Istituto Comprensivo N.3 “L. Radice
Patti
Scuola Media “V. Bellini
Leggende sulle regioni
italiane
Anno scolastico 2012/2013
Lavoro eseguito nel laboratorio del tempo prolungato dagli alunni della classe
I sez. D – insegnante Maria Natoli
Il ratto di Proserpina
I
n Sicilia si conoscono solo due stagioni: la “ bella e la brutta
stagione”, ciò è legato ad una leggenda, quella di
due dee: Cerere,
simbolo del grano, e sua figlia Proserpina.
Una giorno, mentre Proserpina passeggiava con le
sue amiche,uscì dagli inferi Plutone, il dio dei
morti,che
affascinato
da
tanto
splendore
s’
innamorò di Proserpina e le chiese di sposarlo, la
giovane spaventata scappò via. Il dio la inseguì, la rapì e la portò nel suo
regno. L'amica Ciane cercò di salvarla da Plutone ma fu trasformata in
una fonte. La madre Cerere quando lo venne a sapere andò su tutte le
furie e chiese aiuto a Giove che, però, cercò di proteggere
suo fratello
Plutone. Cerere per vendicarsi provocò una tremenda siccità su tutta
l’isola, e ammazzò le
bestie. Ci fu una carestia che affamò uomini e donne, ridusse i paesi in
miseria, seminò paura, panico e morte.
Giove
capì che non poteva più coprire suo fratello e quindi disse a
Plutone di restituire Proserpina a Cerere. Plutone la restituì, ma fece
mangiare a Proserpina i frutti di un melograno, simbolo della fedeltà, e
una volta mangiatolo sarebbero restati insieme per la vita.
Cerere
scoprì l'inganno e non volendo dividersi da Proserpina, giunse ad un
accordo con Plutone, di comune accordo decisero che Cerere l'avrebbe
tenuta per i due terzi dell'anno, cioè durante la bella stagione e Plutone
durante la brutta stagione.
Miriana Angileri e Claudia Gullo
Chiome fluenti
Q
uesta leggenda calabrese parla di una madre, di
nome Nerina che aveva una figlia, chiamata Rosa,
bella, con dei capelli
ricci, lunghi quasi fino ai
piedi. Ogni mattina, la madre cercava di pettinare
i capelli alla figlia, ma lei si rifiutava e strillava. Le
conseguenze furono che i capelli si riempirono di
pidocchi e nessuno poteva avvicinarsi più alla
ragazza, senza rischiare di essere contagiato. I compaesani, indignati da
tale situazione, decisero di buttare in mare Rosa per liberare il paese
dall’incubo dei pidocchi. La ragazza caduta in acqua si mise ad urlare
così tanto che attirò una sirena, la quale si avvicinò alla fanciulla, la
prese e la legò in fondo al mare con una catenella d'oro al piede. Nerina
addolorata per la perdita della figlia, ogni sera andava nel punto preciso
in cui era stata buttata e invocava il suo nome. Una sera la fanciulla
affiorò sulle onde del mare e raccontò alla madre la sua triste sorte da
prigioniera. Nerina per liberare la figlia fece di tutto , finchè non le
venne in mente di far inebriare la sirena con i vini e i liquori della Sila.
La sirena quando assaggiò quelle meravigliose bevande non smise più di
bere e stordita si addormentò sul seno di Rosa, non prima però di averle
svelato che, per spezzare la catena, sarebbe servita una mazza di 100
quintali, che doveva essere fabbricata di venerdì da un fabbro , nato di
venerdì. La madre Nerina
si mise all'opera e liberò la figlia. Da quel
giorno Rosa si pettinava, si spazzolava e si lavava con frequenza. La
sirena, invece, quando si svegliò, non trovando la fanciulla, incominciò a
piangere e per il dolore morì.
Federica Procopio
Ogni cento anni a Pizzomunno
Q
uesta
leggenda
pugliese
parla
di
due
innamorati: Vesta e Pizzomunno. Vesta che era
una splendida fanciulla, viveva in una modesta
casa ai piedi di una collina del Gargano, mentre
Pizzomunno abitava in una misera capanna non lontano dalla spiaggia.
Il giovane pescatore passava tutto il giorno sott’acqua e conosceva tutto
sul mare,ogni piccola cosa,ma conosceva soprattutto il palazzo di
cristallo dove vivevano le sirene. Queste lo lusingavano sempre e gli
chiedevano di rimanere con loro,ma lui rifiutava dicendo che era
innamorato di Vesta. Pizzomunno e Vesta si incontravano ogni sera su
uno scoglio piatto, sotto un cielo di stelle, si volevano bene, ma le sirene
morivano di gelosia. Una sera, quando il cielo era cupo, i due
innamorati stavano più vicini del solito, le sirene chiesero a Pizzomunno
di restare con loro, al suo rifiuto cominciarono a preparare la vendetta.
In una notte spoglia di luna e di stelle, il canto delle sirene cominciò a
trascinare Vesta sul fondo del mare e Pizzomunno, forte com'era, non
riuscì a salvarla e morì esausto in fondo al mare. Vesta venne
trasformata in una stele di corallo rosa e Pizzomunno tramutato nel
faraglione che ancora oggi si alza dal
mare all’entrata della cittadina di
Vieste. Da allora ogni 100 anni gli
amanti si rincontrano pensando al
loro futuro, ma alla fine succede
sempre la stessa cosa.
Mario Privitera e Spanò Camilla
La Madonnina di terracotta
U
na volta in Basilicata c'erano dei lupi che per il freddo e la fame
scendevano a valle.
La protagonista di questa leggenda è una
famiglia che viveva in una valle sperduta, ai
limiti di un bosco, in una misera casa. Il padre
morendo, aveva lasciato tutto il peso della
famiglia sulle spalle di suo figlio Pietro. Il
giovane lavorava tutto il giorno, sia nei campi, sia nei boschi a tagliare
legna; la sera ritornando a casa portava sempre una pagnotta di pane,
un po’ di formaggio, del latte o delle uova. Sua sorella, Gigia, era diversa
da lui, stava tutto il giorno a lamentarsi ed era così pigra che non
svolgeva mai le faccende di casa, né tanto meno i lavori femminili, come
cucire e ricamare. La madre, paralitica da un po’ di anni, mal
sopportava questo atteggiamento, e per questo si rivolgeva ad una
Madonnina di terracotta, pregandola di aiutare la figlia.
Una sera d’inverno Pietro non era tornato dai campi,imperversava una
tempesta,
Gigia,
sia
perché
preoccupata per il fratello
aveva
fame
ma
anche
perché
era
andò a cercarlo. Incominciò a nevicare e
dalle montagne scesero i lupi che spinti dalla fame accerchiarono la casa,
la madre preoccupata sia per i due figli che per le bestie, girò lo sguardo
verso la mensola dove c'era la madonnina di terracotta , non la trovò
più al suo posto, era davanti alla porta che sfidava con lo sguardo dolce
quel branco di lupi, e anche se ringhiavano non le facevano niente.
All'alba arrivarono i due fratelli, i lupi scomparvero e la madonnina
tornò sulla mensola. Da quel giorno tutto cambiò: Pietro trovò un buon
lavoro e si sposò con una brava ragazza; invece Gigia non era più pigra,
diventò più attiva e impegnata in tante faccende, veniva apprezzata da
tutto il paese per i suoi ricami. La madre, pertanto era più allegra e
almeno c'era qualcuno che la faceva sorridere.
Miriana Angileri
La bella 'mbriana e 'o munaciello
I
napoletani credono a due figure leggendarie che
sono:
la
bella
‘mbriana
e
‘o
munaciello
che
rappresentano il bene e il male. La bella 'mbriana è la
fata che protegge la casa e i suoi abitanti. Non si può
parlar male di una casa perché la bella 'mbriana
potrebbe risentirsi, mettere il broncio e far avvertire
il disappunto agli ingrati inquilini. La bella 'mbriana è una presenza
solare,benefica; il nome deriverebbe dal greco che significa “massimo
splendore del sole”. I vecchi napoletani ogni sera,rincasando sono soliti
salutare le mura di casa e la stessa fata, che apprezza molto questi segni
di deferenza.
L'altro personaggio che
fa da padrone nelle case dei napoletani è 'o
munaciello (il piccolo monaco).La leggenda vuole che questo fraticello è
un nano tozzo con una grande testa sproporzionata. Si narra che 'o
munaciello sia nato, verso la metà del 1400,da un amore travolgente tra
Caterina e Stefano,appartenenti a ceti sociali diversissimi tra loro,tanto
che Stefano finì ammazzato dai parenti di Caterina.Ella fu abbandonata
a se stessa,pazza di dolore e gravida di un figlio. Solo delle monache si
presero cura di Caterina e del piccolo,il quale non crebbe mai come gli
altri bambini e allora la madre lo vestì con dei panni da piccolo
monaco.'O munaciello, come lo chiamavano tutti con molto timore,
camminava per le vie della città e si diceva che fosse stato visto in più
luoghi,
nessuno,però
riuscì
a
dimostrare
che
potesse
stare
contemporaneamente nello stesso posto. Appena compariva, la gente
fuggiva impaurita e si cominciò a mettere in giro la voce che se avesse
avuto la scazzetta rossa era segno di buon augurio e poteva portare
anche fortuna, se avesse avuto la scazzetta nera portava sfortuna. Col
tempo 'o munaciello divenne l’enfant terrible che con scherzi crudeli
metteva in difficoltà adulti e bambini. Ora temuto,ora rispettato,'O
munaciello
rimane
a
Napoli
una
figura
radicata
nella
cultura
partenopea.
Claudia Gullo
"San Leo e la corsa dei buoi"
N
el
Molise
e
precisamente
a
San
Martino
in
Pensilis si celebra ogni anno la festa dellacorsa dei
buoi, che pare sia legata a un monaco, chiamato
Leo. Questa storia risale al periodo in cui il Molise
era governato da nobili normanni, come il conte
Loretello, al quale piaceva fare delle battute di
caccia assieme a tutti i nobili dei paesi vicini. Una mattina i cacciatori,
dopo aver lasciato i loro cavalli a pascolare nella radura, si inoltrarono
a piedi nei boschi per uscire nel tardo pomeriggio stanchi ed affaticati,
ma con i carnieri pieni di selvaggina. Fecero ritorno alla radura per
riprendersi i cavalli e tornare al castello con l’unico desiderio di
riposarsi, ma i cavalli puntarono le zampe a terra e non si mossero
nemmeno di un centimetro. Alcuni nobili intuirono che
i cavalli
volessero indicare loro qualcosa di speciale. Cominciarono a scavare e a
pochi metri sotto terra trovarono i resti di San Leo. Tutti i nobili
presenti rivendicarono le spoglie del santo, tanto che si arrivò ad una
vera e propria lite. Il conte Loretello, usando la sua autorità, chiamò il
vescovo, che diede ordine di mettere i resti di San Leo in un carro
trainato da buoi e lasciarli liberi di andare dove volevano. I buoi, dopo
una corsa all’impazzata,si fermarono davanti alla chiesa di San
Martino in Pensils, stramazzarono a terra e morirono, mentre le urna
del santo scomparvero. Le persone presenti, con il cuore gonfio di
pianto,entrarono in chiesa per chiedere a Dio la grazia di restituire ai
fedeli le spoglie del santo, ma con sorpresa trovarono l’urna sull’altare
maggiore. Il miracolo era avvenuto! Ogni anno e precisamente il trenta
aprile a Martino in Pensils si tiene la corsa dei carri trainati dai buoi.
Francesco Di Santo
Il lago del Fucino
L
a storia ci dice che il
lago del Fucino,in
Abruzzo, fu prosciugato per merito del duca Alessandro
di Torlonia nel 1875 per ridare migliaia di ettari di
terra all’agricoltura.
Vi è una leggenda di come questo lago si sia
formato, si narra che nella conca marsicana ci fosse
una città chiamata Marsiglia.
Gesù scese sulla terra per costatare di persona se era vero o meno che la
gente fosse diventata cattiva. All’inizio del suo viaggio si ritrovò a
Marsiglia, precisamente nel quartiere più ricco della città. Era l’ora di
pranzo e si sentivano dei profumi di pietanze raffinate, il Signore bussò
alle porte di tutti i cittadini per avere un pezzo di pane, ma nessuno
glielo diede, anzi ricevette parolacce e porte sbattute in faccia. Gesù
allora si spostò nella parte della città più povera, sperando di trovare
accoglienza e un rifugio per la notte, ma anche qui trovò tanta
indifferenza, cattiveria e violenza. Gesù, perduta ogni speranza, si stava
allontanando, quando alla periferia della città vide una misera casa con
il lume ancora acceso, bussò e una anziana vedova lo accolse, gli offrì del
pane, dell’acqua e lo fece addormentare nel suo letto. Al mattino appena
svegli, Gesù disse alla signora di camminare con Lui, quando la lasciò,
dopo averla ringraziata, la pregò di continuare a camminare per la sua
strada senza voltarsi fino a quando non fosse uscita dalla conca
marsicana. La donna eseguì ciò che era stato detto dal misterioso
ospite,quando si voltò vide che il paese era stato sommerso dalle acque:
si era formato il lago del Fucino.
Claudia Gullo
La couvade di San Filippo Neri
Q
uesta leggenda del Lazio parla di San Filippo
Neri che se anche era nato a Firenze visse ed operò a
Roma. Dopo una visione avuta in sogno, il
giovane Filippo decise di farsi sacerdote per
prendersi
cura dei più piccoli, cioè dei bambini indifesi,
poveri,maltrattati e ignorati dagli adulti, cercando di offrire a loro
pane , calore e soprattutto affetto; ed è per questo che fondò gli oratori
dove di certo non mancava l'allegria. Si dice che Filippo lottò anche
contro qualche cardinale, perché non vedeva di buon occhio che cercasse
denaro per i suoi piccoli amici. Di Filippo si racconta un aneddoto molto
significativo: era l’anno in cui il Santo Pontefice aveva indetto l'anno
Santo , il Giubileo, e Roma si riempì di pellegrini, chiamati “Romei” e di
fedeli . Fra loro c'era anche una nobildonna che donava denaro e doni
agli oratori . Questa donna molto generosa era incinta , e nonostante la
gioia di diventare madre ,era terrorizzata dai dolori del parto e nessuno
la poteva tranquillizzare. Filippo riuscì a strapparle un sorriso fiducioso
dicendole che aveva fatto un patto con il buon Dio : avrebbe sofferto lui i
dolori del parto . Una notte , qualche mese dopo , le grida di Filippo
svegliarono l'intera comunità
di
grandi e piccoli. La nobildonna,
proprio nel momento in cui San Filippo soffriva per le doglie del parto,
diede alla luce un bel maschietto e come promessa senza dolori perché li
aveva subiti tutti San Filippo Neri.
Giorgia Giarrizzo e Miriana Angileri
La leggenda del lago Trasimeno
Q
uesta leggenda dell’Umbria affonda le sue radici
nella guerra di Troia.
Mentre la città bruciava e i greci facevano razzie,
alcuni uomini fuggirono da Troia,tra questi c'erano
Enea, il vecchio padre Anchise, il figlioletto Ascanio
e alcuni guerrieri valorosi, tra i quali Tirreno,
coraggioso e forte, con il figlio Trasimeno. Egli era
molto gentile e bello e, fin dall’adolescenza, era
amato da tutte le fanciulle, infatti quando mise piede sul suolo italico, si
innamorò di lui
la ninfa Agille, che non si era mai innamorata di
nessuno. Agille, che viveva in un lago, confidò tutto alle sorelle, le quali
se da una parte erano contente che finalmente si fosse innamorata di
qualcuno, dall'altra parte le dicevano che, essendo una ninfa, non poteva
vivere sulla terra ferma.
Un giorno mentre Trasimeno passeggiava sulle rive del lago, Agille lo
rapì aiutata dalle sorelle; prima il giovane era scontroso, poi, invece si
fece conquistare da Agille e i due si sposarono e vissere per sempre nel
lago.
Per questo Trasimeno diede il suo nome al lago.
Federica Procopio
Il sogno di Raffaello
R
affaello Sanzio fu un grande pittore,nato nelle Marche tra il
1400 e il 1500. Amava molto dipingere le
Madonne,ma non restava mai contento del
dipinto, gli sembrava imperfetto anche se i
suoi ammiratori dicevano che era bellissimo.
La notte, quando non riusciva a dormire, si
alzava, andava nel suo studio e cercava di dipingere l’ultima
visione passatagli davanti agli occhi, mentre era tra il sonno e la
veglia, Raffaello, però non restava mai soddisfatto. Una notte ebbe
una visione, sulla parete della sua camera gli apparve la Vergine
come se fosse in carne ed ossa. Egli assimilò così bene quell’immagine
nel suo cuore che poi la dipinse in modo sublime, trovando
soddisfazione e pace nella
sua arte.
Gaia Sereno
Il gobbo di Peretola
U
na volta a Peretola, un paesino della Toscana, c’erano due gobbi.
Un giorno un gobbo incontrò l’ altro senza più la gobba. Il primo allora
gli chiese dove fosse andato per farla scomparire. Il secondo gli rispose
che, mentre camminava in lungo e in largo, si era
ritrovato a Benevento in mezzo ad una festa di
streghe,maghi,ed altri personaggi del mondo della
magia. Invitato a parteciparvi si comportò molto
bene con tutti, ballò e si divertì così allegramente
che tutti rimasero affascinati. Visto che il gobbo
risultò simpatico, gli tagliarono la gobba.
L'altro gobbo invidioso s'incamminò e andò anche lui a Benevento;
quando arrivò non trovò nessuno e incomincio ad arrabbiarsi, aspettò
aspettò e,quando arrivarono tutte le streghe e i maghi, si rifiutò di
partecipare alla festa anzi si comportò male con loro. Le streghe vollero
vendicarsi di lui, si misero tutti attorno e circondatolo gli attaccarono
sul davanti la gobba che avevano tolto all'altro.
Ora a Peretola c'è questo gobbo con due gobbe!
Camilla Spanò
La torre degli asinelli
L
a città di Bologna è nota per le due
torri che si trovano al centro della città: la
Garisenda e la torre degli Asinelli.
C'era una volta un contadino, né povero né
ricco,
che
possedeva
due
asinelli.
Costui
lavorava tutto il giorno con la speranza di poter comprare delle terre al
suo unico figlio. Un giorno mentre era in un campo
i suoi asini
cominciarono a scavare alacremente tanto che l’uomo non riusciva a
fermarli. Quando finalmente si fermarono, il contadino tirò fuori dal
terreno un baule pieno di monete d’oro e d’argento che tenne per sé e non
lo confidò a nessuno, neanche alla moglie. Quando il figlio diventò più
grande, si innamorò di una fanciulla nobile, però, il padre della ragazza
non voleva per la differenza sociale. Dal momento che la fanciulla si
disperava e piangeva, il padre della ragazza disse all’innamorato che
avrebbe acconsentito al matrimonio solo se fosse stato capace di
costruire una torre così come si usava tra le famiglie più nobili. In realtà
il padre della ragazza pensava di esserselo levato dai piedi! Invece il
giovane dopo essersi confidato con suo padre ebbe in dono il tesoro che lo
aiutò a costruire la torre.
La storia si conclude con la celebrazione del matrimonio, i due vissero
felici e contenti e la torre fu chiamata “la torre degli asinelli”.
Camilla Spanò
Pacciugo e Pacciuga
P
acciugo era un marinaio che viveva insieme a sua moglie Pacciuga
in un popolare quartiere di Genova ed era da
tutti stimato per la sua bravura e la sua lunga
esperienza.
Pacciuga, quando il marito era in viaggio,
andava ogni sabato al santuario della Madonna di Coronata,alla quale
confidava tutte le sue pene, pregava sempre e raccomandava la vita del
suo amato.
Una volta Pacciugo rimase lontano dalla sua casa per ben dodici anni
perché era stato fatto schiavo dai Saraceni; nel frattempo Pacciuga
pregava per il suo ritorno. Pacciugo liberatosi, tornò a casa ma era
sabato e non trovò la moglie. L’ aspettò ma dopo un po' si spazientì e
infuriato perché la vicina gli aveva detto che sua moglie era solita
andare via ogni sabato mattina per tornare a tarda notte, insomma gli
fece capire che forse aveva un amante! Pacciugo pazzo di gelosia
incominciò a correre come un cavallo imbizzarrito sulla strada che
portava al santuario e incontrò la moglie, senza pensarci due volte la
trafisse con la sua spada. Pentito di ciò che aveva fatto, andò al
santuario,si avvicinò all'altare e notò una donna che gli ricordava
Pacciuga; infatti era proprio lei. La Vergine Protettrice aiutò la donna
concedendole due grazie, la prima quella di aver fatto tornare il marito
e la seconda di averla fatta tornare in vita.
Le statue dei due coniugi si trovano al Santuario di Coronata.
Spanò Camilla
Le pietre del carso
E’
una leggenda che riguarda la regione del
Friuli Venezia Giulia.
Il buon Dio dopo aver finito la creazione
controlla che tutto sia a posto e vede che c'era
qualcosa da riparare: erano le pietre. Chiamò
per risolvere la faccenda l'arcangelo Michele
che si mise subito all'opera. Ben presto Michele capì che il lavoro era
molto faticoso per trasportare quelle pietre, allora ebbe un'idea, cioè
usare un sacco largo e profondo che potesse contenere tonnellate di
pietre per poi svuotarlo in mezzo al mare. Nei suoi voli, però, San
Michele non si accorse che Satana lo stava seguendo, curioso di sapere
che cosa portasse in quel sacco. Il diavolo resosi invisibile si avvicinò
sempre più all'arcangelo e con forbici silenziose tagliò più volte e in più
punti il sacco. Durante il quarto viaggio, l'arcangelo si accorse della
truffa, inseguì il diavolo con la sua spada e lo costrinse a ritirarsi, ma il
danno ormai era fatto, infatti tre carichi completi di pietre erano andati
a finire là dove
poco prima c'erano terre rigogliose, ricche d'acqua,
prati e ruscelli, ora c'erano solo sassi su sassi: si era formato il Carso!
Miriana
Angileri
I giganti delle alpi
I
n Trentino e precisamente sul monte della Muta abitavano
dei giganti,
alcuni buoni, altri cattivi. La leggenda parla che una
gigantessa, mentre i suoi fratelli e le sue
sorelle giocavano su e giù per i monti, passava
ore e ore a fissare da dietro una montagna i
contadini e i pastori che lavoravano nei
campi o sui pascoli. All’inizio gli uomini e le
donne si spaventavano della sua presenza,
tanto che quando la vedevano da dietro la
montagna, scappavano sempre per monti e valli; ma con il passare del
tempo si abituarono alla sua presenza perche avevano capito che non
faceva a loro del male. Un giorno, però, la gigantessa prese tra le sue
enormi mani quattro contadini intenti a far balle di fieno per osservarli
da
vicino,
senza
nessun
intento
di
cattiveria,
ma
gli
uomini
incominciarono a gridare così forte che le urla giunsero alle orecchie del
gigante padre che andò sul posto a liberare subito i contadini. Dopo
questo incidente, tutti si abituarono
alla sua presenza, tanto che la
gigantessa si innamorò di un umano. Quando venne il giorno della festa
del fidanzamento, al momento del brindisi, la gigantessa, strinse al petto
con passione il suo amato e senza volerlo, lo stritolò e morì. La
gigantessa,
resosi
conto
di
quello
che
aveva
commesso,urlò
di
disperazione, salì e decise di rimanere per l'eternità sul monte Muta.
Miriana Angileri
La grola
Q
uesta leggenda parla dei veneti e dei veronesi, che erano
molto gelosi delle loro vigne, infatti le proteggevano da
ogni male e da ogni insidia.
L’ inverno stava per arrivare ed erano previste
brutte
avrebbero
nevicate,
alluvioni
e
forti
venti,
che
distrutto le vigne . Ma non vi era solo il
problema dell’inverno, quell'anno
Verona venne
dalle "grole", parola che nel dialetto veneto
invasa
significa
"corvi",
che
rovinavano
i
vigneti
mangiucchiando e distruggendo acini e acini.
I contadini allora progettarono di annientarli. I corvi
furono ammazzati, quei pochi che riuscirono a sopravvivere non si
avvicinarono più a Verona. Un corvo ferito alla zampa e alle ali si
rifugiò nella cucina di Beniamino , una persona molto buona. Era
Natale, il corvo ferito venne aiutato da Beniamino, il quale lo fece
mangiare, lo allevò e gli insegnò a volare, però, nello stesso tempo, era
anche
un
se
sarebbe
ne
po’
triste al pensiero che dopo il corvo
andato. Il giorno di Pasqua,
a
posare
sui
il
corvo parti e si
andò
vigneti,
Beniamino
si
spaventò che li potesse danneggiare,
ma per fortuna
non successe niente, anzi, la grola
trasformò l'uva
bianca in nera e cosi nacque il
recioto che rese famosi i veronesi in tutto il mondo.
Natoli Maria Grazia
I giorni della merla
G
li
ultimi giorni di gennaio vengono detti "i giorni della
merla" e sono considerati i giorni più freddi dell'anno.
A questa espressione è legata una leggenda, che parla
di Perla, chiamata"la Merla" che viveva in un paesino
sulle rive del Po ed era abile a correre. Al di là del
fiume si trovava un piccolo paese, simile a quello
di Perla dove viveva un ragazzo che
si chiamava Ambrogio, coetaneo, compagno di giochi e suo innamorato.
Perla ricambiava l’amore,però esso era contrastato dai rispettivi
genitori, anche se, fino a quel momento, erano legati da una sincera
amicizia. Un giorno e precisamente il penultimo giorno di gennaio i due
innamorati decisero di sposarsi. Perla attraversò il fiume gelato e sotto il
cappotto pesante indossava il vestito da sposa di un candido pizzo. Il
matrimonio fu celebrato e ci fu una grande festa, ma Perla era triste
pensando ai suoi genitori. L’indomani mattina ed era l’ultimo giorno di
gennaio, Perla decise di tornare a casa per chiedere la benedizione ai
genitori, però, mentre camminava sul fiume gelato seguita da Ambrogio,
si staccò un pezzo di ghiaccio e Perla scomparve nel fiume. Ambrogio
avendo perso la sua sposa rimase impietrito, niente e nessuno sarebbe
riuscito a guarirlo.
Ed è per questa storia che gli ultimi giorni di gennaio furono dedicati a
Perla “La Merla.
Gaia Sereno
La bella Ada
I
n Val di Susa viveva una ragazzina di nome Ada di quindici anni,
buona e credente nella Vergine e nel Signore.
Lì viveva anche un conte,
persona molto cattiva e
volgare, che infastidiva tutte le ragazze del contado,
le quali erano costrette, la sera, a non uscire dalle
proprie case. Solo la bella Ada, calma e tranquilla,
continuava la sua vita di sempre e cioè andava in
chiesa affidandosi alla Madonna e a San Michele e si arrampicava
leggera e sicura sui monti della Val di Susa. Un giorno il conte avendo
appreso, tramite i suoi servitori, notizie della ragazza, la volle spiare, e
folgorato da tanta bellezza, le chiese di sposarlo, ma la ragazza rifiutò,
dicendo che lei amava le sue montagne, il verde dei pascoli e il candore
delle nevi. Il conte se ne andò via infuriato e ritornato nel suo castello
diede ordine ai suoi manigoldi di prendere con lusinghe o anche con la
forza la ragazza. Gli aiutanti del conte fecero quanto gli era stato
ordinato, ma non riuscirono a convincere la ragazza, né tanto meno
prenderla con la forza, perché Ada incominciò a correre verso le
montagne, finché si ritrovò sull’orlo di un precipizio, ma affidandosi alla
Vergine e al Signore arrivò a terra senza farsi un graffio. Le persone
incuriosite volevano sapere il fatto e vedere il luogo dov'era successo, ma
pian piano, Ada diventò vanitosa. Un giorno volendosi buttare di nuovo
davanti ad una folla numerosa, non credendo, però, più nella Vergine e
nel Signore cadde al suolo, si sfracellò e morì.
Claudia Gullo e Miriana Angileri
Il ponte del diavolo
I
n Valle d'Aosta c'era un paesello che era
attraversato da un ruscello, chiamato Lys. Per
collegare le due rive,c'era un ponte di grande
importanza,ma ormai era vecchio e tutti i
paesani erano d'accordo per ricostruirlo. Tutti,
dal più ricco al più povero parteciparono,ma dopo qualche mese a causa
della mancanza di denaro i lavori furono sospesi. Durante una
riunione,si presentò un uomo elegante e di buone maniere che posò sul
tavolo del denaro. I paesani restarono stupiti e non capivano dove fosse
l'inganno. Lo straniero disse che voleva in cambio l'anima della persona
che avrebbe attraversato per primo il ponte. A quel punto un paesano
capì che l'uomo straniero era il diavolo, andò allora a chiamare sulle
montagne Martino e gli spiegò la situazione. Martino rispose di non
preoccuparsi e di andarlo a chiamare quando il diavolo si sarebbe
presentato. Quando il ponte fu completato, il diavolo aspettava,
appoggiato a una estremità del ponte, la sua ricompensa. Ed ecco
comparire Martino con un cane spelacchiato e parecchio affamato, buttò
un pezzo di pane ammuffito sul ponte e il cane corse per prenderlo. Il
diavolo capì l'inganno, incominciò ad imprecare e dopo scomparve.
Subito dopo Martino risalì in
silenzio
montagne. E così questo paesello
chiamato San Martino sul Lys, in
le
venne
onore
di
Martino.
Federica Procopio
Eurania di ……Sardegna
Q
uesta leggenda della Sardegna parla di due giovani:
Eurania e Florindo. Eurania, bella fanciulla, era figlia di
un
marchese
ed
abitava
nel
nuraghe
di
Thalasai.
Florindo, un bel giovane, ma povero, ogni giorno passava
sotto la finestra di Eurania che sentendola cantare delle
dolci melodie, prese l’abitudine di accompagnarla con le
launeddas, uno strumento musicale che il giovane era tra i
pochi a saper suonare con molta maestria. A poco a poco i due
giovani s’innamorano e Florindo, pur di ottenere la mano di Eurania,
decise di partire per trovare lavoro, così da guadagnare abbastanza
soldi per chiederla in sposa. Nel salutarla amorevolmente, supplicò
Eurania di aspettarlo per cinque anni: se entro quella data non fosse
tornato da lei ricco e famoso, lei avrebbe potuto sposare un altro.
Nell’attesa Eurania cantava tante melodie, però, più passava il tempo,
più le melodie diventavano tristi. Un giorno si presentò a casa il
marchese d'Iloi per chiedere in sposa Eurania, lei rispose di no, anzi
affermò che preferiva
morire che accettare quel matrimonio. Il
marchese offeso dal grande rifiuto, iniziò una guerra, facendo uccidere
animali e persone. I cinque anni erano trascorsi, ed Eurania per dare
fine alla guerra e con la morte nel cuore, annunciò il suo matrimonio
con il marchese d'Iloi. La famiglia di lui iniziò a fare dei grandi
preparativi;
giunse
il
giorno
del
matrimonio
e
mentre
tutti
banchettavano felici e contenti, Eurania trangugiò una mistura letale
che le toglieva gradatamente le forze. A nulla valsero i soccorsi e gli
aiuti. La fanciulla aprì gli occhi un’ultima volta, solo quando udì il suono
delle launeddas di Florindo che tornava, poi chiuse gli occhi e morì.
Florindo, appresa la notizia, scomparve.
Solo le sue launeddas furono trovate spezzate in mille pezzi vicino al
nuraghe di Thalasai.
Mariagrazia Natoli
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