetto, mi accolgono tra loro. Mi offrono qualcosa da bere. “No food?” no grazie ragazzi ho già mangiato. Finita la preghiera?, chiedo. “Yes boss, prayer already finished…eheh.. now makan” ora si mangia. Sul tavolo a fianco, i vecchi del villaggio nel loro vestito e copricapo tipici stanno consumando il loro pranzo, alcuni mi osservano incuriositi, altri continuano a mangiare impastando le pietanze con la mano e portando poi il boccone alla bocca. Ad un tratto viene da me il direttore di produzione… è uno di loro, mi dice che il padre del ragazzo mi vuole invitare a mangiare con lui, dentro in casa. Io provo a declinare cortesemente, non voglio disturbare… poi ho gia’ mangiato in una bettola sulla costa dove fanno i calamaretti fritti più buoni di tutta la costa est..e fried rice, steamed fish, potato leaves…sono pieno, veramente. “Non puoi rifiutarti”, mi fa, “gli hai reso onore visitando la sua casa e lui vuole ricambiare così… come on, bello!”. Mi alzo, lo seguo, mi tolgo le scarpe, salgo i tre gradini, entro. Una sala spaziosa, pareti di legno, soffitto in lamiera e travature esposte, pavimento in linoleum o qualcosa del genere. Mancano quasi del tutto gli arredi, un armadio basso, un divano sul quale non e’ seduto nessuno. Gli uomini sono tutti seduti a terra attorno ad un tappeto con su le pietanze per il pranzo. Alcune donne tutte con il velo in testa, un po’ come usavano le nostre nonne, sono invece in disparte sedute su delle sedie allineate alla parete, da una trave pendono un paio di molle alle quali e’ appesa una piccola culla rudimentale in panno. che va su e giù e dentro, cullata dal moto perpetuo, una bellissima bimba dorme beata. Non c’è caldo, la ventilazione e’ buona, favorita dalle molte finestre e da qualche ventilatore sul soffitto. Stringo la mano al padre del ragazzo, mi presenta la famiglia, una delle donne sedute là è la madre del ragazzo, le faccio un cenno lei mi sorride prontamente, c’è anche qualche anziano del villaggio. Non c’è il clima “funebre” che ci si aspetterebbe, avverto piuttosto serenità, dignità, più sorrisi che volti tristi, un pizzico di allegria anche. Il loro modo di onorare i Morti, forse. Seduto al mio fianco un altro che lavora con me mi dice che quelle case, quel villaggio e’ stato costruito dal governo, cosi’ come l’insediamento industriale non molto distante da lì che lavora l’olio di palma …casa e lavoro. Mi siedo per terra e mi verso sul piatto un po’ di riso, qualche verdure mescolata con pezzetti di ananas ed un po’ di montone grondante una salsa che sa di curry. Prontamente una delle donne mi porge un paio di posate e mi toglie dall’imbarazzo di dover mangiare con le mani come fanno gli altri commensali. Spunta qualche macchina fotografica, clic una foto, clic un’altra foto. Mentre consumo il mio pasto e scambio qualche battuta, un gruppo di ragazze in abito lungo di batik sorridenti entrano in sala da una stanza laterale, si recano dalla madre le prendono una mano portandosene il dorso prima alle labbra e poi alla fronte. La donna le lascia fare, scambiando al contempo qualche parola con loro. Finisco il pasto, sto ancora un po’ con loro, poi penso sia meglio lasciarli al loro mondo e io tornarmene al mio, così mi alzo e saluto tutti. Il padre del ragazzo mi accompagna fuori, aspetta che mi sia riallacciato le scarpe, poi mi dà la mano davanti a tutti, “thank you, thank you” mi dice in inglese. “Terima kashir” rispondo io nella sua lingua. E me ne torno alla macchina, dopo aver recupero gli altri due. Qualcuno mi aiuta a far manovra e mi indica la strada da prendere per uscire dal villaggio senza perdermi. Imboccata la strada, ripasso a fianco del campo sportivo, dove un gruppo di ragazzi ha cominciato a giocare a pallone. Uno di loro indossa la maglia dell’Inter…proprio vero…. i tempi cambiano. A.C. (3° 48’ 44” N, 103° 19’ 43” E) Quando Robert Baden-Powell decise di adattare il suo opuscolo "Aids to Scouting" per i ragazzi era ben lontano dal pensare di creare una nuova associazione. All’inizio lo scautismo era visto come un movimento di idee e non come un’associazione a se stante. Furono molte le associazioni esistenti che si confrontarono o scontrarono con questo largo interesse dimostrato dai giovani nei confronti dello scautismo. Infatti se già c’erano organizzazioni per giovani queste ignoravano la potenzialità che scaturiva proprio dai ragazzi. Fu così che B.P. decise, nel 1907 di sperimentare personalmente “sul campo” le sue idee, che noi oggi definiremo pedagogiche, ma che allora non avevano questi connotati. Fu il primo campo scout della storia; il campo dell’isola di Brownsea. Per meglio verificare le sue idee convocò ragazzi di estrazioni diverse, di cultura differente. Una ventina di ragazzi provenienti da differenti classi sociali: 10 dalle scuole pubbliche di Eton (per lo più figli di amici di B.P.), 7 dalle Boy’s Brigades di Bournemouth e 3 dalle Boy’s Brigades di Poole. Una volta concluso il campo, B.P. utilizzò ciò che aveva appreso dall’esperienza diretta con i ragazzi modificando il suo testo “Aids to Scouting” per adattarlo a dei giovani dando così la luce a “Scouting for boys” (Scautismo per ragazzi) pubblicato in sei fascicoli nel 1908. B.P. propone una visione della vita impostata sull’impegno e sul dovere, verso gli altri certamente, ma soprattutto verso se stessi. Utilizza in maniera forte il gioco come momento di formazione e la visione del mondo come insieme di soggetti diversi ma complementari. Questo nuovo modo di intendere la figura del ragazzo, protagonista e non spettatore passivo della sua crescita, crea non poche perplessità nell’ottuso mondo educativo di fine ottocento. Ma da dove B.P. aveva imparato questo modo di interpretare i giovani? Sicuramente la sua esperienza di lavoro la fece da padrona. B.P. era un’ufficiale dell’esercito britannico e qui serve una piccola divagazione: sfatiamo una volta per tutte che essendo il fondatore un militare lo scautismo ha, di conseguenza, in sé una componente di militarismo. Bisognerebbe conoscere un po’ di più la storia e la mentalità diversa da quella italiana. Nell’Inghilterra Vittoriana il militare era un mestiere e ben considerato anche; non c’era la coscrizione obbligatoria che venne attuata solo nel 1916 quando la spaventosa carneficina della Prima Guerra Mondiale aveva creato dei vuoti spaventosi in seno ai reggimenti al fronte. La Gran Bretagna viveva all’apice del suo splendore proprio perché aveva accumulato un impero di colonie, protettorati, dominion dai quali prendeva di tutto. Inoltre i produttori della madrepatria avevano un mercato vasto e privo di concorrenza. La forza economica che ne derivava aveva bisogno della sicurezza e del controllo di questi possedimenti, ed ecco l’esercito, piccolo ma ben organizzato e, soprattutto, fatto da volontari motivati; era in pratica una polizia coloniale. Si può ben comprendere come nell’isola di Albione il mestiere di soldato fosse ben visto e ricercato. Per accedervi c’erano da superare robusti esami, e non solo fisici. B.P. viaggiò molto, conobbe culture diverse, visse in mezzo a popolazioni di usi e costumi molto lontani da quelli di casa. Visse in India, nel Natal (Sud Africa), in Afghanistan e nel Bechuanaland (Africa sud-occidentale). Visitò quasi tutta l’Africa orientale dall’Egitto al Sudan; fu in Russia, in Grecia ed in Italia. Andò in missione in Alzazia e in Lorena (in Francia al confine con la Germania) ed andò poi in Sudafrica. Era un ottimo osservatore, ma soprattutto, aveva la mente libera da pregiudizi e imparò molto portando nello scautismo tutte quelle caratteristiche che aveva avuto modo di osservare. Qualche esempio? Tutti noi sappiamo che gli scouts quando si riuniscono lo fanno in cerchio. Vi siete mai chiesti il perché? Durante la campagna in Costa d’Oro vide che i guerrieri della tribù degli Ashanti pur essendo in minor numero erano più rapidi e preparati di altre tribù. Osservò che si riunivano attorno al loro capo in cerchio, così tutti potevano vedersi in faccia e tutti potevano sentire ciò che veniva detto loro. Tutti erano così informati di quello che si doveva fare. Imparò inoltre dagli Zulù a suddividere in piccole squadre, comandate da un capo non imposto ma scelto tra loro. L'idea-base è quella che sarà utilizzata anche nello scautismo: abbreviare i tempi di apprendimento grazie alla responsabilizzazione e all'auto-formazione. Anche da comandante del suo Reggimento (5° dragoni) continua ad applicare ciò che ha imparato sul campo anche se vietato dal regolamento: contatti personali con i subalterni, basati sulla fiducia e sulla responsabilità personale. Organizza i soldati in attività di autostima ed evita che vi siano tempi morti nella vita di caserma. Secondo BP in questo modo la disciplina sorge dall'interno ed è quindi molto più efficace. Cambia anche le norme igienico-sanitarie, sfidando il regolamento. In questo modo azzera la mortalità dei suoi uomini e dei cavalli, insospettendo il ministero. Abbattuti anche i casi di ubriachezza e criminalità: questa esperienza gli sarà molto utile al momento di elaborare il concetto di auto-responsabilità che sta alla base dello scautismo. Nel suo reggimento gli ufficiali devono guidare gli uomini più con l'esempio che con gli ordini: anche questo è rivoluzionario. Anche i “tizzoni”, quei due legnetti appesi al fazzolettone dei Capi, derivano dal mondo africano; facevano parte di una collana di un Capo degli Zulù. Il rapido evolversi degli eventi portò l’associazione degli scout a propagarsi per tutto il mondo con esiti che, per il tempo, avevano dell’eccezionale, basti pensare che il volume "Scouting for boys", il testo-base dello scautismo vende 110 mila copie in un anno. Ma il pensiero di internazionalità non lascierà mai il Fondatore e la sua idea educativa, anche quando lo scautismo scavalcherà i confini dell’Impero Britannico per incunearsi in tutti gli anfratti della Terra. Nel 1909 si terrà a Londra al Cristal Palace la prima grande riunione degli scout che prenderà il nome di Jamboree (marmellata, l’insieme di tante persone differenti proprio come la marmellata fatta da tanta frutta diversa). A distanza di soli 2 anni dalla nascita si ritroveranno in 11.000 ragazzi. (MAX FORSYTE) |Ä ÇÉwÉ A breve potrai lasciare i tuoi commenti sul sito: www.lalenteloreo1.altervista.org Oppure puoi già inviarci una mail all’indirizzo: [email protected] 3 (11,1 ) Lida è il responsabile del mio team di lavoro. E’ di origine ucraina ma madrelingua inglese. Qui in Italia si fa chiamare Roberta dagli amici, dice che è il nome che ha scelto per diventare italiana e così si sente sempre più a casa. Anche Judith è una collega, in questo momento lavora da Hong Kong dopo aver passato due anni a Pechino. Judith è tedesca ma ha sempre studiato in Italia, acquisendo così un certo accento romano che non ha perso neanche sposando il suo attuale marito, nato e vissuto a Mestre. Suo figlio è nato a Pechino, avrà un doppio passaporto e probabilmente crescerà parlando perfettamente due o tre lingue. Anche per Raphael, il figlio del mio capo, sarà così: imparerà l’italiano dal suo papà toscano, l’inglese da sua madre australiana e lo spagnolo dalla tata sudamericana. Storie di vite. Racconti di migranti che per seguire un lavoro, per costruire un futuro e crescere una famiglia, hanno scelto la bella Italia. Si potrebbe pensare che io lavori in un’azienda sui generis, ma il tema è un altro: questa è la normalità al giorno d’oggi. Il mondo è pieno di persone che si muovono al di fuori dei confini dei propri stati per le ragioni più diverse. Il risultato inevitabile è l’evolversi di una società sempre più interculturale, in cui le distanze si accorciano e la prossimità fisica è solamente un aspetto della costante interconnessione degli individui. Oltre ad avere importanti ripercussioni dal punto di vista culturale, questa dimensione globale rappresenta un enorme potenziale di scambio, sia in termini di flussi di denaro che di informazioni. E così una piccola azienda locale che produce essiccatoi per legno nel padovano, grazie ad una buona idea ed network diffuso, può permettersi di esportare i propri prodotti in Africa e Sudamerica. Viceversa, stando comodamente seduta a casa, in molte cittadine medio-piccole potrei ordinare la spesa al supermercato dietro l’angolo con la stessa facilità con cui prenoto i voli per la prossima vacanza o acquisto un originale sestante nautico del 1815 su e-bay. La potenzialità di questa dimensione glo-cale (globale e locale al tempo stesso) è smisurata e non viene neppure più messa in discussione dalla stragrande maggioranza delle aziende che vogliono essere competitive sul mercato. Tale fenomeno ovviamente si applica anche al mercato del lavoro, comportando non pochi problemi per i giovani d‘oggi. In generale, coloro che sono molto radicati al territorio d’origine si trovano a fare i conti con una oggettiva difficoltà a trovare un lavoro soddisfacente vicino casa, in una dimensione quindi molto locale. Al tempo stesso, parallelamente a quella reale, vivono una seconda vita, una dimensione sconfinata e virtuale, quella di internet e dei social network, che li mette in contatto potenzialmente con il mondo intero e ad età sempre inferiori. Come far convivere dunque queste due anime? Come districarsi in questa crescente complessità dove troppo spesso, in un piccolo paese come il nostro, immigrato è sinonimo di diverso, povero, minaccia da cui difendere il proprio lavoro? Come conciliare la propria identità locale di Italiano, polesano, loredano, in un contesto dove globalmente il rischio di furto di identità virtuale è talmente alto da essere assicurabile? Azzardo una tesi. La risposta potrebbe forse trovarsi in un rovesciamento delle paure tipiche fondamentali che hanno a che fare con questa complessità? Se potessimo leggere la diversità culturale come un valore, invece che una minaccia, e se vedessimo l’interconnessione virtuale degli individui come strumento piuttosto che un fine? Allora forse queste due dimensioni non sarebbero poi così inconciliabili e rappresenterebbero invece un’opportunità, non soltanto di crescita personale ma anche professionale. L’apertura al cambiamento, la curiosità nei confronti del prossimo, l’abilità di leggere contesti globali sempre più complessi, la flessibilità a spostarsi sul territorio, la conoscenza delle lingue e dei linguaggi contemporanei: tutti questi elementi pesano sempre più sul curriculum di chi si affaccia al mondo del lavoro. Le aziende più competitive e solide, costrette anch’esse a trovare un equilibrio fra dimensione locale e globale, hanno infatti un fondamentale bisogno di diversità, che si traduce in multiculturalità e diversificazione dei profili professionali. Perché la diversità genera creatività. Perché la creatività è ciò che permette agli organismi di immaginarsi un futuro migliore. Perché il futuro è ciò che accomuna e la diversità è il valore che distingue le persone. Tutti. Ovunque. (L.S.) Prot. 49/PPCGCSAEG Roma, 17 febbraio 2011 Alle Comunità Capi e p.c. ai componenti il Consiglio generale THINKING DAY 2011 Come un compleanno rende un giorno del tutto speciale, così la ricorrenza del 150esimo dall’Unità d’Italia rende quest’anno diverso da tutti gli altri. Il fatto di festeggiare come scout la Giornata del Ricordo, o meglio del Pensiero (perché il pensiero è molto di più di un semplice ricordo), pochi giorni prima della Festa proclamata proprio per ricordare questo bel compleanno del nostro Paese, ci offre l’occasione per affiancare il nostro essere scout al nostro essere cittadini e cittadine di questo Paese. Un primo pensiero va alle donne e agli uomini d’Italia che si sono adoperati come cittadini attivi, spendendosi nei più disparati ambiti della società civile, facendo la propria parte perché la varietà delle esperienze, delle competenze, delle provenienze, delle culture, dei dialetti, delle tradizioni, …. potessero ricomporsi nella concordia di un’unica Nazione. E molti di loro hanno indossato l’uniforme scout! Non possiamo però dimenticare che, in questo nostro tempo, come agli albori della nostra storia, incombono sul futuro dell’Italia numerose spinte che, enfatizzando particolarismi, localismi, razzismi, egoismi di piccolo o grande rilievo, rischiano di innalzare barriere anziché di aprire le porte dell’incontro, della tolleranza e della convivenza armoniosa di culture e religioni diverse. Ci sembra che tutti questi modi di pensare siano purtroppo solo una parte delle degenerazioni che deturpano l’immagine del “buon cittadino” tanto cara al nostro fondatore ed anche a noi. Ci chiediamo allora, oggi come all’epoca dell’unità d’Italia, a quali modelli, maestri e, soprattutto, testimoni poter fare riferimento, in questo tempo di troppi “indecorosi” spettacoli che riempiono le cronache e che scandiscono i palinsesti televisivi. L’adulto che riceve oggi quel testimone, passato di mano in mano tra generazioni di cittadini italiani, fa forse più difficoltà a vivere con serietà e coerenza un ruolo da protagonista, in grado di raccogliere con coraggio le sfide del mondo contemporaneo. E così, ad una crisi sociale ed economica, se ne affianca un’altra che mina l’essenza stessa della persona. La Giornata del Pensiero è allora per noi, in particolare quest’anno, l’occasione per riaffermare che lo scautismo, specie quello cattolico, sente forte il dovere di rispondere con l‘EDUCAZIONE al degrado valoriale, alla perdita di modelli di riferimento stabili, alla cultura dell’apparire e del sopraffare l’altro ad ogni costo, alla mercificazione della donna e quindi, in buona sostanza, al venir meno di un nitido orizzonte di senso; ed in questo ci sentiamo rafforzati dalla scelta della Chiesa italiana di identificare nell’educazione la parola chiave per la pastorale del prossimo decennio. Di fronte ai pessimi esempi che ci sono dinanzi, lo stile dell’esploratore, capace di osservare, dedurre e agire così come l’impegno della Promessa e la positività della Legge scout, ci sembrano essere la strada maestra da battere, evitando di lasciarsi andare a lamenti inutili quanto scontati. Ogni scout desidera certamente essere protagonista e pensare al futuro proprio come a quello del proprio Paese, esprimendo correttamente e, se necessario con determinazione, il proprio pensiero ed eventualmente il proprio dissenso rispetto a scelte contraddittorie, ingiuste ed irrispettose dell’uomo e dell’ambiente. L’AGESCI, consapevole dell’urgenza educativa di questo tempo, impegna giovani e adulti in un rapporto autentico, perseguendo la genuinità di relazioni vere, serie e profonde, che a fianco di giovani, protagonisti e non semplici spettatori, impegna degli adulti desiderosi di testimoniare una cittadinanza attiva, responsabile e decorosa. La sfida educativa dell’oggi non può quindi prescindere dal porre al centro la cultura della legalità: l’etica del limite connesso con il concetto vero di libertà. E’ importante educare alla comprensione che non tutto ciò che è possibile è anche lecito, ma anche all’esperienza umana della sconfitta, in una società rivolta esclusivamente al vincente, al migliore, al perfetto. Educare all’etica del limite significa proporre un’alternativa ad una cultura del “successo ad ogni costo”, che sfocia facilmente nel dileggio delle regole civili e sociali. E il senso della nostra Legge può e deve aiutarci in questa sfida: è bello giocare con delle regole, quando si gioca insieme; ci sono delle leggi da rispettare per stare bene insieme a vantaggio di tutti. Buona parte di quelli che hanno lottato e sono morti per l'unità d'Italia erano giovani, talvolta giovanissimi! Che cosa possiamo fare, oggi, noi ragazzi, noi giovani, noi capi, perché l'Italia sia più unita e perché si costruisca un Paese con l'obiettivo del Bene Comune? Per fare questo crediamo sia importante non chiuderci nelle nostre sedi, ma aprirci alla realtà nella quale siamo inseriti, vivere esperienze di conoscenza e di vita con le persone considerate normalmente “diverse” per colore della pelle, provenienza, religione, per conoscerli ed imparare a rispettarli, facendo memoria di quelli che ci hanno preceduti, dalle “Aquile Randagie” a Don Peppe Diana, solo per citare due esempi. L’augurio del Thinking Day 2011 diventa dunque, ancora una volta, un impegno ad “essere”, prima ancora che a “dire” o “fare”, adoperandosi per “lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”, sapendo reagire al pessimismo ed alla voglia di tirare i remi in barca. Buona Strada.