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CONCIATO ROMANO
La sua tecnica di conservazione e di affinamento fa pensare a pratiche antichisime, agli albori della
civilità agropastorale. C’è chi sostiene che il Conciato Romano della provincia di Caserta sia il più
antico formaggio italiano, e che risalga addirittura alla civiltà sannitica.
Si utilizza latte crudo di pecora e di capra, filtrato e fatto coagulare, a temperatura ambiente, con
caglio naturale di capretto. Dopo circa due ore, si procede alla rottura della cagliata, a mano, fino a
ridurre la massa alle dimensioni di chicchi di riso.
Dopo circa 10 minuti, sempre a mano, la cagliata viene raccolta, ben pressata e posta nelle fuscelle.
Ciascuna formetta viene girata 2-3 volte per favorire l’assunzione della forma e la colatura del siero.
Si procede, quindi, alla salatura a mano in superficie da un lato e, dopo circa 12 ore, si capovolgono
le forme e si passa il sale sull’altro lato.
Dopo altre 12 ore circa, si tolgono le forme dalle fuscelle e si pongono in una tradizionale struttura
di legno aperta e protetta da una zanzariera, detta casale, posta all’aperto ed all’ombra, fino
all’asciugatura. Una volta asciugate, le forme vengono prima lavate con l’acqua di cottura della
pasta fatta in casa, quindi riasciugate e “conciate” con olio di oliva, aceto bianco, timo selvatico e
peperoncino.
Le forme, una volta conciate, vengono poste in vasi di creta per un periodo di almeno 6 mesi fino a
2 anni, dai quali vengono prelevate, lavate e conciate. Il Conciato è una sorta di formaggio
resuscitato, che può arrivare anche a una piccantezza molto pronunciata. Accostare tale formaggio a
preparazioni dolci può essere una buona idea: confetture di limoni, fichi, miele, castagno,
corbezzolo, cotognate.
Testo consultato Presidi Slow Food
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Nell’Alto Casertano si produce un formaggio ovino antichissimo - il
conciato romano (nella foto) - sopravvissuto all’estinzione grazie alla
famiglia Lombardi, che continua a produrlo nel piccolo comune di
Castel di Sasso.
A Castel di Sasso si custodisce e si tramanda la ricetta di un formaggio dalle origini incerte e dal
gusto deciso: il conciato romano.
Il piccolo regno del conciato romano: “Le Campestre” – Il nucleo originario di Castel di Sasso è
abbarbicato su uno sperone roccioso, a strapiombo sulla vallata.
Le altre frazioni sono formate da gruppetti di case sparse. Nel sito di Buonomini, tra pascoli e orti,
si trova l’azienda agrituristica “Le Campestre”, della famiglia Lombardi. Sulla piazzetta di questo
piccolo borgo si affacciano il ristorante, il vialetto che porta alle tre camere dell’agriturismo, una
terrazza panoramica dove godere lo spettacolo degli ulivi e delle vigne di casa e un piccolo
laboratorio dedicato alla produzione del conciato romano.
Liliana Lombardi ha imparato a farlo dai suoceri che avevano un gregge di pecore, capre e qualche
mucca bianca. La suocera lo preparava in casa e le ha passato il testimone. Anche lei e suo marito
hanno un gregge: centocinquanta pecore che pascolano nella piccola vallata in fondo alla proprietà,
dove comincia il bosco.
Liliana aveva trasmesso la sua passione per la tradizione anche a suo figlio Fabio; ma oggi questo
giovane casaro non c’è più, vittima nell’ottobre del 2007 di un incidente sul trattore. L’impegno del
fratello Manuel e di sua moglie Eulalia è stato fondamentale per aiutare la famiglia a superare quel
momento e continuare a gestire al meglio l’azienda.
La preparazione del conciato – «Credo che se questo formaggio fosse fatto altrove non avrebbe lo
stesso sapore – racconta Eulalia – perché il primo elemento che lo rende speciale è il pascolo. Le
pecore mangiano solo il nostro fieno. Pascolano in libertà, brucando erbe aromatiche, timo
selvatico; e ciò che sta nel latte lo ritroviamo nel formaggio».
Ogni fattore determina cambiamenti nel gusto del formaggio: il conciato prodotto a maggio, quando
la vegetazione è nel pieno del suo rigoglio, ha un gusto diverso rispetto a quello estivo quando la
natura è meno generosa a causa delle alte temperature. Eulalia racconta le fasi della preparazione:
«La lavorazione del latte avviene a crudo, lasciandone inalterate caratteristiche nutritive e
organolettiche. Il latte appena munto viene filtrato a circa 36 gradi, che è la temperatura corporea
degli animali, e messo a bagnomaria con il caglio d’agnello o di capretto. Lo lasciamo
rapprendere per un paio d’ore e poi rompiamo la cagliata. A questo punto lo mettiamo nelle
fuscelle per far colare il primo siero. Nascono così le caciotte di formaggio.
Le saliamo da una parte e dall’altra e le mettiamo ad asciugare nel casale, un mobile di legno di
faggio completamente areato, protetto da zanzariere. L’essiccazione dura una o due settimane,
secondo la stagione e il clima, e avviene all’aperto. Poi laviamo le forme con l’acqua di cottura
della pasta. La nonna lo faceva per non sprecare l’acqua calda quando preparava le pettole, fusilli
di acqua e farina attorcigliati col ferro.
Noi abbiamo riscontrato che l’amido della pasta giova alle caciotte e le predispone alla fase
successiva: la conciatura. Mettiamo le formette in anfore di terracotta con olio, aceto, peperoncino,
timo selvatico o pimpinella - da queste parti si chiama piperna - e il vino Casavecchia. Questa è la
fase che dà al formaggio il suo gusto caratteristico. L’affinamento va da
un minimo di sei mesi, alla fine dei quali il formaggio si può definire
conciato romano, a un massimo di due anni. Più sta e più diventa
morbido e aumenta le sue caratteristiche di piccantezza».
«Prima le caciotte erano messe nell’anfora, u zire, con un semplice tappo a chiusura, ma a contatto
diretto con l’aria il formaggio tendeva a ossidarsi, e formava il vermetto, u zumpariello. Per molti
voleva dire che il formaggio era buono. Oggi non succede più. Mia suocera ci ha lavorato molto,
con l’aiuto di Leandro La Manna, maestro assaggiatore Onaf, che circa dieci anni fa fu incaricato
dalla Regione Campania di scoprire un formaggio tipico del Casertano. Lui fece ricerche, arrivò
qui e conobbe mia suocera. Insieme cominciarono a lavorare per migliorare le fasi della
lavorazione del formaggio. La Manna è stato il primo ad attivarsi per valorizzare il conciato».
Un prodotto a rischio estinzione - Nella zona tutti conoscono questo formaggio.
«Il conciato è una tradizione del posto, dalle origini incerte. Alcuni lo fanno risalire ai Sanniti,
antica civiltà italica. Il procedimento si è sempre tramandato da genitori a figli - sorride Eulalia –
Chi aveva le pecore lo faceva per regalarlo, magari a Natale, ma nessuno lo vendeva».
L’interesse intorno al conciato nacque circa una decina d’anni fa e appassionò anche Slow Food al
punto che nel 2000 il formaggio divenne presidio. Fabio Lombardi stava appunto lavorando per
invogliare altri produttori della zona a uscire dall’ambito familiare, dotarsi di strutture
igienicamente idonee, darsi delle regole e associarsi per continuare a fare un prodotto di qualità. Il
risultato
era
stato
la
nascita
della
“Associazione
amici
del
conciato”.
«Ma è difficile – spiega oggi Eulalia – perché proprio quando si cerca di salvare questo formaggio
dall’oblio e valorizzarlo, molti si sono improvvisati casari senza rispettare il laborioso
procedimento di preparazione o lavorando latte che non viene dalle nostre pecore. Senza sapere
cosa mangiano come facciamo a garantire sulla qualità del latte e sulle caratteristiche
organolettiche
del
formaggio?
Rischiamo
di
fare
un
altro
prodotto».
Oggi il conciato è incluso nell’elenco regionale dei prodotti tradizionali della Campania.
«Dobbiamo continuare il lavoro di comunicazione e valorizzazione del prodotto che con tanto
entusiasmo
aveva
intrapreso
Fabio»
dice
Eulalia.
L’abbinamento – Il conciato, definito il formaggio “estremo”, ha un sapore intenso, deciso,
piccante, e non si presta a facili abbinamenti.
«Noi lo proponiamo sulle nostre orecchiette con i friarielli – i broccoletti da cime di rapa dal gusto
amarognolo – oppure a fine pasto, accompagnato da un passito. Molti chiedono l’abbinamento con
marmellate o miele. Io non sono molto d’accordo. Trovo che in questo modo si perda un po'
l’essenza di questo formaggio: i suoi sentori erbacei di fieno, il timo selvatico. Qui dentro c’è la
campagna con la sua vegetazione spontanea, il robusto vino rosso, le erbette aromatiche».
«È estremo perché spesso non ammette vie di mezzo – prosegue
– C’è chi lo ama e chi invece trova il suo piglio troppo deciso.
Ma il palato evolve. La prima volta che l’ho assaggiato non mi
piaceva. Poi ho cominciato ad apprezzarlo. Il palato, se
allenato, si apre e abbraccia una gamma sempre più vasta di
sapori».
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