Le conoscenze e i bisogni informativi dei pazienti con diagnosi
di schizofrenia esplorati attraverso il metodo dei focus group
Knowledge and informative needs of patients with the diagnosis of
schizophrenia, explored with focus group methods
MONICA PACCALONI, TECLA POZZAN, MICHELA RIMONDINI, CHRISTA ZIMMERMANN
Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Sezione di Psichiatria e Psicologia Clinica, Università di Verona, Verona
SUMMARY. Aims – Psychiatric patients often are not informed about their diagnosis and their involvement in the decision
making process is rare. Aim of the study was to explore the informative needs of patients with schizophrenia and the knowledge
about their illness. Method – Three focus groups were conducted with 25 long-stay patients with the diagnosis of schizophrenia,
attending the Mental Health Centre of the South-Verona Community-based Mental Health Service. The group discussions were
audiotaped and transcribed. Results – The authors identified 18 different thematic categories which were used by two raters to classify all patient contributions. The interrater reliability was satisfactory. The qualitative analysis evidenced that patients have little
knowledge about their illness. Patients had confuse and vague ideas on schizophrenia but their knowledge on drug names, dosages
and side effects appeared precise and detailed. Several patients have looked for information in encyclopedias and medical dictionaries. Conclusion – The findings suggest a need of patients affected by schizophrenia for an information exchange with their psychiatrists that takes into account their informative needs, corrects wrong beliefs and actively involves them in therapeutic decisions.
Declaration of Interest: none.
KEY WORDS: schizophrenia; psychiatric patients, communication of diagnosis, information needs, expectations, doctorpatient relationship.
Received 01.06.2005 – Final version received 03.01.2006 – Accepted on 04.01.2006.
INTRODUZIONE
È ormai noto che il primo passo, al fine di raggiungere
un piano d’azione comune tra medico e paziente, consiste
nel promuovere un flusso comunicativo bidirezionale
attraverso il quale entrambe le parti coinvolte partecipino
attivamente ai processi informativo e decisionale (Charles
et al., 1997; Fenton, 2003). Non possiamo ancora pensare che tale modello, lo shared decision making, sia implementabile anche nel contesto psichiatrico, poiché non esistono attualmente studi che ne dimostrino l’efficacia in
termini di esiti (Hamann et al., 2003; Slingsby, 2004).
Una revisione della letteratura scientifica sulle aspettative
Address for correspondence: Professor C. Zimmermann,
Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Servizio di Psicologia
Medica - Università di Verona, Piazzale L.A Scuro, 37134 Verona (Italy).
Fax: +39-045-585.871
E-mail: [email protected]
e i vissuti dei pazienti psichiatrici (Paccaloni et al, 2004)
inducono ad ipotizzare che il modello tuttora più utilizzato in psichiatria sia di tipo paternalistico: lo specialista sa
e decide cosa è meglio per il paziente (Shooter, 2003;
Tarrier & Barrowclough, 2003). Citando uno dei precursori nell’ambito della comunicazione in medicina, diremmo che “non è tanto il bisogno del paziente quanto lo stile
del medico che determina la forma in cui il medico somministra se stesso” (Balint, 1961).
Da una recente review sulle aspettative dei pazienti psichiatrici nei confronti dei servizi, emergono alcuni importanti dati: la maggior parte degli interventi richiesti sono
di tipo psicoterapeutico (Noble et al., 1999) e le aspettative sono più alte per questi tipi di interventi rispetto alle
aspettative legate alle terapie psicofarmacologiche
(Retolaza & Grandes, 2003); un’incongruenza tra le aspettative e l’aiuto ricevuto peggiora gli esiti e conseguentemente un intervento psicoeducativo a scopo preventivo
che ne riduca lo scarto ha un effetto positivo (Noble et al.,
2001). Quest’ultima osservazione è fondamentale, poiché
una delle maggiori cause di insoddisfazione dei pazienti è
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Le conoscenze e i bisogni informativi dei pazienti con diagnosi di scizofrenia esplorati attraverso il metodo dei focus group
dovuta al fatto che ciò che si aspettano è molto distante da
ciò che viene loro offerto. Nel contesto psichiatrico, ad
esempio, i pazienti preferirebbero avere più tempo per
parlare ed approfondire i loro problemi, per discutere in
dettagli aspetti riguardanti le difficoltà personali e la personalità e per discutere insieme sulle possibili strategie di
coping da adottare. Tali aspettative sono spesso deluse a
causa dello scarso tempo dedicato alla consultazione,
all’approccio impersonale dello psichiatra e alla mancata
individuazione del “vero problema” del paziente (Morgan,
1999). La soddisfazione dei bisogni, espressa dal paziente
stesso, assume un valore crescente, poiché risulta il più
forte predittore della qualità di vita soggettiva
(Thornicroft & Tansella, 2005; Lasalvia et al., 2005).
È noto che il medico tende a sovrastimare la quantità di
informazioni fornite, a sottostimare i bisogni informativi del
paziente ed a generare errori sistematici, valutando in modo
arbitrario il grado di informazioni di cui il paziente necessita, basandosi su status sociale, sesso e livello di istruzione
del paziente (Clary et al., 1992). Nel contesto psichiatrico,
in particolare, è stato osservato che i familiari vengono
informati in misura maggiore rispetto ai pazienti affetti da
schizofrenia. Nell’informare, gli psichiatri si ritengono
influenzati dal tipo di diagnosi da comunicare, dalle competenze cognitive dei pazienti, dallo stigma sociale che la
diagnosi può comportare e dalle emozioni spiacevoli che il
comunicare brutte notizie comporta (Paccaloni et al., 2005).
L’obiettivo di questo studio era di esplorare, attraverso il metodo dei focus group, come i pazienti affetti da
schizofrenia hanno vissuto il processo informativo avvenuto e quali erano le conoscenze ed i bisogni informativi
rispetto al loro disturbo. Fine ultimo sarà quello di ideare
in futuro interventi informativi e terapeutici rispondenti
pienamente alle esigenze e alle aspettative del diretto
interessato, il paziente.
METODI
Selezione del campione
Sono stati considerati eligibili tutti i pazienti con diagnosi di schizofrenia (F20 - ICD-10), in fase di relativo
compenso, che nel periodo dello studio frequentavano il
Centro di Salute Mentale (CSM) del Servizio Psichiatrico
Territoriale di Verona. I 30 pazienti eligibili sono stati
informati sullo scopo dello studio e invitati a partecipare
ad un incontro di discussione che sarebbe stato audioregistrato, con M.P e T.P. Cinque pazienti hanno rifiutato
di partecipare, o perché non interessati (3) o senza specificare il motivo (2).
Il metodo dei Focus Group
I focus group sono metodi della ricerca qualitativa che
consentono di avere indicazioni su temi precisi (da cui il
termine “focus”) forniti dai partecipanti in qualità di esperti. La conduzione che caratterizza i focus group dà spazio
al contributo e ai punti di vista di ogni partecipante e facilita la loro interazione, riducendo l’imbarazzo dell’interazione “faccia a faccia” (Frankel & Treger Hourigan, 2004;
Morgan, 1997): risulta così possibile ottenere un effetto
sinergico nel quale le dinamiche di gruppo stimolano
riflessioni e contributi di tutti i partecipanti, anche i più
taciturni (Zammuner, 2003). Grazie al riconoscimento del
ruolo di esperto del proprio disturbo, il paziente si sente
più libero di parlare della propria esperienza, senza il timore di dire “qualcosa di sbagliato”.
Per garantire massima libertà di risposta e per dirigere
il meno possibile l’andamento della discussione, tutte le
domande sono state formulate in modo aperto ed è stato
lasciato il maggior spazio possibile ai racconti spontanei
dei partecipanti.
Procedura
I tre focus group, costituiti rispettivamente da 7, 8 e 10
pazienti, sono stati condotti ognuno da M.P (facilitatore)
e T.P. (conduttore), entrambe psicologhe. I tre incontri
avevano una durata media di circa due ore e si svolgevano nel CSM.
Per illustrare i vari temi da indagare, riportiamo le
domande che sono state preparate per l’incontro e alle
quali i pazienti erano poi invitati a rispondere:
Per quale motivo siete in cura presso il Servizio?
Come si chiama il vostro disturbo? Cosa significa per
voi la parola schizofrenia? Come siete stati informati
sul vostro disturbo? Cosa vi è stato detto? Cosa avete
pensato e come vi siete sentiti quando avete saputo di
cosa si trattava? Quali informazioni vorreste avere
ancora?
Alcune domande hanno consentito ai partecipanti
la massima libertà di argomentare. Alla domanda
‘Cosa vi è stato detto’, ad esempio, i partecipanti
potevano scegliere se riferire i consigli ricevuti dai
familiari, le indicazioni dello psichiatra, i commenti
stigmatizzanti della gente e così via. La conduttrice si
assicurava comunque che la conversazione rimanesse
sempre pertinente agli argomenti di interesse. Altre
domande, come vedremo nel dettaglio in seguito, sono
state modificate, omesse o create ad hoc nell’arco
della discussione in base alle informazioni che emergevano.
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M. Paccaloni et al.
Le discussioni sono state audioregistrate e integralmente trascritte. Per un’analisi quantitativa e qualitativa,
le affermazioni e i commenti dei pazienti sono stati attribuiti alle varie categorie tematiche identificate indipendentemente da M.P e T.P. L’accordo nell’attribuzione è
stato verificato calcolando l’attendibilità tra rater.
di accordo eccellenti, quelli compresi tra 0.60 e 0.80
buoni, quelli compresi tra 0.60 e 0.40 moderati, mentre
sono considerati scarsi gli accordi inferiori a 0.40 (Landis
& Koch, 1977).
Il grado di accordo all’interno di ciascuna categoria
(X) è stato calcolato con l’indice di similarità di Dice
(1945), secondo la seguente formula:
L’identificazione delle categorie tematiche
La scelta delle categorie è stata fatta tenendo conto
dell’ attinenza con la letteratura attuale e della rilevanza
dal punto di vista clinico e terapeutico degli argomenti. In
particolare, dalla letteratura emerge l’importanza, secondo la prospettiva del paziente, che hanno (a) il riconoscimento precoce dei sintomi per la prevenzione delle ricadute (Chien et al., 2001); (b ) le informazioni che possono spiegare i sintomi, le cause e il trattamento della propria malattia (Kilkku et al., 2003; McCabe et al., 2002);
l’apprendimento di strategie per fronteggiare lo stress e la
malattia (Mueser et al., 1992; Tarrier et al., 1993); (d) il
supporto negato o ricevuto da amici, familiari e terapeuti
(Schulze & Angermayer, 2003).
Dai trascritti ottenuti, M.P. e T.P. hanno selezionato in
modo indipendente le affermazioni dei pazienti e le
hanno
suddivise
per
categorie
tematiche.
Successivamente, le categorie identificate da ognuna
sono state confrontate per costruire un lista di categorie
condivise: le categorie concettualmente simili sono state
accorpate e le categorie diverse sono state mantenute soltanto quando considerate pertinenti. Le due ricercatrice
hanno poi discusso le discordanze irrisolte con M.R. e
C.Z., fino ad arrivare ad un sistema finale e condiviso di
categorie. Hanno quindi classificato nuovamente in modo
indipendente tutte le affermazioni dei pazienti utilizzando il nuovo sistema di classificazione e, successivamente, verificato l’accordo tra rater.
Le affermazioni dei pazienti sono state poi conteggiate per ogni singola categoria al fine di identificare i temi
che hanno suscitato maggiore interesse dei pazienti.
Attendibilità tra rater
Il grado di accordo tra rater è stato calcolato con l’indice kappa di Cohen e con l’indice di similarità di Dice
(1945).
Il Kappa di Cohen (Kappa, 1968) confronta l’accordo
ottenuto con quello atteso se i due rater sono indipendenti. Kappa equivale a 0 quando gli accordi ottenuti
rispetto a quelli attesi sono da attribuire al caso, mentre
equivale a 1 quando l’accordo complessivo è perfetto.
Valori maggiori a 0.80 possono essere considerati livelli
Ax
Ax
(R1x
– –Ax)
Ax +
(R1x
Ax)+ +(R2x
R2x––Ax)
Ax)
Ax +
22
dove Ax è il numero degli accordi tra i due rater, R1x e
R2x rispettivamente il numero delle affermazioni dei
pazienti attribuite a ciascuna categoria dal rater 1 e dal
rater 2. Tale indice varia tra 0, cioè nessun accordo, e 1,
quando l’accordo è totale. Se il numero degli accordi
risulta uguale al disaccordo medio (cioè la media dei due
disaccordi, uno per ciascun rater), l’indice di similarità è
pari a 0.50.
RISULTATI
Caratteristiche socio-demografiche dei pazienti
L’età media dei 25 pazienti partecipanti (13 maschi)
era 45 anni (range: 25-67) e la durata media di malattia
15 anni (range: 3-39). Il 46% del campione aveva terminato le scuole medie inferiori, il 29% possedeva un diploma e il 15% la licenza elementare. Solo il 38% risultava
occupato, mentre gli status professionali maggiormente
rappresentati erano: casalinga (33%) e operaio specializzato (29%).
Accordo tra rater
In tabella I sono elencate le 19 categorie tematiche
identificate, insieme al grado di accordo tra i due rater.
La categoria affermazioni non classificabili (ANC) comprende frasi attribuibili alla sintomatologia positiva dei
pazienti o fuori tema, parole o frasi brevi (Sì, No) o
incomplete, e risposte dal contenuto dubbio che non potevano essere attribuite ad alcuna altra categoria.
In totale, sono state analizzate 701 affermazioni, di cui
288 considerate non classificabili da entrambi i rater.
L’indice di similarità complessivo è risultato 0.82 e il
Kappa di Cohen 0.86, evidenziando un buon accordo tra
i due rater, confermato anche per le singole categorie
tematiche. Per 15 categorie, l’indice di similarità è compreso tra 1 e 0.70, e per le rimanenti tra 0.68 e 0.56.
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Le conoscenze e i bisogni informativi dei pazienti con diagnosi di scizofrenia esplorati attraverso il metodo dei focus group
Tabella I. – L’accordo tra rater nell’attribuire i contributi dei pazienti alle 19 categorie tematiche (Focus-CS).
Categorie
Descrizione categorie
Rater 1
Rater 2
Accordia (Ax)
(R1x)
(R2x)
CAM
Percezione del cambiamento dopo l’esordio della malattia
5
5
5
SIT
Situazioni in cui i sintomi migliorano o peggiorano
4
4
4
INI
Prodromi e inizio della malattia
15
13
13
FAR-E
Opinioni e conoscenze sugli effetti collaterali dei farmaci
10
10
9
DIA
La diagnosi che il paziente pensa di avere
21
26
21
FAR-C
Opinioni e conoscenze generali sui farmaci
35
40
33
UNC
Affermazioni non classificate
353
307
288
FAM
Comunicazione in famiglia e consigli ricevuti dai parenti
11
15
11
STI
Vissuti di stigma
13
16
12
COP
Strategie di coping adottate dal paziente
28
31
24
TPERS
Teorie personali sul disturbo
38
45
33
EZI
Cause di malattia
13
16
11
CUR
Curiosità manifestate riguardo alla malattia
13
21
12
e bisogni informativi espressi
OPI
Opinioni sul personale
13
18
11
INS
Insight di malattia
32
25
20
EMO
Vissuti emotivamente forti
47
47
32
MED
Cosa dicono i medici
20
31
16
SCH
Opinioni riguardo alla schizofrenia
11
18
9
CON
Conoscenze sulla malattia e significato attribuito
19
13
9
Totale
701
701
573
a
accordo espresso in frequenze.
b
numero medio di disaccordi = [(R1x - Ax)+(R2x - Ax)]/2.
c
indice di similarità = Ax / (Ax + Dx), (vedere paragrafo delle analisi statistiche).
I temi prevalenti
Formulare domande aperte nel focus group consente
l’emergere di svariati temi, il più delle volte riportati
spontaneamente dai partecipanti. Le categorie contenenti
il maggior numero delle affermazioni dei pazienti permettono, quindi, di comprendere quali argomenti suscitavano più interesse o erano ritenuti più importanti. Come
si vede in figura 1, i pazienti hanno scarsa attitudine a
ragionare sulle situazioni che accentuano o attenuano i
sintomi (SIT, 1%) e i cambiamenti dopo l’esordio della
malattia (CAM, 1%). Raramente emergono, inoltre, le
perplessità sugli effetti collaterali dei farmaci (FAR-E,
3%), in contrasto con i commenti che riguardano la categoria tematica Opinioni e conoscenze generali sui farmaci (FAR-C), la quale è rappresentata con la terza frequenza più elevata (10%).
Altri temi frequenti riguardano i vissuti emotivamente forti (EMO, 12%) e le teorie personali (TPERS, 11%).
Le diverse curiosità manifestate sulla propria malattia
(CUR, 5%), direttamente o indirettamente, suggeriscono
che i pazienti, più che non averle, siano abituati a non
manifestarle.
Infrequenti erano anche i contributi al tema del dialogo con familiari e amici a proposito dell’esperienza di
malattia (FAM, 4%). Inoltre, contrariamente a quanto ci
saremmo aspettati, i pazienti riferiscono vissuti di stigma
(STI, 4%) in misura nettamente inferiore. Questo dato
Disaccordib
(Dx)
0
0
1
1
2,5
4,5
42
2
2.5
5.5
8.5
3.5
5
Indice di
similaritàc
1.00
1.00
0.93
0.90
0.89
0.88
0.87
0.85
0.83
0.81
0.80
0.76
0.71
4.5
8.5
15
9.5
5.5
7
128
0.71
0.70
0.68
0.63
0.62
0.56
0.82
potrebbe segnalare una certa difficoltà ad affrontare il
tema dello stigma, oppure la priorità di altri temi, come la
sofferenza personale causata dalla sintomatologia positiva rispetto alle conseguenze indirette riguardanti le relazioni sociali.
Il tema delle strategie di coping (COP), rappresentato
da una frequenza di commenti e osservazione abbastanza
alta (8%), riguarda in gran parte comportamenti salutari,
come, ad esempio: “cercare di fare una vita sana”,
“mangiare bene”, “smettere di fumare”.
Cosa dicono i pazienti?
Di seguito riportiamo i contributi più significativi dei
pazienti rispetto ai temi che più di altri riguardano gli
aspetti informativi e le opinioni sui propri disturbi, contributi che saranno commentati, ove possibile, alla luce
della letteratura più rilevante.
La conoscenza della diagnosi
In principio, la nostra attenzione si focalizzava sui vissuti emotivi e sui bisogni informativi dei pazienti con diagnosi di schizofrenia, ma, poiché la maggior parte dei
pazienti intervistati non conosceva o non ricordava il
nome della propria malattia, parte delle domande aperte
che ci eravamo riproposti di fare (i.e. Cosa significa per
voi avere la schizofrenia?) sono state inevitabilmente
omesse.
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M. Paccaloni et al.
Figura 1. – I contributi dei pazienti per i temi emersi in ordine crescente di frequenza (esclusa la categoria per i contributi non classificabili). Acronimi come in tabella I.
I pazienti sono apparsi inizialmente disorientati, in
parte per il dubbio di avere una vera e propria “malattia”
e in parte per l’assenza di informazione circa la diagnosi. Ad esempio, alcuni pazienti dichiarano “non sono
sicura che sia una malattia, forse è un pensiero mio”, “a
me non hanno detto niente, io la chiamo esaurimento
nervoso” oppure “non so come si chiama la mia malattia, io dico voci”.
Altri pazienti utilizzano con convinzione terminologie
fantasiose o confuse, come “io ho cominciato con
“nevralgia”, poi il nervoso”, “io soffro psicologicamente di insonnia” o ancora “la mia è una psiconevrosi”. Una
paziente, non comprendendo il nostro stupore di fronte
alle prime risposte, afferma decisa: “gli psichiatri sono
informati: io soffro di depressione, non è un segreto!”.
Come è noto, la curiosità e il desiderio di ricevere
informazioni varia da paziente a paziente e, anche nel
nostro campione, alcuni pazienti si sono dimostrati maggiormente passivi, esprimendo scarso interesse: “non lo
so, non l’ho mai chiesto al dottore”, oppure “non me ne
hanno mica parlato”, suggerendo che se il medico non ne
parla significa che non c’è niente da sapere. Il paziente
assertivo, che chiede informazioni comunque, non sembra una rarità solo nel contesto psichiatrico: anche in
medicina generale è molto frequente trovare pazienti che
aspettano passivamente le informazioni dal medico,
accettando anche informazioni parziali. Dal canto loro,
molti psichiatri sostengono, come documentato da
Clafferty et al, (1999a) che è inutile informare i pazienti
se loro per primi non mostrano un interesse attivo.
È interessante segnalare che i due pazienti che dimostravano di conoscere la propria diagnosi, asserendo “la
mia è schizofrenia” e “ho una schizofrenia paranoide o
psicosi, o un miscuglio non lo so”, sono i pazienti che
hanno espresso una maggior fiducia nei riguardi del proprio psichiatra, dichiarando rispettivamente “adesso mi
trovo benissimo con lo psichiatra, ci vengo molto volentieri” e “non so se è bene per me, voglio parlarne prima
con la mia dottoressa”. Questa osservazione concorda
con lo stretto rapporto tra una buona comunicazione e
una forte alleanza terapeutica, rapporto rilevato da
Clafferty et al. (2000; 2001). Vari studi riportano che la
maggior parte dei pazienti psichiatrici intervistati era
desiderosa di conoscere la diagnosi (Shergill et al., 1998;
Luderer, 1989; Luderer & Böcker, 1993), un risultato che
ha portato gli autori a suggerire agli psichiatri di verificare con il paziente se egli sia interessato o meno a conoscere la diagnosi, prima di concludere che tale informazione non è necessaria.
Pensieri sul proprio disturbo
L’oscillazione tra idea di malattia e inconsapevolezza
della stessa, osservata in precedenza (Messari & Hallam,
2003), è suggerita da affermazioni del tipo “un po’ ci
credo ancora che ci possa essere questa comunicazione
telepatica, non sono sicura che sia una malattia, forse è
un pensiero mio”, oppure “anche adesso penso che mi
ascoltino in Australia”.
In alcuni casi, soprattutto quando i farmaci hanno permesso l’estinzione dei sintomi positivi, la consapevolezza di malattia è più consolidata e causalmente legata
all’effetto della terapia: “la mia penso sia una malattia,
perché le voci mi sono passate con le medicine”. Un partecipante si definisce spontaneamente “un caso”. La sensazione di essere un caso, unitamente all’esperienza di un
colloquio troppo impersonale, sono due esperienze riportate molto frequentemente da parte dei pazienti psichiatrici (Morgan, 1999), vissuti che contrastano con le loro
aspettative che riguardavano invece aspetti relazionali,
come l’ascolto e il rispetto (Hansson et al., 1993; Muller
et al., 2002).
Chiedendo esplicitamente ai nostri pazienti quali fossero, secondo loro, le cause di malattia, le risposte più
frequenti riguardavano situazioni di stress alle quali
erano stati esposti durante l’esordio: “ho cominciato a
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Le conoscenze e i bisogni informativi dei pazienti con diagnosi di scizofrenia esplorati attraverso il metodo dei focus group
stare poco bene dopo la morte di mio fratello, sentivo la
sua mancanza e adesso mi sono un po’ ammalato, diciamo, di esaurimento nervoso”, oppure “sto male perché
ho dei problemi in famiglia”. Una paziente, dopo aver
dichiarato di soffrire di schizofrenia, mal celando il timore di essere giudicata, aggiunge: “anche se ci sono dei
casi molto più gravi”. Le cause psicosociali, difatti, risultano le più favorite dal punto di vista del paziente rispetto alle cause biomediche o soprannaturali (Ilechuwu,
1988. Angermayer & Klusmann, 1988; Holzinger et al.,
2003; Molvaer et al., 1992).
Vissuti ed emozioni
I contenuti emotivi celano spesso le cause di insoddisfazione e delusione delle aspettative riguardo alla malattia, alla propria vita, alla famiglia e agli operatori sanitari.
Le emozioni emerse nel nostro studio sono prevalentemente riconducibili alla paura e al disorientamento:
“all’inizio ero spaventata, non riuscivo a capire cosa
stava succedendo, volevo sapere dal medico cosa mi
stava succedendo”, oppure “mi sono chiesta: com’è la
nostra testa?”. Come la paura di stigmatizzazione possa
condizionare l’atteggiamento che i pazienti e i familiari
hanno nei confronti degli operatori psichiatrici è esemplificato da questo contributo: “mio figlio mi diceva ‘se ti
porto in ospedale devi dire che senti queste voci’, io non
volevo dirlo perché avevo paura che mi dicessero che
sono scema”.
Alcuni pazienti ricordano le prime manifestazioni sintomatiche con sofferenza, come nel caso di un giovane
paziente: “sentivo delle voci, sentivo che c’era altra
gente al posto dei miei genitori”; lo stesso paziente, che
per la prima volta in questo gruppo ammetteva di aver
provato queste sensazioni, successivamente ha manifestato curiosità e richiesto ulteriori informazioni al personale del CSM riguardo al suo disturbo.
Le informazioni ricevute
Nonostante fosse chiaramente esplicitato il nostro
interesse riguardo alle informazioni ricevute sulla malattia, è importante rilevare che, frequentemente, le risposte
riguardavano in particolare la terapia psicofarmacologica
(figura 1).
In alcuni casi i pazienti apprendono la propria diagnosi non attraverso una vera e propria comunicazione diretta del medico. Ad esempio, “mi hanno dato l’esenzione,
e mi sembra che la diagnosi fosse psicosi, in alcuni casi
mi hanno messo anche schizofrenia, forse in certi momenti ero schizofrenico”. Appare evidente come, di fronte ad
informazioni contrastanti, il paziente abbia cercato una
spiegazione senza chiedere direttamente al medico.
Nella maggior parte dei casi i pazienti dichiarano subito di non ricordare esattamente ciò che è stato comunicato, ma successivamente riportano ricordi nitidi e dettagliati. Un giovane paziente, ripercorrendo mentalmente
l’esordio della sua malattia, racconta: “non ricordo
molto, ricordo solo di essere stato poco informato”, poi
“quando sono stato ricoverato la prima volta hanno parlato con i miei familiari, ma nessuno ha parlato con me”.
Anche in letteratura è stata osservata l’esclusione del
paziente psicotico dal colloquio clinico, quest’ultimo
rivolto in genere ai familiari (Mc Donald-Scott et al.,
1992; Ono et al., 1999; Clafferty et al., 2001).
Alcuni comportamenti protettivi verso i pazienti,
generati spesso dalle paure degli psichiatri (Green &
Gannt, 1987; Üçok et al., 2004), possono generare più
paure e false interpretazioni di una comunicazione diretta compiuta nel modo e nei tempi giusti. A questo proposito, una nostra paziente racconta: “il medico non voleva
dirmi cosa significa la mia malattia perché diceva che è
una brutta parola e io ho pensato di essere matta”.
In alcune circostanze la comunicazione della diagnosi
avviene a distanza di tempo e può succedere che i pazienti perdano fiducia nel terapeuta; ad esempio, una paziente di 29 anni riferisce: “i medici mi hanno detto che allora non avrei mai accettato questa diagnosi (di schizofrenia), mi sono sentita un po’ ingannata perché venivo qui
per un motivo e invece era un altro. Nel primo periodo
pensavo di essere curata per una forte depressione e
invece poi con gli anni ho capito che era una cosa molto
più grave”.
Le informazioni desiderate
Quando i pazienti conoscono il nome della propria
malattia, possono accedere ad altre informazioni attraverso diverse fonti e, se non ritengono sufficienti le spiegazioni ricevute dallo psichiatra, possono chiedere ad un
altro specialista o al medico di base, oppure possono cercare nei libri o su internet (Clafferty et al., 2000).
Sembrano rari i pazienti psichiatrici che facciano direttamente domande ai loro psichiatri o che chiedano l’accesso alle loro cartelle cliniche (Clafferty et al., 1999b). I
nostri pazienti che hanno partecipato ai focus group, ad
esempio, riferiscono: “io ho cercato sul vocabolario e
anche sull’enciclopedia alcune informazioni, anche su
alcune parole, e le ho trovate molto coerenti, però magari non capivo cos’avevo”, oppure “ho cercato nel dizionario medico”. Alcuni dei nostri pazienti hanno dedotto
la diagnosi attraverso altri fonti ancora: “due o tre anni fa
sul foglietto delle medicine c’era scritto psiconevrosi,
dopo non so”, “l’ho letto nel certificato per l’esenzione”.
I pazienti meno informati non si rivelano necessariamen-
Epidemiologia e Psichiatria Sociale, 15, 2, 2006
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M. Paccaloni et al.
te i più passivi, poiché manifestano curiosità ed entusiasmo riguardo alle nostre domande: “ce lo dice lei dottoressa?”, oppure “io quando vedo il mio psicologo glielo
chiedo come si chiama la mia malattia”. Altri pazienti
riferiscono: “mi piacerebbe avere altre informazioni
sulla mia malattia per poter dire alle altre persone, a chi
mi conosce, cos’ho”, oppure “mi piacerebbe anche
approfondire queste cose, che ci sia una persona che mi
dica in che modo si sono verificate queste cose”.
Un aspetto importante da non sottovalutare è l’ammissione da parte di alcuni pazienti di non essere stati sempre pronti: “subito non ero in grado di ricevere informazioni, ma adesso mi piacerebbe”. Sarebbe buona pratica
perciò verificare a distanza di tempo la disponibilità o
meno del paziente per ulteriore informazioni.
La schizofrenia
La maggior parte delle convinzioni riguardo alla schizofrenia sono riferibili alla pazzia, alla perdita di controllo e all’aggressività. Riportiamo alcune frasi dei pazienti:
“(uno schizofrenico) è un matto, un esaltato”, “(la schizofrenia) è una cosa che piglia al cervello, che fa fare
delle cose assurde, uno non ragiona più, come uno
pazzo”, o anche “(uno schizofrenico) è uno che faccia
delle cose come picchiare, aggressivo”.
In altri casi viene considerata malattia perché associata alla terapia: “una malattia che richiede cure grosse”,
oppure “certi medici la definiscono come malattia perché
danno delle pastiglie, questi psicofarmaci”. In altri casi
le risposte sono più vaghe e confuse, come ad esempio:
“l’ho sentita nominare, ma non so cos’è”, “una malattia
molto brutta, ad uno stadio molto avanzato rispetto alla
mia malattia”, “non so di preciso cosa significhi schizofrenia, certo i primi tempi sì ero schizzato…testacoda con
la macchina!”, “non credo che si guarisca, forse si
migliora” o anche “mai sentita”.
La terapia farmacologica
Benché la terapia farmacologica non fosse inizialmente oggetto del nostro interesse, il frequente richiamo dei
pazienti a tale tematica e la rilevanza espressa attraverso
interessanti considerazioni ci ha indotti a riconsiderare ed
ampliare il campo della nostra indagine.
Sembra che, per questi pazienti, parlare della terapia
farmacologica sia il livello di comunicazione al quale più
facilmente tutti accettano di collaborare e confrontarsi. A
questo proposito riportiamo testualmente una parte della
discussione nella quale i pazienti (P) sono riusciti per la
prima e unica volta ad interagire tra loro, senza essere
spronati dal conduttore (C), dimostrando di avere interessanti risorse:
P1: ho sospeso bruscamente la terapia e mi è venuta l’insonnia, dormivo poco e mi capitava quando sono
andato in vacanza che non prendevo la terapia
C: quindi bisogna essere costanti
P1: prendendo la terapia mi addormento più facilmente
P2: che terapia fai?
P1: il L.
P2: ah, il L., come me!
P3: quanto ne fai al giorno?
P1: tre pastiglie da 100
P3: io 5 e mezza
P1: prendi anche te il L.?
P3: sì, 5 e 1\2
P1: cinque pastiglie? ah però! Pensavo fossero tante le
mie...
P2: 5 e 1\2
P3: mi hanno detto che il dosaggio va in base alla superficie corporea
C: infatti
P3: perciò se uno è più grande e bello panciuto...
P1: sì ... beh, non sono magro neanche io comunque...
Il paziente P1, fino a questo momento, aveva parlato
pochissimo per tutto lo svolgimento dell’incontro, aveva
dato risposte brevi e mantenuto un atteggiamento decisamente schivo. Parlare della terapia sembra essere il livello più accettabile, almeno in un primo momento, per
aprirsi agli altri, ridurre il rischio di essere stigmatizzati e
ricevere al contempo informazioni. Inoltre è osservabile
come le conoscenze di ciascun componente vengano
messe a disposizione degli altri partecipanti in modo
spontaneo e straordinariamente empatico.
Tuttavia non mancano i dubbi e le perplessità a proposito degli effetti collaterali come: “io non devo prendere
un farmaco che mi blocchi il pensiero!”; “secondo me
queste medicine mi hanno portato il diabete perché prima
non ce l’avevo” ; “io non ci vedo più bene, non so se sono
i farmaci”.
Nonostante pazienti psichiatrici risultano avere scarse
conoscenze sui farmaci che assumono, specialmente sugli
effetti collaterali (Zanieri et al., 2003; Tempier, 1996;
Clary et al., 1992), i nostri pazienti appaiono puntualmente informati, interessati e attivi nello scambio di questo tipo di informazioni.
DISCUSSIONE
Il quadro che sembra delinearsi da questi dati è quello
di pazienti inizialmente cauti e piuttosto passivi che
lasciano trapelare timidamente insoddisfazioni sulle scel-
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134
Le conoscenze e i bisogni informativi dei pazienti con diagnosi di scizofrenia esplorati attraverso il metodo dei focus group
te informative dei terapeuti ma che, al tempo stesso,
dimostrano conoscenze abbastanza dettagliate e puntuali
sulla loro terapia farmacologica, evidentemente risultato
di un processo informativo appropriato. Le loro scarse
conoscenze sul proprio disturbo, invece, verosimilmente
sono dovute alla mancanza di linee guida o di procedure
convalidate rispetto alla comunicazione della diagnosi di
schizofrenia e, quindi, a un disorientamento generale che
i dati della letteratura hanno evidenziato sia nei pazienti
che negli psichiatri (Paccaloni et al., 2004; 2005).
Benché non emerga in modo esplicito l’insoddisfazione rispetto all’informazione ottenuta, la ricerca di ulteriori informazioni da diverse fonti quali dizionari, enciclopedie e foglietti illustrativi dei farmaci era esperienza
comune di molti pazienti. I pazienti tendono a ricercare
informazioni in modo attivo, quando non si reputano soddisfatti delle informazioni ricevute (Ishak & Burt, 1998).
Il fatto che i pazienti non chiedano informazioni non
significa necessariamente che non desiderino riceverle; in
diverse circostanze i pazienti ammettono di non essere
stati preparati all’inizio, presumibilmente durante la fase
psicotica acuta, a ricevere informazioni, ma che successivamente le avrebbero ricevute di buon grado. Quando il
paziente percepisce un disagio da parte dello psichiatra
nel rispondere alle domande, si genera una barriera che
scoraggia il paziente nel suo intento e favorisce l’accrescersi di idee e credenze personali. Sebbene le idee personali e le conoscenze acquisite riguardo al proprio
disturbo, a volte anche mescolate con residui di sintomatologia positiva, non siano sempre facili da distinguere,
questa difficoltà comunicativa dovrebbe costituire uno
stimolo per aiutare il paziente a raggiungere l’insight di
malattia e non una ragione per ridurre lo scambio informativo su questo tema. La scarsa consapevolezza di
malattia è infatti uno dei fattori associati ad esiti clinici
modesti (Pallanti et al., 1999; Pini et al., 2001; Dell’Osso
et al., 2002; Hayashi et al., 1999), suggerendo l’utilità di
aiutare i pazienti a fare chiarezza sui vari aspetti per loro
ancora inspiegabili o comprensibili solo ricorrendo a teorie personali.
CONCLUSIONE
Tutti i pazienti che hanno partecipato ai nostri focus
group frequentavano il CSM di Verona-Sud ed erano in
cura da almeno tre anni. Non potevano comprendere perciò pazienti al loro primo episodio, per i quali il processo
informativo sul loro disturbo dovrebbe considerare altre
esigenze e implicare altri approcci (Birchwood, 2003;
Warner, 2005). Le nostre conclusioni riguardano perciò
solamente pazienti in una fase di malattia di relativo compenso, che partecipano alle attività riabilitative offerte da
un CSM. Nonostante le loro difficoltà cognitive e relazionali essi esprimevano una certa curiosità e tentavano
di dare un significato al proprio disturbo. Sulla base di
quanto emerso sembra che sia possibile affrontare il tema
della diagnosi anche con pazienti affetti da tempo da
disturbi gravi come la schizofrenia. I pazienti hanno
infatti partecipato con interesse e non si sono osservate
conseguenze negative in termini di peggioramento della
sintomatologia. I pazienti che durante gli incontri si erano
dimostrati più schivi successivamente hanno chiesto ulteriori informazioni riguardanti la propria malattia e si sono
informati su eventuali altri gruppi futuri.
La comunicazione carente rispetto alla diagnosi sembra attribuibile alla paura di stigmatizzazione che tuttora
circonda la diagnosi di schizofrenia (Paccaloni et al.,
2005). Il conseguente disagio da parte dello psichiatra
curante e del paziente rischia di rinforzare fenomeni noti
come la negazione di malattia, che può contribuire a una
adesione parziale o ad una non adesione ai programmi
terapeutici riabilitativi stabiliti (Sartorius, 1998). Inoltre,
le diagnosi comunicate tardivamente, scoperte attraverso
certificati o comunicate solo ai familiari, possano indebolire la fiducia del paziente verso il terapeuta.
In controtendenza, alcuni segnali in letteratura suggeriscono un crescente interesse per l’approfondimento di
tematiche, anche in psichiatria, come le aspettative del
paziente (Fleischmann, 2003; Blenkiron, 1998), la puntualità delle informazioni fornite (Wetterling &
Tessmann, 2000), l’empowerment (Fisher, 1994; Moser
et al., 2002; Roberts et al., 2002) ed il riconoscimento dei
pazienti come esperti della propria malattia (Wykurz &
Kelly, 2002).
Ringraziamenti. gli autori sono grati ai due anonimi referee per i
loro attenti commenti e utili suggerimenti.
RIASSUNTO. Scopi – Dalla letteratura emerge che spesso i pazienti psichiatrici non conoscono la propria diagnosi e che la partecipazione
del paziente alle decisioni terapeutiche è carente. Scopo di questo studio è di esplorare i bisogni informativi di pazienti con la diagnosi di
schizofrenia e le loro conoscenze sul loro disturbo. Metodi – Tre focus
group condotti con 25 pazienti affetti da schizofrenia, in cura presso il
Centro di Salute Mentale del Servizio Psichiatrico Territoriale di
Verona Sud. Le discussioni sono state audioregistrate e trascritte.
Risultati – 18 diverse categorie tematiche sono state identificate e utilizzate da due rater per classificare tutti i contributi dei pazienti, con un
buon accordo tra i rater. L’analisi qualitativa evidenziava la scarsa
conoscenza dei pazienti sul loro disturbo. Circa la schizofrenia i pazienti hanno idee confuse e approssimative, mentre quelle sui nomi dei farmaci, i dosaggi e gli effetti collaterali appaiono precise e dettagliate.
Diversi pazienti hanno attivamente cercato ulteriori informazioni su
libri, enciclopedie e dizionari medici. Conclusioni – I risultati indicano
Epidemiologia e Psichiatria Sociale, 15, 2, 2006
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M. Paccaloni et al.
un bisogno dei pazienti con la diagnosi di schizofrenia di uno scambio
informativo con i loro psichiatri curanti che tenga conto dei bisogni
individuali, corregga convinzioni erronee e che li coinvolga nelle decisioni terapeutiche.
PAROLE CHIAVE: schizofrenia; pazienti psichiatrici, comunicazione della diagnosi, bisogni informativi, aspettative, relazione medicopaziente.
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