Relativismo etico (Cornelio Nepote, praef. 1-2) Nella breve prefazione che apre il De excellentibus ducibus exterarum gentium (raccolta di biografie di condottieri stranieri, pressoché unica sezione superstite di un più ampio De viris illustribus), accanto alla dedica all’amico Attico, lo storico Cornelio Nepote (I a.C.) fa un’interessante professione di relativismo etico e culturale, che, se a noi moderni può apparire scontata, doveva invece suonare originale nel panorama della storiografia romana (ma non in quella greca). Muovendo dalla considerazione che i concetti di “moralmente onorevole” (honestum) e “moralmente turpe” (turpe) non sono identici per i Greci e i Romani, e che ogni civiltà si fonda su propri maiorum instituta (le tradizioni nazionali), lo storico invita i suoi lettori per così dire a “sprovincializzarsi”, ossia a giudicare le personalità e i comportamenti dei personaggi sullo sfondo e con il metro delle rispettive culture, aprendosi dunque all’apprezzamento di valori e tradizioni differenti dalla propria. Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse eum commode scienter que tibiis cantasse. Sed ii erunt fere, qui expertes litterarum Graecarum nihil rectum, nisi quod ipsorum moribus conveniat, putabunt. Hi si didicerint non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari, non admirabuntur nos in Graiorum virtutibus exponendis mores eorum secutos. Neque enim Cimoni fuit turpe, Atheniensium summo viro, sororem germanam habere in matrimonio, quippe cum cives eius eodem uterentur instituto. At id quidem nostris moribus nefas habetur. […] Contra ea pleraque nostris moribus sunt decora, quae apud illos turpia putantur. Quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium? Aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur? Quod multo fit aliter in Graecia. ● Guida alla traduzione Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse eum commode scienterque tibiis cantasse. Traduzione: «So bene, Attico, che saranno parecchi coloro i quali giudicheranno questo mio genere di scrittura storiografica leggero e indegno delle personalità di uomini illustri, quando vi leggeranno chi abbia insegnato a Epaminonda la musica o che vengono annoverate tra le sue qualità l’agilità nella danza e l’abilità nel suonare il flauto». In questo primo periodo, che mostra subito una certa ampiezza e complessità, lo scrittore confida al dedicatario dell’opera, Attico appunto (Attice, più noto come confidente e amico di Cicerone), le sue perplessità circa l’accoglienza e il giudizio non del tutto positivi che la sua opera potrà ricevere dal pubblico romano, evidentemente abituato a una storiografia dai contenuti più austeri e seri (si pensi all’antica tradizione annalistica) rispetto alla materia biografica trattata da Nepote. Ma veniamo all’analisi minuta del periodo. Contrariamente all’uso classico, la proposizione principale introdotta da non dubito (qui nella sua accezione di base comune anche all’italiano “non dubito” ma può essere resa con un verbo di opinione, come il nostro “so bene”) è seguita non già da una sostantiva con il quin e il congiuntivo ma da una frase infinitiva all’infinito futuro ( fore per futuros esse), decisamente più Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 1 N E P O T E comune quando dubito è impiegato nel senso di “esito” ( fore plerosque, lett. “ci saranno parecchie persone”, dove plerique è superlativo relativo dalla stessa radice comune al comparativo plures “di più” e al superlativo plurimi “moltissimi”). La relativa che segue, col modo congiuntivo al posto del’atteso indicativo (qui … iudicent), si configura come relativa impropria, molto frequente in latino (si pensi ai tipi inveniuntur qui “si trova chi”, est quod “c’è motivo per cui”), dove il congiuntivo, detto per questo caratterizzante, serve proprio a specificare le qualità che caratterizzano i plerique appena citati: costoro giudicheranno il genere biografico (hoc genus scripturae) cosa di poco conto (lĕve, lett. “leggero”, da non confondere con l’omografo lefve “liscio”) e indegno di personalità illustri (non satis dignum summorum virorum personis, dove si dovrà ricordare che la coppia di attributi dignus/indignus richiede l’ablativo strumentale, qui personis lett. “maschera” e per metonimia “personalità, carattere”). Il periodo prosegue poi con una temporale con il cum e l’indicativo futuro, da cui dipendono due infinitive oggettive che, avendo verbi di natura impersonale, reggono a loro volta due subordinate soggettive: la prima infinitiva (relatum, con esse sottinteso, è infinito perfetto impersonale di refero nell’accezione di “riferisco, tramando”), ha per soggetto l’interrogativa diretta quis … Epaminondam (dove spicca la costruzione di doceo con il doppio accusativo, della persona e della cosa insegnata). L’altra infinitiva (in eius virtutibus commemorari, da commemoro “menziono, cito”), coordinata dalla disgiuntiva aut, ha a sua volta per soggetto un’altra infinitiva: nella traduzione italiana bisognerà dunque prestare particolare attenzione a ripartire correttamente tra le varie proposizioni la sequenza dei tre infiniti (commemorari, saltasse, cantasse). Venendo agli ultimi due, si noterà che il pronome soggetto eum (riferito a Epaminonda) si riferisce tanto a saltasse … commode (infinito perfetto di salto, -aˉ re “danzo”, derivato cosiddetto “frequentativo” del semplice salio, -jre “faccio salti”) quanto a scienterque tibiis cantasse (dove canto, derivato del semplice cano “canto” e specializzatosi nell’accezione di “suonare”, si accompagna qui all’ablativo strumentale dello strumento musicale, tibiis, da tibia “flauto”): quanto alla resa italiana, sarà bene alleggerire il dettato latino, appesantito da tanti predicati, optando per più snelle forme nominali (“agilità nella danza”, “abilità nel suonare il flauto”). Sed ii erunt fere, qui expertes litterarum Graecarum nihil rectum, nisi quod ipsorum moribus conveniat, putabunt. Traduzione: «Ma saranno forse quelli che, digiuni di cultura greca, riterranno che nulla sia apprezzabile a meno che non si conformi ai propri personali costumi». In questo secondo periodo, Nepote mette a fuoco un po’ meglio le ragioni che potranno indurre alcuni lettori a disprezzare il suo lavoro e ne individua anzitutto due: l’ignoranza della cultura greca (expertes litteraum Graecarum, attributo predicativo del pronome relativo soggetto qui, dove il pluarle litterae indica l’insieme della cultura letteraria di un popolo) e la chiusura verso costumi (mores) differenti dai propri. Sul versante sintattico sarà utile osservare che la frase relativa che incontriamo subito dopo la principale (ii … qui … putabunt) è solo apparentemente simile a quella del periodo precedente ( fore plerosque … qui iudicent): lì il congiuntivo, modo della soggettività, caratterizzava una qualità, qui l’indicativo, modo dell’oggettività, constata una realtà di fatto. Da ultimo, si noti l’inserzione, all’interno della relativa stessa, di una seconda frase relativa (nisi quod), che riprende il nihil rectum della sovraordinata: la relativa presenta qui il congiuntivo perché dotata di una sfumatura eventuale (lett. “se non ciò che eventualmente si conformi”), cui contribuisce anche la congiunzione ipotetica nisi “se non” che precede il pronome (rispetto a si non, normale per introdurre protasi negative, nisi ricorre con valore “esclusivo” soprattutto in nessi quali nisi quod “eccetto che”, nisi si “a meno che”, moriar nisi “possa morire se non”). 2 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna Hi si didicerint non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari, non admirabuntur nos in Graiorum virtutibus exponendis mores eorum secutos. Traduzione: «Ma quando costoro avranno appreso che i concetti di “onestà” e di “disonore” morale non sono identici per tutti e che ogni comportamento deve essere valutato sulla base delle tradizioni patrie, non si stupiranno del fatto che, nell’esporre le virtù dei Greci, io abbia tenuto conto delle loro usanze». Con questo terzo periodo riusciamo a farci un’idea più chiara dei due nodi concettuali sottesi alle dichiarazioni di Nepote: da una parte, l’intrinseca diversità dei mores (termine chiave del lessico e della mentalità romana indicante i “costumi”, le “usanze”, tramandate attraverso le generazioni), dall’altra il ruolo centrale che i Romani assegnano all’honestum (“azione onorevole”, in quanto conferisce onore, honor, e rispetto a chi la compie), e al suo contrario, il turpe (“azione vergognosa”, che getta infamia e disonora), rispettivamente identificati con il “bene” e il “male” per eccellenza. Sintatticamente l’enunciato si presenta come un periodo ipotetico dell’oggettività al futuro (dove il futuro anteriore nella protasi esprime anteriorità rispetto al futuro semplice nell’apodosi), col corredo di alcune infinitive oggettive: dal verbo della protasi (didicerint, dal tema del perfetto raddoppiato di disco, -ere) dipendono le prime due subordinate all’infinito presente (non eadem omnibus esse honesta atque turpia lett. “non per tutti sono onorevoli e turpi gli stessi comportamenti”, e omnia maiorum institutis iudicari, dove la locuzione maiorum institutis lett. “le consuetudini degli antenati”, andrà interpretata come ablativo strumentale che indica il mezzo con cui occorre iudicare i singoli comportamenti); dal verbo dell’apodosi, admirabuntur dipende invece l’infinitiva nos … secutos (con normale ellissi di esse e il participio perfetto di sequor usato in funzione predicativa; nos è plurale maiestatis), che contiene a sua volta una subordinata implicita con in e l’ablativo plurale virtutibus accompagnato dal gerundivo (da tradurre come se virtutes fosse complemento oggetto del predicato exponere lett. “mettere fuori”, quindi “raccontare, narrare”). Neque enim Cimoni fuit turpe, Atheniensium summo viro, sororem germanam habere in matrimonio, quippe cum cives eius eodem uterentur instituto. At id quidem nostris moribus nefas habetur. Traduzione: «Difatti non era motivo di vergogna per Cimone, illustrissimo Ateniese, avere per moglie la sorella germana, dal momento che i suoi concittadini seguivano la stessa usanza. Viceversa questa pratica, secondo i nostri costumi, è ritenuta illegittima». Questi due periodi segnano il trapasso dall’esposizione teorica all’esemplificazione concreta: il primo exemplum riguarda un Ateniese illustre (Atheniensium summo uiro, con il consueto genitivo partitivo a determinare il superlativo summus), Cimone, per il quale non costituì motivo di infamia (neque enim Cimoni fuit turpe, proposizione principale) l’unirsi in matrimonio con sua sorella (l’infinito habere, corredato dal complemento oggetto sororem germanam, “la sorella nata dagli stessi genitori”, costituisce il soggetto del verbo della reggente, ed è quindi concordato l’attributo neutro). Questo perché si trattava di un’ usanza abituale nella civitas ateniese: nella causale con il cum e il congiuntivo – qui rafforzata dalla particella asseverativa quippe “appunto, infatti” – occorrerà riflettere bene circa la resa, che non potrà essere letterale, del deponente utor (lett. “usare”) in unione all’ablativo strumentale (eodem … instituto), come nelle locuzioni formulari aliquo magistro uti “avere qualcuno per maestro”, aliquo familiariter uti “avere rapporti amichevoli con qualcuno”. Al contrario - precisa l’autore – questa stessa condotta, agli occhi dei Romani (nostris moribus, ablativo di limitazione) è considerata (habetur, da habeo, qui al passivo nell’accezione di “stimare, considerare”) nefas, “illegittima” (ma si ricordi che l’aggettivo, proprio del lessico religioso come il suo contrario fas, descrive anzitutto un comportamento “empio”, “sacrilego”, in quanto contrario alle norme religiose). Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 3 N E P O T E Contra ea pleraque nostris moribus sunt decora, quae apud illos turpia putantur. Quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium? Aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur? Quod multo fit aliter in Graecia. Traduzione: «[…] Al contrario moltissimi sono i comportamenti secondo i nostri costumi virtuosi che invece, presso di loro, sono reputati infamanti. Chi fra i Romani si vergogna a condurre la moglie ad un banchetto? O quale matrona romana evita l’atrio della casa o di farsi vedere in mezzo alla gente? In Grecia invece le cose sono molto diverse». In questi ultimi quattro periodi, con cui si conclude il nostro brano, Nepote continua ad esemplificare il principio generale già enunciato in precedenza (diversità dei mores e quindi dei giudizi morali sulla condotta dei singoli). Spostandosi sul versante, a lui più familiare, della società romana, l’autore riconosce che moltissimi comportamenti, accettati e giudicati onorevoli a Roma (l’attributo honestum, impiegato in precedenza, è qui sostituito dal sinonimo decprus, -a, -um, “confacente, decoroso” e in senso morale “onorevole”, da una radice dec- comune a decet, decor, -oris etc.), potranno apparire infamanti (turpia) agli occhi di un greco (relativa al modo indicativo quae apud illos turpia putantur, con forte antitesi tra il dimostrativo illos, riferito ai Greci, e l’aggettivo possessivo nostris della sovraordinata). I due exempla romani, entrambi tratti dalla vita familiare e domestica, occupano due frasi interrogative dirette, introdotte da pronomi interrogativi (quem e cuius, vd. infra) e con il modo indicativo. La prima chiama in causa il diritto concesso alle donne romane di partecipare, alla pari degli uomini, a banchetti e situazioni conviviali (convivium), che avevano normalmente sede nel cosiddetto triclinium (la sala da pranzo con tre letti-divani disposti intorno ad una tavola): sotto il profilo sintattico è bene ricordare che il verbo impersonale pudet richiede l’accusativo della persona che prova il sentimento (quem, seguito dal genitivo partitivo Romanorum), mentre la cosa di cui ci si vergogna (che in realtà si configura come soggetto di pudet) prende la forma di una frase sostantiva, qui rappresentata dall’infinito ducere (uxorem in convivium). Altre voci appartenenti al lessico familiare e architettonico si trovano nelle due interrogative coordinate che seguono, dove si accenna all’uso, per la mater familias (locuzione formulare di uso comune dove familias è genitivo arcaico della I declinazione in luogo del normale familiae), di frequentare liberamente gli spazi più esterni (primum locum tenet) della domus romana (qui identificata col sinonimo aedes, -ium lett. “insieme di stanze”, spesso impiegato nell’accezione tecnica di “tempio, spazio religioso”): che l’autore abbia qui in mente l’atrium – il “cortile” semi-scoperto che costituiva il luogo di accesso della casa romana e come tale destinato alla socialità e al contatto con gli estranei – è confermato anche dalla locuzione in celebritate versatur (lett. “si aggira continuamente tra la folla”, dove celebritas, -btis è astratto di qualità da celeber, -is, -e “affollato”, e verso, -bre, derivato frequentativo di verto, -ere, ricorre nell’accezione medio-passiva di “partecipare, trovarsi, prendere parte”, comunemente con in e ablativo). Infine, nell’ultimo periodo, costituito da un unico enunciato, riconosciamo il costrutto del nesso relativo, dove il pronome neutro quod, riferito a quanto appena detto, potrà essere sciolto, nella traduzione, con una congiunzione coordinante (in questo caso avversativa) e un pronome dimostrativo: lett. “e questo invece avviene (fit, dal fio, qui impiegato col valore intransitivo di “avviene, accade”, proprio della 3 p. singolare e plurale) in Grecia in modo molto differente (multo, ablativo di misura, determina l’avverbio di modo aliter)”. 4 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna La giustificazione della filosofia (Cicerone, nat. deor. 1, 7-8) Roma, 45 a.C. La trionfale ascesa dell’astro di Cesare sulla scena politica e alcune dolorose vicende personali (in particolare la morte dell’amatissima figlia Tullia), inducono l’oratore ed ex-console ad abbandonare definitivamente l’agone politico, ormai di fatto assimilato ad una tirannide (unius consilio atque cura), e ad abbracciare una vita all’insegna dell’otium, inteso come disimpegno politico e libertà dagli incarichi di governo. Alla ricerca di uno spazio alternativo in cui poter ugualmente giovare alla res publica, Cicerone torna al suo antico amore, lo studio della philosophia greca, questa volta con l’ambizioso proposito di divulgarla in lingua latina e renderla così accessibile e meno sospetta ai Romani colti, per natura restii alla speculazione. Questa impresa significò per l’Arpinate un duplice successo, pubblico e privato: per un verso, l’orgoglio di avere arricchito, se non creato, il lessico filosofico latino, in una gara a distanza con la lingua greca (ut a Graecis ne verborum quidem copia vinceremur), per l’altro la certezza di trovare nella sapientia greca un sicuro conforto (levationem reperire) alla propria aegritudo animi. Il nostro passo proviene dal De natura deorum, trattato in forma dialogica che costituisce, insieme al De fato e al De divinatione, una trilogia interamente dedicata a questioni teologiche. Nam cum otio langueremus et is esset rei publicae status ut eam unius consilio atque cura gubernari necesse esset, primum ipsius rei publicae causa philosophiam nostris hominibus explicandam putavi, magni existimans interesse ad decus et ad laudem civitatis res tam gravis tamque praeclaras Latinis etiam litteris contineri. Eoque me minus instituti mei paenitet, quod facile sentio quam multorum non modo discendi sed etiam scribendi studia commoverim. Complures enim Graecis institutionibus eruditi ea quae didicerant cum civibus suis communicare non poterant, quod illa quae a Graecis accepissent Latine dici posse diffiderent; quo in genere tantum profecisse videmur, ut a Graecis ne verborum quidem copia vinceremur. Hortata etiam est ut me ad haec conferrem animi aegritudo fortunae magna et gravi commota iniuria; cuius si maiorem aliquam levationem reperire potuissem, non ad hanc potissimum confugissem. ● Guida alla traduzione Nam cum otio langueremus et is esset rei publicae status ut eam unius consilio atque cura gubernari necesse esset, primum ipsius rei publicae causa philosophiam nostris hominibus explicandam putavi, magni existimans interesse ad decus et ad laudem civitatis res tam gravis tamque praeclaras Latinis etiam litteris contineri. Traduzione: «Poiché stavo attraversando un periodo di forzata inattività politica e le condizioni dello stato erano tali da rendere inevitabile che esso fosse guidato dalla mente direttiva di un solo individuo, ritenni, anzitutto per il bene stesso dello Stato, di dovere illustrare la filosofia ai miei concittadini, convinto del fatto che molto onore e lustro avrebbe recato alla comunità se questioni tanto serie e rilevanti fossero entrate a far parte della letteratura latina». Questo primo periodo, abbastanza lungo e internamente articolato in ben nove proposizioni, tra principali e subordinate (esplicite e implicite), presenta già in sintesi tutte le parole chiave del nostro passo (otium, res publica, philosophiam … explicandam, decus … laus civitatis, Latinae litterae). Anzitutto i temi politici dell’otium (“disimpegno”) e del rei publicae status (“condizione dello Stato”), cui sono dedicate le due subordinate iniziali con il cum e il congiuntivo imperfetto (cum narrativo, a metà tra il valore Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 1 C I C E R O N E temporale e quello causale, “mentre” o “per il fatto che”), funzionali a descrivere le circostanze che fanno da sfondo alla decisione di Cicerone (putavi è il verbo della principale, di qui l’uso dell’imperfetto congiuntivo per la contemporaneità nel passato). Lo stato di “inerzia”, di “languore” connesso alla forzata inattività politica di chi scrive (cum langueremus, da langueo, -fre, indicante un intorpidimento, in questo caso mentale, generato dall’otium, ablativo di causa) e l’effettiva condizione della res publica, fatalmente asservita alla volontà di un singolo uomo (unius consilium atque cura, lett. “decisione” e “gestione, direzione”, coppia di termini che sarebbe bene rendere in italiano con un concetto unitario, trattandosi della figura retorica dell’endiadi), nel quale si dovrà riconoscere Giulio Cesare, suscitano nell’oratore un nuovo proposito (la consecutiva all’imperfetto ut … necesse esset, dall’impersonale necesse est “è inevitabile”, “è fatale”, “regge” l’infinitiva con valore soggettivo eam … gubernari, dove guberno, -bre lett. “governo, guido” una nave, è impiegato qui nell’accezione traslata di “amministrare” la cosa pubblica): Cicerone si ripromette di giovare allo stato (rei publicae causb, dove riconosciamo l’ablativo causb determinato dal genitivo, preposto, con valore finale) tramite la diffusione della filosofia greca (il verbo di opinione della principale, putavi, è determinato da un’infinitiva oggettiva contenete una perifrastica passiva con il gerundivo explicandam, da explico, -bre lett. “svolgo, dispiego”, e quindi “espongo, spiego”, da legare al soggetto philosophiam, e il verbo esse, qui sottinteso). A chiarire le ragioni di questa scelta viene il participio congiunto existimans (connesso ancora al soggetto di putavi), che potremo rendere indifferentemente con un gerundio, “ritenendo”, o una subordinata causale esplicita (“poiché, dal momento che”). Sul piano sintattico, qualche difficoltà può venire dal fatto che al participio existimans tengono dietro due infiniti (interesse e contineri): tuttavia, trattandosi dell’impersonale interest (3 p.sing. di intersum nel senso di “importa”, cfr. anche refert), qui normalmente accompagnato da un genitivo avverbiale di stima (magni) e dalla locuzione con ad e l’accusativo ad esprimere destinazione (ad decus et laudem civitatis lett. “per l’onore e la buona fama della cittadinanza”), sarà inevitabile che da interesse dipenda, con funzione soggettiva, l’infinitiva successiva, res tam gravis … contineri (ossia la trasposizione latinis litteris, vale a dire “nella letteratura in lingua latina”, di temi così seri, graves, e importanti, praeclaras, contribuirà a dar lustro alla civitas romana). Eoque me minus instituti mei paenitet, quod facile sentio quam multorum non modo discendi sed etiam scribendi studia commoverim. Traduzione: «Tanto meno mi pento della mia decisione in quanto ben mi accorgo delle tante persone nelle quali ho suscitato il desiderio non solo di conoscere ma anche di scrivere». A ulteriore conferma della bontà della propria iniziativa (institutum meum, participio neutro sostantivato da instituo, -ere “fisso, stabilisco”, qui al genitivo perché retto da paenitet, vd. infra), Cicerone si vanta di avere indotto molti dei suoi concittadini (multorum) a cimentarsi non solo nell’apprendimento teorico (discere) della materia filosofica ma anche nella scrittura originale (scribere). Sotto il profilo dell’architettura sintattica il periodo si compone di una principale, dove occorre riconoscere la costruzione dell’impersonale paenitet (lett. “pentirsi”), con l’accusativo della persona (me) e il genitivo della cosa (instituti mei) nei riguardi della quale si prova il sentimento: segue poi una causale con il quod e l’indicativo (anticipata nella sovraordinata dall’avverbio prolettico eo “per questo… per il fatto che”, da non confondere con l’omografo eo “vado” e l’avverbio di moto a luogo “verso là”), dove il presente del verbo di percezione sentio, -jre giustifica l’interrogativa indiretta al congiuntivo perfetto quam multorum … studia commoverim (lett. “l’interesse di quanti ho suscitato”). Considerato che il complemento oggetto studia (da studium “interesse, passione”, qui al plurale perché Cicerone pensa ai multi) è a sua volta determinato da due gerundi al genitivo oggettivo (discendi e scribendi) ne consegue che nella resa italiana sarà impossibile mantenere lo stesso giro sintattico del latino. 2 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna Complures enim Graecis institutionibus eruditi ea quae didicerant cum civibus suis communicare non poterant, quod illa quae a Graecis accepissent Latine dici posse diffiderent; quo in genere tantum profecisse videmur, ut a Graecis ne verborum quidem copia vinceremur. Traduzione: «Parecchi, infatti, benchè intrisi di cultura greca, non erano in grado di condividere il frutto del proprio studio con i propri concittadini, poiché avevano scarsa fiducia nella possibilità di esprimere in lingua latina i concetti appresi dai Greci: sotto questo aspetto ci sembra di avere fatto progressi tali da non lasciarci superare dai Greci nemmeno quanto a ricchezza lessicale». L’accenno al motivo dello studium scribendi fatto nel periodo precedente – vale a dire alla possibilità che anche i Romani, sull’esempio di Cicerone, si dedicassero alla scrittura in proprio di opere filosofiche in lingua latina – viene ripreso e sviluppato (enim, congiunzione coordinante dichiarativa) in questi due periodi. L’Arpinate ricorda, con una buona dose di orgoglio, che i Romani, anche quelli più esperti di cultura greca (al participio con valore aggettivale eruditi, riferito al soggetto della principale complures e a sua volta determinato dall’ablativo strumentale Graecis institutionibus, si potrà dare una sfumatura concessiva) sono rimasti a lungo nell’impossibilità di divulgare (communicare non poterant) i concetti appresi sui testi greci (ea quae didicerant, relativa all’indicativo, al più che perfetto di disco, -ere “apprendo”) per via dell’assenza di uno strumento linguistico adeguato, vale a dire di un vocabolario filosofico: sul piano sintattico è bene notare e seguire con attenzione l’andamento “a incastro” tipico del periodare ciceroniano, dove la causale soggettiva al congiuntivo quod …. diffiderent (dal semideponente diffido, -ere, lett. “poiché disperavano del fatto che”, la causa è espressa dal punto di vista dei Romani stessi) racchiude al suo interno l’infinitiva oggettiva illa … dici posse, che a sua volta contiene la proposizione relativa quae a Graecis accepissent (lett. “ciò che avessero appreso”, dove il congiuntivo più che perfetto, dotato di una sfumatura di eventualità, è qui dovuto alla cosiddetta “attrazione modale”, perché inserito in un contesto di soggettività). L’orgoglio di Cicerone per avere creato ex novo un lessico filosofico latino – soprattutto per il tramite della traduzione dei testi greci, benché non sia esplicitato nel testo – lo induce ad un’affermazione iperbolica e tutto sommato lontana dalla verità, secondo cui la lingua latina non sarebbe più inferiore a quella greca quanto a copia verborum, ossia a “ricchezza di vocabolario”: la sovraordinata introdotta dal nesso relativo quo in genere (si badi alla costruzione personale di videor “sembro” con il nominativo e l’infinito perfetto profecisse da proficio, -ere “avanzo”, e quindi “faccio progressi”) introduce la consecutiva ut … vinceremur (dove l’avverbio ne … quidem che incornicia l’ablativo di limitazione copia verborum, “nemmeno quanto a ricchezza lessicale”, insinua maliziosamente l’idea che sotto tutti gli altri riguardi i Romani avessero già colmato il gap culturale con la più nobile e antica Grecia). Hortata etiam est ut me ad haec conferrem animi aegritudo fortunae magna et gravi commota iniuria; cuius si maiorem aliquam levationem reperire potuissem, non ad hanc potissimum confugissem. Traduzione: «A indurmi a questa attività fu altresì la sofferenza interiore provocatami da una grave disgrazia; se avessi potuto trovarvi un sollievo più efficace, di certo non mi sarei risolto a questo». Dopo il piano politico e pubblico, è la volta di quello personale e interiore (etiam). In questo ultimo enunciato infatti, formalmente costituito da due periodi, Cicerone precisa che fu la sua aegritudo animi (astratto di qualità dall’attributo aeger, -gra, -grum “malato, nel corpo e nell’anima, da cui il senso di “malattia dell’anima”) a indurlo agli studi filosofici (dal verbo della sovraordinata hortata est, dipende la completiva volitiva con valore oggettivo ut me conferrem, dove confero, in unione col pronome personale me, ricorre nel senso riflessivo di “dedicarsi, volgersi a”, con ad e l’accusativo del dimostrativo neutro haec, lett. “queste cose”). A completare la struttura del periodo viene poi il sintagma fortunae magna et gravi commota iniuria, dove il participio femminile commota (da commoveo, Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 3 C I C E R O N E -fre nell’accezione di “induco, provoco, suscito”) è da legare al soggetto aegritudo animi, a sua volta determinato dall’ablativo (causa efficiente) fortunae magna et gravi … iniuria: benché non sia chiarito espressamente, il riferimento all’iniuria della sorte (dove il termine giuridico iniuria, lett. “condotta contraria alla legge”, andrà qui interpretato nell’accezione più ampia di “offesa, torto”, con il genitivo soggettivo fortunae) rimanda con ogni probabilità alla perdita dell’amatissima figlia Tullia, avvenuta appunto nel febbraio del 45 a.C. L’enunciato conclusivo è sintatticamente strutturato come periodo ipotetico dell’irrealtà nel passato e presenta dunque regolarmente il congiuntivo più che perfetto (laddove l’imperfetto è normalmente riservato all’irrealtà nel presente) sia nella protasi (si reperire potuissem) che nell’apodosi (non … confugissem). Sul piano concettuale l’enunciato contiene la definizione degli studi filosofici come levatio, -pnis, vale a dire “conforto, sollievo” (astratto verbale da levo, -bre, “sollevare”, e “confortare”, da non confondersi con l’omografo lfvare “levigare”) rispetto all’aegritudo animi della frase precedente: il termine è infatti ripreso ad inizio di periodo dal pronome relativo cuius, nesso relativo con funzione di genitivo oggettivo rispetto al complemento oggetto levationem (lett. “alla quale sofferenza interiore se avessi potuto trovare un rimedio più efficace”, da sciogliere nella traduzione con un nesso coordinante). 4 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna Il tempo e la saggezza (Seneca, brev. 1) È un Seneca deluso e amareggiato quello che, forse all’indomani del ritorno dall’esilio in Corsica (49 a., ma la cronologia delle opere senecane è incerta), dedica all’amico Paolino, funzionario imperiale, un’opera incentrata sul problema del tempo e della sua irrevocabile fuga (temi esistenziali cari alla filosofia stoica cui aderiva Seneca). Sin dal suo esordio, da cui è tratto il nostro brano, filo conduttore dell’opera si rivela l’uso del tempo come “banco di prova della saggezza, come la linea che discrimina chi non sa e chi sa vivere” (A. Traina): di qui la martellante antitesi, continuamente ribadita nel proseguo del testo, tra la massa degli occupati, ossia “i perditempo”, schiavi di mille occupazioni inutili, e la figura del sapiens, il saggio stoico che conosce il valore del tempo e sa concentrarsi sul presente, realizzando in ogni momento il suo perfezionamento morale. Se la vita ci sembra breve – ammonisce Seneca – non è responsabile la natura, immeritevole dei rimproveri che le rivolgono gli uomini, anche i più saggi (il medico Ippocrate, il filosofo Aristotele, vd. infra): colpevole è invece l’umanità, che si lascia scorrere via la vita dalle mani (vita … diffluit) e ne riconosce il valore quando ormai è troppo tardi. Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignamur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens volgus ingemuit; clarorum quoque virorum hic affectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est: “vitam brevem esse, longam artem”; inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis: “aetatis illam animalibus tantum indulsisse, ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare”. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei inpenditur, ultima demum necessitate cogente quam ire non intelleximus transisse sentimus. ● Guida alla traduzione Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignamur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Traduzione: «La maggior parte degli uomini, Paolino, si lamenta dell’ingenerosità della natura, perché siamo generati per un breve lasso di tempo, perché gli spazi del tempo che ci è concesso scorrono in modo tanto veloce e rapinoso che, eccetto pochissimi, la vita abbandona tutti gli altri proprio nel momento in cui si dispongono a vivere». In questo primo periodo, internamente strutturato in quattro proposizioni, una principale (maior pars mortalium … conqueritur) e tre subordinate (due introdotte da quod e una da adeo ut), Seneca mette subito a fuoco il tema che gli sta a cuore: la maggioranza degli uomini (maior pars mortalium, dove mortales, qui al genitivo partitivo dopo nome indicante quantità, è vocabolo di uso poetico che sottolinea, meglio del semplice homines, la provvisorietà dell’esistenza) è solita lamentarsi (conqueritur, composto del deponente queror col preverbo cum- che gli conferisce valore sociativo “si lamentano collettivamente, insieme”, quasi un coro di proteste; vd. il sostantivo corradicale querella, “lamentela, Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 1 S E N E C A rimprovero” impiegato poche righe più avanti) dell’avarizia, o meglio dell’ingenerosità della natura che li mette al mondo (questa infatti l’accezione prima dell’astratto malignitas, -btis, qui in ablativo retto da de con funzione di argomento). Gli argomenti di questa querella vengono poi chiariti dalle due proposizioni subordinate introdotte da quod (dove il valore dichiarativo “del fatto che” sconfina in quello causale “perché”), qui accostate, secondo uno schema tipicamente senecano, tramite l’anafora del connettivo (e quindi paratatticamente, ossia senza l’impiego di congiunzioni copulative quali et, atque o simili): il primo motivo risiede nell’esiguità della vita alla quale tutti noi siamo destinati, o, più precisamente, “generati” (quod … gignimur, con verbo all’indicativo in diatesi passiva; si noti in particolare il valore di destinazione proprio di in con l’accusativo nella locuzione exiguum aevi, dove aevi, da aevum “tempo”, e qui precisamente “tempo della vita umana”, è ancora genitivo partitivo retto dall’aggettivo neutro sostantivato exiguum). Secondariamente, le rimostranze degli uomini si appuntano tanto sulla velocità (tam velociter) quanto sulla rapinosa violenza (tam rapide, avverbio dalla radice di rapio, da cui l’idea di un moto vorticoso e travolgente, assente nell’italiano “rapidamente”) con cui il nostro tempo (dati nobis temporis spatia, lett. “gli spazi del tempo a noi concesso”) ci appare scorrere via, simile ad un flusso d’acqua che precipita a valle (questo propriamente il senso di decurrant, composto di curro col prefisso de- che può esprimere, tra l’altro, moto dall’alto verso il basso). Sul versante sintattico e stilistico, va notata in particolare la variazione nell’uso dei modi nelle due proposioni dichiarative, rispettivamente all’indicativo e al congiuntivo (senza sostanziale differenza ai fini della resa in italiano): posto che entrambi sono ammessi con la congiunzione quod, il passaggio al congiuntivo (obliquo), si può spiegare con una minore certezza da parte di chi scrive, ma non si può nemmeno escludere una semplice ricerca di variatio con la frase precedente, del tutto normali in un autore anticlassico come Seneca. Il periodo trova infine compimento nella subordinata consecutiva introdotta da adeo ut, agevole da identificare anche per la presenza, nella sovraordinata, degli avverbi correlativi tam … tam (regolari davanti ad avverbi e aggettivi): ebbene la vita, soggetto grammaticale della frase, è qui personificata e colta da Seneca nell’atto di “abbandonare”, “piantare in asso” gli uomini (destituat, composto apofonico da de e statuo, -ere), con l’eccezione di pochissimi (exceptis admodum paucis, ablativo assoluto da excipio, -ere “prendo fuori”), paradossalmente, proprio nel momento in cui questi sarebbero finalmente pronti per iniziare a vivere (in ipso vitae apparatu, dove apparatus, -us, astratto verbale di apparo, -bre, qui rafforzato da ipse “proprio lui e non un altro, lui in persona”, con valore oppositivo, andrà inteso nella sua accezione di base di “preparazione”, e non già in quella derivata di “lusso, magnificenza”). Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens volgus ingemuit; clarorum quoque virorum hic affectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est: “vitam brevem esse, longam artem”; inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis: “aetatis illam animalibus tantum indulsisse, ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare”. Traduzione: «E di questa sciagura, creduta comune, non si è addolorata soltanto la folla ed il volgo sciocco: questo sentimento ha suscitato le proteste anche di uomini illustri. Di qui (viene) l’esclamazione del più grande fra i medici, secondo cui la vita è breve, lunga invece l’arte; di qui la contesa, sconveniente per un saggio, di Aristotele che disputa con la natura perché essa ha permesso agli animali di vivere cinque o dieci generazioni mentre all’uomo, destinato a tante e tanto grandi cose, è dato un termine molto più breve». Nei due periodi che seguono, qui accorpati nell’analisi per omogeneità di contenuto, Seneca prende sempre più le distanze dall’opinio communis (si veda soprattutto l’inciso parentetico ut opinantur lett. “come credono”) e ci ricorda altresì una circostanza sorprendente. A lamentarsi per la presunta disgrazia capitata al genere umano (ingemuit, perfetto del verbo incoativo ingemesco, -ere nell’accezione intransitiva di “dolersi per, lamentarsi a causa di”, qui costruito col dativo huic 2 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna publico …. malo, dove l’attributo publicus “comune a tutti”, è sua volta attenuato da ut opinantur) non è soltanto la folla, la massa indistinta degli uomini sciocchi e incolti (turba e vulgus imprudens, termini che in Seneca ricorrono sempre con accezione dispregiativa, di contro a populus, “comunità politica” giuridicamenrte fondata nella res publica). Difatti, persino uomini illustri e di profonda cultura (clarorum quoque virorum, nel testo al genitivo perché determina querellas, a sua volta complemento oggetto del perfetto evocavit, lett. “fece venir fuori”, qui “ha suscitato, provocato”) hanno condiviso con il volgo ignorante questo ingiusto stato d’animo (affectus, -us, astratto verbale di afficio, -ere indicante in generale una certa “disposizione, condizione”, fisica o mentale, e qui connotato negativamente per via del suo carattere irrazionale). Che il primo di questi due clari viri menzionati da Seneca sia da identificare con Ippocrate, celebre medico greco del V sec. a.C., lo si può ricavare agevolmente dalla definizione maximi medicorum (il genitivo maximi - a sua volta determinato, in quanto superlativo, dal partitivo medicorum “il più grande tra i medici” - si spiega perché determina l’astratto verbale exclamatio, -pnis “esclamazione”, qui più esattamente “detto sentenzioso”, con l’aggiunta enfatica del dimostrativo illa “quel famoso”): del padre della moderna scienza medica Seneca riporta un motto, evidentemente proverbiale, nella forma della frase infinitiva vitam brevem esse, longam artem (dove si noti quella studiata disposizione dei sostantivi e degli attributi che in termini retorici prende il nome di chiasmo). Analogamente, il secondo clarus vir, identificato con il filosofo greco Aristotele (IV sec. a.C., fondatore della scuola peripatetica), è indicato quale esempio negativo per avere intentato una sorta di processo alla natura (lis, -tis, termine tecnico della lingua giuridica indicante la “causa, controversia giudiziaria”, e più genericamente il “litigio”, la “disputa”), condotta indegna di un uomo della sua levatura; sul piano sintattico e dell’ordo verborum, un’indubbia difficoltà risiede nel fatto che soggetto grammaticale della frase – per altro ellittica del verbo “essere” che dovremo reintegrare nella traduzione - è proprio il sostantivo lis, -tis posto a conclusione di periodo, mentre i gruppi sintattici che precedono sono ora espansioni del genitivo possessivo Aristotelis (con cui concorda il participio attributivo cum rerum natura exigentis, da exigo, -ere , lett. “spingo fuori, allontano”, qui nell’accezione derivata di “discuto, dibatto”, coerente con il cum e l’ablativo), ora attributi del soggetto stesso (minime conveniens sapienti viro, dove il dativo sapienti viro è giustificato dal participio attributivo conveniens “opportuno”, riferito a lis). Il contenuto dei rimproveri aristotelici alla natura viene poi esplicitato dalle due proposizioni infinitive seguenti in funzione epesegetica – in quanto riprendono e spiegano il termine generico lis – che nella traduzione sarà bene rendere come enunciati indipendenti. Alle due infinitive coordinate tramite asindeto avversativo (che sarà bene esplicitare nella resa italiana tramite una congiunzione avversativa, “invece”, “mentre” ) è affidato il nucleo della protesta aristotelica: la natura risulterebbe assai più generosa e indulgente con gli animali che non con gli uomini (illam, riferito alla natura, è soggetto di indulsisse, infinito perfetto di indulgeo, -fre qui impiegato non nel suo primo valore di “favorisco, sono indulgente” ma in quello transitivo di “concedo”, avendo per oggetto la locuzione partitiva tantum aetatis, lett. “ha concesso tanto di vita”), in quanto ai primi è stato concesso di vivere attraverso più generazioni (così la consecutiva ut quina aut dena seacula educerent, dove educere indica propriamente l’atto di “vivere, svolgere fino in fondo” i saecula, “le generazioni”, qui determinato dai numerali distributivi quina “cinque alla volta” e dena “dieci alla volta”). Per l’uomo invece, che pure è generato per compiere grandi cose (col dativo homini si accorda il participio perfetto congiunto genito, da gigno, -ere “genero”, a sua volta determinato dalla locuzione finale con in e l’accusativo), è fissato un limite (terminum stare, dove sto, -bre sottolinea proprio la fissità e l’immobilità, di contro al suo corradicale sisto, -ere “mi fermo”, esprimente un’azione dinamica) che appare tanto più breve (lett. “tanto più al di qua”, tanto citeriorem, dove tanto è ablativo di misura che determina il comparativo citerior). Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 3 S E N E C A Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Traduzione: «Non abbiamo poco tempo, ma molto ne abbiamo perduto». La replica di Seneca alle accuse rivolte alla natura inizia con un enunciato assai semplice e lineare sul piano sintattico (la tipica sententia senecana), ma tutto giocato sulle opposizioni lessicali, sia dei nomi (gli aggettivi antitetici exiguum / multum, entrambi determinati dal partitivo temporis) che soprattutto dei verbi: qui l’antitesi è anzitutto temporale, tra il presente habemus e il perfetto perdidimus (da perdo, -ere “mando in rovina”, qui “dissipo, sciupo”; cfr. l’intransitivo pereo, -fre “vado in rovina”), che conserva qui appieno il suo valore resultativo, esprimendo gli effetti perduranti nel presente di un’azione conclusa nel passato. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur. Traduzione: «Abbastanza lunga è la vita e concessa in abbondanza per portare a termine le imprese più grandi, se fosse fatta fruttare bene nella sua interezza». L’arringa difensiva di Seneca continua, approdando a conclusioni diametralmente opposte rispetto alle accuse formulate dagli uomini: la vita umana, infatti, è in realtà abbastanza lunga e tale da permettere il compimento di tutto ciò che desideriamo (consummatio, -onis è infatti astratto verbale indicante anzitutto la “somma”, il “calcolo”, e, secondariamente, il “compimento”, “l’esecuzione”, in accordo con la semantica del verbo consummo, -bre, denominativo da cum e summa), se soltanto fosse ben impiegata (si …collocaretur, dove il verbo colloco andrà inteso e quindi tradotto non già nel suo primo significato concreto di “pongo, dispongo, inserisco”, ma in quello tecnico finanziario di “investo”, come se si trattasse di un capitale da mettere a frutto). Sotto il profilo sintattico ci troviamo di fronte qui a un esempio di periodo ipotetico “misto”: alle due apodosi della realtà, al modo indicativo (il sottinteso est e il perfetto passivo data est), segue infatti una protasi con il congiuntivo imperfetto (collocaretur), ad esprimere irrealtà nel presente. Sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei inpenditur, ultima demum necessitate cogente quam ire non intelleximus transisse sentimus. Traduzione: «Ma quando scorre via tra le mollezze e l’indolenza, quando non si spende in nulla di buono, soltanto sotto lo stimolo dell’ultima necessità, ci accorgiamo che è già trascorsa quella vita che non abbiamo avvertito al suo passare». In questo ultimo periodo il filosofo esemplifica alcuni dei comportamenti errati che causano all’uomo la perdita del tempo, qui ancora paragonato, con metafora tipica in latino, ad un flusso d’acqua che scorre via dalle mani in varie direzioni (diffluit da dis- e fluo, -ere): tali vitia sono identificati anzitutto con l’abitudine al lusso (luxus, -us “sfarzo, opulenza”) e a quella neglegentia che, secondo la sua etimologia (da neglego, -ere, a sua volta composto dalla negazione nec e lego, quindi “non raccolgo, trascuro”), indica proprio un atteggiamento di “incuria, trascuratezza, scarsa attenzione” verso le cose (entrambi i vocaboli risultano impiegati all’accusativo retto da per, locuzione a metà strada tra il mezzo figurato e il modo, vd. anche per contumeliam, per ludum et iocum etc.). Sotto il profilo sintattico e stilistico, alle due proposizioni subordinate temporali aventi per soggetto ancora la vita (ubi … ubi) – accostate per asindeto tramite l’anafora della congiunzione, tratto tipico della prosa senecana – tiene dietro, con cambio di soggetto, la proposizione principale (sentimus), non facile da rendere per più ragioni. Anzitutto il verbo della reggente è per così dire ritardato da altri due costrutti subordinanti, un ablativo assoluto (ultima …necessitate cogente lett. “costringendoci l’ultima necessità”, dove ultima necessitas è nesso quasi formulare per la “morte”), che si è preferito rendere in forma nominale per non appesantire troppo l’enunciato, e una frase relativa piuttosto ellittica e 4 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna brachilogica, ancora tipicamente senecana (quam ire non intelleximus, sogg. “noi”). Il pronome relativo femminile quam, infatti, il quale non potrà che riferirsi a vita e che fa da soggetto all’infinito presente ire, di fatto anticipa e ingloba anche il suo antecedente eam (che nella traduzione italiana potrà essere ripristinato a fini di chiarezza), che a sua volta costituirà il soggetto dell’infinitiva col verbo transisse (forma sincopata di uso comune per transivisse da transeo “passo oltre, trascorro”): come se fosse eam vitam, quam ire non intelleximus, transisse sentimus. Un enunciato, questo, davvero esemplare dello stile denso e concettoso di Seneca, che qui gioca sulla sostanziale sinonimia di intelleximus (perfetto di intellego, -ere “comprendo”) e sentimus (da sentio, -jre , qui “sento con la mente” e quindi “avverto, mi accorgo”), nonché sull’opposizione, aspettuale più che temporale, tra l’infinito presente ire, che esprime azione concomitante (non sentiamo la vita durante il suo passaggio) e l’infinito perfetto transisse (ci accorgiamo della vita quando è già trascorsa). Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 5 S E N E C A Prima della battaglia di Zama (Livio, XXX 32) Anno 202 a.C., siamo all’epilogo della seconda guerra punica, cui è dedicato il XXX libro dell’opera di Livio (degli originari 142 libri Ab urbe condita, ci sono pervenuti integri quelli dall’1 al 20, e dal 21 al 45). In terra d’Africa, dopo due anni di alterne operazioni militari, l’esercito romano e quello cartaginese (duo fortissimi exercitus) si trovano finalmente schierati uno contro l’altro, nei pressi di Zama, destinati ad affrontarsi in una battaglia campale che deciderà le sorti di una guerra durata 16 anni. Alla testa degli eserciti si distinguono i due comandanti in capo, protagonisti assoluti del conflitto (duo longe clarissimi duces), Publio Cornelio Scipione, in seguito ribattezzato l’Africano, e il nemico di sempre, il punico Annibale. Vanificata anche l’ultima speranza di concludere pacificamente e diplomaticamente la guerra (i Cartaginesi avevano infatti violato i patti già ratificati dal Senato di Roma), ai due generali avversari non resta che fare leva sull’emotività dei propri uomini, incitandoli all’eroismo e rammentando loro la portata universale dello scontro (neque enim Africam aut Italiam, sed orbem terrarum victoriae premium fore). Questo il senso delle parole che lo storico Livio – abilissimo artefice di discorsi, reali o fittizi – fa pronunciare, in forma indiretta (oratio obliqua), ai due condottieri, nelle ore che li separano dallo scontro imminente. In castra ut est ventum, pronuntiant ambo arma expedirent milites animosque ad supremum certamen, non in unum diem sed in perpetuum, si felicitas adesset, victores. Roma an Carthago iura gentibus daret ante crastinam noctem scituros; neque enim Africam aut Italiam, sed orbem terrarum victoriae praemium fore. Par periculum praemio quibus adversae pugnae fortuna fuisset. Nam neque Romanis effugium ullum patebat in aliena ignotaque terra, et Carthagini, supremo auxilio effuso, adesse videbatur praesens excidium. Ad hoc discrimen procedunt postero die duorum opulentissimorum populorum duo longe clarissimi duces, duo fortissimi exercitus, multa ante parta decora aut cumulaturi eo die aut eversuri. Anceps igitur spes et metus miscebant animos; contemplantibusque modo suam, modo hostium aciem, cum oculis magis quam ratione pensarent vires, simul laeta simul tristia obversabantur. Quae ipsis sua sponte non succurrebant, ea duces admonendo atque hortando subiciebant. ● Guida alla traduzione In castra ut est ventum, pronuntiant ambo arma expedirent milites animosque ad supremum certamen, non in unum diem sed in perpetuum, si felicitas adesset, victores. Roma an Carthago iura gentibus daret ante crastinam noctem scituros; neque enim Africam aut Italiam, sed orbem terrarum victoriae praemium fore. Par periculum praemio quibus adversa pugnae fortuna fuisset. Traduzione: «Appena furono giunti nei loro accampamenti, entrambi intimarono ai propri soldati di tenere pronti gli animi e le armi per lo scontro decisivo, dal momento che, se la sorte fosse stata propizia, sarebbero stati vincitori non già per una sola giornata ma per sempre. Il giorno seguente, prima del calar della notte, avrebbero saputo se sarebbe toccato a Roma o a Cartagine legiferare per i popoli; non l’Africa né l’Italia sarebbe stata la ricompensa per la vittoria, ma il mondo intero; il pericolo sarebbe stato pari al premio per chi fosse uscito sconfitto dalla battaglia». Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 1 L I V I O Subito dopo la proposizione temporale all’indicativo perfetto (in castra … ventum, con la congiunzione ut nel senso di “non appena, come”, a stabilire una successione immediata, e l’impersonale passivo di un verbo di moto, lett. “si giunse”), che delinea per così dire lo sfondo dell’azione (i due accampamenti avversari), lo storico indirizza subito l’attenzione del lettore sulle parole pronunciate dai due condottieri (Scipione e Annibale, qui richiamati dal pronome soggetto ambo, “entrambi”, considerati insieme, diverso da uterque “ciascuno dei due”, presi singolarmente). Il verbo della frase reggente pronuntiant (presente storico, “annunciano, intimano”, qui impiegato più come verbo di volontà che di semplice opinione), serve di fatto a introdurre tutta la serie di subordinate (da expedirent fino a fuisset) che riportano, in forma di discorso indiretto (oratio obliqua), il contenuto delle esortazioni rivolte dai comandanti ai propri milites. A questo proposito sarà bene ricordare la norma per cui, in regime di discorso indiretto, le frasi indipendenti assumono di volta in volta il congiuntivo (qui expedirent) o l’infinito (qui scituros e fore, da sottindendersi anche come predicato di par periculo praemium), a seconda che esprimano un valore volitivo o enunciativo; le proposizioni subordinate, viceversa, conservano il congiuntivo e l’infinito, mentre, in linea di massima, mutano l’indicativo in congiuntivo, per effetto dell’attrazione modale. Proprio il valore volitivo è alla base del primo enunciato al congiuntivo arma expedirent milites … certamen (dove il congiuntivo imperfetto si spiega perché pronuntiant è presente di forma ma passato di senso), cui potrebbe rispondere, nella forma diretta, un imperativo (expedite): il primo invito rivolto ai soldati è dunque quello di tenersi pronti all’ultimo e decisivo scontro (ad supremum certamen, dove certamen è derivato nominale di certo, -bre “lotto, contendo”, con suffisso strumentale -men), e di prepararsi tanto sul piano tattico che su quello psicologico. Sotto il profilo semantico e retorico sarà bene notare qui la figura retorica dello zeugma, abbastanza frequente in Livio, per la quale il verbo expedio, -jre “preparo”, normale con il complemento oggetto arma, -prum (lett. “armi da difesa”, quali scudi e simili, di contro a tela, -brum “armi da offesa”, in particolare da lancio) risulta invece assai meno appropriato con il sostantivo animos. Nella parte conclusiva di questo primo periodo, infine, occorrerà riconoscere in victores un complemento predicativo del soggetto milites, da legarsi ad un sottinteso futuri, participio futuro di sum, spesso impiegato da Livio con funzione predicativa anche al di fuori della perifrastica attiva: nella traduzione si è optato per il valore causale, “poiché sarebbero stati vincitori”. A ben vedere, ci troviamo di fronte ad un’apodosi implicita, espressa cioè con un modo non finito, di un periodo ipotetico la cui protasi è da riconoscere in si felicitas adesset (dove felicitas, -btis lett. “fortuna, prosperità” è vista quasi come una divinità che assiste e protegge benevolmente i soldati). Per spiegare l’imperfetto congiuntivo adesset (da adsum “sono presente”, qui nella sua accezione derivata di “assisto, proteggo”), si può pensare tanto ad una protasi della realtà (gli indicativi adest, presente, o aderit, futuro, in forma indiretta passerebbero ad adesset, per attrazione modale e consecutio rispetto al presente storico pronuntiant), quanto ad una protasi della possibilità (in questo caso si tratterebbe di uno slittamento solo temporale, dal presente eventuale adsit della forma indipendente ad adesset). Tutti gli enunciati che seguono, inseriti ancora nell’oratio obliqua (e pertanto dipendenti o dallo stesso pronuntiant o da altro verbum dicendi sottinteso), sottolineano con più forza il significato sovranazionale del conflitto imminente: ai vincitori, Romani o Cartaginesi che siano, spetterà il compito di civilizzare gli altri popoli (la locuzione tecnico-giuridica iura dare, lett. “amministrare la giustizia”, andrà qui intesa nel senso più ampio di “stabilire ordinamenti, leggi”), nonché il controllo su tutto il mondo conosciuto (orbem terrarum victoriae praemium). Sul piano sintattico, l’interrogativa indiretta disgiuntiva Roma … daret (con il secondo membro Carthago introdotto dalla particella dubitativa an) anticipa la sua sovraordinata, qui rappresentata dalla frase enunciativa all’infinito futuro scituros (con esse sottinteso; in forma diretta avremmo il futuro scietis). Analogo valore enunciativo hanno anche le proposizioni che seguono, neque enim … fore (per futurum esse), e par periculum praemio (sott. fore; si noti che i tre termini sono legati dall’allitterazione della labiale p). Quest’ultima frase, in particolare, “pari alla ricompensa (dei vincitori) sarebbe stato il pericolo”, sottolinea il grave rischio cui è destinato il popolo che dovesse uscire sconfitto (lett. “per coloro ai quali fosse stata contraria la sorte della battaglia”): sintatticamente riconosciamo una frase relativa (quibus … fuisset), dove il 2 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna relativo ingloba anche l’antecedente dimostrativo (iis quibus), mentre il congiuntivo più che perfetto esprime anteriorità rispetto al sottinteso tempo storico. Nam neque Romanis effugium ullum patebat in aliena ignotaque terra, et Carthagini, supremo auxilio effuso, adesse videbatur praesens excidium. Traduzione: «Per i Romani infatti non c’era alcun rifugio in una terra straniera e sconosciuta, e sui Cartaginesi, se avessero perduto le ultime risorse militari, sembrava incombere la prospettiva di un immediato sterminio». L’impiego del modo indicativo in questo nuovo periodo (due coordinate all’imperfetto, patebat e videbatur adesse, più un ablativo assoluto) sigla la fine del vero e proprio discorso indiretto: ci segnala cioè che lo storico non sta più riportando il pensiero e le parole dei due comandanti ma sta inserendo osservazioni proprie (si ricordi quanto detto sopra sull’impiego dei modi nell’oratio obliqua). A ulteriore riprova di quanto asserito dai due generali (nam è congiunzione coordinante dichiarativa), lo storico ricorda che Romani e Cartaginesi si trovano in situazione di sostanziale parità: ai primi, infatti, è preclusa qualunque possibilita di fuga (neque … effugium ullum patebat lett. “si apriva”, da pateo, -fre “sono aperto, accessibile”), mentre i secondi, in caso di sconfitta, sono destinati a sicura e imminente disfatta (Carthagini … adesse uidebatur praesens excidium, dove la compresenza di adesse, “essere imminente” – qui retto da videor “sembro” – e del participio attributivo praesens, riferito al soggetto neutro excidium, “distruzione, strage”, sottolinea con forza l’idea dell’incombente minaccia). Quest’ultimo enunciato rappresenta formalmente l’apodosi di un periodo ipotetico, la cui protasi, implicita, può essere individuata nell’ablativo assoluto supremo auxilio effuso, cui potremo dare, nella traduzione, valore ipotetico (lett. “se si fosse perduto, consumato l’ultimo aiuto”, dove il participio, con valore medio-passivo, di effundo “riverso fuori” e quindi “spreco”, sarà qui da riferire all’esercito di Annibale, ultimo baluardo del popolo cartaginese). Ad hoc discrimen procedunt postero die duorum opulentissimorum populorum duo longe clarissimi duces, duo fortissimi exercitus, multa ante parta decora aut cumulaturi eo die aut eversuri. Traduzione: «A questa prova decisiva si apprestavano, il giorno seguente, i due più famosi comandanti di due potentissimi popoli, i due più valenti eserciti, destinati in quel giorno ad accrescere il numero delle glorie già ottenute o a vanificarle tutte». Siamo finalmente al giorno dello scontro decisivo (il sostantivo neutro hoc discrimen, dalla radice di discerno, -ere “distinguo”, e quindi “dirimo un dissidio”, vale qui “momento, prova decisivo”), che vede schierati, uno contro l’altro, due popoli al massimo della loro potenza (duorum … opulentissimorum) e due comandanti di prima grandezza (duo longe clarissimi duces), alla testa di due eserciti di altissimo valore (duo fortissimi exercitus, soggetto, insieme a duces, del verbo reggente, il presente storico procedunt, lett. “avanzano”). Come si può ben vedere, l’impiego insistito di aggettivi al grado superlativo (opulentissimi, clarissimi, fortissimi) e la triplice ripetizione del numerale duo in forme flessive differenti (in termini retorici si parla di poliptoto) sono i mezzi stilistici impiegati da Livio per evidenziare, una volta di più, il significato epocale dello scontro. A sottolineare la solennità dell’evento concorrono, del resto, anche i due participi futuri con valore attributivo cumulaturi (da cumulo, -bre “accumulo, accresco”) e eversuri (da everto, -ere “capovolgo, rovescio”) – qui accostati con la correlazione disgiuntiva aut … aut –, che formalmente concordano con entrambi i soggetti della frase, duces e exercitus: nella traduzione italiana è bene, visto il contesto, esprimere quell’idea di “predestinazione” che è uno dei tre valori tradizionali della perifrastica attiva (insieme all’imminenza e all’intenzione; alla base di tutti e tre sta infatti l’idea di un futuro in progress, che muove dal presente). Comune alle due forme participiali è da considerarsi la locuzione multa ante parta decora, dove il complemento oggetto decora Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 3 L I V I O (dal neutro decus, -oris “decoro” e qui “onore, gloria”; da non confondersi con i corradicali decprus, -a, -um, e il maschile decor, -pris) è determinato dal participio con valore attributivo ante parta (da pario, -ere “genero, produco”; ante ha valore avverbiale, “prima”). Anceps igitur spes et metus miscebant animos; contemplantibusque modo suam, modo hostium aciem, cum oculis magis quam ratione pensarent vires, simul laeta simul tristia obversabantur. Quae ipsis sua sponte non succurrebant, ea duces admonendo atque hortando subiciebant. Traduzione: «Pertanto l’incerta speranza e il timore agitavano gli animi; a quelli che osservavano ora il proprio schieramento ora quello dei nemici, soppesandone le forze più con lo sguardo che non con la ragione, si presentavano pensieri ora lieti ora tristi. Le considerazioni che non venivano spontaneamente alla mente dei soldati, i comandanti le richiamavano alla memoria con ammonimenti ed esortazioni». Questi ultimi due periodi con cui si conclude il nostro passo descrivono efficacemente l’atmosfera di incertezza e di apprensione emotiva che percorre i due opposti schieramenti nelle ore che precedono lo scontro. La compresenza di speranza e timore per le incerte sorti della battaglia è espressa dalla sovraordinata all’imperfetto indicativo anceps spes … animos, dove l’attributo anceps, -cipitis (lett. “che ha due capi”, dalla radice di ambo e caput, quindi “duplice” ma anche “incerto”) è grammaticalmente concordato con il soggetto spes ma logicamente può ben riferirsi al complemento oggetto animos (come a dire che la speranza e il timore turbavano gli animi così da renderli incerti; in termini retorici si dice che anceps ha valore prolettico). Lo storico focalizza ora l’attenzione sulla massa dei milites che compongono i due exercitus: proprio ai soldati, infatti, non potrà che riferirsi il participio sostantivato contemplantibus (da contemplor, -bri “osservo, considero con attenzione”), da cui dipendono i due complementi oggetto modo suam, modo hostium aciem (si noti che l’aggettivo possessivo suus, sua, suum è qui impiegato nel senso enfatico ed etimologico di “suo proprio”, in opposizione al genitivo hostium e indipendetemente dal soggetto della principale). Il participio in caso dativo è richiesto dal verbo della reggente obversabantur (obversor, -bri, verbo tecnico per descrivere il presentarsi alla mente di pensieri o visioni, nel senso di “appaio, mi presento”), che ha per soggetto i due neutri sostantivati simul laeta simul tristia (“sentimenti, visioni ora liete ora tristi”). All’inquietudine dei soldati rinvia anche la subordinata con il cum e il congiuntivo imperfetto (secondo consecutio) inserita tra il participio e la reggente (cum … pensarent): nel valutare l’entità delle forze (vires) in campo (pensarent, da penso, -bre “giudico, esamino”, derivato frequentativo di pendo, -ere “metto sulla bilancia, peso”) i soldati si lasciano infatti guidare più dagli occhi (oculis, ablativo strumentale) che dal cervello (ratione, lett. “calcolo, ragionamento”, dal verbo reor, -fri “penso, credo”). Ancora i soldati (cui si riferirà il pronome anaforico in dativo ipsis), questa volta accoppiati ai loro comandanti (duces, Scipione e Annibale, soggetto della principale subiciebant), sono i protagonisti dell’ultimo periodo quae … subiciebant, sintatticamente articolato su due proposizioni: siamo di fronte ad un tipico esempio di anticipazione (prolessi) della frase relativa, dove il pronome neutro quae (“i pensieri che, le considerazioni che”), soggetto di non succurrebant (dall’intransitivo succurro, -ere lett. “vengo in soccorso, assisto”, qui nell’accezione di “venire in mente”, con il dativo del pronome ipsis, vd. supra), viene richiamato (epanallessi), nella frase reggente, dal pronome correlativo ea, complemento oggetto di subiciebant (subicio, -ere lett. “lancio dal basso verso l’alto”, qui nel senso derivato di “aggiungo, suggerisco”). Infine, la coppia di gerundi monendo atque hortando (all’ablativo strumentale, lett. “con l’ammonire e l’esortare”) è funzionale a introdurre le parole di esortazione e conforto che i due duces, di lì a poco, rivolgeranno nuovamente ai propri uomini (il periodo successivo al nostro inizia infatti con Poenus … referebat “il Cartaginese ricordava …”). 4 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna Ritratto di Seiano (Tacito, ann. IV, 1) Temerario, abile nel dissimulare le proprie intenzioni e nell’accusare gli altri, incline tanto all’adulazione quanto all’insolenza, disposto a tutto pur di conquistare il potere: questi i tratti principali di Elio Seiano, l’ambizioso eques romano che, entrato astutamente nelle grazie dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.), lo indusse a rifugiarsi nel buen retiro di Capri, rimanendo signore incontrastato di Roma per circa un decennio con la carica di prefetto del pretorio (comandante in capo delle milizie di stanza a Roma a difesa dell’imperatore). In questo sinistro ritratto di Seiano tramandatoci da Tacito in apertura del quarto libro degli Annales (gli Annales ab excessu divi Augusti, pervenuti in forma frammentaria, coprivano gli anni dal 14 al 68), ritroviamo sintetizzate alcune marche distintive dello stile tacitiano, autorevolmente definito “il più personale di tutte le letterature di ogni tempo, e pure il meno traducibile nel linguaggio comune” (C. Marchesi): l’espressione densa e concisa (brevitas), ai limiti dell’oscurità, ottenuta grazie alla frequente ellissi di forme nominali e verbali, la preferenza per l’accostamento parattatico delle proposizioni, la ricerca dell’asimmetria (inconcinnitas) e della variazione (varietas) nei costrutti, di contro alla regolare simmetria del periodare ciceroniano. C. Asinio C. Antistio consulibus nonus Tiberio annus erat compositae rei publicae, florentis domus (nam Germanici mortem inter prospera ducebat), cum repente turbare fortuna coepit, saevire ipse aut saevientibus vires praebere. Initium et causa penes Aelium Seianum, cohortibus praetoriis praefectum, cuius de potentia supra memoravi: nunc originem mores et quo facinore dominationem raptum ierit, expediam. Genitus Vulsiniis patre Seio Strabone, equite Romano, et prima iuventa C. Caesarem, divi Augusti nepotem, sectatus, non sine rumore Apicio diviti et prodigo stuprum veno dedisse, mox Tiberium variis artibus devinxit, adeo ut obscurum adversum alios sibi uni incautum intectumque efficeret, non tam sollertia (quippe isdem artibus victus est) quam deum ira in rem Romanam, cuius pari exitio viguit ceciditque. Corpus illi laborum tolerans, animus audax; sui obtegens, in alios criminator; iuxta adulatio et superbia; palam compositus pudor, intus summa apiscendi libido, eiusque causa modo largitio et luxus, saepius industria ac vigilantia, haud minus noxiae, quotiens parando regno finguntur. ● Guida alla traduzione C. Asinio C. Antistio consulibus nonus Tiberio annus erat compositae rei publicae, florentis domus (nam Germanici mortem inter prospera ducebat), cum repente turbare fortuna coepit, saevire ipse aut saevientibus vires praebere. Traduzione: «Sotto il consolato di Gaio Asinio e Gaio Antistio, per Tiberio correva il nono anno di buon governo dello stato e di prosperità per la sua famiglia (egli infatti annoverava la morte di Germanico fra le circostanze favorevoli), quand’ecco che la sorte prese ad oscurarsi, e Tiberio stesso iniziò ad incrudelire o a incoraggiare le crudeltà degli altri». L’esordio del brano, nel quale riconosciamo in tutto 5 proposizioni (di cui due sovraordinate erat, ducebat, e tre subordinate temporali turbare … coepit, saevire, praebere), è volto anzitutto ad inquadrare sul piano cronologico gli eventi che saranno oggetto della narrazione vera e propria, vale a dire l’origine e l’ascesa al potere di Seiano. Stando a Tacito, il nono anno del principato di Tiberio (succeduto ad Augusto nel 14 d.C., da cui si ricava la data del 23) mise fine ad un periodo relativamente lungo di ordine politico e di prosperità per la casa regnante, la dinastia giulio-claudia (che si esaurirà nella Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 1 T A C I T O persona di Nerone, nel 68): dopo l’ablativo assoluto nominale C. Asinio C. Antistio consulibus (formula standardizzata della storiografica annalistica per l’indicazione dell’anno; si noti che i nomina dei due consoli sono di norma accostati per asindeto), il soggetto della principale annus è determinato dalle due locuzioni in genitivo, entrambe costituite da un nome e da un participio con valore aggettivale, compositae rei publicae, lett. “lo stato ben disposto” (da compono, -ere “metto insieme” e quindi anche in senso politico “calmo, compongo i dissidi”) e florentis domus (floreo, -fre, lett. “casa prospera”). Questi due sintagmi ci offrono l’occasione di ricordare che la lingua latina, molto più povera dell’italiano di astratti verbali, rimedia a tale carenza ora con participi presenti e gerundivi (in caso di azione in divenire, vd. il nostro florentis), ora con participi perfetti (come qui compositae), nel caso di azioni già concluse (si pensi a formule quali ab urbe condita “dalla fondazione della città”, post reges exactos “dopo la cacciata dei re”). Subito dopo la coordinata parentetica con valore dichiarativo nam … ducebat (dove si accenna a un possibile coinvolgimento di Tiberio nella morte del nipote, nonché figlio adottivo, Germanico), troviamo un esempio di frase temporale con il cum e l’indicativo perfetto (il cosiddetto cum inversum, qui unito all’avverbio repente, ad introdurre un fatto inatteso e improvviso), che si protrae per 3 frasi: il verbo servile coepit (“iniziò”, soggetto fortuna), da cui dipende l’infinito turbare (qui impiegato intransitivamente nel senso di “agitarsi, oscurarsi”), andrà infatti sottinteso, malgrado il cambio di soggetto (ipse, riferito a Tiberio stesso) anche per i successivi saevire (intrans. “infuriare, infierire”) e praebere (compl. ogg. vires, lett. “fornire forze”). La lettura di queste poche righe basta a mostrare che la prosa di Tacito, forse più di qualunque altro autore latino, sconsiglia e spesso rende di fatto impraticabile una traduzione per così dire “fedele”, che sia in qualche modo aderente alla lettera: in questo caso, tuttavia, anche nella resa italiana varrà la pena conservare l’efficace figura etimologica (ripetizione a contatto di parole appartenenti alla stessa radice) presente in saevire / saevientibus. Initium et causa penes Aelium Seianum, cohortibus praetoriis praefectum, cuius de potentia supra memoravi: nunc originem mores et quo facinore dominationem raptum ierit, expediam. Traduzione: «Causa prima di tutto ciò fu Elio Seiano, prefetto delle coorti pretorie, alla cui potenza ho accennato precedentemente: ora invece andrò ad esporre le sue origini, i suoi costumi e attraverso quale delitto prese le mosse per usurpare il potere». Di questi due periodi, il primo contiene la menzione di Elio Seiano, potente prefetto del pretorio di Tiberio (nomen, cognomen e relativa apposizione sono in accusativo perche retti dall’avverbio penes “presso”), quale principale responsabile del rivolgimento politico citato poco prima (l’endiadi initium et causa, soggetto della principale con l’ellissi di est, può essere tradotta con un concetto unitario): pur avendo già accennato alla potentia di questo oscuro personaggio (frase relativa cuius … memoravi), lo storico sente ora (nunc) di dover dare un quadro più dettagliato della figura di Seiano, che ne illustri l’origine (originem), i costumi (mores; i due termini sono accostati per asindeto), e soprattutto la condotta delittuosa (facinus, -oris, dalla radice di facio, lett. “azione”, qui nell’accezione deteriore di “delitto”) con cui riuscì a divenire signore incontrastato di Roma (dominatio). Sul piano stilistico importa soprattutto notare che il verbo della sovraordinata expediam (da expedio, -jre “sciolgo”, qui nel senso derivato di “spiego”) regge dapprima i due accusativi e poi, con repentina variatio, un’interrogativa indiretta al congiuntivo perfetto, introdotta dalla locuzione interrogativa quo facinore, all’ablativo strumentale (si faccia inoltre attenzione all’impiego del cosiddetto supino attivo raptum, da rapio, -ere, “afferro con violenza, ghermisco”, che esprime valore finale dopo il perfetto ierit, da eo “vado”, a sua volta determinato dal complemento oggetto dominationem, “tirannide, potere assoluto”). Genitus Vulsiniis patre Seio Strabone, equite Romano, et prima iuventa C. Caesarem, divi Augusti nepotem, sectatus, non sine rumore Apicio diviti et prodigo stuprum veno dedisse, mox Tiberium variis artibus devinxit, adeo ut obscurum adversum alios sibi uni incautum intectumque efficeret, non tam sollertia (quippe isdem artibus victus est) quam deum ira in rem Romanam, cuius pari exitio viguit ceciditque. 2 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna Traduzione: «Nacque a Bolsena, e suo padre fu Seio Strabone, cavaliere romano; negli anni della prima giovinezza si mise al seguito di Gaio Cesare, nipote del divo Augusto, non senza il sospetto che si fosse prostituito per denaro al ricco scialacquatore Apicio. Successivamente, riuscì ad irretire con vari espedienti Tiberio, tanto da renderlo incauto e indifeso soltanto nei suoi riguardi, mentre era impenetrabile nei confronti degli altri; e vi riuscì non tanto per propria abilità (giacché fu sopraffatto da quelle stesse arti) quanto piuttosto per la collera degli dei contro la potenza di Roma, alla quale Seiano fu parimenti nefasto tanto nel pieno del potere quanto nel declino». T A C I Il racconto delle origini e dell’ascesa di Seiano al potere è affidato ad un periodo molto lungo T e piuttosto complesso, che si dipana in numerose proposizioni: le prime due, contrassegnate dall’ellissi di est (genitus, da gigno, -ere lett. “fu generato”, e quindi “nacque” e sectatus, da sector, -bri O “accompagno”), ci informano sulla città di origine (Vulsiniis, l’odierna Bolsena, ablativo semplice in quanto nome di città), la gens e il rango di appartenenza (ricavabile dal nome del padre Seio Strabone, ablativo di origine, con cui concorda l’apposizione equite Romano), le esperienze politiche giovanili (fu al seguito di un Cesare, nipote di Augusto, negli anni della iuventa, la “giovinezza”, che va all’incirca dai 30 ai 45 anni), oltre alle voci (vd. la litote non sine rumore, dove rumor indica propriamente la “diceria”, la “chiacchiera”) circa una sua presunta relazione carnale con un certo Apicio, ricco (dives) e scialacquatore (prodigus). Sul piano sintattico si noti che dal sostantivo generico rumor dipende, in funzione epesegetica, un infinito, dedisse, a sua volta accompagnato da un complemento oggetto (stuprum) e da un sostantivo in dativo (veno). Si tratta di una locuzione assai pregnante e sintetica, impossibile da conservare nella resa italiana, il cui senso è, all’incirca, intrattenere un rapporto carnale illecito (stuprum, che infatti può significare anche “incesto” e “stupro”) a scopo di guadagno: formalmente il verbo do risulta costruito con il doppio dativo, uno, di termine/vantaggio, indicante la persona (Apicio), e uno di effetto (veno, “vendita”, da un sostantivo difettivo impiegato anche all’accusativo venum; cfr. venum do “metto in vendita”). Il periodo prosegue con un’altra coordinata al perfetto indicativo, introdotta dall’avverbio di tempo mox a indicare una successione cronologica (mox Tiberium …. devinxit, da devincio, -jre “lego saldamente”, soggetto ancora Seiano), cui tiene dietro una subordinata consecutiva (adeo ut efficeret, stesso soggetto): qui si noti in particolare che da efficeret (efficio, -ere “rendo”, al congiuntivo imperfetto secondo consecutio) dipendono, in funzione predicativa, diversi attributi in accusativo maschile singolare, riferiti al complemento oggetto, Tiberium, ricavabile dall’enunciato precedente. Come nota sintattica si ricordi che il riflessivo sibi uni (lett. “a sé solo”), da legarsi alla coppia di attributi incautum intectumque, riferiti a Tiberio (lett. “incauto, imprudente” e “scoperto, indifeso”, entrambi composti con il prefisso negativo in- e la radice di caveo, -fre “sto in guardia” e tego, -ere “copro” e “proteggo”) dovrà essere riferito al soggetto della subordinata stessa, ossia Seiano, trattandosi di riflessivo “diretto”. Il nostro periodo si chiude con un giudizio moralistico che ben s’intona con la vena pessimistica che attraversa la storiografia tacitiana: si avanza infatti l’ipotesi che la pessima influenza che Seiano potè esercitare sul princeps, con nefaste conseguenze per il principato, non sia da ascrivere a sua abilità (sollertia): prova ne sarebbe il fatto che lo stesso Seiano sarà vittima, qualche anno più tardi, di quelle stesse macchinazioni di cui era stato maestro (isdem artibus victus est, frase parentetica introdotta dall’avverbio asseverativo quippe, “infatti”, che gli conferisce valore causale; l’accenno, non altrimenti decifrabile, è alla fine di Seiano, arrestato e ucciso nel 31 per ordine dello stesso Tiberio). Nella visione di Tacito, Seiano rappresenta piuttosto il segno della collera divina contro la potenza romana (nella correlazione non tam sollertia … quam ira deum, in ablativo con valore causale, occorrerà riconoscere in deum l’originario genitivo plurale della seconda declinazione, presente anche nella formula cultuale pro deum atque hominum fidem). Quella stessa potenza romana – precisa Tacito – per la quale Seiano fu esiziale tanto nella prosperità quanto nella rovina: ma l’espressione tacitiana cuius pari exitio viguit ceciditque (due relative coordinate al perfetto indicativo), con la coppia di verbi antitetici vigeo, -fre (“sono in forze” e “ho successo”) e Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna 3 cado, -ere (“cado” e “vado in rovina”) risulta, come sempre, molto più concisa ed espressiva rispetto a qualunque possibile traduzione (lett. “con pari rovina della quale” etc.). Corpus illi laborum tolerans, animus audax; sui obtegens, in alios criminator; iuxta adulatio et superbia; palam compositus pudor, intus summa apiscendi libido, eiusque causa modo largitio et luxus, saepius industria ac vigilantia, haud minus noxiae, quotiens parando regno finguntur. Traduzione: «Era resistente alle fatiche fisiche e di animo audace, abile nel dissimulare le sue intenzioni e nell’imbastire accuse contro gli altri, alternava adulazione e superbia: esternamente mostrava una riservatezza composta, ma nell’intimo coltivava il desiderio di impadronirsi del potere, e a questo scopo inclinava ora alla prodigalità e al fasto, ma più spesso all’accortezza e alla vigilanza, qualità, queste, che non sono meno dannose delle prime, quando sono impiegate ad arte per conquistare il potere». A ben vedere, se si esclude la proposizione quotiens … finguntur (subordinata temporale all’indicativo con valore iterativo, lett. “tutte le volte che”), il resto del periodo è quasi interamente occupato da elementi nominali (sostantivi, attributi o participi con valore attributivo, tutti al nominativo), mentre le forme verbali principali (da sum) sono sistematicamente soppresse (ellissi) e potranno, all’occorrenza, essere reintegrate nella resa italiana (che risulterà, ancora una volta, dilatata rispetto alla brevitas dell’originale). A fronte di una struttura sintattica pressoché assente, dove i vocaboli sono accostati per asindeto (si tratta della cosiddetta paratassi o “giustapposizione”), nella traduzione dovremo dedicare particolare cura al piano semantico e alla scelta dei significati. Il ritratto di Seiano che ci consegna Tacito è principalmente, come spesso accade negli Annales, psichico e morale: unica eccezione, qui, l’accenno iniziale alla robustezza fisica (dove il participio tolerans riferito a corpus, qui usato in funzione di aggettivo e non di verbo, è determinato dal genitivo laborum “fatiche”). Alla sfera dell’interiorità, invece, rinviano: la temerarietà (audax, “temerario, sfrontato”, attributo dalla radice di audeo, -fre con suffisso negativo -ax, -bcis; è colui che osa troppo), la propensione a celare la propria vera natura (obtegens, da obtego, -ere “copro” e “nascondo”, ancora un participio con valore aggettivale, costruito con il genitivo del riflessivo sui) e ad accusare gli altri (criminator, -pris, nomen agentis con suffisso -tor da criminor, -bri; è quasi il calunniatore di professione); e ancora la compresenza (iuxta, qui in funzione di avverbio, lett. “ugualmente, allo stesso modo”) di servilismo (adulatio, astratto verbale di adulor, -bri) e arroganza (superbia). Altrettanto vistosa è, nella figura di Seiano, l’antitesi tra il riservato contegno (compositus pudor) esibito esteriormente (vd. l’avverbio palam) e la brama di potere che lo anima (vd. l’avverbio intus; dal nominativo libido, lett. “brama, passione”, dipende il genitivo del gerundio apiscendi, dall’arcaico e raro apiscor “raggiungo, conseguo”, a sua volta determinato dal complemento oggetto summa, lett. “le cose più importanti”, e quindi “il sommo potere”). E per saziare questa sete di potere (eiusque causa, complemento di fine con l’ablativo causb preceduto dal genitivo) Seiano non esitava ad alternare comportamenti di segno apposto: da una parte largitio et luxus (“prodigalità” e “fasto”, si noti che i due termini sono legati da allitterazione), dall’altra i loro contrari industria ac vigilantia (“zelo” e “accortezza”), virtù molto apprezzate dai Romani ma anche dannose (noxiae), se vengono impiegate a fin di male (ma Tacito usa il verbo fingere, lett. “splasmare”, che esprime l’idea della finzione e della simulazione, recuperata in italiano con l’avverbio “ad arte”). Da ultimo si noti che la subordinata temporale quotiens … finguntur contiene al suo interno un sintagma in caso dativo costituito da un nome e da un gerundivo, parando regno (“per conquistare il potere”, dove regnum andrà inteso non già nel senso di “potere regio” ma in quello di “potere assoluto, dispotico”, affine a dominatio, -pnis già incontrato sopra): a questo proposito sarà bene ricordare che l’impiego del dativo del gerundio/gerundivo con valore finale, limitato in epoca classica a pochi casi formulari, si diffonde ampiamente nella prosa letteraria di età imperiale, a scapito di altri costrutti (anzitutto ad e l’accusativo del gerundio/gerundivo; nel nostro caso ci saremmo attesi ad parandum regum). 4 Copyright © 2011 Zanichelli Spa, Bologna