I
la Repubblica
mercoledì 29 giugno 2011
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È tra i padri nobili della sua disciplina ma è
anche sociologo e studioso di matematica
“Dobbiamo imparare ad ascoltare gli abitanti”
L’ARCHITETTO
DELLE
UTOPIE
FRIEDMAN: “TROPPO MARKETING
ABBIAMO PERSO L’IMMAGINAZIONE”
FRANCESCO ERBANI
autocostruzione. L’uso di materiali poveri. La comunità. Eccoli i criteri guida di Yona Friedman, architetto
sui generise, oltre che architetto, sociologo, studioso di
matematica e di fisica, esperto di comunicazione, che
nei giorni scorsi ha compiuto ottantott’anni e di cui
esce ora in Italia un nuovo libro: s’intitola L’ordine complicato. Come
costruire un’immagine (Quodlibet, pagg. 171, euro 16, traduzione di
Paolo Tramannoni, postfazione di Manuel Orazi). Friedman è un pensatore originale, libertario, utopista e visionario: dal dopoguerra riflette su chi debba stabilire come si abita un luogo ed essendo convinto che la decisione spetti solo parzialmente agli architetti si interroga
su come i residenti possano farsi carico di essa.
Friedman è nato in Ungheria, appunto, nel 1923. Ha subìto il nazismo, la persecuzione antiebraica ed ha militato nella resistenza, cambiando il suo nome da Janos Antal nel biblico Yona. Ha costruito poco: case in Israele e il Museo delle Tecnologie Possibili di Madras, in India, usando il bambù come materiale prevalente. Ha scritto libri (il più
famoso: Utopie realizzabili, Quodlibet 2003) e immaginato città del futuro. Ha partecipato al concorso
per il Beaubourg con una grande
IL LIBRO
“L’ordine
struttura alla quale mancava la
complicato”
facciata, che, ovviamente, lui
di Yona
prevedeva fosse scelta dagli
Friedman
utenti (era il 1971, quel concorso
Quodlibet
lo vinsero Renzo Piano e Richard
pagg.171
Rogers). Ora Friedman vive a Paeuro 16
rigi, dopo aver insegnato negli
Stati Uniti, in una casa affollata di
oggetti, di pupazzi e di strane
creazioni. Sembrano accumula- “È indispensabile
te disordinatamente. Ma lui av- riscoprire tecniche
verte, ammiccando al suo libro:
«Il disordine non esiste, esiste so- compatibili con
lo un ordine complicato». Da Pa- un modo di vita
rigi si muove a fatica, comunica più sobrio”
per telefono e per fax, ed è così
che siamo entrati in contatto,
niente posta elettronica. In que- gi di Kenneth Frampton e Hans
sti giorni si è anche aperta a Léon, Ulrich Obrist).
in Spagna, una mostra a lui dediL’ordine complicato è una raccata, si intitola «Métropole Euro- colta di pensieri e frammenti che
pa» (nel catalogo, fra gli altri, sag- si alternano a piccoli disegni e ad
L’
allegre vignette. Come racconta
Orazi, le indagini sull’ordine
complicato Friedman le inizia
ancora nell’Ungheria filonazista
dove, nonostante la repressione
del regime, può tenere una conferenza il premio Nobel per la Fisica Werner Heisenberg. L’ordine in cui si dispongono le cose, dice Friedman, non è dato dalle cose in sé, ma dal modo in cui noi le
organizziamo. Per farsi capire
meglio, prova con un esempio:
«L’ordine dei numeri è un ordine
naturale, l’ordine alfabetico è un
ordine complicato». L’alfabeto,
infatti, è un artificio umano,
un’immagine costruita. Allo
stesso modo la città non è il luogo
nel quale si dispongono edifici,
ma il luogo in cui gli edifici sono
abitati da esseri umani. Ed è di
questi che l’architettura, insiste
Friedman, deve occuparsi: «L’ordine complicato indica un ordine
le cui regole sono sconosciute e
non possono essere espresse attraverso formule matematiche.
L’architettura è uno speciale caso di ordine complicato».
Due anni fa Friedman ha pubblicato in Italia L’architettura di
sopravvivenza. Una filosofia della povertà (Bollati Boringhieri).
«La povertà», dice, «è la condizione in cui vive la maggior parte della popolazione planetaria, nonostante le sofisticate tecnologie».
Ed è indispensabile «che l’architettura riscopra le tecniche compatibili con un modo di vita più
sobrio». Quando ha imparato
I PROGETTI
Alcuni progetti di Yona Friedman
(nella foto qui sopra). Sotto,
un’immagine della “ville
spatiale”. A destra,
tre suoi schizzi, con i quali
Friedman solitamente
illustra i propri libri
segue
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IL BEAUBOURG
Un progetto di estensione
del Centre Pompidou
di Parigi, al cui concorso,
alla fine degli anni ’60,
Friedman partecipò
l’architettura di sopravvivenza?
«Durante la seconda guerra
mondiale e subito dopo. Ho avuto l’esperienza della miseria, delle coabitazioni forzate e ho capito l’importanza dell’aiuto reciproco».
Un’altra vicenda decisiva per il
formarsi del suo pensiero si svolge in Israele, ad Haifa, dopo la
guerra. Qui mette a punto il “manifesto dell’architettura mobile”.
«Era il modo per rispondere alla
grande immigrazione di quegli
anni. Tanta gente proveniva da
paesi e culture diverse e aveva bisogno di abitare in luoghi che potessero essere cambiati a secon-
“Oggi nel nostro
mestiere si è attenti
al professionismo,
invece contano
di più le idee”
da delle esigenze. Questo era il
principio dell’architettura mobile: considerare le pareti di casa altrettanto provvisorie quanto un
oggetto d’arredo». Ecco l’autocostruzione, la piccola comunità,
quella che poi definirà come
“gruppo critico”, un gruppo con
un numero massimo di persone
tale da rendere possibile una comunicazione di tutti con tutti. Altro che villaggio globale.
«L’architettura deve ascoltare
gli abitanti di un luogo. E dato che
essi non possono spiegare verbalmente o con disegni ciò che
vogliono, in molti casi l’unica soluzione è proprio l’autocostruzione». Nelle parole di Friedman
suona l’eco di espressioni come
partecipazione e democrazia dal
basso. E qualche ricordo: «Sono
stato amico di Giancarlo De Carlo. In passato gli architetti erano
persone colte, interessate a più
discipline. Oggi l’architetto è
troppo stretto nel suo professionismo, coltiva l’informatica, il
business e il marketing. A me pare che manchi l’immaginazione». Quell’immaginazione che lo
portò a disegnare una “città spaziale”, una grande struttura sollevata da terra e sovrapposta alle
attuali città, organizzata secondo
il principio della flessibilità e dell’autocostruzione. «O, addirittura, dell’autopianificazione», aggiunge Friedman. «La città spaziale rende possibile cambiare il
disegno urbano senza la necessità di demolire il preesistente».
Ma lei è d’accordo con chi sostiene che la città sia al capolinea
di un ciclo storico? «Credo che si
stia assistendo alla fine di un vecchio concetto di città. La città di
oggi risponde all’idea di un
network di nuclei tenuti insieme
da una rete di traffico veloce». Si
sente in qualche modo parte del
sistema di archistar? «Le stelle sono entità che vanno e vengono,
senza lasciare tracce. A me interessano le idee».
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