FONTI DELLE CITAZIONI DAI PADRI DELLA CHIESA COSÌ COME RIPORTATI NELL’OPUSCOLO: “DOVRESTE CREDERE NELLA TRINITÀ?” La polemica contro i Testimoni di Geova non conosce fine. Non perché questo gruppo religioso sia al di sopra delle critiche. Nessuno lo è. Ma francamente molte delle cose che leggiamo contro di loro ci sembrano pretestuose ed inutilmente astiose. L’ultima, in ordine di tempo, è l’accusa che riguarda le citazioni presenti nelle pubblicazioni Watch Tower. Secondo la critica più generosa esse sarebbero faziose, secondo la critica più aspra falsificherebbero il pensiero degli autori stravolgendolo totalmente. Una vecchia pubblicazione della Watch Tower afferma: “I testimoni di Geova sono un’organizzazione di verità. Dovremmo voler dichiarare la verità ed essere sempre assolutamente accurati in tutti i particolari. Questo si dovrebbe fare non solo riguardo alle dottrine ma anche nelle citazioni, in ciò che diciamo intorno ad altri o nel modo in cui li rappresentiamo, e negli argomenti che implicano dati scientifici o notizie di cronaca.” (Manuale della Scuola, pag. 110) I Testimoni di Geova si vantano quindi di essere scrupolosi nelle citazioni e raccomandano lo stesso scrupolo ad altri. Ciò non significa che errori involontari non possano essere stati fatti. Quello che è contro la stessa norma organizzativa e i principi dei Testimoni di Geova è la citazione “artefatta”, “faziosa” e “in mala fede”. Molto spesso noi Testimoni di Geova citiamo commentari e/o dizionari biblici a sostegno delle nostre tesi. Il più delle volte ci viene replicato che queste citazioni non sono valide in quanto evidenziamo solo ciò che consideriamo utile al nostro ragionamento, tralasciando le affermazioni principali di questi dizionari perché scomode e/o contrarie alla nostra tesi. Osservazioni simili rivelano un grossolano errore di fondo nell’impostazione dell’accusa. Nello specifico, secondo i nostri detrattori, citare un autore richiede una condivisione totale del suo pensiero con relativa citazione integrale della sua opera. E’ senz’altro vero che bisogna citare fedelmente. Ma la citazione di un autore non richiede l’assenso ideologico. Ad esempio, un monaco buddista affermò: “Assumere lo sforzo gioioso significa lanciarsi con entusiasmo nell’azione, praticare, affrontare le cose avendo ben presente la loro realtà. Prima di impegnarsi in una qualsiasi pratica è bene sapere quale sarà il risultato, l’obiettivo da raggiungere e per il quale ci vogliamo impegnare”. (Geshe Gedun Tharchin) Questa frase è citata dal testo di un insegnamento tipicamente buddista. Il monaco parla di diversi livelli di conoscenza per raggiungere la felicità. Ma citare questa frase per dimostrare che per affrontare una cosa bisogna essere consapevoli della realtà e dei risultati che si vogliono raggiungere è corretto, pur senza aderire ai diversi livelli di conoscenza del buddismo tibetano. Nessuno scevro da pregiudizi affermerebbe il contrario. 2 Torniamo quindi alle citazioni Watch Tower ed in particolare alle citazioni che appaiono a pag. 7 dell’opuscolo “Dovreste credere nella trinità?”1 L’opuscolo fa una disamina delle prove storiche e bibliche che dimostrano l’infondatezza della dottrina trinitaria. Al sottotitolo “Cosa insegnavano i Padri preniceni” compaiono citazioni da un libro di Alvan Lamson: The Church of the First Three Centuries, Boston 1869, pp. 56, 57. Infatti, nella stessa pagina dell’opuscolo, si può leggere: “Riassumendo le testimonianze storiche, Alvan Lamson, dalla cui opera sono tratte le summenzionate citazioni dei Padri pre-niceni…”. Gli accusatori, sostenitori della tesi della “citazione idelogica”, dicono che non solo i Testimoni di Geova hanno stravolto il pensiero dei Padri pre-niceni, ma addirittura dello stesso Lamson2 . Questo nostro studio dimostrerà l’infondatezza sia della prima che della seconda accusa. Con ciò non vogliamo dire che la teologia dei Padri preniceni o di Lamson siano in armonia con gli insegnamenti dei Testimoni. Quello che l’opuscolo (e noi) voleva dimostrare è che né i Padri pre-niceni né Lamson insegnarono la Trinità nella maniera in cui viene concepita dalla Chiesa Cattolica Romana, dalle chiese ortodosse e 1 Edito in Italia dalla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova - 1989 2 Alvan Lamson (1792-1864) si laureò all’università di Harvard. Nel 1818 divenne pastore di una chiesa di fede Unitaria del Massachussets, carica che ricoprì sino al 1860. Lamson fu un vigoroso scrittore, e contribuì al periodico "The Christian Examiner", uno dei più importanti periodici Unitari dell’epoca. Tra le sue opere, si ricorda proprio "The Church of the First Three Centuries" (1865) 3 dalla maggior parte delle chiese protestanti. Una precisazione è d’obbligo: la dimostrazione riguarderà esclusivamente la teologia del Logos dei Padri pre-niceni e sostenendo che essi non insegnarono l’uguaglianza divina del Padre e del Figlio ma che la loro teologia tendeva al subordinazionismo ritenendo quest’ultimo inferiore al Padre. Alcuni si identificarono in questa credenza, anche se non esplicitamente, considerando il Cristo una creatura, pur unica nel suo essere, altri insegnando aspetti simili al modalismo o sottolineando la superiorità ontologica del Padre. Allo stesso tempo a volte gli stessi Padri subordinazionisti formularono espressioni che gettarono poi la strada al dogma niceo-costantinopolitano. Significa questo che storicamente sia possibile ricostruire il filo rosso che unisce i vari autori fino a sfociare nel trinitarismo? Pensiamo proprio di no! Altrimenti non sarebbe mai scoppiata la controversa ariana ed Ario non avrebbe avuto un consenso così largo! Anzi, questi insegnamenti contraddittori, pur potendo essere attribuiti in parte al numero esiguo delle fonti ritrovate e al bisogno di ulteriori approfondimenti, per noi rappresentano il risultato della grande apostasia che andava sempre più 3 manifestandosi. Detto questo torniamo all’esame delle citazioni nell’opuscolo Trinità. Lo studio che leggerete dimostra come la Watch Tower Society sia stata onesta nel citare questo autore 3 cfr. Matteo 13:24-44 e 1 Tessalonicesi 2:3-12 4 dall’opera The Church of the First Three Centuries4. La Società citò dall’edizione del 1869. Quando Lamson scrisse il suo libro, egli aveva a disposizione le traduzioni greche e, nel caso di Tertulliano, latine, le quali sono leggermente differenti dalle traduzioni che si trovano in THE ANTE-NICENE FATHERS TRANSLATIONS OF The Writings of the Fathers down to A.D. 3255 (ndr: da ora in avanti semplicemente ANF) che fu pubblicato dopo l’opera di Lamson. Riporteremo entrambe le versioni. Da notare comunque che la conclusione di Lamson riportata a fine di questo articolo è assolutamente conforme al pensiero che gli autori dell’opuscolo “Dovreste credere nella Trinita?” volevano trasmettere. Iniziamo con il primo Apologeta citato nell’opuscolo “Trinità”. 4 Universalist minister, prima edizione del 1860 5 Alexander Roberts, D.D.; and James Donaldson, LL.D., revisione e sitemazione cronologica con breve prefazione e notes di A. Cleveland Coxe, D.D.; Grand Rapids, Michigan, Wm. E. Eerdmans Publishing Company; ristampa del 1980s. 5 GIUSTINO MARTIRE (110-165 E.V.) Citazione dall’opuscolo: Giustino Martire, morto verso il 165 E.V., definiva il Gesù preumano un angelo creato, “diverso dall’Iddio che fece tutte le cose”. Diceva che Gesù era inferiore a Dio e che “non faceva mai nulla all’infuori di ciò che il Creatore . . . voleva che egli facesse e dicesse” Giustino al pari di altri Padri, forse anche di più, fu un grande filosofo convertito al Cristianesimo perché vedeva in Cristo e nella Chiesa la realizzazione di ciò che i saggi pagani avevano faticosamente cercato e soprattutto ciò che era celato in figura negli eventi e nelle parole delle Scritture ebraiche (II Apologia 10, 1-4). Data la formazione culturale, va da sè che, nell’esporre i suoi pensieri, si fece sentire l’influenza della filosofia platonica e delle sue elaborazioni come quella medioplatonica (ad es. Albino) o quella di Filone Alessandrino. Significativo, al riguardo, è il commento di Giuseppe Visonà, ora professore associato di filologia ed esegesi neotestamentaria e di letteratura cristiana antica dell’università cattolica del Sacro Cuore, nella sua 6 introduzione al Dialogo con Trifone – ed Paoline 1988, pag 44: “La cristologia del Logos non potrà essere sviluppata nell’impostazione di Giustino a causa di alcune intrinseche debolezze di fondo. Infatti il quadro da cui Giustino desume e in cui mantiene la nozione di Logos è di natura essenzialmente cosmologica, vale a dire che il Logos esplica funzioni di mediatore tra Dio (di cui salva l’assoluta trascendenza) e l’universo (di cui è principio di intelligibilità e di ordine). Cfr. p. es. II Apologia 6,3:” In principio Dio per mezzo del Logos creò ed ordinò l’universo”. Da una parte dunque la generazione stessa del Logos viene messa in relazione con la creazione, sicchè per la fase precedente non appare sufficientemente salvaguardata la distinzione tra il Padre e il Figlio, il quale ultimo, appunto, sembra assumere sussistenza propria solo in quanto “emesso” dal Padre in vista della creazione (è a questa fase che si riferiscono passi come Dial. 128,4 in cui Giustino parla del Figlio come numericamente distinto dal Padre); d’altra parte proprio la funzione che egli assume una volta emesso lo colloca in una posizione d’inferiorità rispetto al Padre (subordinazionismo). A questa impostazione i cristiani (da Giustino a Clemente a Origene) furono indotti dall’attrazione esercitata su di loro (anche come possibile via per rendere appetibile il cristianesimo all’ambiente pagano) della nozione di “Dio secondo”, diffusa nel medioplatonismo per designare o il logos o il demiurgo o l’anima del mondo, comunque un’entità con funzione intermediaria tra Dio e il mondo e che già Filone designava col titolo di “Dio” (Theòs), senza articolo, riservando quello con l’articolo (ho Theòs) al Dio supremo (lo stesso fa Giustino nel Dialogo, chiamando Cristo 7 Theòs e il Padre ho Theos: cfr. p. es. Dial. 56,4.10; 60,15). Di qui le espressioni in cui Giustino dice che i cristiani assegnano, e onorano, il Cristo Logos “al secondo posto dopo l’immutabile ed eterno Dio” (cfr I Apologia 13,3.; II Apologia 13,4). E’ la mancanza della nozione di “generazione eterna” che fa sì che prima della creazione sia salvaguardata la consustanzialità ma non la distinzione tra Padre e Figlio, mentre con la creazione è chiaramente affermata la distinzione ma non più salvaguardata la consustanzialità, Queste contraddizioni scoppieranno con la crisi ariana all’inizio del IV secolo. La teologia del Logos sarà portata avanti non più in chiave trinitaria ma cristologia, nel quadro della dottrina delle “due nature” di Cristo.” Da questo brano, che non necessità di alcun altro commento, comprendiamo che Giustino, in accordo con la filosofia medio-platonica, sosteneva l’assoluta trascendenza di Dio Padre per cui non è possibile che si manifesti nel mondo (Dial. 60,2; 127,2.3). Per gettare un ponte tra Lui e l’uomo ecco che entra in gioco il Logos, Suo Figlio. La nozione di Logos di Giustino è “di natura essenzialmente cosmologica” anche se sostiene che è “esistito” in Dio prima della sua generazione. Cosa significa? Significa che Giustino in questo si fece influenzare dalle elaborazioni platoniche di Filone Alessandrino (vedi p.e. Harry Austrin Wolfson in “La filosofia dei Padri della Chiesa” pag. 179-273). Egli insegnava che il Logos esisteva dall’eternità nel Dio maggiore, come idee o pensieri Suoi, ma al momento della creazione emise o creò il Logos come esistenza 8 propria e autonoma affinché ordinasse e creasse l’universo. Lo stesso concetto di due stadi di esistenza del Logos si ritrova in Giustino così come lo possiamo leggere in Dial 61,1 (ibid.) : “Vi darò, amici – dissi ancora – anche un’altra testimonianza tratta dalle Scritture, secondo cui come principio prima di tutte le creature Dio ha generato da sè stesso una potenza razionale …” Dato che il Logos è stato generato da Dio vuol dire che “esisteva” precedentemente in Lui. Ma il fatto che “esistesse” in Dio come Suo attributo vuol dire necessariamente che fosse consustanziale col Padre, come si sosterrà a Nicea? E poi cosa intendeva Giustino col termine generato? Poteva considerarlo sinonimo di creato alla stregua di Filone? Su questi interrogativi è illuminante Joseph Wolinski in “STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 143 : “Per tutto il III secolo il rapporto invisibile/visibile servirà a conciliare la trascendenza di Dio (identificata con il Padre invisibile) e la sua apertura all’uomo (identificata con il Figlio capace di visibilità). E’ evidente però che quest’ultima soluzione porta in sè il principio di un certo subordinazionismo poiché, secondo questa problematica, se il Figlio preesistente può manifestarsi, non è nella medesima condizione di Dio che, a causa della sua trascendenza, non può farlo. Nuovi problemi sorgeranno quando, a partire da Nicea, il Figlio sarà confessato in tutto uguale al Padre e per questo in pieno diritto, come lui, della stessa trascendenza. La teologia del Verbo che troviamo negli Apologisti stabilisce dunque un legame tra la generazione del Figlio e la creazione. J. Lebreton a suo tempo sottolineava già i 9 limiti di questa teologia: ”La generazione del Figlio di Dio collegata alla creazione del mondo come al suo fine, si trova da quella trascinata nella contingenza e nel tempo”. [La theologie de la Trinitè chez Cyrille d’Alexandrie, RSR, 34 (1947), p.156] L’obiezione merita di essere mantenuta. La crisi ariana mostrerà che il pericolo non era illusorio. Resta tuttavia il fatto che la teologia degli Apologisti contiene una parte di verità. Non è infatti senza importanza che – una volta salva l’assoluta indipendenza della generazione eterna del Figlio – sia riconosciuto un legame tra la creazione dell’uomo e questa generazione del Figlio, sulla base di un atto libero di Dio. Ce ne autorizza la Scrittura quando parla della nostra elezione “in Lui, prima della fondazione del mondo” (Efesini 1,4). Non si tratta di subordinare la generazione eterna del Figlio alla creazione del mondo, ma di radicare la creazione del mondo nella generazione del Figlio. Tra gli uomini e il Figlio esiste un legame di cui è testimone la Scrittura. I primi Padri della Chiesa non si interrogano ancora sulla natura di questo legame. E’ un legame di diritto o solamente un legame di fatto? L’arianesimo lo comprenderà come un legame di diritto e il Verbo sarà compreso come un momento necessario per il sorgere all’esistenza della creatura. Ma lo si può anche comprendere come un legame di fatto in modo da salvaguardare la gratuità del dono. Quest’ultimo non dipende se non dal solo “beneplacito” (eudokia) del Padre.” Se “I primi Padri della Chiesa non si interrogarono sulla natura di questo legame” può anche voler dire che dagli scritti non comprendiamo chiaramente il loro pensiero a riguardo! Se questi Padri o qualsiasi scrittore dell’antichità 10 avesse espresso chiaramente e completamente il contenuto delle loro idee il ruolo degli studiosi sarebbe semplicemente quello di raccoglie e classificare i loro concetti. Invece, per nostra fortuna e diletto, il ruolo dei ricercatori è quello di far emergere e mettere a nudo i pensieri inespressi, di ricostruire i processi razionali latenti che si trovano sempre dietro le parole pronunciate e di cercare di determinare il vero significato di ciò che un autore ha scritto. Come Ario, pur non sposando la sua teologia in toto (vedi Torre di Guardia 1 dicembre 1984, pp.24-29), noi propendiamo per credere che alcuni Apologisti e Giustino in particolare, pur non essendo stati espliciti, consideravano il legame di cui sopra un legame di diritto facendo della generazione del Logos una creazione. Sosteniamo ciò per almeno 6 ragioni: 1) 2) 3) 4) 5) questo era il pensiero di Filone da cui Giustino fu influenzato. Giustino aveva una nozione personale di Dio non impersonale come la definizione di natura, essenza divina richiede, quindi parlare di consustanzialità tra il Padre e il Figlio strideva. Le parole di Giustino in Dial. 128, 3.4 paragonano la creazione degli angeli da parte del Verbo (perché anche per Giustino furono creati da Lui) alla generazione del Figlio da parte del Padre. Ci è difficile pensare che Giustino non abbia avuto nessun problema a sostenere l’esistenza di un “Dio minore”, il Cristo, e che poi si sia preoccupato di salvarne la consustanzialità prima della sua generazione. Il Figlio assume vita propria solo con la sua generazione. 11 6) L’insistenza nel far capire che il Figlio derivi da Dio può non indicare niente della sua natura rispetto ad es. agli angeli ma può dar risalto alla differenza di qualità o categoria della sua esistenza. E’ vero che le potenzialità cosmologiche del Dio dell’Antico Testamento, la dynamis logikè, l’energeia etc. etc. vengono tutte trasferite dagli Apologisti al Figlio ma questo più che di un’identità di natura può voler dire che la fonte di ogni cosa è sempre il Dio Creatore e Padre, da cui deriva e dipende ogni potere e capacità! (Salmo 36,9 – Atti 17,28 - 1 Corinti 15,28) Manca ancora un ultimo tassello alla nozione di Dio da parte di Giustino: perché chiama Dio e reputa degno di adorazione anche il Figlio? Il continuo di un passo del Dialogo con Trifone già citato, Dial. 61,1 (ibid.), ci aiuta ha trovare la risposta al primo quesito: “ … che lo Spirito santo chiama ora Gloria del Signore, ora Figlio, ora Sapienza, ora Angelo, ora Dio, ora Signore, e che definisce sè stessa Arcistratega quando appare in forma umana a Gesù di Navè. I vari appellativi infatti le vengono dal fatto di essere al servizio della volontà del Padre e di essere stata generata dalla volontà del Padre.” Il Figlio può a buon ragione essere chiamato Dio e Angelo nel senso di essere potente e messaggero dell’Iddio Altissimo perché mette al Suo servizio ogni potere e capacità che gli è stata concessa e d’altronde un uso 12 legittimo del termine Dio applicato ad una Sua creatura non è nuovo nelle Scritture.6 Passi come quello già accennato dal prof. Giuseppe Visonà, I Apologia 13,3.4, ci aiutano invece a ipotizzare una ragione per cui il Figlio meritava “adorazione” per Giustino: “Dimostreremo che secondo ragione onoriamo Gesù Cristo che è per noi maestro di queste cose e che per questo motivo è stato generato, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, prefetto in Giudea al tempo dell’imperatore Tiberio; abbiamo infatti riconosciuto che è Figlio di colui che è vero Dio e lo poniamo al secondo, mentre al terzo poniamo lo Spirito profetico. Su questo punto ci accusano di pazzia, poiché affermiamo di attribuire il secondo posto – subito dopo Dio immutabile, eterno e creatore di tutte le cose – a un uomo crocifisso, ma essi ignorano il mistero che è in questo e su cui vi esortiamo a riflettere sotto la nostra guida.” (Giustino – LE APOLOGIE – Introduzione, Traduzione e note a cura di Clara Burini – Ed. Città Nuova 2001) - vedi anche II Apologia 6,1.2 Non solo ma il capitolo 6,1.2 della I Apologia aggiunge un’importante riflessione: “Per questo motivo siamo chiamati atei; e noi confessiamo di essere atei verso i cosiddetti dèi, ma non verso Dio verissimo, non contaminato dalla malvagità e padre della giustizia, della saggezza e delle altre virtù. Veneriamo e adoriamo lui e il Figlio che da lui è venuto e che ci ha insegnato tutto ciò e l’esercito degli altri angeli buoni che lo seguono e che a lui si assimilano e infine lo Spirito profetico, rendendo onore secondo ragione e nella verità; e a tutti coloro che vogliono imparare, trasmettiamo l’insegnamento senza limitazioni di sorta, così come ci è stato insegnato.” (ibid.) 6 si veda ad es. Giudici 13,21.22 13 Poiché, il Figlio è adorato al “secondo posto dopo l’immutabile ed eterno Dio” e anche agli angeli si rende culto è possibile che per adorazione ci si riferisca all’onore, amore e rispetto, che lo spettro semantico del termine adorare include, di cui anche le creature possono essere oggetto. Non è nostro scopo includere Giustino nella nostra ortodossia ma tutte queste riflessioni ci fanno giungere alla conclusione che i commenti stringati, sopra riportati, dell’opuscolo Trinità sono sostanzialmente corretti! – NB: useremo sempre “sostanzialmente corretti” in riferimento ai commenti non alle citazioni, che sono “esatte”, questo perché l’opuscolo trinità non ha lo scopo di definire con termini “tecnici” il dogma trinitario - (vedi anche la W del 01/04/1992 pag. 24-30) – Vedi sotto le fonti originali delle citazioni che confermano come Lamson sia stato citato correttamente! 14 Libro di Lamson pag.57 15 Le seguenti sei pagine sono tratte da: ANF, Volume I, ristampa del novembre 1981. Giustino incluse il Figlio di Dio nella categoria degli “angeli buoni”: in questo caso specifico la categoria è la stessa solo perché svolgono il medesimo servizio o anche perché entrambi sono creature? 16 17 Cristo viene messo al secondo posto dai primi cristiani. Il Figlio è adorato al “secondo posto”, non al medesimo posto (uguaglianza) del Padre. Del Figlio di Dio preumano è detto che fu generato da Dio “essendo la Sua Parola e il primo-generato” e che egli fu 18 la prima creatura di Dio, questo mostra che egli ebbe un inizio di vita e che non è eterno come il Padre! Ci viene detto che il Figlio è “soggetto al Creatore di ogni cosa”; uno che è soggetto ad un’altro, non può essere l’Onnipotente Dio. 19 20 IRENEO DI LIONE (120-202 E.V.) Citazione dall’opuscolo: Ireneo, morto verso il 200 E.V., sosteneva che il Gesù preumano aveva un’esistenza separata da Dio ed era inferiore a lui. Spiegava che Gesù non era uguale al “solo vero Dio”, il quale regna “supremo su tutti e oltre al quale non c’è nessuno” Il successivo Padre della Chiesa preso in esame dall’opuscolo Trinità è Ireneo, non perché vicino alle vedute di Giustino ma per una cronologia necrologica. La vita, gli studi e gli insegnamenti di Ireneo furono condizionati dalla conversione del suo caro amico Florino alla dottrina di Valentino, il principale esponente del movimento gnostico. Nel tentativo di recuperare al sano insegnamento Florino i suoi studi si concentrarono molto sullo gnosticismo e fu quindi spinto a scrivergli una lettera dove smascherava gli errori teologici dei valentiniani. Fu proprio il suo totale diniego delle tesi gnostiche che lo portò a rifiutare indirettamente la teoria filoniana dei due stadi di generazione del Logos e quindi allontanarsi dal pensiero di Giustino! Valentino concepiva la generazione del Logos da Dio come una sorta di emanazione fisica con un inizio di emissione e una genesi come per la parola degli uomini, mentre per Ireneo il Logos coesiste col Padre da sempre; è il primo Apologeta a sostenere la coesistenza eterna del 21 Figlio col Padre avvicinandosi al concetto di generazione eterna del Logos che sarà di Origene. In realtà la teoria dei due stati di generazione non era conciliabile con la teoria gnostica perché mentre quest’ultima negava “un’esistenza” eterna del Logos , nella mente di Dio, prima della generazione la seconda la sosteneva. Però Ireneo rifiutò anche questo concetto di generazione in quanto pericolosa perché poteva indurre gli incauti alla falsa dottrina gnostica che assegna al Logos un “inizio di emissione”. Fu quindi l’eresia gnostica a pesare nella scelta filosofica/teologica di Ireneo. (ricordiamo che Ario sosterrà la teoria dei due stadi e non quella gnostica) E’ indubbio che la teoria dell’unico stadio di generazione adottata da Ireneo avvicini sempre più il Logos alla natura divina ed è notevole che a fine II secolo si trovi formulata questo tipo di teologia del Logos ma occorre dire che arrivò a questa conclusione su una nozione di Dio non condivisibile dai teologi trinitari, oltre che in antitesi con lo gnosticismo, come Jean Danièlou scrive nel suo “Messaggio evangelico e cultura ellenistica” EDB 1975 pag.421: “Ma in modo generale Ireneo rifiuta le speculazioni su questo argomento [ontologico]. Così quando gli gnostici dicono che il Logos è prodotto dal Nous, per analogia con le operazioni dello spirito umano, egli rifiuta tale analogia in nome di un principio che non è senza interesse: “Dio è tutto ragione. Colui dunque che attribuisce alla ragione (mens) di Dio un’emissione, fa di Dio un composto” (Contro le Eresie II, 28,4). Occorre riconoscere che qui gli gnostici, se sono cattivi teologi, nondimeno sono più teologi di Ireneo che si rifiuta di oltrepassare le formule bibliche. Dopotutto l’interesse di 22 Ireneo non è qui, ma nella teologia del Verbo come Rivelatore, di cui è il grande dottore.” Possiamo inoltre aggiungere che in altre occasioni, sempre in opposizione allo gnosticismo che crede nel “pleroma” divino al di sopra del “Demiurgo”, il Dio Creatore di ogni cosa, Ireneo fa professione di un rigido monoteismo più giudaico che trinitario. In Contro le Eresie II, 1,1 ad es. si trova scritto: “Dunque è bene cominciare dalla prima e più importante questione, dal Dio creatore che ha fatto il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essi – quel Dio che essi bestemmiando, dichiarano frutto della defezione – e dimostrare che non c’è nulla né al di sopra di lui né dopo di lui: che non è stato spinto da nessuno, ma ha fatto tutte le cose per la sua libera decisione, essendo il solo Dio, il solo Signore, il solo Creatore, il solo Padre e il solo che contiene tutte le cose e dà lui stesso a tutte le cose di esistere” (S. Ireneo di Lione – CONTRO LE ERESIE – Volume Primo – a cura di P. Vittorino DellaGiacoma comboniano – seconda edizione Cantagalli 1968 – Siena) In Contro le Eresie V, 18.2-3 troviamo quanto segue: “... Il vero creatore del mondo è il Verbo di Dio, cioè il Signore nostro, che negli ultimi tempi si è fatto uomo in questo mondo, mentre invisibilmente contiene in sé tutte le creature ed è impresso in tutta la creazione come Verbo di Dio, che tutto governa e dirige: egli venne in modo visibile, si fece carne e fu appeso al legno per ricapitolare in sé ogni cosa: «Ma i suoi non lo accolsero»... «Mentre a coloro che lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio». Egli, infatti, ha ricevuto dal Padre ogni potere come Verbo di Dio e vero uomo... Egli stabilisce che ogni realtà continui nel suo ordine, egli regna visibilmente su ogni 23 cosa visibile e umana, e giudica tutti con giustizia. In questo senso Davide dice: Il nostro Dio verrà palesemente, e non tacerà (Sal 49,3). E soggiunge, riferendosi al giudizio che egli terrà: Il fuoco arderà davanti a lui e attorno a lui vi sarà un turbine violento; chiamerà il cielo dall’alto e la terra, per giudicare il suo popolo (Sal 49,4).” (ibid.) Qui Ireneo chiama il Verbo Creatore alla stregua del Padre e non potrebbe essere altrimenti perché credeva nella coesistenza eterna del Logos ma ciò non contrasta con la superiorità del Padre (solo a Nicea si cercherà di chiarire questo punto) che ha delegato a suo Figlio ogni potere. Tutto ciò quindi conferma che i commenti stringati dell’opuscolo Trinità su Ireneo sono sostanzialmente corretti. (vedi anche la W del 15/07/1990 pag. 21-23) Vedi sotto le fonti originali delle citazioni che confermano come Lamson sia stato citato correttamente. 24 Libro di Lamson Sul Figlio che riceve il regno e la potenza dal padre Geova, vedi Daniele 7:13, 14. 25 Libro di Lamson Le seguenti tre pagine sono tratte da: ANF, Volume I, ristampa del novembre 1981. 26 27 28 29 30 CLEMENTE ALESSANDRINO (153-217 E.V.) Citazione dall’opuscolo: Clemente Alessandrino, morto verso il 215 E.V., chiamava Dio “l’increato, imperituro e unico vero Dio”. Diceva che il Figlio “veniva dopo il solo onnipotente Padre”, ma non era uguale a lui. Dopo Ireneo l’opuscolo Trinità prende in esame Clemente Alessandrino. Si sa poco della sua vita ma dai suoi scritti si comprende che fu un uomo di vasta cultura: conosceva bene gli autori classici, la Bibbia e la letteratura cristiana post-apostolica. Sulla scia di Giustino ero convinto assertore che il cristianesimo fosse il coronamento di tutte le verità filosofiche e che il “perfetto cristiano” è il cristiano “gnostico” che coltiva una fede irrobustita dagli studi, avveduto e addestrato in ogni campo del sapere, per difendere e per difendersi. L’uso voluto del termine “gnostico” era in aperta sfida allo gnosticismo eterodosso che pullulava al suo tempo! Secondo Clemente la Chiesa per evangelizzare il mondo non doveva avere timore della filosofia ma usarla per aiutare i pagani a capire la Verità suprema rivelata in Cristo. Sarà proprio a motivo di questa convinzione che nella sua teologia del Verbo (Logos) si potranno scorgere influenze 31 platoniche di origine filonica o medio-platonica come andremo a vedere. In una delle sue tre principali opere dove sostiene la tesi soprascritta, gli Stromati V, 3, 16, 1-5 egli scrive: “ … il Verbo di Dio dice: “Io sono la verità”: il Logos si può dunque contemplare solo con l’intelletto. Platone scrisse: “–Chi sono quelli che definisci veri filosofi? – Sono quelli che amano contemplare la verità –“. Nel Fedro chiarirà poi che parla della verità come idea. E l’idea è pensiero di Dio o, come dicono i barbari, Logos di Dio. Comunque ecco il testo: “Bisogna insomma avere il coraggio di dire il vero, specie se si parla della verità: essenza incorporea, impalpabile e priva di contorni, che veramente è, può essere contemplata solo dall’intelletto, pilota dell’anima”. Il Logos poi si esplicò come causa della creazione, quindi generò sè stesso, quando “il Logos si fece carne”, per divenire visibile” (Clemente Alessandrino – STROMATI – Note di Vera Filosofia - introduzione, traduzione e note di Giovani Pini – Edizioni Paoline, 1985). Questo passo evidenzia lo sforzo di Clemente di far notare come la Bibbia sia il coronamento della ricerca filosofica: da un lato i “barbari”, i cristiani, identificavano la verità nel Logos, dall’altro Platone l’identificava nell’idea, cosicché idea platonica e Logos cristiano erano la medesima cosa. Da questo scritto possiamo altresì comprendere come Clemente, sulla scia degli altri Apologisti, sostenesse la teoria dei due stadi di esistenza del Logos di Filone, una prima come pensiero immanente di Dio e poi da Lui generato come causa della creazione. Anche la filosofia medio-platonica influenzò il suo concetto di Dio e di conseguenza del Figlio di Dio. In Stromati V, 12, 81, 3 – 82, 4 scrisse: “… E l’apostolo Giovanni: “Dio 32 non lo ha mai visto nessuno: l’Unigenito Dio, quegli che è nel seno del Padre, Egli lo rivelò”, Egli che nominò seno di Dio l’invisibile e l’ineffabile. Onde alcuni hanno chiamato abisso, perché tiene come avvolte e abbracciate in seno tutte le cose : irraggiungibile e infinito insieme. … Come potrebbe infatti essere definito Colui che non è né genere né alterità né specie né individuo né numero, e nemmeno accidente né soggetto cui qualcosa possa capitare come accidente? Né lo si potrebbe dire rettamente un tutto: il tutto è dell’ordine della grandezza, ed Egli è il Padre dell’universo. Né, infine, si può parlare di parti in Lui, poiché l’Uno è indivisibile; per questo è anche infinito, non nel senso dell’impossibilità di percorrerlo, ma dell’assenza di distanze e di dimensioni, e pertanto è senza figura e innominabile. E se mai vogliamo designarlo, e lo designiamo, impropriamente, o l’Uno o il Bene o l’Intelletto o l’Essere in sé o Padre o Dio o Creatore o Signore, non diciamo [queste definizioni] come preferendo il suo nome, ma in mancanza di meglio applichiamo begli appellativi, perché il pensiero possa basarsi su di essi senza aberrare il ricorrere ad altri: ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono indicativi della potenza dell’Onnipotente. Poiché le cose di cui si parla sono designabili in base alle qualità loro inerenti o alla relazione reciproca; ma niente di ciò può essere assunto a proposito di Dio. E nemmeno con la scienza della dimostrazione Egli può essere colto, perché quella si costituisce sulla base di premesse anteriori e più note, mentre all’Ingenerato nulla preesiste. Resta quindi che noi pensiamo l’Ignoto solo per grazia divina e per il Logos che da Esso procede, proprio come Luca dice negli Atti degli Apostoli ricordando le parole di Paolo: “O Ateniesi, vedo che in tutto e per tutto voi siete più timorati 33 degli dèi [di altri popoli]. Infatti aggirandomi per le strade e osservando i vostri luoghi di culto, ho trovato anche un altare con l’iscrizione:”Al Dio Ignoto”. Ebbene, Colui che venerate senza conoscerlo, Quello io vi annuncio!”” (ibid.). Com’è evidente in questo scritto l’idea platonica dell’assoluta trascendenza di Dio si fa sentire fortemente il che porta Clemente a sostenere il subordinazionismo che in questo caso si esplica nel considerare di diversa, o inferiore, condizione, o natura, il Logos che potrà manifestarsi agli uomini contrariamente a Dio Padre. Questo risulta ancor più evidente ed esplicito leggendo le parole che ritroviamo negli Stromati VII, 2, 5, 3-6: “… Per questo l’uomo più religioso è sulla terra l’essere più eccellente, come lo è in cielo l’angelo, che più da presso quanto a sede e in modo già puro è partecipe della vita eterna e beata. Ma la natura più perfetta e più santa, la più sovrana e autorevole e regale, la più benefica è quella del Figlio, che è la più prossima all’unico Onnipotente. Essa è l’eccellenza massima, che tutto dispone secondo “il volere del Padre” e “governa il tutto” ottimamente. Essa ogni cosa compie con infaticabile e inesausta potenza, perché vede i nascosti pensieri [di Dio] e attraverso essi opera. Il Figlio di Dio non si scosta mai dalla sua specola, poiché non è diviso, non è separato, non trapassa da luogo a luogo. Egli è dovunque, sempre, e in nessun luogo è contenuto: tutto intelletto, tutto luce del Padre, tutto occhio. Ogni cosa vede, ogni cosa ode, ogni cosa conosce; scruta le potenze con la sua potenza. A Lui tutto l’esercito degli angeli e degli dèi è soggetto, a Lui, Logos del Padre che ha ricevuto la sua santa economia “a causa di Colui che gli assoggettò”: per Lui tutti gli uomini gli appartengono, gli 34 uni “per conoscenza approfondita”, gli altri non ancora; e parte come amici, parte come servitori fedeli, parte ancora come semplici servitori.” (ibid.) Il Logos generato trascende ed è superiore a tutte le creature ma è sempre e solo “la natura più prossima all’unico Onnipotente” che gli ha assoggettato ogni cosa! A questo punto ci sentiamo di concludere che anche per Clemente valgono le stesse considerazioni che abbiamo fatto per Giustino ai punti 1) , 4) , 5) , 6) nell’ipotizzare che per lui il Logos generato era una creatura. Nel caso di Clemente l’ultima citazione riportata ci convince ancor più della nostra tesi perché risulta una chiara identificazione della natura inferiore del Figlio di Dio rispetto al Padre! Troviamo supporto alla nostra tesi tra le dichiarazioni di un uomo di grande levatura teologica-patristica come Fozio, patriarca di Costantinopoli (ca. 810-897 e.v.), che dopo aver esaminato le Ipotiposi, un’opera di Clemente andata perduta, arriva alla conclusione che l’autore non era per niente ortodosso. L’unico modo per salvare Clemente dall’accusa di aver “ridotto il Figlio di Dio a semplice creatura” fu quello di mettere in dubbio l’autenticità di tale scritto, obiezione di natura teologica più che scientifica e che oggi non è presa seriamente in considerazione da nessuno studioso! Il giudizio severo di Fozio all’Ipotitosi è il seguente: ”In certi passi, (Clemente) si mantiene saldamente nella sana dottrina. Altrove, si lascia trascinare da idee strane ed empie. Afferma l’eternità della materia. Imbastisce una teoria delle idee partendo dai termini della Sacra Scrittura. Riduce il Figlio al livello di una semplice creatura. Racconta assurde storie di metempsicosi e di mondi anteriori ad Adamo. A proposito della formazione di Eva 35 da Adamo, insegna cose blasfeme, grossolane e contrarie alla Scrittura. Immagina che gli angeli abbiano avuto rapporti con le donne, dando loro dei figli. Afferma anche che il Logos non si è fatto uomo veramente, ma solo in apparenza. Sembra perfino attenersi ad una nozione assurda dei due Logoi del Padre, dei quali solo l’inferiore sarebbe apparso agli uomini” (Bibl. Cod. 109) – Tratto da QUASTEN J., Patrologia. I primi due secoli (II-III), vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1980 pag.297 Infine siamo d’accordo anche con Jean Danièlou in “Messaggio Evangelico e Cultura Ellenistica” a pag. 436437 quando riassumendo il pensiero di Clemente scrive: “Siamo nella linea di una concezione gerarchica in cui il Logos appare come il vertice della serie delle creature intelligibili, trascendendole infinitamente [di rango superiore come diremo noi!], ma a sua volta trasceso dal Padre. E’ questa visione delle cose che Origene prenderà a prestito da Clemente e che sboccierà nel suo subordinazionismo” – parentesi quadre aggiunte. Di Origene parleremo in seguito dopo aver preso in esame la teologia di Tertulliano come vuole l’opuscolo Trinità. Tutto ciò quindi conferma che i commenti stringati della suddetta pubblicazione su Clemente sono sostanzialmente corretti. (vedi anche la W del 01/04/1992 pag. 24-30) - Vedi sotto le fonti originali delle citazioni che confermano come Lamson sia stato citato correttamente! Le seguenti due pagine sono da: ANF, Volume II (2), ristampa del febbraio 1983 36 * In merito alla parola “eternal” (“eterno”): viene tradotta dal Greco a*ivdio" (aidios, EYE,deh.ahs). Questa non significa necessariamente, ‘eterno nel passato e nel futuro.’ La stessa parola è usata in Giuda 6: “che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne (a*ivdio"), nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno.” Queste catene, o legami, hanno avuto un punto di partenza, quando gli angeli infedeli hanno lasciato il cielo. Lo stesso vale per il Figlio di Dio, la sua vita ebbe un punto di partenza ma non finirà mai. In questo senso lo si descrive come eterno. 37 Clemente Alessandrino, The Instructor (o, Pædagogus) Libro 1, cap. VII. 38 Un ulteriore conferma a questo possibile significato di “eterno” l’abbiamo sempre dal Protrettico che al cap. XI, sez. 121, verso 1 afferma: “Affrettiamoci, corriamo, noi che siamo immagini del Verbo care a Dio e a Dio simili; affrettiamoci, corriamo prendiamo il suo giogo, sottoponiamoci all’incorruttibilità, amiamo Cristo, il buon auriga degli uomini. Egli ha unito sotto lo stesso giogo l’asino giovane e il vecchio; e dopo aver aggiogato insieme la coppia degli uomini spinge il carro verso l’immortalità, affrettandosi verso Dio per adempiere chiaramente ciò a cui aveva fatto allusione, prima dirigendosi verso Gerusalemme e ora verso i cieli; spettacolo bellissimo per il Padre, il Figlio eterno che riporta la vittoria.” (Il Protrettico - Il Pedagogo di Clemente Alessandrino a cura di Maria Grazia Bianco – Unione Tipografiche Editrice Torinese) In armonia con lo scopo di quest’opera Clemente incoraggia i pagani a convertirsi al Cristo seguendone il modello, data la superiorità dei suoi insegnamenti sulle loro filosofie. Parlando della solerzia con cui Gesù si appresta a fare la volontà di Dio sino in fondo, sacrificandosi per il genere umano parla anche delle benedizioni della sua integrità: l’immortalità o l’eternità e rallegrare il cuore di suo Padre! E’ chiaro che per eternità anche qui s’intende la vita immortale che iniziò dopo la risurrezione! 39 (CLEMENTE ALESS., STROM.(or, MISCELLANEA) Libro 5,cap.14,sez. 90-91) 40 Clemente descrive il Gesù preumano con le parole: sopiva " th~" prwtoktivtou tw~/tew~/ sapienza la primogenita di Dio (Qui troviamo la forma alternata dell’accento circonflesso greco ~ ; in testi più recenti troviamo la forma '. Inoltre notiamo la forma arcaica della lettera theta . Lo stile usato nei tempi moderni è q o, Q.) Clemente dichiara che il Figlio di Dio, la Sapienza di Dio (Proverbi 8:22 sgg.) è la prima creazione di Dio, e quindi è 41 una creatura, parte della creazione, “il primogenito di tutta la creazione.” - Colossesi 1:15. TERTULLIANO (145-220 E.V.) Citazione dall’opuscolo: Tertulliano, morto verso il 230 E.V., insegnava la supremazia di Dio, dicendo: “Il Padre è diverso dal Figlio (un altro), in quanto è maggiore; come colui che genera è diverso dal generato; colui che invia è diverso dall’inviato”. E aggiunse:“Ci fu un tempo in cui il Figlio non era. . . . Prima di tutte le cose, Dio era solo” Quinto Settimio Fiorente Tertulliano è il primo Padre latino che prendiamo in esame. La sua conversione al Cristianesimo da adulto (circa 40 anni), i suoi studi giuridici (fu un famoso avvocato di Roma) e l’aver vissuto la realtà della Chiesa africana (Cartagine) sono caratteristiche della sua vita che ci aiutano a capire il suo carattere e stile scrittorio. I suoi scritti (circa 40) sono tutte opere polemiche che spesso contrappongono il “Deus verus” cristiano alla “falsa divinitàs” pagana. Mentre la maggioranza dei Padri Greci nutriva una profonda ammirazione per gli antichi filosofi e cercarono di gettare ponti tra le loro riflessioni e la Rivelazione cristiana per Tertulliano questi erano responsabili delle eresie su 42 Dio tanto da definirli “patriarchi degli eretici” (Apologetico 46, 1-18). Non che non riconoscesse in alcuni di loro scintille di verità (si troverà d’accordo spesso con Seneca ad es.) ma se non si trattava di coincidenze si trattava di plagio dall’Antico Testamento! Da giurista qual era, Tertulliano accordava più fiducia agli argomenti giuridici che alle prove filosofiche per convincere gli oppositori e saranno specialmente questi a far emergere il suo temperamento focoso e virulento. La rapida espansione del Cristianesimo in Africa fu pagata al prezzo esorbitante di molti martiri la cui ferma convinzione fu molto probabilmente all’origine della conversione dell’Apologista; in qualità di avvocato non poteva trattenersi dall’usare le sue conoscenze per difendere con zelo la sua Chiesa. Difenderla non solo dal trattamento ingiusto riservatogli dai governanti ma con altrettanta passione dai promotori delle eresie. La radicalità dell’attacco di Tertulliano alla filosofia è spiegata soprattutto proprio dalla necessità di attaccare questi nemici interni, più vicini, come gli gnostici e i sostenitori della ”libera” lettura delle Scritture. Sarà proprio basandoci soprattutto sugli scritti antieretici che cercheremo di capire quale teologia del Verbo sviluppò. Tertulliano è stato definito il fondatore della teologia occidentale e il suo principale apporto si colloca proprio nel campo della dottrina trinitaria e cristologica. E’ stato il padre di molti neologismi e di formule così precise che hanno fatto la storia del dogma quando sono state adottate al concilio di Nicea. 43 Fu il primo ad applicare il termine trinitas alle tre persone divine, ma è passato alla storia soprattutto per l’uso che fece dei termini sostanza e persona che gli permisero di descrivere come Dio potesse essere “Uno e allo stesso tempo trino, Padre, Figlio e Spirito Santo”. Vuol dire questo che l’opuscolo Trinità è nell’errore quando afferma che Tertulliano “insegnava la superiorità di Dio rispetto al Figlio”? E ancora: vuol dire che le formule adottate a Nicea avevano lo stesso significato di quelle espresse dall’Apologista? Insegnava l’unità di Dio pur essendo trino come lo credono oggi la quasi totalità delle chiese che si dicono cristiane? Prima di dare le risposte andiamo ad esaminare le fonti e vedremo che, come sempre, il contesto immediato o altri riferimenti ci aiuteranno a conoscere il pensiero di Tertulliano relativo ai nostri interrogativi! “Contro Ermogene” è la prima opera che andremo ad esaminare. Ermogene è un ignoto eretico, influenzato dalla filosofia platonica, propugnatore di una dottrina relativa all’eternità della materia per almeno due ragioni fondamentali: 1- liberare Dio da ogni responsabilità dell’esistenza del male nel mondo 2- spiegare la ragione per cui Dio è sempre stato Signore Tertulliano confuterà punto per punto le argomentazioni dell’avversario arrivando a dimostrare che l’unica ”materia” di cui Dio si sarebbe servito per la creazione non fu altri che la Sapienza, Suo Figlio. La forza del suo ragionamento si basò sul concetto d’eternità ed unicità di Dio, sue esclusive prerogative, per 44 cui sostenere l’esistenza innata e increata della materia, equipararla a Lui, era un paradosso inaccettabile! Significativo è ciò che leggiamo in Contro Ermogene 4, 45: “E che cosa potrà essere unico e singolare, se non ciò che da nulla è uguagliato? Che cosa può essere ritenuto “principio” se non ciò che è al di sopra di tutto, prima di tutto, e dal quale tutto proviene? Dio esiste nel solitario possesso di queste prerogative, e, in quanto è il solo a possederle, è unico. Se anche un altro le avrà, si troveranno ad esistere tanti dèi quanti saranno i possessori delle caratteristiche divine. Così Ermogene introduce due dèi, in quanto introduce una materia che è pari a Dio. Ma è necessario che Dio sia uno solo, perché Dio è ciò che è al di sopra di tutto; ma non potrà essere al di sopra di tutto se non ciò che sarà unico, e non potrà essere unico ciò che sarà uguagliato da qualcosa: ma la materia verrà ad essere sullo stesso piano di Dio, poiché la si ritiene eterna.” (Tertulliano - Contro Ermogene – Introduzione e note a cura di Claudio Miceli – Ed. Città Nuova 2002) Sostenere l’eternità della materia quindi creava un problema ancora più grande di quelli sollevati da Ermogene i quali ad un attenta analisi non si sarebbero risolti neppure con le sue tesi. Ad esempio il Dio onnipotente non avrebbe potuto trasformare in buona tutta la materia eterna, sostanzialmente cattiva, prima di iniziare a dargli forma creando? Certamente! Ma non avendolo fatto rimaneva responsabile del male esistente secondo la logica di Ermogene. Per quanto riguarda l’erroneità del secondo postulato per cui Ermogene considerava la materia eterna, Tertulliano 45 replica distinguendo tra il nome di Dio, che indica la sostanza eterna e immutabile, e i titoli di Signore, Padre, Giudice. A tal proposito sono illuminanti i passi di Contro Ermogene 3, 3-4: “Noi diciamo che il nome di “Dio” è sempre stato implicito nella Sua stessa esistenza: quello di “Signore”, invece, non sempre. Diversa, infatti, è la natura dell’uno e dell’altro: “Dio” è il nome della sostanza stessa, vale a dire della divinità; “Signore”, invece, è il nome non della sostanza, ma del potere. La sostanza, dunque, è sempre esistita insieme al suo nome, che è “Dio”; successivamente si ha il titolo di “Signore”, che costituisce, evidentemente, la menzione di qualcosa che si è aggiunto. Da quando, infatti, cominciarono ad esistere cose soggette al potere del Signore, è da quel momento che è divenuto ed è stato chiamato Signore, essendo entrato in gioco anche il concetto di potestà, giacchè Dio è anche padre e giudice è tuttavia non è sempre padre e giudice per il fatto che è sempre Dio: non è stato possibile, infatti, che fosse padre prima di avere un figlio, né che fosse giudice prima del delitto. Vi fu un tempo, anzi, nel quale non aveva a che fare né col delitto né con un figlio che lo rendessero, rispettivamente, giudice e padre. Nello stesso modo non era Signore prima delle cose delle quali fosse il Signore, ma era soltanto intenzionato ad essere, un giorno, Signore, così come sarebbe divenuto Padre attraverso il Figlio, giudice per mezzo del delitto: ugualmente anche Signore, attraverso le cose che aveva fatto perché a Lui fossero sottomesse.” Questo concetto viene ribadito con ancor più forza in Contro Ermogene 18, 2-3: “Ermogene, dunque, riconosca 46 che per questo anche la Sapienza di Dio è indicata come frutto di una nascita e di una creazione: affinché noi, all’infuori di Dio solo, non credessimo all’esistenza di qualcosa di innato e di increato. Se infatti non è stato privo di inizio, all’interno del Signore, ciò che era da Lui ed in Lui (si tratta, evidentemente, della sua Sapienza, nata e creata nel momento in cui, nel pensiero di Dio cominciò ad essere posta in azione per disporre la creazione del mondo), è molto meno plausibile che sia stata senza inizio una qualunque realtà estranea al Signore. Ma se la medesima Sapienza è il Verbo di Dio, senza il quale niente è stato fatto, così come niente è stato ordinato senza la Sapienza, come è possibile che sia esistito qualcosa, all’infuori del Padre, di più antico e così senza dubbio, di più nobile origine del Figlio di Dio, il Verbo unigenito e primogenito? Per non dire che un essere innato è più forte di quello che ha avuto origine, e che una realtà incerata è più vigorosa di quella creata, poiché ciò che non ha avuto bisogno, per esistere, di nessun creatore, sarà molto superiore a quell’essere che, per esistere, ne ha avuto qualcuno. In modo analogo, se è vero che il male è innato, mentre il Verbo di Dio è nato (dice infatti la Scrittura: “Ha emesso una ottima Parola”), non so se il male possa essere introdotto dal bene, il più forte (in quanto innato) dal più debole (in quanto nato).” Alcuni teologi sostengono che la dichiarazione su Dio che “Vi fu un tempo, anzi, nel quale non aveva a che fare … con un figlio che lo rendessero … padre” si riferisca ad Adamo e non al Figlio di Dio. Anche se così fosse, ma il contesto e l’argomento generale dell’opera ci fanno rimanere su posizioni diametralmente opposte, le dichiarazioni del cap. 18 danno la certezza che per 47 Tertulliano chi proviene da un altro, chi è nato come il Verbo ha avuto un inizio e quindi c’è stato un tempo in cui Dio non è stato Padre. Queste affermazioni sono così esplicite sul subordinazionismo di Tertulliano che nel corso del tempo nel tradurre Contro Ermogene si sono fatti tentativi di epurazione del suo pensiero per niente ortodosso. E interessante leggere a proposito il commento di Claudio Micaelli nell’introduzione dell’opera citata a pag. 40-42: ”LA PIU’ ANTICA TRADUZIONE DELL’ADVERSUS HERMOGENEM - risale al 1717 la più antica traduzione italiana dell’Adversus Hermogenem: essa è opera della nobildonna pisana Maria Selvaggia Borghini, il cui lavoro fu pubblicato, postumo, nel1841. Nella letteratura introduttiva, indirizzata al Lettore, la Borghini afferma esplicitamente di avere tradotto Tertulliano preoccupandosi di eliminare quelle opinioni che potevano urtare l’ortodossia cattolica. Anche nella traduzione dell’Adversus Hermogenem è possibile individuare almeno due tracce di questo modo di procedere. Il primo caso è ravvisabile nella traduzione di Herm. 3,4, così reso dalla Borghini: “ …ma fu il tempo quando non fu il delitto, e quando a notizia nostra non fu il Figlio, che Giudice e Padre il Signore facesse”. Le parole “a notizia nostra” non trovano nessun riscontro nel testo latino e sono state evidentemente inserite dalla Borghini, nell’intento di allontanare l’impressione che Tertulliano stesse sostenendo la non-eternità della persona del Figlio: il testo così corretto sposta il discorso dal piano delle relazioni all’interno della Trinità a quello della economia salvifica, limitandosi a constatare che vi fu un tempo in cui l’uomo non aveva ricevuto la rivelazione del Figlio. A dire 48 il vero la Borghini non è stata la prima a manifestare difficoltà interpretative circa il passo in questione: prima di lei l’umanista Latino Latini aveva espresso, in una lettera indirizzata al Pamelius, la convinzione che nel testo dell’Adversus Hermogenem si fosse inserita una interpolazione ariana, per cui proponeva addirittura di espungere l’intero paragrafo. Il Pamelius, dal canto suo, riteneva che le parole di Tertulliano fossero semplicemente l’espressione di un eccesso di zelo, da considerare alla luce della specifica finalità dell’Adversus Hermogenem, il cui intento principale è quello di combattere l’idea dell’eternità della materia. Il secondo brano da prendere in considerazione è Herm. 18, 2-3, così tradotto dalla Borghini: “Ma se la Sapienza medesima è il Verbo di Dio, cioè Sophia, et sine qua factum est nihill, siccome ancora niente è stato disposto senza questa sapienza, chi mai sarà che del Verbo figlio di Dio unigenito e primogenito sia più antico, e perciò generoso, essendo l’innato del nato più forte, ed il non fatto del fatto più valido … ?”. La nobildonna pisana ha omesso, nella sua versione, le parole praeter Patrem (ad eccezione del Padre), per cui il significato complessivo del brano risulta alquanto modificato: Tertulliano aveva affermato che niente esiste, all’infuori del Padre, di più antico del Figlio, ed è probabile che questo concetto apparisse alla Borghini, pericolosamente vicino all’arianesimo. I suoi due interventi “normalizzatori”, dunque, sono caratterizzati, rispettivamente, da un’aggiunta e da un’omissione. Il Pamelius e molti studiosi dopo di lui tendono a considerare le spiegazioni di Proverbi 8,22, riportate nel cap. 18 dell’opera sopraccitata, come iperboli per far 49 capire ad Ermogene che se addirittura la Sapienza ha avuto un inizio in Dio figuriamoci la materia che è esterna a Dio. Ma la spiegazione non ci convince perchè, oltre ad essere di natura teologica, per Tertulliano non potevano esistere due realtà sussistenti coeterne senza sacrificare l’unicità di Dio. Contro Ermogene si ricollega bene all’altra opera antieretica di Tertulliano, Contro Prassea, dove si contrappone ad un tipo di modalismo che va sotto il nome di Patripassionismo, eresia che affermava che la Persona del Padre (Patri-) aveva sofferto (-passione) sul palo di tortura quando il Figlio morì. Nei cap. 5, 1 al 7, 5, è scritto: “ Ma dato che essi pretendono che i due siano un’unica cosa in modo che il Padre e il Figlio siano da considerarsi la stessa cosa, dobbiamo per quanto riguarda il Figlio esaminare anche l’intera questione, e cioè: se esista, chi sia e in che modo esista; in tal modo la generazione stessa assumerà liberamente la propria forma con l’appoggio delle Scritture e delle loro traduzioni. Affermano, in verità, che anche la Genesi in ebraico comincia così: “Al principio Dio fece per sè il Figlio”. Supposto che ciò non sia ben assodato, altri argomenti mi convincono tratti proprio dalla costituzione di Dio, nella quale Egli si trovava prima della formazione del mondo fino alla generazione del Figlio. Perché prima di tutte le cose Dio era solo; Egli stesso era per sé il mondo, il luogo, il tutto. Era solo, perché, oltre lui, null’altro vi era di estrinseco a lui. Ma neppure allora egli era solo, perché aveva con sè quella Ragione che egli aveva in sé, la sua naturalmente. Perché Dio è razionale e la ragione è 50 dapprima in lui; e così da lui derivano tutte le cose; la quale ragione è la sua stessa mente. Essa è ciò che i greci chiamano logos, il quale termine noi usiamo anche per indicare la “parola”: e perciò i nostri sono già abituati a dire, con letterale traduzione, che “la parola esisteva al principio presso Dio”, sebbene sia più conveniente considerare la ragione anteriore, dal momento che Dio non loquace fin dal principio è razionale anche prima del principio, e poiché la parola stessa avendo il suo fondamento nella ragione dimostra che questa fu precedente in quanto sua sostanza. Ma anche così le cose non cambiano. Poiché, sebbene Dio non avesse ancora emessa la sua parola, certo egli l’aveva sempre dentro di sé, con la ragione e nella stessa ragione, mentre silenziosamente pensava e disponeva tra sé le cose che poi avrebbe detto per mezzo della parola. Poiché, mentre pensava e disponeva insieme alla ragione, egli rendeva parola quella ragione che usava con la parola … Posso dunque senza avventatezza porre come dato pregiudiziale che anche allora, prima della creazione dell’universo, Dio non era solo, in quanto aveva sicuramente in sé la ragione e nella ragione la parola che egli aveva resa distinta da sé, rendendola attiva dentro di sé. Questa potenza e questa costituzione della divina mente si mostra nelle scritture anche sotto il nome di Saggezza. Poichè che cosa v’ha più saggio della ragione o parola di Dio? Ascolta, quindi, parlare anche la Saggezza, creata quale seconda persona: “Dapprima il Signore creò me, come l’inizio dei suoi piani per le sue opere, prima che egli creasse la terra, prima che le montagne fossero messe al loro posto, prima di tutti i colli egli generò me”, 51 naturalmente creandomi e generandomi nella sua stessa mente. Poi riconosci la seconda persona mentre assiste all’atto stesso della creazione: “Mentre preparava il cielo – essa dice – io ero presente con lui, e quando poneva solide le nuvole che stanno in alto sopra i venti e che faceva sicure le fontane della terra, io ero con lui compagna di lavoro,io ero colei della cui presenza egli si dilettava e io giornalmente mi dilettavo immedesimandomi in lui”. Perché, appena Dio volle produrre nella loro sostanza e forma esteriore quelle cose che con la saggezza, la ragione e la parola egli aveva ordinato in sè stesso, egli emise per prima proprio la parola; la quale parola aveva in sé, come sue inseparabili compagne, la ragione e la saggezza, affinché fossero fatte tutte quelle cose per mezzo di essa parola, per mezzo della quale erano state pensate e ordinate, anzi già create in quanto erano nella mente di Dio. Perché questo soltanto ad esse mancava, di essere anche apertamente riconosciute e comprese nella loro forma e sostanza. Proprio allora la Parola assume forma e bellezza, cioè suono e voce, quando Dio dice: “ Sia la luce”. Questa è la reale nascita della Parola, quando essa procede da Dio. Da prima fu creata da Lui in ordine al pensiero sotto il nome di Saggezza – “ Dio mi creò come inizio dei suoi piani” – quindi generata in ordine all’azione – “quando Egli preparava il cielo io ero con lui” – poi fece di lui il proprio Padre, procedendo dal quale egli divenne il Figlio, primogenito, perché generato prima di tutte le cose ed unigenito, perché il solo generato da Dio, propriamente dal grembo del suo cuore, secondo quanto il Padre stesso testimonia: “Il mio cuore ha emesso la buona Parola”. 52 Godendo al Figlio, che a sua volta gioisce immedesimato in lui, dice: “Tu sei mio Figlio, oggi io ti ho generato” e “Prima della stella del mattino io ti generai”. Allo stesso modo anche il Figlio, sotto il nome di saggezza, confessa parlando in persona propria, il Padre: “ Dio creò me inizio dei suoi piani per le sue opere, già prima dei colli egli mi generò”. Perché se qui appare che la Saggezza dice di essere stata creata da Dio per le sue opere e i suoi piani, altrove si mostra che tutte le cose furono create per mezzo della parola e che senza di essa nulla fu creato; e ancora: “Con la Parola di Dio furono fissati i cieli e con il suo Spirito tutto il loro apparato”, certo, con quello Spirito che era presente nella Parola, è chiaro che, ora col nome di Saggezza ora con la denominazione di Parola, si tratta della stessa unica potenza, la quale ricevette l’inizio dei piani per attuare le opere di Dio e fissò il cielo; per mezzo della quale ogni cosa fu fatta e senza la quale nulla fu fatto. E basta di questo argomento, perché la Parola che va sotto il nome di saggezza e di ragione e di tutta l’intera mente divina e dello Spirito, è la stessa che si è fatta Figlio di Dio, procedendo dal quale fu generato. “Dunque – mi obietti – tu ammetti che la Parola è una specie di sostanza, consistente in spirito, saggezza e ragione?”. Certo. Non vuoi infatti considerarla come qualcosa di realmente sussistente, in forza della proprietà della sostanza, in modo che possa essere considerata una cosa e in certo modo una persona e sia così capace, essendo essa seconda rispetto a Dio, di fare che ci siano due, Padre e Figlio, cioè Dio e la Parola?” Da questi capitoli comprendiamo che nonostante Tertulliano avesse una concezione negativa del pensiero 53 filosofico in genere nella sua teologia del Logos fu molto simile ai Padri greci. Al riguardo è significativo il commento ai capitoli sopra scritti da parte di Harry Austrin Wolfson a pag. 181-182: “ La teoria di Filone dei due stadi, di cui finora abbiamo seguito gli sviluppi fra i Padri greci, si trova anche fra i Padri latini. Quasi negli stessi termini di Ippolito, Tertulliano afferma che “prima di tutte le cose, Dio era solo” (cit. Adv. Prax. 5,2). Aggiunge poi, che anche allora Dio non era senza ragione, cioè senza ciò che è detto Logos (cit. Adv. Prax. 5,2-3). Ma “quando Dio volle” creare il mondo, “egli emise proprio il Logos” (Adv. Prax. 6,3). E’ questo procedere del Logos da Dio che costituisce la “perfetta natività del Logos” (Adv. Prax. 7,1) Tertulliano si spinge oltre sostenendo che, in quanto la generazione del Logos o Figlio ebbe luogo soltanto anteriormente alla creazione del mondo, Dio non può essere definito con il termine “Padre” prima di tale generazione. Confrontando il termine “Padre” con il termine “giudice” egli dice: “ma egli non è sempre stato Padre e giudice per il solo fatto di essere sempre stato Dio. Giacchè egli non avrebbe potuto essere Padre prima del Figlio, né giudice prima del peccato. Vi fu, comunque, un tempo in cui non esistevano né il peccato né il Figlio … Egli divenne Padre con il Figlio, giudice con il peccato. (Adv. Hermog. 3)” (Ibid.) Nell’introduzione al Contro Prassea, pag. 72-73, ad opera dello Scarpat l’autore, pur affermando di non voler fare un trattato sulle dottrine trinitarie e cristologiche di Tertulliano, commentando i capitoli soprascritti esprime le sue dotte riflessioni: “Da questi passi si deduce inequivocabilmente che il Verbo proferito è lo stesso che il Verbo immanente ma rimane certo che in questi passi dell’Aduersus Praxean viene negata la generazione eterna del Verbo. 54 Il Verbo nasce con la sua manifestazione esteriore nel tempo, con la quale diventa definitivamente Figlio. Non si tratta, quindi, della Ratio che diventi Sermo. Nell’Aduersus Hermogenem (3, 3-4), la generazione temporale del Verbo è espressa in termini ancor più espliciti … Queste frasi possono trovare un’attenuazione nella considerazione che qui si tratta del Figlio manifestatosi con la creazione, ma resta innegabile che confermano la generazione temporale del Verbo (cit. Contro Prassea 7, 1) … Il Padre non è stato sempre tale. Fu il Figlio a renderlo tale. Il Figlio non è generato ab aeterno.” Alle pagine 78-79 dopo aver analizzato il possibile significato del “proferre” termine tecnico per indicare la generazione del Figlio da parte del Padre, Scarpat conclude: “Origene stesso rifiutava il termine prolatio ad evitare confusioni e fraintendimenti. Tutta la concezione del Logos in Tertulliano e in Ippolito risente della lotta antimonarchiana. Tertulliano non sa liberarsi completamente dalla preoccupazione di salvaguardare l’unicità di Dio e dalla necessità di difendersi dall’accusa di diteismo mossa dagli avversari monarchiani. Il Logos, quindi, rispetto al Padre vien posto in stretta subordinazione, espressa con formule che non permettono interpretazioni benigne. Creato nel tempo, il Figlio è subordinato al Padre come origine; anche la sua sostanza è solo parte e derivazione della substantia del Padre. (cit. Contro Prassea 9,2 e 14, 3)” Per consultazione sotto riportiamo anche queste ultime citazioni: 55 Contro Prassea 9,1-2: “Tieni sempre ben presente che io ho professato questo credo, col quale testimonio che il Padre, il Figlio e lo Spirito sono inseparati l’uno dall’altro, e così riconoscerai che cosa venga affermata e in che senso. Ecco dunque che io affermo che il Padre è uno, il Figlio un altro e lo Spirito un altro; ogni persona illetterata o male intenzionata prende questa affermazione in cattivo senso, come se significasse diversità e dalla diversità deducesse la separazione del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. Ma io mi esprimo così per necessità, perché essi pretendono che Padre, Figlio e Spirito siano la stessa persona, favorendo la monarchia contro l’economia; tuttavia non dico che il Figlio è un altro dal Padre per diversità, ma per distribuzione, non per divisione, ma per distinzione, poiché il Padre e il Figlio non sono la stessa persona, essendo anche nella misura l’uno distinto dall’altro. Il Padre è infatti l’intera sostanza, mentre il Figlio è una derivazione e una porzione del tutto, come egli stesso proclama: “Perchè il Padre è più grande di me”. Nel salmo è cantato anche come inferiore a lui, “un poco meno degli angeli”. Così anche il Padre è diverso dal Figlio , perché più grande del Figlio, perché uno è colui che genera e uno colui che viene generato, perché uno colui che manda e uno colui che viene mandato, perché uno colui che crea e uno colui attraverso il quale avviene la creazione.” Contro Prassea 14, 3: “Dobbiamo intendere invisibile il Padre per la pienezza della sua maestà, ma dobbiamo riconoscere il visibile il Figlio per la quantità della sua derivazione: allo stesso modo noi non possiamo veder il sole nella sua totale sostanza, che è nel cielo, ma sopportiamo con i nostri occhi il suo raggio per il 56 temperato calore della porzione che da lassù raggiunge la terra.” Da Contro Prassea 14, 3 possiamo rilevare un’altra influenza inconscia, chiamiamola così nel caso di Tertulliano, da parte della filosofia, nello specifico quella medio-platonica: l’Apologista qui si rifà molto alla concezione del dio sommo trascendente in assoluto e del dio minore manifestato agli uomini, confermando quanto già citato sulla teologia dei primi tre secoli e.v. in “STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 143. E’ vero in Contro Prassea ci sono espressioni di questo genere: cap 12, 1-8: “Se ti scandalizza ancora la pluralità della Trinità, perché non ridotta in semplice unità, io ti chiedo: Come è possibile che un’unica e singola persona parli al plurale: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, quando avrebbe dovuto dire: “Faccio l’uomo a mia immagine e somiglianza”, essendo unica e singola?…o forse, poiché egli era Padre, Figlio e Spirito, per questo si presentò al plurale e parlò a sè stesso in plurale? … E se egli è Dio, secondo quanto scrive Giovanni: “La Parola era Dio”, ne hai due, uno che comanda che una sia fatta, uno che la fa. E ho già dichiarato come devi intendere “un altro”, a titolo cioè di persona, non di sostanza, per distinzione non per divisione. Del resto, io sempre sostengo l’unica sostanza nei tre che sono uniti, tuttavia, come consegue dal significato del passo, devo dire diverso colui che comanda da colui che fa…” (vedi anche cap. 2, 3-4) 57 Dobbiamo però ricordare che, per una corretta analisi del pensiero di Tertulliano, questi passi devono essere letti alla luce di quanto sopra, non dobbiamo fare l’errore di comprenderli col significato che gli venne dato poi a Nicea, infatti puntualizzando giustamente questa differenza, Storia dei dogmi a pag 183 specifica: “Sostanza. – Tertulliano ha fissato immediatamente “se non il senso, almeno l’uso di sostanza (substantia) in campo trinitario”. Usa questa parola circa quattrocento volte. In teologia, essa sottolinea che il Figlio esiste realmente. In questo senso è al centro della controversia con i modalisti. Il Figlio esiste in base alla sostanza, ma non è sostanza allo stesso titolo del Padre, perché la riceve da lui. Quest’ultimo è, ed egli solamente, la totalità della sostanza divina (summa substantia, tota substantia), sostanza vivente e feconda che si comunica senza dividersi. Il Figlio non è che una sua derivazione (derivatio totius et portio). Tertulliano difende già l’unità della sostanza senza tuttavia concepirla ancora nel senso di Nicea. Persona – Tertulliano ha utilizzato un centinaio di volte la parola “persona” (persona). Cinque volte, tutte nel Contro Prassea, l’uso concerne la Trinità. La parola non ha ancora in lui il senso forte che ha preso in seguito. Designa ciò che vi è di “numeroso” e di distinto in Dio, non lo significa. La persona è detta tale quale viene percepita, non quale dovrebbe essere concepita, in sè stessa e per sè stessa. In conclusione cosa possiamo dire? Che la teologia del Logos di Tertulliano assomiglia molto più a quella dei padri subordinazionisti già esaminati che non alla visione consustanziale di Nicea. (vedi anche QUASTEN J., 58 Patrologia. I primi due secoli (II-III), vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1980 pag. 563-564) Vero che alcune sue espressioni sono finite nel credo niceno ma altre sono state prese a prestito da Ario per sostenere che il Figlio fosse una Creatura (c’era un tempo in cui non c’era [il Figlio]). E’ vero che ha sentito il bisogno di trovare un vocabolo che esprimesse ciò che vi è in Dio di comune e di unico, e un’altra parola per ciò che è distinto e molteplice, ma è anche vero che la sua concezione di sostanza non è per niente diversa da quella di Clemente quando riconosce nel Figlio solo “la natura più prossima all’onnipotente”. Ciò che più c’interessa, comunque, è aver dimostrato al di là di ogni dubbio che i commenti stringati dell’opuscolo Trinità su Tertulliano sono sostanzialmente corretti. Vedi sotto le fonti originali delle citazioni che confermano come Lamson sia stato citato correttamente! 59 Libro di Lamson 60 Libro di Lamson 61 Le seguenti tre pagine sono tratte da: ANF, Volume III, ristampa dell'agosto 1980 62 63 64 65 66 67 IPPOLITO (170-236 E.V.) Citazione dall’opuscolo: Ippolito, morto verso il 235 E.V., diceva che Dio era “l’unico Dio, il primo e il Solo, il Fattore e Signore di tutto”, al quale “nulla è coevo [di uguale età] . . . Ma era Uno ed era solo; il quale, volendolo, portò all’esistenza ciò che prima non esisteva”, come il creato Gesù nella sua vita preumana. Ippolito di Roma è il secondo Padre latino che prendiamo in esame. Dobbiamo dire che la sua catalogazione tra i Padri latini è dovuta al fatto che fu prete nella comunità di Roma ma ci sono diverse ragioni che indicano un’origine orientale. Aveva dimestichezza con la filosofia greca, sia quella antica che quella dei suoi giorni, conosceva bene i culti dei misteri greci, ma soprattutto la sua dottrina sul Logos nascondeva un’educazione ellenistica proveniente dalla scuola di Alessandria. A tal proposito Harry Austrin Wolfson a pag. 181-182 scrive: “Un altro Padre greco che sposa la concezione filonica dei due stadi d’esistenza del Logos preesistente, è Ippolito. Sulle orme di Filone, egli ritiene che il versetto “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18), significhi implicitamente che è bene che Dio sia solo (Leg. All. 2,1,1-2). Ma, continua Ippolito pur 68 esistendo solo egli esisteva tuttavia in pluralità, giacchè egli non era senza il Logos, cioè senza ragione, né era senza sapienza, o senza potenza, o senza consiglio. (Contro Noeto 10) Ciò segna, dunque, il primo stadio di esistenza del Logos preesistente: il Logos è in Dio. Segue, poi, il secondo stadio della sua esistenza: “Quando volle e come volle, egli nel tempo da lui stabilito manifestò il suo Logos e per mezzo di lui fece tutte le cose”. (Ibid.) La manifestazione del Logos è spiegata da Ippolito nel senso che Dio “generò il Logos” e in conseguenza a tale generazione “ un altro apparve oltre Lui” (Contro Noeto 11)” (Ibid.) Da questo commento comprendiamo che Ippolito anche se si dichiarò discepolo di Ireneo venne influenzato maggiormente del suo maestro dalla filosofia medioplatonica perché Ireneo non fu sostenitore della concezione filonica dei due stati d’esistenza del Logos preesistente. Comunque Ippolito come il suo maestro fu uno zelante combattente dell’eresie del suo tempo fino al punto di accusare papa Callisto di allontanarsi dalla tradizione della Chiesa primitiva sia mitigando la disciplina per i penitenti che avevano commesso peccato mortale, sia sostenendo l’eresia di Sabellio. Eletto vescovo di Roma da un piccolo ma influente gruppo di seguaci scismatici Ippolito divenne il primo antipapa; venne comunque perdonato dalla Chiesa perché morì martire. Nonostante il numero imponente di opere che scrisse poche sono giunte a noi, molto probabilmente perché dopo la sua morte il greco a Roma fu sempre meno conosciuto ma pesò senz’altro anche la sua scissione e la teologia del Logos eretica riscontrabile nei suoi scritti. QUASTEN J., Patrologia. I primi due secoli (II-III), vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1980 pag. 452-454, dice di lui: 69 “La dottrina cristologica di Ippolito è sulla linea di quella degli apologisti come Giustino, Atenagora, Teofilo e Tertulliano. Come loro, egli definisce la relazione del Figlio e del Padre in un senso subordinaziano. Ma il suo subordinazionismo è più accentuato. Non soltanto distingue, come Teofilo, tra il Verbo interiore o immanente in Dio e il Verbo esteriore o proferito da Dio, ma presenta la generazione del Verbo come uno sviluppo progressivo in tre stadi. E insegna che la comparsa del Logos in quanto persona avvenne solo più tardi, nel momento e nel luogo fissati dal Padre: “Dio, che sussiste solo, e non ha in sé nulla di contemporaneo a sé, decise di creare il mondo. Concepì il mondo nel suo spirito, volle e pronunciò il Verbo, e creò il mondo. Subito questo apparve, formato come a lui piaceva. Ci basta sapere che non c’era nulla di contemporaneo a Dio. Al di fuori di Dio, non c’era nulla. Ma egli, mentre era il solo ad esistere, esisteva tuttavia in pluralità. Mai infatti, fu sprovvisto di ragione, di sapienza, di potenza o di consiglio. In lui esisteva ogni cosa, ed egli era il Tutto. Quando volle, e nella maniera che volle, manifestò il suo Verbo, nei tempi che aveva determinato, e per mezzo di questi fece tutte le cose. Quando egli vuole, fa, e quando pensa, esegue, e quando parla, manifesta. Quando modella, opera con sapienza. Giacchè tutte le cose create, le fa con ragione e sapienza – creandole in ragione e disponendole in sapienza. Le fece dunque come gli piaceva, poichè era Dio. Egli genera il Verbo per farne l’autore, il compagno, il consiglio e il costruttore delle cose in formazione. Porta questo Verbo in sè stesso e in un modo (ancora) invisibile al mondo creato. Pronuncia la parola per la prima volta, e genera (il Verbo) come la Luce dalla Luce. Lo manda nel mondo, 70 come suo proprio pensiero, perché sia il Signore del mondo. E mentre prima non era visibile che a sè stesso, e invisibile al mondo creato, Dio lo fa ora visibile, affinché il mondo possa vederlo nella sua manifestazione ed ottenere la salvezza. E’ così che un altro apparve al di fuori di lui. Ma, dicendo un altro, non voglio lasciare intendere che ci siano due dèi. Non c’è, invece, che una sola luce da luce, come una sola acqua dalla sorgente o un solo splendore dal sole. Non c’è che una sola potenza, che è del Tutto, da cui viene questa Potenza, il Verbo. E questi è la ragione che è entrata nel mondo e si è manifestata come il Figlio di Dio. Egli è dunque l’autore di tutte le cose, ed egli solo trae la sua esistenza dal Padre. Chi potrebbe ora sostenere l’introduzione al suo seguito di una moltitudine di dèi? Tutti ammutoliscono, anche se controvoglia quando bisogna ammettere il fatto che l’Assoluto tende all’unità (Contro Noeto 10-11).” Il tempo che precede e che segue la creazione rappresenta le prime due fasi dell’evoluzione del mondo. Il terzo è l’incarnazione, che fa del Logos il Figlio perfetto: “Quale sarà il Figlio di Dio, da lui mandato nella carne, se non il Verbo al quale egli si rivolge come a suo Figlio, giacchè doveva divenirlo (o essere generato) più tardi? Chiamandosi Figlio, egli assume il nome comune che evoca tra gli uomini la tenerezza affettuosa. Prima dell’incarnazione e per sè stesso in quel momento, il Signore non era ancora Figlio perfetto, benché fosse il Verbo perfetto, unigenito. Neppure la carne poteva sussistere di per sè stessa al di fuori del Verbo, giacchè essa ha la sua sussistenza nel Verbo. Così si manifestò allora un perfetto Figlio di Dio (Contro Noeto 15).” 71 Ippolito si spingeva dunque più avanti degli apologisti. Associava alla generazione del Logos non soltanto la creazione del mondo, ma anche l’incarnazione. Certo non s’accorgeva che questo sviluppo del Verbo in parecchie fasi distinte introduceva nell’essenza divina un’accrescimento. Ora, la progressione è incompatibile con l’immutabilità divina. Un altro errore commetteva Ippolito facendo della generazione del Verbo un atto libero come quello della creazione e sostenendo che, se Dio l’avesse voluto, avrebbe potuto fare di un uomo un Dio: “L’uomo non è né Dio né angelo: non cadere in errore. Se egli avesse voluto farti Dio, l’avrebbe potuto. Hai l’esempio del Verbo. Ma volendoti fare uomo ti ha fatto così (Philos. 10, 33,7). Il papa Callisto aveva dunque ragione quando classificava Ippolito e i suoi partigiani fra i diteisti o adoratori di due dèi, nonostante l’amarezza che questi provava di fronte ad una simile accusa (Philos. 9,12,4).” Da questa citazione emerge che “distinguere tra il Verbo interiore o immanente in Dio e il Verbo esteriore o proferito da Dio” è subordinazionismo a conferma di quanto detto in precedenza dei Padri della Chiesa che professarono questa distinzione. Ippolito lo era in maniera più accentuata perché, suo malgrado la sua teologia, escludeva il Figlio dalla natura divina e ne faceva una creatura per due ragioni: 1- una creatura può perfezionarsi non l’essenza divina 72 2- il Verbo è stato “fatto” Dio, alla stessa maniera di come l’uomo è stato “fatto” o creato uomo E che dire dell’accusa di diteismo? Nell’introduzione a Contro Noeto – EDB – 2000, pag.47-48 Manlio Simonetti, dopo aver descritto la preoccupazione di Ippolito di distinguere la propria dottrina del Logos da quella gnostica, scrive: “Con questo argomento siamo anche nel cuore della riflessione di Ippolito rivolta contro Noeto. Non gli è infatti sufficiente dimostrare contro l’avversario che proprio la documentazione scritturistica da lui prodotta, esaminata con attenzione, evidenzia la presenza di un altro accanto a Dio, che è anch’egli Dio (4,4-7; 5,2-4; 6,1; 7,1.6), e rilevare, sulla base soprattutto di passi giovannei, la distinzione tra il Padre che invia e il Figlio che è inviato (4,11; 7,7; 12,2; 13,2.4; 15,2; 17,3): egli deve contrastare l’accusa di affermare due dei (14,2). In questo senso la presa di distanza dallo gnosticismo serve, sì, a differenziare la sua dottrina, che afferma un solo Dio e un solo Logos, da quello che egli presenta come politeismo gnostico, ma non è sufficiente a replicare l’accusa, perché in effetti egli riconosce, come già Giustino, l’alterità del Logos rispetto a Dio Padre (11,1), e il Logos in CN è definito Dio in lungo e largo (6,1; 8,1; 14,1-2; 17,2 ecc.), sì che era agevole l’obiezione che in questo modo egli affermava due dèi.” Il commento del Quasten mette comunque in risalto il desiderio di Ippolito di dimostrare che la pluralità in Dio non era in contraddizione con la fede monoteista! Non possiamo trascurare espressioni come queste: “Ma, dicendo un altro, non voglio lasciare intendere che ci siano due dèi. Non c’è, invece, che una sola luce da luce, 73 come una sola acqua dalla sorgente o un solo splendore dal sole. Non c’è che una sola potenza, che è del Tutto, da cui viene questa Potenza, il Verbo” (11,2) o “Se il Logos, che è Dio, è presso Dio, uno potrebbe obiettare: Che dunque? Affermare due dèi? Non dirò due dèi, ma uno solo: però due persone e, come terza economia, la grazia dello Spirito santo. Il Padre ordina, il Logos esegue viene manifestato come Figlio, per opera del quale si crede nel Padre: l’accordo dell’economia si assomma in un solo Dio. Dio infatti è uno solo: il Padre che comanda, il Figlio che ubbidisce, lo Spirito santo che dà comprensione; il Padre che è su tutti, il Figlio che è per tutti, lo Spirito santo che è in tutti” (Contro Noeto – EDB 14,2-5) A prima vista sembrerebbe una chiara dichiarazione di fede trinitaria ma se leggiamo con attenzione possiamo capire che l’unità di Dio che Ippolito stava sostenendo nella pluralità era un concetto relativo molto distante dall’unità ontologica espressa a Nicea. L’espressione chiave è “Non c’è che una sola potenza, che è del Tutto, da cui viene questa Potenza, il Verbo”. Si tratta dell’unità di “azione”, simile all’unità di “governo”o di “potere” espressa dagli apologisti nel termine “monarchia”. Per capire in cosa consistesse è utile citare Tertulliano, contemporaneo di Ippolito, in Contro Prassea 3,3: “Se poi chi detiene la monarchia ha un figlio, la monarchia non viene divisa o cessa di essere, se anche il figlio ne viene fatto partecipe; ma continua ad appartenere anzitutto a colui da cui viene comunicata al figlio e, dato che rimane sua, per questo è monarchia anche quella che è tenuta da due persone strettamente unite.” (Ibid) 74 L’unità d’azione salvava la superiorità del Padre rispetto al Figlio perché l’autorità “continua ad appartenere anzitutto a colui da cui viene comunicata al figlio”, “Padre che comanda e Figlio che ubbidisce”!! Questo tipo di unità sarà accettata anche da Ario che la considererà un’unità di tipo morale, di pensiero e d’azione, per niente sufficiente per quello che venne stabilito a Nicea. (Contro Noeto – EDB – pag. 48) L’opera di Ippolito fu molto efficace per combattere il Patripassionismo di Noeto ma non riuscì a sfuggire all’accusa di di teismo, forse perché il suo errore fu quello di sostenere che anche il Figlio dovesse essere adorato come il Dio Padre Onnipotente o perché chi lo accusò pensava questo di lui, cosicché l’unità di “azione” pur giusta nella sua riflessione non convinse gli assertori del più rigido ed eretico monoteismo (modalisti). Ciò che più c’interessa, comunque, è aver dimostrato al di là di ogni dubbio che i commenti stringati dell’ opuscolo Trinità su Ippolito sono sostanzialmente corretti. Vedi sotto le fonti originali delle citazioni che confermano come Lamson sia stato citato correttamente! 75 Libro di Lamson 76 Le seguenti due pagine sono tratte da: ANF, Volume V (5), ristampa del dicembre 1981. 77 Vediamo negli scritti di Ippolito: (1) Il Creatore, il Padre, non era coevo con Lui; (2) Geova era una persona unica che produsse il Logos per primo; (3) Il Logos fu usato per adempire gli ordini del Padre di portare all’esistenza il resto della creazione; in questa maniera il Logos piacque a Dio. Questo mostra che Dio era una persona differente 78 dal Logos; che Dio e il Logos appartengono categorie differenti, entità separate. ORIGENE (185-254 E.V.) Citazione dall’opuscolo: Origene, morto verso il 250 E.V., diceva che “il Padre e il Figlio sono due sostanze . . . due rispetto alla loro essenza”, e che “in paragone col Padre, [il Figlio] è una luce molto piccola” L’ultimo Padre della Chiesa a cui fa riferimento l’opuscolo Trinità è Origene. Grazie ad Eusebio di Cesare, che di lui fu un grande estimatore, le notizie biografiche su Origine sono più numerose dei precedenti Padri della Chiesa. Primo di numerosi fratelli Origene nacque in una famiglia cristiana verso il 185 e.v. probabilmente ad Alessandria d’Egitto. Il padre, Leonida, che morì martire durante la persecuzione di Severo, gli fece impartire una solida istruzione sia biblica che filosofica. Quando, a motivo della persecuzione, venne sequestrato il patrimonio di famiglia Origene si diede da fare per sopperire all’indigenza in cui erano caduti tenendo lezioni. Conosciuta la loro situazione il vescovo Demetrio affidò al diciottenne Origene il compito di riorganizzare la famosa scuola catechetica di Alessandria. Nei primi tempi impartì lezioni preliminari di dialettica, fisica, matematica, geometria, astronomia, filosofia e teologia speculativa, ma poi affidò 79 queste al suo scolaro Eracla e si concentrò sulla formazione più avanzata degli allievi che studiavano filosofia, teologia e Sacra Scrittura. Nonostante i molti impegni non rinunciò a seguire le lezioni di Ammonio Sacca, il celebre fondatore del neoplatonismo. Il suo insegnamento e il suo esempio di vita furono di così alto valore che sotto di lui la scuola di Alessandria raggiunse il più grande apogeo. La sua conoscenza biblica fu così richiesta che spesso, nonostante fosse un laico, si trovò a spiegare le Scritture davanti ai vescovi e alle loro comunità, cosa che iniziò a dare fastidio ad alcuni ecclesiastici. Questi colsero l’occasione di scomunicarlo quando, andando contro alla legislazione canonica, venne ordinato sacerdote nonostante la sua precedente evirazione. Dopo varie tristi vicende legate alla sua scomunica si ritirò a Cesarea di Palestina dove incontrò un vescovo che non tenne conto della sua censura ma lo invitò a fondare una nuova scuola di teologia in quella città. Anche questa ebbe un enorme successo essendo basata sullo stesso modello d’insegnamento di quella di Alessandria. Origene cercò di essere un buon cristiano e lo dimostrò morendo martire per i malanni lasciati dai maltrattamenti che subì negli ultimi anni della sua vita a motivo dalla persecuzione di Dacio. Origene ha segnato la storia della Chiesa per vari motivi. Ha aiutato la Chiesa ad aprirsi al mondo e ai suoi interrogativi; ha fatto della scuola di Alessandra un luogo di ricerca teologica; con la realizzazione delle Esaple è l’iniziatore della “critica testuale” della Bibbia e convinse la Chiesa dell’importanza dell’interpretazione allegorica delle Scritture. 80 Uomo di cultura non poteva non dare importanza alla filosofia, e in una lettera a Gregorio Origene spiega all’ex allievo qual’era il giusto rapporto che questa aveva con la Scrittura: “Io vorrei che tu con tutte le forze della tua buona indole ti dedicassi alla dottrina cristiana come ad una missione; per conseguire tale scopo desidererei che tu adoperassi, come aiuto dalla filosofia dei Greci, quelle discipline che sono enciclopediche e come un preludio al cristianesimo; e inoltre dalla geometria e dalla astronomia tutte quelle nozioni che sono utili alla interpretazione delle Sacre Scritture, in modo che quanto insegnano i filosofi sulla geometria, sulla musica, sulla grammatica, sulla retorica e sull’astronomia come aiutanti della filosofia, noi lo diciamo della filosofia nei confronti del cristianesimo.” La filosofia poteva servire come materia preparatoria al cristianesimo ma la Bibbia per Origene aveva un ruolo centrale. Egli ebbe però il torto di lasciare inconsapevolmente che la filosofia platonica esercitasse un’influenza troppo forte nella sua teologia. Questa influenza gli fece commettere gravi errori dogmatici che furono oggetto di grandi discussioni per diversi secoli fino ad arrivare ad essere ritenuti eretici nel concilio di Costantinopoli nel 553 e.v. quando l’imperatore Giustiniano I fece firmare ai patriarchi e a papa Virgilio un documento contenete quindici anatemi su alcune dottrine di Origene (per un approfondimento vedere la “controversia origeniana”). Per quanto riguarda la teologia del Logos rispetto al Padre che stiamo esaminando fa riflettere la dichiarazione di G. L. Prestige, secondo cui Origene sarebbe il “padre comune dell’eresia ariana e dell’ortodossia di Nicea” (Dio nel pensiero dei Padri, Il Mulino, Bologna 1969, p. 81 142) (“STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 204) Quali furono gli appigli “ortodossi” e quali quelli “ariani” alla teologia di Origine? Esaminandoli insieme possiamo farci un quadro completo della sua teologia! Iniziamo dai concetti ritenuti ortodossi lasciando “parlare” un autore che, a detta di alcuni studiosi, ha riabilitato Origene salvandolo dall’accusa di eresia, un autore che abbiamo già incontrato nel nostro studio: Jean Danièlou: “Origine, grazie al genio speculativo che gli è proprio, ha fatto progredire considerevolmente la teologia della Trinità, a cui dedica lunghe esposizioni nei Principi (1,1-3) e nel Commento a Giovanni. Origine si colloca in continuazione di Giustino e di Clemente, ma ha colto al principale difficoltà presentata dal loro pensiero: la generazione del Figlio appariva come una sortita del Logos eterno impersonale in vista della creazione del mondo. Così il Figlio non esisteva eternamente nella sua propria sostanza, e peraltro l’acquisizione di questa sostanza propria sembrava farne la prima delle creature e mettere in causa la sua divinità. Origene se ne è reso conto chiaramente: “Molti di coloro che si dicono amici di Dio, per timore di professare due dèi, cadono in empie dottrine; oppure, negando che il Figlio è un individualità diversa da quella Padre, dicono che colui che chiamano Figlio è Dio, soltanto in quanto nome, oppure, negando la divinità del Figlio, pongono la sua individualità e la sua essenza come fossero altre da quelle del Padre nella sua delimitazione (perigraphè)”. (Commento a Giovanni II, 2, 16). Ciò riassume la posizione di fronte alla quale si trova Origenè e che non trova un termine mediano tra l’unità indifferenziata del Logos nella sua esistenza eterna e la perigraphè, che lo 82 costituisce come la prima delle creature nella sua generazione. A tale questione Origene risponde con fermezza nel Colloquio con Eraclide, che rappresenta appieno la posizione comune e le difficoltà che essa sollevava: “Manteniamo con gli uni la dualità e nello stesso tempo introduciamo con gli altri l’unità. E così da una parte non cadiamo nell’opinione di coloro che si sono separati dalla Chiesa per cadere nell’illusione della monarchia, sopprimendo il Figlio e togliendolo al Padre, sopprimendo effettivamente ad un tempo il Figlio e il Padre; e non cadiamo neppure in un’altra empia dottrina, quella che nega la divinità di Cristo”. (4; Scherer, 127). Così Origene afferma nettamente i due punti cardinali della teologia trinitaria. Da una parte egli difende la divinità del Verbo, più nettamente ancora di quanto non facessero i suoi predecessori, sebbene questo punto non sia mai stato veramente minacciato. Così il Figlio condivide l’invisibilità di Dio “Egli è l’immagine invisibile del Dio […] Questa immagine comprende l’unità di natura e di sostanza del Padre e del Figlio” (Commento a Giovanni, II, 6,52). Poiché il Padre è invisibile per natura egli ha generato un’immagine invisibile. H. Crouzel ha stabilito bene questo punto. (Teologie de l’image de Dieu chez Origine, Paris, 1956, p. 110) Si può dire così che Origene mantiene l’unità di ousia tra il Padre e il Figlio, ma occorre ricordare nello stesso tempo ha in lui parecchi significati e che non ci si può quindi basare sul vocabolario. (Cfr. A. Orbe, Hacia la primiera Teologia, cit., pp. 436-448; H. A. Wolfson, The Philosophy of the Church Fathers, cit., pp. 217-219) Peraltro – e questo è il punto essenziale rispetto ai suoi predecessori – egli afferma che la generazione del Figlio 83 è eterna. Si può dire che questo è il suo apporto principale: egli è il primo nel quale il modalismo è assolutamente escluso. Occorre citare qui il De Principiis: “ Che nessuno pensi che noi parliamo di qualcosa di non personale (insubstantivum), quanto chiamiamo Cristo Sapienza di Dio. Se dunque è stato ammesso correttamente, una buona volta, che il Figlio unico è al Sapienza di Dio sussistente personalmente (substantialiter subsistentem), non so se la nostra intelligenza debba andare al di là nelle sue esplorazioni per timore che la sua sussistenza stessa non abbia qualcosa di corporeo, poiché tutto ciò che è corporeo è segnato dalla disposizione, del colore e dalla dimensione” (De Princ., I, 2, 2). […] Ma Origene va più lontano. Questa sostanza propria del Logos esiste eternamente. Questa è la sua tesi essenziale: ”Come avrebbe potuto mai esistere il Dio Padre, sia pure un istante, al di fuori della generazione di questa Sapienza? Bisognerebbe dire allora che Dio non avrebbe potuto generare questa Sapienza, prima di generarla, in modo da generare poi quella che prima non esisteva, per farla esistere; oppure che egli l’avrebbe potuto e che – e questo è ugualmente empio da dire di Dio – non l’avrebbe voluto” (De princ., I, 2, 2). Le due affermazioni sono empie, l’una implicando progresso in Dio e l’altra ritardo. “Per questo sappiamo che Dio è sempre stato Padre del Figlio unico, nato da Lui e traente da Lui ciò che è , senza alcun inizio, non soltanto quello che corrisponde ad un tratto di tempo, ma neppure quello che lo spirito concepisce in sè stesso” (De princ., I, 2, 2; Cfr. pure Commento a Giovanni, X, 37, 246). Qui Origene fa progredire la teologia della generazione del Verbo su due punti. Da una parte 84 afferma chiaramente il suo carattere eterno, che non era posto saldamente da Giustino e Clemente, ma, per di più, presenta questa generazione non come un atto contingente che sarebbe sorto in un certo momento del tempo, ma come necessario, in modo che sia impossibile concepire sia pure per un istante la nozione del Padre senza il Figlio […] Giunto a questo punto, Origene farà compiere un nuovo progresso alla dottrina della generazione del Verbo. Abbiamo visto che per i suoi predecessori, questa era concepita come una probolè, una sortita fuori di Dio. La generazione era così la prima missione. Essa non conferiva una sostanza propria al Logos eterno se non viziandolo di perigraphè, di una limitazione, che lo costituiva come una prima tappa verso la creazione. Clemente giungeva sino a vedere nella generazione una prima Incarnazione, nel senso che ogni limitazione può essere considerata come incorporazione. Ora, ciò viene respinto da Origene come incompatibile con l’incorporeità radicale della natura divina, che è quella del Verbo […] Il testo principale è nel De principiis: “ Piochè Dio Padre è invisibile e inseparabile dal Figlio, non è per proiezione (prolatio = probolè) fuori di lui che il Figlio è generato. Se infatti il Figlio è la proiezione del Padre e se il termine conviene alla generazione degli animali, colui che produce e colui che è prodotto sono corporei. Noi non diciamo, come pensano gli eretici, che una parte della sostanza di Dio si è diffusa nel Figlio o che il Figlio è stato prodotto dal nulla del Padre, ma diciamo che il Verbo e la Sapienza di Dio sono stati generati dal Dio invisibile e incorporeo, come la volontà procede dal pensiero (mens)” (De princ., IV, 4 ,1). 85 Quest’ultima formula è ciò che ci conduce nel più profondo del pensiero di Origene, come ha ben visto Orbe (ibidem, pp. 387-397). Origene lo spiega in un frammento conservato da Panfilo (Apol. Pro Orig., 5; GCS, IV, p.562): “Il Figlio unico, Dio Nostro Signore, unico generato dal Padre, è Figlio per natura e non per adozione. Egli è nato dal pensiero del Padre, come la volontà procede dal pensiero … Che si parli, di a proposito di Dio, di pensiero (mens), di cuore (cor), di intelligenza (sensus); questi, rimanendo inseparato (indiscussus) e producendo il germe della volontà, diviene Padre del Verbo”. Il senso del pensiero di Origene è chiaro. Dio è pensiero e volontà (mens et voluntas). L’atto immanente ad eterno della volontà divina fa procedere il Verbo dal pensiero divino, cioè sucita una sostanza che è la perfetta immagine del pensiero e di cui questo è eternamente Padre. Questa generazione è un atto della volontà divina, ma nello stesso tempo è necessaria, perché Dio non potrebbe essere senza Verbo. E un Verbo non potrebbe essere non sussistente. Questo Verbo infatti non è una parola senza consistenza (Commento a Giovanni, I, 24, 151), ma è un Verbo sussistente. E questa sussistenza non è conferita al Verbo già esistente in Dio in modo non sussistente, ma è nello stesso tempo che questo Verbo è ed è generato come sussistente. Non ci sono due stadi nell’esistenza Verbo, ma uno solo. Così non soltanto Origene purifica la generazione del Verbo da ogni temporalità, ma purifica pure da ogni esteriorità: essa è un’operazione immanente della natura divina stessa, di cui esprime l’interiore necessità.” (“Messaggio evangelico e cultura ellenistica” EDB 1975 pag.440-445). 86 Prima di Origene solo Ireneo, ma senza perdersi in spiegazioni e su un presupposto teologico errato, aveva sostenuto la coesistenza eterna del Padre e del Figlio. Origene chiarisce che ricevere il proprio essere da un altro non implica più necessariamente “aver incominciato ad esistere”. La Sapienza non viene più detta generata nel senso di “uscita” da Dio al momento della creazione, ma essa è generata da sempre, e si identifica puramente e semplicemente con il Figlio. Questi è eterno perché il Padre non può esistere senza il Figlio che è la sua Verità, la sua Sapienza e tutto ciò che caratterizza il Padre: “Chi osa dire: C’era un tempo in cui il Figlio non esisteva, consideri che così egli afferma: Un tempo non esisteva la sapienza, non esisteva la parola, non esisteva la vita, poiché tutte queste determinazioni definiscono perfettamente la sostanza di Dio Padre. (Origene - I Principi, IV, 4, 1, pp. 544). Con questo Origene si contrappone certamente a Tertulliano ma anche a tutti i Padri precedenti sostenitori della generazione a due stadi del Logos. Come se questa atemporalità e immanenza personale del Figlio non fosse bastato a dichiararlo di natura divina la sua identificazione come immagine invisibile di Dio consolida la sua unità di natura e sostanza col Padre. Un’ulteriore concetto teologico trinitario lo si desume da ciò che Origene scrisse nei I Principi I, 6 , 2. Manlio Simonetti, uno dei maggiori esperti di patristica, afferma a riguardo: “Ma l’affermazione più impegnativa e inoppugnabile che distingue in maniera decisiva e irrevocabile la trinità dal mondo della creazione è a proposito del possesso del bene: tutte le creature 87 posseggono il bene in maniera accidentale, sì che possono anche volgersi al male; invece la trinità possiede il bene in maniera sostanziale e perciò immutabile, senza possibilità di alterazione e caduta (I, 6 , 2). Si può perciò concludere che nonostante il suo subordinazionismo e forse anche una certa difficoltà a inserire inserire tre entità divine nel suo fondamentale schema teologico (ciò vale soprattutto per lo Spirito santo, in quanto Origene tende a risolvere il rapporto Dio-mondo attraverso la sola mediazione del Figlio (=Logos). Di qui il carattere accessorio che talvolta rivela la funzione dello Spirito santo.), Origene ha bene sottolineato, in omaggio alla tradizione, lo iato invalicabile che divide il mondo della creazione dal mondo di Dio, di cui fan parte tutte e tre le persone della trinità (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 55) Un’ultimo concetto, di Origene, considerato “ortodosso” è quello espresso nella “Disputa con Eraclide”. Da modalista “a Eraclide, a quanto sembra, non piaceva l’espressione “due dèi” (dùo theoì), che Origene considerava la sola formula capace di esprimere con precisione la distinzione tra il Padre e il Figlio. A suo parare, essa comportava un troppo grave pericolo di politeismo. Origene osserva nella discussione: “Poichè i nostri fratelli si scandalizzano all’idea che ci siano due dèi, questo argomento merita di essere trattato con cura”. E ricorre alla Scrittura per mostrare in qual senso due dèi possano essere uno. Adamo ed Eva erano due. Tuttavia non formavano che una sola carne (Gen. 2,24). Cita inoltre S.Paolo, che a proposito dell’unione tra il giusto e Dio dichiara: “Colui che è unito al Signore forma un solo 88 spirito con lui” (1 Cor. 6,17). Invoca infine la testimonianza di Cristo stesso, che dice: “Io e il Padre, siamo uno”. Si trattava nel primo esempio, di unità di “carne”, nel secondo di “spirito”, e nel terzo di “divinità”. “Nostro Signore e Salvatore, dichiara Origine, nella sua relazione con il Padre e Dio dell’universo, non è una sola carne, né un solo spirito, ma un solo Dio”. Questa maniere d’interpretare la parola del Signore permette al teologo, pensa Origene, di difendere la dualità divina contro il monarchianismo. E mantiene inoltre l’unità contro l’empietà ebraica che nega la divinità di Cristo. E’ importante rivelare che per Origene, la divinità rappresenta qui l’elemento unificatore, tra Cristo e il Padre. Invece nel Contro Celso (8,12) egli cita lo stesso testo S.Giovanni 10,30 come prova dell’unità di Cristo e del Padre, ma parla allora soltanto di una “unità di pensiero e di identità di volontà”. L’interrogatorio di Eraclide si conclude con le seguenti battute: Origene dice: Il Padre è Dio? Eraclide risponde: Sì. Origene dice: il Figlio è altro (èteros) dal Padre? Eraclide risponde: Come potrebbe essere simultaneamente Figlio e Padre? Origene chiede: Il Figlio, che è altro dal Padre, è Dio egli pure? Eraclide risponde: E’ Dio anche lui. Origene dice: I due dèi non ne formano in questo modo uno solo? Eraclide risponde: Sì. Origene dice: Confessiamo dunque due dèi? Eraclide risponde: Sì, ma la potenza è una (dynamis nia èstìn). 89 La formula (dùo theoì e dynamis nia) ottiene dunque l’adesione di entrambe le parti. Ed ha lo stesso senso di quella della teologia posteriore: due persone, ma una sola natura. (Tratto da QUASTEN J., Patrologia. I primi due secoli (II-III), vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1980 pag.336-337). Nella teologia di Origene, però, come abbiamo detto, trovarono sostegno anche gli ariani facendo riferemento alle sue dichiarazioni di chiaro stampo subordinazionista. Esaminiamole! Diamo di nuovo la “parola” a Jean Danièlou: “Origene è risalito per quanto gli era possibile lontano nella comprensione dei misteri, ma una difficoltà sussiste tuttavia, ed è la stessa dei suoi predecessori. Tale difficoltà e che il Figlio, per il fatto stesso che è una persona, un upokheìmenon, si trova a presentare una certa determinazione che l’oppone alla trascendenza assoluta che è quella della deità. Che tale determinazione sia trasportata all’interno della vita stessa di Dio, che essa sia di conseguenza eterna, non impedisce che sia una determinazione. Ciò ci riconduce al problema dell’assoluta trascendenza della divinità prima. Se Origene respinge la perigraphè, in quanto era legata alla probolè, ammette tuttavia una certa perigraphè del Figlio (Commento a Giovanni 1, 39, 291292). In un senso costui è la perigraphè del Padre, così come egli è il suo nome (onoma) o la sua faccia (pròsopon). Egli introduce nel Dio transpersonale la personalità: “Dio non partecipa all’ousia, è partecipato più che non partecipi… E’ al di là dell’ousia. Ci si può 90 chiedere se è possibile che il Figlio unico è primogenito di ogni creatura essenza delle essenze, idea delle idee – e porre Dio suo Padre al di là di tutte queste cose” (Contra Cels., VI, 64; Cfr. pure VII, 38) (Così pure nel Commento a Giovanni XIX, 6, 37, la natura di Dio è uperèkheina tes ousias) […] Su questo punto Origene non è più avanzato di Giustino. Quali che siano i progressi compiuti, sussiste il fatto che l’opposizione tra il Padre e il Figlio è quella tra il Dio assolutamente trascendente e transpersonale, solo propriamente aperigraptos, anonomastos, e il Dio personale che riceve la perigraphè, che è il nome del Padre, che è la sua faccia, cioè il suo viso personale, suscettibile di dialogo. E ciò si radica nell’opposizione più fondamentale, quella tra agennetos e il gennetos, poiché è la generazione stessa che consiste in una delimitazione. E’ impossibile essere ad un tempo infinito e personale: “Bisogna dire che la potenza di Dio è limitata e riconoscergli una perigraphè. Se la potenza divina fosse infinita, essa non potrebbe conoscersi. Per natura l’infinito è incomprensibile” (De princ., II, 9,1). Ma peraltro bisogna che Dio sia ad un tempo infinito e personale; per questo in Dio non ci sono due Persone, bensì l’essenza infinita e la sussistenza personale che costituiscono ad un tempo due realtà diverse, ma che nello stesso tempo sono tanto più una da costituire due aspetti necessari della natura divina. Ma ciò comporta malgrado tutto una differenza di livello tra il Padre e il Figlio. Peraltro la generazione del Figlio, con la quale questi riceve la perigraphè, rimane in relazione con la creazione del mondo e lo costituisce come intermediario tra il Padre e la creazione. Si può dire che per lui la relazione del Logos col Padre è 91 concepita in modo parallelo alla relazione delle creature spirituali con il Logos. Questo aspetto della sua dottrina è uno di quelli in cui l’influenza del platonismo medio si fa più sentire. Come ha detto A. Lieske in un libro peraltro favorevole a Origene, “il significato cosmologico del Logos è la minaccia più grave per il mistero trinitario della filiazione e il contraccolpo più forte del pensiero neoplatonico (noi diremmo medio-platonico) sulla sua speculazione”. In numerosi passi della sua opera Origene descrive il Logos nel suo duplice rapporto col Padre e con i logikhoì, come inferiore al primo e superiore ai secondi. Così, in particolare, nel Commento su Giovanni: “Dio (il Padre) è Dio per sè stesso (outotheòs) secondo la parola del Signore, che dice nella sua preghiera: Perché riconoscano te, il solo vero Dio (Gv. 17,3); e tutto ciò che sta al di fuori di colui che è Dio per sè stesso, essendo divinizzato per partecipazione, non potrebbe essere chiamato ho theòs, ma theòs; questo nome appartiene pienamente al primogenito di ogni creatura (Col. 1,15), come primo per il fatto di essere accanto a Dio, attirante a sé la divinità e superiore in dignità agli altri dei (di cui Dio è il Dio, secondo la parola: Il Dio degli dei, il Signore ha parlato [Sal. 49, 1]), concedendo loro di esser dèi, attingendo da Dio ciò di cui essi siano abbondantemente divinizzati e comunicando loro la propria bontà. Dio è il vero Dio. Gli altri sono degli dèi formati ad immagine di questo, come delle immagini (eìkhònes) del prototipo. Ma di nuovo tra queste numerose immagini, l’immagine archetipa è il Logos che è presso Dio, che era all’inizio per il fatto di essere Dio che sta sempre presso Dio e che non sarebbe ciò se non fosse presso Dio, se non sussistesse nella perpetua 92 contemplazione dell’abisso (bathòs) paterno” (Commento a Giovanni II,2). Questo testo ci spinge nel cuore stesso della visione di Origene. Da una parte vediamo l’opposizione stabilita tra il Dio con l’articolo, che solo è autotheòs, Dio per sè stesso, e gli altri, che sono theoi per partecipazione. Ciò è ispirato da Filone, De somn., I, 230. In questo senso, il Padre solo è alethinos theòs e per conseguenza trascendente al Figlio. Origene con ciò vuol rassicurare coloro che il timore del politeismo fa cadere nel modalismo o nell’adozionismo, ma non lo fa che attribuendo al Figlio una divinità partecipata come quella di tutte le altre creature spirituali, che sono dei theoi. Ma, d’altra parte, tra questi theoi egli trascende tutti gli altri. Egli è solo accanto al Padre ed è superiore in dignità (timioteros); solo, conosce tutto il Padre (Commento su Giovanni XXXII, 28, 345); solo, fa tutta la sua volontà (X, 35). Non possiede la divinità da sè stesso, la riceve dal Padre, ma a sua volta è da lui che viene ogni divinizzazione. Se dunque è di un altro ordine rispetto al Padre, è pure di un altro ordine rispetto ai logikhoì. Egli è autodikhaiosyne, autoalètheia (Commento su Giovanni VI, 6, 38; VI, 6, 40). […] Il pensiero di Origene appare qui senza contestazione possibile. Se il Figlio e lo Spirito sono trascendenti (uperèkhontes) rispetto a tutti i logikhoì, loro stessi sono trascesi ancor più dal Padre. Essi costituiscono dunque un ordine intermedio, che ha una prossimità assai più grande in relazione al Padre che non tutto il resto, ma che tuttavia è separato per l’essenza, la potenza e gli altri attributi. La nozione origeniana del Logos è assai alta e profonda, e molti suoi aspetti potranno essere rispresi; ma essa rimane affetta da un subordinazionismo evidente. L’unico punto sul 93 quale Origene ha modificato la sua posizione è la proporzione tra la differenza che separa il Padre dal Figlio e quella che c’è tra il Figlio e le creature. Nel testo che abbiamo letto, egli dice che il Padre trascende più il Figlio che non il Figlio gli altri esseri. Ora, nel Commento su Matteo troviamo l’idea opposta: “ Come il Salvatore è l’immagine del Dio invisibile, così egli è pure l’immagine della sua bontà. E tutte le volte che il termine “buono” è applicato ad un essere inferiore, esso ha un altro significato. Se, relativamente al Padre, è l’immagine della sua bontà, relativamente agli altri è ciò che la bontà del Padre è per lui. Eppure vi è un’analogia più vicina della bontà di Dio e quella del Salvatore, che è l’immagine della sua bontà, ce tra il Salvatore e un uomo buono, una buona azione, un buon albero. Più grande infatti è la trascendenza (uperokhè) del Salvatore, in quanto egli è l’immagine della bontà di Dio, rispetto agli esseri inferiori, che non la trascendenza di Dio, che è buono, rispetto a colui che ha detto: Il Padre che mi ha inviato è più grande di me, il quale è, rispetto agli altri, l’immagine della bontà di Dio” (Commento in Matt., XV, 10) (“Messaggio evangelico e cultura ellenistica” EDB 1975 pag.445-450). Abbiamo detto che una “conquista” teologica di Origene, rispetto ai Padri precedenti, è stata quella di dichiarare il Figlio sussistente eternamente come persona nel Padre perché secondo un suo postulato filosofico una negazione della personalità del Figlio conduce logicamente alla negazione del Figlio. Questo però, come abbiamo appena letto, comporta una differenza di “livello”, chiamiamolo per ora come lo ha definito Danièlou, col Padre che è l’assoluta trascendenza. 94 In più il significato cosmologico del Logos, il legame della sua generazione eterna con la creazione, attribuisce al Figlio una divinità partecipata come quella di tutte le altre creature spirituali e crea un’altra differenza di “livello” che ora però Danièlou chiama differenza di natura: “Così il Figlio è definito per la sua duplice relazione col Padre e col cosmo. Poiché d’altra parte egli è eterno, ciò implica la conseguenza che il cosmo è eterno. Bisogna senza dubbio vedere qui innanzitutto un’influenza del platonismo medio dal quale Origene è stato formato (Albino, Epit., XIV, 3: “Non v’è un tempo in cui il mondo non esisteva”). Questa dottrina dell’eternità del mondo era stata difesa da Ermogene, ma Tertulliano l’aveva combattuta (Adv. Herm., 3). Origene la riabilita, dandone una ragione curiosa. Egli parte dal titolo di Pantokhrator - sovrano dell’universo - dato a Dio: “ Se non c’è stato momento in cui Dio non sia stato Pantocratore, bisogna che sempre ci siano stati degli esseri per i quali egli fosse Pantocratore. Vi sono dunque sempre stati degli esseri governati da lui che l’hanno avuto per Signore” (De princ., I, 2, 10). Così “Dio non ha cominciato ad agire quando ha fatto questo mondo visibile, ma come dopo di questo ce ne saranno degli altri, così prima di questo ve ne sono stati altri” (De princ., III, 5, 3). Si vede che in Origene il Logos ha un bel essere eterno ed eternamente personale: egli conserva i suoi legami cosmologici perché è il Logos eternamente generato in vista di un mondo eternamente creato. Ciò trova la sua ragione ultima nella necessità di un intermediario tra l’unità primitiva e il mondo molteplice. Ritroviamo una concezione di Clemente. Tra il Padre che è “assoluta unità e semplicità” (Commento su Giovanni I, 20, 119) e il mondo che è pura molteplicità, il Figlio presenta ad un tempo l’una 95 e l’altra, ma nello stesso tempo egli sembra presentare col Padre una differenza di natura. La loro distinzione non è soltanto quella delle loro relazioni personali, è pure quella della perfetta unità e dell’unità di una molteplicità. Quest’ultima unità è quella del Figlio in quanto Sapienza: “Tutto è stato creato secondo la Sapienza e secondo gli archetipi (tùpoi) compresi secondo il sistema dei pensieri divini situati nella Sapienza” (Commento su Giovanni I, 19, 113). Abbiamo qui una trasposizione della concezione platonica del mondo intelligibile, ma questo non è costituito in un universo distinto, è soltanto contenuto nella Sapienza personale. Pensiamo a Filone, per il quale gli archetipi sono un mondo creato di cui il Logos è l’unità, e ad Albino, per il quale essi sussistono nel pensiero di Dio.” (“Messaggio evangelico e cultura ellenistica” EDB 1975 pag.450-451). Per questo motivo sempre lo stesso autore in un'altra opera su Origene concludeva: “Questa teologia del Logos, per quanto ricchi ne siano certi aspetti, esprimendosi negli schemi del medio-platonismo, è stata alterata su due punti essenziali che compromettono la dottrina trinitaria e la dottrina della Grazia. In primo luogo, per la sua concezione della superiorità del Padre sul Logos, Origene cade nel subordinazionismo. Fra il Figlio e il Padre egli non riconosce solo una differenza di persone ma di natura. E di conseguenza la divinità del Figlio non è altro che una divinità partecipata. Egli non ha esitato a rappresentare il Figlio come un’immagine del Padre più in piccolo. Inversamente, fra il Logos ed i Logikoi non riconosce una differenza sufficiente. Qui è stato influenzato dalla 96 concezione stoica dell’immanenza del Logos in tutti i Logoi particolari: “Ogni saggio, nella misura in cui partecipa alla sapienza, partecipa al Cristo che è la Sapienza” (Commento a Giovanni 1, 34). Certamente gli spiriti, in seguito al peccato possono essere incapaci, senza il soccorso del Logos, di una piena vita spirituale. Essi avranno bisogno della sua azione per pervenirvi. Ma, secondo Origine, rimane che questa vita spirituale non è che lo sbocciare di questa partecipazione radicale al Logos che ogni spirito possiede per natura, e che quindi si tratta solo di una differenza di grado. Questo distrugge il carattere radicalmente gratuito della Grazia come partecipazione ad una vita trinitaria trascendente. (Jean Daniélou – Origene - Il Genio del Cristianesimo – Ed. Archeosofica S.Palamidessi & C. Roma (1948 – 1991, pp.312-313) In questo ultimo commento Daniélou vede la diversità di natura del Padre e del Figlio anche nell’affermazione di Origene che il Figlio rappresenta un’immagine più in piccolo del Padre. E’ vero quindi che l’identificazione del Figlio come immagine invisibile di Dio mette in risalto l’UNITA’ di natura e sostanza col Padre ma ne introduce anche una DIFFERENZA : il Padre e il Figlio rappresentano differenti gradi della stessa natura divina! A proposito del limite teologico della rappresentazione del Figlio come immagine di Dio notevole è il commento che viene delle parole di Joseph Wolinski: “Origene prende in considerazione l’esistenza distinta del Figlio e del Padre allo stesso tempo della loro unità. Gli occorre dimostrare “in che cosa sono due, e in che cosa sono un solo Dio (heis Theos)” (Id., Disputa con Eraclide, 2 cit., p.297). La 97 prova della distinzione viene cercata a partire dalla relazione “immagine-modello”, che Origene pensa di trarre dalla Scrittura: “Allo stesso modo penso che con ragione si dirà che il Signore che è l’immagine della bontà di Dio (cfr. Sap 7,26), ma non il Bene-in-sé (autoagathon). E forse il Figlio è anch’egli buono, ma non semplicemente solo buono. E come è l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15), e per questo è Dio, pur senza colui del quale il Cristo stesso dice:”Perché conoscano te, il solo vero Dio” (Gv 17,3), così egli è l’immagine della sua bontà, ma non identico come il Padre al Bene (Id., Frammento di Giustiniano, estratto dalla Lettera a Mena, ed. fr. a cura di H. Crouzel. (SC 253). Questo passo interpreta Sap 7,26 alla luce del principio secondo il quale per definizione “l’immagine è inferiore al modello, colui che riceve è inferiore a colui che dà”. Troviamo lo stesso principio in Plotino: “Occorre invece, in cose di questo genere, valutare il donante da più e la cosa donata da meno del donante, […] il Primo sta al di là di questi gradi secondari e il donante sta al di là di ciò che è donato poiché vale di più (Plotino. Enneadi, VI, /, XVII, a cura di V. Cilento, Bari, Laterza, 1973, III, p. 344). Secondo Plotino ogni essere giunto allo stato di perfezione genera, e genera necessariamente, “come una coppa traboccante” (Ibid. V, 1, 6 citata da Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, 29, 2 , a cura di C. Moreschini (CTP 58), Città Nuova, Roma 1986, p. 101). Genera un essere che gli assomiglia, ma che gli è inferiore, a che per questo si distingue da lui. Origene condivide questo principio perché vede in esso un modo efficace per confutare il modolismo senza negare la 98 divinità del Figlio. L’irraggiamento è luce come il sole da cui esso emana, ed è per questo che il Figlio è proprio “Dio”. Non vi è nel Figlio un’”altra Bontà” se non quella che è nel Padre, ed è chiamato sua Immagine “perché non deriva da altro che da questa originaria e assoluta Bontà” (Origene, I Principi, I, 2 , 13, cit., p. 162). Ma l’irraggiamento non è che l’Immagine del sole e proprio per questo si distingue da lui. Vi è qui una innegabile forma di “subordinazionismo”. Origene a volte l’esprime in modo sfumato (Cfr. H. Craouzel, Thèologie de l’image …. cit., pp. 111-127), altre volte con veemenza, come quando si oppone agli gnostici che si pretendono “consustanziali” a Dio: “ Benché trascenda per la sua essenza, la sua dignità, la sua potenza, la sua divinità […] molti esseri così mirabili, tuttavia non è per nulla paragonabile al Padre suo. Infatti è l’immagine della sua bontà, e l’irradiazione, non di Dio, ma della sua gloria e della sua eterna luce, l’esalazione, non del Padre, ma della sua potenza (Origene, in Johannis evangelium, XIII, par. 152-153, ed. fr., cit., (SC 222), 1975, p. 115; Cfr. par. 151, p. 113 e par. 234, p. 157). Oggi, nella prospettiva post-nicena, il “subordinazionismo” significa un rapporto di inferiorità ontologica tra il Figlio e il Padre considerati in loro stessi, indipendentemente da qualsiasi riferimento alla creatura. Ma Origene considera il Figlio, anche se pensato nella sua preesistenza, senza mai dissociarlo dalla sua relazione alle creature.” (“STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 195-196) 99 Si nota bene l’influenza platonica di Origine nell’esprimere questo concetto e l’analogia con Plotinio è stata così spiegata da Harry Austrin Wolfson: “La sorprendente analogia fra Origene e Plotino non può certo essere considerata una pura coincidenza. Non si può neppure attribuire la causa a una comune fonte letteraria, perché, per quanto riguarda la letteratura, Origene è il primo a esprimere tale concezione nella letteratura cristiana, e Plotino è il primo ad esprimerla nella letteratura filosofica in genere. Cronologicamente, non sarebbe impossibile che Plotino abbia tratto ispirazione da Origene, giacchè Origene scrisse negli anni 230-251, mentre Plotino incominciò le Enneadi nel 253 e il manoscritto fu revisionato dopo la sua morte (ca. 270) da Porfirio. Ma è più probabile che essi avessero una comune fonte non-scritta. Origene e Plotino erano stati entrambi discepoli di Ammonio Sacca ad Alessandria. Origene verso il 208 (Cfr. E. de Faye, Origène (1923), p.19), Plotino da circa il 232 al 242 (Cfr. UberwegPraechter, Gesch. Di Phil. D. Altertums (1920), p. 624), e non è impossibile che gli elementi comuni trovati in Origene e in Plotino, derivino dagli insegnamenti di Ammonio (Cfr. R. Cadiou, La Jeunesse d’Origene (1393), pp. 184-227).” (“La filosofia dei Padri della Chiesa” pag. 188) Poiché il nostro scopo è quello di dimostrare che l’opuscolo Trinità è sostanzialmente corretto nel citare il pensiero dei Padri della Chiesa e il pensiero di Lamson sulla loro teologia potremmo fermarci qui e dire che la nostra analisi su Origene conferma di nuovo l’onestà e l’attendibilità delle citazioni della Watch Tower (bisogna 100 tener conto che il significato di essenza e natura, in Origene, a volte assumono significati diversi come già detto da Danièlou e come conferma Simonetti in I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 542, nota 7.). Ma per amore dell’argomento c’è ancora una questione da approfondire. Joseph Wolinski, nell’opera sopraccitata, riferendosi al concetto origeniano di divinità partecipata da parte del Figlio nei confronti del Padre, fa questa osservazione: “Riprendendo una esegesi di Filone che oppone già le espressioni Ho Theos e Theos (con o senza l’articolo), Origene utilizza l’inizio del prologo di Giovanni per rispondere ai modalisti. “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio (pros ton theon), e il Verbo era Dio (Theos)” (Gv 1,1): secondo lui il ricorso all’articolo non è fortuito. L’apostolo usa l’articolo quando parla di Dio, il Non-Generato, lo omette quando indica il Verbo: “Bisogna dire [ai modalisti] da una parte che il Dio [con l’articolo] è Dio in sé (autotheos), e per questo il Salvatore nella sua preghiera al Padre suo dice: ”Perché conoscano te, l’unico vero Dio” (Gv 17,3), e, dall’altra parte che sarebbe più giusto chiamare non “il Dio” (ho theos), ma Dio (theos) [senza articolo] tutto ciò che, al di fuori di Dio in sé, viene deificato per partecipazione alla sua divinità (Origene, in Johanis evangelium, II, 2 (2), par. 217-219; cifr. Par. 13, pp. 215-217) Il rapporto “il Dio – Dio”, è importante notarlo, non esprime qui la distinzione “Padre-Figlio”, ma la distinzione tra Padre e “tutto ciò che viene deificato per partecipazione”. La distinzione tra il Figlio e il resto della “creazione” non appare che in un secondo tempo, quello in cui il Figlio è 101 chiamato “Primogenito di ogni creatura: ”[Assodato questo], è in modo assoluto (kyriotèron) che il Primogenito di ogni creatura (prototokos pasès ktiseos, Col 1,15), poiché dimora presso Dio ed è per questo motivo il primo ad impregnarsi della divinità, è più degno di loro, dal momento che offre a coloro che sono “dèi” al di fuori di lui, di divenire degli dèi, attingendo da presso Dio di che deificarli, e, nella sua generosità, facendone loro parte con liberalità” (Origene, in Johanis evangelium, II, 2 (2), par. 217-219; cifr. Par. 13, pp. 215-217). La “partecipazione“ a Dio che il Figlio sembra condividere con le creature, non deve trarre in inganno. Lui solo è Figlio per natura. Origene lo afferma molto chiaramente contro gli gnostici (Cfr. Ibid.,II, Frammento di Panfilo, ed. fr., cit., (SC 120), 1996, p. 393; XX, 32 (27), par. 290 (SC 290), 1982, p. 301). Ma il suo essere filiale anche se indipendente dalla nostra esistenza, non è isolato: riceve e fa partecipare. Dove far passare il confine tra il Padre, il Primogenito di ogni creatura e noi? Situarlo tra il Figlio e il Padre farebbe di Origene il precursore di Ario. Farlo passare tra il Figlio e noi assicurerebbe la sua ortodossia. Forse si deve fare l’ipotesi che per Origene vi sia sì una distinzione, ma non un confine. Il commento cerca di tener insieme, senza confonderli, Dio Padre, il Figlio di Dio, - e gli esseri liberi, “dèi” per grazia.” (“STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 196-197) Apprezziamo molto commenti cosi onesti e sinceri, che lasciano all’interpretazione del pensiero di Origene, piuttosto che ha una sua dichiarazione esplicita, la 102 conclusione. Di seguito elenchiamo, pur non essendo dogmatici, le ragioni per cui come Ario, se fossimo stati presenti ai dibattiti teologici del suo tempo, avremmo potuto utilizzare Origine per far passare il Figlio di Dio nella categoria delle creature: • Origene propende per considerare lo Spirito santo creato dal Padre eppure dalle sue prerogative è considerato di natura divina: questo a testimoniare che anche il Figlio potrebbe essere considerato alla stessa stregua. Sullo Spirito santo illuminante è il commento di M. Simonetti qui riportato: “Sulla sua origine invece non nasconde la sua incertezza, e già nella preafatio (4) ammette che non era ben chiaro se lo Spirito Santo fosse natus aut innatus (= cactus an infectus: cfr. la nota ad loc.) e se dovesse essere considerato un secondo Figlio di Dio. A II, 2 ,I Origene di passaggio dice che il Padre genera il Figlio e emana (proferì) lo Spirito santo, ma senza chiarire in che cosa consista questa emanazione e come di differenzi dalla generazione del Figlio. L’incertezza risulta per noi accresciuta dalle modifiche che Rufino ha apportato su questo argomento al testo originario, soprattutto a I, 3 ,3: ma connettendo quanto afferma Ruffino a De adult. Libr. Orig., I con Co. Io., II, 10 (6), dove Origene propende a considerare lo Spirito santo creato dal Padre, per opera del Figlio, possiamo ricavare che anche a I, 3, 3 egli si fosse espresso in questi termini ma con la massima cautela e sottolineando il silenzio della scrittura su questo argomento. - nota 9 pag. 52: “Ma anche se Origene è giunto a considerare lo Spirito santo come creatura, è fuori di dubbio che egli l’ha considerato come creatura assolutamente in conguagliabile con le altre 103 creature create dal nulla: infatti lo Spirito santo, come dimostrano le sue prerogative, è di natura e di carattere divino: cfr, infra” (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 52-53). Origene contempla l’idea di una creazione che è allo stesso tempo eterna nel Verbo e “creata a partire dal nulla” che richiama molto la concezione del Figlio eternamente generato ma, nel nostro caso molto probabilmente, anche creato. Questa è la dottrina più controversa e discutibile di Origene ma per noi è ben riassunta in questo sito: (http://web.tiscali.it/chiesaevangelica/Subordinazionismo%20e%20Triteismo.htm) di cui riportiamo il brano pertinente: “Molte delle conclusioni di Origene sono dedotte dal suo concetto di Dio piuttosto che dalla Bibbia, egli sembra credere più nel Dio del platonismo che in quello della Scrittura. La natura platonica della teologia di Origene spiega molte delle sue dottrine meno bibliche: 1) Dio è limitato dalla logica, Dio non può fare ciò che è contrario alle leggi di natura, 2) Vi sono tre esseri eterni: Dio, Logos, e logikoi. Dio è in senso pieno solo il Padre che è assolutamente trascendente rispetto alla materia e pertanto non può avere alcun contatto con il mondo materiale. I logikoi sono gli esseri razionali incluse le anime umane. Il Logos, è una categoria di essere a metà tra due esseri incompatibili, cioè Dio e i logikoi. Il Figlio appartiene a questa categoria intermedia. Per il platonismo l’Assoluto e il molteplice per potere entrare in contetto, hanno bisogno di un essere che sia semplice e complesso al medesimo tempo. Il Figlio è platonicamente paragonato alle epinoiai (aspetti) del Logos, per sottolineare le differenza gerarchica ed 104 ontologica tra Padre e Figlio. Il Figlio esiste solo per legare il mondo a Dio, e pertanto il Logos e il mondo sono eterni. Allo scopo di evitare contraddizioni con l’idea biblica di creazione del mondo Origene inventa l’idea di “creazione continua”. Tale idea è fondata su una errata comprensione della natura degli attributi di Dio, per Origene se Dio fosse passato dal non-creare al creare, sarebbe mutato; inoltre se il Padre è onnipotente deve esservi sempre stato qualcosa su cui esercitare tale potere. Origene introduce anche l’idea di “continua generazione” del Figlio. La coeternità di Dio del Logos e del mondo non era compatibile con la dottrina biblica della creazione, perché essa creava un interruzione nella relazione tra Dio e Logos da una parte e il mondo dall’altra, veniva pertanto congetturata una “continua creazione” del mondo con relativa “continua generazione” del Figlio.” Per una derivazione filonica di questo concetto del Logos riportiamo ciò che Joseph Wolinski dice al riguardo: “Osserviamo ciò che è il nostro Salvatore: “Irradiazione della gloria” (cfr. Eb 1,3). L’irradiazione della gloria non è generata una volta per tutte (hapax) così da non essere più generata; ma quanto a lungo la luce è generatrice di irradiazione (apaugasmatou), altrettanto a lungo è generata (gennatai) la “irradiazione della gloria di Dio”. […] Il Salvatore è generato senza interruzione – ciò che gli permette di dire: ”Prima di tutte le colline mi genera” (Prv 8, 25), non: prima di tutte le colline ma ha generato, ma appunto: ”Prima di tutte le colline mi genera” (Id., Omelie su Geremia, IX, 4, cit., pp. 120-122.) [su come questi ragionamenti scritturali non abbiano fondamento rimandiamo a “Il ruolo della teologia e del pregiudizio nella 105 traduzione della Bibbia” di Rolf Furuli , Ed Azzurra 7 , 2003 p.134] Il riferimento a Prv 8, 22-31 ci ricorda che la generazione eterna del Figlio non è ancora considerata a livello puramente intratrinitario. E’ sempre pensata in relazione con il mondo (cfr. Id., I Principi, I, 2, 2, cit., p. 143). “Poichè Dio sempre poteva e voleva, non sarebbe stato mai conveniente né ci sarebbe stato alcun motivo per non avere sempre con sé questo bene che voleva” (Ibid., I, 2, 9, p. 156). Infatti “Come uno non può essere padre se non ha un figlio, né può essere Signore senza un dominio o un servo, così Dio non può essere detto onnipotente se non esistono esseri sui quali egli possa esercitare il suo dominio” (Ibid., I, 2, 10, p. 156). Sarebbe assurdo e sacrilego pensare che le potenze di Dio siano rimaste in ozio, ed è per questo che “è assurdo ed empio pensare che anche per un solo istante queste facoltà siano state incerte” (Ibid., I, 4, 3, pp. 183-184). “Generazione” del Figlio e “creazione” del mondo sono considerate insieme in un Dio che è eternamente nella gioia: “Dio è sempre stato Padre, avendo sempre il Figlio unigenito, che […] è chiamato anche sapienza: questa è la sapienza di cui Dio sempre si rallegrava avendo creato il mondo (Prv. 8, 38ss.), per cui si intende anche che Dio sempre si rallegra.. Orbene, in questa sapienza, che era sempre col Padre, era sempre contenuta, preordinata sotto forma di idee, la creazione, sì che non c’è stato momento in cui l’idea di ciò che sarebbe stato creato non era nella sapienza (Ibid., I, 4, 4, pp. 184-185). La “creazione” di cui si tratta è quella del mondo intelligibile che esiste dall’eternità nel Verbo, come scriveva Filone (Cfr. Filone di Alessandria, Sulla provvidenza, cfr. P.Nemeshegyi, La Paternitè de Dieu 106 Origene, Desclèe e Cie, Tornai 1960, p. 125). Origene parla nondimeno di una creazione “a partire dal nulla” (ex nihilo), con un inizio nell’essere. Questa “doppia creazione” del mondo non deve essere confusa con la doppia creazione dell’uomo (Cfr. H. Crouzel., Thèologie de l’image de Dieu chez Origene, Aubier, Paris 1956, pp.148-149).” (“STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 192-193) • Il Figlio di Dio in I Principi I, 4, 1 è definito esplicitamente “creato o creatura” : “… Così è stato generato dal volere del Padre il Figlio che è immagine di Dio invisibile (Col., 1, 15) e riflesso della sua gloria e impronta della sua sostanza (Hebr., 1, 3), primogenito di tutta la creazione (Col., 1, 15): creatura, sapienza. Infatti proprio la sapienza dice: Il Signore mi ha creato inizio delle sue vie per le sue opere (Prov.,8,22) … La nota in calce n. 11 recita: “Per i passi citati cfr. I, 2 , I segg. Il fatto che qui Origene definisca il Figlio khtisma, creatura ha fatto pensare ad interpolazione antiorigeniana nei frammenti del florilegio presentato a Giustiniano dai monaci palestinesi: cfr. Bardy, p. 73. Ma per influsso di Prov. 8, 22 e di Col. 1, 15 Origene talvolta ha parlato della sapienza divina come creata e creatura: Co. Io., I, 19 (22); I, 34 (39), considerando questi termini come sinonimo di generare, genitura per indicare che il Figlio ha avuto inizio dal Padre: cfr. Prov. 8, 22 e 25 e i miei studi sull’Arianesimo, pp. 23 seg. Cfr. anche C. Cels., III, 34; VI, 17. Solo in un secondo tempo (questione dei due Dionigi) si comincerà a percepire l’incompatibilità della definizione del Figlio come creatura”. In Prefazione 4: è scritto :” In secondo luogo, Gesù Cristo, egli che è venuto, è nato dal Padre prima di ogni creatura” 107 la nota n. 15 recita: “Girolamo (Ep., 124,2) afferma che qui Origene avrebbe detto che il Figlio era stato fatto dal Padre, cioè che egli era genetòs e non gennetòs. Ma i due termini, vicini anche per significato (gennetòs ha spesso il senso di creato) erano soggetti a confondersi con la massima facilità nella trascrizione dei mss.: cfr. il Lexicon del Lampe, s.v. E’ certo comunque che Origene ha sempre chiaramente affermato la generazione del Figlio dal Padre: cfr., p. es., De Pr., IV, 4, I e Ho. Ier., 9, 4”. (I Principi, Ibid.) Sempre in Prefazione 4 si continua a leggere dello Spirito santo: “Infine (gli apostoli) associarono in onore e dignità al Padre ed al Figlio lo Spirito santo. A proposito di questo non è chiaramente precisato se esso sia generato o ingenerato; se anche lui debba essere considerato figlio di Dio oppure no”. Di questo passo è interessante riportare la nota 17, di seguito riportata sempre per aver chiaro il significato del termine generare/creare: “(Girolamo (Ep. 124, 2) sostiene che Origene avrebbe scritto: creato o non creato. Ricadiamo nella confusione di cui abbiamo trattato sopra, aggravata dal fatto che i termini agenetòs (non creato) e agennetòs (non generato) anche per il significato sono spesso considerati sinonimi fino al IV secolo (cfr, IV, 2 ,1 ). La precisa distinzione di tutti questi termini si avrà soltanto al tempo della controversia ariana. Sulla base di questa esperienza Rufino e Girolamo si preoccupano, il primo, di interpretare le espressioni di Origene in senso rigorosamente niceno, il secondo invece in senso ariano: cfr. G. L. Prestige, God in Patristic Thought, London, 1952, pp. 37 segg.);” (I Principi, Ibid.) 108 In base a questi riferimenti si capisce come Ario possa aver letto nel termine greco genetòs, usato da Origene in riferimento al Figlio, la creazione da parte del Padre! • Quasten J. commentando il contenuto del trattato di Origene sulla preghiera, che si chiama appunto “Sulla Preghiera”, dopo aver detto che nella scrittura di 1 Timoteo 2,1 egli vi vedeva elencati quattro specie di orazioni, la domanda, l’adorazione, la supplica e il rendimento di grazie fa un’interessante osservazione: “La preghiera di adorazione non dovrebbe rivolgersi che a Dio Padre, e mai ad un essere creato, fosse pure il Cristo. Gesù stesso ci ha insegnato l’adorazione del Padre. Quanto a lui, dobbiamo semplicemente pregare in suo nome. Abbiamo l’ordine di adorare il Padre mediante il Figlio, nello Spirito Santo, ma solo il Padre ha diritto alla nostra adorazione. Per spiegare questa singolare opinione, Origene osserva che non è normale pregare uno che a sua volta prega, se si vuol restare nella logica. Gesù rifiutò di lasciarsi chiamare “buono”, giacchè solo Dio, secondo lui, ha diritto a questo titolo. Egli avrebbe dunque certamente rifiutato che lo si adorasse. E se chiama i cristiani suoi fratelli, indica con questo chiaramente il suo desiderio di vederli adorare il Padre, e non lui stesso, loro fratello: “Preghiamo dunque Dio per mezzo suo, e parliamo tutti nella stessa maniera, senza alcuna divisione nella forma della preghiera. Non siamo dunque divisi, quando gli uni rivolgono la loro preghiera al Padre, mentre gli altri la rivolgono al Figlio? Gli spiriti semplici che, in maniera illogica e sconsiderata, pregano il Figlio con il Padre o senza il Padre, commettono un peccato di ignoranza” (16,1). Questa teoria, sostenuta da Origene, deriva probabilmente da una nozione 109 subordinata del Logos e da un monoteismo eccessivo.! (Tratto da QUASTEN J., Patrologia. I primi due secoli (II-III), vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1980 pag.340-341). • Le modifiche ad opera di Rufino delle opere di Origene ci fanno pensare che il pensiero generale di Origene necessitasse di certe manomissioni perchè propendesse nel considerare il Figlio una creatura. Sentiamo ancora M.Simonetti cosa scrive: “Nel 398 Rufino, tornato in Occidente, tradusse a Roma il libro I dell’Apologia di panfilo per Origene e poi tutto il trattato sui Principi: nella prefazione a quest’opera egli dichiarava di aver omesso o modificato, considerandolo interpolato da altri, ciò che era contrario alla fede, e giustificava il suo procedimento rifacendosi ad analogo comportamento tenuto da Girolamo nella traduzione delle Omelie origeniane. Il riferimento non poteva non pungere sul vivo il solitario di Betlemme, di cui venivano rinfacciati i giovanili trascorsi origeniani: di qui una violenta reazione che si concretò, oltre che in alcune lettere di tono antiorigeniano e antirufiniano, in una traduzione letterale dei Principi origeniani, fatta perché tutti potessero in Occidente venire a conoscenza degli errori di Origene. Nota n.6: “La traduzione è andata perduta, segno della scarsa considerazione in cui gli antichi la tennero a causa dell’intendimento scopertamente polemico che l’aveva provocata. Ne restano però numerosi passi che Girolamo elenca nell’ep., 124”. (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 11). E ancora: “Per quanto riguarda specificamente la nostra opera, la perdita anche della traduzione geronimiana, oltre 110 che del testo greco, fa sì che essa, nella sua integrità (o quasi), sia conosciuta soltanto dalla traduzione, dichiaratamente infedele, di Rufino. Fortunatamente disponiamo di una cospicua, anche se non sempre del tutto fededegna, tradizione indiretta, che, opportunamente messa a frutto, permette di correggere e integrare parzialmente il testo rufiniano.” (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 12-13). E ancora: “[Parlando del subordinazionismo Simonetti dice nella nota n.1] : “…Ma su questo punto non è facile farsi un’idea precisa dell’originario tenore del testo, perché la traduzione di Ruffino in più punti ha attenuato le espressioni più spinte in questo senso, là dove la tradizione indiretta (Girolamo, Teofilo, Giustiniano) eccede chiaramente in senso opposto.” (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 141) E’ chiaro che i commenti del A. Simonetti sulla traduzione di Girolamo, la motivazione per cui è andata persa e la sua affabilità, possiamo comprenderli anche se chiaramente di parte, ma non dobbiamo dimenticare che la traduzione che abbiamo in mano è quella “dichiaratamente infedele” di Rufino la quale è stata solo parzialmente corretta confrontandosi con altre fonti! Alcuni esempi di quanto affermato: a) I Principi I, 2, 6: [parlando del fatto che il Figlio è immagine del Padre è scritto] “ … Infatti è scritto: E Adamo generò Seth secondo la sua immagine e la sua specie (Gen., 5, 3). Tale immagine implica anche l’unità di natura e della sostanza del Padre e del Figlio…”. Nella nota n.35 si legge: “ A IV, 4, 9 Origene dice genericamente che un essere che partecipa di un altro è 111 della stessa natura e sostanza. Il concetto qui è ben origeniano (cfr. l’esempio di Adamo e Seth) ma è lecito avanzare riserve sull’esattezza della traduzione rufiniana, soprattutto in merito all’unità di sostanza del Padre e del Figlio, dato che Origene tende ad adoperare ousia (=substantia) nel senso di realtà individuale (=hypostasis: cfr. n. 9). Solo a Frag. In Hebr., PG XIV, 1308 egli dice che il Figlio è homoousios al Padre, ma ancora una volta il passo è conosciuto solo dalla traduzione di Rufino nell’Apologia di Panfilo e forse si può avanzare qualche dubbio sull’autenticità del termine (cfr. M. Simonetti, Studi sull’arianesimo, p. 125); comunque la consustanzialità, intesa non in senso “niceno” , non è incompatibile con la distinzone di ousia fra il Padre e il Figlio: cfr, Orbe, op. cit., p. 441. Minore difficoltà offre l’espressione unità di natura, perché per Origene il Figlio è Dio per natura (I, I, 8; Co. Io., II, 10 [6]) e questa è unita a quella del Padre (Co. Io, XIX, 2 [1]). Ma nelle superstiti opere greche l’unità del Padre e del Figlio è profilata come unità di amore, di volere e di azione: C. Cels. VIII, 12; Dial. C. Heracl., 2 seg.; Co. Canti. Prolog., GSC VIII, 69. Cfr. anche De Pr., I, 2, 12 e n. 79. (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 149). b) Nella sua introduzione a I Principi M. Simonetti commentando l’espressione di IV, 4, I dove viene affermato che il “Figlio deriva dal Padre per generazione e non per creazione dal nulla” alla nota 3 afferma una possibile interpolazione di Rufino. Ancora in IV, 1 è scritto: “ … Perciò noi non affermiamo, come alcuni eretici, che una parte della sostanza del Padre è mutata nel Figlio, né che il Padre ha creato il Figlio dal nulla, cioè fuori dalla sua sostanza, sì che c’è 112 stato un tempo in cui il Figlio non è esistito…” Leggendo le note 6 e 7 troviamo che non si può escludere un interpolazione di Rufino. Riportiamo la nota 6: “La creazione del Logos dal nulla era affermata dai Basilidiani: Hipp., Refut., VII, 22, 2 segg. Si noti tuttavia come Origene non torni altra volta su questa dottrina, e come qui il testo latino, connettendo la creazione del Figlio dal nulla con la sua non coeternità rispetto al Padre, prospetti problematica tipicamente ariana: non si può escludere che Rufino abbia interpolato, in senso antiariano, l’originario testo dei Principi, in cui venivano predi di mira solo i Valentiniani” Qui sono finite le motivazioni che ci portano a credere che Origene nonostante creda nell’unità di natura tra il Padre e il Figlio e che quest’ultimo esista da sempre possa non averci visto contraddizione nel sostenere che il Figlio sia una creatura, quella di “livello” o rango o natura più alta in assoluto ma sempre inferiore al Padre! Dobbiamo solo aggiungere due riflessioni che riguardano due delle prove a favore del pensiero trinitario di Origene. Riprendiamo il pensiero di M. Simonetti :” Ma l’affermazione più impegnativa e inoppugnabile che distingue in maniera decisiva e irrevocabile la trinità dal mondo della creazione è a proposito del possesso del bene: tutte le creature posseggono il bene in maniera accidentale, sì che possono anche volgersi al male; invece la trinità possiede il bene in maniera sostanziale e perciò immutabile, senza possibilità di alterazione e caduta (I, 6 , 2)”. Possiamo comprendere il tentativo dell’autore di salvare Origene nell’ortodossia 113 cattolica ma non ci sembra inoppugnabile la sua conclusione per almeno due motivi: 1- non si può liquidare così facilmente il subordinazionismo di Origene, basandosi su un unico passo del padre della Chiesa, trascurando le numerose testimonianze di valore contrario. 2- Jean Daniélou non ci sembra dello stesso avviso di M. Simonetti quando parlando della natura dei Logoi, appartenenti alla creazione, dice quanto abbiamo già citato: ”Inversamente, fra il Logos ed i Logikoi non riconosce una differenza sufficiente. Qui è stato influenzato dalla concezione stoica dell’immanenza del Logos in tutti i Logoi particolari: “Ogni saggio, nella misura in cui partecipa alla sapienza, partecipa al Cristo che è la Sapienza” (Commento a Giovanni 1, 34). Certamente gli spiriti, in seguito al peccato possono essere incapaci, senza il soccorso del Logos, di una piena vita spirituale. Essi avranno bisogno della sua azione per pervenirvi. Ma, secondo Origine, rimane che questa vita spirituale non è che lo sbocciare di questa partecipazione radicale al Logos che ogni spirito possiede per natura, e che quindi si tratta solo di una differenza di grado. Questo distrugge il carattere radicalmente gratuito della Grazia come partecipazione ad una vita trinitaria trascendente. (Jean Daniélou – Origene - Il Genio del Cristianesimo – Ed. Archeosofica S.Palamidessi & C. Roma (1948 – 1991, pp.312-313) Infine sulla “Disputa con Eraclide" concludere così il suo commento : J. Quasten fa Origene dice: Confessiamo dunque due dèi? 114 risponde: Sì, ma la potenza è una (dynamis nia èstìn). La formula (dùo theoì e dynamis nia) ottiene dunque l’adesione di entrambe le parti. Ed ha lo stesso senso di quella della teologia posteriore: due persone, ma una sola natura. (Tratto da QUASTEN J., Patrologia. I primi due secoli (II-III), vol. I, Marietti, Casale Monferrato 1980 pag.336-337). Ci sentiamo di dire che, con tutto il rispetto dell’autore e della sua straordinaria conoscenza patristica, in questo caso gli è sfuggito un commento teologico piuttosto che un’analisi obiettiva delle fonti perché, per essere buoni, difficilmente Eraclide, o Origene, avrebbero espresso un concetto con lo “stesso senso” di Nicea per almeno quattro ragioni: 1- non è credibile che un modalista come Eraclito, dopo una conversazione con Origine sia arrivato a trovare una formulazione di unità divina che andava bene ad entrambi e che precorreva i tempi. 2- M. Simonetti sembra dello stesso avviso quando nella nota 35, già citata, al passo dei Principi I, 2, 6 dichiara: “comunque la consustanzialità, intesa non in senso “niceno” , non è incompatibile con la distinzone di ousia fra il Padre e il Figlio: cfr, Orbe, op. cit., p. 441. Minore difficoltà offre l’espressione unità di natura, perché per Origene il Figlio è Dio per natura (I, I, 8; Co. Io., II, 10 [6]) e questa è unita a quella del Padre (Co. Io, XIX, 2 [1]). Ma nelle superstiti opere greche l’unità del Padre e del Figlio è profilata come unità di amore, di volere e di azione: C. Cels. VIII, 12; Dial. C. Heracl., 2 seg.; Co. Canti. Prolog., GSC VIII, 69. Cfr. anche De Pr., I, 2, 12 e 115 n. 79. (I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968, pag. 149). Sembra proprio che in “Disputa con Eraclite M. Simonetti ci veda un’unità d’azione piuttosto che un unione consustanziale come a Nicea. 3- L’unità dynamis o dinamica tra il Padre e il Figlio già si è trovata in Ippolito, quasi contemporaneo, come unità d’azione 4- La spiegazione di J. Quasten è anacronistica perché cerca di leggere un testo dando alle parole un significato che solo un secolo dopo assumeranno. Origine ancora non aveva chiaro il significato da dare ad ousia, natura, essenza, ipostasi (vedi nota 9 a pag. 143 dei I Principi di Origene – a cura di Manlio Simonetti – Unione Tipografico – Editrice Torinese 1968), figuriamoci se pensava al significato che assunse a Nicea. Possiamo accettare, sempre alla luce dei commenti precedenti ciò che Joseph Wolinski dice del passo in esame, come riportiamo di seguito: “Le parole ipostasi (hypostasis), sostanza (ousia), sostrato (hypokeimenon) usate a proposito di Dio hanno ancora dei significati molto vicini, se non sinonimi … Partendo dal numero Tre, Origene mostra l’unità del Padre e del Figlio sulla base di Gv 10,30 (“Io e il Padre siamo una cosa sola”), di Gv 14,10 (la loro immanenza reciproca) e di Gv 14,9 (“Chi ha visto me, ha visto Padre”) (Origene, Contro Celso, VIII, 12, a cura di A. Colonna, Torino, UTET, 1971, pp. 666667). Il ricorso a Gv 10,30 contro coloro che “negano l’esistenza di due ipostasi”, fa appello all’unità dei credenti che “avevano un cuor solo e un’anima sola”: “ [Il Padre e il Figlio] sono due cose (pragmata) per la ipostasi (hypostasei), ma una sola per la conformità 116 di sentimenti, la concordia e la identità della volontà: così che colui il quale ha visto il Figlio (Gv 14,9) “splendore riflesso della gloria di Dio” (Eb 1,3) ed “immagine espressa” (Col 1,15) della ipostasi di Dio ha visto in lui, che è l’immagine di Dio (2 Cor 4,4), Dio stesso (ibid.). Stupisce la spiegazione di Origene. L’unità prospettata ha tutto l’aspetto di un’unità puramente “morale” tra soggetti che restano esteriori gli uni agli altri. Questa spiegazione condurrebbe sicuramente al triteismo. Ma la Disputa con Eraclide chiarisce il pensiero di Origene. Quando commenta di nuovo Gv 10,30 oppone tre tipi di unità: quella di Adamo e di Eva, che formano soltanto “una sola carne” (Gn 2,24), quella del credente e del Cristo, che formano soltanto “un solo spirito” (1 Cor 6,17), e quella che esiste tra il Figlio e il Padre: “ il nostro Salvatore e Signore, forma con il Padre, Dio dell’universo, non una sola carne né un solo spirito ma – ciò che è più della carne e dello spirito – un solo Dio (Id., Disputa con Eraclite, 3, cit., p.299).” Origene non spiega in che cosa consiste l’”unità” designata con l’espressione “un solo Dio”. Mostra solamente che questa implica l’unità di una pluralità, nella stessa linea, ma al di là, dei due primi esempi. Dall’uno all’altro vi è già un progresso e un superamento. Origene invita ad andare più in là nella stessa direzione, verso una unità che implica un reciproco coinvolgimento di coloro che “fanno unità”. Altri testi mostrano che questa unità è amore, che essa collega il Padre e il Figlio nella contemplazione e che fa spazio in ugual misura agli uomini. Essi sono chiamati a divenire tutti “un solo Figlio”, 117 tutti “uno con il Padre e il Figlio come il Figlio e il Padre sono uno tra loro” (Gv 17,21) (Id. in Johannis evangelium, I, 16, par. 92-93, ed. fr. cit., (SC 120), 1966, p. 109; Cfr. I Principi, III, 6, 1 cit., pp. 463-467).” (“STORIA DEI DOGMI” Vol.1 – “Il Dio della Salvezza” (Piemme 1996) pag. 201-202) Possiamo essere d’accordo con l’autore nel senso che l’unità d’azione, di pensiero e d’amore che qualsiasi uomo o altra creatura possa avere tra sé o con Dio non sarà mai al livello di quella del Figlio primogenito ed unigenito e suo Padre! Per quanto riguarda l’accusa di triteismo in Origene siamo al corrente che alcuni arrivano anche a questo! (si veda il link sopra riportato). Ripetiamo che non siamo dogmatici su questo punto, non ci interessa dimostrare che per Origene il Figlio era una creatura ma pensiamo che chi lo ha creduto durante la controversia origeniana abbia avuto buoni motivi! Per finire facciamo nostre le validissime ed equilibrate conclusioni di Jean Danièlou che riassumendo la sua analisi della teologia del Logos di Origine dichiara: “Ma si deve dire da una parte che Origene ha fatto avanzare considerevolmente la teologia trinitaria affermando l’unità di natura del Padre e del Figlio e riconoscendo il carattere eterno della generazione del Figlio. D’altra parte rimane tributario della teologia precedente, opponendo la perigraphè del Figlio all’aperigrapton del Padre e vedendovi una determinazione. Egli mantiene pure una relazione tra la generazione del Figlio e la creazione del mondo degli spiriti. Ci si spiega allora come al tempo della controversia ariana Origene abbia potuto essere invocato ad un tempo dagli ariani e dai loro avversari.” 118 (“Messaggio evangelico e cultura ellenistica” EDB 1975 pag.452). Libro di Lamson 119 Libro di Lamson 120 Le due pagine seguenti sono tratte da: ANF, Volume IV (4), ristampa dell’aprile 1982 121 122 La copia nella pagina seguente è tratta da: ANF, Volume X (10), ristampa dell’agosto 1980 123 CONCLUSIONE Il panorama dottrinale, sul Logos, dei Padri della Chiesa analizzati è abbastanza variegato. Risalta, però, un comune denominatore che li univa: erano tutti subordinazionisti sostenevano cioè l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre. Su questo sono d’accordo tutti gli studiosi di patristica; quello che differisce è la loro opinione su quale Padre 124 professi un subordinazionismo “ortodosso trinitario” e quale no! Sono altresì concordi nel sostenere che quello eretico è dovuto all’influenza platonica sui relativi autori. Riportiamo di nuovo, perché pensiamo spieghi questa convinzione in modo semplice e chiaro, il commento di Giuseppe Visonà, ora professore associato di filologia ed esegesi neotestamentaria e di letteratura cristiana antica dell’università cattolica del Sacro Cuore, nella sua introduzione al Dialogo con Trifone – ed Paoline 1988, pag 44: “La cristologia del Logos non potrà essere sviluppata nell’impostazione di Giustino a causa di alcune intrinseche debolezze di fondo. Infatti il quadro da cui Giustino desume e in cui mantiene la nozione di Logos è di natura essenzialmente cosmologica […] A questa impostazione i cristiani (da Giustino a Clemente a Origene) furono indotti dall’attrazione esercitata su di loro (anche come possibile via per rendere appetibile il cristianesimo all’ambiente pagano) della nozione di “Dio secondo”, diffusa nel medio-platonismo per designare o il logos o il demiurgo o l’anima del mondo, comunque un’entità con funzione intermediaria tra Dio e il mondo e che già Filone designava col titolo di “Dio” (Theòs), senza articolo, riservando quello con l’articolo (ho Theòs) al Dio supremo”. Sì, non solo Giustino ma, tutti i Padri esaminati, sia quelli che sostenevano la teoria filosofica dei due stadi di generazione del Logos che quelli ad un unico stadio, collegandola al momento della creazione dichiaravano di credere in un “Dio Sommo” (il Padre) e in un “Dio minore o secondo” (il Figlio). Questo, già di per sé, dimostra che professavano un credo che non avrebbe mai portato al dogma trinitario 125 come fa ben intendere l’affermazione: “La cristologia del Logos non potrà essere sviluppata nell’impostazione di Giustino a causa di alcune intrinseche debolezze di fondo”, sapendo che Giustino ha in comune con gli altri la stessa impostazione teologica.! Ma possiamo aggiungere dell’altro. Jean Danielou a proposito di Origene come, di nuovo, già citato, afferma: ”[…] si colloca in continuazione di Giustino e di Clemente, ma ha colto la principale difficoltà presentata dal loro pensiero: la generazione del Figlio appariva come una sortita del Logos eterno impersonale in vista della creazione del mondo. Così il Figlio non esisteva eternamente nella sua propria sostanza, e peraltro l’acquisizione di questa sostanza propria sembrava farne la prima delle creature e mettere in causa la sua divinità. (“Messaggio evangelico e cultura ellenistica” EDB 1975 pag.440). [NB: divinità intesa in senso trinitario e non biblico – per capirne la differenza vedi “Il ruolo della teologia e del pregiudizio nella traduzione della Bibbia”, Rolf Furuli, Ed Azzurra 7 , 2003 p.219-222]. Sì, anche se non lo dichiararono sempre esplicitamente, i Padri della Chiesa analizzati non solo sostenevano l’esistenza di due dèi di cui uno “maggiore” dell’altro ma la loro teologia propendeva per considerare il “minore” una creatura. L’abbiamo visto in Giustino: vi rimandiamo ai sei punti elencati quando abbiamo esaminato il suo pensiero, l’abbiamo visto in Clemente: “Il Figlio è la natura più prossima al Padre”, nell’Ipotitosi è definito creatura, l’abbiamo visto in Tertulliano: “Chi proviene da un altro (il Logos) ha avuto un inizio”, Contro Ermogene 3, 3-4, l’abbiamo visto in Ippolito: “una creatura può perfezionarsi (il Logos) non l’essenza divina”, Ireneo non si pronuncia più di tanto e quindi di lui possiamo dire 126 soltanto che considera il Figlio subordinato al Padre ma aggiungiamo che il fatto che consideri il Padre coesistente da sempre col Figlio non significa niente perché Origene pur sostenendo la generazione eterna del Figlio, come abbiamo ampiamente dimostrato, può aver sostenuto che il Logos sia stato una creatura. Con questo non vogliamo sostenere che nella Chiesa dei primi secoli si accettasse senza problemi che Cristo fosse definito Dio inferiore al Padre, ma che la teologia del Logos portava in questa direzione e non verso Nicea. Sosteniamo altresì che anche i tentativi di molti, a partire dalla fine del II secolo, di risolvere l’apparente politeismo presentato da questa teologia non andarono in direzione del dogma trinitario ma crearono quelle che sono state elencate come eresie trinitarie! Possiamo capire bene quest’ultima riflessione alla luce di ciò che leggiamo nella già citata introduzione a Contro Noeto di Manlio Simonetti. Parlando della principale ragione storica per cui nella Chiesa del II secolo scoppiò la cosiddetta ‘reazione monarchiana’, scrive: “Comunque, sia nell’interpretazione gnostica sia in quella cattolica, la dottrina del Logos appariva assertrice, agli occhi di molti, di un dio sommo e di un dio minore, perciò lesiva del tradizionale theologoumenon dell’unicità di Dio. Di qui trasse origine verso la fine del II secolo, in Asia, la reazione che è stata definita monarchiana, tesa a salvaguardare le concezione monoteistica di Dio contro i sostenitori della dottrina del Logos. Mentre Teodoto il Pellaio riproponeva il concetto di Cristo mero uomo privilegiato da particolari carismi, Noeto proponeva la dottrina che identificava tout court Cristo, in quanto Dio, 127 con Dio Padre, l’unico Dio”. (Contro Noeto –EDB- 2000, pag.45-46) Questo testo conferma di nuovo, se ce ne era bisogno, che cristiani come Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, Ireneo, che scrissero poco prima che scoppiasse in pieno la reazione monarchiana, espressero una dottrina del Logos che non si armonizzava con la fede monoteista, e comprendiamo anche che né il ritorno all’ebionismo né la soluzione modalista si mossero in direzione ortodossa trinitaria; quindi è vero che l’asserzione di un dio sommo e di un dio minore parve politeista ma le soluzioni proposte dai molti non avrebbero mai portato al dogma trinitario! Questo si può dire, in base al nostro studio, di tutti i Padri esaminati e anche dei padri del III secolo come Tertulliano ed Origene! Ci vollero modifiche sostanziali al significato e all’interpretazione di termini usati fino all’ora, e l’utilizzo di altri concetti filosofici presi a prestito dal platonismo per arrivare a trovare alcuni che credessero possibile conciliare due dèi in uno, come spiega bene Rolf Furuli nel suo “Il ruolo della teologia e del pregiudizio nella traduzione della Bibbia”, Ed Azzurra 7 , 2003 p.135-156. Alessandro di Alessandria e Atanasio furono fra questi. Quali furono i cambiamenti e le novità che introdussero per sostenere la loro teologia? • Uso arbitrario del linguaggio “biologico” delle Scritture (ad es.: rifiutavano il concetto che il figlio non poteva avere la stessa età del padre, supportati dal neoplatonismo, ma accettavano che il padre essendo uomo generava un figlio della stessa specie), in altre parole non si attennero al significato comune dei termini. 128 • Invece di partire dalle parole bibliche e usarle per analogia, nell’esporre determinati concetti della relazione fra Dio e Suo Figlio, partivano da concetti illogici e poi cercavano di interpretare le parole della Scrittura alla luce della loro personalissima comprensione di quei concetti. Il fatto che i loro concetti siano illogici per la mente umana non è di per sé rilevante; lo è piuttosto il fatto che essi vengano accolti al di fuori della Scrittura, e quindi usati come base per definire parole e concetti scritturali che, presi nel loro senso naturale, contraddirebbero esplicitamente i loro illogici concetti. • Si sentivano liberi di modificare il significato delle parole quando lo ritenevano opportuno, come nel caso di generato/creato o adorato/riverito. • Pur condannando i filosofi greci, usarono alcuni dei loro pensieri e argomenti come: Il tempo fu creato e dato che tutto fu creato dalla Parola allora essa è eterna, fuori dal tempo (presupponevano già, comunque, che anche il Logos, o Parola, non fosse una creatura) Usarono il mondo delle idee platoniche. Il mondo eterno delle Idee fu probabilmente il sostrato per l’opinione che il Logos esistesse dall’eternità come Ragione nella mente del Padre e che Dio e le Idee fossero immutabili può essere stato all’origine dell’opinione che il Figlio non fosse stato creato e che fosse perciò eterno. Dalla nostra analisi risulta quindi che tutti i Padri della chiesa attinsero dalla filosofia greca per sostenere i loro ragionamenti. Questo di per sé non è un fatto negativo! Ma una cosa è ricorrerci per confermare le testimonianze 129 bibliche, una cosa è ricorrerci per includere nelle Scritture concetti e significati che non ne fanno parte!! Possiamo quindi riscontrare concetti biblici e non in tutti gli autori che abbiamo esaminato ma riscontriamo che coloro che sono stati definiti “subordinazionisti eretici” portavano avanti le loro argomentazioni con maggiori presupposti scritturali di quelli ritenuti “ortodossi trinitari”. E’ vero che tutti i Padri professavano la divinità del Figlio, ma questo come abbiamo visto non significa che sia Dio come e uguale al Padre. Neppure l’adorazione del Figlio, che alcuni di loro incoraggiavano, deve destare seri sospetti trinitari perché lo spettro semantico del termine “adorazione” spaziava dal semplice rispetto da una parte al vero e proprio culto dall’altra. La loro ricerca dell’unità di Dio va ricondotta al fatto che sia il Padre che il Figlio erano definiti Dio ma fino a Nicea, e in parte anche successivamente, questa unione riguardò la condivisione degli stessi obiettivi, il loro modo di agire, la loro volontà, il loro potere e l’amore reciproco e verso il genere umano. Insomma Nicea non ha affermato ciò che si credeva già, chiarendo meglio ciò che intendevano i Padri preniceni con i termini “sostanza”, “natura” ed “essenza”. Possiamo, anzi, essere sostanzialmente d’accordo con le conclusioni di Lamson circa l’evidenza nelle Scritture e nelle affermazioni dei Padri ante-Niceni: 130 Traduzione: La dottrina moderna popolare della Trinità … non è assolutamente supportata dal linguaggio di Giustino [Martire]: e questa osservazione può essere estesa a tutti i Padri ante-Niceni.; cioè, a tutti gli scrittori cristiani per tre secoli dopo la nascita di Cristo. È vero, essi parlavano del Padre, Figlio e dello Spirito profetico o santo, ma non come coeguali, non come una sola essenza 131 numerica, non come Tre in Uno, in ogni senso ora ammesso dai Trinitari. Il fatto è esattamente l’opposto. 03.02.2005 Tdgonline.net 132