RASSEGNA STAMPA
lunedì 7 settembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ARCI SUI MEDIA
del 05/09/15, pag. 5
L’appello dell’Arci: lunedì prossimo protesta
davanti l’ambasciata ungherese
L’atteggiamento violento e razzista che caratterizza il governo ungherese nella gestione
della tragedia umanitaria che sta in parte coinvolgendo anche quel Paese sembra non
avere limiti.
Dopo l’annuncio e la costruzione di un muro di filo spinato alla frontiera con la Serbia,
sono seguite, nel luglio scorso, le immagini di centinaia di uomini, donne e bambini
rinchiusi nei vagoni di un treno che attraversava il paese verso la capitale. Due giorni fa, la
stazione di Budapest, trasformata in un campo profughi a cielo aperto, é stata sgomberata
dalla polizia locale manu militari. Lacrimogeni sono stata sparati anche alla frontiera con la
Serbia, dove la polizia ungherese cercava di impedire a circa duecento migranti di lasciare
il centro di identificazione per rifugiati di Roszke.
Anche se la stazione è stata riaperta, i pochi treni partiti si fermano poco lontano da
Budapest, perché le autorità stanno cercando di convincere i profughi a scendere e a
essere accompagnati nei centri di accoglienza per essere registrati, contro la loro volontà
che è di proseguire verso la Germania. Il primo ministro Orban, in conferenza stampa con
Martin Schultz, annuncia e promette che nessuno lascerà l’Ungheria senza che sia stato
prima identificato e registrato.
È necessario far arrivare al primo ministro ungherese il nostro dissenso di fronte a tali
barbarie che vedono protagonisti anche altri governi e altri Paesi europei.
Lunedì 7 settembre l’Arci organizza un presidio davanti all’Ambasciata ungherese a Roma
(via dei Villini 12/16) per manifestare dissenso e indignazione.
Facciamo appello a tutte le organizzazioni e movimenti a manifestare con noi, affinché ci
sia la presenza più ampia possibile.
Da Repubblica.it del 07/09/15
Migranti, un presidio per i diritti e la dignità
Le scelte del suo governo sono state oggetto di critiche, indignazione, condanne. Treni
carichi di migranti prima fatti fermare alla stazione di Budapest poi spostati a pochi
chilometri dalla capitale. Campi a cielo aperto dove la solidarietà stenta a germogliare.
Schedature, controlli. E l'Ungheria di Orban è diventata quasi il simbolo di quell'Europa
che si allontana da ciò che dovrebbe essere: quella che di fronte all'emergenza dei
profughi chiude, respinge, si arrocca. Per lunedì 7 settembre, alle 15, l'Arci ha indetto un
presidio all'esterno dell'ambasciata ungherese a Roma. Due gli obiettivi: manifestare
dissenso di fronte a queste scelte e chiedere che siano compiuti atti per ripristinare i diritti
e la dignità dei migranti.
Nell'appello, diffuso dall'Arci sul proprio sito, si legge:
Dopo l'annuncio e la costruzione di un muro di filo spinato alla frontiera con la Serbia,
sono seguite, nel luglio scorso, le immagini di centinaia di uomini, donne e bambini
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rinchiusi nei vagoni di un treno che attraversava il paese verso la capitale. Due giorni fa, la
stazione di Budapest, trasformata in un campo profughi a cielo aperto, é stata sgomberata
dalla polizia locale manu militari. Lacrimogeni sono stata sparati anche alla frontiera con la
Serbia, dove la polizia ungherese cercava di impedire a circa duecento migranti di lasciare
il centro di identificazione per rifugiati di Roszke.
Anche se la stazione è stata riaperta, i pochi treni partiti si fermano poco lontano da
Budapest, perché le autorità stanno cercando di convincere i profughi a scendere e a
essere accompagnati nei centri di accoglienza per essere registrati, contro la loro volontà
che è di proseguire verso la Germania. Il primo ministro Orban, in conferenza stampa con
Martin Schultz, annuncia e promette che nessuno lascerà l'Ungheria senza che sia stato
prima identificato e registrato.
È necessario far arrivare al primo ministro ungherese il nostro dissenso di fronte a tali
barbarie che vedono protagonisti anche altri governi e altri Paesi europei
Osservatorio democratico. E sul rischio che la situazione in Ungheria possa "degenerare",
interviene anche un'altra associazione, Melting Pot Europa, che da anni si batte per la
messa in cantiere di un diritto d'asilo europeo. "Il governo ungherese ha dimostrato in
questi giorni la faccia peggiore della destra xenofoba europea. Sarà compito di tutti
monitorare la gestione dei confini ungheresi, sia da una parte che dall’altra di quel muro
che spezza la ricerca di vita e la consegna alla probabile morte".
Qui il sito dell'Arci. Qui Melting Pot Europa
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2015/09/06/migranti-un-presidio-per-i-diritti-e-ladignita/
Da Gr Rai del 07/09/15
Nell’edizione delle ore 13 di oggi
intervista a Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci, sul sit-in all’ambasciata
ungherese
Da AskaNews del 07/09/15
Ambasciata d'Ungheria, oggi sit in
antirazzista dell'Arci
Roma, 7 set. (askanews) - "L'atteggiamento violento e razzista che caratterizza il governo
ungherese nella gestione della tragedia umanitaria che sta in parte coinvolgendo anche
quel Paese sembra non avere limiti". E' quanto si legge in un comunicato stampa dell'Arci,
nel quale si annuncia un presidio per le 15 di oggi davanti all'Ambasciata ungherese a
Roma (via dei Villini 12/16) "per manifestare dissenso e indignazione".
"Dopo l'annuncio - si legge ancora nella nota - e la costruzione di un muro di filo spinato
alla frontiera con la Serbia, sono seguite, nel luglio scorso, le immagini di centinaia di
uomini, donne e bambini rinchiusi nei vagoni di un treno che attraversava il paese verso la
capitale. Due giorni fa, la stazione di Budapest, trasformata in un campo profughi a cielo
aperto, è stata sgomberata dalla polizia locale manu militari. Lacrimogeni sono stata
sparati anche alla frontiera con la Serbia, dove la polizia ungherese cercava di impedire a
circa duecento migranti di lasciare il centro di identificazione per rifugiati di
Roszke".(Segue)
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Ambasciata d'Ungheria, oggi sit in
antirazzista dell'Arci -2Roma, 7 set. (askanews) - "Anche se la stazione è stata riaperta, i pochi treni partiti ricorda l'associazione - si fermano poco lontano da Budapest, perché le autorità stanno
cercando di convincere i profughi a scendere e a essere accompagnati nei centri di
accoglienza per essere registrati, contro la loro volontà che è di proseguire verso la
Germania. Il primo ministro Orban, in conferenza stampa con Martin Schultz, annuncia e
promette che nessuno lascerà l'Ungheria senza che sia stato prima identificato e
registrato".
A giudizio dell'Arci, quindi, "è necessario far arrivare al primo ministro ungherese il nostro
dissenso di fronte a tali barbarie che vedono protagonisti anche altri governi e altri Paesi
europei".
Da Redattore Sociale del 04/09/15
Migranti, il 7 settembre sit-in davanti
all’Ambasciata ungherese a Roma
Protesta dell'Arci contro "l’atteggiamento violento e razzista che
caratterizza il governo ungherese". Per l'associazione è "necessario far
arrivare al primo ministro il dissenso di fronte a tali barbarie". Appello
perchè altre organizzazioni si uniscano alla manifestazione
ROMA - "L’atteggiamento violento e razzista che caratterizza il governo ungherese nella
gestione della tragedia umanitaria che sta in parte coinvolgendo anche quel Paese
sembra non avere limiti. Dopo l'annuncio e la costruzione di un muro di filo spinato alla
frontiera con la Serbia, sono seguite, nel luglio scorso, le immagini di centinaia di uomini,
donne e bambini rinchiusi nei vagoni di un treno che attraversava il paese verso la
capitale. Due giorni fa, la stazione di Budapest, trasformata in un campo profughi a cielo
aperto, é stata sgomberata dalla polizia locale manu militari. Lacrimogeni sono stata
sparati anche alla frontiera con la Serbia, dove la polizia ungherese cercava di impedire a
circa duecento migranti di lasciare il centro di identificazione per rifugiati di Roszke". Così
in un anota l'Arci che annuncia per lunedì 7 settembre organizza un presidio davanti
all’Ambasciata ungherese a Roma (via dei Villini 12/16) per manifestare dissenso e
indignazione.
"Anche se la stazione è stata riaperta, - prosegue la nota - i pochi treni partiti si fermano
poco lontano da Budapest, perché le autorità stanno cercando di convincere i profughi a
scendere e a essere accompagnati nei centri di accoglienza per essere registrati, contro la
loro volontà che è di proseguire verso la Germania. Il primo ministro Orban, in conferenza
stampa con Martin Schultz, annuncia e promette che nessuno lascerà l'Ungheria senza
che sia stato prima identificato e registrato". Per l'Arci è "necessario far arrivare al primo
ministro ungherese il nostro dissenso di fronte a tali barbarie che vedono protagonisti
anche altri governi e altri Paesi europei. Facciamo appello a tutte le organizzazioni e
movimenti a manifestare con noi, affinchè ci sia la presenza più ampia possibile".
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Da Articolo 21 del 05/09/15
Arci: “Per i diritti e la dignità dei migranti”.
Lunedì a Roma davanti all’Ambasciata
ungherese
“L’atteggiamento violento e razzista che caratterizza il governo ungherese nella gestione
della tragedia umanitaria che sta in parte coinvolgendo anche quel Paese sembra non
avere limiti. Dopo l’annuncio e la costruzione di un muro di filo spinato alla frontiera con la
Serbia, sono seguite, nel luglio scorso, le immagini di centinaia di uomini, donne e bambini
rinchiusi nei vagoni di un treno che attraversava il paese verso la capitale”. Lo scrive l’Arci
in una nota. Alcuni giorni fa, la stazione di Budapest, trasformata in un campo profughi a
cielo aperto, é stata sgomberata dalla polizia locale manu militari. Lacrimogeni sono stata
sparati anche alla frontiera con la Serbia, dove la polizia ungherese cercava di impedire a
circa duecento migranti di lasciare il centro di identificazione per rifugiati di Roszke”.
“Anche se la stazione è stata riaperta, i pochi treni partiti si fermano poco lontano da
Budapest, perché le autorità stanno cercando di convincere i profughi a scendere e a
essere accompagnati nei centri di accoglienza per essere registrati, contro la loro volontà
che è di proseguire verso la Germania. Il primo ministro Orban, in conferenza stampa con
Martin Schultz, annuncia e promette che nessuno lascerà l’Ungheria senza che sia stato
prima identificato e registrato. È necessario far arrivare al primo ministro ungherese il
nostro dissenso di fronte a tali barbarie che vedono protagonisti anche altri governi e altri
Paesi europei”.
Lunedì 7 settembre, alle 15, davanti all’Ambasciata ungherese, in via dei Villini 12/16 a
roma, sit-in per il rispetto e la dignità dei profughi, contro l’atteggiamento violento e
razzista del governo ungherese.
Facciamo appello a tutte le organizzazioni e movimenti a manifestare con noi, affinchè ci
sia la presenza più ampia possibile.
Per aderire: [email protected]
http://www.articolo21.org/2015/09/arci-per-i-diritti-e-la-dignita-dei-migranti-lunedi-a-romadavanti-allambasciata-ungherese/
Da RaiNews24 del 04/09/15
Venezia marcia a piedi scalzi per i migranti
La Marcia delle Donne e degli Uomini Scalzi che si terrà l'11 settembre
al Lido di Venezia vuole richiamare l'attenzione sui migranti e arriverrà
alla Mostra Internazionale del Cinema. Tra le adesioni Roberto Saviano,
Lucia Annunziata, Gad Lerner, Jasmine Trinca, Amnesty International e
la lista Tsipras
Si metteranno in cammino in solidarietà con i migranti e lo faranno a piedi scalzi portando
fino alla Mostra del Cinema di Venezia la voce di chi scappa dalle guerre. Come a voler
ricordare che le scene drammatiche mostrate dalle cronache televive sui flussi migratori
non sono il trailer di un film. Decine di persone appartenenti al mondo
dell'associazionismo, dei sindacati, della cultura, del cinema, del giornalismo e via
dicendo, l'11 settembre - data alquanto simbolica - attraverseranno il capoluogo Veneto
percorrendo così la "Marcia delle Donne e gli Uomini Scalzi". L'appello, partito dalla rete,
ha trovato l'adesione di personalità come Lucia Annunziata, Roberto Saviano, Elio
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Germano, Gad Lerner, Marco Bellocchio, don Vinicio Albanesi, don Armando Zappolini,
Valerio Mastrandrea, Giusi Nicolini, Daniele Vicari, Sergio Staino, Jasmine Trinca, tra gli
altri. "E' arrivato il momento di decidere da che parte stare - recita il testo - . Noi stiamo
dalla parte degli uomini scalzi. Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per
poter sperare di vivere o di sopravvivere. E' difficile poterlo capire se non hai mai dovuto
viverlo. Ma la migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente
della propria identità per poter sperare di trovarne un'altra. Abbandonare tutto, mettere il
proprio corpo e quello dei tuoi figli dentro ad una barca, ad un tir, ad un tunnel e sperare
che arrivi integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno". Gli
organizzatori auspicano che questa Marcia sia l'inizio di "un lungo cammino di civiltà",
dove è richiesto a tutti gli uomini e le donne del mondo globale di capire che non è
accettabile respingere chi è vittima di ingiustizie militari, religiose o economiche che siano.
Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà - prosegue l'appello - significa non accettare le
sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione
delle ricchezze. Sono quattro, infatti, i punti principali su cui i promotori vogliono che si
intervenga: la certezza di corridoi umanitari; un'accoglienza degna e rispettosa per tutti; la
chisura e lo smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e detenzione dei migranti; un
unico sistema di asilo europeo, superando il regolamento di Dublino. Tra le adesioni
all'appello delle Donne e degli Uomini Scalzi quelle di Amnesty International, Arci, Cgil, il
Manifesto, la lista Tsipras e il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza.
Iniziative analoghe si terrano altrove, a "metters in marcia" saranno anche Milano, Roma,
Genova, Torino, Alessandria, Caltagirone, Palermo (il giorno prima) e Gorizia. A Venezia
l'appuntamento è alle ore 17 al Lido in Piazza Santa Maria Elisabetta. In una recente
vignetta del fumettista Sergio Staino una bambina chiede a un migrante carico di bagagli:
"perché vi mettete in mare sapendo che forse morite?" e la risposta: "per quel forse". Di
certo quelle centinaia di migliaia di emigrati, donne e uomini che macinano chilometri,
spesso scalzi e con i figli imbraccio, chiamano e l'Occidente, sconvolto e un po'
"impreparato" di fronte a questa tragedia, dovrà dare presto risposte certe. Per il momento
come atto di solidarierà si cammina, proprio come loro, a piedi nudi. - See more at:
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Venezia-marcia-a-piedi-scalzi-per-i-migranti2ac0a4a4-6049-481f-b437-daca25bb6863.html
Da Redattore Sociale del 04/09/15
Scalzi a Venezia, Arci aderisce alla marcia
contro la "barbarie dei migranti"
Per fermare la "barbarie dei migranti" occorre muoversi. Per questo
l'Arci ha aderito alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi che si
terra' a Venezia l'11 settembre per iniziativa di intellettuali, artisti,
esponenti di associazioni
Roma - Per fermare la "barbarie dei migranti" occorre muoversi. Per questo l'Arci ha
aderito alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi che si terra' a Venezia l'11 settembre
per iniziativa di intellettuali, artisti, esponenti di associazioni e del mondo cattolico. "Ci
impegneremo - si legge nella nota - perche' nella stessa giornata iniziative di analogo
significato si tengano in quanti piu' luoghi possibili del nostro paese". "L'Europa, che ha
gravi responsabilita' storiche, per le politiche coloniali e di sfruttamento, nel determinare le
cause di fondo dei fenomeni migratori, deve ora - continua l'Arci - costruire corridoi
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umanitari, praticare politiche di vera accoglienza, aprire le proprie frontiere ai processi di
integrazione". (DIRE)
Da Redattore Sociale del 04/09/15
Germania e Austria aprono le frontiere.
Mattarella: "Superare accordo di Dublino"
A migliaia hanno già oltrepassato il confine, alcune centinaia sono già
su suolo tedesco. Un esodo di circa 10 mila persone. L'appello di
Mattarella: "Si apra la strada a regole comuni sull'asilo". Cresce
l'adesione alla manifestazione organizzata per venerdì 11 alla mostra del
cinema di Venezia
ROMA - Oltre 4 mila profughi siriani avrebbero già superato il confine tra Ungheria e
Austria, qualche centinaio, invece, avrebbe già raggiunto la Germania ma la situazione è
in continua evoluzione. A snocciolare alcuni dati del flussi di profughi che in queste ore sta
cercando di raggiungere il cuore dell'Europa sono le autorità austriache, secondo cui in
questi giorni saranno circa 10 mila i profughi che lasceranno il territorio ungherese.
Tuttavia, è presto per fare bilanci definitivi dopo che Austria e Germania hanno deciso di
aprire le frontiere a quanti in queste ore stanno cercando di raggiungere il cuore
dell'Europa. La decisione delle autorità tedesche ed austriache è arrivata nella notte di
sabato dopo che un migliaio di profughi siriani si era messo in marcia a piedi lungo
l'autostrada che collega l'Ungheria all'Austria. Un esodo facilitato anche dal governo
ungherese che in via del tutto eccezionale ha messo a disposizione decine di pullman per
facilitare il cammino dei migranti verso il confine. "Austria e Germania acconsentono in
questo caso a un proseguimento nei loro paesi del viaggio dei rifugiati", ha fatto sapere il
cancelliere austriaco Werner Faymann in un messaggio su Facebook in cui chiede
all'Ungheria di rispettare gli obblighi imposti dall'Europa.
Mattarella:"Superare Dublino con regole nuove"
Sulla vicenda è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella,
intervenuto in videoconferenza alla 41° edizione del Forum The European House. Per
Mattarella, è "un'illusione immaginare che sospendere le regole di Schengen possa
garantire a una parte dell'Europa la sicurezza che si teme minacciata. Il tentativo di
chiusura delle proprie frontiere si sta rivelando, come era inevitabile, illusorio, a fronte
delle dimensioni dei flussi migratori". Per il presidente della Repubblica, si tratta di un
fenomeno "di portata inedita, con la prospettiva di flussi sempre più imponenti senza
adeguate risposte strategiche". Sul fenomeno migratorio, ha aggiunto Mattarella, occorre
"alzare lo sguardo" e "connettere politiche serie e lungimiranti, che affrontino in primo
luogo nelle opportune sedi internazionali, le cause immediate e remote all'origine dei
fenomeni migratori, che rendano gestibili i flussi, possibile l'integrazione di chi cerca e
trova lavoro, più sicure le nostre città". Mattarella, poi, è intervenuto anche sul problema
delle norme riguardanti l'asilo. "Mi auguro che si stia aprendo davvero la strada per regole
finalmente comuni sul diritto di asilo - ha aggiunto -. Superare con regole nuove, condivise
e adeguate all'oggi il vecchio accordo di Dublino è un necessario passo in avanti.
L'alternativa non è tra la resa a un'invasione e la presunta difesa della ''Fortezza Europa''.
L'alternativa è tra un'Europa protagonista del proprio destino e un'Europa che subisce gli
eventi senza saperli governare".
Mogherini:"Basta scaricabarile. Ora agire insieme"
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Sulla questione dei flussi migratori si è discusso anche al Consiglio informale dei ministri
degli Esteri a Lussemburgo, al termine del quale l'Alto Rappresentante dell'Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha affermato che "il tempo per lo
scaricabarile è finito, ora dobbiamo passare all'azione insieme". Per Mogherini, "non ci si
può più illudere che ci siano paesi che non saranno coinvolti", ma ora "c'è una nuova
consapevolezza sul fatto che non si può semplicemente fare finta di non vedere. La crisi
dei rifugiati coinvolgerà tutta l'Europa per un periodo significativo. I paesi in prima linea,
Italia per prima, la vedono da molto. Ora finalmente tutti si rendono conto. Spero prendano
conseguenti decisioni politiche per far fronte".
La lunga marcia dei siriani verso il cuore dell'Europa
A spingenere le autorità austriache e tedesche ad una decisione nella notte, la marcia che
in molti già dicono "storica" dei profughi partiti dalla stazione di Budapest a piedi fino al
confine con l’Austria. Centinaia di profughi, in prevalenza siriani, si sono messi in marcia
per le strade della capitale ungherese, decisi a oltrepassare il confine arrivando al
ventisettesimo chilometro verso Vienna. Un gesto estremo deciso ieri dopo l'ennesimo
stop delle autorità ungheresi ai treni in partenza dalla stazione di Keleti. In marcia, ieri,
anche altri 300 profughi dalla stazione di Bicske, per evitare di essere trasferiti in un
campo profughi.
L'Italia si mobilita: tante le adesioni alla marcia #Apiediscalzi
E mentre le immagini straordinarie di questa marcia hanno catalizzato l’attenzione dei
media di tutto il mondo, in Italia si susseguono in queste ore le adesioni per la marcia
simbolica #Apiediscalzi che sfruttando i riflettori del Festival internazionale del cinema di
Venezia, lancerà un messaggio di solidarietà in favore dei richiedenti asilo. Tra le prime
città ad aderire c'è Milano. L'appuntamento è per 11 settembre, alle ore 21: partenza da
porta Genova e arrivo alla Darsena. Sono già una sessantina le associazioni che
aderiscono oltre a numerosi cittadini. Si svolgerà in contemporanea con l'analoga marcia
di Venezia (e in altre città), alla quale parteciperanno anche attori e registi presenti alla
Mostra internazionale di arte cinematografica. "Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi.
Di chi ha biso-gno di met-tere il pro-prio corpo in peri-colo per poter spe-rare di vivere o di
soprav-vi-vere. È difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo", scrivono sulla
pagina Facebook gli organizzatori.
Oltre che a Venezia e a Milano, la Marcia delle donne e degli uomini scalzi si terrà a
Genova, Palermo (il 10 settembre), Torino, Alessandria, Caltagirone. Lo scopo è quello di
chiedere un radicale cambiamento delle politiche sull'immigrazione. In particolare,
l'apertura di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature; accoglienza
degna e rispettosa per tutti; chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e
detenzione dei migranti. E sempre a Milano lunedì 7 settembre, alle Colonne di San
Lorenzo (ore 21), l'associazione La Libellula organizza una veglia laica con lettura
pubblica del libro "Il Cavallo e il soldato" di Gek Tessaro. Un corteo partirà anche dal
centro Baobab di via Cupa a Roma e si dirigerà verso la stazione Tiburtina della Capitale.
"Da maggio 2015, con oltre 26.000 migranti in transito e una straordinaria esperienza di
solidarietà diffusa, Via Cupa è divenuta il luogo-simbolo dell’accoglienza alle migranti e ai
migranti nella Capitale e teatro di una delle più vaste mobilitazioni spontanee della società
civile romana degli ultimi anni - spiegano i volontari del Baobab -Per questo motivo, ci
candidiamo ad ospitare la ‘Marcia delle Donne e degli Uomini Scalzi’ di Roma – annuncia
il coordinamento - invitando tutti i cittadini, le associazioni ed i movimenti della società
civile ad aderire ad una grande manifestazione pacifica che, insieme alle migranti e ai
migranti ospiti del Centro, raggiungerà la Stazione Tiburtina, luogo effettivo e simbolico del
viaggio del migrante”.
Immigrazione. Marcia delle donne e degli uomini scalzi
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Crescono, inoltre, le adesioni anche da parte delle associazioni, tra queste quella dell'Arci:
per fermare la "barbarie dei migranti" occorre muoversi, spiega l'associazione. "Ci
impegneremo perche' nella stessa giornata iniziative di analogo significato si tengano in
quanti piu' luoghi possibili del nostro paese".
Da Articolo 21 del 04/09/15
“Camminiamo insieme”. L’Arci aderisce alla
marcia delle donne e degli uomini scalzi
Il mondo guarda attonito le immagini che ci giungono dall’Ungheria o dalla spiaggia dove
giace il corpo di un piccolo bambino che il mare ha restituito. Molti si indignano, altri si
commuovono. Non basta commuoversi, bisogna muoversi. Il fenomeno migratorio ha
caratteri epocali e duraturi. Non c’è muro o mare, né stazioni chiuse o fili spinati, che lo
possano fermare. Le politiche repressive non hanno alcuna efficacia e senso, oltre che
essere ingiuste. Perciò muoviamoci.
L’Arci aderisce alla “marcia delle donne e degli uomini scalzi” che si terrà a Venezia l’11
settembre per iniziativa di intellettuali, artisti, esponenti di associazioni e del mondo
cattolico. Ci impegneremo perché nella stessa giornata iniziative di analogo significato si
tengano in quanti più luoghi possibili del nostro paese.
La guerra ai migranti deve essere fermata, produce tragedie e barbarie. L’Europa, che ha
gravi responsabilità storiche, per le politiche coloniali e di sfruttamento, nel determinare le
cause di fondo dei fenomeni migratori, deve ora costruire corridoi umanitari, praticare
politiche di vera accoglienza, aprire le proprie frontiere ai processi di integrazione.
http://www.articolo21.org/2015/09/camminiamo-insieme-larci-aderisce-alla-marcia-delledonne-e-degli-uomini-scalzi/
Da Left del 05/09/15, pag.
COME FERMARE I "DISCORSI D'ODIO"
PARTENDO DA POLITICA E MEDIA
di SARO "POPPY" LANUCARA
Questa settimana l'Arci storia riguarda un progetto frutto della sinergia di Cittalia e Arei e
realizzato grazie a vari comitati regionali (Lombardia e Toscana) e provinciali (Bologna,
Genova e Roma), sull'analisi del fenomeno dell' hate speech. Ne parliamo con Roberta
Alonzi, dirigente provinciale dell'Arci che si è occupata attivamente di Prism (Preventing,
redressing and inhibiting Hate speech in new media), la ricerca sviluppata con altri quattro
Paesi partner dell'Unione europea: Francia, Spagna, Romania e Regno Unito. Ma cosa
significa hate speech? «Letteralmente - dice Roberta - "discorsi d'odio" e fa riferimento
all'insieme dei discorsi pubblici, veicolati perlopiù da giornalisti, mass-media e politici, che
incoraggiano e alimentano il disprezzo nei confronti di migranti e minoranze, fondati su
una qualsivoglia discriminazione (razziale, etnica, religiosa, di genere o di orientamento
sessuale)». Poiché talvolta è difficile stabilire la distinzione tra hate speech e il diritto alla
libertà di espressione, l'obiettivo di Prism è quello di creare, da un lato, una maggiore
consapevolezza e informazione sul fenomeno e, dall'altro, far crescere le segnalazioni e
promuovere un più corretto uso del linguaggio attraverso un'attività di formazione per
avvocati, giornalisti, blogger, reti sociali, insegnanti e lavoratori. Prism serve anche a
mappare i crimini di odio (hate crimes) e a monitorare il fenomeno attraverso una costante
9
raccolta dati. «Il fenomeno dell' hate speech diventa ancor più preoccupante se si pensa
che, molto spesso, sono le persone che ricoprono incarichi pubblici e/o elettivi a farsi
promotori di discorsi d'odio nei confronti di una minoranza», continua la dirigente Arci. Ed
è proprio sul web, e in particolare sui social network, che frenare il fenomeno è difficile,
«perché qui non esistono specifiche normative internazionali condivise». Roberta Alonzi
conclude auspicando un repentino cambiamento di tendenza. «Un cambiamento che deve
sì passare per una legge più articolata e una più severa emanazione delle sanzioni, ma
che da sola non basta ad arginare il fenomeno, se non si entra nell'ordine delle idee che
prima di un intervento giuridico c'è bisogno di un cambiamento culturale». E allora la
responsabilità riguarda in primis la classe politica, che dovrebbe astenersi dall'alimentare
la retorica dell'odio per esempio nei dibattiti televisivi, ma è una questione che investe
direttamente anche i professionisti dell'informazione a vari livelli, visto che ricoprono un
ruolo centrale nell'influenzare l'opinione pubblica.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 07/09/15, pag. 14
Non profit. Lo stanziamento del Cipe attraverso il Fondo rotativo per il
sostegno alle aziende e gli investimenti in ricerca
Imprese sociali, pronti 200 milioni
Finanziamenti agevolati ai produttori di beni e servizi socialmente
meritevoli
«Tornare a investire» è una delle parole d’ordine più ricorrenti negli ultimi mesi nel dibattito
sui temi economico-finanziari. E l’economia sociale non fa eccezione, tanto che la rete
degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, Iris Network, ha proposto questo tema come filo
conduttore dell’imminente workshop nazionale (Riva del Garda, giovedì 10 e venerdì 11),
che rappresenta per tradizione l’appuntamento annuale di riferimento del non profit
produttivo. Si tratta anche di capire se l’impresa sociale sia in grado di cambiare passo e
di esercitare nei fatti quel ruolo da protagonista, per la promozione dello sviluppo
economico e della coesione sociale, che in teoria le viene già riconosciuto. Un passaggio
non da poco, se si considera che il numero delle organizzazioni nate sulla scia del decreto
legislativo 155/2006 resta esiguo (meno di mille unità) e che l’effetto a tenaglia prodotto in
questi ultimi anni dall’ampliamento della sfera dei bisogni da un lato e dal dimagrimento
delle risorse pubbliche dall’altro ha messo alle corde anche la ben più robusta schiera
delle cooperative sociali ex legge 381/1991, oltre 12mila sul territorio nazionale, ma per
almeno un quarto in condizioni di difficoltà, secondo le rilevazioni di fine luglio rese note
dall’Osservatorio Isnet.
Grandi attese vengono riposte nell’imminente riassetto della forma giuridica dell’impresa
sociale, contenuto nella riforma del Terzo settore all’esame del Parlamento. Ma sarebbe
ingenuo immaginare che l’intervento del legislatore basti da solo a imprimere un colpo
d’ala. Serve una più robusta struttura di capitale, perché le sfide cui il non profit produttivo
è chiamato, soprattutto sul terreno del nuovo welfare, impongono spalle un po’ più
robuste.
Sotto il profilo delle disponibilità finanziarie, un segnale importante è giunto dall’impulso
del Governo, che ha portato allo stanziamento da parte del Cipe (Comitato
interministeriale per la programmazione economica), di 200 milioni di euro per le
cooperative e le imprese sociali, attraverso il Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e
gli investimenti in ricerca. Il provvedimento, predisposto in stretto raccordo con il ministero
del Lavoro e fortemente sostenuto dal sottosegretario Luigi Bobba, che è anche in regia
del disegno di legge delega sulla riforma del Terzo settore, riconosce un regime di
finanziamenti agevolati per imprese di qualunque dimensione che realizzano beni e servizi
ritenuti socialmente meritevoli. La dizione è un po’ generica, e non potrebbe essere
diversamente, vista l’eterogeneità del quadro normativo di riferimento, ma in sostanza il
campo dei beneficiari comprende le imprese sociali, le cooperative sociali e le società
cooperative con la qualifica di Onlus.
Saranno ammessi i programmi di investimento compresi tra 100mila e 10 milioni di euro e
l’agevolazione consisterà in finanziamenti che, in base all’attuale disciplina del Fondo
rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca (Fri), dovranno avere tassi
d’interesse non inferiori allo 0,5% e durata fino a 15 anni, ed essere affiancati da
un’analoga quota di finanziamenti ordinari a tasso di mercato, erogati dal sistema
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bancario. Secondo le stime del Cipe, la dote di 200 milioni potrà consentire il sostegno di
almeno 400 iniziative, ma il numero potrebbe anche essere ben superiore, se la
percentuale di finanziamento creditizio ordinario dovesse salire oltre la soglia minima.
Uno stimolo importante, che mette l’impresa sociale in condizione di progettare con minori
problemi di ossigeno il proprio futuro.
Elio Silva
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ESTERI
del 07/09/15, pag. 6
Il fronte siriano
Regime asserragliato, lo sbarco dei russi, Parigi pronta ai raid: dopo
300 mila morti, cosa sta per cambiare?
Davide Frattini
Bashar Assad ha inaugurato un nuovo parco a Damasco, 9 mila metri quadrati, un po’ più
grande di un campo da calcio, dedicati a Kim II-sung. Perché il dittatore che ha creato la
Corea del Nord era amico di suo padre Hafez, perché i due regimi sono sempre stati
alleati (i coreani l’hanno aiutato a costruire un centro atomico segreto distrutto da un
bombardamento israeliano nel 2007), perché chiunque critica Kim per la sua brutalità «è
un assurdo idiota» come ha commentato un ministro siriano alla cerimonia.
Il parco sta a pochi chilometri da Yarmouk, che da campo per accogliere i rifugiati
palestinesi è diventato un campo di concentramento come quelli costruiti da Kim e dai suoi
discendenti. Le truppe di Assad usano la fame per piegare gli abitanti che ancora
resistono all’assedio, l’acqua e l’elettricità sono state tagliate, malattie scomparse (il tifo e
la poliomelite) sono tornate a colpire i bambini e gli anziani, i terroristi dello Stato Islamico
si sono asserragliati nei palazzoni grigi per premere sulla capitale.
Il clan che ha dominato la Siria per quasi cinquant’anni controlla ormai solo Damasco e le
regioni che da qui scendono verso le montagne al confine con il Libano e verso il mare, 30
mila chilometri quadrati, un sesto di tutto il Paese. Il dittatore e i suoi consiglieri stranieri —
i russi, gli iraniani, i libanesi di Hezbollah — contano di poter difendere queste zoneroccaforte dalle incursioni dei ribelli e dei miliziani che rispondono agli ordini del Califfo. È
la strategia realistica che Assad ha ammesso di aver adottato in un discorso alla nazione:
«Non siamo in grado di tenere tutte le posizioni, consolidiamo quelle che sono più
importanti». Sa di aver perso anche il sostegno dei drusi: per la prima volta hanno
attaccato le sue forze in una provincia del sud dopo l’uccisione di un leader religioso che si
era ribellato agli ordini del governo.
Così i russi hanno scelto Latakia, il porto sul Mediterraneo abitato dalla minoranza alauita
al potere, come base per preparare quello che sembra il dispiegamento dei suoi soldati. Il
regime ne ha bisogno: le famiglie nascondono i giovani chiamati alla leva obbligatoria, i
disertori sono in aumento, le truppe irregolari sciite di Hezbollah sono sfiancate da tre anni
di battaglie nella guerra che va avanti da quattro e mezzo. Le proteste di John Kerry, il
segretario di Stato americano, non preoccupano Vladimir Putin. È consapevole che i
bombardamenti americani contro lo Stato Islamico — adesso anche i francesi e i britannici
sono pronti a partecipare ai raid — alla fine rafforzano la posizione di Assad. Il presidente
russo e gli iraniani non hanno mai smesso di sostenerlo e di ripetere che la cacciata del
chirurgo oculistico diventato presidente non era in discussione. Fin dal 2012 quando a
Ginevra le potenze internazionali cercano di trovare una soluzione al conflitto: gli europei e
gli americani vogliono estromettere il dittatore dal processo di transizione, per superare
l’opposizione di Mosca e Teheran propongono di inserire nel comunicato finale la formula
«è escluso chiunque abbia le mani sporche di sangue». La risposta del diplomatico russo
è rivelatrice: «Ma così è chiaro che parliamo di Assad».
Il sangue è quello dei primi manifestanti che nel marzo del 2011 scendono in strada a
Deraa, nel sud della Siria, per chiedere il rilascio dei loro ragazzi, arrestati e torturati per
aver scritto slogan contro il regime sul muro della scuola. Il sangue è quello dei civili
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massacrati dalle «botti bomba» sganciate sui quartieri dagli elicotteri, così imprecise che
gli ufficiali tengono i soldati molto lontano e le famiglie si sono ormai convinte che la prima
linea sia più sicura di casa loro. Il sangue è quello dei 65 mila scomparsi nelle celle dei
servizi segreti — secondo l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor — da quando la
rivolta è cominciata.
Un rapporto pubblicato dall’Onu pochi giorni fa prova a documentare quello che è
successo dentro la Siria in questi ultimi mesi, da gennaio a luglio. «I civili restano presi in
mezzo — scrive la commissione d’inchiesta guidata dal brasiliano Paulo Pinheiro — tra i
bombardamenti del regime e l’offensiva dello Stato Islamico, colpevole di crimini contro
l’umanità: torture, violenza sessuale, traffico di schiavi». La responsabilità è anche delle
potenze che competono per l’influenza nella regione: «Il conflitto è alimentato da forze
internazionali che vogliono sostenere i loro interessi geopolitici. Questa competizione ha
esacerbato lo scontro etnico e religioso istigato da predicatori e combattenti stranieri».
I siriani hanno dovuto lasciare le loro case per rifugiarsi nei Paesi confinanti o diventare
esuli nella loro stessa patria prima che lo Stato Islamico sparigliasse la sfida tra i ribelli
sunniti e il clan alauita degli Assad, prima che spadroneggiasse nella provincia di Raqqa e
ne facesse il suo dominio in Siria nel maggio del 2014, prima che massacrasse i curdi a
Kobane.
Oggi i profughi sono 12 milioni, di cui 4 sono riusciti a scappare dall’altra parte del confine,
in 250 mila così disperati da cercare la salvezza nell’Iraq dove la guerra non è mai finita e
dove lo Stato Islamico avanza. Metà della popolazione ha bisogno di assistenza, quattro
siriani su cinque sono finiti in miseria, 3 milioni di bambini non vanno più a scuola, il 57 per
cento degli ospedali pubblici è stato danneggiato e il 37 per cento non funziona più: la
maggior parte è stata attaccata — per punire i villaggi o i quartieri ribelli — dallo stesso
governo che li aveva costruiti. Un siriano deve aspettarsi di vivere in media, calcola
l’Organizzazione mondiale della sanità, fino a 55 anni, venti in meno di prima della guerra,
e anche così vorrebbe dire che gli è andata meglio dei 300 mila già morti nel conflitto,
quelli che a un certo punto le Nazioni Unite hanno smesso di contare.
del 07/09/15, pag. 1/9
Bashar Matti Warda chiede all’Italia di aiutare i cristiani dell’Iraq: “Il
nostro è un vero e proprio genocidio. Non aspettate 20 anni per
riconoscerlo”
Erbil, l’appello dell’arcivescovo “Mandate le
truppe per fermare l’Is”
ADRIANO SOFRI
DOPO la decisione della signora Merkel e del suo governo di accogliere in qualità di
rifugiati, in deroga a Dublino, i fuggiaschi dalla Siria, il governo italiano non dovrebbe fare
lo stesso per i cristiani dell’Iraq che scampano alla persecuzione del Califfato?
Non sono ubriaco, dunque non immagino di accoglierli per una ragione settaria,
discriminando altre confessioni o l’assenza di fede, che è una delle condizioni più
dignitose di esistenza umana. Il fatto è che in quella regione i cristiani abitano da tempo
immemorabile e sono al tempo stesso una comunità religiosa e un popolo. Nei confronti di
quel popolo, come degli yazidi e di altre minoranze, si va perpetrando un genocidio. Non
immagino – tanto meno - di accogliere i cristiani di Mosul e della piana di Ninive a
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preferenza, o a esclusione, di altri fuggiaschi, sull’increscioso esempio della Slovacchia (è
la porcheria subito fatta propria da Salvini) o, meno sfrontatamente, della Polonia.
L’apertura tedesca ai siriani sarebbe inaccettabile se implicasse il ripudio degli altri. È
ammirevole ma imbarazzante che un autentico riscatto di cristiani venga svolto da privati,
come il vegliardo lord George Weidenfeld, memore del soccorso offerto agli ebrei. Il
cardinale Bagnasco ha invitato le Caritas diocesane a coordinare l’accoglienza. Un
impegno del governo, significativo per sé, si tradurrebbe nella conseguenza di far arrivare i
profughi per vie diverse da quelle dei barconi o della battigia di Bodrum.
Ho incontrato l’arcivescovo caldeo di Erbil, Bashar Matti Warda. Matteo Renzi conosce i
suoi pensieri, netti e nettamente espressi. «Quello che subiamo risponde pienamente alla
definizione giuridica e morale di genocidio, e non si aspettino vent’anni per riconoscerlo. I
paesi che credono nella libertà religiosa devono impegnarsi nell’azione militare, ed è
provato che i raid aerei non bastano. Per un cristiano il primo imperativo è sempre quello
dell’amore, della preghiera, del dialogo e della riconciliazione. Ma l’Is oppone solo brutalità
e vuole cancellare perfino la memoria del nostro popolo. Gli Stati della regione non sono in
grado di difendere la sopravvivenza nostra e delle altre minoranze. I cristiani d’Iraq sono
passati da un milione e mezzo a scarsi 300 mila, e si riducono ogni giorno. Il governo di
Bagdad proclama che intende battersi seriamente, ma l’Is appare più forte di prima. A
parte il fronte curdo, si è fatto qualche progresso a Beji e a Tikrit, ma la liberazione di
Mosul è ferma, e gli aspiranti liberatori –esercito iracheno, sciiti di Hashd Shaabi, curdisono armati l’uno contro l’altro». Monsignor Warda ha ripetuto il suo appello a Londra,
negli Stati Uniti, col sostegno di tutte le confessioni cristiane irachene, «implorando che si
intervenga con truppe di terra». «L’Is è un’aggressione globale, e i paesi da cui
provengono i suoi miliziani devono sentirsene doppiamente responsabili: si tratta di loro
cittadini, e la minaccia riguarda anche loro. Dovremo aspettare che arrivi dentro Roma o
Parigi? Io credo di no».
Gli chiedo delle relazioni con le autorità curde. «Buone, ci lasciano operare, non solo
predicare. Quando i cristiani perdono la loro casa, la chiesa è il primo riparo, la loro casa.
Chiedono di aiutarli in ogni aspetto della sopravvivenza quotidiana: non è il mestiere del
vescovo, del sacerdote, ma non possiamo sottrarci ». Un suo sacerdote, Douglas al Bazi,
ha appena detto a Rimini che «l’Is rappresenta l’islam, al cento per cento». «Cerchiamo
un’espressione che abbia la forza appropriata. È troppo poco dire che “l’Is non
rappresenta l’Islam”, che “è una deformazione dell’Islam”. C’è un genocidio nel nome
dell’Islam, e non c’è una condanna adeguata, e tanto meno un’azione adeguata». Quanti
sono i cristiani a Erbil? «Abbiamo registrato 12.700 famiglie. Chi è partito si è fermato in
Giordania, Turchia, Libano… In Europa? Molto pochi, in Svezia, Olanda, Germania,
Francia…». Avete rapporti con gli yazidi? «62 famiglie sono qui con noi, e altre 500 nel
campo di Ainkawa, il nostro quartiere. Stiamo attenti a non forzare un proselitismo:
qualche evangelico lo ha fatto. Noi dobbiamo solo aiutare, essere fratelli. Se in qualcuno
nasce un desiderio di conoscere Cristo, è la sua libertà». Il papa Francesco disse presto
che la comunità internazionale doveva intervenire, ma si affrettò ad aggiungere: “Le
bombe no, eh?”. Le bombe allora erano quelle che fermarono l’avanzata dell’Is sul Sinjar e
permisero la fuga di cristiani e yazidi. «La Chiesa è sempre alla ricerca della forza minima,
è spaventata dei danni collaterali. Dover auspicare la forza è tra le sventure peggiori che
tocchino a un cristiano. Il Papa è stato vicino, con le preghiere e gli atti. E ha detto che c’è
un genocidio di cristiani. Ci ha mandato questa Madonna… - mi mostra un ricamo che
riproduce la Madonna che scioglie i nodi – ne abbiamo bisogno». Lei ha detto che nella
tragedia di quest’anno le è successo di litigare col suo Dio. «Quando hai a che fare con
tanta sofferenza che tocchi, che ti tocca – che colpa abbiamo per essere puniti così
duramente… – non è una punizione, certo, e tuttavia non puoi fare a meno di dirglielo. È il
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suo lavoro, la misericordia. Essere vescovo è ascoltare il pianto della propria gente. Ci
sono vescovi, sacerdoti, con difficoltà più dure delle mie, lo so. Alla fine di ogni giorno, il
modo in cui Dio mi accoglie è pieno di amore».
Che cosa pensa della possibilità che il governo italiano dichiari, come ha fatto la Germania
coi siriani, di accogliere i cristiani che fuggono dal genocidio e vogliano trovare rifugio in
Italia? Sarebbe una testimonianza concreta di consapevolezza della persecuzione
peculiare che colpisce i cristiani. «Deve chiederlo al suo primo ministro. Tutti sanno che gli
italiani sono un popolo dal gran cuore, e ne abbiamo prove continue, missionari, medici,
giornalisti, davvero senza frontiere. Gli Stati si pongono prima di tutto il problema
economico. Noi assistiamo al desiderio spaventato, disperato di partire, non ce la
sentiamo di opporci, di rassicurare, e insieme soffriamo per la cancellazione della
cristianità nelle sue culle più preziose. Deve chiederlo al suo primo ministro».
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INTERNI
del 07/09/15, pag. 10
Il leader insiste sul lodo “Fino a domani si
tratta se si rompe è colpa loro”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA.
Sotto al palco della festa dell’Unità, Matteo Renzi confida ai fedelissimi la sua strategia:
«Ci proviamo, tieniamo aperto il dialogo fino a martedì. A me serve una soluzione che non
riporti tutto al punto di partenza ». Per questo il segretario- premier non entra nel dettaglio,
non indica una strada precisa durante il discorso di Milano. La chiave per trovare un
accordo con la minoranza sul Senato elettivo rimane nascosta nei colloqui riservati tra i
vari mediatori. Ma l’obiettivo del governo non è cambiato: non si tocca l’articolo 2, quello
che disciplina la modalità di elezione dei senatori- consiglieri.
Le posizioni dunque sono ancora distanti. La sinistra e i renziani si avvicinano alla
scadenza di domani (assemblea dei senatori) seguendo la regola “se vuoi la pace prepara
la guerra”. Anche perchè Renzi è convinto, al di là della propaganda, che non ci saranno
molte defezioni nella pattuglia dei 25 dissidenti Pd. Infatti ai collaboratori dice: «Noi
dobbiamo dimostrarci disponibili. In modo che si capisca che chi dice no si assume la
grande responsabilità di una rottura ». Insomma, spiega minaccioso, «tocca loro decidere
se i voti di Verdini sono determinanti o meno». Dentro questo solco, il sottosegretario alla
presidenza Luca Lotti continua ora dopo ora a tenere la contabilità dei senatori. Un lavoro
che prevede il pressing su alcuni ribelli, colloqui con parlamentari del centrodestra oggi
vicini alla maggioranza, contatti con i senatori Pd non renziani ma favorevoli alla riforma
che possono arrivare a colleghi dissidenti più facimente di lui. Alla festa dem di Frascati
Lotti garantisce che il «dialogo non mancherà, fino in fondo. Ma dobbiamo approvare la
riforma del Senato con o senza i loro voti. Non accettiamo il ricatto di un gruppo di 26 che
ci vuole bloccare».
L’idea del listino (un elenco di consiglieri regionali votati dai cittadini destinati al Senato)
rimane l’unica soluzione accettata da Renzi ma non fa breccia nel muro del dissenso. Pier
Luigi Bersani punta sempre a un «accordo unitario», ma non vede come si possa
immaginare una via d’uscita in cui «in un articolo si scrive una cosa e nell’altro una cosa
diversa». Per di più, non in una legge qualsiasi ma nella Costituzione.
Sarà anche una guerra di nervi e di posizionamento, ma non c’è dubbio che entrambi gli
eserciti preparano gli schieramenti. I 25 non sono disposti alla retromarcia in cambio di
una soluzione pasticciata, dicono. Non solo: «Non possiamo essere quelli che abbaiano
sempre alla luna », spiega uno di loro. Come dire: dopo una battaglia lunga e senza
esclusione di colpi, è quasi impossibile rimangiarsi tutto davanti alla proposta iniziale del
premier. A meno di non perdere la faccia. Renzi sa che questa dinamica avrà un peso.
«Quando metteremo nero su bianco la nostra proposta di mediazione, 4 o 5 dissidenti la
accetteranno ». Ma non di più, sono lontani i tempi in cui i ribelli si riducevano a Mineo,
Casson e Ricchiuti. Ecco perchè la contabilità di Lotti viene continuamente aggiornata e
stamattina sarà sulla scrivania di Renzi a Palazzo Chigi.
L’accordo politico non è vicino, ma la minoranza, se dovesse essere raggiunto, vorrebbe
allargarlo anche ad altro. I bersaniani hanno già fatto sapere all’esecutivo che nella legge
di stabilità bisogna assolutamente prevedere un capitolo sulla povertà, un impegno per
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arrivare anche in futuro al reddito minimo. Altrimenti sulla Tasi la battaglia non sarà soft.
Ma il punto vero è quello della riforma. Sulla quale i renziani, senza molte speranze,
attendono ancora la decisione ufficiale di Piero Grasso sull’emendabilità dell’articolo 2.
Dalla fitta platea di Milano, Renzi ha tratto la convinzione che il dibattito sul Senato elettivo
«sia poco sentito dalla base , incomprensibile ai più». Però è proprio su questa materia
che la minoranza ha più armi in Parlamento. «Se la posizione e l’atteggiamento di Renzi
sono quelli della festa milanese - dice il bersaniano Alfredo D’Attorre - un’intesa mi pare
difficile». La sinistra insiste, come fa anche Roberto Speranza, a chiedere una “sintesi” al
segretario. «Speriamo faccia la scelta giusta - sottolinea D’Attorre - . Per il momento
sembra orientato a capire se ha i numeri senza la sinistra...».
Maria Elena Boschi e Anna Finocchiaro si sono sentite anche ieri. È la presidente della
commissione Affari costituzionali ad avere scritto, d’accordo con il ministro delle Riforme, il
lodo che prevede il listino. Ma non è detto che basti.
del 07/09/15, pag. 13
La nuova mediazione del governo per
disinnescare l’attacco alla riforma
Modifiche per l’elezione diretta alle Regionali, ma fuori dall’articolo 2
Maria Teresa Meli
MILANO « Oggi si è visto da che parte sta il Pd, con chi sta la base». Al termine del
comizio di chiusura della Festa nazionale dell’Unità, Matteo Renzi non prova nemmeno a
nascondere la soddisfazione per gli applausi che gli ha tributato il popolo del Partito
democratico. O per l’ovazione ricevuta quando ha ribadito che non accetterà veti sulla
riforma costituzionale.
Insomma, il segretario a Milano è riuscito a dimostrare ciò che voleva. E ossia che la
gente del Pd è con lui e non ne può più dei distinguo e delle liti.
Prima del suo intervento il premier ha ancora una volta riconfermato la linea sulla riforma
costituzionale con i fedelissimi presenti alla Festa: «Sull’articolo 2 non si molla. Bersani e
gli altri possono dire quello che vogliono: noi un’apertura l’abbiamo fatta, ma non
ritorniamo certo al punto di partenza per farli contenti».
Quindi, al momento, la mediazione più avanzata per il governo è questa: una «lista di
consiglieri regionali ad hoc», stilata dai partiti, ma che gli elettori potrebbero votare
direttamente alle consultazioni per il rinnovo dei vertici delle Regioni. Queste modifiche,
però, non verrebbero inserite nell’articolo 2 del ddl Boschi, bensì negli articoli 70 (quello
sulle funzioni del Senato) e 122 (quello sugli emolumenti), nonché nelle disposizioni finali
della normativa, come impegno dell’esecutivo.
L’impressione, nel quartier generale di Renzi, è che la minoranza non sia compatta e che
ormai, una sua parte consistente non risponda più neanche a Bersani. Impressione che è
suffragata dalle parole di Nico Stumpo, che, sotto il palco della Festa, spiega a un
compagno di corrente: «La verità è che comunque al Senato una decina di dissidenti non
accetterà mai nessun accordo, mentre altri cinque o sei vanno già per conto loro e non
sappiamo quello che faranno».
Dunque, la situazione è questa. E, osserva ancora Stumpo, «nessuno mollerà adesso,
perché noi non possiamo certo permetterci, ora che l’auto è in corsa, di staccare il piede
dall’acceleratore». Nel frattempo, però, mentre pubblicamente fa la faccia feroce, Maurizio
Migliavacca, cioè il vero plenipotenziario di Bersani sta trattando con Luigi Zanda e Anna
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Finocchiaro, benché non ci sia ancora un accordo alla luce del sole. E anche Vannino
Chiti è per il confronto.
Insomma, il caos è notevole. E i segnali dal fronte degli oppositori interni sono
contraddittori. Per questo tra i renziani si fa strada il sospetto che la minoranza, con il
braccio di ferro ingaggiato al Senato, voglia soltanto dimostrare che i sui voti sono
indispensabili. «Però così rischiano di andare a sbattere», spiega il premier ai collaboratori
più fidati.
Già, perché, al di là delle drammatizzazioni plateali, tutti al Senato sanno che la riforma
potrebbe passare senza l’appoggio dei dissidenti, grazie alle assenze o ai voti sottobanco
di Forza Italia che teme le urne come la peste.
Però alcuni, nella minoranza, quasi spingono verso questa soluzione che permetterebbe
loro di gridare nuovamente al patto tra Renzi e Berlusconi. L’altra ala, quella dei dialoganti,
capeggiata da Bersani, punta invece ad avere in cambio voce in capitolo nella gestione del
Pd. È questa, per loro, la posta in gioco. Perciò negli ultimi tempi si moltiplicano le voci di
chi sottolinea la necessità di dividere il ruolo di segretario da quello di premier. L’obiettivo
è una diarchia: Renzi premier, un ex ds segretario. E, magari, se a questa carica venisse
candidato il Guardasigilli Andrea Orlando, nella partita potrebbero entrare pure i cosiddetti
«giovani turchi».
Ma anche su questo versante Renzi sbarra il passo alla minoranza. Lo ha fatto ieri, alla
Festa dell’Unita, rilanciando lui il ruolo del Pd, tornando a chiamare «sezioni» i circoli e
solleticando l’orgoglio di partito della sua base.
Se sulla riforma costituzionale il segretario-premier è disposto a fare delle aperture, su
questo fronte, invece, chiude a doppia mandata la porta .
del 07/09/15, pag. 11
I grafici con i dati sui risultati del governo escono da Palazzo Chigi e
arrivano nei giardini di Milano tra i militanti e gli elettori. Così il premier
cambia con il linguaggio e le tecnologie anche il rito finale della Festa
dell’Unità
E tra slide,foto emotive e slogan va in scena il
primo tecno-comizio
ALESSIA GALLIONE
MILANO.
Maria ha 70 anni e per conquistare quel posto in prima fila è arrivata quasi due ore prima
dell’inizio ufficiale del discorso. Per lei, dice, questa è una festa nella Festa. Ma quando
quell’immagine compare sul maxi schermo si porta le mani che fino ad allora non aveva
quasi masi smesso di battere sulla bocca. Rimane in silenzio. Come il popolo del Pd.
Perché è quella la reazione, la più forte, della gente davanti al corpo senza vita di Aylan
riverso sulla spiaggia. È la foto che ha fatto il giro del mondo, che ha diviso le coscienze e
i pareri. Anche Matteo Renzi la fa, quella domanda: «È giusto vederla?». E poi, subito
dopo, quasi a voler “dirigere” la reazione delle persone, chiede di cambiare scena. Ecco
che appare ancora lui, il bambino di tre anni diventato simbolo della tragedia dei migranti.
Questa volta sorride accanto al fratello, un peluche tra loro. Ed è lì, quando il premier urla
che «quei bambini siriani sono seppelliti nella loro città che non è Miami Beach o Capri,
ma Kobane», che non si tratta di «Pd contro la destra», ma di «umani contro le bestie »,
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che la folla esplode in un applauso, concentrando la commozione accumulata e
l’indignazione. Fino all’orgoglio e al sorriso che torna sul volto di Maria quando spunta un
altro simbolo, un altro bambino accolto e avvolto dalla bandiera dell’Europa.
È partito così il primo comizio-tecno di Renzi. Un discorso punteggiato dalle immagini che
hanno accompagnato i passaggi e gli slogan che il premier-segretario voleva sottolineare.
Quasi un richiamo alla reazione della gente. Certo, non è la prima volta che il presidente
del Consiglio utilizza le slide. Ma fino a ora, da quelle con tanto di pesce rosso della
conferenza stampa dedicata alla «svolta buona» fino all’attacco a Matteo Salvini
attraverso le sue magliette offerto al congresso del Pd tra i padiglioni di Expo, il “cinema” è
stato riservato agli addetti ai lavori. Questa volta lo spettacolo tecnologico va in scena nel
parco al centro di Milano scelto per organizzare la festa dell’Unità nazionale. Spettatori: il
“normale” pubblico di militanti. Si possono anche raccontare attraverso le immagini i 52
minuti di comizio. Perché è davanti alle foto che spezzano i primi piani dei volti ripresi in
diretta della gente e le inquadratura sul palco, che il “pubblico” ha cambiato atteggiamento.
E a fare da regista, chiamando i fotogrammi, è stati lui, Renzi. Dalla commozione per
Aylan all’orgoglio dei milanesi che hanno reagito alle devastazioni del Primo maggio.
Renzi non proietta auto in fiamme e vetrine spaccate nel giorno di inaugurazione di Expo,
ma le tute bianche che sono scese in strada per ripulire i muri dopo il passaggio del black
bloc. Applauso. E poi un altro brivido quando vengono evocate le “radici”. Compare
l’abbraccio tra il premier e il sopravvissuto di Marzabotto. È il 25 Aprile e qualcuno tra il
pubblico urla: «Resistenza».
Perché il film è stato anche interattivo. Per raccontare che quella delle ultime elezioni
amministrative, quelle dell’addio alla Liguria e a Venezia, «non è stata una sconfitta »,
Renzi chiede di far vedere l’Italia, con i colori dei partiti al governo nelle regioni. Per il
“passato” c’è anche l’ex governatrice del Lazio Renata Polverini con il braccio teso.
«Fascisti», è il grido che parte dalla destra del palco. Subito dopo, naturalmente, ecco il
rosso dominante. E ancora prima, un ragazzo in prima fila dice: «17 regioni». Il copione
prevede anche la parte economica e Renzi chiede a «Franco di far vedere le slide» sui
numeri dei posti di lavoro. Ma la gente non si entusiasma così tanto. Almeno non quando
si torna ad applaudire su altri dati, quelli del 2 per mille destinati al Pd, quei 5,5 milioni di
euro che, per il segretario, sono la risposta a D’Alema sui voti perduti dal partito renziano
nei sondaggi. La conclusione ad effetto e l’ultima cartolina spedita torna a giocare sulle
corde del passato e del futuro, del senso d’appartenenza e dell’emozione. Il bambino nato
su una barca della disperazione salvato. I ragazzi di Marzabotto che corrono in un campo
di papaveri rossi. Renzi parla di speranza, di Italia, di Pd. E Maria, lì in prima fila, alza le
mani sulla testa. E urla: «Sì, i partigiani ». «Bravo», grida qualcun altro. È l’ultimo applauso
— chiamato dalla tecnologia — che scatta e accompagna l’uscita di scena del regista.
del 07/09/15, pag. 14
E Berlusconi evoca il rischio regime «Ora FI
parli ai 26 milioni di astenuti»
A metà settimana l’ex premier volerà da Putin. Attesa per il faccia a
faccia con Salvini
ROMA Un no secco a riforme istituzionali che, col monocameralismo e l’Italicum, rischiano
di portare ad un «regime». Un forte appello perché si formi una «grande coalizione» dei
paesi occidentali, con Usa e Russia, per combattere «il terribile pericolo Isis» che rischia di
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consegnare al mondo irrisolvibili emergenze umanitarie. E il rilancio di un programma di
governo rivolto a riconquistare i «26 milioni» di astenuti che potrebbero far tornare alla
vittoria il centrodestra.
Silvio Berlusconi interviene telefonicamente per oltre mezz’ora alla convention dei giovani
forzisti «Everest», organizzata da Maurizio Gasparri a Giovinazzo, in Puglia, e primo
appuntamento azzurro dopo la pausa estiva, per rimettersi al centro su più fronti: quello di
capo dell’opposizione che non si piega a Renzi, di leader storico che agisce
diplomaticamente sul piano internazionale per riavvicinare parti politiche lontane e di capo
del centrodestra pronto ad andare al confronto decisivo con Matteo Salvini.
Sì perché, nei prossimi 10 giorni, l’ex premier — tornato ad Arcore dalla Sardegna — ha in
programma appuntamenti importanti. Con Putin, dal quale dovrebbe volare mercoledì o
giovedì per trattenersi alcuni giorni. E con il leader della Lega, per l’annunciato faccia a
faccia ormai imminente e in preparazione. Con ogni probabilità con Salvini l’appuntamento
dovrebbe avvenire dopo il ritorno dalla Russia, ma nel suo entourage non escludono
mosse a sorpresa anche nelle prossime ore: possibile una cena anche tra stasera e
domani.
D’altronde, il quadro politico interno è in movimento, anche se da Forza Italia escludono
che ci siano contatti in corso con il Pd per arrivare a qualche forma di mediazione sulle
riforme. Che, allo stato, Berlusconi non pare avere alcuna intenzione di votare: «Vedo —
dice — il rischio forte all’orizzonte di due riforme che potrebbero portare ad un regime se
non saranno modificate: il combinato disposto di una riforma costituzionale che
praticamente abolisce il Senato trasferendo la funzione legislativa solo alla Camera ed il
premio (di maggioranza, ndr ) ad un solo partito che con meno del 40% dei voti potrebbe
ottenere la guida unica del Paese».
La posizione degli azzurri insomma non cambia: o si modifica la riforma del Senato
introducendo l’elezione diretta per i suoi membri, e contestualmente si apre alla possibilità
di correzione dell’Italicum reinserendo il premio alla coalizione, o Forza Italia voterà no alle
riforme: «Non ci sono né patti né giochini — assicura Romani —. Vedremo se proporranno
qualcosa, ma noi non stiamo trattando né con la sinistra pd né con Renzi». E nemmeno,
assicura il capogruppo al Senato, sarebbero alle viste defezioni: «Nel nostro gruppo siamo
tutti uniti, non ci sarà alcun soccorso sottobanco a Renzi».
D’altra parte Berlusconi ha bisogno di stringere gli accordi con la Lega in vista del voto di
primavera, con la scelta della candidatura a sindaco di Milano che diventa la cartina di
tornasole dei rapporti futuri. E flirt con Renzi in questa fase non sembrano possibili.
Di Amministrative e non solo dunque si parlerà nell’incontro con Salvini, ma anche di una
linea comune da tenere su Europa e politiche internazionali. Quella di cui, appunto,
Berlusconi discuterà con l’amico Putin, convinto che per affrontare il «fenomeno epocale»
che stiamo vivendo non servano slogan ma «l’Unione di tutti i paesi dell’Occidente».
Paola Di Caro
del 07/09/15, pag. 14
Assalto al cantiere della Tav con lancio di
pietre e petardi
Otto arrestati a Chiomonte
Federico Genta
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Uno dopo l’altro, tutti incappucciati e vestiti di nero, sono apparsi sotto i riflettori perimetrali
del cantiere. Con catene e lucchetti hanno bloccato gli ingressi, per rallentare l’uscita delle
forze dell’ordine. Poi è iniziato il lancio di pietre e petardi contro il personale di vigilanza,
durato per diversi minuti prima che il gruppo, in tutto una quarantina di persone, si ritirasse
nuovamente nella boscaglia.
L’attacco della scorsa notte al cantiere Tav di Chiomonte, evidentemente pianificato e
preceduto dalla manifestazione pacifica «Seminare la resistenza», ricorda per l’intensità gli
assalti di matrice anarchica del 2013. La reazione della polizia e dei carabinieri presenti,
però, è stata immediata. Perchè la presenza di alcuni agenti fuori dal perimetro dei lavori,
ha permesso agli uomini della Digos di isolare e fermare un gruppo di otto antagonisti.
Durante l’intervento un poliziotto è rimasto ferito al petto da un razzo.
Tra gli arrestati c’è Francesca Vaglio Laurin, 25 anni, universitaria di Sociologia e leader
del Collettivo universitario autonomo. E Pier Paolo Pittavino, 36 anni, con alle spalle corsi
universitari di prestigio, è stato il consulente informatico del legal team No tav nell’ambito
del maxi-processo per gli scontri tra forze dell’ordine e attivisti nell’estate 2011. Jacopo
Bindi, 29 anni, era già stato arrestato nel 2012 e condannato a 2 anni e sei mesi in primo
grado nel maxi-processo in aula bunker. Insieme a loro c’erano Valeria Grassi, 20 anni,
Carlo Gennari di 24, Alex Quintiero di 26, Francesco Bondi di 33. Con loro è finito in
carcere anche un diciassettenne di Bologna. Sono accusati a vario titolo di resistenza a
pubblico ufficiale, violenza aggravata, esplosione di ordigni e travisamento.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 07/09/15, pag. 14
Il tesoriere che fa tremare i clan
“Vi racconto i soldi della mafia”
Rino Giacalone
Per anni, per decenni, è stato considerato uno dei grandi custodi dei segreti di mafia. Ma
ora Vito Roberto Palazzolo, 67 anni, alias Robert Von Palace Kolbatschenko, il cosiddetto
«manager della mafia», riciclatore di grosse somme di denaro tra Berna e Città del Capo,
sembra intenzionato a voltare le spalle agli amici degli amici. Sta parlando con i giudici. Ha
l’aria collaborativa. E tra un’ammissione e un «non ricordo», una battuta e un messaggio
in codice, non manca di dare importanti contributi per la confisca di beni.
Palazzolo è tornato in Italia con le manette ai polsi nel dicembre del 2012, dopo 25 anni
trasocorsi in quel paradiso dorato che per lui era diventato il Sudafrica, dove faceva da
intermediario a grandi mafiosi. Contro di lui c’è il timbro di una condanna definitiva a nove
anni che, come scrisse Giovanni Falcone, fa di Vito Roberto Palazzolo, uno dei più grandi
e importanti riciclatori di Cosa Nostri.
Palazzolo ha deciso di rispondere alle domane dei giudici, ma per carità non ditegli che è,
o è stato, un mafioso men che meno che oggi sia un pentito, «io non sono né un pentito,
né un collaboratore, né qualcuno che accusa le persone, oppure un calunniatore…
racconto le vicissitudini nelle quali mi sono ritrovato dal 1961». E poi aggiunge, «la mafia
ieri come oggi mi fa schifo».
E’ tornato a dirlo ai giudici del Tribunale del riesame di Trapani che lo hanno sentito come
teste nel procedimento per un sequestro di beni da 500 milioni di euro ai danni di un
imprenditore palermitano originario di Monreale, Calcedonio Di Giovanni. Il grosso del
patrimonio sequestrato è costituito da un maxi villaggio turistico sulla spiaggia di Torretta
Granitola a Campobello di Mazara. Quel villaggio per la Dia di Trapani fu costruito con i
soldi della mafia, 5 miliardi di vecchie lire. Non solo. Lì dentro, una volta costruito hanno
trascorso la latitanza, al mare, tutti i big di Cosa nostra, da Riina a Provenzano, sino a
Ciccio e Matteo Messina Denaro, il super capo ricercato dal 1993.
Cosa c’entrano Kartibubbo e Di Giovanni con Palazzolo? C’entrano eccome. Perché
mentre per le indagini della Dia , Palazzolo, artefice negli anni ’70, poco più che ventenne,
di quel progetto da 4 miliardi di lire, assieme ad una cordata di imprenditori svizzeri,
cedette a Di Giovanni il progetto e licenza per farlo costruire in nome e per conto di Cosa
nostra. Lui, Palazzolo, ha invece raccontato che quel progetto la mafia glielo tolse dalle
mani, anzi ha raccontato ai giudici che lui sino a quei giorni «la mafia non lo aveva mai
incontrata».
Ha dovuto però ammettere che fu suo nonno a portarlo dall’allora capo mafia di Partinico
Nino Geraci che in cambio di 20 milioni lo fece mettere d’accordo con Di Giovanni che lo
ricompensò per quel progetto con 400 milioni e una villetta. Palazzolo ha raccontato che fu
l’allora sindaco di Campobello di Mazara Antonino Passanante a fare da «compare»
nell’affare a Di Giovanni, «si inventò pretesti per farmi fermare i lavori.. poi seppi che
anche Passanante era mafioso: un suo antenato nel 1909 ammazzò il poliziotto italo
americano Joe Petrosino appena giunto a Palermo».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 07/09/15, pag. 2
Cortei di auto al confine per trasportare i
profughi “Orbán ci può arrestare ma aiutarli è
un dovere”
Vienna sfida l’Ungheria. Il passaparola parte in Rete e alla frontiera
arrivano centinaia di macchine
ANDREA TARQUINI
HEGYESHALOM (FRONTIERA AU-STROUNGARICA).
«So che rischiamo di essere arrestati dalla polizia di Orbán come se fossimo trafficanti di
clandestini, ma non mi importa nulla: dieci bambini sono stati ricoverati nella notte, dopo
ore a piedi da Budapest al nostro confine. Non hanno cibo né medicine né abiti puliti a
sufficienza, per quanto facciano i nostri militari e la nostra Croce rossa. E allora quanto
poco vale il mio rischio di poche ore in galera a fronte del rischio della vita di quei bimbi e
di loro tutti?».
Kurto Frantz, uno dei capi delle ong austriache nate online in poche ore sui social forum,
non ha dubbi. E allora al diavolo lavoro o impegni di tempo libero per il weekend, la
carovana è partita. Agli stadi di Vienna, e alla mitica ruota del Prater, si sono dati
appuntamento poco dopo le 11, e dopo ore di viaggio sono arrivati fin qui. Ne hanno
caricati a centinaia. Addio alla terra ostile di Orbán, addio alle sue prediche sulla «Europa
pura, bianca e cristiana »: con viaggi a catena, su vecchie Golf arrugginite, grossi camper
e minibus o lussuose Bmw a dodici cilindri, sono corsi in convoglio a portarne tanti in
salvo. Fino a Vienna, o fino alla prima stazione da dove partono i treni veloci per la
Germania dalle braccia aperte. E prima che l’Austria, come ha fatto sapere il governo,
riprenda a chiudere gradualmente le frontiere.
È tornato un po’ di sole a Hegyeshalom, dopo pioggia e vento che l’altro ieri rendevano
ancor più fangosi e duri a percorrere quegli ultimi metri verso la libertà. I poliziotti
ungheresi non si fanno vedere, stanno comodi nelle loro garitte. Pochi metri a ovest del
nuovo muro caduto, crocerossine, infermieri e soldati austriaci sono ancora là, iperattivi,
con overdose di caffè da cucina da campo e qualche sigaretta di troppo si tengono svegli
da giorni. «Non sappiamo se siamo autorizzati dalle leggi a farlo o no, ma i volontari delle
carovane li facciamo passare, qui ne va di vite che possono ancora essere salvate», dice
un ufficiale della polizia stringendosi nella sua uniforme blu scura per affrontare improvvise
folate di vento.
«Ho preso congedo per motivi familiari», spiega Heinz, un giovane banchiere. «Per fortuna
avevo ancora vacanze», aggiunge Karl, operaio all’aeroporto. L’Austria Felix dove i
nazionalpopulisti xenofobi volano nei sondaggi si scopre improvvisamente diversa,
solidale, generosa: «Quasi 300 auto già impegnate nell’operazione, sono in marcia verso
Hegyeshalom e Gyoer, altri minivan suv e grosse limousine in arrivo dalla Germania »,
dicono su Facebook i bollettini di guerra dei volontari. «Chi ha sedili per bambini li porti a
bordo, possono servire, se potete portate anche aspirina, altri analgesici, e abiti caldi »,
chiede online a tutti la brava Erzsébet Szabò, giovane ungherese di talento che dopo la
svolta del 2010 ha detto addio alla patria pallida madre e vive a Vienna. È a fianco delle
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ong anche lei. Racconta: «Alcuni dei nostri volontari hanno raccolto spontaneamente
profughi incontrati ancora in marcia a piedi ai margini dell’autostrada o della ferrovia».
Weekend di fuga in massa verso la libertà, almeno 14mila sono già passati, quasi tutti
sono già in Germania, decine di treni speciali e bus delle ferrovie austriache e tedesche
danno il cambio alle carovane d’auto dei volontari, dalle stazioni di Vienna fino a
Salisburgo. «Siamo in contatto costante coi volontari delle carovane d’auto, con cellulari e
e-mail, ci adattiamo alle loro informazioni per calcolare quanti altri treni speciali per la
Germania organizzeremo nelle prossime ore», dicono alla Oebb, le ferrovie della
Repubblica alpina.
Mani tese ovunque, giocattoli coperte e caramelle per quei bimbi che fino all’altro ieri, nei
sotterranei della stazione Keleti di Budapest, temevano persino d’incontrare neonazisti in
giacca nera con le rune cercando una toilette. ”Happy end”, è scritto su molte T-shirt che i
guidatori del rally della carovana della salvezza si sono fatti stampare in fretta in qualche
copy- center. Brigitte Pirker, un’altra leader della carovana, ha caricato il suo Suv con
matite, quaderni, pennarelli e giocattoli: «Così nel lungo viaggio fino alla Germania che
hanno ancora di fronte potranno passare meglio il tempo, riprendersi da stress che come
traumi infantili poi ti restano nell’animo per una vita». E poi aggiunge: «Importantissimo
portare loro vestiti nuovi, le crocerossine austriache hanno ordinato ai migranti di lasciare
al confine abiti e coperte vecchi e sporchi, e subito gruppi ungheresi filo-Orbán diffamano
migranti e crocerossine come insudiciatori della Patria». “Thank You Austria”, gridano tanti
siriani, afgani e dannati della terra d’ovunque altrove, ispirati da uno di loro, il siriano
Majed Trabisi, salendo sulle vecchie Golf e le grandi 12 cilindri della carovana
interclassista dei samaritani del Danubio. Poi arrivano alla stazione di Vienna, un altro
europeo dal volto umano li aiuta: Ahmed Merabet, collega della tv austriaca, ex siriano, ha
chiesto giorni liberi subito concessi per spiegare, tradurre, guidare i disperati verso il treno
giusto per la Germania. E a ogni sosta della carovana delle 300 auto in questa o quella
stazione, la gente della strada viene loro incontro, e stringe nelle mani dei migranti
qualche banconota, poche o tante ma è segno d’aiuto e affetto.
La tragedia continua, potrebbe ancora riprendere una brutta piega: a Berlino Angela
Merkel affronta dura e decisa i no della Csu (il partito fratello bavarese arciconservatore e
filo- Orbán) che grida contro «l’assurda decisione di lasciarli entrare ». A Dortmund i
neonazisti scendono in piazza, attaccano la polizia, gli agenti rispondono e ne arrestano
quattro, ma nello scontro incassano feriti gravi.
L’esodo continua, i rischi dei samaritani al volante crescono. In Ungheria chi soccorre i
migranti rischia ora fino a 5 anni, «state attenti» scrive Erzsébet sul social forum. Quattro
volontari viennesi sono stati già fermati dalla polizia di Orbàn, denunciati per “traffico
illegale di clandestini”, poi rilasciati. Ma presto la vendetta rabbiosa del regime sconfitto dal
crollo del suo Muro potrebbe trovare nuove vie più crudeli. Oggi vincono le carovane dei
volontari e la Germania merkeliana delle braccia aperte, lo scontro tra due idee d’Europa
continua.
del 07/09/15, pag. 5
No di Cameron alle quote: niente obblighi
La Gran Bretagna accetta 15 mila profughi siriani ma «senza vincoli». E
prepara un attacco contro l’Isis A Berlino il primato dell’accoglienza,
però gli alleati bavaresi si ribellano a Merkel: non può continuare così
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La prossima parola-ostacolo sarà ancora quella di sempre: «quote», quote obbligatorie e
permanenti di immigrati da redistribuire nei vari Paesi Ue. Dopodomani, la Commissione
Europea proporrà che il totale non sia più di 40 mila esseri umani, come in passato, ma il
triplo, 120 mila. L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati chiede che siano 200 mila. Ma
tanto per cambiare, l’Europa è lacerata. Londra continua a rifiutare le quote in via di
principio, e ora però spiega che accoglierà 15 mila profughi siriani, preparando nel
contempo — secondo il Sunday Times — un attacco militare contro l’Isis e i «trafficanti di
esseri umani» in Siria. La Svezia sostiene senza esitazioni la proposta di Bruxelles, e così
fanno la Finlandia, la Francia, quasi tutta l’Europa Occidentale. Ci sono forti malumori in
Spagna, già contraria alle «vecchie» stime assegnatele: anche se ora le verrà richiesto di
accettare la metà dei migranti accettati dalla Germania, dovrà comunque rassegnarsi a un
numero triplo rispetto al passato. Sempre che accetti: a luglio, il principio della
redistribuzione obbligatoria venne respinto da tutti i 28 Stati e passò solo quello della
volontarietà. Infatti Austria, Gran Bretagna, Danimarca e Ungheria, più — a parole o con i
fatti — altri Paesi dell’Est, alle quote dissero «no», e basta. Da allora, nulla è cambiato
nelle procedure: qualunque essa sia, la proposta della Commissione dovrà comunque
essere approvata da un Consiglio Ue, cioè da un vertice dei capi di Stato e di governo.
Berlino e Vienna lo chiedono a gran voce, Bruxelles per ora nicchia, ben consapevole
delle fratture esistenti: si dovrebbe votare a maggioranza qualificata, che in genere
equivale ad una corsa ad ostacoli di 10 mila metri, fra paludi e burroni.
Nel frattempo, con ottomila profughi accolti anche ieri, è sempre la Germania — in
particolare la sua Baviera — a conservare il primato dell’accoglienza, con relative spese. E
lo paga con le prime divisioni interne. Ieri la Csu bavarese, l’Unione cristiano-sociale che è
poi il partito fratello dei cristiano-democratici guidati da Angela Merkel, si è ribellata con il
suo segretario generale Andreas Scheuer: «Non può continuare così», ogni profugo pensa
alla Germania ma «il Paese non può affrontare da solo tutto ciò».
E il dilemma delle quote sfocia indirettamente anche in quello di una nuova guerra. La
Francia si affianca alla Gran Bretagna nel progetto di un attacco militare alle zone della
Siria controllate dal cosiddetto Califfato islamico. Si pensa a un mandato Onu e a una
grande coalizione che potrebbe comprendere anche la Russia: da Washington, arrivano i
primi segni di preoccupazione.
Luigi Offeddu
del 07/09/15, pag. 7
L’assistenza batte la burocrazia
Così funziona la macchina tedesca
I siriani ospitati nei centri di prima accoglienza e solo in seguito
identificati Un metodo matematico per la distribuzione: i land ricchi
avranno più ospiti
Tonia Mastrobuoni
Su uno dei treni arrivati ieri mattina a Monaco c’era persino una donna che aveva partorito
a Budapest ed era ancora legata al suo bambino dal cordone ombelicale. I medici tedeschi
gliel’hanno reciso, poi l’hanno portata rapidamente al sicuro, in ospedale. La priorità non è
stata registrarla, come vuole la legge. La priorità è stata proteggerla, curare lei e il
neonato, prima di riempire scartoffie.
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Nel capoluogo bavarese che funge attualmente da principale luogo di smistamento dei
profughi siriani e iracheni che arrivano dall’Ungheria, l’accoglienza è rapida, veloce,
efficientissima, ma improntata ad una certa flessibilità. «Non mi importa dei dettagli legali»,
ha commentato il presidente della regione dell’Alta Baviera, Christoph Hillenbrandt. E il
sindaco, Dieter Reiter, ha puntualizzato che «è ovvio che c’è un limite alla nostra capacità
di accoglienza, ma non è un problema che mi pongo adesso». I volontari, i poliziotti e i
medici hanno pensato anzitutto a dare assistenza sanitaria, cibo e un letto.
La distribuzione
Dei circa 7.000 giunti nella sola giornata di sabato (con gli arrivi di ieri è stata superata
quota 13mila), metà sono stati immediatamente trasferiti nei centri di prima accoglienza,
l’altra metà è ripartita per altre mete della Germania. A Monaco sono stati predisposti
2.400 posti letto nei padiglioni della Fiera, altri 350 nella scuola Luisengymnasium, mentre
le ferrovie tedesche hanno messo a disposizione alcune sale per la primissima assistenza
medica. Al di là delle emozioni, dei gesti generosi di centinaia di tedeschi che hanno
aspettato l’arrivo dei profughi in tutto il Paese con un entusiasmo incredibile – un cronista
ha commentato che alla stazione di Monaco c’era un’atmosfera da Mondiali di calcio – la
Germania ha messo in moto la sua proverbiale macchina organizzativa.
La «chiave di Koenigstein»
I profughi sono distribuiti già da ieri con il sistema della «chiave di Koenigstein». Nel 1949
nella cittadina dell’Assia venne messo a punto un metodo per calcolare la diffusione dei
fondi per la ricerca. Da anni viene usato anche per decidere le quote di rifugiati per ogni
Land. La «chiave» segue il principio che le regioni più ricche e popolose devono prendersi
carico della maggior parte dei profughi: le quote si deducono per un terzo dal numero dei
residenti, per due terzi dagli introiti fiscali. Le tre che si prenderanno dunque carico del
maggior numero di profughi sono il Nordreno-Westfalia, la Baviera e il BadenWuerttenberg.
Verso Dortmund e Dresda
I primi treni e bus in partenza da Monaco, intanto, hanno raggiunto le loro destinazioni. Ad
Amburgo, Dresda, Dortmund sono arrivati già centinaia di siriani e iracheni, accolti da
striscioni di benvenuto, bevande calde, vestiti. Stesso copione di Monaco. A Dortmund, in
particolare, 0a salutare l’arrivo dei profughi stremati, c’erano centinaia di volontari, e
quando nella notte di sabato alcuni neonazisti hanno tentato di entrare nella stazione,
sono stati loro a cacciarli. La solidarietà degli abitanti della città del Nordreno-Westfalia è
stata tale che il comune li ha pregati ieri via tweet di smettere di donare: «Per favore,
fermatevi, abbiamo tutto. Grazie mille, siete incredibili».
L’attesa a Tempelhof
A Berlino, in molti hanno aspettato tutto il giorno l’arrivo dei profughi, ma in serata si è
saputo che sarebbero arrivati con dei bus e portati direttamente in una caserma a
Spandau che ne ospita già 700 in una tendopoli. L’altro grande luogo di accoglienza che la
capitale ha predisposto per le centinaia di uomini e donne in fuga dai loro Paesi in guerra
è l’ex aeroporto di Tempelhof. E alle polemiche della destra sui profughi che riceverebbero
più soldi dei disoccupati tedeschi, qualche giornale ha ricordato che è falso: nei primi tre
mesi hanno diritto a 216 euro per mangiare e vestirsi, più 143 euro di «argent de poche»,
totale 359 euro. Quaranta in meno degli assegni Hartz IV per i tedeschi.
del 07/09/15, pag. 7
Scelta realista e pragmatica
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La Merkel non è cambiata
Immigrati giovani e istruiti servono all’economia
Quando Jean-Claude Juncker ha ricevuto giovedì scorso la drammatica lettera di Angela
Merkel e François Hollande che esprimeva l’urgenza che l’Europa adotti «un meccanismo
permanente e vincolante per la redistribuzione dei rifugiati» deve essergli scappata una
risata. È la stessa proposta che il presidente della Commissione Ue ha avanzato mesi fa
ai governi della Ue: un sistema di quote obbligatorie. Una proposta affossata, di fatto, dalla
cancelliera, dopo mesi di tentennamenti e mancate prese di posizione che hanno portato
al drammatico e fallimentare vertice europeo di luglio. E oggi la Kanzlerin ripropone le
quote come se fossero una sua idea.
Lo schiaffo a Juncker
Chi ha frettolosamente creduto di riconoscere nella «Fluechtlingskanzlerin», la
«cancelliera dei profughi», come è stata ribattezzata, una nuova Merkel, sbaglia. Un conto
è se la proposta delle quote viene da Bruxelles, un conto è se la paternità è della
cancelliera, che nei prossimi giorni continuerà prevedibilmente a guidare saldamente il
negoziato e sfodererà anche la sua proverbiale capacità di mediazione con i rivoltosi Paesi
dell’Est. Merkel ha riacchiappato, anche sul tema dell’immigrazione, la leadership che
Juncker aveva rischiato di scipparle. Ma Merkel è sempre Merkel.
Ieri sera, non a caso, ha affrontato un drammatico vertice di maggioranza con l’ala
bavarese del suo partito in aperta ribellione con la generosità mostrata dal governo sui
rifugiati (anche la Csu è sempre la Csu). Molti dimenticano che la Germania ha una lunga
tradizione di accoglienza - ne sa qualcosa anche l’Italia. Ma gli ottocentomila profughi che
si prepara ad assorbire sono un numero che agita la parte più conservatrice del suo
elettorato e del suo partito, anche per le manifestazioni di intolleranza che si moltiplicano
nel Paese.
Politiche razionali
La cancelliera, però, ha dalla sua i numeri. Anche in questo, Merkel è sempre Merkel.
Affronta il problema dell’immigrazione con il tipico pragmatismo. Primo, come ha ricordato
ieri la ministra del Lavoro, Andrea Nahles, c’è il problema dello «sviluppo demografico». I
tedeschi fanno pochi figli e considerano da sempre l’immigrazione come una salvezza.
Secondo, come ha ricordato ieri il capo di Daimler, Dieter Zetsche, i giovani che arrivano
in queste ore drammatiche dal Medio Oriente «sono giovani, ben istruiti e molto motivati:
esattamente ciò di cui abbiamo bisogno». E qui sta il secondo segreto delle politiche per
l’immigrazione targate Merkel: sono razionali. Stanno portando avanti una stretta sui
migranti provenienti dai Balcani occidentali e privilegiando l’accoglienza dei profughi siriani
perché dal Paese di Assad sta scappando una classe media, istruita, molto più funzionale
all’industria avanzata tedesca dei migranti che provengono dall’Albania o dalla Serbia .
Infine, mentre si festeggia il nuovo corso tedesco che imprimerà auspicabilmente una
svolta alle politiche europee, molti dimenticano che prima di arrivare a una discussione
seria sono passati nove lunghissimi mesi che sono costati migliaia di vittime nel
Mediterraneo e lungo i Balcani. In questo, però, Merkel non ha colpe. In questo, purtroppo,
l’Europa è sempre l’Europa.
[t. mas. ]
28
del 07/09/15, pag. 1/6
Mentre la Merkel spinge l’Ue alla solidarietà, in Polonia, Repubblica
ceca, Slovacchia e soprattutto Ungheria cresce il fronte anti-profughi.
Un paradosso perché quei paesi sono stati in un recente passato
simboli dell’emigrazione
La società multietnica che divide l’Europa
ecco perché l’Est non vuole i migranti
BERNARDO VALLI
VARSAVIA
NELLA STORIA, con la maiuscola, ci inciampi sempre. Quando meno te l’aspetti. In
particolare in questa parte d’Europa dove è sempre presente anche se ormai remota.
Arrivi in Polonia o in Slovacchia o nella Repubblica ceca o in Ungheria alla ricerca dei
motivi che spingono questi paesi a rifiutare i profughi, venendo meno ai principi civili
universali evocati da Angela Merkel come legame irrinunciabile tra i paesi dell’Unione
europea, e cominci a frugare negli egoismi d’oggi, nello sciovinismo, nella mancanza di
solidarietà umana. Non ti discosti dalla cronaca, da quel che sta accadendo, ti spingi al
massimo fino alla memoria che la precede. Non vai oltre a ritroso e ti accorgi che le stesse
caratteristiche, in misura variabile, più frantumate ma non meno sfacciate le puoi trovare
nell’Europa dell’Ovest ricca di populismi. I Salvini e i Le Pen non sono da meno.
Finché i tuoi interlocutori ti sbattono in faccia la vera ragione della ripulsa. E ti accorgi, che
senza assolvere, giustificare i vizi, essa ha una radice storica decisiva. Molti polacchi,
cechi, slovacchi, ungheresi, assecondati con più o meno vigore dai loro rispettivi governi,
respingono l’idea di una società multiculturale. Questo è il demonio da respingere: è quel
che spiega la profonda divisione tra Est e Ovest.
L’Unione europea ha attirato i paesi dell’Est perché farne parte era una promozione
democratica, e per i vantaggi economici. L’Ue è inoltre un’organizzazione attigua alla
Nato, ritenuta un irrinunciabile scudo di fronte alla prepotenza della Russia di Putin. Ma
quella stessa Europa occidentale, un tempo tanto attraente, li turba, li spaventa per i
milioni di musulmani che ha integrato o che ospita, e dai quali scaturiscono rivolte (le
periferie francesi) o attentati ( Charlie Hebdo ).
L’apertura delle frontiere, in particolare l’ accordo di Schengen, non è stata accompagnata
dall’accettazione di una società multiculturale, che pare implicita. Il problema non è stato
affrontato e ora spacca l’Europa. Un professore di storia, Mark Maskover, ricorda che fino
al XX secolo il Vecchio Continente nel suo complesso ha vissuto in una specie di
“purificazione etnica”, ed è soltanto negli anni Sessanta che il versante occidentale ha
imboccato il senso inverso con l’ arrivo in massa degli immigrati, resi necessari
dall’industria in espansione. Il fenomeno è avvenuto in un clima di progresso economico,
come del resto oggi gli imprenditori della Germania opulenta sono favorevoli
all’accoglienza dei profughi che colmeranno la scarsità di mano d’opera nel paese e al
tempo stesso il deficit demografico che invecchia la popolazione.
I paesi dell’Europa centrale hanno invece raggiunto un’omogeneità etnica in modo
drammatico. Non in seguito al progresso ma alle guerre e agli sconvolgimenti politici che
hanno ritracciato i confini. E ne sono adesso gelosi. Nelle loro storie nazionali
quell’omogeneità è una conquista. L’esempio più vistoso è la Polonia, un tempo terra di
grande emigrazione e di profonde divisioni interne, che ha da poco raggiunto un’unità
etnica e linguistica cui non vuole o stenta a rinunciare.
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All’origine della spaccatura tra le due Europe di fronte al grande movimento migratorio ci
sono dunque esperienze storiche diverse. L’ Unione multiculturale, di cui Angela Merkel è
la pacifica e audace condottiera, si basa su dei nobili valori che non corrispondono ai
valori difensivi della parte di Unione gelosa della omogeneità etnica conquistata. La
scomposta associazione dei popoli europei si basa su principi la cui diversità può
diventare drammatica e forse irreparabile se l’arrivo di migranti e rifugiati fosse destinato a
durare anni, come sembra. L’opinione pubblica polacca è meno compatta nel rifiuto dei
profughi degli altri paesi del gruppo di Visegrad (Slovacchia, Repubblica Ceca e
Ungheria), e senz’altro anche delle tre repubbliche baltiche. Il primo ministro, Ewa Kopacz,
si è detta disposta ad accettare almeno duemila rifugiati, a condizione che esistano i mezzi
finanziari e il clima politico lo consenta. E quest’ultimo non è favorevole. Il suo partito,
liberal conservatore, affronta il mese prossimo elezioni difficili, perché il movimento
populista Legge e Giustizia domina i sondaggi, anche grazie alla posizione anti-immigrati.
A Praga, sabato scorso, il gruppo di Visegrad ha rifiutato in una sbrigativa riunione
d’emergenza la spartizione dei rifugiati con il criterio delle quote o di meccanismi simili.
Questa linea intransigente potrebbe essere sostenuta il 14 settembre alla riunione dei
ministri degli Interni, e al Consiglio europeo di metà ottobre. Bohuslav Sobotka, il primo
ministro ceco, ha escluso di poter accettare più di millesettecento rifugiati. Il suo collega
slovacco, Robert Fico, è disposto ad accoglierne duecento (soltanto siriani cristiani).
In un momento di generosità, il governo di Bratislava aveva proposto di allog- giare
cinquecento profughi in un edificio abbandonato di Garcikovo, sulla sponda del Danubio,
al confine ungherese. Ma i cinquemila abitanti di quel piccolo centro si sono espressi al 97
per cento contro l’accoglienza.
Nonostante i propositi espressi in loro favore, gli stessi profughi cristiani non sono sempre
ospiti graditi. La società di San Vincenzo da Paola ha dovuto rinunciare a dare asilo ad
alcune centinaia di loro in un convento abbandonato perché i duemila duecento abitanti
del luogo hanno protestato, benché il settanta per cento si dichiarino cattolici praticanti.
Del resto ottanta slovacchi su cento rifiutano i migranti. Nella Repubblica ceca sono
ancora di più: il 93 per cento. Il presidente Milos Zeman anima l’ostilità, al punto da non
escludere il dispiegamento di forze dell’esercito lungo il confine. Il parlamento di Budapest
ha già preso iniziative in proposito, ha approvato un piano che prevede l’uso dei militari
sulla frontiera con l’Austria e una condanna di tre anni per gli immigrati clandestini.
Se protette dall’anonimato, personalità vicine al governo di Varsavia non esitano a
rimproverare la cecità occidentale nella guerra civile siriana che riversa adesso profughi
nel Vecchio continente. L’Europa Orientale non c’entra. Bisognava intervenire all’inizio per
estinguerla. Inoltre si parla della massa di migranti come un rigurgito del colonialismo che
ha disegnato il Medio Oriente che adesso si sta disgregando. Ma l’ Europa ha bisogno di
principi comuni chela tengano unita, non del passato storico che l’ha disunita. E quei
principi non ci sono.
del 07/09/15, pag. 2
Trentamila trafficanti dietro i viaggi della
disperazione
Le cifre di Europol. Gestiscono le rotte verso l’Europa. Un giro d’affari
miliardario
U. D. G.
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Un vero e proprio esercito al servizio del traffico illegale più redditizio al mondo: 30mila
persone, di molteplici nazionalità, sono coinvolte a vario titolo nel traffico di esseri umani
in fuga verso l’Europa. Gestiscono e organizzano i loro spostamenti, con un giro d’affari
complessivo di miliardi di euro. Sono queste le cifre fornite da Robert Crepinko, direttore
di Europol. Al momento, l’agenzia Ue finalizzata alla lotta al crimine e la missione navale
Ue «Eunavfor Med» stanno collaborando da una base in Sicilia per identi ficare e
smantellare le reti di trafficanti di disperati. Crepinko ha aggiunto che a breve sarà aperto
un altro distaccamento al Pireo, in Grecia, per aggredire il flusso dalla Turchia. Solo 3mila
dei 30mila sospetti si occupano della gestione della via di fuga in mare attraverso il
Mediterraneo. Il resto opera nella rotta attraverso i Balcani e l’Ungheria o in quelle che
attraversano l’Asia e l’Africa. Il traguardo è comune: l’Europa.
I guadagni delle organizzazioni criminali derivanti dal traffico dei migranti - combinato con
quello di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo - hanno superato quelli
derivanti dal traffico di armi e droga. A renderlo noto ieri l’agenzia di controllo delle
frontiere dell’Unione europea Frontex. «Probabilmente è il business illegale più redditizio
che ci sia» al momento, afferma Izabella Cooper.
I trafficanti di esseri umani farebbero inoltre sempre più ricorso a Facebook e altri social
media per «pubblicizzare i propri serviziı, negoziare i prezzi e organizzare luoghi e tempi di
viaggio dei migranti A complicare le indagini l’estrema fluidità dei singoli gruppi. Il capo di
Europol cita ad esempio il caso di una banda formata da 16 membri recentemente
scoperta in Grecia. Era formata da due romeni, due egiziani, due pakistani, sette siriani,
un indiano, un filippino ed un iracheno. Questo gruppo da solo ha fatto giungere in
Europa via mare, aria e terra, centinaia di siriani fornendo loro anche falsi documenti,
realizzando fino a 7,5 milioni di guadagni in pochi mesi di attività. Dal canto suo,
l’Organizzazione mondiale dei migranti (Oim) ha calcolato che ogni anno il trasporto dei
clandestini attraverso il Mediterraneo, dai Paesi in guerra dell’Africa e del Medioriente
all’Europa, vale qualcosa come 10 miliardi all’anno. Sei mesi fa, Europol ha dato vita a
una squadra per indagare sui gruppi criminali responsabili del traffico di esseri umani nel
mar Mediterraneo. La squadra, dal nome Joint Operational Team (Jot) Mare, fa uso
delle risorse di intelligence dell’Europol e degli Stati membri dell’Ue per contrastare i
gruppi criminali organizzati spesso coinvolti anche nella proliferazione di armi da fuoco,
droga e terrorismo. «Le tragedie in mare a cui abbiamo assistito richiedono un’azione
rapida e coordinata a livello Ue e il lancio di Jot Mare non potrebbe essere più
tempestivo», spiega Rob Wainwright, direttore di Europol, che, assieme ai suoi partner,
dà grande importanza alla «lotta ai gruppi criminali che facilitano l’immigrazione illegale e
userà tutte le risorse disponibili per fornire un approccio proattivo a questa lotta».
Il traffico di esseri umani arricchisce anche le casse dei gruppi jihadisti.
«A Lampedusa non arriva il terrorista con il barcone, ma il pericolo è che i terroristi
vengano finanziati con i barconi»: «ci sono sicuri incroci tra il terrorismo internazionale e la
tratta di esseri umani e l’immigrazione clandestina: è altamente probabile che una delle
fonti di finanziamento di quei terroristi sia il traffico di essere umani». È quanto affermato
dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, in audizione (25 febbraio 2015) di
fronte alle Commissioni Giustizia e Difesa della Camera che hanno avviato un’indagine
conoscitiva in vista della conversione in legge del decreto antiterrorismo.
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del 07/09/15, pag. 5
La lettera dell’Italia alla Ue «Identificazioni
regolari: certi gruppi non collaborano»
ROMA L’Italia «ha raddoppiato il numero delle persone fotosegnalate ed è perfettamente
in regola con quanto previsto dalle norme europee». L’unico problema riguarda «eritrei e
siriani che rifiutano di farsi prendere le impronte digitali nel timore di non poter poi
raggiungere lo Stato che hanno scelto come destinazione finale e dunque vengono
soltanto fotografati». Si alza il livello dello scontro sull’identificazione dei profughi. In una
lettera che sarà trasmessa questa mattina dal capo della polizia Alessandro Pansa al
direttore generale per gli Affari Interni e l’Immigrazione Matthias Ruete, il nostro Paese
contesta le accuse della Germania condivise anche dalla Francia evidenziando come «su
90 mila stranieri entrati nel nostro Paese, conosciamo l’identità di ben 60 mila».
Le contestazioni
Il prefetto fornisce le cifre, sottolinea i dettagli, elenca quanto è stato fatto e quanto si farà
per essere in linea con tutti i parametri. E lo fa dopo aver ricevuto una contestazione
formale da parte di Easo, l’Agenzia europea per i profughi che aveva sollecitato
chiarimenti sui motivi che avevano portato all’identificazione «di appena 30 mila stranieri,
rispetto ai 90 mila che risultano presenti nei centri di accoglienza». Più volte, anche nei
mesi scorsi, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François
Hollande avevano criticato l’iter seguito dall’Italia, tanto da pretendere la presenza nelle
strutture italiane di commissioni di funzionari delle agenzie europee Frontex, Europol ed
Easo. La sperimentazione per il lavoro da svolgere all’interno dei cinque «hotspot», i centri
di smistamento da allestire in base all’accordo varato a luglio in sede Ue — Trapani,
Taranto, Augusta, Pozzallo e Lampedusa — è cominciata, ma la linea dell’Italia questa
volta è netta: «Le strutture sono pronti ma non saranno aperte fino a quando non
comincerà il trasferimento dei richiedenti asilo» così come stabilito dalla commissione
guidata da Jean-Claude Juncker. Ieri il nuovo affondo di Merkel: «È evidente che
attualmente la registrazione dei profughi nei Paesi alle frontiere esterne dell’Ue non
funziona».
La lettera del Viminale
La replica messa a punto da Pansa è articolata e netta nel ribadire che nessuna norma è
stata violata, anzi sono state «seguite le procedure stabilite» perché «sono 30 mila gli
irregolari già identificati con la registrazione delle impronte digitali e altrettanti i richiedenti
asilo che si sono sottoposti al fotosegnalamento». Effettivamente mancano all’appello 30
mila persone, ma sono coloro che anche in tutti gli altri Stati europei tengono lo stesso
atteggiamento negativo. Vale a dire: chiusura dei pugni proprio per evitare che si potesse
arrivare all’accertamento della loro identità e in caso di forzatura resistenza ai pubblici
ufficiali «costretti a fermarsi per evitare che la situazione possa degenerare». Il motivo è
noto: in base al trattato di Dublino, chi chiede il riconoscimento dello status di rifugiato
deve rimanere nel Paese di primo ingresso fino all’esito dell’istanza. Un’eventualità che
molti — in particolare eritrei e siriani — cercano di evitare in ogni modo, visto che la loro
meta finale è il Nord Europa ma anche gli Stati Uniti.
La trattativa sulle quote
In vista del negoziato che già domani entrerà nel vivo con la riunione tecnica per
esaminare la bozza della Commissione, l’Italia evidenzia quanto è stato fatto. Sono
almeno 8 mila i poliziotti e i funzionari impegnati sul fronte dei migranti con un
investimento economico che diventa sempre più gravoso. Non a caso il prefetto Mario
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Morcone, responsabile del Dipartimento Immigrazione, ribadisce la necessità di poter
contare su un sistema che abbia «criteri univoci» per la distribuzione dei richiedenti asilo.
Fanno muro Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia che annunciano di non
voler partecipare ad alcuna divisione e soprattutto contestano la scelta di rendere
sistematico il sistema. Nelle intenzioni di Juncker c’è — per gli Stati che rifiutano
l’accoglienza — il versamento di una sanzione proporzionale al proprio Pil in una
percentuale che dovrà essere fissata. Le questioni sono spinose, numerosi ostacoli
segnano la strada per arrivare a un accordo ampio e garantire assistenza a chi scappa
dalla guerra.
del 07/09/15, pag. 3
La mappa dei 5 hot-spot italiani per le
identificazioni
Claudia Fusani
Lampedusa, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle, Augusta: sono questi gli indirizzi dove
il Viminale sta già lavorando per aprire i cinque hot spot che Bruxelles e frau Merkel in
primis ci chiedono - più corretto dire ci impongono - di aprire per procedere senza indugio
all’ indentificazione delle migliaia di persone in arrivo in Italia e quindi in Europa. La scelta
è stata quasi obbligata: «Non potevamo che allestirli nei luoghi di primo arrivo, ovverosia
nei porti dove sbarcano» spiegano i tecnici del ministero dell’Interno che sovrintendono il
piano degli arrivi e dell’accoglienza. Gli hot-spot sono nei fatti già pronti per diventare
operativi. Un po’ più indietro è solo Taranto, «ma è questione di giorni». Si tratta di luoghi
«con una capienza complessiva di 2.200 posti» dove si ipotizza che le persone vengano
identificate - e quindi inserite nel sistema Eurodac - nel giro di due settimane. A quel
punto escono, sono liberi e restano in attesa delle risposte nelle varie strutture del
sistema d’accoglienza Sprar cui vengono destinati. Chi si opporrà all’identificazione, verrà
invece trasferito nei Cie, i centri di identificazione da dove non potranno uscire perchè nei
fatti clandestini e fuori legge. In aiuto alle forze di polizia italiane l’Europa è pronta ad
inviare rinforzi, 50 esperti di fingerprinting (impronte digitali) che potranno aiutare ad
organizzare i team per le identificazioni.
L’Italia ha dunque fatto i suoi homework, i famosi compiti a casa che ogni tanto Bruxelles
ci ricorda. E sarà questo il dossier che il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il suo staff
porteranno a Bruxelles nel vertice programmato il 14 settembre che ha in agenda un solo
punto: l’esodo biblico e inarrestabile dalla Siria ma anche dal Corno d’Africa, da
Afghanistan e Iraq per non parlare di Nigeria e Bangladesh.Un dossier, però, vincolato a
uno scambio reciproco. «Noi faremo gli hot-spot - ha ripetuto in questi giorni il ministro
Alfano -. se Bruxelles approva il pacchetto di norme comuni che consentirà ai Paesi
europei di gestire il fenomeno sulla base di regole comuni e condivise». Quello che l’Italia
chiede in cambio, da almeno un anno quando sulle nostre coste l’esodo era già in atto,
coincide in gran parte con il piano Junker: permesso d’asilo europeo, non più legato ai
singoli Stati e svincolato da Dublino (che obbliga a chiedere asilo nel primo Paese
europeo di arrivo, quasi sempre Italia e Grecia); redistribuzione dei profughi (da 32 mila
di una settimana fa siamo passati a 160 mila); accordi comunitari per i rimpatri assistiti
dei non aventi diritto. Soprattutto una lista unica, europea, che stabilisca una volta per tutte
chi ha diritto e chi no, che divide i profughi in fuga da guerre e persecuzione dai migranti
economici. I primi avranno diritto all’asilo.
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Gli altri saranno invece rimpatriati con un piano di assistenza (un corso che li metta in
condizione di avviare attività nei Paesi di origine). È la lista il passaggio più stretto, difficile
e doloroso. In queste ore prevale l’emozione per questa nazione-Europa che sembra
nascere finalmente nei gesti di solidarietà lungo la frontiera austro-ungherese e nei land
tedeschi. Ma la situazione non è affatto chiara e inquieta anche i tecnici del Viminale: che
succede ora?. Nè è stabile visti i fenomeni xenofobi che si moltiplicano dall’Ungheria alla
stessa Germania. «Sarà molto difficile gestire il dopo ed è necessario che le norme siano
chiare e condivise» dicono. L’insieme di norme che vanno sotto il nome di «pachetto
europeo» è decisivo. Soprattutto per l’Italia arrivata a 121 mila arrivi di cui 92 mila circa
sono ospitati e assistiti nelle varie strutture. Ma i siriani, a cui Austria e Germania, hanno
spalancato le porte, in Italia sono solo la quarta etnia (6.500). Da noi arrivano soprattutto
eritrei, somali e nigeriani. Bruxelles li considererà profughi o migranti economici? Ecco
perchè gli hot-spot sono pronti ma non saranno aperti finchè non sarà operativo il più
completo piano europeo.
del 07/09/15, pag. 2
L’appello del Papa alla Chiesa d’Europa
«Ogni parrocchia accolga i profughi»
Bergoglio: comincerà il Vaticano. Un’altra tragedia in mare: almeno
venti dispersi al largo di Lampedusa
CITTÀ DEL VATICANO La direttiva è vasta e tassativa: ogni parrocchia d’Europa ospiti
una famiglia di profughi. E non siano da meno conventi, monasteri, santuari.
A cominciare da Roma, anzi dal Vaticano. Francesco all’Angelus ha messo all’opera,
sull’accoglienza dei profughi, l’intera Chiesa Cattolica del Continente. Ha chiesto l’aiuto dei
vescovi per essere ubbidito. Prima dell’appello all’accoglienza, il Papa, commentando il
Vangelo che si leggeva ieri nella messa, aveva parlato contro le chiusure: «La coppia
chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa: e questo
non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato».
Ancora ieri una nuova tragedia nel Canale di Sicilia: circa 20 migranti sarebbero caduti in
acqua prima che il loro barcone fosse raggiunto da due unità della Guardia costiera,
appena giunte a Lampedusa. Lo hanno riferito alcuni extracomunitari sbarcati sull’isola agli
operatori del progetto «Mediterranean Hope», finanziato dalla Federazione delle Chiese
evangeliche in Italia. Una donna ha detto di aver perso due figli e un fratello, un giovane
del Gambia ha raccontato di due amici scomparsi. Contro le chiusure è suonato anche il
messaggio inviato dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, al meeting interreligioso di
Sant’Egidio aperto ieri a Tirana: «La risposta delle nazioni democratiche ai venti di guerra
e alle ondate dei profughi non può essere la chiusura e l’arroccamento. I muri e i fili spinati
non fermeranno il divampare degli incendi». Questa è la chiamata del Papa: «Rivolgo un
appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa
ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi».
Francesco ha presentato quell’impegno come «un gesto concreto in preparazione all’Anno
Santo della Misericordia» e ha ribadito che esso riguarda tutti, «incominciando dalla mia
diocesi di Roma». Sa che gli batteranno le mani ma teme che pochi lo seguano e perciò
coinvolge «i miei fratelli vescovi d’Europa, ricordando che misericordia è il secondo nome
dell’Amore. Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due
famiglie di profughi».
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Le due parrocchie del Vaticano (Sant’Anna dei Palafrenieri e San Pietro) fanno parte delle
335 parrocchie di Roma. A Milano — cioè nell’intera arcidiocesi ambrosiana — le
parrocchie sono 1.104; quelle di tutta l’Europa addirittura 130 mila. La chiamata del Papa
è senza precedenti. Un appello analogo, ma meno diretto e meno vasto, l’aveva rivolto ai
religiosi il 10 settembre 2013, visitando il Centro Arrupe di Roma che si occupa dei
rifugiati: «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e
guadagnare i soldi». Al momento solo il cardinale Peter Erdoe, arcivescovo di Esztergom,
in Ungheria, dice che «purtroppo non possiamo, perché potrebbe essere qualificato come
illegale, traffico di esseri umani» .
Luigi Accattoli
del 07/09/15, pag. 1/7
In due anni più «cittadini» che «clandestini»
«A fronte dei 213mila stranieri sbarcati in Italia nel biennio 2013-2014, ve ne sono ben
231mila che, nello stesso arco temporale, sono approdati alla cittadinanza italiana». Ecco
un’anticipazione dal XXI Rapporto Ismu 2015 – disponibile tra un paio di mesi – che
andrebbe immortalata con uno slogan a effetto: più “cittadini” che “clandestini”.
Magari ricordando altresì come tutto questo sia avvenuto senza che le infinite discussioni
sulla necessità di cambiare la legge 91 del 1992 abbiano mai prodotto alcun effetto
concreto.
Si tratta di una ritrovata efficienza da parte della moribonda legge o, più razionalmente, è
solo la conferma della progressiva “maturazione” di una componente straniera che,
avendo un’anzianità di presenza piuttosto consistente, ha sempre più spesso titolo per
richiedere la naturalizzazione? È chiaro che la risposta esatta è quest’ultima.
Ma un legittimo stupore continua a persistere. In fondo, ci avevano detto che erano gli altri
– per esempio i tedeschi o i francesi – quelli che avevano leggi sulla cittadinanza
“moderne”, ma ora scopriamo che Francia e Germania hanno avuto, rispetto a noi, quasi
lo stesso numero assoluto di acquisizioni e persino un’incidenza, per ogni 100 stranieri,
inferiore alla nostra.
Certo, non che questo assolva la legge 91 dai suoi limiti oggettivi, ma almeno non la
criminalizza. Anche perché spesso nel contestarne alcuni effetti, specie riguardo allo
spinoso tema dei minori legati al destino dei propri genitori, ci si dimentica di ricordare che
l’attuale legge rispecchia un’ispirazione di tipo “familiare”, secondo cui un minorenne che è
a carico di qualcuno (usualmente i/il genitori/e) ne condivide i vincoli, le scelte e le
condizioni di vita (la parentela, la casa, il benessere o la povertà, e così via); perché
dunque non la cittadinanza? Almeno fino a quando, da maggiorenne, sarà egli stesso a
poter decidere in piena autonomia.
D’altra parte, non è certamente un caso che la legge 91 preveda (articolo14) che «i figli
minori conviventi con chi acquista la cittadinanza la acquistano a loro volta». In tal senso è
illuminante notare come nel periodo 2008-2013 circa un nuovo italiano ogni quattro
(24,2%) fosse in età inferiore ai 15 anni.
E ancora, se confrontiamo il numero dei minori residenti in Italia per età al 1° gennaio e al
31 dicembre del 2014 è facile rendersi conto che, se prendiamo i soli stranieri, coloro che
a fine anno sono in età 6 risultano assai meno di quelli che al 1° gennaio erano in età 5.
Viceversa, se prendiamo i coetanei con cittadinanza italiana lo stesso confronto segnala
una variazione pressoché analoga ma di segno opposto. E tale compensazione, tra
stranieri in meno e italiani in più, è ricorrente in corrispondenza di tutte le età della prima
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infanzia, a dimostrazione di un flusso di minori stranieri che sono stati indirettamente
“italianizzati” dall’impostazione familiare dell’attuale legge.
In conclusione non è affatto azzardato ipotizzare che tra i 130mila nuovi italiani conteggiati
nel 2014 vi sia un cospicuo numero di minori che hanno acquisito la cittadinanza con
logiche di tipo familiare e un appunto da muovere a questa riforma - che pur ha il merito di
volere intervenire sul tema delle seconde generazioni - è proprio l’abbandono di un tale
approccio. Potrebbe infatti determinarsi il paradosso di genitori stranieri che, pur non
cambiando cittadinanza, avrebbero un bambino di altra nazionalità dopo cinque anni dalla
sua nascita.
Più ragionevole sarebbe poter conferire al figlio la doppia nazionalità subito per nascita,
ma con valenza limitata nel tempo; dandogli poi la possibilità di decidere, al
raggiungimento della maggiore età, con quale delle due cittadinanze vivere il proprio futuro
da adulto.
Gian Carlo Blangiardo
del 07/09/15, pag. 20
“Controlli da 007 per battere il caporalato”
Boeri: indicazione preventiva delle giornate lavorative e salario minimo
garantito “Contro chi sfrutta anche l’intelligence”
GIULIANO FOSCHINI
ROMA. Un lavoro di intelligence per individuare le aziende potenzialmente a rischio. La
comunicazione preventiva delle giornate lavorative, in modo da impedire di “aggiustare le
cose” quando, purtroppo, sono già accadute. Il salario minimo garantito per ogni giornata.
Ma anche rigide norme per evitare l’accesso indiscriminato e irregolare agli ammortizzatori
sociali, dalla maternità alla disoccupazione.
Eccolo il piano che l’Inps del professor Tito Boeri ha preparato per sconfiggere il
caporalato e rimettere ordine nell’agricoltura italiana. Quattro punti che verranno discussi
nella cabina di regia con i sindacati in calendario mercoledì 9 e poi presentati al ministro
dell’Agricoltura, Maurizio Martina, che vorrebbe far diventare il pacchetto operativo entro la
fine dell’anno.
La novità più rilevante è sicuramente l’obbligo di “comunicazione preventiva” da parte del
datore di lavoro delle giornate lavorative. Oggi, dati i contratti, la rendicontazione viene
fatta al termine. E ciò consente al datore di lavoro di non segnare le giornate di lavoro
effettivamente pagate. E nello stesso tempo di non avere problemi con la legge.
«Una bracciante lavora per due giorni - fa un esempio Giuseppe De Leonardis, della Flai
Cgil pugliese - ma alla fine gliene viene pagata soltanto una: se però arriva un controllo,
ha un contratto in mano e dunque non è sanzionabile. Se denuncia, invece, non lavora
più». Con le nuove norme il datore dovrà invece trasmettere all’Inps una comunicazione
preventiva di prestazione del lavoro con numero di giornate programmate, qualifica e
indicazione dei fondi.
L’obiettivo è duplice. Si vogliono colpire i datori di lavoro disonesti. Ma anche i lavoratori
furbetti. Uno dei problemi principali dell’agricoltura italiana sono oggi i falsi braccianti.
«Proprio nelle zone – spiega il comandante provinciale dei carabinieri di Bari, Rosario
Castello – dove con più frequenza troviamo lavoratori in nero, troppo spesso scoviamo
falsi braccianti assunti per ottenere privilegi previdenziali, dalla disoccupazione alla
maternità. I diritti vengono così trasferiti da chi lavora a chi no. Questo è inaccettabile».
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Soprattutto se si leggono i numeri. Le giornate indennizzate per malattia, maternità e
disoccupazione agli operai agricoli valgono un miliardo e settecento milioni. Un miliardo e
cento finiscono al Sud dove vengono pagate sotto forma di indennizzo 3 giornate ogni 4
effettivamente lavorate. Addirittura 4 su 5 in caso di maternità. «È proprio la coesistenza di
illegalità diffusa e opacità del sostengo pubblico a spiegare come possano in agricoltura
coesistere due fenomeni opposti come il lavoro nero e quello fittizio» scrive Boeri nel
documento riservato ai sindacati. Ed è proprio alle forze sociali che, non a caso, ieri il
premier Matteo Renzi, dal palco della Festa dell’Unità, ha voluto lanciare la sfida:
«Disintegriamo il caporalato - ha detto - Su questo punto possiamo fare un’iniziativa
insieme con i sindacati invece di fare battaglie ideologiche». I sindacati stanno studiando.
Ma sembrano apprezzare lo spirito della bozza Boeri: sono d’accordo sui paletti agli
accessi agli ammortizzatori previsti (riconoscimento di malattia e maternità in presenza di
un rapporto di lavoro, sospensione della prestazione di disoccupazione per le giornate in
cui il lavoratore percepisce altri redditi), sposano misure come la decontribuzione del
lavoro a tempo indeterminato ma hanno perplessità sull’ampliamento dell’utilizzo dei
voucher.
L’Inps per la prima volta punta anche al lavoro di intelligence nei controlli. «È possibile – si
dice nel documento - che le aziende utilizzino meno frequentemente il lavoro fittizio ma
che facciano ricorso al lavoro non regolare. È possibile quindi individuare una riduzione
nel numero di ore lavorate a fronte di una produzione invariata». Qui dovrebbe intervenire
l’intelligence incrociando i dati e facendo scattare i controlli. Perché questo punto funzioni
è però necessario che passi la riforma presentata nei giorni scorsi dal ministro Martina
insieme con il Guardasigilli, Andrea Orlando. Nel reato di caporalato, oltre
all’intermediazione, è prevista la punibilità anche per i proprietari dei terreni che utilizzano i
lavoratori irregolari. E per loro ci dovrebbe essere anche la confisca dei beni e dei mezzi.
Non è un passaggio da poco. A luglio, per esempio, in Salento è morto di caldo e di fatica
Mohamed, un bracciante di 47 anni, sudanese. Era un operaio in nero, aveva due figli
piccoli. Il suo datore di lavoro, Giusepppe Mariano, oggi indagato per la sua morte, era
stato arrestato due anni fa in una maxi inchiesta sul caporalato. Scarcerato, ancora sotto
processo, era tornato alla sua attività: sfruttare migranti. Se una legge glielo avesse
impedito, Mohamed, oggi, raccoglierebbe ancora pomodori.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 07/09/15, pag. 1/23
Matrimoni gay il Senato tradisce lo spirito
della Costituzione
STEFANO RODOTÀ
ERA prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza
episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso
sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni
meritano rispetto.
CON L’OVVIA condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore
aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte,
e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di
Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare? ».
Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di
quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone
dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un
compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare
una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo
espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della
Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva
messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende
ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero
sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del
modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa
come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto
fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».
Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un
quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “ unioni civili”
appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un
travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di
chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di
riaffermare una discriminazione. Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte,
conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in
nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di
qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata
in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati
Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie
omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte
dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché
bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche ». Si può
discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti
fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera
delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi
costituzionali.
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Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di
un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato
l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di
persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente
linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un
progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone
dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare”
dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che
questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il
matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.
Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso
(l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a
Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in
presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la
vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua
discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa
(24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che
siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata
nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere
avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo
sull’orientamento sessuale.
Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per
essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per
quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi
italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i
parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto
riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea,
però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47
hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una
immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le
dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero
dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei
parlamenti nazionali se riconoscerlo o no. Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu
lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato
era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di
Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il
riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.
Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come
una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un
realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci
che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone
resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al
diritto individuale alla propria identità personale».
Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto
— l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E
allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello
rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 07/09/15, pag. 22
La selva preistorica del Sulcis che diventa
legna da ardere
Gli ambientalisti «Bruxelles finanzia la tutela di aree come questa, ma
qui c’è un ritorno in voti»
Il sindaco: creiamo lavoro. Ma il 63% dei fondi Ue non è stato speso
Gian Antonio Stella
È meglio spendere i fondi europei o abbattere una foresta «preistorica» per fare pellet? La
risposta è ovvia. La giunta d’un paese sardo invece, d’accordo incredibilmente con l’Ente
Foreste, ha deciso di dare un po’ di lavoro ai compaesani radendo a zero la selva.
Avranno pesato i danni collaterali? «Non abbiamo soldi per questi studi». E i rischi
idrogeologici? Uffa...
Siamo a Domusnovas, un centro di seimila anime a una cinquantina di chilometri da
Cagliari. Terra di miniere. Dalle quali il paese ebbe qualche decennio d’una certa
agiatezza. Finiti nella seconda metà del ‘900. Crisi. Emigrazione. Disoccupazione. Il
destino di tutto il Sulcis. Via via più povero nonostante lo Stato abbia cercato di arginare la
deriva investendo dal 1996 al 2011, spesso con interventi di puro assistenzialismo, oltre
seicento milioni.
Fatto sta che a un certo punto, cinque anni fa, l’allora assessore regionale all’Ambiente
(all’Ambiente!) Giorgio Oppi, l’Ente Foreste (un carrozzone regionale con 7.000
dipendenti, pari a 250 mila a livello italiano!) e il sindaco di Domusnovas Angelo Deidda
detto Angioletto, hanno deciso di inventarsi lo sfruttamento della foresta demaniale del
monte Marganai. E di radere al suolo un primo pezzo di 35 ettari di selva.
Un trauma. Subito denunciato dagli ambientalisti. Ma presto rilanciato con un progetto
ancora più radicale: il «ripristino del governo a ceduo e la pianificazione dei futuri tagli» per
altri 540 ettari. Pari a dodici volte la superficie della Città del Vaticano. Così da dare lavoro
alla cooperativa Mediterranea e a qualche decina di disoccupati. «È solo legnaccia!»,
spiegherà Angioletto a una riunione dei sindaci del Sulcis finita su YouTube grazie
all’oratoria torrenziale (e volgarotta...) del nostro. Insomma, buona solo per fare pellet da
ardere.
A quel punto sono saltati su quelli del Grig, l’agguerrito Gruppo d’Intervento Giuridico di
Stefano Deliperi: «Fermate tutto, quelle foreste di leccio, corbezzolo, fillirea e macchia alta
sono inestimabili». In parallelo, il giornale online Sardiniapost.it , diretto da Giovanni Maria
Bellu, iniziava a martellare sull’assurdità di quella scelta irreversibile. Dice tutto il titolo:
«L’incredibile missione dell’Ente Foreste: radere al suolo 500 ettari di bosco».
Una lettera dei tre docenti universitari autori del piano di gestione del S.I.C. (Sito
Importanza Comunitaria), profondi conoscitori delle aree interessate, e cioè l’agronomo
Angelo Aru, il biologo Francesco Aru e il geologo Daniele Tomasi, infatti, lanciava già
l’allarme quasi un anno fa. Denunciando il pericolo che il taglio della foresta possa causare
«nefaste conseguenze» ambientali. Con «gravi alterazioni» al terreno, un «incremento del
ruscellamento e dell’erosione», la «riduzione della capacità ricostituiva della copertura
vegetale», la «scomparsa di alcune delle specie»...
In pratica, traduce in parole semplici Francesco Aru, «vogliono distruggere uno degli ultimi
esempi di foresta mediterranea spontanea cresciuta su rocce vecchie di 680 milioni di anni
e sopravvissuto nei mill enni agli errori dell’uomo... Una rarità assoluta». Per capirci: su
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quel tipo di terreno, una roccia di tipo dolomitico, «per fare un centimetro di suolo ci
vogliono mediamente 350 mila anni. Un processo lunghissimo. Se tu hai un tappeto di soli
venti o trenta centimetri di terreno il taglio di un albero rappresenta uno stress... Figurarsi
un disboscamento come quello progettato!». Il rischio? «Per gli errati utilizzi da parte
dell’uomo gli altri boschi simili sono scomparsi. Una volta che butti giù hai il deserto. Con
tutto il rispetto per il lieve sollievo dato alla disoccupazione nella zona: vale la pena di
distruggere un tesoro ambientale unico?»
Dicono i difensori del disboscamento: lo facevano pure i nostri nonni. Vero, ma non così
massicciamente. Un intervento tanto brutale lo fece solo, un secolo e mezzo fa, nel 1856,
il conte emiliano Pietro Beltrami. Non a caso ricordato come «l’Attila della Sardegna».
Certo, la foresta del Marganai sopravvisse. Ma proprio quegli abbattimenti, dicono gli
esperti, hanno reso fragilissimo l’equilibrio. E aumentato i rischi.
Tanto più che, spiegano Stefano Deliperi e Francesco Aru, «l’Europa è disponibile in
questi casi a intervenire finanziando la conservazione di aree di particolare interesse. In
pratica, con la direttiva Habitat dice: se tu non la tocchi, quella foresta antica
miracolosamente sopravvissuta, ti do io i soldi. Facciamo un contratto: quanto vale quel
legno all’ettaro? Ti pago il valore di mercato. Se da questa una lecceta puoi ricavare 7.000
euro a ettaro te li do io». E allora perché Comune ed Ente Foreste non scelgono questa
alternativa? «Perché qui c’è il ritorno in voti, favori, servizi collaterali...»
Tesi della giunta: relazione sbagliata. «Il nostro territorio l’abbiamo sempre difeso», ha
spiegato il vicesindaco Gianpaolo Garau a Sardiniapost.it : «Ogni santo giorno in Comune
c’è la processione. Non c’è lavoro, le persone non sanno come andare avanti. Noi
dobbiamo dare una risposta». Di quanti occupati parliamo? «Su un taglio di 35 ettari di
lecceta, 50/60 persone. Una boccata d’ossigeno per sette/otto mesi, poi per altri sei mesi
potranno contare sul sussidio di disoccupazione». «Perché se contestate quei risultati non
commissionate uno studio scientifico?». «Gli esperti bisogna pagarli e il Comune non ha
soldi, siamo alla disperazione, con i disoccupati che vengono in municipio tutti i giorni. Non
possiamo buttare i soldi per gli studi». Testuale. Come se un errore catastrofico non
avesse poi conseguenze catastrofiche: desertificazione, frane, disastri ad ogni «bomba
d’acqua»...
Nel frattempo, L’Unione Sarda titolava scandalizzata sui fondi europei: «Por e Pac, Sulcis
maglia nera: non sa spendere 58 milioni». Sintesi: «Nella provincia più povera d’Italia il
63% dei fondi assegnati non è stato ancora speso...». In compenso, il sindaco Angioletto
Deidda e la sua giunta, quelli senza soldi per gli studi, hanno deciso di dare 3.647 euro a
un avvocato perché quereli il giornalista Pablo Sole, che da mesi denuncia i rischi del
disboscamento. Ha scritto qualcosa di falso? No, dice la delibera: ha «messo in cattiva
luce l’operato dell’Amministrazione...». Boh...
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INFORMAZIONE
del 07/09/15, pag. 7
Rai, “Cecato” e Trattativa: c’è ancora molto
da scoprire
Tra processi e inchieste. Da Mafia-Capitale con Carminati e soci, fino
alla nuova indagine sulle presunte mazzette e i regali per ottenere gli
appalti della televisione di Stato e a Palazzo Chigi
Oltre tre milioni e mezzo di procedimenti in corso in tutta Italia. Sono le inchieste e i
processi (in primo grado, in Appello e in Cassazione) sui tavoli di giudici e magistrati. È
questa la fotografia delle affollate aule di giustizia e dei corridoi delle procure da Nord a
Sud. Da Mafia Capitale alla Trattativa con Cosa Nostra, ma anche inchieste ancora in
corso. Ecco cosa avverrà durante l’anno giudiziario.
La capitale tangenti e mafia
Si preannuncia piena di novità l’indagine della procura di Roma su un presunto giro di
mazzette e regali per ottenere lavori alla Presidenza del consiglio dei ministri, ma anche
alla Rai. Dopo le perquisizioni dei mesi scorsi negli uffici di Mediaset e La7, sono già 44 gli
indagati, tra cui ex dipendenti della tv di Stato e di palazzo Chigi.
Proprio a Roma inizierà il 5 novembre nell’aula bunker di Rebibbia il processo Mafia
Capitale, l’inchiesta che ha rivelato come – è l’ipotesi di accusa – anche nella capitale il
metodo mafioso faccia da padrone. A processo, con rito immediato, ci sono dunque 59
persone per reati contestati a vario titolo. Politici locali alla sbarra con coloro ai quali viene
contestata l’accusa di associazione mafiosa: come Massimo Carminati, ritenuto capo di
Mafia Capitale, e il suo presunto braccio destro, il “ras” delle coop Salvatore Buzzi.
Nel Mirino il premier ed ex ministri
Se Mafia Capitale si preannuncia già come un “maxi-processo”, non mancheranno altre
inchieste interessanti nel resto d’Italia.
A Firenze è stata aperta un’indagine per abuso d’ufficio a carico di ignoti dopo un esposto
per accertare se il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, ha bloccato alcune
indagini a carico del premier Matteo Renzi quando era a capo del comando interregionale
di Emilia e Toscana tra il 2011 e il 2014. A denunciare, Alessandro Maiorano – che ha
presentato numerose querele contro Renzi – dopo la pubblicazione sul Fatto Quotidiano
delle intercettazioni tra il premier e il generale Adinolfi.
Si attende anche l’esito dell’inchiesta di Genova che vede indagato il papà Tiziano. Dopo
la richiesta di archiviazione, il gip ha rinviato gli atti, accogliendo le richieste di uno dei
creditori della “Chil Post”, l’azienda che secondo una prima ipotesi del pm (che poi ne ha
chiesto l’archiviazione) sarebbe stata svuotata, per poi essere dichiarata in fallimento.
Sempre a Firenze, si attende la sentenza per bancarotta fraudolenta contestata a Denis
Verdini.
Anche da Ravenna novità in arrivo: a ottobre si terrà l’udienza preliminare sulla richiesta di
rinvio a giudizio per la truffa contestata al Josefa Idem. L’ex ministro fu assunta nel 2006
dall’associazione sportiva del marito, pochi giorni prima di essere nominata assessore a
Ravenna. Per otto mesi, secondo i pm, aveva ottenuto i contributi figurativi dal Comune.
Milano, tanti imputati eccellenti
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Nei prossimi giorni, a Milano, ci sarà la richiesta di rinvio a giudizio per Silvio Berlusconi e
altre 31 persone accusate a vario titolo di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza.
L’inchiesta è quella sulle presunte deposizioni comprate dall’ex premier per salvarsi dal
processo in cui era accusato di concussione e prostituzione minorile per i rapporti con la
minorenne Ruby e per il tentativo (riuscito) con la Questura di Milano di farla affidare
all’allora consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti. Da queste accuse Berlusconi ne è
uscito con un’assoluzione definitiva. A Milano riprenderà anche in primo grado il processo
al senatore Ncd, Roberto Formigoni, imputato nell’ambito dell’inchiesta su regali e
vacanze che avrebbe avuto per aver favorito da Governatore la clinica Maugeri.
Inoltre il 30 settembre il Gup di Milano dovrà decidere se processare Roberto Maroni sotto
inchiesta per le presunte pressioni per far ottenere un lavoro a Expo e un viaggio a Tokyo
per due sue ex collaboratrici. È invece ancora in corso l’indagine sui bilanci di Monte dei
Paschi: i pm dovranno verificarne la validità.
Sicilia e Campania, indagini dal Sud
Con la richiesta del pm di depositare una consulenza sulle intercettazioni disposte nella
pescheria di Terme Vigliatore in cui si nascondeva, nel 1993, il boss Nitto Santapaola,
riprende il 10 settembre a Palermo il processo per la trattativa Stato-mafia. A Caltanissetta
si riaprono i due processi sulle stragi del ‘92: riprende il dibattimento Capaci bis, come
pure il processo Borsellino Quater. Novità si attendono dalla conclusione dell’inchiesta
palermitana sull’intercettazione fantasma di Crocetta, pubblicata dall’Espresso, e dagli esiti
dell’inchiesta sul Cara di Mineo condotta dalla procura di Catania. Sei gli indagati, tra cui il
sottosegretario Giuseppe Castiglione accusato di concorso in turbativa d’asta. È prevista a
breve anche la decisione del gip di Caltagirone sulla richiesta di rinvio a giudizio per reati
ambientali di otto indagati, tra cui un cittadino americano, per la realizzazione del Muos di
Niscemi. In Campania invece continuano le indagini sulla meccanizzazione
dell’agroaversano e sul modo in cui Cpl Concordia ottenne i lavori nel casertano. A
Benevento invece il 16 settembre si deciderà se distruggere le registrazioni clandestine
fatte a casa del padre di Nunzia De Girolamo. L’ex ministro è indagata nell’inchiesta che
riguarda anche presunte pressioni su dirigenti dell’Asl di Benevento.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 07/09/15, pag. 1/3 (Roma)
Torna il Roma Fiction Fest la Detassis
coordinatrice
CECILIA CIRINEI
TORNA , dall’11 al 15 novembre, il Roma FictionFest, che cambia location e si sposta dal
Parco della Musica al cinema Adriano, all’Auditorium Conciliazione e in un “Villaggio
Fiction” che sarà allestito nei giardini di piazza Cavour.
Nel ruolo di coordinamento artistico del lavoro dei curatori delle sezioni e di rafforzamento
strategico della manifestazione Piera Detassis, già alla guida della Fondazione Cinema
per Roma: «Il mio ruolo fa parte di una strategia complessiva».
LA manifestazione, che lo scorso anno ha sfoggiato nel suo carnet fiction seguitissime dal
pubblico, come “Fargo” dei fratelli Coen, “House of Cards”, “1992” e “True Detective”,
dedicata al modo della fiction televisiva di qualità, ideata da Apt e curata dalla Fondazione
Cinema per Roma, è sostenuta dalla Regione Lazio e dalla Camera di Commercio di
Roma. Nuova la location nel quartiere Prati, con la creazione di un Fiction Village nei
giardini di piazza Cavour. Tutte le attività saranno gratuite e aperte al pubblico.
Ad annunciare la nomina di Piera Detassis nel ruolo di coordinatrice il presidente della
Regione Lazio Nicola Zingaretti. «Tagliamo a novembre il nono nastro del
RomaFictionFest - dice Zingaretti - che rappresenta uno dei tasselli per raggiungere
l’obiettivo che ci siamo dati, quello di far diventare il Lazio un punto di riferimento
strategico per la produzione audiovisiva internazionale. Crediamo e puntiamo nelle
produzioni di film e fiction nel Lazio, che fanno conoscere la regione in tutto il mondo».
Piera Detassis, già alla guida della Fondazione Cinema per Roma, che cura la Festa del
Cinema, diretta da Antonio Monda: «Sottolineo il mio ruolo di coordinamento, una sorta di
interim al servizio di una strategia complessiva. Esiste già un team all’opera e ci tengo
molto al mio ruolo per garantire il lavoro già fatto da una squadra, con il precedente
direttore artistico, Carlo Freccero, prima che venisse nominato nel Cda della Rai, e mi
auspico che Freccero possa dare un contributo a questa edizione». La Detassis prosegue:
«Mi sono “messa a servizio” per dare una linea di continuità in sinergia con la Fondazione
Cinema per Roma e creare un’osmosi tra grande cinema e grande serialità. E in questa
edizione vorrei avere presenti tutti i grandi protagonisti delle fiction più seguite a livello
internazionale e nazionale. Ma per la programmazione è ancora presto». Lorenzo
Tagliavanti, presidente della Camera di Commercio di Roma aggiunge: «Ci auguriamo che
l’appuntamento, un unicum in Italia, si consolidi sempre di più sul piano internazionale.
del 07/09/15, pag. 21
Nuovo cinema Amarcord: i classici che
tornano in sala
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Da “Viaggio a Tokyo” a Orson Welles e Fellini: perché è bene che ci
siano ancora pellicole che non possono entrare in una tv o in un tablet
di Nanni Delbecchi
Ci sono almeno tre buone ragioni per salutare con favore il ritorno divenuto abituale nelle
sale cinematografiche dei classici della storia del cinema; ultimi arrivati Viaggio a Tokyo di
Yasujiro Ozu e Il terzo uomo di Carol Reed con una delle più indimenticabili interpretazioni
Orson Welles mentre è in arrivo Amarcord di Fellini (tre restauri a cura della Cineteca di
Bologna e del laboratorio “L’immagine ritrovata”).
La prima buona ragione sta proprio nella rigenerazione della vecchia sala, il ricordarci che
andare al cinema che è cosa completamente diversa dal vedere un film in tv o sul tablet (a
meno che non si voglia sostenere che il tonno in lattina è buono come quello appena
pescato). I “nuovi cinema Paradiso” sono in declino inarrestabile da decenni; ma proprio
per questo le sale, specialmente le monosale di città superstiti, sono diventate specie da
proteggere come il gorilla albino; e per proteggerle non c’è altro modo che riscoprire
l’emozione del buio in sala, quell’attimo in cui capiamo che siamo fatti davvero della stessa
materia dei sogni, e non dei pixel (almeno per adesso). La seconda ragione sta nel grande
schermo. Ci sono film che esigono non solo il buio della sala, ma anche la bianca vastità
del grande schermo. La prova del fuoco del vero cinema è qui. Un cinepanettone si può
anche vedere sullo schermo della tv o del cellulare, anzi, quasi di sicuro ci guadagna; ma
la sigaretta di Humphrey Bogart, la gonna Marilyn che si gonfia, il baffo di Clark Gable, e
naturalmente di Orson Welles davanti alla ruota del Prater devono essere almeno dieci
volte più grandi di noi, altrimenti non sono più loro – mentre noi stessi restiamo solo noi.
La terza ragione è la più importante, e ha che fare non solo con il valore dei classici
riportati in programmazione, con la loro idea di cinema così lontana dall’estetica
blockbuster di oggi, ma con il principio che qualcosa del passato possa tornare a rivivere
nella pur ambigua luce dell’attualità. Film, libri, album musicali… Tutto oggi ha una vita
media più breve di una libellula. Se non intercetti un film entro un mese dall’uscita, sulla
visione in sala ci puoi fare una croce. Siamo schiacciati dal “prima”; tutto deve essere
sempre “nuovo” e ciò che non lo è abbastanza deve sparire nel buco nero
dell’obsolescenza.
Il ritorno in sala dei classici è una fondamentale forma di resistenza a questa dittatura del
mordi e fuggi, e insieme un invito a riflettere su che cosa è veramente nuovo. Non tutto
soggiace alla regola del software dell’aggiornamento coatto. E’ più nuovo un film di Ozu di
cinquant’anni fa o l’ultima commedia di Alessandro Siani? E’ decisamente più nuovo Ozu,
se nuovo è tutto ciò che resiste all’oblio.
del 07/09/15, pag. 28
L’antisemitismo incontra la satira
E alla Mostra finalmente si ride
“Pecore in erba” di Caviglia affronta un tema importante in modo nuovo
Alberto Mattioli
E al settimo giorno, Venezia rise. Dopo una settimana di ibernati sull’Everest, tragedie,
lutti, preti pedofili, bambini soldato, operazioni che vanno male, soprani stonati e altre
calamità, finalmente un po’ di divertimento. Doppio merito perché il film è italiano, triplo
perché non lo sembra, quadruplo perché, ridendo e scherzando (ma si sa che nulla è più
serio dello scherzo) affronta un tema importante e doloroso come l’antisemitismo. S’intitola
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Pecore in erba e lo firma un debuttante, Alberto Caviglia. Se andrete a vederlo, state
attenti alla mascella: potreste slogarvela.
La formula è quella, non nuova, del «mockumentary», il falso documentario che sembra
più vero di quelli veri. Siamo nell’estate del 2006.
Da sei mesi è scomparso nel nulla Leonardo Zuliani, attivista per i diritti civili, genio della
comunicazione, fumettista di successo, scrittore, stilista, imprenditore, insomma un’icona
nazionale. Un imponente corteo lo ricorda a Roma, in diretta su Sky, con Mentana
smitragliante in studio, i manifestanti con il cartelli «Je suis Leonard», le bandiere, gli
slogan, la mamma e la sorella acclamate dalla folla, insomma tutto il solito impegno prêt-àporter e la consueta commozione a favor di telecamera. Uno speciale tivù ricostruisce vita
e opere del caro forse estinto, di certo sparito.
Soltanto, e qui sta il colpo di genio, Zuliani è un antisemita. Un antisemita forsennato,
compulsivo, genetico, tanto che quando da scout scopre che Cristo era ebreo si riempie di
bolle. Grazie a lui, l’antisemitismo diventa politicamente corretto e quella che le anime
belle devono combattere è l’antisemifobia, insomma l’anti-antisemitismo. Fra i diritti civili,
c’è anche quello di odiare gli ebrei. Zuliani inventa una versione «corretta» della Bibbia
dalla quale è espunto ogni riferimento agli ebrei; Zuliani vende il kit da corteo comprensivo
di bandiera israeliana e della benzina e dello zippo per darle fuoco; Zuliani inaugura una
catena di fast food che cucinano solo ingredienti non kosher; Zuliani lancia il profumo
«Eau d’aryen», la linea d’abbigliamento «Baci & breacci», il gioco da tavolo «Ghettopoli»;
Zuliani pubblica una nuova guida turistica del Medio Oriente dalla quale sparisce Israele e
resta solo la Palestina; Zuliani va ospite da Fazio e dalla Venier; Zuliani viene lodato,
commentato, recensito da Freccero, Cazzullo, Elio, Augias, Sgarbi, De Cataldo, Linus,
Brass, De Bortoli (tutti «veri», nella parte di loro stessi). Gli viene dedicato un film
strappacore, con Vinicio Marchioni e Carolina Crescentini come lui e la sua fidanzata, e
rilancia il cinema italiano con titoli come Forni felici, L’usuraio licantropo e In fretta e
Führer.
Tutti i luoghi comuni dell’antisemitismo sono rivoltati come un calzino. Nelle sue sedute
psicanalitiche con il professor Castrucci che tenta di capire gli strani comportamenti del
ragazzo, Zuliani dà fondo al repertorio. Gli ebrei hanno ucciso Cristo? Sì, ma anche
Confucio, il Buddha e la mamma di Bambi. Gli ebrei controllano la finanza, i media, lo
showbusiness. Gli ebrei sono avidi, hanno il naso adunco e la voce acuta.
Come film, Pecore in erba è spassoso. Come satira dell’antisemitismo, efficacissima.
Tanto più che gli antisemiti li prende di mira tutti, dai fascisti ai cattolici a quelli di sinistra
che nei cortei pro palestinesi equiparano la stella di Davide alla svastica. Lui, Caviglia, è
un ebreo romano di 31 anni, fondamentalmente serio e perfino un po’ malinconico come
tutti i veri umoristi: «Rido per non piangere». E infatti dice cose serissime, che
l’antisemitismo c’è, anche in Italia, che forse non è in crescita ma certamente è vivo, che si
manifesta in molte forme diverse, che è un problema culturale e che il suo film è un modo
per affrontarlo.
Soltanto, e qui sta la novità, Caviglia difende una posizione giusta e politicamente corretta
come la lotta contro l’antisemitismo ma non lo fa con i modi predicatori o ricattatori del
cinema «buono» e impegnato che ci viene ammannito anche qui a Venezia. In mezzo a
quest’orgia di nobili sentimenti e buone cause progressiste che non puoi non condividere,
a questi ditini perennemente alzati per ricordarti che è scorretto fare questo e non si può
dire quest’altro, finalmente una sana, liberatoria, consolatoria risata. Molto più efficace, fra
l’altro. Come diceva quell’altro allegrone, Giacomo Leopardi: «Grande tra gli uomini e di
gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova se
munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di
chi è preparato a morire». Forza pecore.
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del 07/09/15, pag. 29
“Ho filmato l’invisibile: il desiderio
I fischi? Nella natura del Festival”
Il thriller erotico “A Bigger Splash” di Luca Guadagnino divide la platea
Fulvia Caprara
Tutto quello che vorreste vedere in un film. La lucentezza del mare e la tentazione
dell’acqua, il passato che torna e non si può cancellare, i pensieri eccitati dal caldo e dal
sole. E poi il bianco che esalta la bellezza da extraterrestre di Tilda Swinton, la maglietta
strappata del compagno musone Matthias Schoenaerts, i pantaloncini corti della neo-Lolita
Dakota Johnson, l’incontenibile vitalità dell’ex-amante Ralph Fiennes, che balla come Mick
Jagger e parla come un poeta della beat generation. In A Bigger Splash di Luca
Guadagnino, il thriller rock che ieri ha diviso la platea della Mostra, sonori fischi al mattino,
sette minuti d’applausi alla proiezione per il pubblico, c’è la celebrazione del cinema come
tempio dell’estetica, la convinzione che la ricerca del bello sia la strada migliore per
arrivare al pubblico e che l’essere patinati non voglia dire per forza essere stupidi.
Ispirato a «La piscina»
Certezze coraggiose, che il regista palermitano 44enne, cresciuto in Etiopia, espone con
ragionamenti acuti e complessi, chiamando in causa Giuseppe Verdi e Bernardo
Bertolucci, difendendo con passione la sua fede e quella dei suoi collaboratori: «Ho
immaginato un film sull’amore, la bellezza, il desiderio, il sesso, capace di descrivere i
timori che il riapparire di un vecchio legame scatena nell’equilibrio di una coppia, facendo
esplodere desideri e mettendo in luce lati oscuri. A Bigger Splash è un moderno dramma
psicologico, che prende le mosse dalla frattura con un mondo, quello del rock’n’roll della
fine del ventesimo secolo, che oggi è cambiato o comunque è stato rimpiazzato da un
nuovo conservatorismo».
Nel dammuso aggrappato alle rocce di Pantelleria, la rockstar leggendaria Marianne Lane
(Swinton), momentaneamente ammutolita da un’operazione alle corde vocali, si riposa tra
le braccia di Paul, zitta, serena, ma non completamente pacificata. Quando Harry
(Fiennes) irrompe nella vacanza con la figlia Penelope (Johnson) si capisce che la quiete
assolata di quella pausa di vita è destinata a chiudersi bruscamente: «Con Luca - dice la
protagonista - ho una conversazione costante, che certe volte si trasforma in film e altre in
una zingarata. L’idea che Marianne non potesse parlare viene da un mio suggerimento
che lui ha accolto. Avevo appena perso mia madre e non avevo nessuna voglia di dire
niente. Così ho esplorato un terreno nuovo, con le parole facciamo un sacco di casino, e
spesso abbiamo difficoltà ad ascoltare gli altri».
Per Fiennes, detonatore della vicenda, l’aspetto stimolante era proprio nell’interpretare
«un provocatore, un ruolo che non avevo mai avuto occasione di fare». Per Dakota
Johnson che, a parte la grazia innocente, non mostra nei discorsi dal vivo nemmeno una
delle 50 sfumature che l’hanno resa celebre, «Penelope è una giovane donna capace di
manipolare sentimenti e emozioni, senza nessun rispetto nei confronti degli altri. È
ingenua, anche se si comporta come se sapesse tutto».
Per Guadagnino, che dice di usare la macchina da presa «come un rabdomante che cerca
l’acqua», l’imperativo categorico era non farsi travolgere dall’ombra della Piscina, il film del
‘62 di Jacques Deray con Romy Schneider e Alain Delon, di cui A Bigger Splash è un
molto libero remake: «Lo avevo visto 15 anni fa in tv, ho provato a rivederlo con il mio
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sceneggiatore, ma il blue ray non funzionava... Comunque Deray tornava su una vicenda
raccontata mille volte, una sciarada erotica che ruota intorno a un quartetto, un territorio
conosciuto, che mi ha permesso di filmare l’invisibile, ovvero il desiderio, la spinta da cui
tutto parte».
Lo scopo sarebbe stato raggiunto se non fosse per qualche passo falso come l’accenno al
dramma dell’immigrazione, troppo fugace e troppo strumentale, ma soprattutto come l’idea
di affidare il finale al carabiniere Corrado Guzzanti, grande fan della cantante Marianne,
molto comico, ma anche molto dissonante con il clima del film: «Il maresciallo è onesto
con se stesso, tanto da mettere la sua passione per la rockstar davanti alla capacità di
applicare la legge». Il punto è un altro, riguarda la comicità, ma Guadagnino è prontissimo,
anche su questo: «Ricordate il finale del Falstaff? “Tutto nel mondo è burla”».
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