Progetto LETitFLY La formazione linguistica in Italia da crisalide a farfalla Atti del Convegno Finale Roma, 23 Novembre 2006 PON IT 053 PO 007 SERVIZI PER LA REALIZZAZIONE DI UNA RICERCA-AZIONE SUI FABBISOGNI DI FORMAZIONE LINGUISTICA A FINI PROFESSIONALIZZANTI E SU QUELLI RICONDUCIBILI ALLA EDUCAZIONE E FORMAZIONE PERMANENTE, NONCHÉ SULLE CORRELATE INIZIATIVE ED ESPERIENZE CHE PROMUOVONO E SVILUPPANO LAPPRENDIMENTO DELLE LINGUE STRANIERE IN ITALIA. La riproduzione totale e/o parziale dei contenuti del presente volume è consentita esclusivamente con la citazione completa della fonte. Prima edizione italiana Gennaio 2007 Stampato in Italia da OGL - Napoli INDICE Prefazione Vera Marincioni Pag. VII Apertura dei lavori Il Progetto LETitFLY Marianna DAngelo 3 Le strategie della Commissione europea in materia di multilinguismo Claudia De Stefanis 7 Verso una progettualità condivisa Maria Chiara Schir 13 25 29 35 Interventi delle Parti Sociali Limportanza delle competenze trasversali per le imprese: il multilinguismo Arianna Domenici Multilinguismo: la necessità di fare sistema Armando Occhipinti La formazione linguistica e il mondo del lavoro Roberto Pettenello Gli Italiani e le lingue nei dati della ricerca-azione LETitFLY Perché LETitFLY Franco Iannelli 41 Presentazione dei dati della ricerca Andrea Toma 45 I decisori politici e gli scenari della formazione linguistico-professionale: il Progetto Trio, un esempio di >AIJFH=?JE?A LETitFLY: unopportunità per il futuro della questione linguistica in Italia Natalia Guido Linsegnamento delle lingue nellesperienza toscana Elio Satti 61 65 Il Progetto Trio e lAzione di alfabetizzazione linguistica per cittadini stranieri Simone Borselli 67 Alcune riflessioni sui dati della ricerca LETitFLY Giuseppe Roma 71 VI INDICE Oltre le asimmetrie tra domanda e offerta: popolazione, imprese e attori della formazione Parte I: La popolazione tra esigenze reali e desideri Gli italiani e le lingue: osservazioni per una politica linguistica in un mondo di contraddizioni Gaetano Berruto Il ruolo di Lend nella formazione linguistica in Italia: buone pratiche e prospettive Anna Maria Curci Pag. 77 85 91 La formazione linguistica e il mercato del lavoro: la Lituania Audra Daubariene 97 Riflessioni sul problema della pianificazione linguistica in contesto europeo Rosanna Sornicola 109 Insegnamento delle lingue per il lavoro Franca Bosc 125 La formazione continua e la formazione linguistica Sergio Bonetti 131 Imparare il tedesco in Italia: lofferta del Goethe Institut Stefan Gerspach 137 Saluti di chiusura Assessore Silvia Costa 141 LETitFLY - Osservazioni sullanalisi dello scenario europeo e italiano Sergio Scalise (Bologna, 16 maggio 2006) 145 Cosa cè di mezzo fra il dire e il fare? Una lettura sociolinguistica del rapporto La domanda di formazione linguistica delle imprese italiane Gaetano Berruto (Padova, 23 giugno 2006) 157 Processi di apprendimento e processi di insegnamento delle lingue: lofferta di formazione linguistica in Italia Giuliano Bernini (Milano, 29 settembre 2006) 183 Nellinsegnamento delle lingue, la sfida è far emergere la domanda potenziale e diffondere lapprendimento per tutto il corso della vita Simonetta Caravita Parte II: Esperienze europee a confronto Parte III: Lofferta di formazione linguistica oggi Appendice: Interventi dei Workshop PREFAZIONE Questa indagine sui fabbisogni di formazione linguistica e sulle esperienze che promuovono e sviluppano lapprendimento delle lingue straniere in Italia rappresenta un contributo significativo alla ricostruzione del quadro reale dellofferta di formazione linguistica e dellanalisi della domanda di formazione in lingua in Italia. Ne emerge non soltanto lo stato dellapprendimento e dellinsegnamento delle lingue straniere in Italia, ma anche la visione che i cittadini e le imprese hanno dellimportanza della conoscenza delle lingue straniere e i motivi che hanno determinato questa visione. Esiste, infatti, una questione linguistica nellambito delle più generali riflessioni sulla formazione, professionale e continua in particolare, come emerge chiaramente anche dalla intensa attività in materia della Commissione europea. A tale proposito, sembra utile richiamare i principi comunitari riguardanti il multilinguismo, inteso come capacità del singolo di usare più lingue e come coesistenza di differenti comunità linguistiche in una determinata area geografica. LUnione europea sostiene la diversità linguistica e culturale dei suoi cittadini poiché la considera uno strumento per la maggiore comprensione reciproca ed un fattore di trasparenza, legittimazione ed efficienza della sua azione. Per questo è impegnata in unattiva politica di sostegno alla diversità linguistica, in grado di creare un contesto favorevole alla piena espressione di tutte le lingue e allo sviluppo dellinsegnamento e dellapprendimento linguistico. Secondo lindagine Eurobarometro Europeans and Languages del 2005, la metà dei cittadini comunitari dichiara di poter sostenere una conversazione in una lingua diversa dalla propria lingua madre; le Conclusioni del Consiglio europeo di Barcellona del marzo 2002 hanno riconosciuto la necessità di unazione comunitaria e nazionale volta a migliorare lapprendimento delle lingue ed hanno individuato nellacquisizione di competenze linguistiche di base relativamente ad almeno due lingue, oltre alla lingua madre, una delle azioni necessarie per la costruzione di uneconomia competitiva basata sulla conoscenza: si tratta del cosiddetto obiettivo lingua madre + 2, confermato dalla Commissione europea nel documento Promuovere lapprendimento delle VIII PREFAZIONE lingue e la diversità linguistica. Piano dAzione 2004-2006 e nella successiva Comunicazione del 2005 Un nuovo quadro strategico per il multilinguismo. In particolare, nel Piano dAzione la Commissione sviluppa ed estende le iniziative già esistenti per promuovere lapprendimento delle lingue e la diversità linguistica, concentrando la sua attenzione sulla formazione linguistica lungo tutto larco della vita, sul miglioramento dellinsegnamento delle lingue e sulla creazione di un ambiente quotidiano più favorevole alle lingue. Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale ha, pertanto, accolto gli inviti della Commissione europea, impegnandosi a promuovere la qualità dei percorsi formativi per lapprendimento delle lingue attraverso gli strumenti istituzionali che gli sono propri (il Programma Leonardo da Vinci, lIniziativa comunitaria Label europeo, i fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua) e, dal momento che la formazione linguistica incide in maniera determinante nel processo di miglioramento dellofferta formativa e della qualificazione professionale, ha ritenuto opportuno promuovere e finanziare questa ricerca che ha lobiettivo di definire la reale condizione della formazione linguistica in Italia. Il settore della formazione professionale in Italia è stato coinvolto profondamente nel processo di sviluppo della conoscenza linguistica, attraverso azioni volte a favorire lo sviluppo di percorsi innovativi e la creazione di maggiori opportunità, con riferimento al lifelong learning ed alla mobilità dei lavoratori. La ricerca ha consentito di rilevare e interpretare le dimensioni quantitative e qualitative della domanda e dellofferta di formazione linguistica, tramite lanalisi dei fabbisogni di conoscenze e competenze linguistiche, con particolare riferimento alle esigenze degli individui e delle imprese, anche sotto il profilo delle ricadute occupazionali e delle caratteristiche dellofferta (pubblica e privata) di formazione linguistica a carattere corsuale a fini professionalizzanti già disponibile e consolidata a livello nazionale. Una particolare attenzione è stata riservata ad alcuni elementi specifici che caratterizzano i processi di apprendimento e di insegnamento linguistico nel nostro Paese: la relazione tra le lingue e luso delle tecnologie, tra la padronanza di una o più lingue straniere e la mobilità dei lavoratori, tra la lingua e gli aspetti interculturali tipici delle realtà lavorative, il ruolo degli operatori PREFAZIONE IX della formazione linguistica e le esigenze di adeguamento delle loro competenze. I risultati evidenziano importanti ragioni di soddisfazione rappresentate: a) dallesistenza di unofferta ampia e diversificata dal punto di vista delle istituzioni coinvolte, dei soggetti erogatori e delle proposte formative; b) dallaumento del numero di alunni e studenti coinvolti in programmi di formazione linguistica; c) dalla disponibilità di significative risorse finanziarie; d) dallesistenza di diversi casi di eccellenza. Tra gli elementi di criticità, oltre al basso tasso di conoscenza delle lingue straniere dichiarato dai nostri concittadini, emerge soprattutto la mancanza di standard minimi per le strutture di erogazione e per i livelli di prestazione e la mancanza di una strategia unitaria delleducazione linguistica. Da questo punto di vista pensiamo che la ricerca rappresenti un importante strumento di supporto per quanti sono chiamati ai diversi livelli istituzionali a prendere decisioni di tipo strategico ed operativo in materia di formazione linguistica, e possa essere considerata come uno degli elementi attraverso i quali il Ministero del lavoro e della previdenza sociale esercita la sua funzione di promozione delle politiche della formazione e delle azioni per lintegrazione dei sistemi della formazione, della scuola e del lavoro contribuendo, per quanto di sua competenza, alla definizione di metodologie, modelli e strumenti diretti allutilizzo da parte dei decisori e degli operatori locali. Vera Marincioni Direttore Generale per le politiche per lorientamento e la formazione Ministero del lavoro e della previdenza sociale INTRODUZIONE 1 Apertura dei lavori IL PROGETTO LETitFLY 3 IL PROGETTO LETITFLY Marianna D’Angelo Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale Direzione Generale per le Politiche per l’Orientamento e la Formazione Si presentano in questa sede i risultati del rapporto finale della ricerca per l’affidamento di servizi per la realizzazione di una ricerca‐azione sui fabbisogni di formazione linguistica a fini professionalizzanti e su quelli riconducibili alla educazione che promuovono e sviluppano l’apprendi‐ mento delle lingue straniere in Italia. La ricerca costituisce un’indagine sui fabbisogni di formazione linguistica e sulle esperienze che promuovono e sviluppano l’apprendimento delle lingue straniere in Italia. Essa viene riconosciuta come un contributo significativo alla ricostruzione del quadro reale dell’offerta di formazione linguistica e dell’analisi della domanda di formazione in lingua in Italia. I risultati più evidenti, sottolineati anche nella prefazione, riguardano la rilevata esistenza di un’offerta di formazione linguistica ampia e diversificata, dal punto di vista delle istituzioni coinvolte, dei soggetti erogatori e delle proposte formative; l’aumento del numero di alunni e studenti coinvolti in programmi di formazione linguistica; la disponibilità di significative risorse finanziarie; l’esistenza infine di diversi casi di eccellenza. Tra gli elementi di criticità emerge, invece, un basso tasso di conoscenza delle lingue straniere e la necessità di individuare degli standard minimi per le strutture di erogazione e per i livelli di prestazione; la mancanza di una strategia unitaria in materia di educazione e di formazione linguistica. Da questo punto di vista si ritiene che la ricerca rappresenti un importante strumento di supporto per quanti sono chiamati, ai diversi livelli istituzionali, a prendere decisioni di tipo strategico ed operativo in materia di formazione linguistica. Si ritiene inoltre che questa ricerca possa essere considerata come uno degli elementi attraverso i quali il Ministero del 4 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Lavoro e della Previdenza Sociale eserciti la sua funzione di promozione delle politiche della formazione e delle azioni per l’integrazione dei sistemi della formazione della scuola e del lavoro, contribuendo, per tutto quanto è di sua competenza, alla definizione di metodologie, modelli e strumenti diretti all’utilizzo da parte dei decisori e degli operatori locali. I risultati di questa ricerca, qui presentati come risultati finali, sono stati oggetto di presentazione nel corso di workshop regionali. Essi sono stati, inoltre, presentati anche alla Giornata Europea per le Lingue, al convegno organizzato dalla Rappresentanza del Parlamento europeo e dalla Commissione europea, saranno presentati al convegno sul Label europeo e, su richiesta delle Rappresentanze nel Parlamento europeo, al 50enario della firma dei Trattati istitutivi della CE. Vorrei introdurre ora la ricerca ed il contesto nel quale il Ministero nel 2004 l’ha avviata per poi passare la parola alla rappresentante della Commissione europea, la dott.ssa De Stefanis, e alla dott.ssa Schir che rappresenta il coordinamento delle Regioni e che ha accompagnato, come membro del Comitato di Mainstreaming, la realizzazione di questo progetto. L’obiettivo che il Ministero del Lavoro intendeva perseguire è quello di voler corrispondere agli interventi che vengono attuati dalla Commissione europea per il miglioramento e lo sviluppo economico e sociale degli Stati membri, contribuendo al perfezionamento del sistema della formazione e dell’educazione, riconoscendo un ruolo importante allo sviluppo dei sistemi di apprendimento e di insegnamento delle lingue. Si ritiene infatti che costituiscono un contributo fondamentale allo sviluppo dei sistemi di formazione professionale. Si è colta quindi l’indicazione del piano di azione delle lingue proposto dalla Commissione europea, che attribuisce all’apprendimento e all’insegnamento delle lingue un ruolo fondamentale. Si è voluto altresì corrispondere anche alle esigenze, che emergevano dal mondo del lavoro, di maggiore specializzazione delle competenze e alle esigenze relative ai fabbisogni di formazione linguistica. L’iniziativa si colloca nell’ambito di altre attività già avviate a livello IL PROGETTO LETitFLY 5 istituzionale per lo sviluppo della formazione linguistica: il Label Europeo, il programma Leonardo, i Fondi interprofessionali per la formazione lin‐ guistica. Per corrispondere al piano di azione delle lingue, il Ministero ha avviato nel 2004 una analisi del piano di azione per le lingue su tre macro‐obiettivi: il miglioramento dell’insegnamento delle lingue in un’ottica di Life Long Learning; il miglioramento delle lingue dal punto di vista dell’insegna‐ mento; la creazione di un ambiente più favorevole per l’apprendimento delle lingue stesso. In seguito a tale analisi, il Ministero ha deciso di lanciare il bando di ricerca finalizzandola ad un’indagine sui fabbisogni di formazione linguistica a fini professionalizzanti, riconoscendo la necessità che le autorità locali regionali e nazionali sviluppino delle strategie volte a favorire l’utilizzo delle lingue a fini professionalizzanti. Scopo principale pertanto della ricerca e quello di fornire degli strumenti per l’elaborazione di politiche che vadano in questa direzione. Il progetto quindi, nell’indagare sull’uso e la conoscenza delle lingue, si serve di una particolare lente di ingrandimento puntata sui bisogni emergenti nel mercato del lavoro e va ad analizzare quali sono le caratteristiche dell’offerta formativa in termini linguistici, riservando una particolare attenzione alle esigenze dei lavoratori. Il risultato è una mappatura qualitativa e quantitativa della domanda e dell’offerta di formazione linguistica sulla base di tre particolari punti di vista: quello del fabbisogno di conoscenze e competenze linguistiche espresso dagli individui e dalle imprese, con un’attenzione all’aspetto delle ricadute occupazionali; quello dell’offerta formativa sia pubblica che privata, sulle base dell’analisi del sistema formativo attualmente esistente; quello dell’incrocio dei risultati di queste due ricerche, sulle basi dell’analisi degli aspetti trasversali, su alcuni aspetti particolari quali: formazione linguistica e interculturalità, efficacia delle nuove tecnologie e delle metodologie non tradizionali nell’apprendimento delle lingue, mobilità e apprendimento delle lingue, evoluzione del profilo del formatore tutor di lingua, analisi e stima delle risorse finanziarie impegnate sia sul lato dell’offerta che sul lato della domanda. 6 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO I risultati delle indagini sono contenuti nel rapporto finale e in cinque rapporti tematici oggi in distribuzione. In essi sono individuati, nell’ambito della formazione linguistica, i gap che si registrano, sia rispetto agli obiettivi previsti dal piano di azione delle lingue, sia rispetto all’attuale stato del sistema della formazione linguistica a fini professionalizzanti. Si è inoltre tentato di realizzare anche un collegamento con i fabbisogni espressi dalle imprese e dai lavoratori, in un’ottica di miglioramento del sistema della formazione professionale e quindi di sviluppo della competitività delle imprese. Si auspica pertanto che il lavoro di cui ho anticipato le linee progettuali abbia raggiunto gli obiettivi e che le indicazioni che emergono per le strategie e le politiche da attuare a livello regionale e nazionale vengano raccolte e attuate. LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO 7 LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO Claudia De Stefanis Rappresentanza in Italia della Commissione europea Ho il piacere di portarvi il saluto della Rappresentanza in Italia della Commissione europea e dei miei colleghi della Direzione generale “Istruzione e cultura” di Bruxelles, che hanno seguito la ricerca-azione LETitFLY fin dal suo avvio e che purtroppo non possono essere presenti qui oggi. Come sapete, la strategia della Commissione in materia di multilinguismo, lanciata esattamente un anno fa con una comunicazione del Commissario Figel’, persegue tre grandi obiettivi: - il primo obiettivo consiste nel fornire ai cittadini l’accesso alla legislazione, alle procedure e alle informazioni sull’Unione europea nella loro lingua; è quello che viene definito il “regime del multilinguismo”; - il secondo obiettivo consiste nell’incoraggiare l’apprendimento delle lingue e promuovere una società multilingue; - il terzo obiettivo consiste, infine, nel promuovere una solida economia multilingue. Vorrei soffermarmi sul secondo e sul terzo obiettivo, che peraltro sono fortemente interconnessi tra loro. La capacità di comprendere e di comunicare in più di una lingua è, da un lato, un traguardo auspicabile per tutti i cittadini europei, in quanto stimola ognuno di noi ad aprirsi a culture e a punti di vista diversi dai propri (si tratta, cioè, di una competenza per capirsi e per sviluppare tolleranza e solidarietà), e dall’altro è un fattore fondamentale per poter operare in modo efficiente sul mercato del lavoro. Una società multilingue è essenziale per il futuro stesso dell’Unione europea. È perciò indispensabile incoraggiare i cittadini ad apprendere le lingue e a utilizzare le loro competenze linguistiche lungo tutto l’arco della vita. PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 8 L’obiettivo a lungo termine della Commissione è promuovere il multilinguismo di ciascun individuo in modo tale che sia in grado di comunicare in almeno due lingue oltre la propria, anche se non necessariamente al livello di un parlante nativo. Nel 2002 a Barcellona i capi di Stato e di governo dell’Unione europea hanno sollecitato l’insegnamento di almeno due lingue straniere fin dall’infanzia. Tuttavia gli ultimi dati disponibili mostrano alcune tendenze non proprio confortanti: - in primo luogo, il numero medio di lingue straniere apprese nel ciclo dell’istruzione secondaria è ancora ben lontano dall’obiettivo fissato a Barcellona; - in secondo luogo, la gamma delle lingue insegnate è piuttosto ristretta; - in terzo luogo, la situazione attuale, per quanto riguarda le competenze linguistiche nell’Unione europea, è ancora molto disomogenea. Secondo una recente indagine Eurobarometro, metà dei cittadini dell’Unione europea afferma di essere in grado di sostenere una conversazione in almeno una lingua diversa dalla propria. Il dato generale è di per sé confortante, ma la percentuale varia notevolmente da un paese all’altro, da una regione all’altra (ad esempio, a seconda che si tratti di regioni centrali o periferiche), nonché in funzione della categoria sociale di appartenenza e della classe di età; - in quarto luogo, l’età dei professori continua a salire. È legittimo chiedersi se si possa fare qualcosa per migliorare la preparazione degli insegnanti di lingue, in modo da consentire loro di rispondere meglio alle sfide alle quali sono confrontati. In ogni caso la Commissione europea lavora su più fronti per promuovere una società multilingue: - attraverso il “piano d’azione per la promozione dell’apprendimento delle lingue e della diversità linguistica”, finalizzato ad estendere i benefici dell’apprendimento delle lingue a tutti i cittadini (apprendimento precoce, apprendimento durante il ciclo dell’istruzione e della formazione secondaria e durante l’istruzione superiore, apprendimento LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO 9 degli adulti), a migliorare la qualità dell’insegnamento delle lingue e a creare un clima più favorevole all’apprendimento delle lingue; - attraverso il processo “Istruzione e formazione 2010”; - attraverso una serie di programmi di finanziamento, in particolare nel campo dell’istruzione, della formazione e della cultura. Tramite i programmi Socrates e Leonardo, la Commissione investe oltre 30 milioni di euro l’anno in progetti che stimolano l’entusiasmo di chi apprende e di chi insegna le lingue. Occorre inoltre ricordare l’enorme investimento in termini di mobilità realizzato con l’azione Erasmus, con il programma Gioventù e con altre iniziative, come il gemellaggio tra le città. Molto spesso si afferma che il modo migliore per far interessare le persone alle altre lingue e alle altre culture è quello di offrire loro un soggiorno all’estero, e certamente dalle relazioni inviate dai partecipanti alle azioni finanziate dalla Comunità si ricava l’idea che la mobilità è un fattore determinante nella motivazione ad apprendere le lingue. Per questo motivo, nelle proposte riguardanti la nuova generazione di programmi che avrà inizio nel 2007, la Commissione ha voluto aumentare notevolmente le risorse a disposizione della mobilità e accrescere la gamma e la varietà di azioni in campo linguistico; tuttavia la sua proposta, come sappiamo, non ha ricevuto un adeguato sostegno da parte degli Stati membri. Il terzo obiettivo fissato nella strategia per il multilinguismo consiste nel promuovere una solida economia multilingue. L’importanza delle lingue e del multilinguismo per l’economia europea è infatti spesso sottostimata. Nel contesto della strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, l’Unione europea si è posta l’obiettivo di sviluppare una società fondata sulla conoscenza come fattore decisivo per diventare l’economia più competitiva e dinamica al mondo all’orizzonte del 2010. Se l’obiettivo è sviluppare un’economia altamente competitiva, la competenza linguistica e la comunicazione interculturale assumono un’importanza sempre maggiore. Ma attenzione: competenza linguistica non significa una sola lingua franca, non significa necessariamente l’inglese. Per concludere affari con imprese PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 10 situate in altri Stati membri o nel resto del mondo, le imprese europee hanno bisogno di competenze specifiche sia nelle lingue dell’Unione europea sia nelle lingue dei loro partner commerciali esteri. Ciò vale in particolare per le medie imprese, che rappresentano i motori principali per l’innovazione, la creazione di posti di lavoro e l’integrazione sociale e locale nell’Unione europea. Alcuni studi realizzati per conto della Commissione europea hanno però dimostrato che le imprese europee perdono opportunità perché non sono in grado di esprimersi nelle lingue dei loro clienti, perché sono sprovviste di competenze multiculturali in grado di entrare veramente in contatto con le esigenze degli interlocutori. Per concludere, la carenza di competenze linguistiche rischia di incidere su due livelli: - in primo luogo, rischia di limitare le opportunità offerte a ciascun lavoratore, e più in generale a ciascun cittadino, dal mercato interno e dall’Unione europea. Il lavoratore che dispone di competenze linguistiche ha infatti maggiori possibilità di scelta rispetto ad un collega monolingue. Il cittadino che conosce più lingue può approfittare più agevolmente della libertà di studiare e di viaggiare in un altro Stato membro; - in secondo luogo, la carenza rischia di incidere sulla competitività del sistema Europa. Per conseguire gli obiettivi strategici che l’Unione europea si è prefissa, è importante accrescere le competenze linguistiche dei cittadini, soprattutto in un contesto di crescente concorrenza a livello mondiale e nell’ottica della creazione di nuovi posti di lavoro più qualificati. Sotto questo profilo, come riconosciuto recentissimamente dal Parlamento europeo nella sua risoluzione sulla strategia per il multilinguismo proposta dalla Commissione, è indispensabile migliorare la qualità, l’efficacia e l’accessibilità dei sistemi di istruzione e formazione dell’Unione europea, favorendo l’apprendimento delle lingue straniere. A tal fine è essenziale analizzare le dinamiche che influiscono sull’acquisizione delle competenze linguistiche, onde rimuovere gli ostacoli eventualmente esistenti all’apprendimento. LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO 11 Di qui l’importanza dell’analisi condotta nell’ambito del Progetto LETitFLY, e soprattutto delle discussioni che sarà in grado di suscitare per convertire i risultati in proposte concrete di intervento. Con questa speranza formulo i miei migliori auspici per la riuscita del convegno. Nota: Le opinioni espresse in questo intervento non riflettono necessariamente quelle della Commissione europea. VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA 13 VERSO UNA PROGETTUALITÀ CONDIVISA Maria Chiara Schir Coordinamento Tecnico delle Regioni Dati di scenario Per quanto riguarda la percezione delle lingue straniere nel nostro paese, è ancora molto diffusa l’idea che siano qualcosa per cui è necessario essere portati. Questo dato emerge chiaramente anche dalle indagini del progetto LETitFLY che prova come, nonostante tutti gli intervistati riconoscano l’importanza delle lingue straniere nella formazione delle persone, nel nostro paese non si studino in maniera efficace e non si parlino a sufficienza. È necessario attenuare questa idea che ha molto ostacolato le persone nell’avvicinarsi all’apprendimento di una lingua straniera. Beppe Severgnini afferma, nel suo ormai famoso libro1, che l’inglese “è una lingua che non si ama, si usa”. Lo stesso potremmo dire anche delle altre lingue. Non si tratta di strumenti delicati che solo pochi eletti possono usare, ma di veri e propri mezzi di comunicazione di cui dobbiamo dotarci per poter abitare l’Europa ed il mondo. Le indagini condotte all’interno del progetto ci aiutano a conoscere e leggere il contesto italiano per quanto riguarda le lingue straniere ed avere un’idea più precisa dello scenario nel quale ci muoviamo. La lingua straniera in Italia viene ancora oggi vissuta come “[…] disciplina umanistica più che come strumento di scambio”; come si legge nei rapporti del Progetto LETitFLY la “[…] propensione alla mobilità è ancora scarsa e troppo legata alla memoria di esodi coatti piuttosto che ad una scelta spontanea per seguire opportunità di lavoro e/o di studio […]”; certamente nei rapporti si evidenzia come l’assenza “[…] di un utilizzo diffuso delle lingue nei contesti locali dove tutto viene tradotto, fa venire meno il supporto che porterebbe allo studio delle lingue, l’esposizione ai suoni, alla cultura, ai segni non linguistici che una lingua sottende”; “[…] le politiche di integrazione dei 1 Cfr. Beppe Severgnini, Inglese – Lezioni semiserie, BUR Superpocket. PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 14 flussi recenti delle popolazioni straniere immigrate sono ancora incerte anche se rappresentano una risorsa potenziale per lo sviluppo di competenze interculturali, componente sostanziale della conoscenza linguistica e facilitatrici dell’apprendimento delle lingue”. Un grande impulso al cambiamento di questo contesto viene dalle nuove direttive comunitarie, che invitano ad agire sugli esistenti fabbisogni linguistico-formativi espressi sia dalla popolazione che dalle imprese, e forniscono alcuni suggerimenti riguardo alle modalità di organizzazione della rete di offerta. Il momento è propizio, dato che stiamo vivendo una nuova sensibilità per il plurilinguismo, dovuta anche ai consistenti flussi migratori verso il nostro Paese, alla accresciuta mobilità turistica e alla maggiore attenzione per i mercati esteri da parte delle imprese. Non è, però, sufficiente intervenire in maniera episodica con progetti di durata limitata, ma è necessario stabilire delle priorità sulla base di quanto stabilito dalle direttive europee. Obiettivi e priorità dovrebbero essere stabiliti dapprima ad un livello nazionale, condivise dalla conferenza StatoRegioni e poi tradotti a livello locale nelle Regioni e Province, così da creare una vera politica nazionale per le lingue straniere, condivisa e co-progettata e che preveda l’impegno a portare avanti la promozione dell’insegnamento e dell’apprendimento delle discipline linguistiche in una prospettiva di sistema. Nascerebbe così la consapevolezza che, per poter essere incisivi nell’ambito delle lingue bisogna agire sulla base di fabbisogni rilevati, azioni di progetto e monitoraggio con dei momenti di verifica cadenzati che servano alla riprogettazione e all’introduzione di eventuali correttivi alle azioni intraprese. Regioni e Province, centri di formazione professionale e scuole, aziende, associazioni professionali di categoria, associazioni di docenti di lingua sono i protagonisti delle azioni di promozione delle lingue, ognuno nel loro campo e per le proprie competenze. Nei paragrafi successivi si cercherà di suggerire alcune linee operative, che potrebbero servire come primi spunti per individuare nei singoli ambiti alcune azioni possibili per iniziare a dar vita ad una politica linguistica vera e propria. VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA 15 Regioni e Province A livello regionale sarebbe opportuno, anche in ottemperanza all’attenzione prioritaria data alle lingue straniere dall’agenda di Lisbona, creare presso le Regioni o le Province un coordinamento che accolga tra i suoi membri non solo i responsabili delle politiche educative a livello regionale, ma anche i coordinatori dei diversi dipartimenti lingue presso le scuole2, gli insegnanti e i membri dei vari IRRE e degli Uffici scolastici Regionali che ricoprano un incarico riguardante le lingue straniere, in modo da poter delineare delle linee di azione concrete, elaborate in maniera condivisa con la partecipazione degli attori principali, che possano essere tradotte in pratica, monitorate e verificate nei loro effetti sul sistema scolastico. Si potrebbe, in questo modo, andare seriamente incontro ai reali bisogni della popolazione e delle imprese, creando la percezione che lo studio delle lingue non soltanto è consigliabile, ma deve essere supportato da una politica articolata e condivisa, non solo dalle istituzioni scolastiche, ma anche dal mondo del lavoro. Tra i compiti di un ipotetico comitato di coordinamento regionale delle politiche linguistiche, ci può senz’altro essere anche quello di aggiornare, con dati a carattere locale, lo scenario delineato dai risultati delle ricerche del progetto LETitFLY, aggiornamento che dovrebbe condurre ad una mappatura dei fabbisogni formativi espressi sia dalla popolazione che dagli operatori che si occupano della formazione linguistica. Nelle scuole di ogni ordine e nei centri di formazione professionale Apprezzabili interventi di promozione dello studio delle lingue in un’ottica europea sono già stati effettuati nei diversi contesti: le singole scuole negli ultimi anni hanno cercato di introdurre una seconda e una terza lingua straniera e un tentativo nella stessa direzione è stato fatto anche dal Ministro Moratti nella sua riforma del sistema scolastico. A livello regionale, molti 2 Il dipartimento lingue in una scuola è l’organo che raccoglie tutti gli insegnanti di lingua che, insieme, sviluppano delle azioni in favore dell’insegnamento delle lingue come la creazione di progetti CLIL o un insegnamento per gruppi di livello. 16 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO IRRE ed Uffici Scolastici Regionali hanno promosso progetti ed iniziative per lo studio di più lingue straniere, proponendo anche metodologie innovative per aumentare la qualità dell’insegnamento. Sarà sufficiente citare qui alcune di queste esperienze innovative come il progetto CLIL, promosso dall’IRRE Lombardia, la pionieristica rete CLIL, istituita in Friuli Venezia Giulia con il sostegno dell’Ufficio Scolastico Regionale, o le esperienze maturate in Emilia Romagna con il supporto dell’IRRE. Si tratta, però, solo di alcune tra le molte esperienze che sono nate negli ultimi anni. Interessanti anche alcune iniziative sorte in collaborazione con aziende, come quella di un Liceo in provincia di Salerno, che ha progettato e realizzato una descrizione in inglese della filiera alimentare del pomodoro con esperienza di lavoro al reparto spedizioni del porto, dove gli studenti hanno fatto esperienza nel settore import-export, utilizzando la lingua studiata in un reale contesto di lavoro. Per realizzare queste esperienze, è stato necessario abbandonare la classica metodologia frontale per insegnare la lingua in favore di una modalità più cooperativa e di scoperta, davvero più favorevole all’apprendimento. La lezione frontale per l’apprendimento delle lingue, infatti, si sta rivelando uno strumento non del tutto adeguato per la tipologia di utenza che si incontra oggi nelle scuole e nei Centri di Formazione Professionale: maggiore successo formativo è stato ottenuto in quelle esperienze in cui si è riusciti a creare delle situazioni di apprendimento che hanno permesso, a chi studia la lingua, di contestualizzare il proprio apprendimento, rendendolo più reale e significativo. Le competenze linguistiche che si acquisiscono nelle scuole, poi, dovrebbero essere sempre certificate in modo da poter diventare spendibili sia nel mondo del lavoro che nel contesto universitario. In tutte le scuole e i Centri di Formazione Professionale si studiano le lingue per tutta la durata del corso di studi, ma lo studente non ottiene sempre una certificazione in uscita. Alla fine del percorso scolastico o di formazione professionale è necessario rilasciare una certificazione linguistica a tutti gli studenti, non soltanto ai più volenterosi che decidono di ottenere una certificazione sulla base delle loro già buone capacità. Le Regioni e le Province possono VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA 17 intervenire con finanziamenti per la copertura dei costi degli esami, permettendo così a tutti gli studenti di accedere alle certificazioni linguistiche, mettendo a disposizione delle scuole un finanziamento dedicato alla copertura dei costi dell’esame, almeno per tutti coloro che lo superino con successo. In azienda Per quanto riguarda la formazione in azienda, dai rapporti LETitFLY, emerge come siano ancora poche le aziende che hanno una vera attenzione per le lingue straniere. Per molte imprese italiane sembra non essere necessario offrire o richiedere formazione linguistica ai propri dipendenti a causa delle dimensioni ridotte dell’impresa stessa e della mancanza di rapporti con l’estero. Molte imprese di medie o grandi dimensioni, d’altra parte, continuano a promuovere corsi di alfabetizzazione linguistica senza fare sì che i propri operatori progrediscano a livelli più alti. Per questo scopo ricorrono di solito alle scuole di lingua, ma spesso senza sapere che non tutte le scuole di lingua sono uguali e che esistono scuole accreditate da appositi Enti dei paesi europei che vengono regolarmente monitorate e approvate. La formazione che viene offerta, dunque, molto spesso risulta inadeguata e non dà luogo ad un vero apprendimento. Potrebbe essere interessante, invece, far sì che il coordinamento regionale per le lingue, di cui si parlava sopra, promuova l’istituzione di partenariati con scuole o Centri di Formazione Professionale che potrebbero inserire, all’interno della loro offerta formativa, dei corsi di lingue per le imprese, facendo anche capire agli studenti il valore delle lingue e l’importanza di studiarle già a scuola. Intensificare i rapporti tra imprese, scuole e Centri di Formazione Professionale aiuterebbe poi anche nella creazione di obiettivi condivisi per un apprendimento più mirato delle lingue straniere, specialmente negli Istituti tecnici e nei Centri di Formazione Professionale. Una volta poste in essere le iniziative in favore di un ambiente più propizio all’apprendimento delle lingue, a cui è stato fatto riferimento sopra, sicuramente anche il tessuto imprenditoriale, in quanto espressione del più 18 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO ampio contesto socioeconomico, risentirà del diverso clima culturale, ricollocando le competenze linguistiche nella propria scala di priorità, naturalmente se opportunamente guidato e informato delle possibilità che offre il territorio. Si potrebbero in questo modo coinvolgere anche le aziende nella sponsorizzazione di iniziative formative in collaborazione con le scuole, per dare finalmente concretezza al tanto auspicato rapporto di collaborazione tra imprese e mondo scolastico. In secondo luogo, sarebbe auspicabile assecondare il pragmatismo che guida le decisioni aziendali, facilitando l’accesso alla formazione finanziata attraverso l’ottimizzazione di procedure e tempi di reazione all’eventuale domanda espressa dalle stesse imprese. Associazioni di categoria Il coinvolgimento delle associazioni di categoria nel comitato regionale per le lingue straniere potrebbe essere molto interessante per cercare di creare partenariati per stages all’estero per studenti, in cooperazione con le Istituzioni scolastiche ed i Centri di Formazione Professionale, che hanno sempre coltivato rapporti di collaborazione e scambio con il mondo aziendale. In questa maniera le aziende fornirebbero un valido supporto per la promozione di un apprendimento funzionale della lingua straniera, mirato ad una formazione professionalizzante ben spendibile. Le Associazioni stesse potrebbero, poi, adoperarsi per creare dei protocolli di intesa attraverso i quali i certificati linguistici vengano valutati dai datori di lavoro al momento dell’assunzione e riconosciuti come titolo ai fini della definizione del profilo professionale dell’impiegato. Esse potrebbero, altresì, svolgere un’azione di sensibilizzazione presso i loro associati riguardo all’esistenza e all’utilizzo del cosiddetto “passaporto delle lingue” integrato in Europass, il curriculum vitae proposto dall’Unione europea. Associazioni di docenti lingua È diventata ormai una condizione imprescindibile quella di lavorare sulla consapevolezza, sia linguistica sia metodologica, degli insegnanti per poter VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA 19 esercitare un’efficace azione di cambiamento che possa dar luogo ad un reale apprendimento e alla creazione di un clima facilitante l’acquisizione di competenze linguistiche. C’è ancora molto da fare per migliorare la qualità dell’insegnamento, anche se si possono registrare alcuni tentativi, specialmente da parte delle associazioni di insegnanti come LEND3, di offrire formazione adeguata agli insegnanti di lingue e supporto adeguato per accompagnarli nella ricerca di metodologie di insegnamento più efficaci. Le azioni delle associazioni di docenti di lingua, però, potrebbero essere molto più efficaci se coordinate e inserite in un più ampio piano di azione che parta da una direttiva nazionale per essere tradotto a livello locale da coloro che sono responsabili della formazione linguistica. Sarebbe necessario, poi, che anche le associazioni di industriali e artigiani conoscessero e collaborassero con associazioni di docenti di lingua per poter scegliere la corretta formazione linguistica da proporre nelle aziende e per usufruire delle iniziative già intraprese sul territorio, ma questo sarà possibile solo quando le azioni per la promozione e l’apprendimento delle lingue saranno elaborate e coordinate nel modo descritto sopra, per evitare sprechi di risorse e la sovrapposizione di iniziative portate avanti parallelamente senza che ve ne sia consapevolezza. Policies Da La domanda e l’offerta di formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY, Novembre 2006) si evince come “[…]un ambiente orientato al multilinguismo si realizza attraverso azioni distribuite in modo capillare sul territorio che si concretizzano nell’aumento di strutture ed opportunità dedicate allo scopo (dalle infrastrutture culturali a quelle scolastiche, alla promozione di gruppi di conversazione autogestiti nella forma di circoli di studio, ai cineforum in lingua originale, ai programmi TV sottotitolati, dai gemellaggi ai programmi di mobilità per studio e lavoro), avendo presente che contestualmente all’incremento dell’esposizione linguistica deve avere, 3 Viene citata solo quella presente al convegno finale del Progetto LETitFLY, ma ne esistono molte altre. PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 20 altresì, luogo un’azione di indirizzo e sostegno delle diverse iniziative. In altri termini, si potrebbe ipotizzare una sorta di “piano di mainstreaming delle competenze linguistiche” che individui luoghi e ambiti di intervento all’interno dei preesistenti circuiti della formazione formale, non formale ed informale in sinergia con i sistemi di governance già in essere. […]” (pag. 8). Inoltre, dallo stesso volume, si evince che “[…] vengono a svolgere un importante ruolo di snodo […] le Regioni, in quanto soggetti aventi poteri di programmazione nel campo della formazione professionale e dell’educazione degli adulti (a loro volta sottosistemi del più ampio sistema della formazione permanente) ed in grado di integrare le eventuali misure di policy in ambito linguistico all’interno di più ampie politiche di animazione e sviluppo locali” (pag. 10). Politiche regionali attente, dunque, mirate ad investire denari nella formazione dei docenti di lingua anche garantendo un periodo di formazione in servizio4 potrebbero costituire un passo importante nel miglioramento della qualità dell’insegnamento delle lingue nelle scuole, primo ambiente nel quale i futuri cittadini europei vengono a contatto con le lingue e le culture degli altri paesi. Ciò che può veramente creare un nuovo corso nella formazione linguistica in Italia è dunque, come già evidenziato nei documenti del Progetto, l’organizzazione delle iniziative formative secondo un’ottica di sistema, per evitare sovrapposizioni e duplicati nell’offerta corsuale, stimolando e valorizzando le iniziative già in essere e promuovendo l’utilizzo degli strumenti che già esistono in questo ambito, specialmente quelli offerti dall’Unione europea. È auspicabile anche la creazione di figure di sistema all’interno dei Dipartimenti Istruzione e degli Assessorati all’Istruzione presso le Province e le Regioni che si occupino di istituire gruppi interistituzionali per la promozione di esperienze significative di apprendimento linguistico, finanziate dagli stessi Istituti Autonomi in collaborazione con le Regioni e gli Enti locali; all’obiettivo di incrementare la domanda di formazione linguistica deve, infatti, corrispondere un sforzo simmetrico nella program- 4 Si potrebbe pensare ad iniziative speciali di aggiornamento metodologico con distacco parziale dall’insegnamento, per esempio per un quadrimestre. VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA 21 mazione di un’offerta in grado di garantire opportunità formative all’insieme della popolazione adulta, sia in funzione del mantenimento e dello sviluppo delle specializzazione professionali, sia a supporto delle diverse tappe di una vita adulta, sempre più inserita in un processo circolare ed interattivo di formazione permanente. Senza dubbio bisognerà favorire la diffusione ulteriore dei risultati LETitFLY e la manutenzione del portale, in modo che esso diventi uno strumento di comunicazione efficace e tempestiva a tutti gli organismi, i decisori politici e le persone interessate per dare rilievo a tutto ciò che si muove a livello nazionale e locale nell’ambito della formazione linguistica. In alcune regioni esistono già portali dedicati alla scuola che ospitano aree specifiche per l’apprendimento linguistico, raccolgono diverse esperienze di apprendimento e insegnamento delle lingue, e rappresentano importanti esperimenti di nuove e più efficaci metodologie. Le già esistenti risorse online vanno sfruttate maggiormente e il portale LETitFLY potrebbe costituire un luogo di segnalazione dei siti maggiormente significativi da cui si possono trarre spunti e buone prassi. Da sostenere e continuare sono inoltre le iniziative volte alla manutenzione delle competenze linguistiche raggiunte, come gli scambi Comenius ed Etwinning e le altre iniziative che da anni vengono proposte dalla Unione europea, le quali incoraggiano la circolazione dei cittadini europei dentro gli Stati dell’Unione e favoriscono il contatto tra culture diverse, facendo nascere una consapevolezza della necessità e della opportunità di conoscere almeno due lingue oltre alla propria. Un’ulteriore direzione in cui le Regioni potrebbero intervenire è quella della promozione dell’alfabetizzazione in una seconda lingua a partire alla scuola materna, per iniziare a far esperire il multilinguismo già in età prescolare e introdurre lo studio delle lingue sotto forma di gioco fin dall’età più tenera. Le riflessioni esposte in queste pagine si propongono di suggerire ai pubblici decisori alcune indicazioni funzionali di massima per la pianificazione e lo sviluppo di interventi volti alla promozione e al progressivo miglioramento 22 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO dell’apprendimento e dell’insegnamento linguistico in Italia. Queste indica‐ zioni non pretendono di essere in nessun modo prescrittive o vincolanti, ma possono rappresentare un buon terreno di partenza per sviluppare in maniera condivisa, assieme a tutti i protagonisti citati, interventi volti alla promozione dell’apprendimento delle lingue in un’ottica di lifelong learning, facendo particolare attenzione soprattutto all’obiettivo di creare un ambiente più favorevole alle lingue rispetto allo scenario attuale. L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO Interventi delle Parti Sociali 23 L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO 25 L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO Arianna Domenici Confindustria - Area Ricerca, Innovazione ed Education L’impresa (o quantomeno le imprese più avanzate) oggi può essere definita come una Learning Organization, ovvero come una “organizzazione in grado di cogliere, grazie alla propria specifica cultura, le necessità e di soddisfare le domande del mercato”. Se l’Europa non può competere nel mercato globale sul piano della manodopera a basso costo, esiste il settore competitivo della conoscenza e il multilinguismo ne è un aspetto essenziale in quanto veicolo per stimolare la conoscenza, l’innovazione e la creatività. L’imprenditore, capace di visione e di progettualità e, al tempo stesso, capace di riconoscere e trattare con la giusta consapevolezza il fattore umano, riconosce che è proprio il fattore umano, oggi, l’elemento discriminante per implementare ed aumentare le competenze aziendali quali fattori critici di successo (con tutto ciò che questo comporta in termini di valori, aspettative, speranze, idee). Tra queste le competenze linguistiche sono sempre più trasversali e integrative di quelle puramente tecniche o specifiche di un determinato settore. Il possesso di competenze linguistiche adeguate contribuisce ad accrescere il bagaglio di competenze del singolo e, in maniera proporzionale, del contesto aziendale in cui opera, facendo registrare un ROI capitalizzabile in termini sia di aumento della mobilità e, quindi, aumento della occupabilità dell’individuo, sia di aumento della produttività per l’azienda stessa. Dal secondo dopoguerra il multilinguismo è al centro dell’integrazione europea e della nostra coesistenza pacifica ed è uno degli aspetti sul quale trova valore il motto dell’UE “Unità nella diversità”. Motto che assume sempre più rilevanza in vista dell’inclusione, entro l’anno prossimo, di 3 nuovi Paesi nell’Europa dei 25. 26 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Il Consiglio europeo di Barcellona del 2002 ha lanciato l’obiettivo per i Paesi Membri di inserire l’insegnamento di almeno 2 lingue straniere sin dalle scuole primarie. Ed in questa direzione si sta muovendo anche la riprogettazione del sistema dell’educazione e della formazione linguistica in Italia. La politica relativa all’educazione linguistica dovrebbe promuovere l’inclusione di tutti i gruppi linguistici e culturali presenti nella società, rappresentando un aspetto centrale della politica di inclusione sociale. Infatti, a livello nazionale e regionale promuove l’appartenenza sociale mentre a livello internazionale, promuove l’interazione con altre società e le loro componenti. La criticità fondamentale individuata in questo processo di innalzamento del livello generale di conoscenza delle lingue straniere in Italia è scaturita dal legame, a nostro parere necessario e virtuoso, che deve esistere tra le politiche economico-industriali e formative. Nel campo delle lingue, però, la logica della competenza linguistica quale fattore cruciale per il successo economico e la diffusa idea che il mondo economico ha e continuerà ad avere bisogno di una lingua passepartout, ha portato alla prevalenza dell’inglese sulle altre lingue di cui, per giunta, nell’aspetto orale si registrano carenze diffuse nelle performance. E i datori di lavoro da sempre concentrano le loro preoccupazioni sugli obiettivi professionalizzanti dell’apprendimento linguistico tralasciando, a volte, una visione di sistema del fenomeno. L’anello forte della catena dell’apprendimento linguistico, e del relativo aggiornamento, è individuabile nella collaborazione tra università ed impresa, dal momento che i maggiori cambiamenti in termini di miglioramento delle competenze linguistiche sono attesi nel breve termine dai laureati. Ed è infatti nella coorte dei laureati che, fatto 100 il numero di assunzioni previste dalle imprese di risorse umane che abbiano competenze linguistiche, le imprese ipotizzano di assumere il 53% circa del personale nel 2006 (rilevazione Excelsior 2006). Il sistema economico italiano è impegnato in un intenso processo di cambiamento per riposizionarsi nel panorama internazionale avendo come obiettivo principale la crescita della produttività. Le imprese dimostrano L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO 27 importanti segnali di reazione agli stimoli ma soprattutto alle difficoltà del mercato, ricercando professionalità sempre più qualificate. Tutto ciò richiede un ingente investimento nell’innovazione (di processo e di prodotto), negli assetti organizzativi e quindi soprattutto nel capitale umano. Il contesto imprenditoriale è, però, dominato per più del 90% da PMI e sul totale delle imprese italiane, una percentuale ancora troppo bassa, se comparata con i partner UE, svolge attività di formazione continua per i propri dipendenti. Il nodo del problema è ravvisabile proprio in questo punto. Benché esistano dei casi di eccellenza che investono sistematicamente nella formazione del proprio personale anche nelle lingue (per esempio Fiat, Pirelli, Merloni, Luxottica, etc.), quasi sempre l’investimento è legato alla dimensione transnazionale dell’azienda. Mentre continuano a perpetuarsi atteggiamenti poco lungimiranti nelle scelte di alcuni piccoli imprenditori di fronte ad un’ampia serie di attività centrali per la vita dell’azienda. La proiezione di queste logiche sul mercato comporterebbe una improvvisa caduta di successo se non adeguatamente supportate da attività di formazione. Le singole energie individuali devono essere valorizzate e messe nella condizione di essere il motore, di fare lo sviluppo dell’azienda stessa. L’apprendimento delle lingue e il vento di multiculturalità che porterebbe con sé, è una dimensione dello sviluppo organizzativo troppo spesso trascurata. Le PMI vanno aiutate. In tal senso, l’attività di formazione continua, promossa anche attraverso i Fondi Interprofessionali, deve poter rispondere alle esigenze di semplificazione delle PMI. I Fondi, nella fase a regime, dovranno, oltre alle risorse che vanno direttamente nel conto formazione (70%), assicurare per le restanti risorse (26%) una priorità di accesso per le PMI. In sintesi, l’iperspecializzazione richiesta da molti contesti produttivi non è più la chiave del successo nella società/economia della conoscenza. Essa impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) e l’essenziale (che dissolve). Un’istruzione ed una formazione trasversale, che metterebbe fine alla separazione tra i saperi, consentirebbe di rispondere alle sfide della globalità e della complessità nella vita quotidiana, nazionale, mondiale, 28 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO sociale e politica. Ed è al suo interno che trova spazio la formazione linguistica. In qualsiasi società, il fattore ultimo dello sviluppo e del benessere è costituito dal lavoro e dal ruolo che l’uomo ha con la sua capacità di innovare e apprendere continuamente. Questo ruolo non si ridurrà nel futuro, anzi sarà esaltato nel nuovo contesto dell’economia della conoscenza, obiettivo verso cui tutti a livello individuale, locale, regionale, nazionale, ci stiamo muovendo nell’Europa della diversità. MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA 29 MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA Armando Occhipinti Confapi - Responsabile Politiche del Lavoro - Ufficio Istruzione e Formazione Area Relazioni Industriali Saluto le persone presenti e ringrazio gli organizzatori. Vorrei, inoltre, fare i complimenti a chi ha vinto il bando di concorso per questo progetto. Oggi parlo da sconfitto, sicuramente non da perdente, perché noi di Confapi siamo arrivati secondi nella partecipazione a questo bando, al quale avevamo ritenuto opportuno partecipare, come fatto necessario. I motivi per i quali era necessario per noi partecipare li analizzeremo poi nel corso dell’intervento. Quella di cui oggi parliamo è un’iniziativa del Fondo Sociale Europeo che fotografa una particolare situazione del nostro paese: è un’indagine sui fabbisogni linguistici, che cerca poi di conoscere quelle che sono le possibili promozioni e gli sviluppi nell’apprendimento delle lingue straniere, apprendimento che in Italia non riesce a decollare. La Confapi, quando c’è necessità di spingere l’economia italiana (che ha il suo tessuto economico nella piccola e media impresa), e quando vede che ci sono delle opportunità, si impegna in tal senso. Infatti, pur non essendo entrati in questo progetto, abbiamo tuttavia partecipato come testimonial e condividiamo la fotografia alla quale io ho qui brevemente fatto riferimento. Siamo, dunque, dentro al progetto, perché, per esempio, stiamo lavorando con il Ministero del Lavoro, con l’Isfol e con Italia Lavoro, nell’ambito del progetto Saf, ex Fadol, per cercare di inserire delle unità didattiche più vicine alle logiche di mercato. E ci stiamo battendo, inoltre, per introdurre, con un nostro contributo, l’inglese tecnico; ma approfondiremo questo aspetto più avanti. Abbiamo, poi, avviato la macchina dei Fondi interprofessionali. A tal proposito, Confapi ha, ad esempio, il Fapi e ci sarà, in questa sede, anche il contributo di un nostro rappresentante, contributo che forse vi stupirà, perché ribalterà e smentirà alcuni dati, forse perché noi rappresentiamo aziende di piccole e medie dimensioni, aziende mani- 30 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO fatturiere, dove le esigenze si fanno più forti. Mentre per il discorso del Saf, della formazione a distanza, stiamo costruendo una rete di esperti, in cui le unità didattiche, relative alle lingue straniere, possono sicuramente fare la parte del leone. Purtroppo operiamo ormai in un mondo globalizzato, in cui si possono individuare dei blocchi: c’è il far-est e c’è il blocco americano. Noi, che dobbiamo mirare alto, non dobbiamo certamente rincorrere situazioni dove il costo della manodopera è più basso. In tal senso, l’investimento di Lisbona sulla conoscenza è importante. Tuttavia, partiamo con un handicap: gli Stati Uniti d’America, ad esempio, viaggiano con una sola lingua comune, noi, invece, negli Stati Uniti d’Europa, abbiamo una ventina di lingue. Abbiamo già risolto diversi problemi, come quelli relativi alla mobilità delle merci e dei capitali, abbiamo realizzato la moneta unica. Fatichiamo, però, con la mobilità dei cittadini. Quindi, oltre a tutta una serie di situazioni da omogeneizzare e da omologare, c’è anche il problema della lingua nella mobilità. Se da un lato il multilinguismo è segno di trasparenza, così come è segnalato nelle indicazioni fondanti dell’Unione europea, dall’altro lato questa diversità linguistica è pur sempre un problema. Vorrei ricordare che non più di dieci, quindici anni fa, l’Olanda ha proposto di cambiare addirittura la propria lingua nazionale con l’inglese. Nel Lussemburgo, se voi considerate i dati, parla una seconda lingua il 98% della popolazione, ma in questo caso siamo di fronte ad un fatto di necessità. Il Lussemburgo è un granducato, si trova in mezzo ad un pool di nazioni in cui ognuno parla la propria lingua, dunque tale percentuale rappresenta un fatto di sopravvivenza. Qui in Italia, evidentemente, il mercato domestico, che ha dominato fino a ieri, non ci ha fatto affrontare bene il problema. Per noi, inoltre, è una questione di cultura, perché la nostra lingua ha una tradizione storica superiore a qualsiasi altra. Tuttavia, in questa sede, possiamo cogliere l’occasione per parlare e chiedere in maniera ancora più incessante di fare sistema. Io vorrei esprimere la preoccupazione per quei piccoli strumenti che erano significativi ed importanti. Abbiamo visto, ad esempio, che il programma MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA 31 Leonardo ha fatto la sua parte ed aveva una volée appositamente creata. Ora, invece, si parla in termini generali di un Leonardo che raccoglie una serie di situazioni diverse, con il rischio che i progetti lingua possano disperdersi. Avevamo, inoltre, lo strumento del Label e speriamo di continuare ad averlo. Ancora, abbiamo il premio che viene dato alle iniziative relative a progetti sulle lingue, ma si fa a fatica, in questo momento, a capire se esso avrà un futuro. Inoltre, la globalizzazione ormai non è più una semplice parola, ma è un fatto concreto. Il termine globalizzazione richiama il discorso dell’internazionalizzazione, la quale significa anche innovazione tecnologica utile per poter competere di più e per poter affrontare i competitor che sono oltre confine. Quindi dobbiamo crescere sia culturalmente, sia in termini di dimensione come piccole e medie imprese. L’esperienza del TFR ci ha fatto riflettere su come siamo fatti in termini di impresa. Si era parlato inizialmente di versare il 50% della quota del TFR, poi si è trovata un’altra soluzione, nella quale emerge che si può pagare il 50% per le aziende che hanno oltre quarantanove addetti. Abbiamo quasi cinque milioni di aziende sotto tale soglia e un pugno di aziende che hanno più di quarantanove addetti. Ciò significa che abbiamo un tessuto economico troppo piccolo per poter affrontare in futuro i temi della globalizzazione e quindi bisogna fare degli sforzi, non abbassare la guardia e ribaltare la cultura, perché abbiamo visto che questi dati mostrano che la situazione aziendale è problematica. Io stesso, ad esempio, sto cercando da diverse settimane un project manager per la nostra società operativa nella Confapi e continuo a non avere risultati perché nelle selezioni che faccio manca quello che è forse uno degli elementi fondanti ed importanti per me, che è la conoscenza delle lingue straniere. Dunque, o c’è piena occupazione, o mancano figure che conoscono bene una seconda lingua in modo tale da poter essere assunti. L’imprenditore ritiene necessario che un suo dipendente conosca la lingua inglese, però poi vediamo che non si fanno corsi (meno del 5% delle imprese organizza corsi di lingue) e che la metà delle aziende non usa neanche l’inglese. Come affermavo prima, noi siamo interessati a sviluppare questo problema del multilinguismo, perché abbiamo aree del paese che si 32 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO confrontano con competitor transfrontalieri, e quindi con la lingua straniera (ad esempio nel nord-est di più con il tedesco, nel nord-ovest di più con il francese). Riteniamo che, pur avendo cominciato a veder realizzate una serie di situazioni che sono favorevoli – come la realizzazione dei Fondi interprofessionali che stanno cominciando ad uscire dalla prima fase sperimentale e stanno mettendosi a regime, dando le prime soddisfazioni – questo non sia sufficiente. Ho visto, nella presentazione della Rappresentante del Coordinamento delle Regioni, l’incitamento ad un coinvolgimento forse anche maggiore, ma noi siamo con le macchine a pieno regime. Forse siamo nei fondi interprofessionali i primi, se non gli unici in questo momento, a fare delle riflessioni nell’area del fondo dirigenti, dove non parliamo solo e soltanto di formazione in termini spiccioli, ma abbiamo provato ad inserire delle logiche di assessment e di counselling, cioè delle iniziative propedeutiche, ancor prima della formazione, per poter aprire gli occhi ai dirigenti, per provare a fare emergere dei nuovi fabbisogni rispetto a nuovi scenari. In Italia tutti affermiamo che la lingua straniera serve, però tre persone su quattro non l’apprendono, il 95% delle aziende non fa corsi di lingua straniera. Intanto il 66% della popolazione dice di conoscere una seconda lingua, però, quando si va a misurare il livello e il grado di tale conoscenza, la percentuale del 66% scende. La seconda lingua straniera è dunque conosciuta da una rappresentanza sparuta di persone. È importante che, cogliendo l’occasione di questo convegno, si cominci a ragionare, ed è necessario fare sistema. Noi abbiamo apprezzato molto l’intuito che ha avuto il Ministero del Lavoro, perché tale indagine è come una tessera che va a completare un puzzle che fotografa una serie di situazioni e di criticità. Gli strumenti che noi oggi abbiamo per poter reagire a questa problematica con il Fondo Sociale Europeo sono a rischio. Spero di sbagliarmi, però si prevede una flessione del 35% rispetto a come siamo abituati, quindi sicuramente, mentre noi qui stiamo rilanciando un’esigenza, rischiamo poi di vederla naufragare. Già prima la Rappresentante della Commissione europea ci ha detto che avevano auspicato delle risorse, ma poi alla fine c’è MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA 33 stato un taglio. Abbiamo, infine, altri pochi strumenti in mano: ci sono soprattutto i fondi interprofessionali e la possibilità, con la legge sulla formazione continua, di poter tenere banco. Concludo dicendo che se vogliamo bene all’Italia, se vogliamo che l’Italia continui a cavalcare la tigre (e parlo della tigre perché ci ricorda i mercati cinesi), in prospettiva, non dobbiamo preoccuparci solo di conoscere la lingua passepartout, la lingua del business che è l’inglese. Dobbiamo cominciare a rompere la campana di vetro sotto cui teniamo i nostri figli, perché dobbiamo raccontare loro che, nel 2020, 150 milioni di tecnici indiani cominceranno a prendere la valigetta, a partire e ad andare in giro per il mondo. In questo momento, mentre i nostri figli forse non sentono l’esigenza e non sono stimolati ad apprendere una seconda lingua, c’è un coetaneo cinese o indiano che sta studiando per rubare loro il posto di lavoro. Per cui se vogliamo continuare a cavalcare la tigre, non dico che dobbiamo fare come molti cinesi – che vanno a scuola alle sette del mattino, escono alle cinque, tornano a casa e continuano a studiare – ma dobbiamo cominciare a spaventarli un po’ di più, i nostri figli, perché altrimenti non vogliamo bene né a loro né all’Italia. LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MONDO DEL LAVORO 35 LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MONDO DEL LAVORO Roberto Pettenello Cgil Nazionale - Responsabile delle politiche comunitarie della formazione Vorrei esprimere, innanzitutto, il mio apprezzamento per il Progetto LETitFLY, perché mi sembra uno strumento importante per poter favorire il fondamentale passaggio culturale dagli addetti ai lavori ai decisori, che devono anche impegnarsi a diffondere le iniziative che si intraprendono: quello della diffusione è, infatti, un reale problema dell’Italia, non solo per ciò che riguarda l’apprendimento delle lingue. Abbiamo già parlato con il Ministero del Lavoro e l’Unione europea – nel corso di altre iniziative anche recenti, come ad esempio, in occasione dell’Anno europeo delle lingue – di alcuni aspetti del problema che oggi affrontiamo e che vorrei riprendere. Vorrei toccare in maniera rapida tre punti. Il primo riguarda la necessità di far crescere culturalmente la questione, il secondo riguarda il far concertare di più i soggetti fra loro, come ricorda anche la rappresentante delle Regioni, ed il terzo riguarda le risorse. Spesso, nel nostro paese, il capitolo maggiormente complesso è proprio quello del mettere in sinergia le risorse: non sempre bisogna chiederne di più, a volte, infatti, le risorse non mancano, ma non sempre vengono utilizzate in modo coordinato e programmato. Prima di tutto vorrei sottolineare che, nel settore di cui stiamo parlando, occorre far crescere una cultura che faccia capire che l’apprendimento di una lingua straniera, ma anche la L2 per gli stranieri, è una competenza di base e non una competenza accessoria. Chiaramente la lingua serve anche ad altro, ma il punto chiave è che deve essere intesa come una “normale” competenza basilare. Inoltre, bisogna anche ragionare meglio su un altro aspetto, sul quale è già stato fatto qualche accenno dai miei colleghi: si tratta del rapporto fra le lingue e la competitività delle imprese. Tale competitività viene colta in genere nel modo più ovvio: ad esempio, quando un’impresa italiana si pone 36 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO l’obiettivo di vendere delle scarpe in un altro paese, si rende conto più facilmente dell’utilità della conoscenza della lingua straniera. Ma per le imprese, la conoscenza delle lingue è fondamentale anche per far crescere una competitività di sostanza, basata sullo sviluppo del patrimonio fondamentale che abbiamo noi italiani, che è la qualità del prodotto. E quando ci si inserisce in un ambiente diverso dal proprio, in particolare in uno stato diverso, la lingua dell’altro paese non è solo uno strumento, è anche conoscenza della cultura, capacità di interagire con i gusti, con gli interessi altrui. Rappresenta, a mio avviso, un punto assolutamente fondamentale. Bisogna promuovere, dunque, una serie di iniziative per far crescere questa cultura anche tra gli imprenditori, oltre che tra i lavoratori, per i quali la consapevolezza dell’importanza di conoscere le lingue diventerà più solida se inseriremo anche la formazione, lingue comprese, tra i diritti di cittadinanza di tutti i cittadini italiani. Per questo è molto importante l’impegno appena assunto dal Ministro del Lavoro – insieme al Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e al Ministro dell’Istruzione – per arrivare ad un disegno di legge sui diritti alla formazione dei cittadini italiani, che dovrebbe prevedere un monte ore, cumulabile in più anni, utilizzabile per diverse attività formative. Pure molto importante, all’interno della legge finanziaria appena approvata, è l’articolo che prevede un rafforzamento dei centri territoriali per l’educazione degli adulti, finalizzato soprattutto all’italiano per stranieri, per motivi che sono facili da intuire. Si tratta di una opportunità molto importante, che farà crescere la discussione sul tema di cui parliamo oggi, soprattutto sul versante della L2. Per ciò che riguarda la concertazione tra diversi soggetti e le risorse, abbiamo, rispetto alla formazione nell’ambito del lavoro, tre tipologie di strumenti e di risorse che possono agire sul medesimo versante: innanzitutto il Fondo Sociale Europeo, che tutti senz’altro conoscerete, in dimensioni più ridotte, rispetto all’esistente, per il periodo 2007‐2013; alcune leggi nazionali, come la 236/93 e la 53/2000, che permettono di realizzare piani formativi; e, infine, i Fondi interprofessionali per la formazione continua. I Fondi sono LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MONDO DEL LAVORO 37 associazioni costituite da organizzazioni imprenditoriali e sindacali, che attivano piani formativi attraverso lo 0,30% del monte salari dei lavoratori che ogni impresa versa all’INPS, qualora l’impresa decida di riversarlo a uno dei fondi. Si sono finora costituiti undici Fondi, con una mole finanziaria, in questo momento, di circa 400 milioni di euro all’anno, che potrebbero arrivare a circa 600 se tutte le imprese si iscrivessero: sono cifre di rilevante entità, superiori a quanto il FSE e le leggi citate hanno messo in campo negli ultimi tempi. Sul tema della concertazione, c’è da sottolineare un importante accordo, recentemente siglato da Ministero del Lavoro, Regioni e Parti Sociali, ove si prevede che Regioni e Parti Sociali attivino un tavolo di confronto per fare il punto delle rispettive risorse (provenienti dal FSE, dalla legislazione e dai Fondi interprofessionali) e decidano quali sono le priorità formative per ogni territorio e quali sono i target da investire. Anche le lingue dovranno rappresentare, in questo ambito, dei temi prioritari, concordando i compiti da affidare alle Regioni, che potrebbero svolgere un ruolo più forte rispetto alla formazione linguistica di carattere generale; invece, le attività in campo linguistico, promosse dai Fondi interprofessionali, potrebbero essere più collegate ai bisogni specifici dell’organizzazione del lavoro delle imprese. Naturalmente, la realizzazione delle attività dovrà essere affidata alle scuole, ai CTP, ad agenzie private, ma nell’ambito di un clima di concertazione e di programmazione coordinata. Per concludere, vorrei citare un altro punto. Un elemento importante, infatti, che emerge dalla ricerca che si presenta oggi, è che, mentre spesso i decisori sembrano un po’ scettici, decine di migliaia di cittadini italiani hanno capito che la conoscenza delle lingue serve, tanto è vero che la formazione linguistica occupa, in percentuale, una grossa parte dei corsi organizzati dai CTP o dai centri dove si pratica l’educazione degli adulti. Anche per questo penso che sia decisivo per il nostro paese – per far crescere ancora di più la motivazione dei cittadini – affrontare finalmente il problema della certificazione degli apprendimenti formativi e delle competenze non formali e informali, all’interno del percorso in atto per arrivare a un modello europeo di riconoscimento delle competenze, sul quale stiamo lavorando a 38 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO tutti i livelli, con i governi e le parti sociali di tutti i paesi. Tuttavia, per tre ambiti – l’informatica, L2 e la lingua straniera – è possibile costruire da subito delle modalità che favoriscano questo percorso, attivando opportune sinergie tra i diversi soggetti istituzionali. Credo che in tale direzione siano utili tutte le iniziative che producono incontri volti a creare azioni comuni. Auspico, ad esempio, che il Ministero del Lavoro possa organizzare un incontro con le parti sociali e con i fondi interprofessionali, non teorico, ma finalizzato a capire cosa si può fare insieme, partendo anche dai materiali raccolti all’interno di questo progetto. È evidente che tutto questo non si può realizzare se non attraverso operatori competenti. Chi insegna le lingue ha, dunque, un ruolo decisivo che va rafforzato, riqualificato e rilanciato. Sono, quindi, importanti tutte le occasioni come questa che possono contribuire a rafforzare la funzione dei formatori di lingue, così come l’incrocio e lo scambio fra loro. PERCHÉ LETitFLY Gli Italiani e le lingue nei dati della ricerca-azione LETitFLY 39 PERCHÉ LETitFLY 41 PERCHÉ LETitFLY Franco Iannelli Consorzio SINFORM In fase di progettazione e preparazione ci siamo chiesti più volte perché fosse importante e per certi versi “urgente” fare LETitFLY. Era una domanda semplice ma decisiva, per aiutarci a capire e rafforzare le nostre scelte, che vedevano le competenze linguistiche al centro delle ricerche e delle indagini del Progetto. Le competenze linguistiche nel loro rapporto strategico con i cittadini, le imprese e le istituzioni. Le competenze linguistiche come snodo problematico nel tema dominante della globalizzazione del lavoro e dei mercati. Come già alcuni relatori hanno evidenziato, la conoscenza linguistica diventa fondamentale per facilitare la mobilità geografica e professionale, la relazione tra imprese e mercati, l’integrazione sociale delle popolazioni migranti, l’identità europea (con la necessaria tutela delle specificità culturali delle singole nazioni). E tuttavia, proprio in parallelo a questa indicazione del rafforzamento del multilinguismo come tema fondante della coscienza europea, si riscontrano ritardi nel nostro paese che sembrerebbero inconcepibili e in qualche modo paradossali se non fossero correlati a importanti fenomeni che le ricerche di LETitFLY hanno indagato: la diffusa sottovalutazione dei processi di internazionalizzazione e globalizzazione, prima di tutto, ma anche il permanere di un’impostazione scolastica dell’insegnamento delle lingue, fino ad arrivare alla scarsa propensione degli italiani alla mobilità per migliorare le opportunità di lavoro e di studio o alla sottovalutazione delle risorse dell’interculturalità. Certo, si evidenziano anche fenomeni positivi, che denotano uno scenario in evoluzione. Sicuramente c’è più attenzione al multilinguismo nei processi di riforma dei sistemi scolastici e formativi, sempre più si utilizzano standard e dispositivi di certificazione che rafforzano una cultura di sistema dell’ap- 42 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO prendimento linguistico e si moltiplicano i programmi di mobilità. E poi un aspetto rilevante, che tocca il nodo dell’offerta: da una parte l’utilizzo di fonti finanziarie diversificate per lo sviluppo e l’erogazione della formazione linguistica e dall’altra una moltiplicazione di soggetti che la erogano. Siamo quindi davanti ad una realtà complessa, con diversi percorsi e traiettorie che incrociano la domanda di formazione linguistica (la popolazione e le imprese) e l’offerta (gli enti e le strutture che erogano servizi formativi linguistici). Ecco, qui prende corpo l’importanza e l’urgenza di LETitFLY: all’interno delle contraddizioni e delle potenzialità di un ambiente complesso, che vede in questi anni lo sviluppo notevole sia della domanda sia dell’offerta, e specialmente nell’esigenza di costruire una conoscenza strutturata e approfondita dei fenomeni correlati. Solo un tale lavoro strutturato poteva configurarsi come valido strumento e indicazione funzionale ai pubblici decisori che intendono pianificare la promozione e il miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento linguistico. Insomma, penso che siamo tutti un po’ stufi di ascoltare o usare aneddoti sul rapporto fra gli italiani e l’apprendimento linguistico, c’è invece bisogno di utilizzare nei discorsi dei dati precisi su cosa è la domanda, su quali sono i fabbisogni della domanda, su come viene offerta oggi la formazione linguistica in Italia. Dati di conoscenza per migliorare la qualità. E questo è stato il prodotto principale di LETitFLY. Consentitemi ora un ulteriore veloce approfondimento. Avete ascoltato altri relatori prima di me che facevano riferimento ai fondi interprofessionali per la formazione continua e, più in generale, al mondo della formazione professionale nel suo complesso. È un mondo che si sta trasformando, con una focalizzazione sempre maggiore sulla domanda rispetto all’offerta. In termini semplici si può dire che si tende a favorire il cosiddetto accesso individuale alla formazione, puntando a finanziare non più l’offerta, e quindi gli enti e le strutture che erogano il servizio della formazione, ma direttamente il cittadino, il lavoratore, che tramite un voucher può gestirsi una scelta personale di percorso formativo attingendo ad un’offerta organizzata a catalogo. Assistiamo di fatto a una rivoluzione epocale, che recepisce la spinta comunitaria al life long learning (la formazione durante PERCHÉ LETitFLY 43 tutto l’arco della vita) e determina un assetto inedito delle modalità organizzative e gestionali della formazione, specialmente quella riferita agli adulti. Mi sembra che il modello di lavoro di LETitFLY abbia toccato il punto chiave di questo cambiamento, andando a indagare i due elementi portanti (la domanda e l’offerta) della formazione linguistica, con l’obiettivo di dare strumenti alla Pubblica Amministrazione orientati sia a facilitare la conoscenza delle attese degli utenti, sia a dinamizzare il mercato dell’offerta nelle sue componenti privato/pubblico. Risulta evidente che ogni strategia non può che puntare a un incrocio ottimale tra i reali (non presunti) fabbisogni formativi dell’utenza e un imprescindibile livello di qualità che deve caratterizzare l’offerta. Teniamo presente che la Commissione europea, con il Piano di azione per la promozione dell’apprendimento delle lingue e della diversità culturale, individua proprio tre settori di intervento: a) la promozione dell’apprendimento delle lingue per tutta la vita (life long learning); b) il miglioramento della qualità dell’insegnamento; c) la creazione di un ambiente più favorevole per l’apprendimento linguistico. Abbiamo visto come queste indicazioni di percorso siano state ampiamente tenute in considerazione, come bussole di riferimento, nel nostro Progetto. Ecco perché ci tenevo tanto a questo ulteriore approfondimento che lascio alla vostra riflessione in chiusura dell’intervento: LETitFLY come modello di lavoro attento ai cambiamenti di sistema in atto e trasferibile anche ad altri contesti. E spero di aver risposto alla semplice domanda iniziale: perché LETitFLY? PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 45 PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY Andrea Toma Fondazione CENSIS Inizierei subito a ragionare sui numeri, sui risultati della ricerca, poiché fino ad ora abbiamo ragionato in termini di politiche e di strategia, oltre che sul contesto e sui processi che coinvolgono non soltanto gli Stati a livello di integrazione politica ed economica, ma anche le imprese e, di conseguenza, anche gli individui. Per fare questo, per dare una risposta a tale trasformazione e a questi fattori di forte innovazione che si stanno verificando a livello europeo, nazionale e dei singoli individui, il progetto LETitFLY ha previsto un’indagine in grado di fissare alcuni punti fermi per interpretare la realtà. Il progetto è dunque una lettura di come oggi si presenta l’Italia, al di là dei confronti che vengono fatti con altri paesi, in modo tale da fissare un tempo da cui partire, anche per raggiungere gli obiettivi che ci vengono imposti da Bruxelles, vale a dire il fatto che ogni individuo dovrebbe conoscere, oltre alla lingua nativa, altre due lingue, entro il 2010-2015. Se questo è un obiettivo che vale per quattrocento milioni di persone a livello europeo, vediamo come noi, cinquantasei milioni di italiani, riusciamo a rispondere. Primo punto fermo: la ricerca si basa su un campione della popolazione formato da 2503 individui di almeno quindici anni. Si tratta, dunque, di un campione nazionale, rappresentativo a livello territoriale, intervistato su questi temi lo scorso anno. Primi risultati della ricerca La prima domanda consisteva in: “Lei conosce o meno una lingua?”. A livello nazionale il 33,8% del campione dichiara di non conoscere nessuna lingua oltre l’italiano, il 66,2% invece dichiara di conoscere almeno una lingua. Vi sono differenze tra le diverse parti del paese (Nord-Ovest, Nord- 46 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Est, Centro, Sud ed Isole): è stato fatto dunque anche un confronto territoriale; la prima percentuale (relativa alle persone che non conoscono altre lingue) è più bassa nel nord-ovest e nel nord-est, il centro è ancora al di sotto della media nazionale, il sud e le isole, invece, presentano diversi punti percentuale più elevati. Naturalmente, in maniera speculare, sappiamo quello che succede per quelli che dichiarano di conoscere un’altra lingua oltre la propria. In conclusione, abbiamo che un terzo della popolazione non conosce nessuna lingua, mentre due terzi della popolazione dichiarano di conoscerne almeno una. Passiamo adesso ad analizzare quali sono le lingue più conosciute, sempre per area geografica. A livello nazionale, è l’inglese la lingua più conosciuta. Oltre la metà di chi ha risposto positivamente alla prima domanda, dichiara infatti che è l’inglese la lingua più nota, seguita da una percentuale superiore ad un terzo di chi dichiara di conoscere il francese. Nel nord-ovest, anche per vicinanza e per tradizione, c’è una percentuale maggiore di persone che conosce il francese, mentre al centro la percentuale più elevata, anche rispetto alla media nazionale, riguarda la conoscenza dell’inglese. Per ciò che concerne le altre lingue, vale a dire tedesco, spagnolo e italiano per stranieri – inserito per gli intervistati stranieri residenti in Italia – si hanno percentuali allineate intorno al 2%, con un picco del 3,9% nel nord-est, dove c’è una maggiore presenza di persone straniere. La successiva domanda riguarda, invece, il numero di lingue conosciute nel nostro paese. Ritroviamo, a livello nazionale, il 33,8% di chi afferma di non conoscere nessuna lingua. Viene, tuttavia, dichiarato che almeno una lingua è conosciuta dal 42,1% e due lingue dal 18,9%, un dato questo che sale al 24,2% nel nord-est. Il nord-est, come si vedrà anche incrociando i dati, è forse l’area più dinamica, per la presenza di immigrati, ma anche per tradizione storica ed economica e per il fatto che il nord-est è più proiettato, rispetto ad altre aree del paese, verso i mercati internazionali. Quest’ultimo è senza dubbio uno dei fattori che bisogna tenere in considerazione nel momento in cui si fanno dei confronti con altre aree del paese. Quindi abbiamo detto che il 66,2%, due terzi cioè del campione, dichiara di conoscere una lingua. Bisogna però valutare come tale campione PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 47 autodefinisce la propria conoscenza delle lingue. Si sono scelte quattro modalità di risposta: molto buono, buono, di base e scolastico. Si è scelto di inserire questo ultimo livello non a caso, poiché è quello che nella percezione delle persone viene considerato come un livello di conoscenza; anche se nel curriculum europeo tale livello non esiste, nei curricula che girano tuttora nelle aziende ancora si trovano indicazioni di questo tipo. Si tratta in ogni caso di una conoscenza che sta al di sotto del livello di base, perché si ha di esso una percezione piuttosto negativa o comunque che ha a che fare con un livello di conoscenza ben circoscritto, definito, collocabile all’interno di un periodo dell’esperienza personale molto particolare. Se il 66% dichiara di conoscere una lingua, tuttavia, il 50,1% dichiara di conoscerla a livello scolastico; pertanto è come se si fossero dimezzati quei due terzi. Alla fine, infatti, si ha un terzo che dichiara di non conoscere nessuna lingua, un terzo che dichiara di conoscere una lingua ad un livello di base o superiore, ed un altro terzo che dichiara di conoscere almeno una lingua a livello scolastico, quindi inferiore al livello di base. Si ha dunque il gioco delle tre componenti, di tre terzi che si affiancano, gli uni agli altri, secondo diverse modalità. Questo a livello nazionale; per il nord-est la percentuale, per il livello di conoscenza “scolastico”, scende al 46,6%, ma sono pochi punti percentuali di differenza; il nord-est presenta anche il livello di conoscenza, con la modalità “molto buono”, più elevata. La percentuale di chi dichiara di conoscere una lingua a livello scolastico, sale al 53,5%, nel Sud e nelle Isole, il Mezzogiorno di Italia. Essa rappresenta la percentuale in assoluto più elevata di persone tra quanti dichiarano di avere una conoscenza scolastica della lingua. In sintesi, abbiamo visto, che per la metà delle persone intervistate, la conoscenza di una lingua straniera è legata alla lingua inglese. La successiva domanda chiedeva, a chi conosceva le lingue, in quali occasioni le utilizza. Abbiamo dato alle persone intervistate la possibilità di risposte multiple, vale a dire con più modalità di risposta. A livello nazionale, risulta che la modalità più scelta è quella relativa ai viaggi e alle vacanze, che ha raggiunto la percentuale più elevata, seguita dalla modalità “comunicare con familiari, amici e conoscenti”, con una percentuale del 48 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 35,4%, seguita, infine, dalla modalità “lavoro”, con il 28,6%, che rappresenta circa la metà della prima motivazione. Le prime due motivazioni sono di carattere culturale e relazionale: certamente non si tratta di motivazioni professionali e questo è un dato molto importante. Se consideriamo la distribuzione per aree geografiche, le percentuali più elevate, per la motivazione di carattere professionale, sono presenti al nord-ovest e al nordest con il 36% e 32%, al centro siamo al 26,8%, quindi una percentuale inferiore alla media nazionale, mentre al Sud e nelle Isole c’è una percentuale ancora più bassa. Si potrebbero fare, dunque, tutta una serie di considerazioni, di correlazioni sul tasso di disoccupazione e sulla diffusione di un sistema produttivo a livello territoriale. Alla luce di ciò si riconferma, per l’ennesima volta, una sorta di dualismo che ancora esiste fra le diverse aree del paese. La successiva domanda chiedeva “se conosce la lingua, che tipo di utilizzo ne ha fatto in ambito lavorativo?”. In Italia chi conosce una lingua, nel 66% dei casi, non la usa in ambito lavorativo e tale percentuale è dunque coerente con quel 28% circa che abbiamo considerato in precedenza. È invece utilizzata, in questo momento, dal il 35,5%; al contrario, non la utilizza oggi, ma l’ha utilizzata in passato, il 3,8%. La rappresentazione è simmetrica per quanto riguarda le diverse ripartizioni territoriali: il nord-ovest ha il livello più basso di persone che non hanno mai utilizzato per lavoro la propria lingua conosciuta, naturalmente ha un utilizzo attuale costante e contemporaneo più elevato. Si ricordi, inoltre, il termine scolastico come auto-percezione della propria conoscenza delle lingue. A tal fine si è chiesto come viene considerata la preparazione scolastica e che percezione si ha della preparazione fornita dalla scuola pubblica italiana. Le risposte possibili erano: “eccessiva”, “adeguata”, “scarsa”, “gravemente insufficiente”; alcune persone hanno anche risposto “non sa/non indica”. E questo perché, ragionando anche in termini generali, abbiamo una popolazione dai quindici anni in su, in cui, quindi, la componente anziana è molto forte. Per chi è avanti nell’età, infatti, le occasioni di utilizzo e di studio della lingua straniera sono più rare, per diverse generazioni. PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 49 Nel complesso, per analizzare il giudizio sulla scuola, se mettiamo insieme i dati di chi definisce il grado di preparazione “scarso” e “gravemente insufficiente”, si arriva al 55,9% di giudizio negativo sulla preparazione acquisita durante il periodo scolastico, che è poi, generalmente, l’unica occasione vera e comune di utilizzo, anzi di studio, di una lingua, nella esperienza formativa di un individuo. Di conseguenza, abbiamo chiesto, “in proiezione, pensate di poter studiare in futuro una lingua, avete intenzione di farlo, siete, in qualche modo, propensi a fare questo tipo di investimento sulla conoscenza delle lingue?”. Unendo le risposte “sicuramente sì” e “probabilmente sì” – quindi le due percentuali di chi ha una tendenziale propensione ad investire nelle lingue – non raggiungono neanche il 22% del totale. L’insieme delle risposte “probabilmente no”, “sicuramente no”, copre il restante 78%. Fermiamoci un istante sul 22%: tale percentuale scende al 18,4% nel nordovest (quindi si ha una propensione inferiore alla media nazionale), è leggermente superiore nel nord-est, inferiore al centro e, stranamente, ma in ogni modo un dato interessante, si attesta al 25,9% per quanto riguarda le persone residenti nell’Italia meridionale (dunque sopra la media nazionale). Si ha, pertanto, una domanda potenziale sullo studio delle lingue che raccoglie il 22% della popolazione. L’analisi totale sulla popolazione ci mostra, in generale, una situazione piuttosto statica: non c’è una grande propensione, non c’è una grande conoscenza, sono pochi quelli che studiano o hanno studiato le lingue o hanno intenzione di studiarle, che le stanno utilizzando per lavoro e che hanno una motivazione allo studio delle lingue legata alla propria professione, al proprio ruolo professionale. La situazione dal lato delle imprese Abbiamo isolato un campione rappresentativo di imprese con almeno due addetti. Si tratta di un campione molto vasto, poiché esso supera le 1600 unità. Per le imprese, la lingua più utile è naturalmente l’inglese con una percentuale del 99,4%, seguita dalla lingua tedesca (come sappiamo la 50 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Germania è uno dei mercati più importanti per la nostra economia); vi è poi il francese con il 27,7% e lo spagnolo con il 19,7%. Scendendo nella classifica, cominciano ad esserci delle indicazioni interessanti che coprono delle quote minime della popolazione, ma che hanno, a nostro avviso, comunque una tendenziale possibilità di crescere: ad esempio per il cinese, con il 7,3%, si ha un dato di tutto rispetto, per il russo si ha il 1,9%, per l’arabo il 1,2%, per il giapponese 0,8%. Siamo dunque entrati ancora di più nel problema, perché questi sono i dati relativi alle imprese, per le quali, come abbiamo visto, l’inglese rimane la lingua più importante. Nel proprio contesto aziendale, l’inglese è dunque definita come lingua più importante nel 71,9% dei casi, mentre per il 24,6% delle imprese, nessuna lingua è importante e utile all’interno della azienda. Praticamente un quarto delle aziende afferma “a me della lingua e della conoscenza delle lingue non me ne importa nulla”: la lingua rimane, cioè, un fattore marginale, quasi esclusa dalla propria attività. Anche nel caso delle aziende, abbiamo un raffronto tra una percezione generale ed una percezione rispetto alla propria esperienza e rispetto al proprio vissuto aziendale. In generale agli imprenditori abbiamo chiesto che tipo di valutazione operano e se considerano utile un personale con competenze linguistiche. Il 57,3% degli intervistati ha risposto che lo considera “molto utile”, seguita da un ulteriore quota del 3% di “poco utile” e da una percentuale di “abbastanza utile” del 38%. Se mettiamo insieme le quote di “molto utile” e “abbastanza utile” si ha una percentuale molto alta di persone che considera utile disporre di personale con competenze linguistiche. Tuttavia, se la stessa domanda è posta rispetto alla propria azienda, il “molto utile” scende al 29,1%; questo dato, messo insieme all’abbastanza utile, dà quasi un 60%, quindi un dato molto inferiore a quello visto in precedenza. Più nel dettaglio, abbiamo chiesto per quali funzioni sono valutate le competenze linguistiche in sede di selezione. Il 66,1% delle imprese risponde che non sono valutate per nessun tipo di funzione. Pertanto nel 66,1% dei casi si tratta di un aspetto che, nel momento in cui fa selezione, non viene affatto preso in considerazione; si valutano altri elementi, come gli aspetti PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 51 tecnici, relazionali, professionali, ma non quello della conoscenza delle lingue. Se, invece, la conoscenza delle lingue è considerata utile – come nel settore delle vendite e del commerciale, è infatti relativamente agli addetti alle vendite che si raccoglie la percentuale più elevata – arriviamo al 17% circa, che non è comunque una quota elevata. Se vengono valutate le competenze linguistiche, quali sono le modalità? Nel 45,4% dei casi le competenze linguistiche vengono valutate sulla base della sola dichiarazione, sulla base del curriculum, senza alcun tipo di test; si chiede in sostanza se si conoscono le lingue e si può rispondere ‘sì, le conosco molto bene’. Le competenze vengono valutate con prova orale solo per il 38% delle imprese, dunque solo per una quota minoritaria del campione; in modo formale tramite test solo il 15,5% delle imprese. In sostanza, il dato di fondo è che quasi la metà delle imprese – se chiede ad una persona, che sta selezionando per il proprio organico, il livello di competenze linguistiche raggiunte – si fida in sostanza della dichiarazione fatta dal candidato. Ritorniamo adesso sul concetto di propensione all’investimento alla formazione. Fatte cento le nostre imprese, vale a dire le 1600 che abbiamo intervistato, il 95,4% non ha attivato alcun tipo di iniziativa sulla formazione linguistica. Questo è il dato da tenere in considerazione, quando si ragiona in termini di domanda potenziale delle imprese per quel che concerne la formazione linguistica. Sappiamo molto bene, però, che anche il dato sulla formazione in generale – quindi la propensione ad investire in formazione delle nostre aziende – è molto basso rispetto ad altri paesi. E sappiamo benissimo che l’elemento fondamentale che caratterizza questo tipo di risposta è dovuto al fatto che la stragrande maggioranza delle imprese nel sistema produttivo del nostro paese, come anche il nostro campione, è formato da imprese piccole, che non hanno spazio, né possibilità, né orizzonti di investimento così lunghi da aspettarsi dei ritorni di investimenti in termini di formazione. Visto quante imprese investono in formazione, abbiamo chiesto se in prospettiva nei prossimi due anni queste stesse imprese hanno intenzione di 52 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO investire in formazione linguistica. Il 66% del campione risponde “sicuramente no”, collegato ad un “probabilmente sì” che ha una percentuale del 7,2%, a cui si aggiunge “sicuramente sì” col 19,7%, quindi una quota minoritaria di chi ha intenzione di investire in formazione. Chi l’ha fatto, come sappiamo, sono cinque imprese su cento; in questo caso quelle che potrebbero in qualche modo avere una logica di prospettare un investimento in formazione, raggiungono il 25%, non di più. Dunque le imprese sono molto fredde verso la formazione linguistica, oltre che verso la formazione in generale. Esse non percepiscono come un fattore importante, per la propria azienda, la possibilità di disporre di competenze linguistiche, poiché le aziende sono più orientate, in sintesi, ad acquisire competenze formali e tecnico-professionali, sul processo e sugli aspetti operativi, non tanto sulla potenzialità che le competenze linguistiche possono dare per l’allargamento del proprio mercato; la maggioranza delle imprese è, infatti, molto concentrata sul proprio mercato locale e domestico. L’offerta Dopo le imprese, il terzo anello della catena di analisi che abbiamo considerato è rappresentato dalle strutture di offerta. Abbiamo ragionato fino ad ora in termini potenziali, sulla domanda della popolazione e delle imprese; vediamo invece i risultati relativi alle strutture di offerta, cosa ci viene detto da chi rappresenta l’altra metà del mercato della formazione linguistica. In questo caso, abbiamo definito un indirizzario che, a livello nazionale, ha raccolto 4900 enti che erogano formazione; ci hanno risposto in 1231, quindi una quota che, rispetto a questo settore, risulta molto interessante, perché più di 1200 enti che hanno risposto danno un valore a questa indagine di non poco conto: non esiste, oggi, in Italia un’indagine con queste caratteristiche, con un campione così vasto. Il 45% di questi enti fanno capo alla formazione professionale; il 18% al sistema di istruzione (e quindi alle scuole e tutto ciò che è collegabile alle istituzioni scolastiche); il 21,3% alle scuole di lingua privata; mentre il 15% al PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 53 terzo settore, quindi associazioni, organizzazioni no profit ed altre strutture pubbliche. Il 30% di questo campione è collocato nelle regioni del nordovest; il 23,2% nel nord-est, il 21,6% al centro, il 24,9% nel meridione (in pratica un quarto del campione). Le regioni più rappresentative sono la Lombardia con il 16,5% delle strutture, il Piemonte, al secondo posto, ma piuttosto distanziato dal primo, con il 10,8%, Veneto con il 10,3%, Toscana con l’8,9%, Lazio 7,1%, Sicilia 7% (ed è la prima regione meridionale che entra in gioco in questa ipotetica classifica), seguita dall’Emilia Romagna con il 6,2%. Vediamo adesso i numeri dell’offerta, entrando più nel dettaglio. Su queste 1231 strutture che abbiamo analizzato, 1033, pari all’84%, hanno effettuato corsi di formazione linguistica nel triennio 2003-2005. La parte restante, vale a dire il 22%, cioè 226 strutture, ha, invece, erogato solo moduli di formazione linguistica all’interno di corsi di formazione professionale, là dove è previsto, all’interno di un corso, un modulo dedicato alla formazione linguistica. Ritorniamo, però, alle 1033 strutture che sono quelle che costituiscono la maggiore componente di offerta. Ottocentosette hanno erogato almeno un corso di formazione linguistica. Di queste, 463 (pari al 57%) hanno proposto solo corsi di lingue straniere; 292 (pari al 37%) hanno proposto corsi di italiano L2 e di lingue straniere; 52 (pari al 6%) solo corsi di italiano lingua L2, quelli dedicati solo alla conoscenza dell’italiano per gli immigrati, per gli stranieri che vivono nel nostro paese. Analizziamo adesso l’utenza dell’offerta. Quante persone hanno coinvolto, all’interno dei propri corsi di formazione, queste 1231 strutture? Abbiamo, in ogni modo, un’utenza effettiva superiore, in questo triennio, ai 273.000 individui: sono persone che hanno avuto modo di fare un corso di formazione linguistica, ma è possibile che una persona abbia potuto fare più corsi; non sono teste, ma, appunto, utenti finali. Tra queste persone, 110.000 hanno seguito corsi professionalizzanti, legati ad una motivazione connessa al lavoro, cosa che in precedenza abbiamo visto non essere così fondamentale. Questo dato è in linea con ciò che abbiamo già detto: la motivazione fondamentale di una persona a seguire un corso di formazione 54 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO linguistica è di tipo personale, culturale, quindi si parla di viaggi, vacanze, amici, conoscenza di nuove persone. Sempre di questi 273.000, il 15,7% ha seguito dei corsi individuali, quindi, come dire, dei corsi molto personalizzati sulle singole esigenze, il 66,4% corsi di gruppo (che è la modalità più tradizionale), il 17,9% corsi aziendali e per la pubblica amministrazione. Ma a quale livello? Il 44,9% (quindi, quasi la metà) dichiara di avere seguito corsi a livello elementare, il 35,9% a livello intermedio, il 19,2% a livello avanzato. Per quanto riguarda i corsi professionalizzanti, dei 110.000 di cui sopra, il 24,7% ha seguito corsi individuali: si tratta, di una percentuale maggiore rispetto ai corsi degli utenti in generale, perché per i corsi professionalizzanti la tendenza all’uso dei corsi individuali è molto maggiore; il 41,9% ha seguito corsi di gruppo, il 33,4% corsi aziendali e per la pubblica amministrazione. Per ciò che riguarda il livello, il 38% dei corsi è di livello elementare, contro il 44,9% degli utenti di corsi generali, 35,8% di livello intermedio, mentre, per l’avanzato, raggiungiamo una quota percentuale molto maggiore, con il 26,2%. Queste 1200 strutture che abbiamo analizzato, nel 45,6% dei casi, sono attive da più di dieci anni, nel 31% dei casi da cinque a dieci anni, poi via via abbiamo le altre modalità, vale a dire quelle inferiori ai cinque anni, con un restante 22-23%. Ma quali tipologie di corsi sono stati attivati? Sono stati attivati soprattutto corsi di italiano L2 o corsi di lingua straniera ed è questa la principale tipologia di offerta. Sulle 1200 imprese, il 37,6% ha organizzato corsi di lingue straniere, il 23,7%, invece, corsi di italiano L2 e corsi di lingue straniere, mentre l’italiano L2 è stato considerato come unica tipologia di corso per il 4,2% delle strutture; nessuna delle due tipologie per il 34,5%. Anche in questo caso, per la tipologia di corso seguito e per il livello di insegnamento, l’inglese è prima lingua nel 56,3% dei casi, l’italiano L2 nel 18,2% dei casi, le altre lingue 25,5%. L’inglese presenta un livello elementare del 52,8%, 58,2% di livello intermedio, 60,7% di avanzato. Ciò vuol dire che la richiesta dell’inglese cresce proporzionalmente: come a dire che chi ha già PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 55 una conoscenza tende a migliorare quella conoscenza e ad investire su quella stessa lingua. Per ciò che riguarda i moduli di formazione linguistica nell’offerta formativa degli enti, essi sono presenti in alcuni corsi, sia di fondo sociale europeo che non, nel 50,6% dei casi in base alla figura professionale; nel 12,1% dei casi in corsi regionali o fondo sociale europeo. C’è poi un’altra modalità che in qualche modo connota la presenza di moduli che fanno capo alla componente residuale di chi organizza solo moduli di formazione linguistica all’interno della formazione professionale. E questo è un altro dato tutto sommato interessante, perché non abbiamo analizzato solo le strutture, dunque il profilo dell’ente, vale a dire la dimensione, la propria struttura organizzativa, ma abbiamo anche analizzato i progetti, le caratteristiche dell’offerta strettamente erogata dagli enti di formazione, soprattutto attraverso la lente dell’innovazione o meno di questi percorsi formativi. Nel 79,1% dei casi, gli enti hanno dichiarato che, fra il 2003 e il 2005, non hanno attivato niente di significativo dal punto di vista innovativo, dunque quasi l’80%; otto su dieci. Invece, hanno attivato un corso innovativo il 12,4% delle strutture, mentre hanno attivato un progetto innovativo all’interno dei corsi il 4,2% delle strutture. Ad ogni modo viene rimarcata questa proporzione di otto su dieci, in cui la caratteristica del tradizionalismo è fondamentale; è vero che abbiamo una domanda che non è molto propensa ad entrare in un circuito di formazione linguistica, ma è anche vero che l’offerta, dall’altra parte, non sembra in grado di intercettare altre esigenze: a domanda standard corrisponde offerta standard. Questo crea una sorta di circuito vizioso dove la situazione finale è abbastanza statica, ferma, forse non in linea con i processi e gli obiettivi che dovremmo in qualche modo raggiungere, come dicevamo prima, a livello europeo. Sintesi degli altri dati delle indagini Per ciò che concerne i dati sulla popolazione, il 21,9% ha intenzione in futuro di studiare una lingua straniera, e questo è un dato di propensione che 56 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO avevamo già visto; altro dato: il 68,4% ha dichiarato che non avrebbe partecipato ad un corso di lingua, neanche se gratuito, e questo è un dato interessante. Naturalmente abbiamo un campione con una componente anziana molto forte, con una bassa motivazione a seguire corsi e ad essere interessato alla formazione. Tuttavia, questo dato, nell’ottica dell’educazione degli adulti, del lifelong learning, di cui tanto si parla, non è molto soddisfacente. Il 47,6%, quasi la metà del campione, si dichiara troppo anziana per studiare una lingua; il 27,6% non ha preso iniziative per lo studio perché non motivato, il 24,7% dichiara di non avere tempo per studiare una nuova lingua, il 60,7% degli occupati non ha mai utilizzato in ambito lavorativo la lingua straniera conosciuta. In sintesi, c’è una bassa propensione da parte della popolazione ad investire nella formazione linguistica. Per ciò che riguarda gli immigrati, vediamo due dati soprattutto: il 70,1% degli intervistati ha intenzione in futuro di migliorare la conoscenza dell’italiano – dunque abbiamo un dato contrario a quello del 21,9% della popolazione in generale. Abbiamo considerato un campione a parte di immigrati, abbiamo fatto una sorta di carotaggio, di focus su questa dimensione; si ha un 70,1% che ha intenzione di migliorare la propria conoscenza, perchè sono in un ambiente che in qualche modo li costringe. Il 56,3% si dichiara molto d’accordo con la affermazione: “nel lavoro che attualmente svolgo è indispensabile che io conosca la lingua italiana”, quindi anche in questo caso, collegata alla propria attività lavorativa, la conoscenza dell’italiano è fondamentale. Vediamo in sintesi i risultati anche per le imprese. Il 56,4% delle imprese intervistate non ha alcun addetto che conosce una o più lingue straniere; solo cinque aziende su cento, come abbiamo visto, hanno realizzato corsi, ma questo dato sale a 43% nel caso delle grandi imprese, cioè con una dimensione superiore ai 250 addetti. Il 66,6% delle imprese dichiara che sicuramente non utilizzerà corsi di formazione linguistica nei prossimi due anni e questo è un dato di propensione, ma per le grandi imprese questo valore scende al 18,5%, quindi c’è una relazione positiva tra propensione all’investimento e dimensione di impresa. PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 57 Quali indicazioni conclusive, a livello di politiche, possono essere prese? Si è affermato che abbiamo in ogni caso un quadro di riferimento che è dato dal piano d’azione 2004‐2006 che si compone di tre obiettivi: apprendimento delle lingue in una ottica di lifelong learning, innalzamento della qualità dell’insegnamento delle lingue e creazione di un ambiente favorevole all’apprendimento delle lingue. Si tratta di obiettivi abbastanza generici, non prescrittivi: però da questo punto di vista è importante considerare il piano come un quadro di sfondo entro cui ogni singolo paese dovrebbe muoversi. Quali indicazioni vengono dalla ricerca LETitFLY? La prima: bisogna trovare qualche strumento che aggiri i fattori ostativi che sono socio‐demografici e riguardano la popolazione. La popolazione anziana non è motivata, non ha voglia, né intenzione, né tempo per studiare una lingua, ma noi siamo già in unʹottica di formazione degli adulti, di lifelong learning, quindi si deve trovare un grimaldello che sblocchi questa situazione. Sulla qualità dell’insegnamento delle lingue: un approccio di sistema per l’offerta linguistica che abbia attenzione per la certificazione linguistica delle competenze in uscita; sappiamo che ciò non accade poiché oltre il 30% delle strutture non rilascia alcun tipo di attestazione. Seconda indicazione: standard minimi di dotazione strutturale. Anche in questo caso, dal punto di vista delle metodologie, si manifesta una necessità di aumentare il livello di dotazione strutturale anche per consentire e garantire una maggiore innovatività nelle metodologie e per supportare il personale docente; naturalmente la domanda è orientata verso il personale di lingua e questo è un dato da considerare come molto importante. Terzo: un piano di mainstreaming delle competenze linguistiche per creare un ambiente più favorevole. Si tratta anche in questo caso di un’indicazione generica, però è questo l’unico aspetto sul quale bisogna raccogliere le esperienze che sono diffuse, sebbene in maniera non sistematica a livello nazionale. Ciò vuol dire che bisogna raccogliere quegli strumenti, quegli escamotage, quelle esperienze che hanno avuto successo, e riportarle su scala maggiore, perché coinvolgano sempre più persone e non rimangano delle esperienze di nicchia. L’ultimo aspetto riguarda cosa può succedere dopo LETitFLY: andando oltre 58 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO i risultati di questa ricerca, abbiamo scoperto tutta una serie di cose, siamo entrati nel dettaglio dell’offerta, delle modalità e delle metodologie. A noi interessa ciò che potrà accadere negli anni successivi, sempre in questa logica di raggiungimento di obiettivi che altri paesi hanno già raggiunto e hanno già a disposizione. Diffusione e valorizzazione dei risultati LETitFLY. Possiamo continuare su altri aspetti: ci sono dei seminari di sensibilizzazione e diffusione che hanno avuto successo a livello locale e possono essere replicati; abbiamo un portale LETitFLY: può diventare un punto di riferimento per tutte le novità; per tutto ciò che succede nell’ambito della formazione linguistica; per seminari di studio ed eventi vari che possano creare un ambiente favorevole all’apprendimento linguistico; per azioni di web-marketing rivolte all’offerta che sul portale può trovare tutta una serie di indicazioni che possono migliorare il proprio orientamento; per la creazione di community di esperti ed operatori. Abbiamo coinvolto moltissime persone che a livello nazionale sono dei grandi teorici, ma anche degli operatori che sanno molto. Manca una sistematicità di queste conoscenze, per questo sarebbe importante creare una community ed il portale di LETitFLY può essere questo luogo di accoglienza del dibattito orientato agli obiettivi prima indicati. Possibilità di manutenzione del patrimonio informativo. Abbiamo messo un punto zero a tutto il dibattito sulla conoscenza delle lingue, adesso sappiamo come sono effettivamente orientate le persone e le imprese a livello nazionale e possiamo fare questo tipo di attività a livello territoriale per sviluppare quelle esperienze che possono, dal basso, creare un ambiente più accogliente per la formazione linguistica. Infine: aggiornamento dei dati LETitFLY. Questo della conoscenza delle lingue è un fenomeno da tenere sotto osservazione in maniera molto precisa, con una periodicità di riscontro che consenta di capire in che modo ci stiamo orientando, e anche che tipo di efficacia stanno avendo gli strumenti che sono stati messi in campo per migliorare l’accesso alla formazione linguistica oltre che i risultati di tale formazione. LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA I decisori politici e gli scenari della formazione linguistico-professionale: il Progetto Trio, un esempio di best practice 59 LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA 61 LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA Natalia Guido Ricercatrice ISFOL - Presidente Comitato Mainstreaming di “LETitFLY” I risultati presentati dal Censis relativamente al lavoro svolto attraverso l’indagine LETitFLY permettono di costruire un quadro complessivo delle attese e delle tendenze, in Italia, in merito alla così detta “questione linguistica” o, più specificamente, al problema relativo all’insegnamento e all’apprendimento linguistico nel nostro Paese. Data la vastità del lavoro svolto e la ricchezza dei risultati emersi, ritengo importante e doveroso riconoscere l’impegno e il valore dell’investimento, non solo economico, del Ministero del Lavoro, che ha voluto, coraggiosamente, affrontare un’operazione complessa riguardante una tematica ancora considerata di nicchia. Una tematica attorno alla quale, però, si sta costruendo una maggiore consapevolezza, in particolare sul ruolo che la conoscenza e l’uso delle lingue straniere possono svolgere in funzione della costruzione di una più certa inclusione sociale e di una fattiva integrazione lavorativa. L’evento di quest’oggi ne è una chiara conferma e la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, nonché di attori strategici che operano in questo settore, dimostra, a mio avviso, il cresciuto interesse, in Italia, attorno a questi temi. Mi preme a questo punto sottolineare due aspetti emersi nel corso delle presentazioni che mi hanno preceduta e che appaiono, a mio avviso, particolarmente significativi. I dati presentati dal Censis dimostrano, sul piano teorico, una sostanziale crescita di interesse nei confronti della conoscenza delle lingue straniere. Ciò ha permesso di arricchire la “questione linguistica” di elementi e di significati tali da rendere questa tematica un argomento di discussione, anche a livello politico, nell’ambito dell’ampio dibattito sul futuro dei 62 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO sistemi educativi e formativi e sul loro ruolo in funzione della costruzione di una più chiara e competitiva identità economica e sociale europea. Nello stesso tempo, sul piano pratico, le attività e le azioni finalizzate alla promozione dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico rimangono, in Italia, ancora rilegate a contesti ristretti, con il limite di non riuscire a rispondere, efficacemente, alle richieste di maggiore qualità ed efficacia, così come previsto a livello europeo e, nel contempo, di non poter dare seguito alle attese dei discenti e alle crescenti necessità del mercato del lavoro. A questo punto, ritengo che ciò che dobbiamo auspicarci è che i risultati della ricerca LETitFLY vengano rapidamente tradotti in azioni concrete finalizzate a valorizzare, quanto emerso, nel quadro della discussione più generale sul ruolo e sulle funzioni dell’insegnamento linguistico. Ciò al fine di garantire la costruzione di una politica “linguistico-formativa” differenziata e adeguata ai diversi livelli territoriali: locali, regionali e nazionale, in grado di rispondere alle reali attese dei cittadini e delle imprese. Questa azione consentirebbe la costruzione di una sistema politico nazionale e regionale volto a sostenere una maggiore consapevolezza sul ruolo dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico, nel quadro delle strategie di investimento sul capitale umano. In questo scenario ci sono, a mio avviso, due attori principali: uno è rappresentato dallo stesso Ministero del Lavoro che sarà, quindi, ancora una volta chiamato in causa per dare continuità alla ricerca e per assicurare che i risultati finali possano produrre dei frutti ulteriori. Dall’altro lato, ci sono le Regioni a cui spetta il compito più complesso di tradurre le aspettative espresse in strategie concrete, rispondenti alle molteplici e variegate attese dei propri territori locali. A testimonianza della significatività del ruolo di questi attori strategici e dell’importanza di azioni concrete realizzate, in particolare, dagli Enti Locali, introdurrei a questo punto la presentazione di un caso di eccellenza rappresentato dalla Regione Toscana che, attraverso il Progetto TRIO, da noi ritenuto un chiaro esempio di best practice, dimostra come sia possibile attuare alcune strategie politiche di investimento sulla formazione profes- LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA 63 sionale e in particolare anche sulla formazione linguistica, in azioni concrete. Azioni che si traducono in progetti in grado di coinvolgere un ampio numero di utenti, offrendo loro una proposta formativa capace di rispondere alle loro reali necessità professionali. L’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE NELL’ESPERIENZA TOSCANA 65 L’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE NELL’ESPERIENZA TOSCANA Elio Satti Responsabile Area Organizzativa Apprendimento per tutta la Vita ‐ Regione Toscana Sono estremamente felice per aver esaminato un prodotto quale quello che ci è stato presentato, cioè i risultati del Progetto LETitFLY: se lo avessimo avuto a disposizione quando in Regione Toscana stavamo per programmare le nostre politiche regionali nel settore della formazione, avremmo sicuramente avuto a disposizione una serie di informazioni che ci avrebbero aiutato nella predisposizione delle azioni da inserire nel Piano di Indirizzo Generale Integrato Educazione, Formazione, Lavoro. Anche noi avevamo condotto un’indagine nello stesso settore, ma ovviamente non con la profondità con cui questa di LETitFLY è stata portata avanti e conclusa. Il mio compito è, comunque, quello di introdurre in questo convegno ed in maniera rapida, il quadro all’interno del quale in Toscana si situano le politiche legate all’apprendimento delle lingue. Il Piano di Indirizzo Generale Integrato indica nei bench mark europei provenienti dalle strategie di Lisbona e Barcellona gli obiettivi da raggiun‐ gere. Molti di questi obiettivi presuppongono competenze linguistiche specifiche. Per questo le politiche del diritto all’apprendimento per tutta la vita – che sono contenute all’interno del piano – vedono le lingue come un elemento fondamentale poiché si pongono a supporto e ad integrazione di tutta una serie di misure che il piano stesso sviluppa. Vi faccio qualche esempio ricordando le misure più importanti stabilite dal Piano. La mobilità: il nostro piano prevede uno sviluppo notevole della mobilità, mobilità che non è solo quella studentesca ma che riguarda anche gli apprendisti, il personale in formazione, gli imprenditori. Evidentemente senza la conoscenza delle lingue, la mobilità non si può fare. Vi è un’altra 66 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO misura che presuppone un supporto di conoscenze linguistiche ed è quella relativa all’educazione non formale degli adulti; sempre di più gli adulti hanno bisogno di muoversi all’interno di settori, pensiamo ad internet, in cui le lingue sono indispensabili per non sentirsi completamente isolati. Altra misura è quella della interregionalizzazione delle politiche che la Regione Toscana ha messo all’interno del proprio Piano 2006‐2010: anche in questo caso, per esempio, i funzionari pubblici non possono non conoscere lingue se vogliono raggiungere gli obiettivi prefissati, poiché in questo caso si tratta di interagire con colleghi di altre regioni d’Europa, ciascuna con una sua propria identità linguistica. Vi è, inoltre, tutta la parte relativa alla imprenditorialità. Abbiamo subito, in Regione Toscana, un processo abbastanza forte di cambiamento all’interno del settore; pensate ad esempio al distretto tessile di Prato, che ha subito una serie di crisi che hanno introdotto nuovi scenari di sviluppo. C’è la necessità che la nostra classe imprenditoriale possa in qualche modo recuperare o meglio inserirsi all’interno di un processo innovativo che presuppone la conoscenza delle lingue. Ecco che allora, a questo punto, le azioni specifiche, a partire da queste misure, sono due. La prima è un’azione territoriale, puntuale, che riguardi le agenzie formative del territorio, i centri territoriali permanenti, che già si occupavano in passato di questo tipo di formazione linguistica a livello locale. La seconda azione è più propriamente di sistema – sulla quale abbiamo puntato molto già in passato, sulla quale abbiamo fatto grossi investimenti e su cui punteremo molto in futuro – ed è l’azione legata all’apprendimento delle lingue online e dunque al Progetto TRIO. Il livello locale e il livello di sistema di queste azioni interverranno in settori specifici, come quelli della formazione continua, degli occupati, dei disoc‐ cupati, degli apprendisti, dell’educazione degli adulti anche attraverso l’utilizzo di progetti‐pilota. Questo è il quadro all’interno del quale si situano le politiche dell’apprendimento delle lingue e sulle quali la Regione Toscana intende puntare per il prossimo quinquennio. IL PROGETTO TRIO E L’AZIONE DI ALFABETIZZAZIONE LINGUISTICA 67 IL PROGETTO TRIO E L’AZIONE DI ALFABETIZZAZIONE LINGUISTICA PER CITTADINI STRANIERI Simone Borselli Coordinatore Progetto Stranieri – Staff Direzione Didattica TRIO Cercherò di illustrarvi il Progetto Stranieri – “Azione di alfabetizzazione linguistica per cittadini stranieri” in maniera molto sintetica, focalizzando l’attenzione soprattutto sul “cuore” dell’offerta formativa del Progetto: i corsi online di lingua italiana per stranieri. Il Progetto Stranieri è un progetto promosso dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e dalla Regione Toscana, con l’obiettivo di dotare i cittadini stranieri, residenti in Toscana, di maggiori strumenti di integrazione con la comunità locale di riferimento: migliorando il livello di alfabetizzazione linguistica, migliorando la conoscenza degli aspetti caratteristici del territorio toscano (sotto il profilo culturale ed istituzionale), attraverso una prima conoscenza del mondo del lavoro (sotto l’aspetto dei diritti e doveri e delle normative più importanti). Tutto questo grazie ad un’offerta formativa di corsi online fruibili sul portale TRIO. Il Progetto TRIO è, infatti, il portale della formazione a distanza della Regione Toscana; un portale che si rivolge a tutti i cittadini. Tutti possono iscriversi e fruire gratuitamente dei corsi a catalogo, sia attraverso postazioni private di accesso ad internet, sia attraverso i Poli di Teleformazione TRIO. Complessivamente, sono diciannove i Poli di Teleformazione presenti in tutte le province della Toscana. Ogni polo è dotato di un’aula informatica con postazioni multimediali e un impianto di videoconferenza. In ogni Polo di Teleformazione è presente un tutor che svolge la funzione di accoglienza, di supporto tecnico e di facilitatore dell’apprendimento. Il progetto TRIO fornisce anche servizi di orientamento, di tutoraggio online e servizi personalizzati. A titolo di esempio, cito il servizio WLG, per gruppi di utenti che da differenti punti di accesso ad internet possono collegarsi alla stessa home page TRIO, personalizzata. Infine, nel portale sono presenti forum tematici, community e aule virtuali. 68 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Per quanto concerne le varie fasi del progetto, dopo una prima fase di analisi finalizzata ad acquisire informazioni sulla popolazione destinataria dell’intervento formativo, sono stati individuati i partner da coinvolgere nell’iniziativa, ovvero, le Istituzioni e le organizzazioni del terzo settore che potevano garantire una diffusa promozione del progetto sul territorio e un forte coinvolgimento degli stranieri. Contemporaneamente, sono stati progettati e prodotti ventisei corsi online: ventiquattro corsi di lingua italiana, un corso di diritto alla sicurezza sul lavoro (che ha come obiettivo didattico il fornire un quadro sintetico delle normative vigenti in materia di sicurezza) e un corso di orientamento al territorio (che ha come obiettivo il fornire una panoramica dei servizi attivi presenti sul territorio toscano a cui gli stranieri possono accedere). I ventiquattro corsi sono auto-consistenti, con una struttura modulare che consente la costruzione di percorsi formativi: un percorso di lingua italiana di livello base, un percorso di livello elementare ed uno intermedio. Tutti i corsi del progetto sono stati testati in una classe sperimentale, organizzata dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’Empolese Valdelsa, uno dei partner del progetto, e dall’ARCI Regionale Toscana. La sperimentazione ha avuto un esito positivo e ha garantito il perfezionamento dei corsi a catalogo. Gli utenti hanno fruito dei corsi del progetto sia presso i Poli di Teleformazione, sia in gruppi e classi di utenti organizzati nelle sedi delle varie associazioni partner. Complessivamente, avevamo 39 sedi, dove gli utenti potevano fruire dei corsi. Ogni corso di lingua italiana si caratterizza per un livello di multimedialità molto alto e si pone l’obiettivo didattico di sviluppare, in maniera molto equilibrata e relativamente ad uno specifico ambito tematico e situazionale, le competenze linguistiche relative alla comprensione e alla produzione orale e scritta. Le varie componenti multimediali, quindi, sono perfettamente inserite nel corso. Ogni corso è caratterizzato da un’introduzione, composta da tre sezioni: modalità di fruizione, indice e presentazione; dopo aver definito gli obiettivi e i contenuti del corso, segue un test di ingresso (un test di auto- IL PROGETTO TRIO E L’AZIONE DI ALFABETIZZAZIONE LINGUISTICA 69 valutazione, finalizzato a determinare le competenze in ingresso dell’utente) e il “cuore” del corso, cioè tre lezioni incentrate sulle quattro abilità: la comprensione orale, la comprensione scritta, la produzione orale, la produzione scritta. Nella terza lezione viene spiegata, con il supporto di esempi, la regola grammaticale che è analizzata nel corso. Vi è anche una sezione vocabolario, che contiene l’elenco dei vocaboli più rilevanti presenti nel corso con relativa definizione e possibilità di ascolto della pronuncia, e con le sezioni alfabeto e verbi, contenenti la spiegazione della regola grammaticale. Il corso si conclude con un test finale. Il test è tracciato dal portale TRIO, quindi, se l’utente risponde correttamente ai due terzi delle domande, può richiede un attestato di frequenza, che viene rilasciato gratuitamente. Per quanto concerne i risultati del Progetto, circa mille utenti hanno fruito dei corsi del Progetto Stranieri. Il Progetto è terminato nel febbraio del 2006, ma i corsi sono ancora disponibili e utilizzabili sul catalogo TRIO. Abbiamo constatato una forte fidelizzazione da parte dell’utenza: infatti, chi ha usufruito dei corsi del Progetto Stranieri, successivamente, ha continuato a recarsi presso le sedi dei partner e presso i Poli di Teleformazione per sfruttare non solo l’offerta formativa del Progetto Stranieri, ma anche gli altri corsi presenti sul catalogo TRIO, soprattutto corsi di informatica e di lingua inglese. L’85,7% dei corsi usufruiti sono stati completati con successo, quindi con il superamento del test finale. Molto bassa è la percentuale dei corsi abbandonati, il 2,4%. Il 91,6% degli utenti ha seguito i corsi di lingua italiana, l’8,4% i corsi: “Diritto alla sicurezza sul lavoro” e “Orientamento al turritorio”. Per quanto riguarda la distribuzione percentuale delle nazionalità degli utenti iscritti, l’11,75% sono utenti provenienti dal Marocco, seguiti da albanesi, somali, rumeni e cinesi. Il livello di scolarizzazione dell’utenza è medio-basso. Il 55% degli utenti del progetto sono donne. Per quanto riguarda l’età, il 43% degli utenti ha un’età compresa tra i 18 e i 32 anni, segue poi dal 27% con un’età compresa tra i 33 e i 44 anni. Infine, come già ricordato, il Progetto TRIO ha vinto l’edizione 2006 del “Label Europeo”, attestato di qualità assegnato dalla Commissione europea alle iniziative innovative nel campo dell’insegnamento/apprendimento linguistico. ALCUNE RIFLESSIONI SUI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 71 ALCUNE RIFLESSIONI SUI DATI DELLA RICERCA LETitFLY Giuseppe Roma Direttore Generale Fondazione Censis La formazione linguistica in Italia si basa su una contraddizione di fondo: se da un lato è opinione diffusa che la conoscenza delle lingue straniere è utile, dall’altro ci troviamo in una situazione in cui i giovani, pur essendo passati attraverso il sistema formativo scolastico, che prevede l’offerta linguistica, hanno una scarsa conoscenza delle lingue. Il canale scolastico resta infatti uno dei punti dolenti del nostro Paese, perché, anche se si va verso una maggiore efficacia del sistema formativo, le modalità di apprendimento sono troppo flessibili, e lo studio che i giovani fanno delle lingue straniere risulta carente. C’è e ci sarà sempre più una crescita delle motivazioni da parte delle nuove generazioni, e in generale da parte di tutti gli italiani, verso la necessità di poter comunicare in un’altra lingua, e questo fatto avrà sicuramente un effetto positivo. Lo si è già visto negli ultimi anni con un’alfabetizzazione, di tipo spontaneo, avvenuta ad esempio attraverso le numerose adesioni degli studenti universitari ai progetti Erasmus, o alla nascita di diverse forme di apprendimento della lingua fuori dal circuito scolastico. C’è quindi una maggiore sensibilità al mondo esterno, che fa da traino all’esigenza di padroneggiare un veicolo linguistico. Il Progetto LETitFLY approfondisce anche un aspetto legato all’iniziativa del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale – che ha ideato e promosso questa ricerca – che è quello della formazione linguistica a fini professionalizzanti. L’inglese per tutti non basta più. Per lavorare oggi, occorre imparare delle lingue di segmento, come il cinese, l’arabo, il rumeno, che servono per il processo d’internazionalizzazione che il nostro paese sta realizzando. Chi parla più lingue e conosce civiltà diverse dalla nostra è in grado di operare meglio nel mondo contemporaneo, caratterizzato dall’incontro tra 72 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO culture e da una società sempre più globalizzata. Creare l’Europa senza la possibilità di comunicare è impensabile, e credo che l’Italia di oggi sia più interessata a relazionarsi con il resto del mondo e ad imparare le lingue, di quanto non lo fosse all’epoca dei nostri padri quando era, invece, un paese autarchico e abituato a guardarsi all’interno. I nostri padri hanno realizzato molte cose, e anche noi dobbiamo fare qualcosa in più su questo versante internazionale. GLI ITALIANI E LE LINGUE Oltre le asimmetrie tra domanda e offerta: popolazione, imprese e attori della formazione 73 74 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO GLI ITALIANI E LE LINGUE 75 Parte I La popolazione tra esigenze reali e desideri 76 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO GLI ITALIANI E LE LINGUE 77 GLI ITALIANI E LE LINGUE: OSSERVAZIONI PER UNA POLITICA LINGUISTICA IN UN MONDO DI CONTRADDIZIONI Gaetano Berruto Università degli Studi di Torino 1. Il mio intervento non può che portare una prospettiva molto angolare alla discussione che si è avviata oggi sui risultati della megaindagine condotta dal progetto LETitFLY, ed è la prospettiva di un accademico, abituato a “contemplare invidiosi veri” e non a scendere sul concreto degli obiettivi politici, delle strategie di formazione nel mercato del lavoro, delle pratiche didattiche. Inoltre, è la prospettiva di un sociolinguista, che vede le cose nell’ottica dei rapporti fra lingua, cultura e società, che è certamente una visuale che ha la sua rilevanza nel contesto dell’indagine ma è appunto una visuale settoriale. Debbo subito dire che l’indagine che è stata oggi presentata rappresenta un passo molto importante anche per gli addetti ai lavori (linguisti e sociolinguisti intendo), in quanto fornisce una radiografia ampia, dettagliata e attendibile, condotta con metodologia affidabile, della situazione del nostro paese quanto alle lingue seconde e straniere. In un certo senso, possiamo dire che ci viene proiettato un film dal titolo “Gli italiani e le lingue”. Che cosa ricaviamo da questa proiezione? Un panorama estremamente variegato. Molte cose appaiono ovvie, non c’era bisogno di alcuna indagine apposita per saperle; ma altre cose sono invece molto meno ovvie; ed alcune sono anzi sorprendenti. In generale, emerge come ritratto complessivo un’ulteriore conferma che l’Italia è un paese di forti contraddizioni. In questo caso, in primo luogo, contraddizioni fra le rappresentazioni e i comportamenti. Una prima contraddizione palese di fondo è, come del resto si è già ben visto oggi, che a un atteggiamento largamente favorevole in generale all’apprendere le lingue (peraltro da ritenere ovvio, in quanto tale, essendo indubbiamente le lingue un bene per lo meno socio-culturale anche nell’immagine ingenua di tutti) fa PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 78 riscontro una notevole insensibilità quanto ad operazioni concrete in tal senso. Tra il dire (“sarebbe bello/utile sapere le lingue”, a seconda della prospettiva della popolazione e del mondo imprenditoriale) e il fare (impegnarsi in concreto per imparare/insegnare le lingue) c’è un vero mare. I dati dell’indagine sono a questo proposito molto coerenti, e dalla prospettiva della popolazione in generale, e da quella delle imprese. È un bel caso topico – verrebbe da dire –, almeno una volta, di totale convergenza di vedute fra imprese e lavoratori! Coglie esattamente il succo della questione, quindi, il rapporto finale, La domanda e l’offerta di formazione linguistica in Italia (d’ora in poi, Formazione) quando afferma (a p. 39) che la domanda potenziale di formazione linguistica è molto forte, ma al tempo stesso “è appunto una domanda potenziale, una domanda che rimane sospesa sulla soglia delle intenzioni e non trova la spinta necessaria per mutarsi da intenzione in azione […]. La maggior parte rifugge al contatto della formazione e si ritrova ormeggiata nel più rassicurante ambito nazionale che non chiede e non stimola competenze linguistiche avanzate. Si spiega così il 78,1% della popolazione che non ha alcuna intenzione di apprendere una lingua straniera e il 95,4% di imprese che non organizzano formazione in ambito linguistico”. Nel complesso, dal film proiettato viene fuori un bel ritratto dell’italiano medio sub specie linguistica. Vorrei pertanto segnalare qui, un po’ alla rinfusa, alcuni dettagli che mi paiono degni di nota, dotati di spiccato valore sintomatico nel quadro generale. Anzitutto, il ritratto è ben riflesso anche nella prospettiva degli “altri” per antonomasia: l’88% degli immigrati interpellati concorda con l’affermazione che “gli italiani dovrebbero conoscere di più le lingue straniere” (Formazione, pag. 55). È un ritratto in cui più del sessanta per cento (61,8%; Formazione, pag. 51) di coloro che lavorano e conoscono le lingue non ha mai avuto occasione di utilizzarle sul lavoro. Dalle prime inquadrature del film, apparirebbe invero qualche lineamento di tutt’un altro ritratto. Una situazione molto rosea, anzi: il 66,2% degli italiani dice di conoscere almeno una lingua straniera, e il 28,6% addirittura due (v. pagg. 42-43 di Formazione). Ma come? Due nostri concittadini su tre GLI ITALIANI E LE LINGUE 79 sanno una lingua straniera! La cosa sembra conflagrare clamorosamente con l’esperienza quotidiana… E in effetti si sconta qui la relatività di come possa essere inteso il “conoscere una lingua”, e che cosa voglia dire conoscere effettivamente una lingua. Se andiamo a vedere la conoscenza concretizzata nell’autovalutazione del livello di competenza, le cifre però si chiariscono (e diventano preoccupanti, vista anche la loro coerenza con quelle del rilevamento Eurobarometro del 2005): la percentuale di coloro che conoscendo una lingua affermano di saperla a un livello “buono” o “molto buono” precipita al 30,9% (Formazione, p. 48). E questa è la falsariga su cui il quadro si sviluppa. Certi risultati apparentemente strani si spiegano proprio in questo quadro, che riproduce esattamente le fattezze stereotipiche, quanto a lingue straniere, del cosiddetto italiano medio tipico. Per esempio, si spiega come mai la competenza dichiarata in fatto di abilità linguistiche assegni un rango relativamente più ampio al leggere che alla comprensione all’ascolto (contrariamente a quanto ci si aspetterebbe secondo le normali gerarchie di acquisizione di lingue seconde studiate dalla linguistica acquisizionale e dalla glottodidattica): ciò non riflette altro che la risaputa difficoltà degli italiani con la pronuncia delle lingue straniere, diventata ormai un luogo comune. Basti pensare, aneddoticamente, alla quantità di pronunce quanto meno un po’ disastrate di nomi propri (antroponimi, toponimi ecc.) stranieri da parte di coloro che dovrebbero essere speaker professionali (per es. al giornale radio nazionale); o a quante volte in radiocronache o telecronache calcistiche si sente dire la formula “il giocatore X dal nome impronunciabile”. Entrambe cose poco immaginabili in un qualunque paese dell’Unione europea. Ovvio, quindi, che i nostri intervistati nell’autovalutazione della competenza pongano la “capacità di tenere una conversazione” al grado più difficile di prestazione nella lingua straniera che dicono di conoscere! (v. pag. 49 di Formazione). Gli italiani noti parlatori non sanno/non amano parlare in lingue che non siano l’idioma materno. D’altro canto, i due terzi (66%) delle imprese si dicono d’accordo con l’affermazione che “nel lavoro è sufficiente avere competenze linguistiche minime, per poter leggere manuali o navigare in internet” (v. pag. 69 di Formazione). E si noti anche qui che si tratta di competenze che non 80 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO riguardano il parlare: in perfetta coerenza con quanto appena sopra sottolineato. Del resto, quasi la metà (il 48%) delle aziende ritiene “poco o per niente utile personale con competenze linguistiche all’interno dell’azienda” (Formazione, pag. 73), affermazione che dal punto di vista del linguista risulta poco meno che scandalosa. Infine, e lo dico del tutto fra parentesi, è testimoniata dall’indagine anche un’altra peculiarità italiana: la cattiva utilizzazione delle risorse. Come è possibile altrimenti che un’ora di lezione di lingua costi mediamente 46 € in provincia di Bolzano, 106 € in Toscana, 239 € in Emilia-Romagna (v. pag. 128 di Formazione)?! Si pone dunque, in conclusione, la domanda: sapere le lingue, in Italia, all’inizio del XXI secolo, va ancora considerato un lusso inutile? 2. Passando dalle osservazioni più puntuali sul significato dell’indagine a considerazioni più generali e volte al futuro, direi che anche dal punto di vista delle politiche linguistiche da assumere, una volta deplorata questa situazione, si presentano per il sociolinguista due esigenze di fondo in parte contrapposte: da un lato, avere una lingua franca, veicolare; dall’altro, tutelare la diversità linguistica (come è stato ampiamente dimostrato per la diversità e pluralità biologica, così la pluralità culturale e linguistica è un bene sicuramente da salvaguardare). Con la conseguente necessità di sforzi congiunti nelle due direzioni. Queste due esigenze teoriche corrispondono anche a una contraddizione, o per lo meno dualità, fra motivazioni e obiettivi. Ragioni utilitaristiche, meramente economiche nel senso più banale del termine (“far economia”) portano ovviamente a focalizzarsi, puntare e insieme appiattirsi sull’inglese. Ragioni socio-culturali portano invece a puntare su una gamma diversificata di lingue. Non sembra che né la popolazione in genere né le imprese percepiscano appieno il vero valore di queste dualità: prevale largamente, in fatto di lingue, l’atteggiamento che le vede in fondo come una questione privata, un di più che può migliorare certi aspetti della vita, un benefit aggiuntivo. GLI ITALIANI E LE LINGUE 81 Dal punto di vista propositivo, di fronte alla situazione messa così chiaramente in evidenza dal Progetto LETitFLY pare dalla mia ottica che debbano essere sottolineate e sostenute due tesi fondamentali. La prima tesi è che il rilevamento dei desideri e bisogni della popolazione e delle imprese rende necessaria anche, e vorrei dire anzitutto, un’operazione preliminare di effettiva “motivizzazione” e diffusione più profonda (e non solo al livello puramente epidermico fatto emergere dall’indagine) della coscienza dell’importanza anche economica, in tutti i sensi, e non solo personale, della formazione linguistica. Sapere lingue non è affatto un lusso, ma possiede un valore oggettivo preciso. Anzi, due tipi di valore. Un valore culturale, che comprende sia il guadagno meramente intellettuale di cimentarsi con un modo di codificare verbalmente l’esperienza e la realtà un po’ o molto diverso da quello che ci è abituale e intrinseco perché l’abbiamo acquisito nella socializzazione primaria, sia il guadagno sociale di permettere di entrare in contatto con più persone e più mondi e di fruire di contatti altrimenti inattingibili. E un valore economico in senso proprio, mercantile, come mostrato inequivocabilmente fra gli altri dallo studioso svizzero François Grin. Tale opera di “motivizzazione” implica la maggior diffusione possibile nel pensiero comune condiviso di principi ampiamente assodati dalla linguistica e sociolinguistica ma che sono rimasti dominio degli addetti ai lavori. Non sarà in questo contesto il solito lamento dell’accademico che vede solo ciò che lo interessa l’affermare l’opportunità di introdurre nell’insegnamento scolastico nozioni di linguistica e sociolinguistica, totalmente assenti dalla tradizione scolastica ancora di impianto tendenzialmente crociano e post-crociano intinto in sociopedagogismo a volte fumoso. La seconda tesi è che, dal punto di vista degli obiettivi formativi, occorra promuovere una gamma ampia di lingue, evitando la limitazione al solo inglese. Il concentrare la formazione linguistica sull’anglo-americano da un lato non può che portare a lungo termine a una piatta uniformità e a un generico globalismo intriso di provincialismo, e dall’altro è destinato ad approfondire lo svantaggio delle culture non anglofone e ad avere effetti negativi sulle stesse culture anglofone. Non è stato abbastanza notato negli ambienti attenti alle questioni delle lingue, mi pare, il fatto, che troverei preoccupante per più di un aspetto se fossi un suddito del Regno Unito, che 82 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO c’è un grande paese europeo in cui non si sospetterebbe certo che la conoscenza delle lingue straniere si situi a livelli più bassi che nel nostro: ed è la Gran Bretagna, i cui cittadini nel rilevamento Eurobarometro 2005 risultano “in grado di partecipare a una conversazione in una lingua diversa da quella materna” nel solo 30% dei casi, contro il 36% dei cittadini italiani (cfr. pag. 33 di Formazione)! Non si tratta ovviamente che dell’altra faccia della medaglia rispetto alla diffusione globale universale dell’inglese come unica lingua franca internazionale: se tutti imparano l’inglese, gli anglofoni non trovano più la motivazione di imparare alcuna altra lingua. Con una perdita secca complessiva non indifferente. Mi pare ovvio, almeno dalla mia ottica professionale, che si tratti di un problema di enorme portata, di fronte al quale non si può infilare la testa nella sabbia. E non c’è bisogno in questa sede di chiamare in causa gli evidenti interrogativi in termini di equità generale posti dall’unificazione linguistica mondiale sull’anglo-americano, che significa anche una gigantesca ridistribuzione di risorse a vantaggio degli anglofoni nativi e crea nuove disuguaglianze di partenza. 3. In sostanza, risulta dunque da una ricerca-azione quale quella qui discussa che è assolutamente necessario un molto maggior impegno delle istituzioni in una politica linguistica complessiva. Politica linguistica che, sia detto fra parentesi, dovrebbe toccare anche la questione dei dialetti, rimasta totalmente fuori dai discorsi che abbiamo potuto fare in questa occasione perché non rientrava nei temi e negli obiettivi di LETitFLY, ma che non può non essere oggetto di attenzione nella politica linguistica, essendo notoriamente i dialetti italiani veri e propri sistemi linguistici diversi e autonomi presenti sul territorio (e non semplici varietà locali parlate dell’italiano), e quindi garanti (finché dureranno…) di una ricchezza e varietà culturale che fa dell’Italia uno dei paesi europei più interessanti e dotati da questo punto di vista. Politica linguistica che al momento mi pare del tutto inesistente. E di cui temo ohimé non si percepisca nemmeno vagamente l’importanza cruciale da parte dei decisori politici, almeno finché la questione della formazione della popolazione italiana viene affrontata con la stucchevole litania “delle tre I” (impresa, internet, inglese). GLI ITALIANI E LE LINGUE 83 Dal rapporto finale e dal complesso delle indagine del Progetto LETitFLY emergono in conclusione due generi di cose. Cose di cui prendere atto, con maggiore o (spesso) minore soddisfazione. E cose su cui intervenire. Fra le cose grosse su cui intervenire, se si vuole effettivamente che anche questa ricerca-azione non resti un nuovo cumulo di carte accanto agli altri ma al contrario la crisalide si trasformi in farfalla e non degeneri a larva, vi sono a mio avviso certamente la diffusione motivante della consapevolezza dell’importanza delle lingue presso tutta la popolazione e il mondo imprenditoriale, e la promozione al tempo stesso di formazione non monocentrica, bensì rivolta a più lingue. Se è vero che abbiamo pur sempre di fronte il fatto positivo che l’atteggiamento verso le lingue correla molto con le classi di età ed è molto più favorevole presso i giovani, e questo come notava giustamente nel suo intervento Giuseppe Roma deve rendere ottimisti e, essendo quindi la motivazione media destinata ad aumentare, fa bene sperare per il futuro, è anche vero che non sarà male fornire a questo presumibile trend spontaneo una spinta, una forte spinta appoggiata a una politica linguistica finalmente in azione. IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA 85 IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA: BUONE PRATICHE E PROSPETTIVE Anna Maria Curci Vicepresidente LEND Ringrazio innanzitutto il comitato che ha organizzato questa giornata e il gruppo di progetto, con il quale Lend è da tempo in contatto, per averci dato la possibilità di incontrare il mondo del lavoro. Ce ne fossero di occasioni, sistematiche, di contatto e di collaborazione di questo tipo! Come insegnante in servizio ormai da decenni, sento sempre più drammatico il divario tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro, un divario che non è stato mai pienamente colmato neanche dalle pur lodevoli raccomandazioni che vengono regolarmente diramate attraverso direttive ministeriali, le quali insistono, per esempio, sull’opportunità di collegare progetti di istituto, didattici ed educativi, con il mondo del lavoro. Ben lontana da questa auspicata apertura è purtroppo la realtà quotidiana, che vede l’insegnante di buona volontà costretto ad affrontare le classiche dodici fatiche di Ercole per far approvare dalla dirigenza uscite e progetti di stage per i propri studenti. Provo subito a rispondere alle domande che sono state poste, dicendo dove si colloca Lend, Associazione di Lingue e Nuova Didattica, che opera in Italia dal 1971 e che raccoglie, su base volontaria, docenti dell’area linguistica, docenti di italiano L1 ed L2, docenti di lingue moderne e, anche se in misura minore, docenti di lingue classiche. Lend si colloca, o prova a collocarsi, in quell’area che il professor Berruto ha definito “tra il dire e il fare”. Quando vogliamo farci del bene, ci auto-definiamo professionisti riflessivi e proviamo a dare concretezza ai nostri studi così come a garantire una base di trasferibilità a quello che facciamo. Di cosa parlerò in questo intervento? Parlerò del progetto Leonardo ALPEC e di una fase particolare di tale progetto, così come delle proposte di Lend per la formazione linguistica e, soprattutto, per la formazione degli insegnanti di lingue. Stamattina, Maria Chiara Schir, che era qui in rappresentanza del Coordinamento delle 86 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Regioni, ma che fa parte della nostra associazione, essendo iscritta al gruppo Lend di Trento, sottolineava la necessità urgente di una prospettiva di rete in un’ottica di sistema. Come agganciarci a tutto questo? Dai dati forniti dal dottor Toma emerge che solo nel 12,4% dei casi sono stati attivati corsi di carattere innovativo e significativi per l’apprendimento delle lingue. Ed è quello che abbiamo provato a fare con il progetto Leonardo ALPEC. ALPEC è un acronimo che sintetizza la finalità principale del progetto: Apprendere le Lingue per Educare alla Cooperazione. Si tratta di un progetto che ci ha visti impegnati per alcuni anni e che ha avuto anche il riconoscimento del Label Europeo nell’anno 2005. Che cosa cercavamo di fare e che cosa abbiamo ottenuto lo vedremo adesso. L’obiettivo era di costruire dei moduli per l’apprendimento delle lingue italiano, francese e inglese, per i docenti coinvolti in progetti di cooperazione transnazionale. Chi è nel mondo della scuola sa quanto sia arduo se non addirittura imbarazzante, per un docente di lingua, proporre a colleghi di collaborare in uno scambio culturale, in un progetto europeo del programma Socrates (Comenius scolastico, linguistico o di sviluppo della scuola) e sentirsi rispondere: “va bene, ma se la lingua di comunicazione non è l’italiano, come facciamo a comunicare?”. Il personale amministrativo è anch’esso coinvolto direttamente o indirettamente nei progetti e sente spesso la necessità di poter partecipare più consapevolmente agli scambi linguistici. Di fronte a questa necessità urgente abbiamo cercato di offrire un’alternativa. Per costruire questi moduli e per finalizzare i nostri sforzi alla produzione di materiali efficaci e trasferibili, siamo partiti con un audit linguisticocomunicativo. Abbiamo usato questo strumento che viene dal mondo dell’impresa ed è dunque simbolo dell’osmosi – che noi, come associazione, cerchiamo in qualche modo di promuovere – tra mondo del lavoro e mondo della scuola. Abbiamo studiato anche la bellissima ed esauriente trattazione che la professoressa Franca Bosc ha redatto a proposito dell’audit linguisticocomunicativo come strumento di rilevazione. Non dimentichiamo che il termine “rilevazione dati” è la parola chiave di questa giornata! IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA 87 Abbiamo, dunque, usato questo strumento di controllo costruttivo, di guida e di orientamento, con le sue quattro funzioni: diagnostica, di controllo, di garanzia della qualità, di pianificazione. Ma come abbiamo raccolto questi dati? Li abbiamo raccolti in tre momenti importanti. Il primo è stato quello del questionario, rivolto alle scuole partner – ed io ho avuto la ventura di insegnare in una delle scuole partner del progetto, nella quale i moduli sono stati validati e dove si è cercato di concretizzare le attività, facendo entrare davvero nel mondo della scuola, inteso qui come comunità lavorativa, un progetto di formazione linguistica. Il questionario si proponeva di rilevare quali fossero, per ogni singolo istituto – altri istituti partner erano in Scozia e in Francia e dunque i nostri colleghi partner scozzesi e francesi hanno operato con modalità analoghe – le opportunità e le occasioni di cooperazione transnazionale e, da queste, capire quali fossero le necessità e i bisogni di affinare le proprie competenze linguistiche in determinati campi, in determinate situazioni. L’altro momento, che è stato anch’esso molto importante, finalizzato all’individuazione dei bisogni linguistico-comunicativi per la costruzione del questionario da somministrare, è stato focalizzato sull’osservazione sul campo. Si sono rilevati i dati proprio in occasione di un seminario transnazionale, che ha avuto luogo a Desenzano nel 2003, direttamente da docenti che provenivano da diversi paesi europei e che provavano a comunicare tra di loro sulla base di un progetto comune, l’educazione alla cittadinanza. Il terzo momento dell’audit è stato costituito dalle interviste su traccia. Queste ci hanno dato molte informazioni non solo sui bisogni, ma anche sui punti dolenti, riguardanti le situazioni che venivano considerate un po’ a rischio (come quelle del momento della negoziazione o quando ci manca la parola giusta) da parte dei docenti anche di discipline non linguistiche e dallo staff amministrativo della scuola. Un altro punto che mi sta a cuore è la dimensione culturale della lingua, un fattore che non andrebbe mai dimenticato. Credo che ciò che spesso ha limitato e impoverito l’apprendimento linguistico nel contesto istituzionale 88 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO della scuola, sia stato il fatto di finalizzarlo a soli scopi utilitaristici. Non sono completamente d’accordo con chi oggi ha affermato che c’è una tradizione troppo marcatamente umanistica nell’insegnamento delle lingue. Dipende: alcune lingue, come le lingue classiche, vengono tuttora insegnate con un approccio esclusivamente grammaticale-traduttivo e ignorano, per esempio, alcune procedure, che nella didattica delle lingue moderne sono state applicate con successo. In altri momenti, è stata invece la completa mancanza di riflessione sui meccanismi linguistici e la pressoché totale assenza di un modello di educazione linguistica integrata ad impedire una reale crescita del sapere linguistico plurilingue degli apprendenti e dunque una reale efficacia degli apprendimenti linguistici. Il progetto Leonardo ALPEC, non solo ha ricevuto il Label europeo ma, nelle realtà in cui è stato applicato, ha dato buoni frutti. Presso l’IRRE Lazio sono stati avviati, per il personale docente non dell’area linguistica, corsi di formazione linguistica con materiali Leonardo ALPEC, materiali che si sono rivelati tanto efficaci da essere trasferiti anche in altri contesti di apprendimento. Attualmente, ad esempio, ci si avvale dei moduli Leonardo ALPEC per insegnare l’italiano agli immigrati in Calabria. Per ciò che riguarda, invece, la formazione in servizio di coloro che poi andranno ad operare nei corsi di apprendimento linguistico, riprendo una frase della Dottoressa De Stefanis: “occorre studiare le dinamiche che presiedono l’apprendimento linguistico per poter rendere più efficaci gli interventi”. Non solo questo, non solo studiare le dinamiche che presiedono all’apprendimento linguistico, ma soprattutto lavorare in un’ottica di educazione linguistica integrata, vale a dire studiare e mettere in pratica la possibile trasferibilità di conoscenze e competenze da una lingua all’altra: sono questi gli ambiti in cui si gioca il futuro della formazione linguistica. Non solo studi, quindi, ma – per quanto mi riguarda e per quanto riguarda altri insegnanti che fanno capo a Lend e che lavorano nel mondo della scuola – anche l’adozione di pratiche di educazione linguistica plurilingue (intendendo, con educazione linguistica plurilingue, la promozione di un sapere linguistico integrato) si è rilevata efficace. Che cosa occorre, infine, per poter mettere in pratica tutto questo? Occorre IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA 89 che si investano risorse finanziarie adeguate nella formazione linguistica in servizio degli insegnanti e che gli insegnanti siano a loro volta disposti a mettersi in gioco, ad uscire dal proprio ambito disciplinare, spesso angusto, come si rivela drammaticamente ogni giorno di più alla prova di una realtà realmente multilingue e multiculturale. I docenti di una lingua straniera moderna, ad esempio, devono essere disposti ad imparare un’altra lingua straniera moderna, i docenti di italiano almeno due lingue moderne, come prevede per tutti i cittadini dell’Unione europea, già dal 1995, il Libro Bianco Insegnare e apprendere. Verso una società conoscitiva e come ribadisce la strategia di Lisbona. Questo affinché i docenti possano mettere in comune, per esempio, la terminologia per la descrizione dei fenomeni linguistici, e siano in grado di discutere con cognizione di causa sull’adozione di modelli di descrizione di una lingua. Anche perché, nella pratica, l’apprendente che studia inglese con una determinata insegnante, tedesco con un’altra, latino con un’altra ancora, che non comunicano tra loro, ha l’impressione di trovarsi di fronte a tre realtà linguistiche, cognitive, culturali e metodologiche completamente diverse, senza mai farsi sfiorare dall’idea che si tratta di tre sistemi linguistici che, come sottolineava Mario Wandruszka, il padre dell’interlinguistica moderna, hanno in comune almeno degli universali, sui quali varrebbe la pena di soffermarsi sistematicamente, oltre a una sorprendente quantità di punti di contatto determinati anche da precise vicende ed evoluzioni storico-culturali. Ricordo, infine, che sul sito www.lend.it è possibile consultare i moduli Leonardo ALPEC e anche materiali e informazioni sui gruppi di studio avviati sul plurilinguismo e sul profilo del docente di lingua in un’ottica europea. Potrete trovare, inoltre, informazioni importanti su un altro progetto, Poseidon - Apprendimenti di base, nel quale Lend, insieme alle associazioni ADI-SD, AICC e GISCEL, collabora attivamente con il Ministero della Pubblica Istruzione e con l’INDIRE. Il progetto Poseidon – che si propone, appunto, di superare il grande scoglio dei risultati drammatici per gli studenti italiani, risultati OCSE-PISA, in vista del raggiungimento degli obiettivi di Lisbona – è rivolto all’area degli apprendimenti linguistici e si propone, proprio con modalità di blended learning, cioè di formazione in servizio attuata come elearning integrato, di formare una comunità di 90 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO pratiche come quella che descrivevo poco fa e come quella che come insegnante in servizio auspico si attui urgentemente. LA SFIDA È FAR EMERGERE LA DOMANDA POTENZIALE 91 NELL’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE LA SFIDA È FAR EMERGERE LA DOMANDA POTENZIALE E DIFFONDERE L’APPRENDIMENTO PER TUTTO IL CORSO DELLA VITA Simonetta Caravita Dirigente 4° CTP Luigi Di Liegro - Roma Io non sono un esperto in senso stretto di formazione linguistica, ma sono da anni dirigente, oltre che di una scuola media che si occupa della formazione di base, anche di un Centro Territoriale Permanente per l’Istruzione e la Formazione in età adulta tra i più grandi della regione Lazio, e ho partecipato alla realizzazione di tutta la rete che si sta tessendo, in questo momento, nella nostra regione e a livello nazionale, per la diffusione e la qualificazione dell’“Educazione degli adulti” e da qui vorrei partire. L’indagine di cui si occupa la ricerca a cui è dedicata la giornata, è stata svolta sulla formazione linguistica, ma porta a delle conclusioni molto simili a quelle emergenti da altre iniziative, a livello più o meno generale. Ne cito due: una che trovo molto interessante che è quella dell’Isfol sull’offerta formativa nella regione Lazio, ed un’altra più specifica, che abbiamo condotto solo nella città di Roma, in occasione di una sperimentazione che vede la nascita dei primi Comitati Locali per l’Educazione degli Adulti. Queste indagini arrivano tutte ad una stessa conclusione: i desideri (di formazione) non sono i bisogni (di formazione). Le persone che sono portatori di bisogni di formazione, non li esprimono sotto forma di domande esplicite, non hanno, cioè, consapevolezza che la formazione serva a risolvere questioni personali di vita. Io faccio, ripeto, un discorso generale, perché non credo che il problema del rientrare in formazione per l’apprendimento della lingua, sia differente da quello per l’apprendimento informatico o quello che riguarda il drammatico calo delle competenze di base, quello che chiamiamo analfabetismo di ritorno, o, ancora, la definizione delle nuove soglie dell’alfabetismo funzionale oggi necessario per mettere ogni individuo in grado di agire nella vita privata, 92 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO nella società, nella attività lavorativa. Il problema è che ci troviamo di fronte al fatto che la popolazione, che non sia già acculturata, non individua nella formazione elemento per il miglioramento della propria condizione soggettiva di vita, che sia lavorativa, che sia relazionale, che sia di inserimento nella società. Ciò emerge diffusamente da varie indagini e dalle esperienze dirette svolte nei CTP, a livello nazionale. La maggioranza della popolazione non sembra intenzionata a migliorare le proprie conoscenze linguistiche e il 54,9% della popolazione italiana dichiara che sicuramente o probabilmente non le migliorerà. Per quanto riguarda la domanda potenziale di formazione linguistica, un quinto della popolazione ha intenzione di imparare una nuova lingua in futuro e questa propensione è più spiccata per chi ne conosce almeno una, quindi “piove sul bagnato”. Per questo, rispetto all’intervento della rappresentante del Lend, che da una vita conosco ed apprezzo per la sua azione di qualificazione dell’insegnamento delle lingue seconde, vorrei però precisare che l’attenzione centrale non deve essere l’alta formazione. Qui il problema è come si intercetta un bisogno implicito, cioè come lo si fa emergere come bisogno esplicito, consapevole, condiviso, facendolo incontrare con le adeguate risposte di formazione: come si fa diffusamente a far prendere consapevolezza che l’apprendimento, la padronanza di altre lingue è utile, oltre che necessario, per la “vita” (a tutto tondo) di un individuo. Mi permetto di dire che si deve partire dai bisogni funzionali, dall’utilità di conoscere una lingua, più che dalle strutture linguistiche o dalle meta-culture. Problema più specifico è quello dell’insegnamento dell’Italiano come Lingua 2 per gli immigrati e per i giovani cittadini stranieri che crescono in Italia provenienti da altre culture e altre lingue: il bisogno funzionale è, in questo contesto, chiaro, ma bisogna, come docenti, come sistema formativo, sociale e politico, vigilare (sapendolo fare) che non vengano cancellate le radici dei nostri immigrati e trovare il modo di rispettare le loro culture. Però ritengo che gli approcci debbano essere funzionali e contestuali. Se nel LA SFIDA È FAR EMERGERE LA DOMANDA POTENZIALE 93 processo di insegnamento ed apprendimento non si portano le persone a mettere a fuoco a che cosa serve una determinata cosa, l’obiettivo strategico posto da Lisbona 2000 (Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale) sarà più lontano proprio perché non compreso. Io, come già detto, sono dirigente di una scuola media in un quartiere come Casal Bruciato con alcune situazioni drammatiche e socialmente molto diversificato. Da quando c’è stato il passaggio, diffuso a tutti, allo studio della seconda lingua, devo fare costantemente una forzatura perché si studi questa seconda lingua europea perché la gente preferisce fare il “disegno tecnico” (cioè apprendimenti stereotipati) che lingue parlate e diffuse nell’Europa. È questa la realtà. Allora ci vogliamo misurare con il fatto che non c’è consapevolezza? Anche le indagine svolte sul versante delle imprese lo fanno capire, perché alcune arretratezze di tipo culturale, formativo hanno serie conseguenze sulle possibilità di diffusione della produzione. Io lavoro nel quinto municipio di Roma, dunque in un distretto in cui vi è una certa diffusione di strutture produttive piccole e medie. Con il Comitato Locale, abbiamo coinvolto sia l’Unione Industriale che il CNA: emerge che non vi è un interesse primario per l’internazionalizzazione delle imprese, eppure, nello stesso tempo, le piccole imprese di artigiani risentono per la diffusione dei loro prodotti, in quanto non riescono a comunicare, per esempio, con i cinesi e quindi non riescono ad esportare in Cina o in altri paesi. Allora il problema è di carattere politico, di politica culturale, di come raccordare la domanda inespressa con l’attivazione di nuovi percorsi formativi, di far emergere la domanda potenziale. La questione generale sottesa al rientro in formazione di persone adulte, non è tanto il bisogno, perché il bisogno c’è, ed è espresso, ad esempio, attraverso parole come “voglio vivere meglio”, “voglio guadagnare di più”, “voglio fare più serenamente il mio lavoro”, “voglio dare un senso al mio lavoro”, e 94 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO dal lato del datore di lavoro, “voglio essere più produttivo”, ecc., quanto sostenere l’individuazione di corrette risposte a tali “aspirazioni”, rilevare e far emergere progetti di crescita personale e/o professionale, arrivare a costruire via via, in modo rispettoso, delle individualità e delle esperienze personali, un quadro delle conoscenze e delle competenze che i progetti mettono in gioco, quelle che si hanno già e quelle da acquisire. La questione fondamentale dell’educazione degli adulti è quella di consentire ad ogni persona di rendersi conto che si può imparare ad imparare. L’attenzione si deve spostare sull’apprendere l’apprendere, su come un soggetto deve comprendere che si deve formare in continuazione e che lo può fare facendo leva sulle sue risorse. In questo la nostra scuola ordinaria spesso perde occasioni formative serie: per cui le esperienze di formazione destinate agli adulti non devono essere disgiunte da quelle destinate in termini di scelte metodologiche e di scelte organizzative e che devono caratterizzare la scuola dell’autonomia nei percorsi di prima formazione. LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA Parte II Esperienze europee a confronto 95 LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 97 LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA1 Audra Daubariene Kaunas University of Technology Il presente intervento descrive quanto segue: - L’insegnamento formale delle lingue straniere in Lituania a livello secondario e terziario; - Le principali caratteristiche della formazione linguistica nel settore dell’educazione non-formale; - Il fabbisogno di formazione linguistica nel mercato del lavoro; - Gli attuali fabbisogni linguistici nell’ambito dell’educazione terziaria in relazione alle opportunità professionali. L’insegnamento delle lingue straniere in Lituania nella scuola secondaria Successivamente alla riconquista dell’indipendenza da parte della Lituania, avvenuta 16 anni fa, la domanda di formazione linguistica si è ampliata e al contempo è radicalmente mutata. La società lituana ha compreso l’importanza delle lingue straniere e, di conseguenza, ha manifestato un crescente bisogno di formazione linguistica. Una rapida crescita economica e l’ingresso nell’Unione europea hanno diversificato le opportunità professionali all’interno del mercato del lavoro lituano e dei paesi dell’Unione. La conoscenza delle lingue straniere è necessaria non soltanto per coloro che vogliono lavorare all’estero, ma anche per coloro che cercano lavoro nelle aziende straniere, o a partecipazione internazionale, presenti in Lituania. Analogamente a quanto avviene in altri paesi, questo nuovo interresse per le lingue straniere è in primo luogo un interesse per la lingua inglese, sebbene l’offerta, tanto in termini di educazione formale quanto all’interno dei circuiti non-formali, sia piuttosto variegata. 1 La traduzione italiana è di Lara Sorrentino. 98 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Per questi motivi, l’insegnamento delle lingue straniere nell’ambito dell’educazione secondaria ha subito riforme radicali a partire dal 1992. Le mutate condizioni sociali hanno spinto gli educatori ad aggiornare l’offerta linguistica, dando la priorità alle lingue dell’Europa occidentale e fornendo la possibilità di imparare anche due o tre lingue straniere. In questo contesto, lo studio del russo si è significativamente ridimensionato, mentre nuove metodologie didattiche sono state introdotte. Mutando i curricula d’insegnamento delle lingue straniere, ed enfatizzate le competenze linguistiche socio-culturali e comunicative, sorgeva l’esigenza di produrre nuovi materiali didattici e talvolta era necessario mutuarli da editori inglesi, francesi, tedeschi. Senza dubbio, possiamo affermare che le lingue straniere costituiscono la parte dei programmi d’insegnamento che più di tutte ha subito modifiche nei metodi e nei contenuti. Spesso sono stati adottati modelli, metodologie e pratiche didattiche già in uso in altri paesi. Tuttavia, nell’ambito delle pratiche scolastiche quotidiane il cambiamento è stato più lento, e i metodi tradizionali per l’insegnamento delle lingue, incluso quello basato su “grammatica e traduzione”, persistono talvolta in aula o nei libri di testo, anche se si tratta di fenomeni più rari. Sebbene lo status della lingua russa sia radicalmente mutato, e molti insegnanti di russo abbiano dovuto cambiare professione o specializzazione (alcuni hanno sostituito alla propria qualifica quella di docente di altra disciplina), il russo come lingua straniera ha mantenuto una posizione piuttosto forte nelle scuole della Lituania. Dal momento che nella scuola primaria (dalla 6ª alla 10ª classe) è obbligatorio studiare una seconda lingua, gli allievi scelgono l’inglese come prima lingua straniera e il russo come seconda lingua. Diversi fattori spiegano la posizione che il russo ancora mantiene nelle scuole: disponibilità di insegnanti, genitori che a loro volta hanno appreso il russo a scuola e sono dunque in grado di aiutare i ragazzi con i compiti a casa; inoltre, il russo è utilizzato come lingua di lavoro in alcune aziende o settori professionali. Sebbene la combinazione inglese-russo limiti il campo delle scelte linguistiche, molti ritengono che tale combinazione sia utile alle nuove LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 99 generazioni per sviluppare contatti con l’Europa e per offrire opportunità professionali. Il futuro dirà in che misura questa scelta si riveli efficace. I documenti ufficiali enfatizzano l’importanza delle lingue straniere nei mutamenti oggi in atto nella società lituana, sottolineando che le conoscenze linguistiche sono fondamentali non soltanto per lo sviluppo e la crescita economica, ma anche per l’arricchimento culturale, lo scambio e la condivisione di informazioni e di valori civili, l’integrazione delle competenze. Le tendenze nella scelta delle lingue. Le peculiarità del sistema lituano: - Lo studio della prima lingua straniera può cominciare dalla 2ª classe, anche se diviene obbligatorio a partire dalla 4ª classe; - La seconda lingua straniera è obbligatoria dalla 6ª alla 10ª classe; - La terza lingua straniera non è obbligatoria nella scuola secondaria; - Il tempo dedicato all’insegnamento della lingua straniera può essere di 24 ore settimanali. La scuola secondaria Come ho già detto, l’inglese domina come prima lingua straniera studiata. Nel periodo 2001-2003 il numero di studenti che hanno scelto l’inglese come prima lingua è cresciuto dal 77,6 all’83,2%. Nello stesso periodo, la scelta del tedesco come prima lingua è diminuita dal 18,5 al 14,1%, e quella del francese dal 3,9 al 2,7%. Anche la scelta della seconda lingua ha subito dei cambiamenti, ma è tuttavia più stabile. Il russo domina come seconda lingua (nel periodo 20012003 è passato dal 74,8 al 74%; la scelta del tedesco è passata dal 14,5% nel 2001 al 15,3% nel 2003). È probabile che il tedesco si diffonderà sempre più come seconda lingua straniera studiata, anche se sta perdendo popolarità come prima lingua. Non abbiamo molti dati in merito alle opzioni relative alla terza lingua. 100 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Siamo qui, infatti, nell’ambito delle scelte operate dagli studenti che intraprendono studi umanistici. Anche in questo caso, la prima lingua viene scelta tra le solite quattro: inglese, tedesco, francese e russo. Altre lingue, come lo spagnolo, l’italiano, il danese, lo svedese, il polacco, il lettone costituiscono una percentuale molto piccola della seconda e terza lingua studiata. Scuole professionali Circa il 30% degli studenti appartenenti al relativo gruppo di età studia in scuole professionali. L’inglese come prima lingua straniera costituisce qui il 56,3%, il russo circa il 30,3%, il tedesco il 25,2%. Più dell’80% degli studenti impara solo una lingua straniera. Educazione superiore La situazione in questo ambito è molto diversa. Il numero degli studenti che studiano una o due lingue è assai elevato, il che prova l’esistenza di motivazione e interesse a lungo termine per la formazione linguistica, dal momento che lo studio della lingua straniera non è necessariamente richiesto in tutti i programmi di studio. Di nuovo domina l’inglese, mentre il tedesco recupera terreno, rispetto al russo, come seconda lingua straniera. Educazione non-formale e apprendimento delle lingue straniere in età adulta. Possibilità di formazione permanente nell’ambito delle lingue straniere Il concetti di formazione permanente e società dell’apprendimento sono diventati importanti non solo in Europa, ma anche in Lituania. L’Associazione Lituana per l’Educazione degli Adulti, fondata nel 1992, ha prestato particolare attenzione alle possibilità di sviluppo della formazione permanente nell’ambito delle lingue straniere. Nel 2000-2001 il numero degli utenti degli istituti formali per l’educazione degli adulti è stato di 15.272. Di questi, 7.299 hanno scelto l’inglese come LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 101 prima lingua straniera, 4.117 il tedesco, 516 il francese, 3.340 il russo. Non possediamo i dati relativi al numero degli utenti adulti di corsi di lingua straniera all’interno di istituti nel settore dell’educazione non-formale. Prima di partecipare a questo Convegno, ho personalmente cercato sulle pagine gialle tutte le scuole di lingua lituane (56). Nell’ambito dell’offerta di corsi di lingua straniera, l’inglese è ancora una volta al primo posto, seguito dal tedesco e dal francese. Nelle due principali città del paese, Vilnius e Kaunas, si riscontra il maggior numero di lingue straniere offerte: inglese, tedesco, francese, spagnolo, italiano, danese, svedese, norvegese, giapponese, polacco. In altre tre città universitarie, Klaipeda, Siauliai e Panevezys, l’offerta include anche lingue diverse dalle tre principali. Per le città più piccole, che hanno una sola scuola di lingue, l’offerta si limita a una o due lingue straniere. Ma l’aspetto più interessante da osservare è che nessuna di queste scuole propone corsi di russo. Molto spesso, accanto a corsi generici, le scuole offrono corsi specialistici, ad esempio corsi di lingua business. Fabbisogni linguistici nel mercato del lavoro Il Ministero dell’Educazione e della Scienza ha commissionato all’Istituto per la Ricerca Sociale e del Lavoro un’indagine su 600 imprese o istituti e 480 lavoratori con grado di istruzione universitario, al fine di determinare i fabbisogni e le aspettative del mercato del lavoro lituano, da un lato, e dei laureati dall’altro. I risultati dell’indagine sono stati sintetizzati nello studio “Competitività dei laureati nel mercato del lavoro nel contesto della domanda e offerta d’impiego” (Gruzevskis et al., 2003). Lo studio rivela che un gran numero di datori di lavoro (135) è insoddisfatto del livello di formazione pratica dei laureati. Secondo loro, occorrerebbe perfezionare i seguenti aspetti dell’educazione terziaria: - applicazione pratica delle conoscenze teoriche; - adattamento delle qualifiche professionali alle esigenze del mercato del lavoro e dell’economia; PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 102 - aggiornamento dei programmi e delle metodologie didattiche; - a completamento delle qualifiche professionali, una maggiore attenzione dovrebbe essere dedicata alle lingue straniere, alla psicologia e all’etica professionale, elementi basilari per la comunicazione e il lavoro di squadra. Dalle risposte dei lavoratori, risulta che la maggior parte dei laureati in discipline umanistiche (72%) ritiene di aver ricevuto un’adeguata formazione all’università, mentre solo il 52,1% dei laureati in ingegneria ritiene che il percorso universitario abbia fornito loro un’adeguata formazione professionale. In generale, i maggiori inconvenienti della formazione universitaria messi in luce dai rispondenti laureati negli anni 1996-2002 riguardano il mancato raggiungimento di un buon livello di conoscenza delle lingue straniere (61,7%), la mancata acquisizione di conoscenze giuridiche di base (50%) e di competenze tecnico-professionali (41,7%). Secondo i risultati dell’indagine, più della metà dei lavoratori rispondenti vorrebbe migliorare la propria formazione frequentando corsi professionalizzanti o di specializzazione. La maggiore domanda formativa espressa dai rispondenti riguarda il miglioramento di competenze relative a: - lingue straniere (– 28,9%); - direzione e gestione d’impresa (– 22,6%); - qualifiche professionali (– 15,6%); - psicologia (– 5,6%); Simili opinioni sono state espresse dai datori di lavoro. Secondo loro, il personale necessiterebbe di ulteriore formazione nell’ambito di: - direzione e gestione d’impresa (– 34,3%); - qualifiche professionali (– 24,5%); - lingue straniere (– 23,8%); - informatica (– 21,7%); - psicologia, etica (– 16,8%). LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 103 La necessità di migliorare le competenze linguistiche è pertanto considerata fondamentale da una gran parte dei rispondenti tanto sul lato dei datori di lavoro quanto su quello dei lavoratori, e le lingue straniere sono considerate molto importanti nel mercato del lavoro lituano, sebbene non vi siano studi specifici su quali siano le concrete qualifiche e competenze richieste. Sin dal primo stadio della privatizzazione, diverse aziende straniere hanno investito in Lituania, creando nuove sedi o avviando joint venture. La maggior parte dello staff aziendale è in questi casi costituito da personale locale specializzato, ed è pertanto naturale che si ponga il problema della competenza linguistica. Al fine di conoscere gli indirizzi e le strategie linguistiche delle imprese internazionali operanti in Lituania sono stati intervistati rappresentanti di Telecom (T), Omnitel (O) Kraft Foods Lithuania (K), Castrol (C) e Degussa (D). Agli intervistati sono state poste le seguenti domande: 1. Una buona conoscenza delle lingue straniere è un requisito obbligatorio per ottenere un impiego nell’azienda? 2. La buona conoscenza delle lingue straniere è un fattore importante per la carriera? 3. È richiesta una certificazione degli esami/test di lingua svolti? 4. Vengono organizzati corsi di lingua per i dipendenti dell’azienda? 5. Quali competenze linguistiche sono maggiormente necessarie all’impiego in azienda – comunicazione orale, lettura, scrittura? Le risposte date mostrano che, in tutte le aziende sopra citate per accedere agli impieghi amministrativi è richiesta la buona conoscenza di una lingua straniera (principalmente l’inglese), formalmente (O, K, C, D) o informalmente (T). In molti casi il colloquio di assunzione si svolge in inglese. Parlare correntemente l’inglese rappresenta un fattore decisivo per la carriera, poiché orienta la selezione dei candidati per le sessioni di formazione all’estero, che conducono a ottenere più elevate posizioni 104 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO lavorative. E naturalmente, più elevata è la posizione, maggiore è il contatto con stranieri, perciò se non si conoscono le lingue non è possibile comunicare. Comunque, laddove ci sia un numero sufficiente di risorse in grado di parlare l’inglese correntemente, la competizione si sposta su altri ambiti professionali. Alla domanda numero 3, gli intervistati hanno risposto che formalmente non è richiesto alcun certificato attestante la conoscenza di una lingua straniera, perché ciò che importa non è la qualifica ma le competenze dimostrate nella pratica. Le aziende investono in formazione del personale, e organizzano corsi di lingua durante l’orario di servizio; può anche accadere che le risorse umane più preziose vengano inviate all’estero per corsi di lingua intensivi. Alla richiesta di indicare quali siano le abilità linguistiche necessarie, gli intervistati sottolineano l’importanza di tutte le competenze, e in primo luogo dell’abilità comunicativa. Riassumendo, si può dire che le imprese si aspettano che i candidati parlino correntemente almeno una lingua straniera (di solito l’inglese) e tengono conto delle competenze linguistiche nella promozione dei dipendenti, sebbene non siano formalmente richieste certificazioni che attestino il livello di conoscenza. I corsi di lingua sono di solito organizzati regolarmente a spese dell’azienda. Ovviamente, un simile sistema di formazione del personale può essere sostenuto soltanto in aziende di grandi dimensioni e di successo, mentre le aziende più piccole si rivolgono spesso a servizi esterni di traduzione/interpretariato, tradizionalmente forniti da linguisti/insegnanti di lingue straniere. Gli attuali fabbisogni linguistici nell’educazione terziaria in relazione alle possibilità di carriera Nel 2004, nell’ambito del progetto quadro TNP3, è stata condotta un’indagine mediante questionario tra i laureati di università lituane (N=49). LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 105 Il questionario mirava a ottenere informazioni sulle competenze linguistiche possedute e sulla loro attinenza alle esigenze del lavoro. Di seguito sono riportate alcune delle domande e delle risposte al questionario. Tab. 1 – Risultati dell’indagine sui laureati in Lituania La formazione nell’ambito delle lingue e della comunicazione fornita dall’Università si è rivelata adeguate al tuo lavoro? % Abbastanza adeguata 35 Perfettamente adeguata 24 Non molto adeguata 22 Per niente adeguata 19 Le competenze linguistiche ti hanno aiutato a ottenere l’attuale lavoro? Sì: 40% Per la tua carriera, sarebbe importante imparare una nuova lingua straniera? Sì: 60% È ovvio che il numero dei rispondenti è troppo esiguo per definire una tendenza generale. Tuttavia, i risultati dimostrano che gli studenti odierni sono attivamente europei, ed acquisiscono ulteriori competenze linguistiche frequentando corsi al di fuori dell’università o andando all’estero; nel lavoro, utilizzano molto spesso le lingue straniere. In molti casi, la lingua straniera è importante per la carriera dei laureati. Comunque, le risposte date rivelano che i laureati non giudicano particolarmente elevato il proprio livello di competenza linguistica e non sono particolarmente soddisfatti delle competenze acquisite all’università. Il questionario mirava anche a rivelare quali competenze linguistiche siano più importanti per il lavoro. In particolare, sono state prese in considerazioni le seguenti abilità linguistiche: - Comprendere e interagire in situazioni lavorative (ad esempio: accogliere un visitatore, telefonare, viaggiare, parlare del proprio lavoro, etc.); - Lavoro di squadra, ad esempio sul luogo di lavoro nelle situazioni di problem-solving o progettazione; PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 106 - Navigazione in rete e collaborazioni in ambiente virtuale; - Leggere e scrivere e-mail e brevi testi di ambito lavorativo (come appunti, brevi report, pagine web, etc.). I partner del progetto TNP3, in seguito alle indagini esplorative portate avanti nei relativi paesi d’origine (inclusa la Lituania), hanno definito quali abilità e competenze linguistiche debbano essere considerate essenziali per i professionisti che vogliano diventare a tutti gli effetti membri della società dell’Unione Europea. La tradizionale “conoscenza linguistica”, tanto della lingua madre che della lingua straniera, è considerata in una prospettiva più ampia, e copre abilità e competenze che più spesso sono identificate come cognitive o psicologiche piuttosto che propriamente linguistiche. “Il fabbisogno linguistico” è inteso come un concetto di ampio respiro che include: - conoscenza del sistema della lingua; - capacità di utilizzare praticamente quel sistema in diversi contesti e per vari scopi, il che implica che la conoscenza linguistica e la capacità di comunicare sono legate tanto a competenze generiche della comunicazione interpersonale e strategica, quanto a competenze soggettive e specifiche; - capacità di aggiornare le competenze linguistiche e interculturali nel tempo (formazione continua). Conclusioni Gli odierni mutamenti sociali ed economici in Lituania hanno generato nuove sfide ed esigenze relativamente alle competenze linguistiche e alle abilità comunicative. Il mondo accademico ha dovuto affrontare il problema di adattare i programmi ai fabbisogni del mercato del lavoro e ha dovuto cercare soluzioni insieme alle parti interessate, a livello nazionale e internazionale. I pochi studi condotti nel campo della formazione linguistica a fini professionalizzanti ci permettono di giungere alle seguenti conclusioni: LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 107 ‐ I programmi di lingua e formazione interculturale devono essere basati sulle reali esigenze del mondo del lavoro. Ciò richiede un dialogo costante tra istituzioni e imprese nella definizione dei contenuti didattici; ‐ È necessario un incremento nell’ambito della ricerca empirica; ‐ Bisognerebbe prevedere e promuovere la possibilità di scegliere percorsi didattici personalizzati nell’ambito dei moduli linguistici nei programmi di studio universitari; ‐ Bisognerebbe istituire un forum permanente che metta insieme accademici, imprese e associazioni di lavoratori al fine di garantire una reale formazione nell’ambito delle lingue straniere e della comunicazione interculturale a fini professionalizzanti. Bibliografia Thematic Network Project in the Area of Languages III (TNP3), (2003‐2006) www.fu‐berlin.de/tnp3 TNP3 National Reports (2004) http://web.fu‐berlin.de/tnp3/consultation/sp2.html RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 109 RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO Rosanna Sornicola Università degli Studi di Napoli Federico II 1. Alcuni problemi della pianificazione linguistica I processi di integrazione europea dell’ultimo ventennio hanno giustamente sollecitato un crescente interesse per gli aspetti linguistici in essi implicati. Lo studio delle situazioni di mono- o plurilinguismo dei singoli stati dell’Unione, in rapporto alle diverse tradizioni scolastiche, ai diversi bisogni comunicativi delle società dei paesi europei e ai loro diversi adattamenti alle nuove sollecitazioni che provengono dalle normative europee, costituisce da molto tempo un dominio di ricerca caratteristico della sociolinguistica e della cosiddetta “pianificazione linguistica” (language planning). È senza dubbio molto importante che tale studio travalichi gli ambienti scientifici e diventi un problema all’attenzione di governi e opinioni pubbliche. Questo passaggio non è, però, ovvio né facile. Gli orientamenti delle politiche linguistiche di singoli paesi o di istituzioni sovrastatali, come l’Unione europea, sono spesso mossi da aspirazioni ideali o da esigenze politiche che poco hanno a che vedere con le dinamiche linguistiche reali di una società, cioè con i comportamenti effettivi degli individui, con i loro atteggiamenti verso la lingua nazionale e le altre lingue, che costituiscono sempre la spia di più complessi atteggiamenti culturali. Ma c’è di più. Le politiche linguistiche possono essere scollegate e quindi inefficaci rispetto alle esigenze e agli interessi reali di un paese, che variano a seconda della geografia e storia di questo e di condizioni di contesto economico e culturale. I problemi di pianificazione linguistica che pone un paese come l’Italia possono essere molto diversi da quelli che si pongono per la Gran Bretagna. La convergenza di una popolazione verso il multilinguismo può essere considerata un sommo bene, ma di per sé, come aspirazione priva di articolazioni concrete, non è che un principio ideologico vuoto. Se una forma mentis tipicamente romantica ci ha abituati a pensare che 110 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO la lingua sia uno degli aspetti fondanti di una nazione, potrebbe essere una banale ovvietà che un’unione politica sovranazionale desideri e promuova, accanto alla coesistenza e all’integrazione economica, culturale e politica tra stati, la coesistenza e la diffusione delle rispettive lingue. Ma questo obiettivo è molto problematico. La costante Paese = lingua non è generale. Esistono società che per secoli hanno vissuto senza tale questa equazione: tutti i grandi imperi, da quelli dell’Oriente antico a quello romano, dall’impero austriaco a quello russo. Ciò accade anche in paesi di dimensioni ben più ridotte, come la Svizzera. Il problema si è posto in modo diverso anche nelle colonie europee dei secoli scorsi. In questo caso i dominatori hanno usato senz’altro le loro lingue senza alcun riguardo per le competenze linguistiche dei loro sudditi, ai quali non restava che adeguarsi. Ciò ha portato nel lungo periodo all’adozione delle lingue europee dei colonizzatori da parte dei colonizzati, come è avvenuto ad esempio in America del sud, o almeno al suo uso come lingua amministrativa, come è accaduto ed accade in Africa. Il caso più interessante è forse l’India, che a differenza di altre colonie era paese di più lingue, spesso di grande diffusione e di antica e prestigiosa cultura. Ma anche qui l’inglese è risultato il collante indispensabile di un paese così vasto e complesso e, dopo l’indipendenza, è rimasto in uso tra larghe fasce della popolazione, quelle di maggior peso politico, sociale ed economico. L’Unione Europea si trova in una situazione diversa. Alcune delle lingue in essa parlate sono comuni a più stati membri (l’inglese, il francese, il tedesco), ma accade anche, spesso, che all’interno di un singolo stato membro si usi più di una lingua, come in Spagna, in Belgio ed in Irlanda. La politica dell’Unione ha affermato e difeso la pari dignità di tutte le lingue nazionali, ma non è ancora riuscita a risolvere in modo soddisfacente il problema delle lingue minoritarie. Non è dunque un’eccezione la situazione dell’Italia, che si articola in una molteplicità di identità regionali, spesso antiche e radicate. Si sa che la stessa diffusione dell’italiano come lingua parlata da tutti è un fenomeno degli ultimi cento anni. Il fatto è che dinamiche linguistiche reali e interessi concreti hanno una ineliminabile dimensione storica e pratica. In pochi settori, come nella RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 111 pianificazione linguistica, i politici/legislatori corrono un rischio così grande di cadere in una sterile astrattezza che rimane lettera morta, o – peggio – di non intercettare “il fabbisogno” effettivo e perdere opportunità che hanno una complessa dimensione culturale ed economica. Sarebbe però ingenuo ritenere che, in generale, ci sia una relazione diretta tra aumento delle conoscenze linguistiche (maggiore diffusione della conoscenza di più lingue) e benefici economici per l’intera società. Certo, è evidente che tra potenziamento delle competenze linguistiche e vantaggi industriali e commerciali possono sussistere legami stretti. In provincia di Como, le fabbriche che lavorano la seta sono interessate ad assumere personale che abbia una conoscenza del cinese, ed esempi di questo tipo potrebbero essere moltiplicati senza difficoltà per industrie o attività commerciali con altri paesi, tanto più per industrie che hanno delocalizzato la produzione in aree diverse del mondo. Ma questa pur importante dimensione commerciale e industriale è solo una parte di un problema più ampio. Non si tratta infatti solo di garantire che una società avanzata abbia i “tecnici” di settori linguistici che permettano il funzionamento di attività o iniziative economiche (nei paesi in cui le istituzioni universitarie svolgono ruoli di programmazione effettivamente agganciati alle esigenze del mercato del lavoro, un tale compito è assicurato da queste). Nelle società della conoscenza contemporanee, le competenze linguistiche e il plurilinguismo sono un aspetto di un più complessivo funzionamento, da cui dipende la formazione delle identità degli individui e delle società. Infatti, i singoli ed i gruppi si riconoscono nella propria lingua, ne assumono il retaggio culturale e le forme di pensiero. Le capacità linguistiche, d’altra parte, condizionano profondamente le possibilità degli individui. È chiaro che coloro che rimangono monolingui non hanno la possibilità di accedere a certi ruoli sociali ed economici, che di fatto restano riservati a chi invece dispone delle necessarie conoscenze linguistiche. Per evitare che questi condizionamenti provochino una pericolosa, eccessiva, stratificazione della nostra società e ne impediscano la mobilità interna, non è possibile che i governi si disinteressino della questione. Ci sono poi questioni meno “oggettive”. L’interesse per le lingue si collega ad una dimensione immaginaria e simbolica che esprime valori e aspirazioni relativi a chi si vorrebbe essere, e 112 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO a come si vorrebbe vivere. È questa dimensione che può innescare potenti processi di trasformazione e innovazione a livello individuale e sociale. Se il dirigismo politico in materia linguistica offre i rischi poco fa menzionati, dovremmo concludere che le politiche di pianificazione linguistica siano inutili, e che bisognerebbe adottare anche per le lingue il vecchio detto del liberalismo classico, laissez faire, laissez passer? Dopotutto, proprio una cospicua parte dei risultati emersi dalla ricerca LETitFLY ha dimostrato l’esistenza sul territorio italiano di un’ampia gamma di gruppi e associazioni della società civile che operano nei settori della formazione linguistica, fornendo servizi differenziati e in non pochi casi valutabili in maniera positiva o molto positiva. D’altra parte, preoccupa che, sempre tra i risultati della ricerca, emerga una bassa percentuale di attività di formazione linguistica da parte delle piccole e medie industrie. In definitiva, come in tutte le scienze sociali, si pone un problema di metodo: è fondamentale conoscere per intervenire. In questo senso, il Progetto LETitFLY è stato una occasione preziosa per la comprensione della situazione italiana e l’ampia gamma di risultati che esso ha fornito è importante sia per chi ha responsabilità politiche di pianificazione che per i membri del mondo della ricerca. 2. L’Europa, un gigante con i piedi di argilla È stato spesso notato negli ultimi anni, negli ambienti inglesi e americani “euroscettici”, che un problema tutt’altro che secondario, che costituisce una seria difficoltà all’integrazione europea, è la questione linguistica. Alcuni si sono spinti a sostenere che di tutte le difficoltà che l’Unione ha davanti, questa sia una delle più insidiose, una sorta di mina vagante che potrebbe seriamente infirmare le basi dell’integrazione. Questo punto di vista ha trovato un’espressione sintetica nella metafora dell’Europa come un gigante dai piedi di argilla, costituiti per l’appunto dal problema linguistico. Sono molte le domande che ci si può porre. La prima riguarda una questione che i linguisti considererebbero sostanziale: la diversità linguistica del continente europeo è, nelle concrete realtà comunicative individuali, sociali e RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 113 istituzionali, davvero un handicap? Bisogna naturalmente distinguere i primi due livelli dal terzo. Come mostrano numerose esperienze extraeuropee – ad esempio quella, poco fa ricordata, del sub-continente indiano, dove coesiste da secoli un'impressionante diversità di lingue e culture – la comunicazione individuale e sociale può non essere affatto impedita da una forte diversità linguistica. Esistono infatti meccanismi naturali o spontanei di adattamento comunicativo che individui e gruppi sociali mettono in atto. Si vedono qui tutte le potenzialità dell’apprendimento spontaneo in rapporto alle spinte di motivazione o interesse, potenzialità ben osservabili anche nei gruppi di lavoratori transnazionali e negli emigrati che hanno propensione ad integrarsi nel paese di arrivo. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati sia per situazioni del passato che del presente. La questione della comunicazione a livello istituzionale spinge a porre ulteriori problemi. È qui che emergono aspetti politici ed ideologici tutt’altro che trascurabili. Le due serie di aspetti sono ovviamente collegate. L’ideale della “unità nella diversità”, che ha accompagnato il processo di integrazione europea e che costituisce da secoli un’aspirazione delle élites intellettuali e politiche del continente, si riflette nella tendenza a rispettare le diverse identità linguistiche e culturali e a considerarle come un valore aggiunto. Questa concezione è parte sostanziale dell’idea di cittadinanza europea. In effetti, bisogna ammettere che la situazione linguistica che si è venuta a creare con l’unificazione europea non ha paralleli storici, perché non ha paralleli l’esperienza storica e politica corrispondente. Il monolinguismo istituzionale di molte società occidentali, che pure hanno al loro interno, in maniera diversa, plurilinguismi sociali e/o regionali, riflette una concezione antiquata di stato e di cittadinanza. Si capisce dunque quale corda profonda della mentalità europea tocchi il problema del rapporto tra cittadinanza e rappresentazione linguistica. Garantire uguali diritti di cittadinanza comporta garantire le identità linguistiche di tutti i 25 paesi dell’Unione. Questo ideale si scontra con numerose difficoltà di applicazione pratica. Ne menziono solo due, evidenti e ben note: il problema della traduzione in tutte le lingue dell’Unione delle leggi europee e quello delle lingue di lavoro dell’amministrazione centrale europea. Come osserva l’Economist in un articolo del 13 dicembre 2006, “Brussels politicians… seldom admit… that 114 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO languages are a logistical and expensive headache, as well as a cause of nationalistic squabbles”. Il punto di vista del settimanale britannico può essere espresso nel caratteristico stile disincantato e tagliente, ma è difficile negare che abbia del buon senso. Ad alcuni, le politiche linguistiche dell’Unione sembrano comprensibilmente un rompicapo in cui – oltre alle difficoltà di pianificazione linguistica di società e amministrazioni sofisticate – entrano in gioco mentalità e tradizioni culturali nazionali del tutto eterogenee. Gli auspici e le raccomandazioni generali espressi al riguardo negli ultimi dieci anni dalla Commissione Europea sembrano in verità molto generici e poco concreti. Se si vogliono superare queste genericità, bisognerebbe riconoscere che il problema della politica linguistica dell’Unione è una delle aree in cui il passato delle varie nazioni è ancora ben vivo e impedisce la formazione di convergenze su questioni concrete. In effetti i possibili regimi linguistici concepibili per l’Unione europea sono molteplici. Uno studio francese ne contempla ben sette. Se tutti, compresi gli stessi Inglesi, si dichiarano contrari al regime “monarchico” (dominio di una sola lingua), le opinioni sul da farsi differiscono fondamentalmente. È stato giustamente notato da Ammon che, all’aumentare della diversità linguistica istituzionale, si rischia di fare il gioco delle lingue di monopolio, in particolare dell’inglese. D’altra parte, come lo stesso Ammon osserva, la situazione di plurilinguismo può essere così stressante per i parlanti che essi si orientano spontaneamente verso il monolinguismo. In ogni caso, il principio della pari dignità impone un complesso e costosissimo sforzo organizzativo. 3. Difficoltà dell’interpretazione dei dati “di ambiente” in interventi di pianificazione linguistica Ma anche conoscere, per quanto riguarda i fatti linguistici, è meno facile di quanto si creda. Come in tutte le scienze sociali, è complicato interpretare atteggiamenti e comportamenti. Pertanto, una seria politica linguistica deve tenere in conto numerosi fattori. In generale, è da tempo ben noto alla ricerca scientifica che nei processi di acquisizione/apprendimento esiste una grande variabilità individuale. Al livello del singolo parlante, le condizioni “di RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 115 ambiente” dipendono da parametri come l’età dell’esposizione all’acquisizione/apprendimento, le capacità individuali di stabilizzare le competenze linguistiche o farle regredire sotto condizioni d’uso diverse, e le specifiche motivazioni psicologiche, fattore quest’ultimo giustamente ritenuto di fondamentale importanza. Ma possono esserci altre differenziazioni a seconda dell’età, del sesso, dell’etnia di appartenenza dei parlanti. Ulteriori condizioni in gioco riguardano le cosiddette abilità linguistiche. Non si dovrebbe mai sottovalutare l’ampio scarto che può sussistere nello stesso parlante tra acquisizione/apprendimento di abilità di lettura, di ascolto, di fluenza nella conversazione, di capacità di scrittura. Fondamentale è anche il tipo di apprendimento (naturale vs guidato, e inoltre scolastico vs non scolastico). Né si può sottovalutare quali siano le finalità per cui si stimola e promuove l’apprendimento. Una pianificazione linguistica su larga scala richiederebbe lo sviluppo di progetti articolati in dettaglio rispetto a tutte queste coordinate. Ancora più complessi sono i fattori macro-sociolinguistici. S’intende che le situazioni sono assai diverse da paese a paese e a volte anche all’interno dello stesso paese. Non tutti i partner europei arrivano all’appuntamento dell’integrazione linguistica nella stessa maniera, per ragioni storiche, per ragioni geografiche, per ragioni culturali. Ho accennato prima alla circostanza che all’interno dell’Unione europea vi sono paesi a identità multipla, per ragioni storiche che sarebbe lungo spiegare qui, anche perché ogni caso fa a sé. Il Regno Unito accenna fin dal suo nome alla convivenza di Inglesi, Scozzesi, Irlandesi e Gallesi. Il Belgio ospita, non senza problemi, una comunità vallone ed una fiamminga. La Francia ha Fiamminghi, Bretoni e Catalani e nel suo Midi alcuni gruppi si considerano prima Occitani che Francesi. In Spagna esistono conflitti linguistici acuti tra parlanti del casigliano, del catalano e del basco. I paesi scandinavi mostrano oggi un multilinguismo sviluppato e ben organizzato. Qui il multilinguismo è rappresentato in contesto scolastico sin da epoca antica. In Svezia esistono condizioni di bilinguismo svedese-finlandese, in cui il finlandese è insegnato come seconda lingua in molte scuole. In Finlandia, oltre all’inglese che è presente nella scolarizzazione sin da età molto precoce, è solidamente radicato il multilinguismo finlandese, russo, svedese. 116 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Una situazione che induce a riflessione è quella della Germania, un paese che ai traumi della seconda guerra mondiale ha saputo reagire, riprendendo e sviluppando, a partire dalla ricostruzione post-bellica, l’antica attenzione agli altri universi culturali (un sentimento molto profondo nell’identità intellettuale tedesca). Chi viaggia oggi in Germania è colpito da un paese fortemente multietnico e multiculturale, in cui la conoscenza delle lingue straniere ha un buon livello di diffusione in varie classi sociali e di età, anche se, qui come altrove, sono i giovani la punta avanzata del cambiamento. La Germania, del resto, ha eccellenti tradizioni di formazione nelle scienze del linguaggio. Vale la pena ricordare che la filologia e la linguistica comparate sono nate in questo paese. Oggi (come un secolo fa e ancor prima) le Università tedesche hanno centri di eccellenza di slavistica, orientalistica, africanistica, opportunamente sostenuti da politiche accademiche lungimiranti. A parte queste considerazioni, la diffusione del turismo giovanile ha permesso a molti di rendersi conto della grande varietà culturale e linguistica dell’Europa, che è senza dubbio una ricchezza e non un problema. Il governo di questo processo non poteva essere abbandonato allo spontaneismo. I programmi Erasmus/Socrates lo hanno dunque affrontato a livello dell’Unione, puntando sullo scambio di studenti universitari e poi anche delle scuole secondarie. Sebbene la necessaria preparazione linguistica preliminare sia stata spesso inadeguata, per le migliaia di giovani che vi hanno partecipato, i programmi Erasmus/Socrates sono stati un’esperienza fondamentale. Poiché si tratta dei giovani che poco a poco verranno a costituire la classe dirigente dei nostri paesi, è fondamentale che essi abbiano coscienza ed esperienza diretta della realtà europea e siano in grado di superare le barriere linguistiche che la caratterizzano. S’intende che, a questo livello, diventino decisivi l’importanza assegnata alla formazione universitaria e quindi il ruolo attivo degli insegnanti, sui quali ricade la responsabilità di tale formazione, problemi su cui tornerò tra poco. Ho già detto degli stati plurilingui, ma esistono anche paesi che, ad un certo livello, possono dirsi monolingui, almeno quanto a lingua ufficiale. L’Italia è uno di questi, ma non è il solo. L’Inghilterra è un paese monolingue in una maniera molto diversa rispetto all’Italia, cosa di cui chi ha responsabilità di RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 117 pianificazione culturale e politica in Gran Bretagna si rende ben conto. Qualche mese fa (il 26 Agosto 2006) sul quotidiano inglese Guardian è apparso un interessante articolo dal titolo “Tongue tied”, traducibile come “Con la lingua legata” o forse meglio, in maniera più libera, “Con pastoie linguistiche”. La giornalista, Agnès Poirier, faceva presente che una Inghilterra cosmopolita e assolutamente orientata sul mercato del lavoro internazionale in realtà stia correndo seri rischi dal punto di vista della preparazione linguistica dei giovani, che sono in larga maggioranza esclusivamente anglofoni. D’altra parte, le associazioni degli insegnanti inglesi, vari membri del Parlamento e quella parte dell’opinione pubblica, con più viva sensibilità sociale, hanno espresso ripetutamente preoccupazioni per il fatto che manchi una seria politica linguistica per le numerose situazioni scolastiche della Gran Bretagna, specie in distretti come Londra, Birmingham, Manchester, in cui sono presenti bambini provenienti di minoranze etniche. Viva preoccupazione è stata inoltre espressa dalle stesse forze sociali e politiche per il forte calo del numero di studenti che scelgono le lingue moderne come specializzazione nell’ultimo biennio scolastico e all’Università. Da questo punto di vista, si ha l’impressione che le esperienze scolastiche dei paesi scandinavi e baltici costituiscano delle realtà molto avanzate e preziose. Dall’inchiesta di Eurobarometro risulta che paesi come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra hanno dei livelli di consapevolezza dell’importanza del plurilinguismo abbastanza bassi. Sebbene sussistano delle notevoli differenze sociolinguistiche tra queste nazioni, non è forse un caso che esse siano state grandi potenze coloniali, che hanno imposto la loro lingua altrove nel mondo. L’Italia è un paese monolingue, ma che non è mai stata una vera potenza coloniale. È possibile che i dettami della Unione europea, che vediamo anche riportati nel dossier finale del progetto LETitFLY, siano troppo tarati su una comunità mittel- e nord-europea, in cui da molti secoli, nell’asse franco-tedesco e anche olandese, le condizioni di multilinguismo individuale e sociale sono profondamente radicate. L’area del Mediterraneo, da questo punto di vista, mi sembra che presenti problemi molto diversi. La questione di fondo è forse il grado di internazionalizzazione culturale, economica e linguistica di ogni stato membro. L’Italia è un paese che ha un 118 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO baricentro proiettato verso l’interno? È un paese che potremmo definire inward-looking, cioè che guarda verso di sé? Per certi versi forse sì. Ci si può chiedere se il quadro che emerge dalla inchiesta non sia complementare a quello di un paese con un mercato del lavoro che è poco liberalizzato e poco aperto verso l’estero. Basti ricordare le grandi preoccupazioni che negli ultimi mesi la Banca d’Italia e vari esponenti del governo hanno espresso sul problema dell’apertura economica dell’Italia ai mercati internazionali. Il caso della esperienza lituana mi sembra che illustri, in un modo interessante, come un paese che aveva una tradizione di plurilinguismo relativamente antica, abbia poi avuto una accelerazione nello sviluppo delle politiche che favoriscono il plurilinguismo, in ragione delle condizioni di ingresso nell’Unione europea e di ulteriore apertura ai mercati internazionali. Gli interventi della prima tavola rotonda di questo pomeriggio hanno sottolineato la necessità di politiche linguistiche integrate. Già nell’incontro di Roma di fine maggio si è parlato di una sorta di messa a sistema di sinergie virtuose, di tutte le forze positive che il paese ha a disposizione, perché ce ne sono e l’indagine LETitFLY lo dimostra. Il problema è però che, a mio avviso, non possiamo aspettarci che le medicine abbiano effetto rapidamente e neanche che le politiche linguistiche da sole servano a portarci rapidamente nelle condizioni di plurilinguismo richieste dall’Unione europea. In più punti del rapporto finale La domanda e l’offerta di formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY, Novembre 2006), si parla dell’effetto ambiente e dell’importanza dell’ambiente sulle politiche linguistiche. Si potrebbero fare alcune considerazioni da linguista su questo concetto di ambiente. Si auspica (cito da pagina 8) la costruzione di un ambiente orientato al multilinguismo realizzato attraverso azioni distribuite in modo capillare su tutto il territorio, per esempio infrastrutture culturali scolastiche, promozione di gruppi autogestiti di conversazione nella forma di cineforum in lingua originale, circoli di studio, gemellaggi, programmi di mobilità, e così via. Tutte queste sono azioni assolutamente auspicabili. Ma per il multilinguismo italiano, soprattutto dei giovani, è possibile che abbia giocato un ruolo molto più incisivo un programma come il Socrates/Erasmus, che ha fortemente contribuito a sviluppare le conoscenze linguistiche delle nuove generazioni. RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 119 Certo, progetti come questi hanno comportato un contributo finanziario imponente da parte dell’Unione europea e mi chiedo se la spesa da parte dell’Unione a questi fini sia sostenibile. Ma questo è un problema che riguarda gli economisti. Sulla questione di una migliore conoscenza e definizione dei fattori di ambiente ci sarebbe molto da riflettere. È lecito avere dei dubbi sul fatto che le lodevoli indicazioni della Commissione europea possano essere, nel breve e medio periodo, qualcosa in più di una pia intenzione per larghi strati sociali di non pochi paesi. Per quanto riguarda l’Italia, sono convinta che sarebbe necessario, per il futuro, uno studio ulteriore delle condizioni di ambiente che possano veramente favorire medicine efficaci. 4. Politiche di sostegno e condizioni di sistema Uno degli aspetti fondamentali della politica linguistica europea riguarda senza dubbio la scuola e l’Università. Non è solo un problema che comporta risvolti tecnici e pratici, come le attrezzature limitate o le numerose carenze e arretratezze con cui docenti e studenti devono confrontarsi ogni giorno. Da esponente del mondo universitario mi permetto di dire alcune cose che forse non sono piacevoli, ma tant’è: è forse bene cercare di non nascondere la polvere sotto il tappeto. Gli esponenti delle organizzazioni degli insegnanti che sono intervenuti in questa sede hanno sottolineato le difficili condizioni di lavoro di chi opera in Italia nei settori della formazione linguistica. Mi sembra indubbio che le condizioni in cui lavorano gli insegnanti dei settori linguistici siano di una drammatica arretratezza. D’altra parte dall’indagine LETitFLY esce il quadro di una propensione alta, più alta della media europea, all’apprendimento delle lingue straniere e nello stesso tempo di una auto-valutazione che è, invece, sensibilmente più bassa. A mio avviso, questo è il quadro di un paese che ha un grande desiderio di modernizzazione, un grande desiderio di aperture transnazionali ed internazionali, ma che non ha le condizioni culturali, materiali e politiche per realizzare questa aspirazione. È un sogno in cui ci sono forse elementi stereotipati, ma è un sogno che mi pare profondamente indicativo di più complesse esigenze culturali degli Italiani. 120 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO I colleghi che lavorano nelle Università conoscono bene i tanti problemi cronici che ogni anno agitano corsi di laurea e facoltà di lingue per il reclutamento dei lettori e degli insegnanti di lingua straniera: è una emergenza continua. Ma c’è di più, diciamolo. La realtà delle Università italiane non è orientata, nel suo complesso, verso lo studio delle lingue stra‐ niere moderne. Non mancano certo le esperienze positive in controtendenza, ma non è un caso che esse fioriscano piuttosto in retroterra cittadini con un robusto assetto economico, specie industriale e manageriale. Questo si può considerare una riprova del fatto che lo sviluppo di competenze linguistiche secondo politiche serie è il correlato di società prospere e avanzate. In verità, il baricentro di molte facoltà umanistiche italiane è in settori quali la filologia classica, l’italianistica, la storia, la filosofia. Si tratta, certo, di ambiti disciplinari che hanno una grande importanza ed un meritato prestigio culturale. Ma il paese deve sapere su che cosa vuole investire a livello di politiche universitarie: non si può probabilmente avere tutto o, quanto meno, bisognerebbe studiare una mediazione onorevole tra la necessaria conservazione di tradizioni culturali che caratterizzano l’Italia e l’apertura verso nuove realtà. Tutti noi siamo sempre impressionati, quando viaggiamo all’estero, dal livello di conoscenza delle altre lingue dei giovani di questi paesi. Come direttore del Master in Linguistica e Sociolinguistica delle Lingue d’Europa, all’Università di Napoli Federico II, ho avuto il piacere di accogliere a Napoli ragazzi di tutta Europa. Lituani, russi, svedesi conoscono bene l’italiano, parlano correntemente inglese, francese e tedesco. Anche i ragazzi tedeschi hanno uno spettro ampio di conoscenze linguistiche. I ragazzi italiani, molto bravi, che mandiamo all’estero con il programma Socrates, spesso devono fare corsi di lingua compattati e accelerati prima di poter accedere al programma di scambio inter‐ universitario. Tornano poi contenti, ma hanno avuto vita dura, dovevano recuperare un gap formativo. Come mai? Perché in molte nazioni europee agli studenti in lingue e letterature straniere moderne si richiede il soggiorno di almeno un anno nel paese estero di cui studiano la lingua (ciò è obbligatorio in Germania e Gran Bretagna?). Questa esperienza è fondamentale nella formazione di insegnanti e studenti. RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 121 Ci sono poi a mio avviso fattori di natura sociale. Fino a qualche anno fa essere studente di una facoltà di lingue straniere molto spesso significava appartenere a famiglie della upper o middle class, che potevano consentire ai figli di andare a perfezionare le loro competenze linguistiche all’estero. Molti ragazzi russi, tedeschi, inglesi e di altri paesi possono consentirsi il soggiorno di un anno all’estero. Il fatto è che si mantengono lavorando parttime come camerieri, commessi e così via. Ma è dubbio che un buon numero di famiglie italiane sia preparato ad accettare simili soluzioni. A molti ragazzi italiani, che rimangono in famiglia fino circa trenta anni, esperienze del genere sembrerebbero forse poco appetibili. Ovviamente, questo è un problema di struttura familiare e sociale dell’Italia. Sarebbe altamente desiderabile ed utile che i risultati della ricerca LETitFLY fossero diffusi in vari ambienti. Essi meritano senza dubbio di diventare oggetto di riflessione comune perché, con il problema di organizzare una pianificazione linguistica nazionale il paese si gioca una carta importante. Non è soltanto questione di ridisegnare politiche sociali, scolastiche ed universitarie che sono ormai indispensabili. Bisogna fare una sorta di autoanalisi non indolore e riconoscere le luci ed ombre del paese in cui viviamo. Nella questione delle politiche linguistiche è ricapitolata la storia italiana: è economia, è storia sociale e storia linguistica dell’Italia. Si può desiderare per il nostro paese che la partecipazione all’Unione europea avvenga secondo i ripetuti auspici e le raccomandazioni dell’Unione, anche se a questo appuntamento arriviamo in ritardo. Ma è bene mettere nel conto che la strada non sarà breve. Alcuni hanno osservato che apprendere le lingue ed apprendere l’informatica comportino problemi simili. Forse no, perchè apprendere una lingua è un lavoro che dura tutta la vita, un lavoro difficile che richiede un coinvolgimento ed un impegno straordinari a livello individuale. A maggior ragione, la crescita delle conoscenze linguistiche di un intero paese, specie di un paese come l’Italia, comporta un impegno straordinario a livello politico. INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO Parte III L’offerta di formazione linguistica oggi 123 INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO 125 INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO Franca Bosc Università degli Studi di Torino Innanzitutto vorrei complimentarmi per i risultati della ricerca LETitFLY: è stata sicuramente una grande impresa da parte dei soggetti che hanno collaborato; vorrei quindi esprimere le mie congratulazioni a Sinform, al Consorzio Fridericiana, all’Enaip e naturalmente al Censis e a GN Research. Il mio intervento riguarda l’insegnamento e l’apprendimento delle lingue nel mondo delle imprese. Partirei molto velocemente da due dati: 1992 e 4,5%; si tratta della percentuale emersa in una ricerca condotta dall’Isfol (1992), analizzando i progetti europei che si occupavano dell’insegnamento delle lingue nelle piccole e medie imprese; tale studio presentava un panorama molto significativo che andava dal Piemonte, al Friuli Venezia Giulia, all’Emilia Romagna, e toccava anche alcune aziende della Campania, quindi anche il Sud Italia era compreso. A distanza di quattordici anni abbiamo, dai dati di LETitFLY, una percentuale del 4,6% di imprese che attivano formazione linguistica. Naturalmente si possono fare molte obiezioni su questi due dati, perché il target è diverso, i questionari utilizzati sono diversi. Tuttavia, di fatto, resta significativo che nell’arco temporale di quattordici anni questa percentuale non si è mossa e, stamattina, si diceva che il 66,1% delle aziende non ha nessuna funzione che richieda competenze linguistiche ed è questo un dato che fa riflettere. In questo lasso di tempo, in quattordici anni, la globalizzazione è andata avanti; questo significa internazionalizzazione di ruoli, saper interagire con altre culture. La globalizzazione avanza e le aziende italiane restano al 4,6% nella formazione linguistica. L’altro dato, a mio avviso importante, che emerge dai risultati di questa ricerca è la tipologia corsuale che le aziende hanno attivato. Il 57% ha fatto dei corsi generali, solo il 16,4% ha attivato corsi specialistici. Quando ci si rivolge alle aziende, la lingua standard non è più sufficiente, bisogna intervenire non solo a livello di vocabolario, ma 126 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO anche a livello di strutture testuali e pragmatiche: è necessario, quindi, puntare sulla lingua speciale, secondo la denominazione di Cortelazzo (1994). Le varietà delle lingue utilizzate in settori specifici della vita sociale e professionale sono denominate con nomi diversi e non sempre sinonimi: linguaggi settoriali (Beccaria, 1973), sottocodici (Dardano, 1973; Berruto, 1974). Una lingua speciale è definita come una varietà di lingua che dipende da una sfera di attività o da un settore di conoscenze specialistici ed è utilizzata da un gruppo di parlanti più ristretto della totalità dei parlanti per soddisfare i bisogni comunicativi di quel settore. Essa, in estrema sintesi, è in relazione alla conoscenza del mondo modellizzata da una disciplina, nonché al suo apparato epistemologico, e risponde ai bisogni comunicativi di una comunità scientifica o professionale, trai quali, in primo luogo, quelli di chiarezza, precisione, rapidità. Tali comunità scientifiche o professionali sono “comunità discorsive”, caratterizzate da convenzioni di comportamento, incluso, non da ultimo, il comportamento linguistico: attraverso esso, i membri di una data comunità si riconoscono tra loro, delimitando i confini verso i profani. La definizione sopra riportata individua quella che è stata chiamata la “dimensione orizzontale” delle lingue specialistiche, cioè l’articolazione in branche del sapere e settori di attività. Esse si discostano dalla lingua della comunicazione quotidiana per aspetti testuali, morfosintattici e lessicali. L’organizzazione testuale segue schemi vincolanti e altamente prevedibili, la coesione e coerenza del testo è trasparente per il modo in cui si organizzano le informazioni e per l’uso di connettori che lo strutturano, e orientano il lettore. Per quanto riguarda la morfosintassi, le lingue specialistiche si distinguono per la maggiore occorrenza, rispetto alla lingua comune, di alcuni fenomeni che possono essere riportati a due caratteri del discorso scientifico-professionale: da un lato, l’orientamento verso gli oggetti, gli eventi e i processi più che verso l’agente, dall’altro, la tendenza all’economicità. Di qui caratteristiche come la sinteticità espressiva (ad esempio, per la lingua italiana l’uso di forme nominali del verbo in sostituzione della frase relativa), la nominalizzazione e l’uso di una rosa ristretta di verbi generici, la spersonalizzazione del soggetto, l’uso del passivo, la semplicità del periodo INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO 127 consentita dal fatto che la complessità è piuttosto nel gruppo nominale. I testi scritti, scientifici e professionali, si caratterizzano per la densità lessicale: la percentuale delle parole piene, cioè delle parole con un contenuto semantico preciso, sul totale delle parole è elevata. Il lessico inoltre tende ad essere referenziale (non emotivo, non conativo), non ambiguo nella misura in cui, all’interno di una data lingua specialistica, ad un termine è attribuito un solo significato (monoreferenzialità) e ad un significato è attribuito un solo termine (assenza di sinonimi), relativamente stabile nel tempo, in grado di ampliarsi in base a regole derivative condivise (per esempio attraverso prefissi e suffissi). Queste caratteristiche dovrebbero esser oggetto dell’insegnamento per il mondo delle imprese; la scelta, invece, di attivare corsi standard fa riflettere sul perché in questi anni, a partire dal 1991, da quando L’Unione Europea ha lanciato il programma Lingua – che aveva, in modo particolare nella sua Azione III, un indirizzo specifico per le aziende – sono stati elaborati molti materiali che avevano come scopo l’insegnamento delle lingue europee nelle aziende. Questa fervida produzione è poi proseguita con i programmi Leonardo e Socrates. In quegli anni ero a Bruxelles e avevo la funzione di valutatrice tecnica dei progetti italiani: la lingua italiana è considerata a livello europeo “langue modime”(moins diffusée, moins enseignée) e questo la rendeva particolarmente attraente per la formazione del partnerariato. Per questo motivo ho potuto analizzare parecchi materiali che riguardavano settori molto diversi tra loro: si andava dall’industria calzaturiera, all’industria dei mobili, all’informatica; c’è, però, il problema della scarsa diffusione dei materiali e di questo sono consapevoli anche a Bruxelles. Abbiamo a disposizione il Linguanet dove si possono trovare esempi di questi materiali, però non è sufficiente, perché sui materiali bisogna ancora lavorare: ci sono, ma bisogna andare a scovarli; bisogna fare sistema, in modo che questi materiali possano raggiungere le aziende e le scuole, perché sono stati elaborati con partner di un certo spessore dal punto di vista scientifico. I materiali sono molto importanti per l’insegnamento delle lingue: dice l’insegnante di lingua “uno, nessuno e centomila”. Però il fare riferimento a materiali elaborati e anche sperimentati, e questa è la differenza, mi sembra dal punto di vista didattico una buona partenza. 128 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Quali sono i punti importanti per l’insegnamento delle lingue nelle aziende? La predisposizione di un percorso didattico mirato, perché abbiamo due soggetti, l’adulto in formazione e l’azienda. Abbiamo visto dai dati LETitFLY che le aziende ritengono che la formazione linguistica tocchi all’individuo, perché è difficile valutarla, è difficile attivare dei corsi. Dobbiamo soddisfare le esigenze delle aziende e nello stesso tempo tenere conto dell’adulto in formazione. Ed in questo l’androgogia ci viene incontro, perché l’adulto è abituato a dei modelli di apprendimento, a dei meccanismi di fissazione e di formalizzazione degli elementi linguistici, e poi vuole avere una lingua che possa utilizzare nel mondo del lavoro. La stessa cosa avviene per l’italiano L2. Abbiamo visto che il 56% degli immigrati in Italia ritiene che una buona competenza linguistica sia necessaria per il mondo del lavoro; nella formazione professionale, dove adulti e ragazzini imparano la lingua ed il mestiere, bisogna lavorare molto perché il non sapere interagire in lingua sul posto di lavoro, oltre a dare problemi di comunicazione, può dare problemi anche dal punto di visto pratico. Sia nella formazione professionale per l’italiano L2 e sia nella scuola, si gioca una parte del futuro del nostro paese: inseriamo i ragazzini nelle scuole e aiutiamo gli adulti ad inserirsi nel mondo del lavoro. Lo strumento dell’audit linguistico e comunicativo deve essere il punto di partenza per ogni percorso aziendale e anche qui in Italia, con il programma Lingua, abbiamo avuto degli strumenti di audit molti significativi che, però, non sono stati diffusi. Ad esempio quello dell’Elea/Olivetti, suddiviso in quattro eventi comunicativi: presentazione, produzione, negoziazione, gestione, con tutti i materiali e gli atti linguistici autentici utili per la formazione linguistica in azienda. L’audit ha la funzione di “controllo” e “guida e orientamento” (Bosc, 1994). L’audit linguistico-comunicativo ha l’obiettivo di controllare gli elementi strutturali (funzione diagnostica) che sono che sono responsabili di alcuni problemi di un’istituzione (funzione di controllo). I risultati dell’audit devono aiutare a correggere le lacune (funzione di garanzia della qualità). Se risulta necessario, potrà servire per la ricostruzione di un sistema (funzione di pianificazione) (Raash, 1994). INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO 129 La definizione di audit linguistico-comunicativo vuole sottolineare la complementarietà dei due termini linguistico e comunicativo. La combinazione rimanda alla competenza linguistica e comunicativa, include i processi interattivi e i contesti coinvolti e fornisce indicazioni per la stesura del sillabo. Sono necessari più elementi per comprendere la complessità della comunicazione sul posto di lavoro o in un corso di formazione professionale: - gli interlocutori con i loro reciproci ruoli; - il contesto in cui avviene lo scambio (tempo, luogo, dati sociocontestuali: comprese le condizioni del canale percettivo che permette lo scambio); - il contenuto proposizionale dell’interazione; - la forma linguistica utilizzata nell’interazione; - lo scopo dell’interazione; - l’effetto di ciascun stimolo verbale sull’interlocutore. Si tratta di un percorso che viene talvolta utilizzato in azienda, ma non in tutte le sue fasi, e qui gioca un ruolo importante la certificazione, perché quando una persona ha la sua certificazione linguistica, anche per l’azienda o per chi fa l’audit, si riesce meglio a collocarlo e a dargli una formazione linguistica adeguata. Naturalmente l’audit coinvolge la lingua, coinvolge la comunicazione e la cultura. E con l’audit entrano in gioco le lingue speciali con i loro vocabolari, con le loro caratteristiche morfosintattiche e le loro caratteristiche testuali: solo partendo da questo riusciamo a soddisfare le esigenze delle aziende che vedono una ricaduta immediata. E qui è il punto dolente, perché la maggior parte dei corsi attivati in azienda riguarda la lingua standard; bisogna invece andare oltre ed inserire trasversalmente la lingua speciale del determinato settore. C’è sicuramente un problema: questa predisposizione di percorso didattico mirato alle esigenze dell’azienda ha dei costi. Però, poi, questo significa anche avere una qualità migliore nella formazione linguistica e, soprattutto, migliori prestazioni da parte degli addetti che della lingua speciale si avvalgono nel loro lavoro (oltre a produrre altri materiali didattici da diffondere). PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 130 Bibliografia Beccaria G. L. (a cura di), I linguaggi settoriali in Italia, Bompiani, Milano, 1973. Berruto G., La sociolinguistica, Zanichelli, Bologna, 1974. Bosc F., “Extraits d’audit”, in LINGUA – Audits linguistiques et Analyses des Besoins, Actes du Symposium Saarbrücken, Commission Européenne, Bruxelles, 1994. Cortelazzo M., Lingue speciali. La dimensione verticale, Unipress, Padova, 1994. Dardano M., Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Bari, 1973. ISFOL (a cura di Gilli D.), Seconda lingua, società e strategie formative, Franco Angeli, Milano, 1992. Raasch A., “Les audits linguistiques”, in LINGUA – Audits linguistiques et Analyses des Besoins, Actes du Symposium Saarbrücken, Commission Européenne, Bruxelles, 1994. LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA 131 LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA Sergio Bonetti Responsabile ufficio formazione FAPI - Fondo PMI Il Fondo ha molto a che fare con la presente ricerca, che rappresenta davvero un ottimo lavoro, soprattutto perché non dobbiamo dare per scontato che le imprese, i lavoratori e le parti sociali abbiano coscienza di quanto sia importante la formazione linguistica per i lavoratori e per le imprese. Nonostante tutti i discorsi dell’Unione europea e degli esperti sull’importanza, nella società della conoscenza, della cultura generale e della conoscenza delle lingue, prevale ancora, nei contenuti e negli obiettivi degli interventi formativi, una concezione di tipo fordista. Noi abbiamo investito, iniziando nel 2005, circa 35 milioni di euro in piani formativi. La formazione continua si rivolge ai lavoratori in impresa. La critica che spesso viene fatta da alcuni componenti delle parti sociali, che sono il cervello politico del Fondo, è che i progetti riguardanti la formazione linguistica (in massima parte di lingua inglese e qualcuno di lingua francese e di lingua tedesca che noi abbiamo finanziato) sono scarsamente utili. Questo significa che prevale ancora una concezione per cui la formazione è intesa quasi esclusivamente come addestramento a funzioni presenti nella fabbrica in cui prevale una organizzazione del lavoro tayloristica. Non è che non esista più il lavoro operaio. C’è ancora la fatica, la chiave inglese, il grasso e quant’altro, però questa mancanza di consapevolezza – da parte di imprenditori, organizzazioni sindacali, organizzazioni di rappresentanza datoriale – di quanto sia importante la conoscenza delle lingue per le esigenze di competitività nel contesto dell’internazionalizzazione sempre più spinta della produzione e del mercato, è una cosa grave. La ricerca condotta nell’ambito del Progetto LETitFLY può dare veramente un contributo importante, per cui deve avere la giusta diffusione. I Fondi sono l’adeguamento del nostro paese ad una realtà europea già 132 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO molto avanzata, dove la formazione continua per i lavoratori non viene indirizzata più dai Ministeri o dalle Regioni, ma direttamente dalle parti sociali, organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali, perché sono più vicine ai bisogni dei lavoratori e delle imprese, con un sistema che via via sta crescendo. Il sistema di formazione continua nasce infatti nel nostro paese con la Legge 236 del 1993 e i fondi cominciano a costituirsi a partire dal 2000 e ad essere operativi nel 2004. Il FAPI-Fondo PMI è intervenuto sulla formazione linguistica. A partire dal 2005 ha finanziato 2.146 progetti: di questi ben 385 sono progetti di formazione linguistica. Quindi più del 4,6% emerso dalla ricerca LETitFLY. Siamo intorno al 17,94%. Di questi 385 progetti di formazione linguistica, quattordici riguardano l’italiano come lingua seconda per i lavoratori stranieri. Questi dati sono calcolati per difetto, perché ci sono anche singoli moduli di formazione linguistica all’interno di progetti di natura più professionalizzante. Per fare un esempio: ci può essere un progetto che mira all’addestramento e all’uso di un software per il magazzino e dentro questo progetto ci può essere un modulo di apprendimento di alcuni termini lessicali perché il software è in inglese. Vediamo alcuni aspetti qualitativi che emergono a livello generale. I progetti di formazione linguistica sono tutti, tranne i quattordici di italiano, di lingua inglese. Da dove nasce questo bisogno? Possiamo ipotizzare che nasca da esigenze di sviluppo organizzativo e di innovazione di prodotto, ovvero da esigenze fondamentali rispetto ai cambiamenti del mercato del lavoro. Il fatto che la formazione sia soprattutto in lingua inglese probabilmente risponde ad un bisogno immediato. L’obiettivo è far crescere questo bisogno. L’internazionalizzazione del lavoro richiede sicuramente alle imprese acquisizione di competenze linguistiche che non siano solo quelle in lingua inglese. Ecco i principali problemi che ci troviamo ad affrontare. Innanzitutto, chi è che tradizionalmente fa questa formazione? Nei nostri bandi permettiamo che siano le imprese a candidarsi direttamente per avere il finanziamento per fare formazione; le imprese potranno poi avvalersi di LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA 133 esperti e consulenti esterni o ricorrere a società di formazione accreditate presso le Regioni. Questo tema dell’accreditamento, che nasce da un’esigenza giusta, è in realtà una situazione di vincolo rispetto all’insegnamento delle lingue, perché l’accreditamento presso le Regioni delle società di formazione viene fatto per lo più su criteri che non sono di qualità e di competenza: vengono prese in considerazione, ad esempio, la capienza delle aule, l’accessibilità delle stesse e via dicendo. Quindi un problema che noi abbiamo, che le imprese hanno e che hanno anche i lavoratori (perché i destinatari finali sono loro) è quello di alzare la qualità dei soggetti che realizzano l’intervento formativo. Devo riconoscere che su questi 385 progetti spesso la qualità non è particolarmente innovativa. Però anche qui non ci si può limitare a criticare, perché è un processo che va accompagnato, che va fatto crescere, introducendo via via elementi di qualità. L’altro problema è che noi finanziamo nei nostri bandi anche attività che sono propedeutiche, ad esempio attività di audit, di assessment, di analisi dei fabbisogni, di bilancio delle competenze. Nella quasi totalità di questi 385 progetti, la formazione viene erogata senza un momento a monte che permetta di focalizzarla su una serie di funzioni che sono state riconosciute come importanti. Non è un’autocritica, perché è un processo che sta nascendo. Bisogna intervenire in questa direzione. L’altro tema importante è quello della certificazione. Siccome in tutti questi 385 progetti si propongono percorsi brevi, perché rispondono a bisogni immediati dei lavoratori e delle imprese, diventa problematico fare un sistema di certificazione su un percorso formativo, per esempio in lingua inglese, breve. C’è il problema di costruire delle certificazioni modulari su degli skill che riguardano alcuni percorsi professionalizzanti legati anche alla lingua inglese, che è un terreno nuovo e interessante da esplorare. Che cosa vogliamo fare? Vogliamo, innanzitutto, intervenire su questi temi della formazione, linguistica e non solo, con dei voucher individuali, cercando di rompere questo vincolo dell’ente accreditato. Vorremmo, cioè, cercare di dire noi dove si può spendere questo voucher, per esempio presso società di formazione, enti, università popolari, centri territoriali permanenti, che applicano la certificazione nelle lingue. È importante che il 134 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO lavoratore a cui è stato dato il voucher abbia, a monte, un momento quanto meno di orientamento verso la formazione linguistica per aiutarlo e motivarlo su questo aspetto. Altro grande tema è quello dell’italiano per i lavoratori stranieri. È un tema che si carica di altri aspetti – che la ricerca LETitFLY evidenzia in modo forte – che sono quelli culturali dell’apprendimento della lingua. Io ho trovato personalmente molto negativo che sul discorso della cittadinanza si chiedesse l’esame della lingua italiana e mi sembra strano che un governo di centro-sinistra non tenga conto dell’esperienza dei nostri lavoratori emigrati. I lavoratori immigrati hanno dei percorsi di auto-apprendimento di una lingua. Più che un esame ad escludere, dovrebbe essere un esame ad includere, nel senso che gli si dovrebbe offrire un corso di perfezionamento. Immaginate i nostri lavoratori che non hanno la cittadinanza perché non sanno rispondere a delle domande? Il nostro fondo non è il più grande, però è un fondo strategico perché le piccole e medie imprese rappresentano il 96% del sistema produttivo Italia e perché le piccole e medie imprese sono quelle che non riescono a fare formazione da sole. Le piccole e medie imprese, rispetto ai loro problemi hanno, un atteggiamento reattivo, non investono in formazione. Ho il problema delle nuove buste paga? Chiamo un consulente. Ho il problema della internazionalizzazione? Chiamo un consulente che mi scrive le lettere in cinese, in inglese, eccetera. Non si pongono il problema della formazione come una leva strategica che fa crescere complessivamente la competitività delle imprese. Lavorare con le PMI sul tema strategico dell’apprendimento linguistico è fondamentale. Un’altra cosa poi è da rilevare. Se la formazione e la conoscenza della lingua madre dell’italiano è quella che è, si complica da morire l’insegnamento e l’apprendimento delle lingue seconde. Qui i dati sono drammatici, perché abbiamo un milione e mezzo di analfabeti funzionali e circa due milioni a rischio di analfabetismo funzionale. Sono dati molto inquietanti; se ci aggiungiamo anche tutti i dati sulle competenze di lettura e via dicendo, allora un obiettivo che dovremmo avere, e come Fondo delle PMI ci stiamo LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA 135 provando (ma c’è una grande resistenze delle imprese e delle parti sociali), è quello di finanziare progetti di formazione linguistica per i nostri lavoratori anche di italiano, cioè per la capacità di lettura, di espressione, la capacità di scrivere piccoli rapporti. Voi sapete che rispetto a queste cose l’analfabetismo funzionale salta al 36%? Prima si chiedeva perché i giovani di altri paesi europei conoscono l’inglese e l’italiano, la risposta è che lo imparano a scuola. La grande domanda da porci è: perché da noi ciò non avviene, perché all’estero si apprendono almeno quei livelli di comunicazione di base che noi non abbiamo e, rispetto alle competenze in lingua seconda con cui si esce dalla scuola, noi stiamo tra gli ultimi posti in Europa? Il lavoro del Progetto LETitFLY rispetto a tutto ciò è stato davvero molto importante e bisogna lavorare per una diffusione ed una fertilizzazione. Per questi motivi, mi auguro che ci sia una fase due di LETitFLY. IMPARARE IL TEDESCO IN ITALIA: L’OFFERTA DEL GOETHE INSTITUT 137 IMPARARE IL TEDESCO IN ITALIA: L’OFFERTA DEL GOETHE INSTITUT Stefan Gerspach Goethe Institut Buonasera a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare l’organizzazione per aver invitato l’istituto Goethe a questa conferenza. È stato molto interessante e anche utile comprendere meglio quali sono le motivazioni, i bisogni e anche i desideri degli italiani nel momento in cui debbono imparare a parlare una lingua straniera. Anche in qualità di responsabile di corsi di lingua per me è importante capire come noi possiamo aggiornare la nostra offerta per soddisfare meglio quello che è richiesto. A tal proposito vorrei dare un quadro di come noi possiamo venire incontro a queste esigenze. E vorrei presentare brevemente il nostro istituto. Il Goethe è l’istituto culturale della Repubblica Federale di Germania ed è presente in tutto il mondo attraverso una rete di centoventinove istituti in ottanta diversi paesi, oltre i tredici della Germania. In Italia, il Goethe Institut ha sede nella città di Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste. Attraverso sette istituti e più di quaranta associazioni e istituti culturali italotedeschi (ACIT e ICIT) presenti in diciassette regioni (Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli e Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna) il Goethe Institut ha una presenza capillare su tutto il territorio italiano. Siamo divisi in quattro sezioni: c’è una sezione che si occupa di programmi culturali, c’è una parte che si occupa della cooperazione con il settore scolastico e universitario nell’insegnamento del Tedesco, sia per la formazione di insegnanti che per appoggiare il Tedesco e promuovere il Tedesco in Italia. Abbiamo anche centri informazioni e a tal proposito vorrei anche riferire in merito alla nostra offerta di corsi di lingua. Quest’anno abbiamo scelto un motto: “parla tedesco, muoviti al ritmo dell’Europa”, che credo coincida 138 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO anche bene con lo spirito di questa conferenza. Viviamo in un tessuto di diverse lingue europee e, in questo contesto, promuoviamo il tedesco in Italia. Vorrei parlare un po’ del nostro metodo, basato su moderne metodologie di studio finalizzate ad un apprendimento attivo e interattivo della lingua tedesca, in cui insegnati e studenti non sono solamente emittenti e riceventi di un messaggio verbale, ma gli artefici di un flusso di comunicazione biunivoca. Il Goethe Insitut offre corsi di tedesco in base a diversi programmi. Prima abbiamo sentito parlare dei problemi della formazione linguistica nelle scuole, nelle università: vorrei far vedere la differenza con il nostro metodo che si basa fondamentalmente su un criterio comunicativo, diversamente da una formazione frontale, nella quale gli studenti non possono partecipare e svolgere attività interattive. La nostra offerta si divide in un programma standard – con corsi semestrali, che si orientano al quadro europeo di riferimento – e in programmi speciali: ad esempio grammatica o letteratura e tutto quello che è interessante per andare oltre la conoscenza della lingua, perché conoscere una lingua è anche conoscere un’altra cultura. È interessante il fatto che, come ho spiegato all’inizio in riferimento all’organizzazione dell’Istituto, abbiamo la possibilità di una rete in Germania. Ciò vuol dire che gli studenti possono iniziare da noi, o andare direttamente in Germania, dove ci sono tredici istituti. Stare in Germania dà un approccio completamente diverso alla lingua. Abbiamo sentito diversi esempi, come il programma Socrates, Eramus, eccetera: noi abbiamo questa struttura e offriamo ad esempio ai ragazzi una combinazione tra corsi di tedesco e altre attività. Prima si è parlato molto del problema della certificazione o, diciamo, del management di qualità e voglio spiegare un po’ come funziona. Nei nostri corsi di tedesco c’è, dopo un corso standard, una valutazione. Poi ci sono, soprattutto, gli esami. La certificazione è riconosciuta a livello internazionale ed è molto richiesta anche da studenti che non hanno fatto fino ad ora nessun corso da noi, magari vengono da fuori, vengono dalla scuola o anche dall’università. Questo perché i nostri esami sono riconosciuti e consentono di avere crediti. IMPARARE IL TEDESCO IN ITALIA: L’OFFERTA DEL GOETHE INSTITUT 139 Per quanto riguarda il numero degli iscritti, ci sono diversi dati. A Milano c’è l’istituto più grande e ci sono più di 1400 iscritti e 260 corsi. Al secondo posto c’è Roma: ci sono più di mille iscritti e più di cento corsi. Poi Torino: quasi 600 iscritti e più di cento corsi. E Napoli con 400 iscritti e quasi cinquanta corsi. Perché imparare il tedesco? Ecco alcune ragioni: la Germania è il più importante paese esportatore al mondo, il tedesco è la lingua più parlata nell’Unione Europea, nel mondo il 18% di tutti i libri pubblicati è stampato in Germania, molte aziende internazionali hanno sede in Germania, studiare e imparare il tedesco non risulta più complicato che una qualsiasi altra lingua. Molte persone hanno spesso un’immagine forse non adatta e giusta del tedesco. Il tedesco è la seconda lingua più diffusa nel mondo scientifico, è la lingua di Goethe, Nietzsche e Kafka, ma anche di Mozart, Bach, Beethoven. Questo significa che chi studia il tedesco ha libero accesso ad una regione dell’Europa centrale importante dal punto di vista intellettuale, economico e storico-culturale. Qui vorrei aprire una parentesi: il programma speciale di cui ho parlato prima è anche un punto forte da noi, perché i nostri insegnanti sono tutti madrelingua, noi stessi facciamo conoscere e vivere il tedesco e la cultura della Germania in un modo diverso. Cerchiamo di creare un ambiente già “madrelingua”, autentico, all’interno dell’istituto e gli studenti possono usufruire di diversi mezzi come computer, biblioteca, eccetera. Un altro punto notevole, forse soprattutto a Napoli, è che i tedeschi rappresentano per molte nazioni la fonte turistica più importante. E il turismo rappresenta sicuramente una fonte economica molto rilevante. Con questo vorrei concludere e ringraziarvi per l’attenzione. SALUTI DI CHIUSURA 141 SALUTI DI CHIUSURA Silvia Costa Coordinatrice IX Commissione Istruzione, Lavoro, Innovazione e Ricerca della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome Speravo di poter intervenire questa sera ma impegni consiliari me lo impediscono. L’argomento e la ricerca promossa dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale merita una grande attenzione e una sinergia programmatica anche a livello regionale per le competenze di programmazione dell’offerta scolastica e formativa che ci competono, anche a sostegno dell’attività delle autonomie scolastiche. I dati rivelano una troppo inadeguata competenza linguistica tra la nostra popolazione, ma anche tra le imprese. E anche tra chi dichiara di conoscere una lingua straniera (i 2/3 della popolazione), meno della metà è in grado di sostenere una conversazione in altra lingua e permangono differenze molto significative non solo tra livelli territoriali e titoli di studio, ma anche tra uomini e donne. Nonostante le iniziative comunitarie e la previsione dell’inserimento della lingua inglese nella scuola primaria e di una seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado e l’aumento del numero di istituti superiori coinvolti nella certificazione esterna (ad es. del Trinity College) che vede coinvolte nel Lazio 35 scuole, siamo molto lontani dai bench mark europei. Nell’ambito del Coordinamento degli Assessori Regionali all’Istruzione e Formazione e come Assessore del Lazio, ho già fatto presente l’esigenza di inserire più esplicitamente, negli obiettivi strategici dei Programmi Operativi Regionali del FSE, l’elevazione e l’ampliamento delle competenze linguistiche degli studenti e degli adulti come una delle strategie fondamentali nell'ambito dell’Asse D - Capitale Umano. In ambito regionale abbiamo promosso nel Lazio diverse iniziative volte a migliorare le competenze linguistiche. Ne cito solo tre: - Un bando C3 Select per integrare la certificazione delle competenze PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 142 linguistiche e di altre specifiche materie per gli studenti in entrata nelle Università; - L’offerta di voucher formativi a catalogo (che ha visto il coinvolgimento di quasi 4.000 persone) comprendente anche l’offerta di formazione linguistica e certificata; - Il bando ancora in atto sulla Misura C 1 che consentirà ai 90 Istituti Professionali la realizzazione di laboratori linguistici e tecnologici. LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO Appendice Interventi dei Workshop 143 144 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 145 LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO Sergio Scalise Università di Bologna Bologna, 16 maggio 2006 Innanzi tutto desidero osservare che l’acronimo LETitFLY è molto riuscito: è efficace e si ricorda bene. Naturalmente non basta volare: si vola verso una qualche direzione. In quale direzione “vola” questo progetto? Prima di dare una risposta (che non può che essere “leggera” al pari della domanda) desidererei fare un po’ di strada insieme a voi. Valutazione La mia valutazione globale dei risultati raccolti nella pubblicazione che ho ricevuto è sostanzialmente molto positiva. Vi è dietro, evidentemente, il lavoro di professionisti e dunque il “decollo” di questo volo è riuscito. Naturalmente ciò non significa che non vi possano essere punti controversi, da discutere ed approfondire o anche seriamente problematici. Ad una prima lettura, si osservano dati interessanti, come ad esempio il fatto che la conoscenza della lingue straniere sia un “valore” cui non corrispondono azioni conseguenti (p. 103)1 e dunque velleitarismo e abbandoni (p. 174). Che a domanda vaga corrisponde offerta generica (p. 177) per cui “il mercato si è adeguato abbassando la qualità dei corsi offerti” (p. 178) Ciò che comporta una depauperizzazione dell’inglese (p. 176) anche in fase di “offerta”. Osservazione, questa, che dovrebbe in qualche modo essere nota a chi si iscrive a dei corsi. 1 Analisi di scenario, Progetto LETitFLY, Settembre 2006. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da questo volume. 146 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Un altro punto che mi ha colpito (ma – devo ricordare – chi parla è un teorico del linguaggio e non un tecnico dell’insegnamento delle lingue) riguarda la nozione di “Stile di apprendimento”. “La scuola difficilmente insegna che tipo di discenti siamo [...] e l’adulto medio quasi mai sa quale atteggiamento adottare in riferimento alle strategie formative” (p. 177). Una nozione quella di “stile di apprendimento” forse trascurata dalla medietà di un insegnamento anonimo e non mirato. Emergono dal rapporto anche fatti curiosi come ad esempio il fatto che francese è più conosciuto dalle donne che dagli uomini. Forse ognuno di noi sarebbe in grado di avanzare delle ipotesi, ma – in mancanza di certezze documentate – preferisco solo segnalarlo appunto come curiosità. Lo scenario Europeo Come in tutto il rapporto emergono dati interessanti. Si direbbe che l’aspetto “quantitativo” del lavoro è molto forte, ben curato. Multilinguismo Uno dei punti che ha attirato la mia attenzione è quello relativo al “Rafforzamento del multilingusimo”. In più punti emerge una sorta di raccomandazione a promuovere la conoscenza effettiva di tre lingue dell’Unione europea (p. 7). Ora, tale raccomandazione è intuitivamente molto corretta, chi può dubitarne? Vorrei solo ricordare che appoggiare e promuovere il plurilinguismo non è la sola alternativa nell’intento di tutte le persone illuminate di promuovere lo scambio linguistico tra i popoli. Da diversi anni Claire Blanche Benveniste dell’Università di Aix-enProvence ha messo a punto un metodo (sponsorizzato dall’Università degli Studi di Roma 3, sicuramente nella persona del prof. Raffaele Simone) per sviluppare il pluringuismo “passivo” (cfr. Eurom4). In cosa consiste tale proposta? È una proposta che riguarda “Famiglie” LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 147 linguistiche e Claire Blanche Benveniste ha lavorato sulla Famiglia delle lingue Romanze. Il metodo è di far studiare non ad apprendere delle lingue ma a capirle (per essere più esatti – in questa fase – a saperle leggere) e si promette che in 40 ore di lavoro un parlante di una delle 4 lingue romanze incluse nel pacchetto sarà in grado di leggere un articolo di media difficoltà, diciamo un fondo del Corriere della Sera. Indipendentemente dalla veridicità della “promessa”, la proposta è molto interessante perché permetterebbe ad un cittadino italiano di capire (o meglio di leggere) un articolo di Le Monde, di El Pais ecc. dopo un certo numero (comunque limitato) di ore di lavoro. Purtroppo (a mia conoscenza) questa proposta è stata elaborata nei dettagli solo per le lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese e di recente è stato aggiunto il catalano). Ma si pensi: se fosse almeno parzialmente vero che con 40 ore di lavoro un cittadino tedesco fosse messo in grado di capire inglese, olandese e danese, ciò significherebbe che con un centinaio di ore di lavoro un cittadino dell’Unione europea sarebbe in grado a) di parlare la propria lingua in molta parte d’Europa; b) di capire una gran parte dei suoi interlocutori europei. Poter parlare la propria lingua è sempre una ricchezza aggiuntiva, dato che un adulto non raggiungerà mai la competenza dei ‘nativi’ in una qualsiasi L2. In conclusione: è vero che bisogna sviluppare forme di plurilinguismo, ma sia attivo che passivo. Descrittori di competenza Un secondo punto che ha attirato la mia attenzione riguarda la nozione di “Descrittori di competenza linguistica”. In particolare, si consideri la seguente citazione: “L’apprendimento di una seconda lingua, in un’ottica di multilinguismo non è concepito come un processo lineare ma è altresì determinato dalle competenze possedute nella lingua materna […] competenza linguistico- PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 148 comunicativa […] competenza plurilingue e pluriculturale” (p. 15) e quindi debbono tenersi in considerazione - età dei soggetti in formazione; - conoscenza di altre lingue già possedute dai soggetti; - gli altri insegnamenti presenti nel curriculum (p. 15). Tutto giusto. Ma vorrei sottolineare che un “indicatore” di grande rilievo dovrebbe essere il grado di conoscenza della lingua madre. Tali conoscenze andrebbero valutate nei dettagli non solo come conoscenza linguistica, ma anche come conoscenza “metalinguistica”. Le cosiddette parti del discorso hanno nomi come “verbo”, “aggettivo”, “nome”... Ebbene posso dire – ahimé per esperienza diretta – che gli studenti universitari non conoscono le differenze tra queste “parti del discorso” (oggi le chiamiamo “categorie lessicali”) e ciò che rende difficile l’insegnamento della linguistica ma mi permetto di sospettare che renda difficile anche l’insegnamento di una lingua. Ma la cosa si complica se la lingua di provenienza dell’apprendente è tipologicamente lontana dalla lingua d’arrivo. Per esempio: se nella lingua di provenienza la distinzione tra verbo ed aggettivo non esiste per nulla o è diversa da come funziona nella lingue europee (casi entrambi possibili), allora bisognerà tenerne conto. L’insegnamento della lingua è soggetto ad una restrizione cui l’insegnamento della chimica, per dire, non è sottoposto: l’oggetto dell’insegnamento coincide con lo strumento attraverso cui l’insegnamento passa. La lingua è “oggetto” ma è anche metalinguaggio. Dunque nelle ricerche future sarà a mio parere necessario aggiungere, tra gli elementi da tenere in considerazione: - conoscenza della lingua madre; - la possibilità di quella lingua di funzionare come metalinguaggio comune. LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 149 Tipologia Linguistica Quel che si è detto sin qui implica che questa tipologia di indagini si fondino sugli studi più avanzati di Tipologia Linguistica. Se un parlante di una lingua isolante (il cinese) affronta una lingua flessiva (l’italiano), vi è un largo quadro di problematiche di difficoltà per gli apprendenti del tutto prevedibili. Se uno studente cinese che è stato picchiato da un compagno riferisce al suo professore: ‘picchia io’ Il professore dovrebbe essere allertato che il cinese è una lingua isolante e che come tale non fa le distinzioni flessive che l’italiano fa e dunque il pronome corrispondente ad io in cinese è wo ma questo può significare sia ‘io’ che ‘mi’ che ‘me’. Ancora. Non so se i presenti hanno mai riflettuto su un’espressione come ‘vado al night’ Ad un parlante inglese questa espressione risulta quanto mento ridicola. Suona come ‘vado alla notte’, Come è possibile? E non è un’espressione isolata, si pensi alle seguenti: ‘ho indossato lo smoking’ ‘hanno riparato il water’ che sarebbe come dire ‘ho indossato il fumante/da fumo’ e ‘hanno riparato l’acqua’. Dunque per un parlante inglese “vado al night” letteralmente ‘vado alla notte’ è una frase problematica da intendere. Ma perché l’italiano ha fatto queste scelte? Il fatto è che ci sono lingue che nei composti hanno testa a destra, come l’inglese (una high school É UNA scuola, costituente a destra) e vi sono lingue che hanno la testa a sinistra, come l’italiano (capo stazione É UN capo non É UNA stazione). (cfr. Scalise 1994). PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 150 La parola night club è inglese e dunque con testa a destra: É UN CLUB. L’italiano – prendendo a prestito la parola – ha superimposto i propri schemi (testa a sinistra) e dunque dice il NIGHT night da night club smoking da smoking jacket water da water closet L’italiano (come tutte le altre lingue romanze) ha testa a sinistra nei composti, l’inglese (come tutte le altre lingue germaniche) ha testa a destra. In questo caso di “prestito” la lingua “ospite” sovrappone i propri schemi strutturali e con ciò toglie salienza ad un costituente e ne attribuisce di più ad un altro. Formazione degli insegnanti e teorie linguistiche Profilo Europeo per la Formazione degli Insegnanti di Lingua: “In particolare, con riferimento al punto 1) [1. ...strutturazione dei corsi per la formazione iniziale ed in servizio degli insegnanti] l’attenzione si focalizza sul rapporto tra teoria/e e pratica, quindi, sul collegamento tra lo studio teorico delle materie linguistiche e le reali situazioni di insegnamento/apprendimento” (p. 17). Vi sono qui due punti che desidererei commentare e cioè a) la formazione degli insegnanti e b) studio teorico delle materie linguistiche. Per insegnare qualcosa bisogna conoscere bene quel qualcosa. Ora, conoscere una lingua significa conoscere come è strutturata, come funziona, come si evolve, come muore, come è stratificata, come è memorizzata, se richiede sistemi cognitivi specifici o comuni ad altri sistemi cognitivi, etc. Ma queste conoscenze travalicano di gran lunga le conoscenze relative ad una lingua: sono in realtà conoscenze del “linguaggio umano” vale a dire quella capacità astratta che caratterizza solo gli esseri umani che ne vengono dotati come parte del patrimonio biologico. Purtroppo una lingua è un “oggetto” di uso comune e dunque se ne hanno conoscenze intuitive ed immediate, ma LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 151 familiarità e consuetudine non bastano a capire cos’è e come funziona una lingua. Oggi abbiamo visioni molto elaborate del linguaggio umano (si veda Moro, 2006 e Graffi & Scalise, 2004). Certo si possono dare risposte “ingenue” ed intuitive ma saranno sempre ed irrimediabilmente parziali. Si considerino i seguenti dati. Dalla frase in 1a) si può derivare la corrispondente interrogativa in 1b) 1a) Giovanni ha trovato una foto di qualcuno 1b) di chi Giovanni ha trovato una foto ___ ? Ma dalla frase in 2a) non possiamo ricavare la corrispondete interrogativa in 2b) che è palesemente non grammaticale. 2a) Giovanni ha sentito una storia su una foto di qualcuno 2b) *di chi Giovanni ha sentito una storia su una foto ___? Perché questo? Una spiegazione sta nella teorie delle “barriere” di Noam Chomsky. Per fare l’interrogativa 1b) da 1a) cosa si è fatto? Si è “preso” il costituente “di qualcuno”, lo si è reso interrogativo (di qualcuno -> di chi) e lo si è spostato all’inizio di frase. In questo “spostamento” “di qualcuno” ha dovuto attraversare una barriera (qui indicata dalla parentesi quadra): 1c) Giovanni ha trovato [una foto di qualcuno Per le frasi in 2) invece, lo spostamento del costituente “di qualcuno” dovrebbe attraversare due barriere: 2c) Giovanni ha sentito [una storia su [una foto di qualcuno Ma questo non si può fare. E il fatto che questa sia una restrizione su tutte le lingue fa forse pensare che tutte le regole di movimento siano in qualche modo ristrette e che non vi possano essere movimenti di “lunga distanza”. Non ci addentreremo qui se la questione abbia a che fare con dei limiti di computo della mente umana, ci basta segnalare che le lingue sono sistemi di complessità del tutto inaspettate e molto delicate. Gli insegnanti non ricevono attualmente un’istruzione adeguata di 152 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO linguistica e – come si sa – “nemo in alium transferre potest plus quam ipse habet...”. Naturalmente il problema sta nelle sedi formative, in primis l’Università che dovrebbe poter costruire liberamente curricula più specifici ed adeguati. Quello delle teorie linguistiche è un altro problema. In tutta franchezza oggi non è chiaro quale sia la teoria migliore su cui basare metodi di insegnamento. È chiaro a tutti che una teoria è necessaria, ma abbiamo visto applicare e passare le grammatiche strutturalistiche, abbiamo visto applicare e passare le grammatiche generativo‐trasformazionali. E sinceramente non hanno lasciato dei grandi rimpianti. Anche in ambiti teorici molto raffinati vi è oggi un po’ di incertezza sulla forma della teoria al punto che qualcuno, come Matthew Dryer (Buffalo University) grande studioso degli Universali linguistici, propone una semplice “Basic Linguistic Theory”, vale a dire una teoria basata sui risultati acquisiti. Questa questione è stata ampiamente dibattuta nell’ambito del GISCEL (costola della SLI guidata ai tempi da Tullio De Mauro) e ricordo che uno studioso di grande vaglia, Lorenzo Renzi, di Padova, proponeva di basare l’insegnamento su una grammatica “potata” (credo volesse dire, di buon senso). Ad ogni modo una delle grammatiche dell’italiano più recenti è quella di Salvi‐Vanelli (2004) de Il Mulino e forse varrebbe la pena di “guardare” quanta e quale teoria vi sia dietro. In conclusione, in relazione al panorama Europeo farei le seguenti osser‐ vazioni: ‐ plurilinguismo sì, ma sia attivo che passivo; ‐ attenzione ai gradi di conoscenza della lingua madre anche come metalinguaggio; ‐ attenzione alla tipologia delle lingue; ‐ attenzione al periodo storico: quale teoria? ‐ attenzione alla formazione degli insegnanti. LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 153 Lo scenario italiano Uno degli aspetti più problematici incontrati nella lettura del rapporto è quello delle interviste telefoniche e delle autovalutazioni. Alcune interviste de visu sarebbero a mio parere necessarie soprattutto per quel che riguarda le autovalutazioni. Si incontrano spesso nel rapporto frasi come la seguente: “sono alte le percentuali di coloro che dicono di parlare una lingua diversa dall’italiano (...) nel contesto familiare” (p. 82). O frasi relative ad una vera e propria autovalutazione delle conoscenze di una lingua. Ora, la sociolinguistica – da Labov in poi – ha accertato senza nessuna ombra di dubbio che la situazione formale “intervista” fa scattare codici linguistici più “alti” e che i parlanti non descrivono correttamente i loro reali comportamenti linguistici. Lavob ha impiegato tecniche specifiche per ottenere campioni di “linguaggio spontaneo”, ma queste richiedono tempo e controllo anche di alcune “spie” caratteristiche (come l’aumento della velocità del parlato, delle risate di tipo nervoso, ecc.). Non credo ci si possa fidare completamente delle autovalutazioni. Un altro punto riguarda i giudizi su “facile” e “difficile” relativamente ad una lingua, tema che riguarda sia l’aspetto dell’offerta che della domanda e che traspare da molte interviste. Ora, il tema “facile/difficile” è spesso trattato nella manualistica come uno dei “pregiudizi linguistici” insieme a questioni come “lingue belle, lingue brutte”, “lingue logiche e lingue non logiche”. In realtà la questione della difficoltà delle lingue è stato affrontata di recente in un bel lavoro di McWhorth (2001) e ripreso in un lavoro di Ceccagno e Scalise (2006) le cui conclusioni schematiche sono le seguenti: - A partire da che lingua per imparare che lingua? - Il punto di vista del parlante è diverso da quello dell’ascoltatore. - Facilità sintagmatica o paradigmatica? - Facilità e Ridondanza. - Per che attività linguistica? - Per che livello stilistico? 154 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Non è qui il caso di ripercorrere questo cammino che ci porterebbe a questioni tecniche un po’ complesse (come facilità sintagmatica o paradigmatica): basti qui osservare che la questione non può essere affrontata in termini assoluti, ma in relazione a parametri come quelli qui sopra numerati e probabilmente altri ancora. Ciò che in una lingua è difficile ad un livello linguistico può rivelarsi facile ad altri livelli. Per esempio, se si confronta la morfologia dell’italiano con quella del cinese, si vede immediatamente come la prima sia infinitamente più complessa della seconda. Ma se si considera il problema della scrittura allora il giudizio viene rovesciato. Ed ancora: quando sentiamo parlare una lingua straniera, di solito si osserva come sia difficile segmentare le unità della frase, ciò che si traduce in un giudizio generico per cui “gli spagnoli, i francesi, ecc. parlano in fretta”. In realtà tutti gli esseri umani possono parlare sia in fretta che lentamente e quando parlano in fretta il parlante non-nativo ha difficoltà, ma queste difficoltà derivano anche dal fatto che il parlante nonnativo non conosce i “demarcatori” delle unità. Per esempio il francese ha l’accento sull’ultima sillaba di tutte le parole, l’ungherese ha l’accento sulla prima sillaba di tutte le parole: ebbene, l’accento in queste due lingue con accento a posizione fissa (diversamente dall’italiano e dall’inglese per esempio che hanno accento libero) sono dei “demarcatori”, sono cioè segnali che indicano quando una parola finisce (nel caso del francese) o quando una parola inizia (nel caso dell’ungherese). Si prenda ancora l’inglese: se una consonante occlusiva iniziale di parola (p, t, ecc.) è aspirata, questo è indice di inizio di parola. Questi “segnali” vanno studiati, capiti ed insegnati. Ma solo una preparazione raffinata può organizzare queste informazioni lingua per lingua. In conclusione: gli insegnanti non ricevono istruzione adeguata rispetto alle teorie (e per colpa dell’organizzazione degli studi universitari) che – se studiate in funzione di applicazioni mirate – potrebbero aiutare molto a comprendere i meccanismi raffinati che ogni lingua possiede. E qui si potrebbe fare un’altra osservazione che riguarda il fatto che le applicazioni in Italia sono arretrate rispetto alle conoscenze generali che oggi abbiamo del fenomeno “linguaggio umano”. LETitFLY ‐ OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 155 Basterebbe pensare a dei siti web dove l’articolazione dei suoni è ben illustrata non solo con filmati ma anche con sezioni sagittali dell’apparato vocale e degli organi articolatori implicati nella formazione di ogni suono. Due siti molto interessanti possono essere: ‐ http://www.uiowa.edu/~acadtech/phonetics/about.html# ‐ http://www.paulmeier.com/ipa/charts.html Questa questione è un po’ simile alla situazione dei dialetti in Italia: ci si vanta di avere una ricchezza straordinaria di dialetti diversi, ma questi non sono stati adeguatamente studiati, per colpa soprattutto di una tradizione storicistica che ha privilegiato lo studio dell’evoluzione diacronica dal latino ai vari dialetti, relegando in ambiti ristretti lo studio del funzionamento sincronico a livello morfologico e sintattico dei dialetti. Così, anche lo studio delle applicazioni glottodidattiche ha fatto in Italia gran rumore ma non sono stati approntati strumenti didattici efficienti almeno adeguati a quanto oggi sappiamo delle lingue del mondo. Con gruppi di lavoro mirati si potrebbe disporre di strumenti più adeguati, più innovativi e all’interno di quadri “alla moda” (absit iniuria verbo...) come internet sarebbe in grado di offrire. Per concludere, LETitFLY sì ma con qualche aggiustamento in modo che si voli in right direction. Bibliografia Bisetto A., “Composizione con elementi italiani”, in Grossmann M. e Rainer F. (eds.), La Formazione delle parole in italiano, Niemeyer, Tuebingen, 2004, pp. 33‐51, pp. 53‐55. Ceccagno A. e Scalise S., “Composti del cinese: analisi delle strutture e identificazione della testa”, in Palermo A.M., La Cina e lʹaltro, Il Torco‐ liere, Napoli 2005, pp. 1‐29. Eurom 4: método do ensino simultâneo das linguas românicas, La Nuova Italia, Firenze, 1997, coordinato da C.B. Benveniste e A. Valli. 156 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO Graffi G. e Scalise S., Le lingue e il Linguaggio, Il Mulino, Bologna 2004. Guevara E. e Scalise S., V‐Compounding in Dutch and Italian, Cuadernos de Lingüística del Instituto Universitario Ortega y Gasset , Madrid – XI, 2004, pp. 1‐29. Mcwhorter H. John, “The World’s Simplest Grammars Are Creole Grammars”, in Linguistic Typology, 5, 2001, pp. 125‐166. Moro A. 2006, I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, Longanesi, Milano, 2006. Packard L. Jerome, The Morphology of Chinese. A Linguistic and Cognitive Approach, Cambridge University Press, New York , 2000. Salvi G.P. e Vanelli L., Nuova grammatica italiana, il Mulino, Bologna, 2004. Scalise S., Morfologia, Il Mulino, Bologna, 1994. Scalise S. (a cura di), Eurotaal: le lingue d’Europa, “Lingua e Stile”, 2000. Scalise S. (a cura di), I “Risultati della linguistica”, in Lingue e Linguaggio, 2003. Scalise S. e Ceccagno A., “Facile o difficile? Alcune riflessioni su italiano e cinese”, in Bosc F., Marello C., Mosca S. (a cura di), “Sapere per insegnare. Formazione di insegnanti di italiano LS/L2 fra scuola e università”, Loescher, Torino, 2006, pp. 153‐177. Scalise S. e Guevara E., Endocentricità ed esocentricità dei composti dell’italiano, presentato al IX Congresso Internazionale della Società di Linguistica Italiana, Prospettive nello studio del lessico italiano, Firenze, Giugno 2006. COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 157 COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? UNA LETTURA SOCIOLINGUISTICA DEL RAPPORTO LA DOMANDA DI FORMAZIONE LINGUISTICA DELLE IMPRESE ITALIANE Gaetano Berruto Università degli Studi di Torino Padova, 23 giungo 2006 1. Nella presente relazione prenderemo in esame, da una prospettiva latamente sociolinguistica, i dati relativi alla domanda di formazione linguistica da parte delle imprese, focalizzando l’attenzione sui problemi sollevati dall’indagine che paiono più rilevanti sia in relazione alla problematica della formazione sia in relazione più ampiamente alla politica linguistica e culturale. Cominceremo con lo schizzare il significato generale dei risultati, e passeremo poi a discuterne aspetti particolari. La prima impressione epidermica che lasciano i dati del rapporto LETitFLY su La domanda di formazione linguistica delle imprese italiane (Progetto LETitFLY, Settembre 2006: d’ora in avanti, Domanda imprese) è quella di un evidente scollamento fra gli atteggiamenti e i comportamenti: “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, verrebbe da commentare di primo acchito con una chiosa proverbiale. Infatti, le opinioni rilevate (che dovrebbero rivelare gli atteggiamenti e le rappresentazioni che i soggetti si fanno della realtà) e i comportamenti dichiarati (che, in relazione agli atteggiamenti, tale realtà dovrebbero mettere in atto) appaiono contraddittori. Occorrono qui un paio di precisazioni teorico-metodologiche, ben note agli addetti ai lavori. Va infatti tenuto conto in primo luogo che si entra, con un indagine del genere, nella problematica, più delicata forse di quanto può apparire ai profani, del rapporto fra atteggiamenti e comportamenti in fatto di lingua: rapporto che è mediato, non immediato, e può anche risultare ambiguo; non sempre c’è coerenza tra atteggiamenti e comportamenti, e i comportamenti non possono essere fatti derivare ipso facto dagli atteggiamenti (Berruto 1995, pp. 109-113). In secondo luogo, a proposito di indagini PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 158 condotte con questionari che mirino a rilevare atteggiamenti e comportamenti dichiarati, occorre rilevare che non è affatto detto che le risposte degli informatori corrispondono alla realtà di fatto. Bisogna infatti sempre muoversi nello spazio fra ciò che effettivamente succede, ciò che le persone pensano che succeda e ciò che le persone vorrebbero che succedesse. Con queste cautele, comunque, i dati di inchieste con questionari sono ampiamente usati in sociologia e in sociolinguistica, in quanto rappresentano l’unica modalità veramente efficace di accesso a grosse quantità di dati rappresentativi, e consentono in ogni caso di apprezzare e analizzare per lo meno quali sono le rappresentazioni dei soggetti sul fenomeno indagato, rappresentazioni che sono di cruciale importanza per comprendere bene la situazione. 2. Esplicitato questo, si ricava come acquisizione fondamentale dalla Domanda imprese che la stragrande maggioranza delle imprese sembra avere coscienza dell’importanza e utilità generale (e dovremmo dire economica) della formazione linguistica; ma, sempre detto in soldoni, le competenze linguistiche del personale per la grande maggioranza delle imprese non risultano avere un ruolo nella selezione, e la maggioranza delle imprese non pare intenzionata ad intraprendere iniziative specifiche per un incremento della formazione linguistica dei dipendenti. Sembra, in altre parole, che ci sia una scarsa specificità dell’imprenditore in relazione a competenze linguistiche. Semplificando molto, assistiamo al profilarsi netto di un generico atteggiamento favorevole alla formazione linguistica (che del resto non si vede come potrebbe presentarsi altrimenti: se chiediamo in giro “è meglio sapere una lingua straniera o non saperne nessuna?” è ovvio che tutti troveranno meglio sapere una lingua, senza che questo peraltro abbia alcuna connessione con la disposizione e motivazione effettiva a studiare e imparare le lingue, e tantomeno con l’impegno a farlo; (si tratta di un common good); ma è diffuso un atteggiamento indifferente verso il reale potenziamento della presenza delle lingue in azienda. Le lingue tendono ad essere viste come un surplus, o un lusso, non certo centrale per la vita dell’impresa. COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 159 Vi è, però, una seconda constatazione fondamentale, che corregge la prima impressione. Infatti appare molto evidente una notevole divaricazione fra le grandi imprese e le altre. Grandi differenze nei sottocampioni ci rivelano in effetti due mondi quasi separati: le piccole e piccolissime imprese, caratterizzate da scarsissima sensibilità verso le lingue, e le grandi imprese, che manifestano una sensibilità assai più sviluppata. Nel seguito, cercheremo pertanto di discutere la dialettica fra questi due Leitmotiv della presente ricerca sui bisogni linguistici delle imprese, sulla base di alcuni dati specifici particolarmente significativi emergenti dall’indagine. 3. Se, seguendo il percorso dell’inchiesta, cominciamo la nostra disamina dal dato grezzo generale riguardante la presenza di fatto nelle imprese di addetti che usano lingue straniere, constatiamo che da questo dato molto poco differenziato risulta che pur sempre in metà delle imprese vi sono parlanti che si trovano ad utilizzare una lingua che non è l’italiano, e in un quarto vi è personale straniero, presumibilmente parlante nativo di una lingua diversa dall’italiano (v. tab. 1 [tab. 1 di Domanda imprese]). Quindi, la presenza di lingue straniere appare tutt’altro che insignificante. Tab. 1 - Presenza di lingue straniere nel personale % Presenza di addetti che usano lingue Presenza di personale straniero straniere Sì 50,2 23,5 No 49,8 76,5 Una prima caratterizzazione interessante per chiarire la portata di questo dato complessivo ci è fornita dalla tab. 2 [tab. 6 di Domanda imprese], riguardante l’importanza attribuita agli obiettivi di sviluppo e miglioramento dell’azienda. Emerge qui chiaramente la grande differenza fra le piccolissime imprese (e in misura minore le piccole e medie imprese) e le grandi imprese. Per le 160 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO microimprese, nessun obiettivo raggiunge i 4 punti (su una scala da 0 a 5), e in particolare risulta basso il livello di importanza attribuito all’affermarsi sui mercati esteri ed aumentare il livello delle esportazioni (che va naturalmente considerato l’obiettivo che più da vicino concerne le lingue); e l’obiettivo privilegiato è quello di ridurre i costi di produzione. Mentre per le grandi imprese solo il livello dell’obiettivo “promozione del marchio” scende sotto il valore 4, e l’obiettivo considerato di più alto livello è quello della formazione del personale (che anch’esso può avere importanti ricadute sulla questione delle lingue). Per percepire meglio la nettezza della contrapposizione fra le due categorie, si badi che la divaricazione fra il valore medio minimo ottenuto (2,42) e quello medio massimo (4,33), essendo la scala a 5 punti, corrisponde a una differenza del 38% abbondante (traducendo in percentuali, fra il 48,4% e il 86,6%), e il valore più alto è quasi il doppio di quello più basso; e la differenza per l’obiettivo “affermarsi all’estero ecc.” è del 32%, anch’essa molto rilevante. Tab. 2 - Grado di importanza degli obiettivi aziendali (scala 1-5) OBIETTIVI Microimprese Pmi Grandi imprese affermarsi all’estero/aumentare le 2,42 3,50 4,03 ridurre i costi di produzione 3,90 4,19 4,10 promuovere il marchio 3,53 3,67 3,70 formare il personale 3,87 3,73 4,33 ampliare la rete di 3,60 4,22 4,05 3,83 3,96 4,22 esportazioni distribuzione/vendita innovare il prodotto È universalmente risaputa la grandissima presenza, e valenza, in Italia delle imprese molto piccole (si parla infatti a volte al proposito, con abusata ma efficace metafora, di “nanismo”); si tratta anzi, com’è noto, di un connotato caratteristico che rende il sistema produttivo italiano unico nel panorama COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 161 economico delle nazioni sviluppate. La rilevanza di questa dicotomia appare in tutta evidenza anche qui: la gerarchia degli obiettivi, a parità di ogni altro fattore, è determinata in maniera sensibile dalle dimensioni delle imprese. Tenuto conto della grande differenza fra le due categorie e del fatto ovvio che le grandi imprese coinvolgono e interessano un numero molto più alto di persone e sono quindi assai più consistenti e rappresentative demograficamente, si potrebbe osservare a questo proposito dal punto di vista della metodologia dell’indagine che, per dare un quadro più esatto della situazione generale ogni volta che si considerino i risultati globalmente, sarebbe forse stato opportuno ponderare i dati attribuendo un valore più rappresentativo alle grandi imprese: per intenderci, è più significativo, anche e soprattutto per le conseguenze che ciò può avere ai fini della questione che ci interessa in questa sede che, per dire, una sola grande impresa attribuisca molta importanza all’obiettivo di affermarsi all’estero che non che un certo numero di piccolissime imprese vi attribuisca relativamente poca importanza: 1 grande impresa conta assai di più, ai nostri scopi valutativi, dato l’impatto assai più ampio che può avere in termini per lo meno del numero di soggetti coinvolti, di 1 microimpresa. Domanda imprese (p. 14) scrive comunque giustamente che si ricava da questi dati un “profilo del campione […] piuttosto problematico, in quanto prevalgono atteggiamenti di chiusura, certamente dovuti alla prevalente dimensione ridotta delle imprese, ma anche ad una scarsa propensione a valutare positivamente la discontinuità che l’integrazione a livello mondiale degli scambi sta innescando”. 4. Ma veniamo alle questioni che interessano direttamente le lingue. La stessa Domanda imprese (p. 27) nota correttamente che “in generale si ottiene un atteggiamento contraddittorio delle aziende rispetto alla possibilità di utilizzare le lingue”. I dati sono in effetti lampanti a questo proposito, come esamineremo meglio nel seguito: i tre quarti degli intervistati constatano la necessità di avere personale con competenze linguistiche, ma la metà affermano contemporaneamente che è inutile organizzare corsi di lingua e ben i due terzi ritengono che nel lavoro è sufficiente avere competenze PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 162 linguistiche minime; un quarto afferma inoltre che le lingue straniere non sono per loro di alcuna utilità; e quasi i due terzi non sottopongono ad alcuna valutazione le competenze linguistiche nel reclutamento del personale. La conclusione della Domanda imprese è inevitabile (p. 27): le indicazioni fornite segnalano “un certo scetticismo nei confronti delle lingue”. Ma è davvero così, tale scetticismo è generale? Se scorporiamo i dati in relazione alla dimensione delle imprese, notiamo subito differenze notevoli su più questioni. Per esempio, quanto alle lingue ritenute più utili in generale (v. tab. 3 [tab. 18 di Domanda imprese]). Tab. 3 - Lingue straniere più utili in generale (%) % Totale Microimprese Pmi Grandi imprese inglese 99,4 99,3 99,9 100 tedesco 28,3 27,6 31,9 45,4 francese 27,7 28,1 25,5 26,2 spagnolo 19,7 19,1 24,2 22,9 cinese 7,3 7,3 7,6 2,6 russo 1,9 2,0 0,9 0,4 giapponese 0,8 1,0 - - altre 0,3 0,4 - - Accanto all’ovvia predominanza assoluta dell’inglese, spicca qui il rapporto in un certo senso inverso tra tedesco e cinese. Il tedesco ha una posizione di notevole rilevanza, come lingua trainante in Europa, e spicca per l’utilità che gli viene attribuita dalle grandi imprese, di cui quasi metà, contro poco più di un quarto delle microimprese, lo menziona posizionandolo al secondo rango per importanza con 20 punti percentuali di vantaggio sul francese; le piccolissime imprese invece menzionano il cinese (e anche il russo, sia pure con percentuali molto basse) all’incirca tre (e rispettivamente quattro) volte di più che non le grandi imprese. In generale, le microimprese presentano poi una dispersione maggiore dei valori, mentre le grandi imprese tendono a concentrarsi di più su un drappello ristretto di lingue fondamentali. COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 163 5. L’immediato contraltare ai dati circa la percezione del grado di utilità generale delle lingue straniere è fornito dai dati relativi alle lingue che risultano specificamente utili alle singole aziende (v. tab. 4 [tab. 20 di Domanda imprese]). Essi ci danno un quadro del tutto corrispondente al precedente, fatta salva una certa emergenza dell’arabo, che compare al sesto posto, con l’1% (stupisce invece un po’, ma avrà le sue ragioni specifiche, la presenza dell’albanese fra le nove lingue più menzionate). Tab. 4 - Lingue straniere più utili per le singole aziende (%) 1. inglese 71,9 6. arabo 1,0 2. tedesco 20,6 7. albanese, giapponese, russo 0,4 3. francese 17,6 10. romeno, altre lingue comunitarie 0,2 4. spagnolo 6,7 12. altre lingue slave 0,5 5. cinese 2,0 Il dato più significativo è tuttavia qui che ben il 25% delle imprese (24,6% globalmente, con la solita diversificazione fra microimprese, 25,2%, e grandi imprese, 12,0%) affermi di non avere nessun bisogno di conoscenza di lingue straniere. Che dà dunque da presumere che nell’epoca di internet un quarto delle imprese italiano non si trovi ad avere alcun contatto con lingue straniere (dato a prima vista incredibile)! Con buona pace dello stucchevole ritornello “delle tre I” (Impresa, Internet, Inglese) che si è sentito ripetere alla noia negli ultimi anni… A completare il quadro della presenza delle lingue nelle aziende, è opportuno ora considerare, per le aziende in generale che hanno dichiarato di avere addetti che utilizzano le lingue straniere per lo svolgimento dell’attività, quali siano le lingue utilizzate dagli addetti (v. tab. 5 [tab. 31 di Domanda imprese]). 164 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Tab. 5 - Lingue straniere utilizzate dagli addetti in azienda (%) 1. inglese 92,5 2. francese 32,3 3. tedesco 19,7 4. spagnolo 8,6 5. russo 1,3 6. arabo 0,9 7. cinese 0,8 8. giapponese, svedese, altre lingue slave 0,3 9. albanese 0,2 10. olandese, romeno 0,1 11. altre 0,2 Il dato meritevole di commento è qui che il francese emerge decisamente al secondo posto, scavalcando il tedesco che lo precedeva sia nella graduatoria di utilità generale percepita sia in quella delle lingue più utili per l’azienda. È evidente che tale risultato va riportato al fatto assai banale che nel nostro paese le conoscenze di francese (fino a un paio di decenni fa la lingua straniera più studiata a scuola) sono tuttora largamente più diffuse nella popolazione che non quelle di tedesco. Più significativa, pur nell’esiguità dei valori percentuali, ci sembra la constatazione che, se scorporiamo i dati delle imprese dei distretti, vi appare menzionato (0,5%, alla pari con olandese, romeno e svedese) anche il turco. La presenza sia pure molto marginale di svedese e olandese conferma la rilevanza che hanno i rapporti con il mercato mittel- e nordeuropeo, già sottolineata dall’importanza del tedesco, che si profila chiaramente per le imprese come la seconda lingua straniera – la prima in realtà, dato che il primo posto dell’inglese, lingua della tecnologia e delle scienze, del commercio, del potere economico e politico mondiale e della globalizzazione (v. una disamina essenziale della questione in Crystal 2005), è di default. Nemmeno la presenza marginale del romeno stupisce, dati i rapporti che, specialmente nel settore delle piccole imprese, legano in particolare l’Italia di Nord-Est con la Romania. Possiamo citare a questo proposito due fatti, fra gli altri, poco più che aneddotici, ma comunque sintomatici. È noto che esiste da anni, tre giorni la settimana, un volo regolare Verona-Timişoara. Ed è una vera leccornia dal punto di vista sociolinguistico la pubblicazione, sempre a Verona, di un Breve dizionario Veneto-Romeno, Român-Veneto. Par badanti, butei, fameje (Edimago, Verona 2004, € 9,50), che sarà certo destinato primariamente alle badanti, ma che evidenzia comunque la presenza della lingua romena per così dire sul mercato nell’Italia nordorientale. COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 165 Il linguista, ma anche il profano, sarà poi interessato a un confronto fra la gamma delle lingue in qualche modo presenti nelle rappresentazioni e nella realtà del mondo imprenditoriale e la lista delle “grandi lingue” del mondo. Diamo anzitutto il panorama delle lingue demograficamente più importanti, in termini del numero assoluto di parlanti di madrelingua (v. tab. 6). Tab. 6 - Le lingue del mondo col maggior numero di parlanti nativi (2003; parlanti in milioni; fra parentesi l’incremento percentuale in vent’anni, dal 1983; da Mioni 2005, p. 8) 1. cinese sett 902 (+21%) 19. coreano 72 (+14%) 2. hindi-urdu 457 (+32%) 20. panjabi (India) 74 (+39%) 3. inglese 384 (+24%) 21. francese 74 (+2,7%) 4. spagnolo 366 (+32%) 22. italiano 70 (+5,7%) 5. arabo 254 (+36%) 23. persiano-darí-tagico 68 (+47%) 6. bengali 198 (+28%) 24. turco osmanli 63 (+28%) 7. portoghese 171 (+27%) 25. min del Sud (Cina) 60 (+26%) 8. russo 160 (+1,2%) 26. xiang (Cina) 53 (+20%) 9. indones.-malese 157 (+33%) 27. tagalog (Filippine) 50 (+42%) 10. giapponese 132 (+6,8%) 28. gujarati (India) 11. tedesco 98 (+3%) 49 (+26,5%) 29. hakka (Cina) 47 (+23%) 12. wú (Cina) 93 (+19%) 30. thai (Thailandia) 46 (+13%) 13. giavanese 85 (+27%) 31. swahili (Africa Or.) 44 (+30%) 14. telugu (India) 85 (+30%) 32. malayalam (India) 41 (+29%) 15. marathi (India) 76 (+30%) 33. kannada (India) 40 (+29%) 16. cantonese (Cina) 75 (+26%) 34. hausa (Nigeria) 40 (+25%) 17. vietnamita 75 (+32%) 35. polacco 39 (+0,9%) 18. tamil (India) 73 (+27%) 36. ucraino 39 (+ 0,9%) Accanto a questa graduatoria aggiornata basata sul numero presuntivo di persone che parlano la lingua come lingua materna, sarà utile un confronto con una graduatoria, sia pure meno aggiornata nei dati (sempre presuntivi, e quindi a volte discordanti in dipendenza della fonte), che tenga conto anche del numero di parlanti non nativi, cioè delle persone che parlano una certa lingua avendola imparata, a scuola o in altro modo, come lingua seconda, come nella seguente tab. 7. PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 166 Tab. 7 - Lingue del mondo (da Berruto 2004, p. 32; dati al 1999-2000, cifre tra parentesi in milioni): per numero (stimato) di parlanti nativi per numero (stimato) di parlanti differenza percentuale numero di paesi in cui vi sono gruppi parlanti cinese mandarino 1. (800) 1. (1000) + 25% 16 hindi/urdu 2. (550) 3. (900) + 64% 23 inglese 3. (400) 1. (1000) + 150% 105 spagnolo 3. (400) 4. (450) + 12,5% 44 arabo 5. (200) 6. (250) + 25% 30 bengali 6. (190) 6. (250) + 32% 9 portoghese 7. (180) 6. (250) + 39% 34 russo 8. (170) 5. (320) + 88% 31 malese/indonesiano 9. (165) 9. (190) + 15% 8 giapponese 10. (120) 10. (130) + 8% 27 tedesco 11. (100) 11. (125) + 25% 41 francese 12. (90) 11. (125) + 39% 54 wú 13. (85) coreano 17. (75) vietnamita 17. (75) italiano 19. (70) (75-80?) + 7-14%? 30 [4] In rapporto alla nostra questione delle lingue nella rappresentazione delle imprese, non vi sono in realtà grandi osservazioni da fare, al di là della mera constatazione di presenze e assenze la cui spiegazione appare del tutto ovvia. È tuttavia non privo di interesse che sia estranea al panorama delle lingue di qualche rilevanza per le imprese una lingua neolatina come il portoghese, dotata di un retroterra ampio e potenzialmente fra i più promettenti dal punto di vista economico qual è il Brasile. Considerazioni analoghe si hanno facendo invece riferimento alla presenza delle lingue in internet (v. tab. 8, tratta da B. Lanvin, L’anglais sur Internet, colosse aux pieds d’argile, “Le Temps”, 16 settembre 2005, p. 18; cifre un po’ diverse, relative ad anni diversi, ma della stessa valenza, sono fornite da Pennisi 2005). COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 167 Tab. 8 - Lingue in internet (luglio 2005) utenti in milioni utenti in % sul totale utenti di internet 1. inglese 297 31,6 2. cinese 124 13,2 3. giapponese 78 8,3 4. spagnolo 61 6,4 5. tedesco 55 5,9 6. francese 39 4,1 7. coreano 32 3,4 8. italiano 29 3,0 9. portoghese 29 3,0 10. olandese 15 1,6 totale 10 lingue 756 80,5 altre lingue 183 19,5 totale mondiale 939 100 Fra le nove lingue, oltre all’italiano, più rappresentate in internet e che coprono nell’insieme i quattro quinti dei siti e degli scambi in rete, coreano e portoghese non rientrano nella dozzina di lingue più menzionate dalle imprese: per la ragioni anzidette, la cosa pare un po’ strana per il portoghese, mentre la grande distanza linguistica, evidentemente non compensata da una sufficiente massa critica di attività economica, vale a spiegare l’assenza del coreano. 6. Veniamo ora al giudizio dato dalle imprese sulle conoscenze linguistiche del personale e sulla loro utilizzazione. Domanda imprese (p. 37) nota giustamente anche qui che risulta una potenziale contraddizione: infatti “dalle opinioni espresse si inferisce l’esistenza di una divaricazione tra percezione d’utilità e acquisizione in azienda di conoscenze, competenze, abilità linguistiche. Queste ultime sembrano, infatti, rappresentare sostanzialmente un asset aziendale, se proiettato all’esterno del proprio contesto di riferimento”. Ma di nuovo occorre sottolineare che le PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 168 microimprese e le grandi imprese paiono configurare due mondi aziendali completamente diversi. È quello che emerge in maniera spiccata e concorde dai dati relativi all’utilità attribuita al personale con conoscenze linguistiche (v. tab. 9 [tab. 23 di Domanda imprese]), da quelli circa le funzioni aziendali per le quali sono valutate le competenze linguistiche nella selezione del personale (v. tab. 10 [tab. 25 di Domanda imprese], da quelli riguardanti le iniziative ultimamente intraprese per la formazione linguistica del personale (v. tab. 11 [tab. 32 di Domanda imprese]). Tab. 9 - Grado di utilità del personale con conoscenze linguistiche (%) Microimprese Pmi Grandi imprese molto 18,9 38,2 45,5 abbastanza 30,5 24,2 31,5 poco 30,4 20,1 20,7 per niente 19,9 17,5 1,6 Tab. 10 - Funzioni per le quali sono valutate le competenze linguistiche in sede di selezione (%) Totale Grandi imprese NESSUNA 66,1 21,9 addetti alla commercializzazione 17,3 50,3 impiegati 15,9 55,7 dirigenti 6,4 43,9 funzionari/quadri 5,4 43,0 operai 4,1 3,8 Tab. 11 - Corsi/iniziative per la formazione linguistica del personale negli ultimi due anni (%) Microimprese Pmi Grandi imprese 4,1 5,8 43,1 COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 169 Le cifre parlano da sole: sulla base di una diffusione in generale (anche nelle grandi imprese) meno ampia di quel che sarebbe auspicabile della convinzione dell’utilità del sapere le lingue, solo meno di un quinto delle piccolissime imprese, contro quasi la metà delle grandi imprese, giudica “molto utile” il personale con competenze linguistiche; e ben un quinto delle piccolissime imprese lo giudica “per niente utile”. Le differenze fra i due mondi diventano macroscopiche riguardo alle funzioni all’interno dell’impresa per le quali sono richieste o augurabili, e dunque valutate al momento della selezione del personale, conoscenze linguistiche: per addirittura i due terzi delle imprese in generale non vengono valutate nella selezione del personale conoscenze linguistiche per nessuna funzione, mentre lo vengono almeno per qualche funzione in quasi i quattro quinti delle grandi imprese (ma va osservato anche che, v. tab. 27 della Domanda imprese, quando vengono valutate lo sono in quasi la metà dei casi solo mediante le autodichiarazioni dei candidati); inoltre più dei due quinti delle grandi imprese valutano competenze linguistiche per dirigenti e vertici aziendali e per funzionari e quadri, di fronte a un misero 5-6% in generale. Stessa proporzione, con cifre pressoché trascurabili per le microimprese e per le piccole e medie imprese, si ha quanto all’aver organizzato recentemente corsi e attività per la formazione linguistica del personale. Inoltre, laddove siano state intraprese iniziative per la formazione linguistica (v. tab. 34 di Domanda imprese), nelle grandi imprese queste hanno riguardato gli impiegati nell’82,2% dei casi e funzionari e quadri nel 56,8% dei casi contro i soli 33,5% e 14,6% rispettivamente nelle microimprese. Anche per quel che riguarda le lingue che sono state oggetto di formazione, le grandi imprese si differenziano sia per la sensibilmente maggiore (a parte naturalmente l’onnipresenza di default dell’inglese) quantità relativa dell’attenzione rivolta che per la gamma delle lingue studiate, mentre le microimprese e le piccole e medie imprese sono concentrate pressoché esclusivamente sull’inglese (v. tab. 12 [tab. 36 di Domanda imprese]). Ancor più significativa è la divaricazione circa eventuali iniziative future a breve termine per la formazione linguistica (v. tab. 13 [tab. 45 di Domanda imprese]): più dei due terzi delle piccolissime imprese, e quasi i due terzi 170 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO delle piccole e medie imprese, dicono “sicuramente no”, mostrandosi dunque del tutto disinteressate alla questione, mentre un terzo delle grandi imprese si dichiarano sicuramente intenzionate a organizzare corsi o attività, contro un trascurabile due e mezzo per cento delle piccolissime imprese. Una volta di più, l’interesse verso le lingue e la formazione linguistica appare direttamente proporzionale alla dimensione delle imprese, che risulta allora dal complesso di questa indagine la variabile di gran lunga più significativa e determinante, il più netto e principale fattore di variazione, quanto al rapporto fra impresa e lingue. In generale comunque la propensione ad organizzare attività di formazione linguistica non risulta spiccata: nota giustamente la Domanda imprese (p. 59) che “sommando insieme chi propende per il no con chi ritiene che sicuramente non effettuerà nessun intervento formativo, anche per le grandi imprese otteniamo una propensione negativa (47,6%)” (superiore sia pure di pochissimo alla speculare propensione positiva, 46,4%). Tab. 12 ‐ Lingue studiate nei corsi/iniziative di formazione negli ultimi due anni (%) Microimprese Pmi Grandi imprese inglese 100 100 96,6 tedesco 3,5 4,9 14,4 spagnolo 2,7 4,7 3,8 francese ‐ 9,4 20,6 russo ‐ ‐ 1,0 Quanto alle lingue che la minoranza di imprese ha risposto di voler sicuramente o probabilmente fare oggetto di formazione (e questa volta le differenze fra le grandi imprese e le altre non sono più così nette, se non per il francese: 22,7% per le grandi imprese contro 6,5% per le microimprese), il panorama è ovviamente dominato dall’inglese. Nel drappello delle altre lingue commercialmente appetibili, il secondo posto è del tedesco, ma con 83 punti percentuali di distacco dall’inglese, e le altre lingue sono relegate a percentuali inferiori al 10% (v. tab. 12 [tab. 47 di Domanda imprese]). COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 171 Tab. 13 - Propensione alla formazione linguistica nei prossimi due anni (%) Microimprese Pmi Grandi imprese sicuramente no 67,7 62,8 18,5 probabilmente no 19,5 20,5 29,1 probabilmente sì 6,9 9,3 13,5 sicuramente sì 2,6 4,8 32,9 Tab. 14 - Lingue oggetto di formazione nei prossimi due anni (%) 1. inglese 94,5 4. spagnolo 2,1 2. tedesco 11 5. cinese, russo 1,0 3. francese 9,5 7. giapponese 0,8 7. A questo punto sarà interessante confrontare il quadro che risulta dalle opinioni e dalle affermazioni delle imprese col panorama che risulta dall’indagine svolta sulla popolazione italiana complessiva, facendo riferimento ai risultati esposti nell’altro rapporto LETitFLY su La domanda di formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY, Settembre 2006: d’ora in avanti Domanda popolazione). Vedremo quindi la situazione com’è fotografata dal punto di vista delle aziende e com’è fotografata dal punto di vista dei potenziali utenti, in un certo senso “dalla parte dei lavoratori” contrapposta alla “parte dei datori di lavoro”. La graduatoria delle lingue conosciute dalla generalità della popolazione e in relazione ad alcuni fattori sociali rilevanti (v. tab. 15 [tabb. 1, 4 e 5 di Domanda popolazione]) non può che mostrare l’ovvia predominanza dell’inglese. I due terzi della popolazione affermano comunque di conoscere almeno una lingua straniera: si tratta indubbiamente di una percentuale alta, su cui andrà fatta la tara di che cosa voglia veramente significare dichiarare di “sapere una lingua”, abilità che, per poter essere adeguatamente valutata al di là delle impressioni soggettive, andrebbe testata con appositi strumenti. La conoscenza dichiarata di lingue straniere correla comunque fortemente con l’età: solo meno di un decimo della classe d’età dei giovani dice di non PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 172 conoscere alcuna lingua straniera, e ben quasi il novanta per cento denuncia conoscenze di inglese; la conoscenza dell’inglese crolla a un misero 15% nella classe d’età più anziana, presso la quale invece (così come nella classe d’età 45-64) il francese precede nettamente l’inglese: la curva rilevata dall’indagine riflette dunque molto bene l’inversione verificatasi fra gli anni Settanta e Ottanta tra francese e inglese come prima lingua straniera insegnata nelle scuole. Peraltro i quasi due terzi degli anziani dichiarano di non conoscere alcuna lingua straniera, il che riflette certamente l’aumento medio del grado di istruzione per le giovani generazioni. La controparte più diretta dell’universo imprenditoriale indagato, quella quindi che ci interessa più direttamente in questo confronto, è ovviamente costituita dalla popolazione con occupazione dipendente. Essa mostra mediamente una conoscenza delle lingue straniere lievemente maggiore che nel complesso della popolazione; e soltanto poco più di un quinto dei dipendenti afferma di non conoscere nessuna lingua. Tab. 15 - Lingue straniere conosciute dalla popolazione italiana (%) totale 15-24 a. 25-44 a. 45-64 a. >64 a. con occupazione dipendente inglese 45,4 87,7 59,5 32,4 15,0 55,7 francese 35,5 39,5 35,7 40,1 26,5 40,5 tedesco 7,0 11,1 6,9 5,4 6,6 8,2 spagnolo 5,6 8,3 5,4 5,0 4,9 4,8 altre 3,3 1,8 3,0 3,1 4,7 2,8 nessuna 33,8 8,6 22,8 39,2 59,5 22,5 Tale quadro sostanzialmente ottimistico (con le riserve accennate sopra sulle reali abilità in lingua straniera dei parlanti che dichiarano di conoscere lingue) circa la presenza delle lingue straniere nella popolazione in generale e nella popolazione occupata in particolare va però incontro a una delusione quando si vanno a vedere le cifre relative all’effettiva utilizzazione della lingua straniera conosciuta sul lavoro (v. tab. 16 [tab. 14 di Domanda popolazione]). COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 173 Tab. 16 - Utilizzazione della lingua straniera sul lavoro da parte della popolazione occupata dipendente che conosce una lingua (%) sì, attualmente sì, in passato no, mai 34,4 3,8 61,8 Quasi i due terzi degli intervistati che hanno un’occupazione dipendente e hanno qualche competenza di una lingua straniera infatti non hanno attualmente e non hanno mai avuto in passato l’occasione di usare tale lingua sul lavoro. Siamo in presenza di un mondo aziendale fondamentalmente monolingue; si conferma pienamente qui, dal lato dei lavoratori dipendenti, la concezione delle conoscenze di lingue straniere come un extra non importante nel mondo della produzione, un surplus inessenziale, che era emersa dalle opinioni degli imprenditori (v. par. 2 sopra). Sarebbe a tal proposito anche interessante, per completare il quadro effettivo delle lingue nell’impresa italiana, compiere un’indagine capillare su vasta scala circa la presenza di requisiti di competenze linguistiche nelle offerte d’impiego. Una recentissima indagine dell’Unioncamere e del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (Rapporto Excelsior 2006. Alcune tendenze evolutive del mercato del lavoro in Italia, p. 60) rileva che fra il 2005 e il 2006 il numero delle assunzioni di diplomati di scuola secondaria a indirizzo linguistico è aumentato del 12,5%. Sarebbe bene saperne di più e più in dettaglio, su tali aspetti della questione. Certamente siamo in ogni caso in una situazione a priori ben diversa da quella di un piccolo paese multilingue come il Lussemburgo, dove per esempio un’indagine (Pigeron-Piroth/Fehlen 2005) rilevava nel 2004 che su un campione di 1075 offerte di lavoro apparse nel giornale Luxemburger Wort meno di un terzo (il 31,5%) non richiedeva alcuna conoscenza linguistica, mentre il 33,8% richiedeva addirittura tre lingue, il 19,5% due lingue, il 9,7% una lingua e il 5,4% quattro lingue. E con una diminuzione progressiva delle offerte senza requisiti di conoscenze linguistiche dal 53,8% del 1984 al 31,5%, appunto, del 2004. Le cifre italiane per forza non potrebbero mai essere paragonabili, essendo troppo diverse la situazione e le condizioni delle rispettive comunità parlanti; ma il 16,5% pare davvero poco… 174 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Sempre nell’ottica di un approfondimento della ricerca, appare a posteriori che sarebbero state utili domande specifiche su quando specificamente viene utilizzata, in quali occasioni e per quale scopo in concreto una lingua straniera in una data impresa. E sarebbero state utili, in questa prospettiva microsociolinguistica di ricostruzione della vita aziendale delle lingue, anche interviste a dipendenti dell’impresa che conoscessero una lingua straniera. Una certa divaricazione fra le immagini e le prospettive delle imprese e quelle della popolazione occupata dipendente emerge anche confrontando la paletta di lingue per cui le imprese hanno recentemente offerto o intendono a breve offrire iniziative di formazione con la paletta di lingue straniere che si ha intenzione di imparare (per inciso, sarebbe tuttavia meglio parlare di lingue che si ha intenzione di “studiare”) da parte della popolazione in generale. Anzitutto, va però segnalato qua il dato sconfortante, che fa stavolta perfetto parallelo con la prospettiva delle imprese (v. sopra tab. 11), di un generalizzato disinteresse nella popolazione a imparare lingue straniere in futuro: più di metà degli intervistati si dice sicuramente non intenzionato a imparare una (nuova) lingua straniera, e tre quarti abbondanti (78,1%) manifestano al proposito un atteggiamento negativo; atteggiamento negativo prevalente anche nei quasi due terzi (63,6%) della classe d’età più giovane (v. tab. 17 [tab. 32 di Domanda popolazione]). Tab. 17 - Intenzione di imparare una lingua straniera in futuro da parte della popolazione (%) totale in generale 15-24 anni sicuramente no 52,9 27,5 probabilmente no 25,2 36,1 probabilmente sì 17,9 28,4 sicuramente sì 4,0 8,0 Rispetto alle intenzioni di offerta delle imprese, che si concentrava su un piccolo gruppo di lingue con assoluta preminenza dell’inglese (cfr. tabb. 12 e 14 sopra), qui vi è invece una certa dispersione, e l’inglese pur essendo al COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 175 primo posto non raggiunge nemmeno la metà delle designazioni di interesse (v. tab. 18 [tab. 33 di Domanda popolazione]). Suscita notevole interesse lo spagnolo (forse perché viene percepita, ed esaltata, la sua vicinanza genetica e strutturale con l’italiano, che equivale ad una maggiore facilità di apprendimento), e quasi tutte le principali lingue sullo scenario mondiale ed europeo (cfr. tabb. 6, 7 e 8 sopra) sono rappresentate, sia pure con cifre percentuali molto basse. Tab. 18 - Lingue straniere che si ha intenzione di imparare in futuro (%) inglese 42,8 portoghese 1,1 spagnolo 32,9 olandese 0,5 tedesco 10,1 greco 0,4 francese 9,5 albanese 0,2 arabo 3,8 danese 0,2 cinese 2,7 svedese 0,2 russo 2,4 altre 0,7 giapponese 1,3 Infine, un dato utile a completare il quadro del confronto fra opinioni e intenzioni delle imprese e opinioni e intenzioni della popolazione è fra gli altri quello delle aspettative di quest’ultima circa le istituzioni che dovrebbero farsi carico dei costi dell’insegnamento di lingue straniere. Qui le opinioni sono decisamente stataliste e centraliste: più dell’85% degli intervistati afferma che la diffusione della conoscenza delle lingue è una questione pubblica, che i costi dovrebbero essere assunti dallo stato (ben i tre quarti degli intervistati) o dalle regioni o province (v. tab. 19 [tab. 28 di Domanda popolazione]). Il che è perfettamente coerente con l’immagine delle conoscenze delle lingue come, tutto sommato, poco specifiche e non troppo interessanti in ambito economico-produttivo, che viene chiaramente fuori dalla presente indagine. In particolare, un’infima minoranza anche fra i lavoratori dipendenti è dell’opinione che le spese dovrebbero essere sostenute dalle imprese stesse. PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 176 Tab. 19 - Chi dovrebbe sostenere le spese per l’apprendimento di lingue straniere (%) popolazione in generale popolazione occupata dipendente Pubblica Amministrazione centrale 74,0 70,9 Pubblica Amministrazione locale 13,6 15,3 l’interessato 6,3 6,2 le imprese 3,2 4,3 sia il pubblico che il privato 1,2 1,9 Il quadro delle lingue in azienda nell’Italia di oggi potrà poi essere integrato anche con un cenno al comportamento linguistico degli immigrati (che costituiscono uno dei gruppi bersaglio opportunamente messi a fuoco nella Domanda popolazione). I dati (v. tab. 20 [tab. 43 di Domanda popolazione]) confermano il generalmente ampio apprendimento e la grande diffusione dell’italiano come lingua franca presso gli immigrati messo in luce dalla copiosa ricerca sociolinguistica su lingue e immigrazione in Italia (v. per es. Giacalone Ramat, 2003; Chini, 2004). Tab. 20. Lingua usata sul lavoro da parte degli immigrati (%, N = 201) [Fonte: La domanda di formazione linguistico in Italia, Progetto LETitFLY, Novembre 2006. italiano 90,4 lingua materna 4,8 altra lingua 4,8 8. Veniamo ora a considerazioni conclusive e a un commento generale. L’esame che abbiamo compiuto, selezionando quelli che ci sembravano i principali risultati dell’indagine sulla domanda di formazione linguistica presso le imprese, permette di arrivare ad alcune conclusioni. Potremmo formularle riassuntivamente come segue. Sia per la società nel suo complesso che per i singoli cittadini, una lingua è allo stesso tempo un bene culturale ed ecologico e una risorsa economica. In Italia per lunga tradizione il plurilinguismo non è tuttavia considerato una risorsa veramente importante. Non appare veramente radicato negli atteggiamenti della COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 177 popolazione il principio che sapere (parlare) una lingua straniera rappresenta un notevole valore aggiunto, non solo culturalmente ma anche economicamente. E se una lingua straniera è importante, questa ha da essere necessariamente l’inglese, lingua globale internazionale. Ancora ad inizio Terzo Millennio quindi, nonostante i grandi mutamenti economico-culturali avutisi soprattutto sul piano della comunicazione nell’ultimo ventennio del ventesimo secolo, e le spinte sempre più forti alla globalizzazione, le opinioni espresse condivise, pur certamente favorevoli in linea di principio al plurilinguismo, paiono essere un fatto superficiale, non un costituente profondo nella coscienza collettiva dei parlanti. Tale situazione generale si riflette grosso modo anche nel mondo delle imprese. Gli atteggiamenti degli ambienti imprenditoriali in fatto di lingue riproducono in buona parte, e con differenziazioni interne, quelli che sono stereotipi e atteggiamenti vigenti nella comunità sociale nel suo complesso. Sviluppando il discorso, sono necessarie, per poter discutere più a fondo del significato del problema di cui ci stiamo occupando, ulteriori premesse. Occorre infatti tener conto anche dei presupposti recentemente sviluppati in economia dell’educazione e in economia delle lingue, nuovi settori di ricerca interdisciplinare (Grin, 1999; Grin, 2005) che sono specialmente rilevanti per le tematiche di LETitFLY. Ci limitiamo qua a richiamarne sommariamente alcuni dei concetti più salienti ai nostri scopi. In economia dell’educazione, è ampiamente assodata una teoria basilare del capitale umano, secondo cui “un attore che detiene certe competenze è più produttivo che se non le avesse” (Grin 1999, p. 43; traduzione mia, qui come nel seguito): saper fare certe cose (e quindi aver acquisito le competenze necessarie a farle) rappresenta un vantaggio per la produttività; assioma che pare ovvio, ma che è gravido di conseguenze anche magari in puri termini di teoria economica. Sapere una lingua è un tipico esempio di saper fare una cosa; e una cosa complessa, specialmente importante nel mondo attuale dominato dalla comunicazione. In economia della lingua, è altrettanto assodato ormai che la lingua costituisce un valore (una risorsa, una ricchezza) misurabile economicamente. In particolare, c’è “un valore mercantile delle competenze in lingue seconde [che] si traduce nei differenziali salariali che toccano alle 178 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO persone dotate di queste competenze”: Grin (1999, p. 35) giunge a tali conclusioni mostrando molto bene, sulla scorta di dati oggettivi, “misurabili”, come in Svizzera non solo il sapere l’inglese (com’era da aspettarsi) ma anche il sapere una delle due lingue nazionali diversa dalla propria (è noto che la Confederazione Elvetica ha tre lingue nazionali, tedesco, francese e italiano, ciascuna con una sua area territoriale) porti a un tasso di remunerazione più alto sul mercato del lavoro. Che le cose stiano così, a ben vedere, ha la sua ovvia ragione nel fatto che tra lingua ed economia c’è un rapporto molto più intimo di quanto non sembri, dato che la lingua fa parte per così dire inosservata, automatica, del nostro agire quotidiano: tutte le fasi della vita economica, vale a dire la produzione, la distribuzione, lo scambio e il consumo di beni e di servizi, si svolgono in un contesto linguistico dato e l’attività linguistica è un componente diretto del loro svolgersi (seguo sempre la stringente argomentazione di Grin 1999). D’altra parte, accanto a valori economici misurabili, che riguardano il benessere materiale (chiamiamoli valori E), ci sono evidentemente valori non economici e non misurabili monetariamente, che riguardano il benessere ambientale e culturale in senso lato (chiamiamoli valori C). E tutt’e due i tipi di valori vanno tenuti presenti, a livello generale, in un panorama che non è più solo di economia e formazione, ma diventa di politica. Si pongono qui, in termini di scelte e strategie politiche, problemi di ampia portata. Il primo problema da risolvere è il problema di fondo: scegliere se sviluppare le lingue straniere oppure no, lasciando andare le cose per loro conto. Se si assume che sia altamente vantaggioso, come ci sono tutte le ragioni per credere, sviluppare le lingue straniere, e che quindi la prima opzione si imponga necessariamente, nasce come corollario un secondo problema: come rendere operativamente imprese e cittadini più consci dell’importanza delle lingue straniere e più motivati verso la formazione linguistica. Questo secondo problema ne alimenta un terzo, che chiameremo “problema dell’inglese”: scelto di sviluppare le lingue, e motivando a ciò il mondo imprenditoriale e la popolazione in generale, quali lingue promuovere? Solo l’inglese, o l’inglese più altre lingue (per una dibattito analogo a livello europeo, v. già Sociolinguistica, 1994)? Il predominio dell’inglese, se sembra in generale ovvio e assodato per molti COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 179 motivi, e se in particolare fuoriesce indiscutibile anche dalla presente indagine, non è tuttavia esente da punti critici di carattere generale, che devono per lo meno far riflettere e discutere una collettività che voglia essere sensibile alle ragioni culturali profonde. La questione trascende peraltro il problema della mera formazione linguistica, giacché stiamo assistendo a una trasformazione dei rapporti linguistici di carattere, come si suol dire, epocale, una “rivoluzione delle lingue” (come suona il titolo del volumetto di Crystal, 2005), che comporta una grossa sfida di politica linguistica globale e scelte radicali. La diffusione e predominanza assoluta dell’inglese in tutte le attività economiche, tecnologiche, comunicative e nei rapporti internazionali ha portato nel quadro mondiale a una situazione per molti versi straordinaria, mai verificatasi in epoca storica, nella quale una lingua è parlata al mondo da una persona su quattro e conta un numero di parlanti non nativi più alto di quello dei parlanti nativi, ed è la sola lingua ampiamente usata, quale lingua di default, nei rapporti internazionali. Si sta insomma creando una situazione di potenziale (e in parte già effettivo) pericolo per le altre grandi lingue di cultura, che rischiano di venir via via spodestate dalla loro funzione di lingue di alta formazione e del progresso scientifico e tecnologico e deprivate delle risorse (sia in termini di lessico che di strutture testuali e argomentative) atte a soddisfare i bisogni della sfera intellettuale più avanzata, specialistica e complessa. Si pensi che già oggi in parecchi settori della ricerca, in particolare nelle scienze della natura e nelle discipline biomediche, gli addetti ai lavori comunicano fra di loro in contesti di un certo livello esclusivamente in inglese (ma la cosa si sta estendendo anche nelle scienze umane: nel piccolo del linguista, non è più così infrequente che in convegni scientifici si parli di tematiche riguardanti l’italiano, anche fra linguisti italiani, in inglese; e importanti riviste italiane del ramo pubblicano prevalentemente contributi in inglese). Ora, lo scenario che si va profilando va accolto così com’è o va discusso? Il predominio totale dell’inglese va accettato supinamente, o addirittura favorito e assecondato, come un “ordine naturale delle cose” contro cui nulla si può fare, oppure vanno pensate strategie che contrastino la tendenza al monolinguismo inglese? Sembra indubbio che da un punto di vista culturale ed ecologico, così come è indiscusso in biologia, il preservamento della PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 180 diversità sia un valore di fondo, un bene da coltivare; e che quindi sia saggio, in termini di politica linguistica ed educativa, promuovere la formazione di una certa pluralità di lingue. Le scelte generali per la società devono tener conto di entrambi i tipi di valori sopra indicati, valori E e valori C. Le scelte per il mondo del lavoro devono tener conto primariamente dei valori E, senza però danneggiare se possibile, anzi favorendo anche i valori C. L’indagine che qui viene commentata ha mostrato ampiamente, come abbiamo cercato di argomentare in dettaglio, che nel mondo delle imprese quanto alle lingue in primo luogo c’è una divaricazione fra il dire e il fare, e in secondo luogo c’è una chiara diversificazione fra grandi imprese e piccole e piccolissime imprese, con le seconde particolarmente toccate dalla disattenzione verso le lingue e la formazione linguistica. In mezzo a questa divaricazione, e diversificazione, stanno da un lato stereotipi socioculturali e atteggiamenti di comodo largamente diffusi nel nostro paese, e dall’altro lato la scarsa percezione dell’importanza anche economica delle lingue. Di fronte a questa situazione, appare urgente non solo cercare di far penetrare nelle imprese un più spiccato interesse per la formazione linguistica, ma anche cercare di promuovere una diversificazione di tale interesse su più lingue: questo può essere considerato l’auspicio finale dell’indagine qui commentata, che riteniamo rappresenti indubbiamente un contributo molto valido per capire i veri lineamenti del problema e per disegnare qualche contorno del quadro strategico in cui agire, di come agire e con quali priorità. Bibliografia Berruto G., Fondamenti di sociolinguistica, Laterza, Roma/Bari, 1995. Berruto G. (con la collaborazione di Pandolfi E. M.), Prima lezione di sociolinguistica, Laterza, Roma/Bari, 2004. Chini M. (a cura di), Plurilinguismo e immigrazione in Italia. Un’indagine sociolinguistica a Pavia e Torino, FrancoAngeli, Milano, 2004. COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’? 181 Crystal D., La rivoluzione delle lingue, il Mulino, Bologna 2005 (trad. it. di The language revolution, Cambridge, 2004). Giacalone Ramat A. (a cura di), Verso l’italiano. Percorsi e strategie di acquisizione, Carocci, Roma, 2003. Grin F., Compétences et récompenses. La valeur des langues en Suisse, Éditions Universitaires Fribourg, Friburgo-CH, 1999. Grin F., “Economie et langue: de quelques équivoques, croisements et convergences”, in Sociolinguistica, 19, 2005, pp. 1-12. Mioni A. M., “Lingue franche internazionali e locali. Lo scenario linguistico mondiale nei prossimi decenni”, in Banti G./Marra A./Vineis E. (a cura di), La ricerca in linguistica applicata. Nuove riflessioni sul contatto e conflitto linguistico, Atti del 4° Congresso di studi dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata (Modena, 19-20 febbraio, 2004), Guerra, Perugia 2005, pp. 169-191. Pennisi Antonino, “L’italiano fra le lingue del web”, in Lo Piparo F./Ruffino G. (a cura di), Gli italiani e la lingua, Sellerio, Palermo 2005, pp. 182-198. Pigeron-Piroth I./Fehlen F., Les langues dans les offres d’emploi du Luxemburger Wort 1984-2004, rapporto interno, Université du Luxembourg, Lussemburgo, 2005. Sociolinguistica, 8, 1994, numero monografico su “English only? in Europa/in Europe/en Europe”. PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 183 PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE: L’OFFERTA DI FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA Giuliano Bernini Università degli Studi di Bergamo Milano, 29 Settembre 2006 1. Introduzione L’offerta di formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY, Ottobre 2006: da ora in avanti Rapporto) rappresenta in modo attendibile le iniziative di insegnamento delle lingue straniere nel nostro Paese nel triennio 2003-2005, essendo l’elaborazione di un numero di risposte ai questionari del progetto – 1231 – ben calibrate sul territorio nazionale rispetto ai 4931 destinatari originari. Il Rapporto permette quindi di fare riflessioni sui diversi aspetti che queste iniziative coinvolgono. Dal punto di vista geografico, le agenzie di formazione linguistica considerate si aggregano maggiormente nel nordovest e, a seguire, nel sud e nelle isole, nel nord-est e infine nel centro, riflettendo in parte la consistenza demografica e occupazionale delle diverse regioni (cfr. la figura 2 a pag. 5 del Rapporto). I quattro tipi di agenzie considerate (v. tabella 1 del Rapporto, p. 6), ovvero agenzie di formazione professionale, centri di istruzione pubblica, scuole di lingua private e strutture del terzo settore, per un totale di 23 categorie, mostrano pure diverse aggregazioni territoriali: nella formazione linguistica i centri di formazione professionale sono più attivi nel nord, mentre le scuole private nel centro. Nel settore dell’istruzione pubblica, il sud e le isole vedono particolarmente attivi i centri per l’educazione agli adulti. In questo contributo voglio soffermarmi su quei risultati della rilevazione alla base del Rapporto che meglio si lasciano interpretare sullo sfondo di quello che avviene nei processi di formazione linguistica, ovvero nei processi di insegnamento che forniscono l’input che serve a mettere in moto l’acquisizione della lingua straniera da una parte, e dall’altra, nei processi di apprendimento della lingua straniera, che seguono, come vedremo, loro strade predefinite. 184 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO Se è vero, come si afferma alla pag. 37 del Rapporto, che “Le lingue straniere, al pari dell’informatica sono da tempo annoverate tra i nuovi alfabeti che devono essere conosciuti per potersi inserire proficuamente sul mercato del lavoro”, è anche vero, come lamenta un intervistato appartenente al mondo dell’università alle pagg. 247-8 del volume dedicato alla Analisi di scenario, (Progetto LETitFLY, Settembre 2006) che “Una cosa è l’offerta per apprendere una lingua e un’altra cosa è creare dei percorsi che portino al riconoscimento di apparente apprendimento linguistico” in quanto “il testing non è garanzia di conoscenza linguistica”. Nella prospettiva di collegare le iniziative di offerta di insegnamento linguistico con i risultati che da questa ci si può attendere, tra gli aspetti toccati nel Rapporto mi soffermerò a riflettere su due punti: anzitutto sulle lingue oggetto di studio e in seguito sulle abilità linguistiche che hanno dichiarato di voler sviluppare coloro che hanno risposto al questionario alla base del Rapporto. In base a queste considerazioni, cercherò di inserire i risultati del Rapporto nel quadro dei processi di apprendimento e insegnamento linguistico e dei livelli e dei tipi di conoscenza che si intendono raggiungere. 2. Le lingue studiate Il primo degli aspetti che qui voglio toccare sono le lingue offerte nel triennio 2003-2005 in corsi di diverso tipo, rivolti a gruppi e singoli, professionalizzanti o meno. I dati che voglio commentare sono riportati nella tabella 10 a pag. 24 del Rapporto. Le lingue presenti nell’offerta sono da una parte l’italiano per utenti stranieri immigrati (italiano L2 nella tabella) e dall’altra lingue straniere per utenti apparentemente italofoni. Tra queste è messo in rilievo l’inglese rispetto ad altre lingue, considerate nel loro insieme senza ulteriori differenziazioni. In percentuale, i 273.208 utenti dei corsi considerati nel Rapporto si sono distribuiti tra le tre voci qui menzionate come indicato nella tabella 1 e nella figura 1. Nella gamma dell’offerta l’inglese occupa più della metà delle iniziative di insegnamento linguistico, l’italiano per stranieri poco meno di un quinto del totale delle iniziative, il restante quarto si suddivide tra altre lingue straniere per utenti italofoni. PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 185 Riaggregando questi dati come nella tabella 2 e nella figura 2, si ha una visione d’insieme dell’offerta linguistica in base ai destinatari a cui si rivolge. Come già si è detto poco sopra, l’offerta ha dunque riguardato per poco meno di un quinto la formazione linguistica di stranieri immigrati, per i quali il bisogno di alfabetizzazione primario è l’italiano, cioè la lingua del Paese ospite. Per gli altri 4/5 l’offerta ha invece riguardato la formazione in lingua straniera di italofoni. Come già appariva dai dati della tabella 10 del Rapporto (cfr. fig. 1) e come messo in rilievo qui nella tabella 3 e nella figura 3, gli utenti (probabilmente italofoni) di corsi di lingua straniera si distribuiscono in misura diversa tra inglese – ben più dei due terzi del totale degli utenti di lingua straniera – e altre lingue, che hanno un numero di utenti percentualmente molto inferiore, che si attesta a meno di un terzo del totale. Tab. 1 - Utenti per lingua in % Italiano L2 Inglese L2 Altre L2 18,2 56,3 25,5 Fig. 1 - Utenti per lingua in % 60 50 40 30 20 10 0 Italiano L2 Inglese L2 Altre L2 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 186 Tab. 2 - Utenti per italiano per straniere e lingue straniere per italofoni Italiano L2 Lingue straniere 18,2 81,8 Fig. 2 - Italiano per stranieri e lingue straniere per italofoni 100 80 60 40 20 0 Italiano L2 Lingue straniere Tab. 3 - Utenti italofoni di lingue straniere Inglese Altre lingue 68,79 31,21 Fig. 3 - Utenti italofoni di lingua straniera 70 60 50 40 30 20 10 0 Inglese Altre lingue Questi dati riflettono bene anche per lo specifico dell’Italia la situazione linguistica che caratterizza di fatto il nostro pianeta in questo periodo di inizio XXI secolo e che è stata ben delineata dal linguista inglese David PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 187 Crystal in un volumetto dal titolo The language revolution, uscito dalla Polity Press di Cambridge nel 2004, e tradotto in italiano da Il Mulino di Bologna nel 2005 col titolo La rivoluzione delle lingue. Da una parte, l’Italia è un Paese mèta di migrazioni come altri Paesi europei ed extra-europei e l’offerta di italiano L2, cioè di italiano per stranieri – come già abbiamo detto – risponde al bisogno di preparazione linguistica a fini sia di sopravvivenza sia professionalizzanti di questa categoria di utenti. Dall’altra parte la formazione in lingua straniera per gli italofoni vede in posizione preminente l’inglese, la lingua che nel giro di un cinquantennio, per ragioni diverse ben illustrate da David Crystal, è diventata una sorta di lingua veicolare globale. In altri termini, tra persone che non condividono la stessa lingua è più probabile che si possa instaurare un rapporto comunicativo in inglese che in un’altra lingua; inoltre le pubblicazioni rilevanti a livello sopranazionale per certe professioni o per certi lavori sono più probabilmente in inglese che in altre lingue. Il diverso peso specifico dell’inglese sia globalmente sia nella specifica situazione italiana è sottolineato inoltre dalla dispersione degli utenti della voce “Altre lingue”. In termini percentuali, sul totale degli utenti di corsi di lingue, cioè avendo come sfondo i valori della figura 1 qui sopra riportata, nel Rapporto questi sono considerati nella tabella 14 a pag. 28 e nella tabella 18 a pag. 32. La prima tabella delle due qui menzionate tiene conto degli utenti di corsi individuali; la seconda tiene conto di utenti di corsi di gruppo. Tralasciando le sottovoci relative a “Altre lingue UE” e “Altre lingue non UE” non ulteriormente differenziate, l’elenco comprende undici lingue. L’offerta di queste ulteriori undici lingue, variamente articolata ancorché sempre su valori percentuali esigui, merita un commento. Come riportato nella tabella 4 e nella figura 4, solo tre di queste undici lingue, ovvero francese, spagnolo e tedesco, raccolgono nei due tipi di corsi – individuali e di gruppo – e tenendo conto dei tre livelli considerati – elementare, intermedio, avanzato – percentuali di utenti che si situano tra 6,2% (utenti di spagnolo avanzato in corsi di gruppo) e 11,6% (utenti di francese intermedio in corsi individuali). Al polo opposto, utenti di altre tre lingue (rumeno, turco, greco) sono presenti solo nei corsi individuali con lo PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 188 0,1% nei tre livelli. Tuttavia il turco è assente anche dal livello elementare di corsi individuali. Le altre cinque lingue elencate, ovvero portoghese, arabo, cinese, giapponese e russo, si pongono in posizione intermedia, con percentuali di utenti diverse nei diversi livelli e nei due tipi di corsi. Queste vanno da 0,1% di utenti di giapponese in corsi individuali di livello intermedio e in corsi di gruppo di livello elementare e avanzato, a 1,7% di utenti di russo in corsi di gruppo intermedi. Tab. 4: Altre lingue (in corsivo le lingue corrispondenti ai valori minimi, in grassetto le lingue corrispondenti ai valori massimi) min max francese, spagnolo tedesco 6,2 11,6 portoghese, arabo, cinese, giapponese, russo 0,1 1,7 rumeno, turco, greco 0,0 0,1 Fig. 4 -Altre lingue 12 francese, spagnolo tedesco 10 8 portoghese, arabo, cinese, giapponese, russo 6 4 rumeno, turco, greco 2 0 m in m ax La distribuzione degli utenti riflette evidentemente l’impatto culturale e commerciale che in Europa hanno francese, spagnolo e tedesco da un lato e rumeno, turco e greco dall’altro. Delle prime tre lingue, inoltre, come è noto, francese e spagnolo hanno anche una vocazione extra-europea per la storia coloniale di Francia e Spagna. La stessa ragione, probabilmente, sta alla base della posizione del portoghese tra le cinque lingue del secondo gruppo, che raccoglie 1,2% di utenti nei corsi individuali di livello intermedio. In questo PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 189 gruppo si classifica, nei valori relativamente alti, anche il russo tra le lingue europee con vocazione extra-europea, stavolta asiatica. Nel secondo gruppo di cinque lingue sono comprese anche tre delle lingue dell’Asia, veicolo di tradizioni culturali che hanno forte impatto sulle relazioni internazionali nei più diversi ambiti. Tra queste lingue – sempre in termini molto relativi – marginale sembra la posizione del giapponese rispetto al cinese e all’arabo, i cui corsi raccolgono un numero di utenti maggiore. Dai questionari risulta che rispetto ai corsi di gruppo, i corsi individuali sono rivolti in misura maggiore a utenti che hanno fini professionalizzanti. Ciò vale in generale per l’italiano per stranieri, l’inglese e le altre lingue. Tuttavia, da un punto di vista generale, di fronte a esigenze diverse di professionalizzazione, lo squilibrio nel numero di utenti tra inglese e altre lingue è particolarmente sensibile nei confronti di arabo e cinese. La ragione sta soprattutto nelle diverse tradizioni e abitudini di interazione dei parlanti queste lingue, che costituiscono un punto critico del contatto con le lingue europee ora evidente nel campo delle relazioni commerciali. Queste tradizioni comportano l’adozione di strategie comunicative diverse da quelle in uso in Europa e che sono oggetto di studio scientifico, per esempio nel libro pubblicato nel 2005 a cura di Francesca Bargiela-Chiappini e di Maurizio Gotti per l’editore Lang di Berna, dal titolo Asian business discourse(s). La distanza tipologica di queste lingue dall’italiano e il retroterra di atteggiamenti positivi, creato dalla posizione egemonica degli Stati Uniti d’America in molti campi, rendono più appetibile la richiesta di formazione relativa alla lingua inglese. È però auspicabile che non venga oscurata la necessità di accedere a lingue di vasta portata culturale, veicolo di tradizioni e modi di interagire la cui conoscenza può favorire massimamente il campo delle relazioni commerciali e di lavoro in generale. Lo squilibrio tra inglese e altre lingue ha, alla lunga, anche conseguenze sul sistema di formazione superiore di insegnanti di lingue e sulle risorse da attribuirvi. La poca appetibilità delle altre lingue rispetto all’inglese non dovrà tradursi in una riduzione di risorse per l’approfondimento scientifico di tradizioni rilevanti quali quella araba, cinese e – anche se mai menzionata 190 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO nel Rapporto – indiana, veicolata dalla lingua hindi. La formazione universitaria di insegnanti di lingue straniere anche in questi ambiti richiede mezzi adeguati per poter essere all’altezza di affrontare percorsi di istruzione appropriati che mettano in grado di utilizzare a scopo professionale lingue diverse, soprattutto per quei contatti in cui l’inglese può costituire per lo più una forma superficiale e strumentale di trasmissione di informazioni e non anche uno strumento di comunicazione internazionale in contesti lavorativi più sofisticati. 2. Le abilità linguistiche Rivolgendoci ora al secondo aspetto annunciato nell’introduzione, relativo al quadro dei processi di apprendimento e insegnamento linguistico, mi soffermo anzitutto a commentare brevemente la terminologia usata nei questionari per fissare i livelli di preparazione. Nelle tabelle del Rapporto discusse poc’anzi, ovvero la 10 (pag. 24), la 14 (pag. 28) e la 18 (pag. 32) i livelli di preparazione sono descritti in base ai tre termini ordinati in scala “elementare”, “intermedio” e “avanzato”. La tabella 5 alla pag. 15 del Rapporto, dedicata al “Livello dei corsi erogati per macrotipologia di offerta e area geografica”, sembra aggiungere al di sotto di “elementare” il livello di “alfabetizzazione” e, apparentemente, sostituisce a “elementare” il termine “di base”. Questi termini, ancorché suggestivi, non si lasciano ricondurre a descrizioni attendibili delle competenze linguistiche che vi corrispondono nelle prestazioni degli utenti. Almeno per le lingue nazionali con più parlanti nativi dell’Unione Europea – e per il russo – si dispone ora di un “Quadro comune europeo di riferimento” che definisce i livelli di apprendimento attesi in base a una serie di descrittori generali che, lingua per lingua, si lasciano convertire in regole e elementi lessicali. Il Rapporto utilizza ben sì il “Quadro comune europeo di riferimento”, ma solo nella parte relativa alle 169 strutture che hanno proposto iniziative di insegnamento significative o innovative. Si veda, per esempio, la tabella 53 alla pag. 71 del Rapporto, dove i corsi formativi sono correlati con i livelli di competenza iniziali. Si ha così, ma solo per quelle strutture, l’articolazione dei livelli come riportato nella tabella 5 qui sotto, che può comunque PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 191 costituire un buon punto di riferimento anche per l’interpretazione dei termini solo suggestivi delle altre tabelle. Tab. 5 - Corrispondenza tra livelli e “Quadro comune europeo di riferimento” Terminologia usuale Quadro comune A1 Elementare A2 B1 Intermedio B2 Avanzato C1 Più importante, per valutare l’impatto dell’offerta formativa rispetto ai processi di apprendimento e insegnamento delle lingue straniere, è la tabella 34 (alla pag. 48 del Rapporto) – là riportata con un breve commento non interpretativo –, dedicata alle abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici. La domanda del questionario permetteva due risposte. I dati della tabella sono riportati nelle tabelle 6 e 7 e nelle corrispondenti figure 5 e 6 qui sotto. In queste tabelle, e in queste figure, le abilità linguistiche sono riportate nell’ordine in cui dovrebbero svilupparsi nei processi di apprendimento, ovvero: abilità che impegnano l’oralità (capire e parlare) prima di abilità che impegnano la scrittura (leggere e scrivere); abilità ricettive (capire e leggere) prima di quelle produttive (parlare, scrivere). Nella tabella 53 del Rapporto è in realtà presente la voce “ascoltare”, che qui è stata intesa secondo la terminologia più comune come “capire”. Nel Rapporto, nelle pagine citate, è presente tra le abilità menzionate nei questionari, anche la traduzione, senza però precisare se scritta o orale. La traduzione è una abilità particolare, che presuppone le altre quattro fondamentali elencate qui sopra. Richiede inoltre una profonda competenza sia nella lingua nativa sia nella lingua seconda. Infine la traduzione PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO 192 professionale è svolta sempre verso la lingua nativa del traduttore. È probabile che la domanda del questionario e le risposte elaborate nel Rapporto si riferissero a una delle possibili attività di apprendimento linguistico, ovvero all’esercizio di traduzione noto dai metodi più tradizionali. Nelle tabelle (e nelle figure) qui sotto riportate, non compaiono i valori indicati nel Rapporto per la risposta “altre attività” (rispettivamente lo 0,8% tra le prime risposte e lo 0,8% tra le seconde risposte) e la voce “non indica”, che raccoglie sorprendentemente lo 0,5% tra le prime risposte. Queste voci non sono qui considerate perché non paragonabili alle altre, oltre che per la loro marginalità statistica. Tab. 6 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici. 1a risposta (%) Capire (= ascoltare) parlare leggere scrivere tradurre 8,1 75,8 5,4 7,9 1,5 Fig. 5 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistica. 1a risposta (%) 80 70 60 50 40 30 20 10 0 ca pa le sc tr Già a un primo esame delle tabelle e delle figure qui riportate è immediatamente evidente il divario nella dispersione delle risposte prime e seconde: bassissimo nelle prime, che si concentrano per il 75,8% sul parlare; minore nelle seconde, dove sono privilegiate quasi alla pari per valori molto minori lo scrivere (32,3%) e il capire (30,5%). Queste risposte meritano un PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 193 commento interpretativo, in quanto hanno un impatto diretto sui processi di apprendimento e di insegnamento delle lingue straniere. Tab. 7 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici. 2a risposta (%) Capire (= ascoltare) parlare leggere scrivere tradurre 30,5 12,1 14,8 32,3 9,7 Fig. 6 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici: 2a risposta (%) 35 30 25 20 15 10 5 0 ca pa le sc tr Gli studi di linguistica acquisizionale svolti sia in Italia sia all’estero hanno ormai definito con una certa sofisticazione i fattori coinvolti nei processi di apprendimento spontaneo – cioè senza retroterra scolastico – delle lingue e le vie che un apprendente percorre per arrivare a gradi di competenza sempre maggiori e, tendenzialmente, vicini a quelli dei parlanti nativi. Semplificando un po’, i fattori più rilevanti nei processi di apprendimento sono tre: l’input della lingua da apprendere fornito agli apprendenti dai parlanti nativi nelle conversazioni; la componente cognitiva che nella nostra mente presiede all’organizzazione degli elementi linguistici; la vicinanza o la lontananza nell’organizzazione grammaticale delle lingue coinvolte, ovvero la lingua prima dell’apprendente e quella da imparare – si pensi all’italiano rispetto allo spagnolo e al cinese. L’apprendente costruisce la seconda lingua a poco a poco elaborando i 194 PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO materiali linguistici (parole, morfemi, regole di sintassi) da lui ipotizzati in base all’input. Il processo di elaborazione segue percorsi analoghi per tutti i gruppi di apprendenti: per esempio, la prima distinzione che si crea nel verbo italiano è quella fra una forma base come lavora, che vale per tutti i tempi e i modi, e una forma marcata come lavorato, che esprime solo le azioni concluse. In seguito, compare l’imperfetto ma prima col verbo essere. Il futuro viene elaborato solo dopo l’imperfetto. La distanza tra la lingua prima dell’apprendente e la lingua da imparare può accelerare o rallentare fino anche a fermare il percorso di apprendimento, ma sempre lungo le stesse linee di elaborazione che si rilevano lingua seconda per lingua seconda. Nei processi di apprendimento spontanei, l’oralità ha preminenza sulla scrittura e le abilità di ricezione, cioè il capire (o ascoltare come chiesto nei questionari), hanno la priorità su quelle di produzione, cioè il parlare. L’apprendente spontaneo parla elaborando frasi anche molto diverse da quelle dei nativi (p. es. io no capito in italiano, I no understand in inglese) in base a quanto ha “ascoltato” e “capito” dai nativi: la risposta no, p. es., è più facile da capire della negazione non, perché è accentata e isolata; essa viene quindi riutilizzata come negazione anche coi verbi. Ascoltando e capendo un numero di enunciati sempre maggiore, l’apprendente potrà confrontare le proprie produzioni linguistiche con quelle dei nativi e correggerle adeguandole sempre più alle loro. Nell’apprendimento scolastico dell’italiano per stranieri qui considerati, le lezioni sono una sorta di input arricchito e ordinato che si sovrappone a quello a cui gli apprendenti sono esposti sul lavoro e nel tempo libero in Italia. Per le altre lingue come l’inglese, invece, i corsi forniscono di fatto l’unico input a disposizione degli apprendenti, non essendo la lingua straniera parlata come lingua nativa da un consistente gruppo nel nostro Paese. Anche questo tipo di input (le conversazioni e le spiegazioni dell’insegnante, i materiali dei libri di testo o di altri mezzi telematici più sofisticati) innesca i meccanismi dell’apprendimento linguistico evidenti nel contesto spontaneo, come si può facilmente rilevare mettendo gli utenti in situazioni comunicative vere. Detto un po’ scherzosamente, anche nei corsi vale la ricetta condivisa – e un po’ rudimentale – riportata alla p. 249 PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE 195 dell’Analisi di scenario: “gli elementi essenziali per apprendere una lingua straniera sembrano essere l’esposizione alla lingua, il lessico e molta comunicazione” In questo quadro è evidente come la focalizzazione sull’abilità del parlare riscontrata nelle risposte al questionario rappresenti un obiettivo didattico illusorio: il parlare implica anzitutto il capire e, in secondo luogo, parlare vuol dire essere in grado di costruire enunciati che, a poco a poco, si avvicinano a quelli dei nativi, cioè, in altri termini, enunciati che inizialmente contengono “errori” che derivano dalle comuni capacità di elaborazione del linguaggio. L’apprendimento di una lingua è infatti un processo che assomiglia di più a quelli di affinamento delle abilità fisiche (saper saltare, saper correre ecc.) che non allo studio di discipline che implicano l’accumulo di conoscenze (sapere la storia dello Stato dell’Italia medievale). Il Rapporto, da questo punto di vista, è un utile strumento per capire come intervenire nelle agenzie che prevedono formazione linguistica, per ottimizzare offerta e risultati e rimediare così alle carenze riassunte nella citazione dall’Analisi di scenario riportata all’inizio di questo intervento. Riordinando in un più consono equilibrio le quattro abilità di capire, parlare, leggere e scrivere, nei corsi di lingua individuali e di gruppo si potrà sviluppare una competenza reale e non solo la capacità di svolgere con accuratezza gli esercizi che la testano.