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Claudio Bartocci
Una piramide di problemi
Storie di geometria da Gauss a Hilbert
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www.raffaellocortina.it
ISBN 978-88-6030-446-9
© 2012 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Prima edizione: 2012
Stampato da Arti Grafiche Franco Battaia
Zibido S. Giacomo (Milano)
per conto di Raffaello Cortina Editore
Ristampe
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INDICE
Ringraziamenti
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Premessa
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1. Parigi 1900: la Fata Elettricità
e i problemi della matematica
I matematici a congresso
Una visione del futuro
Il terzo problema
2. Rompicapi con i poligoni
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La potenza dello gnomone
Poligoni a pezzi
Figure uguali, figure congruenti
3. “Le scandale des élémens de géométrie”
Verità ipotetiche e giudizi a priori
Curvature principali
La sfera immaginaria di Lambert
4. Teoremi egregi
Dalla teoria delle parallele alla cartografia
Geometria intrinseca
5. Mondi nuovi e diversi
Disavventure editoriali e stroncature
Oricicli e orisfere
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INDICE
Triangoli celesti
La scienza dello spazio assolutamente vera
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6. Superfici e spazi a molte dimensioni
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L’unico vero allievo di Gauss
Le superfici di Riemann
La nuova alleanza tra analisi e topologia
Una lezione memorabile
Varietà multidimensionali
Altri tentativi
7. Geometria, filosofia e fisica
Elaborazione di concetti e molteplicità dei punti di vista
Concetti geometrici
Aspetti locali e globali
Relazioni metriche
Curvatura
Il problema dello spazio fisico
La fisica scientifica e la velocità della luce
8. Cambiamenti di prospettiva
L’orologio di Perrault
La pseudosfera
Problemi di immersione
Proiezioni e trasformazioni
9. Tavoli, sedie, boccali di birra
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103
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114
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133
137
148
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Tagli creativi
Questioni di continuità
A ogni geometria i suoi numeri
La parte e il tutto
L’ingegnere francese e il topologo tedesco
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190
202
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Bibliografia
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Indice dei nomi
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PARIGI 1900
LA FATA ELETTRICITÀ E I PROBLEMI
DELLA MATEMATICA
C’est alors que retentit un rire étrange, crépitant,
condensé: celui de la Fée Électricité. Autant que la
Morphine dans les boudoirs de 1900, elle triomphe
à l’Exposition; elle naît du ciel, comme les vrais rois.
PAUL MORAND, 1900*
Dal 15 aprile al 12 novembre del 1900 l’Exposition Universelle attira a Parigi più di 50 milioni di visitatori. Superare
o anche solo uguagliare una meraviglia dell’ingegneria come la
Tour Eiffel – eretta in occasione dell’Exposition Universelle
del 1889 – pareva impossibile. Così, il comitato di organizzazione aveva deciso di mettere in cantiere una impressionante
serie di opere pubbliche, destinate a modificare profondamente l’assetto urbano. Si costruiscono il Grand Palais e il
Petit Palais, la Gare de Lyon e la Gare d’Orsay, si ultima il
ponte Alexandre III; il 19 luglio – dopo appena 20 mesi di lavori che hanno messo a soqquadro la circolazione stradale –
entra in servizio la linea 1 del Métro, 18 fermate tra la Porte de
Vincennes e la Porte de Maillot.
In un’esposizione che ha per obiettivo dichiarato quello di
“rappresentare la sintesi” e “determinare la filosofia” del secolo
* “Ecco che risuona una risata strana, crepitante, rappresa: quella della
Fata Elettricità. Non meno che la Morfina nei boudoir del 1900, essa trionfa
all’Exposition. Nasce dal cielo, come i veri re” (Paul Morand, 1900, Flammarion, Paris 1958, p. 68; I ed. Les Éditions de France, Paris 1931).
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XIX,
si celebra un culto speciale alla “Fée Électricité”, che in
pochi anni manderà definitivamente in pensione l’acetilene, e
si esaltano tutte le innovazioni che hanno cambiato la vita parigina nel corso dell’ultimo decennio: il cinema dei fratelli Lumière, l’automobile, il telefono, il telegrafo. Nei Pavillons allestiti dalle nazioni straniere, nei Palais dedicati alle varie attività commerciali, industriali e sociali sono ammassati oggetti di
artigianato, pitture, sculture, cannoni, turbine, eliche di bastimenti, gioielli e arazzi, apparecchi tecnici d’ogni tipo, vini e liquori, locomotive, manufatti e prodotti agricoli, corsetti e ombrelli, tutte le curiosità di tutti i possedimenti coloniali (compresi indigeni malgasci in carne e ossa, “qui font le simulacre
de la pêche […] parmi d’affreux caïmans, bien vivants, mais un
peu endormis”). Tra le attrazioni che richiamano folle di visitatori vi sono la Grande Roue, alta più di cento metri, il colossale Globe Céleste posto accanto alla Tour Eiffel, il Cinéorama
realizzato da Raoul Grimoin-Sanson, i parchi a tema Venise à
Paris e Le Vieux Paris, quest’ultimo ideato dall’ingegno bizzarro e multiforme di Albert Robida. Ma il chiassoso turbinio
dell’Exposition – che corona “un grand siècle de travail, de vérité et de liberté” (così preconizzava Zola nel suo J’accuse) –
non basta a coprire le polemiche tra dreyfusardi e antidreyfusardi né il clamore della vittoria dei nazionalisti alle elezioni
municipali (maggio 1900), che conquistano l’Hôtel de Ville dopo vent’anni di dominio dei radicali.1
I matematici a congresso
“Le esposizioni universali”, ha osservato Walter Benjamin,
“sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce”;2 parole che
paiono quasi fare eco al timore espresso da Ernest Renan, nel
1885, che “ces pompeuses manifestations de l’industrie et des
arts mécaniques ne fussent, en définitive, que de simples fêtes
de la matière”. Tuttavia, il commissario generale dell’Exposition, Alfred Picard, ingegnere polytechnicien, ha idee diverse e
di più ampio respiro e, fin dal 1889, si dichiara convinto che sia
necessario “contrapporre all’esposizione universale dei pro2
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dotti l’esposizione universale del pensiero”. Coordinati da una
“commissione superiore”, inquadrati nell’ambito di un rigido
schema di classificazione generale dei campi disciplinari, sono
così organizzati, nei sette mesi dell’Exposition, ben 127 congressi internazionali, che raccolgono un totale di circa 70.000
partecipanti, dei quali quasi la metà sono stranieri. In ogni settore del sapere – dalla fisica all’ipnotismo, dalla filosofia all’alimentazione razionale del bestiame, dalla medicina alla boulangerie – si mira a riunire gli studiosi più illustri e competenti, da ogni parte del mondo, secondo una concezione della conoscenza che trova incarnazione nella figura – squisitamente
ottocentesca ma già connotata da quegli eccessi di specialismo
che saranno tipici del secolo avvenire – del savant.3
Il “Deuxième congrès international des mathématiciens” si
svolge dal 6 al 12 agosto.4 Se circa 1000 matematici avevano risposto alle circolari diramate dal comitato organizzatore, manifestando l’intenzione di partecipare, alla fine si conteranno
appena 253 presenze (soltanto il 20% in più dei partecipanti al
Primo congresso internazionale dei matematici, che aveva avuto luogo a Zurigo nel 1897).5 Molti hanno desistito per il timore dell’eccessivo affollamento della capitale francese in occasione dell’Exposition, o per la difficoltà di trovare una sistemazione alberghiera, o forse a causa della tassa di iscrizione piuttosto salata. D’altra parte, non poche sono le pecche o le carenze lamentate dai congressisti: il programma definitivo viene
diffuso tardivamente, il servizio di segreteria lascia alquanto a
desiderare, manca una sala dove i partecipanti possano liberamente incontrarsi e discutere, non è stata organizzata nessuna
escursione. Anche il livello scientifico non è, nel complesso, superlativo. Sono poche le conferenze davvero notevoli (quelle,
per esempio, di Poincaré, Mittag-Leffler, Volterra, Hadamard,
Padoa, Padé, Dickson, Gallardo); inoltre – secondo l’impietoso
giudizio espresso da Charlotte A. Scott (1858-1931) nel vivace
resoconto pubblicato sul Bulletin of the American Mathematical
Society – “the presentation of papers is usually shockingly bad”
[Scott 1900, p. 76].6 Eppure, a dispetto delle critiche dei contemporanei, il congresso di Parigi è destinato a lasciare un’im3
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pronta profonda, tanto da poter essere forse considerato come
l’evento fondatore della matematica del Novecento. Sarà ricordato, e celebrato, come il congresso della conferenza di David
Hilbert: Les problèmes futures des mathématiques.
Una visione del futuro
Nato a Königsberg nel 1862, Hilbert7 trascorre gran parte
della propria esistenza nella quieta cittadina prussiana, il cui
nome resta legato a Kant e ai ponti del problema di Euler: nella locale università compie gli studi universitari, ottiene il dottorato e, quindi, la Habilitation nel 1886, fino a diventare professore ordinario nel 1893. Tra i suoi insegnanti ha Heinrich
Weber (1842-1913), curatore dei Gesammelte mathematische
Werke di Riemann (1876) e collaboratore di Dedekind, e Carl
Louis Ferdinand Lindemann (1852-1939), che nel 1882 ha dimostrato la trascendenza di π. Ma per la sua formazione matematica è determinante soprattutto la salda amicizia che lo lega ai quasi coetanei Hermann Minkowski (1864-1909), talento precoce, e Adolf Hurwitz (1859-1919), nominato professore straordinario a Königsberg nel 1884 e trasferitosi a Zurigo
nel 1892. Alla morte di quest’ultimo, successiva di dieci anni a
quella di Minkowski, Hilbert, unico sopravvissuto dei tre, ricorderà quel periodo con parole nostalgiche:
Nel corso di innumerevoli passeggiate […] abbiamo, in quegli
otto anni [1884-1892], frugato in tutti gli angoli del sapere matematico, e Hurwitz con la sua conoscenza tanto vasta e poliedrica quanto solidamente fondata e ben ordinata era per noi
sempre la guida.8
Soltanto nel 1895, su iniziativa di Felix Klein (1849-1925), il
non più giovanissimo matematico di Königsberg approda a Gottinga come successore di Heinrich Weber.
Hilbert si guadagna abbastanza rapidamente la reputazione
di ottimo, per quanto eterodosso, algebrista con i suoi rivoluzionari lavori sulla teoria degli invarianti. Su questo settore di
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ricerca, uno dei più vasti e ingarbugliati della matematica dell’Ottocento, vertono la sua tesi di dottorato e numerosi articoli successivi, fino alla svolta teorica rappresentata dalle grandiose memorie [Hilbert 1890] e [1893]. Per esprimerci nel linguaggio di oggi – tanto anacronistico quanto ingannevolmente semplificatorio –, la teoria classica degli invarianti riguarda
lo studio dei polinomi omogenei che rimangono invarianti rispetto all’azione di un gruppo di trasformazioni; dal punto di
vista geometrico, questa teoria può essere interpretata come lo
studio degli invarianti delle varietà proiettive.9 Ha osservato
efficacemente Hermann Weyl (1885-1955), senza dubbio il
matematico più profondo fra gli allievi di Hilbert:
La teoria degli invarianti venne alla luce verso la metà del XIX
secolo all’incirca come Minerva: vergine già adulta, catafratta
della rilucente armatura dell’algebra, saltò fuori dalla testa di
Cayley, novello Giove. L’Atene su cui regnò sovrana e a cui
prestò i suoi servigi di nume tutelare e benigno fu la geometria
proiettiva. [Weyl 1939, p. 489]
Seguendo la periodizzazione proposta dallo stesso Hilbert a
conclusione della sua conferenza al Congresso internazionale
dei matematici svoltosi a Chicago nel 1893, è possibile suddividere la storia della teoria classica degli invarianti, tra gli anni
Quaranta e Novanta dell’Ottocento, in tre fasi: ingenua, formale e critica. La prima fase, che si può fare iniziare con gli studi di
George Boole (1815-1864) sulle trasformazioni lineari, trova
espressione nei lavori, non di rado irti di calcoli e di tabelle, di
Arthur Cayley (1821-1895),10 di Charles Hermite (1822-1901) e
di James Joseph Sylvester (1814-1897). Il periodo formale – che
potremmo anche definire eroico – prende avvio con il metodo
simbolico elaborato da Siegfried Heinrich Aronhold (18191884) e sviluppato da Rudolf Friedrich Alfred Clebsch (18331872) e culmina nei risultati ottenuti, usando e perfezionando
queste tecniche, da Paul Albert Gordan (1837-1912). Quest’ultimo, nel 1868, dimostra, in modo costruttivo, che gli invarianti dei sistemi di forme binarie ammettono sempre una base fini5
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ta. Il campione dell’ultima fase della teoria classica degli invarianti, quella critica, è – ça va sans dire – Hilbert medesimo: tocca a lui la gloria di risolvere il problema della generalizzazione
del risultato di Gordan a forme arbitrarie. I metodi impiegati da
Hilbert per raggiungere questo formidabile risultato sono diretti e non algoritmici – tanto astratti e miracolosi da dare a Gordan l’impressione di appartenere non alla matematica ma alla
“teologia”. I tre pilastri che reggono la costruzione teorica di
Hilbert sono i risultati fondanti della disciplina che oggi chiamiamo “algebra commutativa”: il teorema della base, il teorema
delle sizigie e il teorema degli zeri (Nullstellen Satz). I primi due
sono dimostrati in “Über die Theorie der algebraischen Formen” [1890], mentre l’ultimo (ma non per importanza) in
“Über die vollen Invariant Systeme” [1893]. Il lavoro di Hilbert – si dice spesso – decreta la morte della teoria classica degli invarianti, ma in verità si tratta soltanto di una morte apparente. Dopo un trentennio di quiescenza, infatti, questa “rina[scerà] dalle proprie ceneri come l’araba fenice”11 per assumere nuove e vitalissime forme: teoria delle rappresentazioni
dei gruppi, teoria geometrica degli invarianti, calcolo umbrale.
Nonostante i successi ottenuti, Hilbert, nel 1893,12 abbandona definitivamente la teoria degli invarianti (non scriverà più
un solo articolo sull’argomento) per rivolgere il proprio interesse a un diverso settore della matematica. In quell’anno, infatti, la Deutsche Mathematiker-Vereinigung affida a lui e a
Minkowski13 l’incarico di redigere una relazione (Bericht) sulla teoria dei numeri. Minkowski si ritira dall’impresa nel 1896
lasciando Hilbert a sobbarcarsi da solo tutto l’onere e l’onore
dell’impresa: l’anno seguente vede la luce il poderoso trattato
“Die Theorie der algebraischen Zahlkörper”,14 più noto sotto
il titolo di Zahlbericht, destinato a rimanere per molti decenni
a seguire la principale opera di riferimento, anzi la “bibbia”,
sulla materia. Ha scritto Hans Freudenthal:
Lo Zahlbericht è infinitamente più di una relazione; è un classico, un capolavoro della letteratura matematica. […] Hilbert
vi ha raccolto tutta la conoscenza significativa sulla teoria al-
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gebrica dei numeri, l’ha riorganizzata da punti di vista originali,
ha dato nuova forma a enunciati e dimostrazioni e ha posto le
fondamenta dell’edificio, ancora in fase di sviluppo, della teoria del corpo delle classi. [Freudenthal 1981a, p. 388]
Sempre nel corso degli anni Novanta Hilbert trova anche il
tempo – è difficile crederlo – per occuparsi di questioni riguardanti i fondamenti della geometria. Esito di questa attività
di studio e di ricerca sono le celebri Grundlagen der Geometrie,
pubblicate a Gottinga nel 1899 come Festschrift (scritto commemorativo) in occasione della cerimonia di scoprimento del
monumento a Gauss e Weber. Ma di questo riparleremo.
Possiamo immaginare che la mattina dell’8 agosto 1900,
quando prende la parola al congresso di Parigi, Hilbert sia contrariato. Tre anni prima, al precedente congresso di Zurigo,
Henri Poincaré aveva avuto l’onore di tenere la sua conferenza “Sur les rapports de l’analyse pure et de la physique mathématique” [Poincaré 1898] nella sessione plenaria di apertura;
e qui a Parigi, presidente eletto per acclamazione, gli è riservato il privilegio di parlare nella seduta conclusiva. A Hilbert tocca invece di presentare una semplice “communication” nell’ambito delle sezioni, riunite per ragioni organizzative, “Bibliographie et histoire” e “Enseignement et méthodes”. È quasi un affronto, se pensiamo non solo all’ambizione di chi, come
Hilbert, insieme con Klein, aspira a fare di Gottinga il “centro
matematico e fisico del mondo”,15 ma anche alla rivalità non sopita che oppone la scienza tedesca a quella francese – una rivalità che poco meno di due decenni prima, quando ancora
bruciavano le ferite della guerra franco-prussiana, aveva avuto
modo di manifestarsi in maniera conclamata nel dissidio proprio tra Poincaré e Klein sulla questione della scoperta delle
funzioni fuchsiane.
A dire il vero, Hilbert era stato invitato a tenere una conferenza plenaria, ma ne aveva inviato il testo al comitato organizzatore soltanto verso la metà di luglio, appena tre settimane prima dell’inizio dei lavori del congresso. Il suo intervento era stato così depennato dal programma e solo in extremis gli era sta7
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ta assegnata una collocazione di ripiego.16 Le ragioni del ritardo sono dovute all’incertezza di Hilbert riguardo al tema da
trattare: esita a lungo, indeciso tra una replica alla conferenza di
Poincaré a Zurigo e una lista di problemi che suggeriscano “le
direzioni probabili della matematica nel nuovo secolo”. Si consiglia con i suoi amici più intimi, Minkowski e Hurwitz, chiede
loro consiglio, e infine propende per la seconda opzione. La
stesura del testo dei “Mathematische Probleme” ha inizio soltanto a maggio o forse a giugno: alla metà di luglio Minkowski
è intento a leggere le bozze della versione, che sarà pubblicata
sulle Nachrichten von der königlichen Gesellschaft der Wissenschaften di Gottinga [1900c]. L’elenco stilato da Hilbert comprende 23 problemi: decisamente troppi per un’esposizione che
dovrà durare all’incirca un’ora. Al pubblico presente alla Sorbona la mattina dell’8 agosto 1900 è dunque presentata una selezione che comprende soltanto 10 problemi.17
Nonostante il tema scelto, la conferenza di Hilbert non può
evitare di essere anche un confronto, seppure cavalleresco, con
Poincaré, di soli otto anni più vecchio – o forse, meglio, meno
giovane – di lui. Scienziati, l’uno e l’altro, di talento straordinario e di grande versatilità, che hanno, fino a quel momento,
lavorato in settori di ricerca diversi (fatta eccezione per i fondamenti della geometria), essi incarnano due concezioni della
matematica antitetiche, due stili di pensiero agli antipodi, due
contrapposte ambizioni di sapere: entrambi, con la preziosa
eredità dei loro teoremi, idee e problemi, incideranno profondamente sullo sviluppo della matematica del secolo seguente,
ma, possiamo dire, in maniera complementare e con alterni periodi di fortuna. Proviamo dunque a cimentarci nell’esercizio
di leggere la parte iniziale del testo di Hilbert tenendo sottocchio anche le parole pronunciate esattamente tre anni prima da
Poincaré a Zurigo, nonché il complesso della sua opera di matematico e filosofo.
Dato che “la storia insegna la continuità dello sviluppo della storia” – argomenta Hilbert –, per sollevare “il velo che nasconde l’avvenire” è necessario rivolgere l’attenzione alle “questioni aperte” e ai problemi che si pongono nel presente e la cui
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soluzione ci aspettiamo dal futuro.18 Un “buon problema” matematico, oltre che chiaro nella sua enunciazione, deve essere
difficile, perché così ci stimola, ma non inaccessibile, altrimenti
si farà beffe dei nostri sforzi; [deve essere] un punto di riferimento che ci serva da guida nei sentieri tortuosi verso le verità
nascoste, e poi ci premi con la gioia (Freude) che segue la scoperta della soluzione. [Hilbert 1900c, p. 254; 1902a, p. 59]
Se, dunque, per Hilbert i “buoni problemi” costituiscono la
forza trainante della matematica e al tempo stesso ne scandiscono lo sviluppo, per Poincaré, invece, ciò che caratterizza
l’esprit mathématique è la capacità di operare generalizzazioni
dalla massa informe dei fatti ricorrendo alla forza dell’analogia.
Solo l’analogia, che rivela l’“armonia nascosta delle cose”, rende possibile che la matematica sia un efficace “strumento per
lo studio della natura” e, al contempo, un’attività con scopi filosofici ed estetici:
I suoi adepti vi trovano dei godimenti (jouissances) analoghi a
quelli che dànno la pittura e la musica. Ammirano la delicata
armonia dei numeri e delle forme; si meravigliano quando una
nuova scoperta apre loro una prospettiva inattesa; e la gioia
(joie) che così provano non ha forse un carattere estetico, seppure i sensi non vi siano coinvolti? [Poincaré 1898, p. 82]
Chiaramente, la joie di cui si parla qui è di tutt’altra natura
rispetto alla Freude, di sapore alquanto protestante, che Hilbert
presenta come la ricompensa agli sforzi compiuti.
Non nella conferenza al congresso di Zurigo ma, undici anni più tardi, in quella al congresso di Roma, intitolata “L’avenir des mathématiques” [1908a] (una risposta piuttosto esplicita a Hilbert), Poincaré avrà modo di osservare che “non ci
sono problemi risolti e altri che non lo sono; ci sono soltanto
problemi più o meno risolti” [Poincaré 1997, p. 29]. Di tutt’altro avviso è il matematico di Königsberg, che esprime l’incrollabile “convinzione della possibilità di risolvere ogni problema”, fatta salva, ovviamente, la necessità di formularlo in
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maniera corretta e precisa. Ovunque emergano “concetti matematici”, tanto in ambito epistemologico (erkenntnistheoretischer), quanto in geometria o nelle scienze della natura, occorre dunque stabilire i principî fondamentali e, soprattutto,
fissare un “sistema completo di assiomi” (vollständiges System
von Axiomen),
in modo tale che il rigore dei nuovi concetti e la loro utilizzabilità (Verwendbarkeit) per la deduzione non siano sotto nessun riguardo inferiori agli antichi concetti aritmetici. [Hilbert
1900c, p. 259; 1902a, p. 65]
La strategia risolutiva suggerita da Hilbert, frazionata in tanti piccoli e prudenti passi, si potrebbe dunque definire “analitica”. “Sintetica” è, al contrario, quella che illustra Poincaré
portando a esempio le importanti e recenti scoperte nel campo della teoria delle funzioni di variabile complessa:
L’analista, accanto all’immagine geometrica, che è il suo strumento abituale, trova numerose immagini fisiche, di cui si può
servire in maniera altrettanto efficace. Grazie a queste immagini, può vedere con un solo colpo d’occhio ciò che la deduzione gli mostrerà solo successivamente. Raccoglie così tutti
gli elementi sparsi della soluzione, e attraverso una specie di intuizione, indovina (devine) prima di poter dimostrare. [Poincaré 1898, p. 89]
Hilbert dedica particolare attenzione alla questione dei “simboli” (Zeichen, segni) che risultano giocoforza associati ai nuovi concetti così introdotti. Se i simboli dell’aritmetica sono le
cifre e i segni +, ×, < e così via, quelli della geometria sono le figure, che servono come “immagini mnemoniche dell’intuizione dello spazio” (Erennirungsbilder der räumlichen Anschauung). Nessun matematico – si concede – può fare a meno di usare figure, rappresentazioni (Vorstellungen) e immagini (Bilder),
non solo nelle costruzioni geometriche elementari ma anche in
analisi, nella geometria differenziale o nel calcolo delle variazioni (ma quanto diverse sono queste immagini da quelle di
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Poincaré!). Ciò nonostante, è necessario, precisa categoricamente Hilbert, “che le operazioni con i simboli geometrici [siano] determinate mediante gli assiomi dei concetti geometrici e
la loro connessione (Verknüpfung)” [Hilbert 1900c, p. 260;
1902a, p. 66]. A voler essere maliziosi, si potrebbe congetturare, senza alcuna prova documentaria a sostegno, che il severo
monito dell’autore delle Grundlagen der Geometrie abbia un
bersaglio preciso: le ardite dimostrazioni basate sull’intuizione
geometrica che si trovano nella prima memoria di Poincaré sui
fondamenti della topologia algebrica, “Analysis situs” [1895],
certamente non sono conformi agli standard di rigore che Hilbert vorrebbe imporre al ragionamento matematico.
Se un problema impostato correttamente resiste ai nostri
sforzi per risolverlo, i casi sono due: o non abbiamo ancora
raggiunto “il punto di vista più generale” che ci permette di
vederlo come “l’anello di una catena di problemi tra loro affini”, oppure ci basiamo su “ipotesi (Voraussetzungen) insufficienti” o su interpretazioni fallaci. Per uscire dall’impasse, si
deve allora
dimostrare l’impossibilità della soluzione del problema sotto le
ipotesi date o nell’interpretazione presunta. Gli antichi ci hanno fornito i primi esempi di simili dimostrazioni di impossibilità, per esempio facendo vedere che in un triangolo rettangolo isoscele il rapporto tra l’ipotenusa e il cateto è irrazionale.
[Hilbert 1900c, p. 261; 1902a, pp. 67-68]
Con l’astuta scappatoia rappresentata dalle “dimostrazioni
di impossibilità”, ogni problema degno di questo nome diventa dunque risolubile:
Ecco il problema, cerca la soluzione. Puoi trovarla mediante il
puro ragionamento, perché in matematica non c’è alcun “Ignorabimus”! [Hilbert 1900c, p. 262; 1902a, p. 69]
Questa conclusione teatrale è, scopertamente, uno strale
polemico che Hilbert scaglia contro l’antidogmatismo del celebre elettrofisiologo Emil du Bois-Reymond (1818-1896),
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che aveva posto la parola “Ignorabimus” a sigillo finale del
suo celebre discorso “Über die Grenzen des Naturerkennens” (“Sui confini della conoscenza umana”).19 Tuttavia, alle parole di Hilbert, vibranti di ottimismo, potremmo contrapporre anche l’osservazione venata di meditato scetticismo che Poincaré fa scivolare, quasi con nonchalance, nell’introduzione delle sue Leçons d’électricité et optique [1890]:
“L’uomo non si rassegna così facilmente a ignorare in eterno
il fondo delle cose”.20
I 23 problemi proposti da Hilbert riflettono in modo preciso le sue inclinazioni e i suoi gusti matematici, con ben poche
aperture o concessioni (forse nessuna) ad altre scuole di pensiero. Ben dieci problemi riguardano la teoria dei numeri e l’algebra:21 7* (“irrazionalità e trascendenza di certi numeri”);
8* (l’ipotesi di Riemann); 9 (“dimostrazione della più generale
legge di reciprocità in un corpo di numeri qualsiasi”); 10 (decidibilità della solubilità delle equazioni diofantee), 11 (“forme quadratiche con arbitrari coefficienti numerici algebrici”);
12 (generalizzazione della teoria delle estensioni di campi a
“dominî di razionalità” arbitrari); 13* (“impossibilità di risolvere l’equazione generale di 7mo grado mediante funzioni di
due sole variabili”); 14 (estendere i risultati della teoria degli
invarianti a certi “sistemi di funzioni”); 15 (“formulazione rigorosa della geometria enumerativa di Schubert”); 17 (rappresentazione di forme quadratiche definite mediante somme
di quadrati). Pongono questioni di analisi, intesa sensu lato, gli
ultimi cinque problemi: 19* (“Le soluzioni dei problemi variazionali regolari sono necessariamente analitiche?”); 20 (problema di Dirichlet nel caso generale); 21* (“dimostrazione dell’esistenza di equazioni differenziali lineari con gruppo di monodromia assegnato”); 22* (problema dell’uniformizzazione);
23 (“estensione dei metodi del calcolo delle variazioni”). Tre
sono i problemi che concernono i fondamenti: 1* (ipotesi del
continuo e principio del buon ordinamento); 2* (“La non contraddittorietà degli assiomi dell’aritmetica”); 6 (matematizzazione degli assiomi della fisica). Sono connessi, in modo più o
meno diretto alla geometria il problema 3 (“uguaglianza dei
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volumi di due tetraedri di uguale base e uguale altezza”), che
è in realtà legato (come vedremo) a una ben precisa questione
fondazionale, il 18 (“partizione dello spazio con poliedri congruenti”), che di fatto contiene al suo interno anche un problema di analisi, e il vaghissimo problema 4 (“problema della
linea retta come più breve cammino tra due punti”).22 La parte di cenerentola tocca, infine, a due vasti settori di ricerca destinati ad avere uno straordinario sviluppo nel secolo avvenire: la topologia, cui Poincaré ha dato contributi determinanti
– problema 16* (“problema della topologia delle curve e delle superfici algebriche”) –, e la teoria dei gruppi, ma limitatamente ai soli gruppi di Lie – problema 5 (gruppi di Lie “senza l’ipotesi della differenziabilità delle funzioni che definiscono il gruppo”).
Su un punto Hilbert e Poincaré si trovano – si sarebbero
trovati – d’accordo: nell’affermare e nel difendere vigorosamente “il carattere unitario della matematica”. Scrive il matematico tedesco nelle osservazioni conclusive che seguono la
presentazione dei problemi:
Siamo indotti a domandarci se la scienza matematica non finirà, come è già accaduto da tempo per altre scienze, per suddividersi in branche separate, i cui cultori si comprenderanno
a stento gli uni con gli altri e la cui interconnessione diventerà
sempre più debole. Non lo credo, né lo spero; secondo me, la
scienza matematica è un tutto indivisibile, un organismo la cui
forza vitale ha per condizione necessaria l’indissolubilità delle
parti. [Hilbert 1900c, p. 297; 1902a, p. 113]
Ma si tratta di una consonanza solo apparente, che nasconde divergenze profonde. La concezione di Hilbert è essenzialmente monocentrica: il cuore del gigantesco organismo della
matematica è la teoria dei numeri e, più in generale, l’algebra,
alla quale la geometria, l’analisi e perfino la fisica possono e
devono ridursi se adeguatamente assiomatizzate. Policentrica
è invece la visione di Poincaré: la matematica – aperta a costanti e proficui scambi con la fisica, imprevedibile nelle sue
continue metamorfosi – è una rete di analogie.
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Il terzo problema
Il terzo problema della lista completa di Hilbert, come abbiamo ricordato, non è incluso tra quelli presentati al congresso di Parigi. Probabilmente pour cause, come vedremo nell’ultimo capitolo.
La questione è specifica e formulata in termini precisi, al
contrario della maggior parte degli altri problemi che sono
enunciati in termini generali e talvolta perfino vaghi:
Specificare due tetraedri di basi uguali23 e altezze uguali che
non possano in alcun modo essere scomposti in tetraedri congruenti, e che non possano nemmeno essere combinati con tetraedri congruenti per formare poliedri che siano scomponibili
in tetraedri congruenti. [Hilbert 1900c, p. 267; 1902a, p. 75]
All’origine del problema Hilbert indica due lettere inviate
nel 1844 da Gauss al suo ex studente Christian Ludwig Gerling
(1788-1864), all’epoca professore di matematica, fisica e astronomia all’Università di Marburg (i due si scambiano tra il 1810
e il 1854 ben 388 missive). Nella prima, dell’8 aprile, Gauss
scrive allo “stimatissimo amico” di ritenere un “vero peccato
che l’uguaglianza dei volumi di solidi soltanto simmetrici, ma
non congruenti si possa dimostrare soltanto mediante il metodo di esaustione”24 e non in maniera “elementare” (cioè, senza ricorrere agli strumenti dell’analisi matematica). Appena
una settimana più tardi, Gerling riesce a provare, mediante
un’ingegnosa costruzione, che due tetraedri specularmente
simmetrici possono essere scomposti in parti poliedriche a due
a due congruenti.
Ogni tetraedro, in effetti, individua 4 punti nello spazio che
non appartengono tutti allo stesso piano; questi determinano
una sfera, che è la sfera circoscritta al tetraedro. Le sfere circoscritte a due tetraedri specularmente simmetrici hanno lo
stesso raggio e dunque si possono identificare. Gerling fa uso
della sfera circoscritta per dissezionare ciascun tetraedro in 12
parti poliedriche, con le quali è possibile ricomporre il tetraedro specularmente simmetrico.25
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Dato che ogni poliedro può essere dissezionato in tetraedri, il risultato si estende a ogni coppia di poliedri specularmente simmetrici e risponde alla questione posta da Gauss.
Questi replica a stretto giro di posta, il 17 aprile, esprimendo
il proprio “rammarico” (Bedauern) per il fatto che molti altri
risultati della stereometria rimangano tuttavia dipendenti dal
metodo di esaustione, compresa la celebre proposizione
XII.5 degli Elementi di Euclide, la quale asserisce che piramidi di basi uguali e altezze uguali hanno ugual volume (ne riparleremo più avanti). L’idea di Gauss è che, a proposito di
questa proposizione, “vi siano forse […] parecchie cose da
migliorare”.26
Di avviso opposto si mostra invece Hilbert: “Una dimostrazione di questo tipo [cioè, per dissezione] del teorema di
Euclide nel caso generale”, scrive, “non mi sembra affatto possibile”. Qual è la ragione di questa ostentata sicurezza?
Il testo dei “Mathematische Probleme” compare a stampa,
nella sua prima versione, nelle Nachrichten von der königlichen
Gesellschaft der Wissenschaften di Gottinga;27 precisamente,
nel terzo fascicolo dell’annata 1900, datato 28 dicembre. Questo medesimo fascicolo accoglie anche un articolo – presentato, guarda caso, proprio da Hilbert, alla Königliche Gesellschaft der Wissenschaften di Gottinga, nella riunione del 27
ottobre – che risolve in dettaglio la prima metà della questione e annuncia che la soluzione della seconda parte sarebbe stata fornita in un lavoro successivo. Ne è autore il giovane Max
Dehn (1878-1952), che l’anno precedente ha ottenuto il dottorato in matematica all’Università di Gottinga sotto la supervisione dello stesso Hilbert. In effetti, nella versione dei
“Mathematische Probleme” pubblicata sull’Archiv der Mathematik und Physik [1901a], Hilbert aggiunge una nota all’enunciato del problema 3, in cui precisa: “Nel frattempo, Herr
Dehn è riuscito a fornire questa dimostrazione”. Sebbene la
nota sia riportata nella traduzione inglese [1902b], inspiegabilmente28 non compare invece, nella traduzione francese
[1902a] del testo, quella che è pubblicata negli atti del congresso di Parigi e conosce la più ampia diffusione.
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Non solo. In realtà, come vedremo, la chiave per rispondere al quesito posto da Hilbert era già stata trovata quattro anni prima da un ingegnere francese, Raoul Bricard (1870-1944).
Hilbert ha preso visione dei risultati di Dehn da prima del
congresso di Parigi o ne viene a conoscenza subito dopo? È al
corrente delle originali (seppur non troppo rigorose) ricerche di
Bricard? È vano perdersi in oziose speculazioni. Piuttosto, dobbiamo domandarci: perché mai Hilbert è interessato a stabilire
se sia possibile definire il volume dei poliedri senza ricorrere alla teoria dei limiti? Qual è l’importanza del problema nell’ambito del suo programma di rifondazione della geometria?
NOTE
1. Gli otto monumentali volumi del rapport [Picard 1902-1903] contengono informazioni dettagliatissime sull’organizzazione, la preparazione
e i costi dell’Exposition Universelle, nonché minuziose descrizioni di tutte
le “attrazioni” e preziosi dati statistici. Per la precisione, le entrées payantes
furono 39.027.177, le entrées gratuites 11.833.624, per un totale di
50.860.801 visitatori [ibidem, vol. VIII, p. 883]. È Jules Roche, nel 1892, a
pronunciare le parole “L’Exposition de 1900 constituera la synthèse, déterminera la philosophie du XIXe siècle” [ibidem, vol. I, p. 11]. Per vedere
l’Exposition con gli occhi di un visitatore dell’epoca è utile la consultazione della guida Hachette, Paris Exposition 1900. Guide pratique du visiteur
de Paris et de l’exposition, Hachette et C.ie, Paris 1900 (la notizia sugli indigeni del Madagascar si trova a p. 352). Alcune testimonianze letterarie, dirette e indirette: Rubén Darío, Peregrinaciones, Libreria de la Vda de Ch.
Bouret, París-Mexico 1901 (per una descrizione di “Venise à Paris”); Gaston Bergeret, Journal d’un nègre à l’Exposition de 1900, L. Carteret, Paris
1901 (squisitamente politically incorrect); Paul Morand, 1900, Les Éditions
de France, Paris 1931.
Sul Cinéorama, i cui spettacoli furono presto sospesi per il ripetersi di incidenti tecnici e per l’elevato rischio di incendi, si veda Marco Bertozzi, “La
città europea e il cinema”, in Storia del cinema mondiale. L’Europa. I. Miti,
luoghi, divi, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 1999, pp. 147-173.
Per un inquadramento generale si rimanda a R.W. Brown, “Paris 1900”,
in Encyclopedia of World’s Fairs and Expositions, edited by John E. Findling
and Kimberly D. Pelle, McFarland & Co., Jefferson (NC) - London 2008,
pp. 149-157.
2. Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo (1935), in Id., I “passages” di Parigi, a cura di Rolf Tiedemann, ed. it. a cura di Enrico Ganni, 2
voll., Einaudi, Torino 2010, vol. I, p. 9.
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3. La frase attribuita a Renan è citata da Émile Boutroux nella sua allocuzione al Congresso internazionale di filosofia (“Introduction”, in Bibliothèque du Congrès international de philosophie. I. Philosophie générale et
métaphysique, Armand Colin, Paris 1900, p. XI). Secondo Boutroux, “l’Exposition de 1900 représente essentiellement l’alliance de l’industrie et de la
science, du travail et de la pensée, de l’utile et du beau, des forces matérielles et des forces morales, du réel et de l’idéal” (ibidem, p. XI). I dati relativi
ai congressi sono ricavati da [Picard 1902-1903, vol. VI, pp. 19-22]. Per un’analisi puntuale si veda [Rasmussen 1989]; da questo articolo (p. 26) è tratta
la citazione di A. Picard.
4. Una precisazione sulle date: il 5 agosto si tiene una riunione preliminare
al Café Voltaire, i lavori si aprono il 6 agosto (Henri Poincaré è nominato presidente per acclamazione) e si chiudono l’11 agosto; il 12 agosto ha luogo il
banchetto ufficiale. La lista dei partecipanti e un resoconto abbastanza dettagliato dei lavori, oltre ai testi delle conferenze, sono contenuti negli atti del
congresso [Duporcq (a cura di) 1902].
5. Sui primi congressi internazionali dei matematici (compreso quello
non ufficiale di Chicago, nel 1893) si vedano [Albers, Alexanderson e Reid,
1987], [Lehto 1998], [Guerraggio e Nastasi 2008, cap. 3].
6. Charlotte Angas Scott (1858-1931), nativa di Lincoln (Inghilterra), studia a Cambridge; nel 1880, benché le donne siano escluse dai diplomi superiori, si classifica, per acclamazione, ottavo wrangler nell’esame (tripos) finale. Nel 1885 si trasferisce negli Stati Uniti, avendo ottenuto un posto di professore associato al college di Bryn Mawr (Pennsylvania). Il suo principale
settore di ricerca è la teoria delle curve algebriche. Si veda [Gray 2004b].
7. Per le informazioni biografiche si vedano [Weyl 1944], [Freudenthal
1981a], [Reid 1996], [Gray 2000].
8. Hilbert, “Adolf Hurwitz”, in Göttinger Nachrichten. Geschäftliche Mitteilungen, 1920, pp. 75-83 = Mathematische Annalen, 83, 1921, pp. 161-168
= [Hilbert 1935, pp. 370-377].
9. Ricordiamo che un polinomio in N variabili si dice omogeneo di grado d se è dato dalla somma di monomi tutti di grado d; i polinomi considerati sono a coefficienti complessi. Se si ha un polinomio omogeneo di grado d in una variabile, q(z) = a zd, lo si può “moltiplicare” per un numero
complesso g ottenendo un nuovo polinomio omogeneo dello stesso grado:
(g ∙ q)(z) = gda zd. Analogamente, ogni matrice g invertibile N × N a elementi complessi, agendo sulle variabili z1, …, zN, trasforma un polinomio omogeneo q (z1, …, zN) in un nuovo polinomio omogeneo (g ∙ q)(z1, …, zN) dello stesso grado. Questa (tralasciando alcuni dettagli tecnici) è l’azione del
gruppo generale N-lineare (cioè, il gruppo delle matrici invertibili N × N a
elementi complessi) sullo spazio dei polinomi omogenei in N variabili; nello stesso modo, si può anche considerare il gruppo delle matrici invertibili
di determinante 1 (gruppo speciale lineare). L’azione del gruppo si estende
in modo naturale alle n-uple (q1, …, qn) di polinomi omogenei e alle funzioni
polinomiali dallo spazio delle n-uple di polinomi omogenei ai numeri complessi; una tale funzione che sia trasformata in se stessa da ogni elemento del
gruppo è un invariante in senso classico. Il legame con la geometria proiet-
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tiva è dato dal fatto che una n-upla di polinomi omogenei definisce una varietà algebrica (il luogo dei punti in cui tutti i polinomi si annullano contemporaneamente). La situazione che abbiamo sommariamente descritto
– corrispondente al caso studiato dalla teoria classica – è suscettibile di varie generalizzazioni, per esempio considerando l’azione di gruppi diversi da
quello generale lineare o da quello speciale lineare. Per approfondimenti
rimandiamo a [Olver 1999].
10. Fondamentali sono gli articoli del 1845 e del 1846 “On the theory of
linear transformations” [Cayley 1889b, pp. 80-94] e “On linear transformations” [ibidem, pp. 95-112] – che, senza sostanziali modifiche, sono pubblicati insieme con il titolo “Mémoire sur les hyperdéterminants” nel Journal für
die reine und angewandte Mathematik nel 1846 – e quello del 1856 “Second
memory upon quantics” [ibidem, pp. 250-281].
11. [Kung e Rota 1984, p. 27].
12. La decisione di Hilbert di cambiare settore di ricerca risale in realtà
all’anno precedente. Così scrive a Minkowski in una lettera del 1892: “Abbandonerò ora il campo degli invarianti e passerò a occuparmi di teoria dei
numeri” (cit. in [Gray 2000, p. 33]).
13. Ricordiamo che nel 1883 Minkowski, non ancora ventenne, aveva
vinto ex aequo il Grand Prix de l’Académie des Sciences Mathématiques
bandito dall’Académie des Sciences di Parigi con una memoria di 140 pagine sulle possibili rappresentazioni di un numero naturale come somma di 5
quadrati.
14. “Die Theorie der algebraischen Zahlkörper”, in Jahresbericht der
Deutschen Mathematiker-Vereinigung, 4, 1897, pp. 175-546 = [Hilbert 1932,
pp. 63-363]; tr. inglese [Hilbert 1998].
15. A proposito dell’aspirazione di Klein e Hilbert di assicurare a Gottinga una posizione di assoluto predominio tra le università tedesche si veda
[Rowe 1989]. Non a caso, Hilbert, dopo la chiamata di Minkowski nel 1902,
avrebbe esclamato: “Ora siamo invincibili” [ibidem, p. 197]. Le parole citate
nel testo sono pronunciate anni dopo, retrospettivamente, da Richard Courant (1888-1972), allievo e collaboratore di Hilbert. Cfr. anche [Tazzioli 2007].
16. Negli atti del congresso [Duporcq (a cura di) 1902] gli sarà tuttavia
restituito un posto d’onore: il suo intervento costituisce infatti una delle tre
“conférences” generali (pp. 58-114).
17. Abbiamo desunto le nostre informazioni principalmente da [Grattan-Guinness 2000a], [Gray 2000], [Reid 1996]. La prima versione dei
“Mathematische Probleme”, pubblicata sulle Nachrichten von der königlichen Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen [Hilbert 1900c], è ristampata l’anno seguente sull’Archiv der Mathematik und Physik “con aggiunte dell’autore” [Hilbert 1901a]. Sia la versione francese di Léonce Laugel [Hilbert 1902a] (pubblicata anche in forma di opuscolo a sé stante) sia
quella inglese di Mary Newson [Hilbert 1902b] presentano alcune lievi varianti rispetto all’originale tedesco e hanno un ruolo importante per la diffusione internazionale del testo. Un breve riassunto della conferenza di Hilbert è pubblicato sulla rivista svizzera L’Enseignement mathématique [Hilbert
1900b]. Infine, sulla Revue générale des sciences pures et appliquées compa-
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re, in traduzione anonima e piuttosto libera, la parte introduttiva e una lista
di dieci problemi (non coincidente con quella presentata al congresso) [Hilbert 1901c]. Per un accurato raffronto tra le varie versioni del testo si veda
[Grattan-Guinness 2000a]. Un’annotazione contenuta nei Mathematische
Notizbücher di Hilbert, e risalente con ogni probabilità al 1901, indica l’esistenza anche di un ventiquattresimo problema, espunto dalla lista definitiva;
cfr. [Thiele 2003].
18. Poincaré affronterà in modo più sottile il problema di prevedere il
“futuro della matematica” nella conferenza, che reca appunto il titolo “L’avenir des mathématiques”, presentata al Congresso internazionale dei matematici di Roma del 1908 (Revue générale des sciences pures et appliquées, 19,
1908, pp. 930-939), successivamente ripreso in Science et méthode [Poincaré
1997, cap. 3].
19. In E. du Bois-Reymond, I confini della conoscenza umana, ed. it. a cura di Vincenzo Cappelletti, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 15-47. Cfr. [McCarty 2005].
20. Precisiamo, se ce ne fosse bisogno, che non abbiamo alcuna indicazione che questo testo di Poincaré (successivamente ripreso nel capitolo 22
di La science et l’hypothèse) sia noto a Hilbert.
21. I problemi presentati nella conferenza di Parigi sono contrassegnati
con un asterisco.
22. Hilbert aveva studiato un caso particolare del problema 4 nell’articolo
[1895].
23. In questo contesto, secondo una terminologia che risale a Euclide,
“basi uguali” significa basi aventi la stessa area.
24. Sul cosiddetto “metodo di esaustione” si veda il capitolo 9, p. 260 e
nota 213.
25. Una scomposizione in 12 pezzi ottenuta a partire dalla sfera inscritta
nei due tetraedri è descritta nel 1903 dal matematico danese Sophus Christian Juel (1855-1935). Nel 1968 Børge Jessen, anch’egli danese, migliora la
dimostrazione di Juel pervenendo a una dissezione in solo 6 pezzi. Si veda
[Frederickson 2002, pp. 230-232].
26. Si veda [Gauss 1927, pp. 675-686]. Hilbert cita le lettere di Gauss
a Gerling facendo riferimento agli estratti pubblicati nell’ottavo volume delle opere di Gauss edito proprio in quell’anno [Gauss 1900] per cura della
Königliche Gesellschaft der Wissenschaften di Gottinga.
27. Cfr. supra, nota 17.
28. Un’omissione ancor più difficile da motivare se si tiene conto delle
puntigliose note integrative aggiunte dal traduttore, Léonce Laugel.
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