Progetto LETitFLY
La formazione linguistica in Italia
da crisalide a farfalla
Atti del Convegno Finale
Roma, 23 Novembre 2006
PON IT 053 PO 007
SERVIZI PER LA REALIZZAZIONE DI UNA RICERCA-AZIONE SUI FABBISOGNI DI FORMAZIONE LINGUISTICA A FINI PROFESSIONALIZZANTI E SU QUELLI RICONDUCIBILI
ALLA EDUCAZIONE E FORMAZIONE PERMANENTE, NONCHÉ SULLE CORRELATE
INIZIATIVE ED ESPERIENZE CHE PROMUOVONO E SVILUPPANO L’APPRENDIMENTO
DELLE LINGUE STRANIERE IN ITALIA.
La riproduzione totale e/o parziale dei contenuti del presente volume è consentita
esclusivamente con la citazione completa della fonte.
Prima edizione italiana Gennaio 2007
Stampato in Italia da OGL - Napoli
INDICE
Prefazione
Vera Marincioni
Pag. VII
Apertura dei lavori
Il Progetto LETitFLY
Marianna D’Angelo
“
3
Le strategie della Commissione europea in materia di multilinguismo
Claudia De Stefanis
“
7
Verso una progettualità condivisa
Maria Chiara Schir
“
13
“
25
“
29
“
35
Interventi delle Parti Sociali
L’importanza delle competenze trasversali per le imprese:
il multilinguismo
Arianna Domenici
Multilinguismo: la necessità di fare sistema
Armando Occhipinti
La formazione linguistica e il mondo del lavoro
Roberto Pettenello
Gli Italiani e le lingue nei dati della ricerca-azione LETitFLY
Perché LETitFLY
Franco Iannelli
“
41
Presentazione dei dati della ricerca
Andrea Toma
“
45
I decisori politici e gli scenari della formazione linguistico-professionale:
il Progetto Trio, un esempio di >AIJFH=?JE?A
LETitFLY: un’opportunità per il futuro della questione linguistica
in Italia
Natalia Guido
L’insegnamento delle lingue nell’esperienza toscana
Elio Satti
“
61
“
65
Il Progetto Trio e l’Azione di alfabetizzazione linguistica
per cittadini stranieri
Simone Borselli
“
67
Alcune riflessioni sui dati della ricerca LETitFLY
Giuseppe Roma
“
71
VI
INDICE
Oltre le asimmetrie tra domanda e offerta:
popolazione, imprese e attori della formazione
Parte I: La popolazione tra esigenze reali e desideri
Gli italiani e le lingue: osservazioni per una politica linguistica
in un mondo di contraddizioni
Gaetano Berruto
Il ruolo di Lend nella formazione linguistica in Italia: buone
pratiche e prospettive
Anna Maria Curci
Pag.
77
“
85
“
91
La formazione linguistica e il mercato del lavoro: la Lituania
Audra Daubariene
“
97
Riflessioni sul problema della pianificazione linguistica
in contesto europeo
Rosanna Sornicola
“
109
Insegnamento delle lingue per il lavoro
Franca Bosc
“
125
La formazione continua e la formazione linguistica
Sergio Bonetti
“
131
Imparare il tedesco in Italia: l’offerta del Goethe Institut
Stefan Gerspach
“
137
Saluti di chiusura
Assessore Silvia Costa
“
141
LETitFLY - Osservazioni sull’analisi dello scenario europeo e italiano
Sergio Scalise (Bologna, 16 maggio 2006)
“
145
Cosa c’è ‘di mezzo fra il dire e il fare’? Una lettura sociolinguistica
del rapporto La domanda di formazione linguistica delle imprese italiane
Gaetano Berruto (Padova, 23 giugno 2006)
“
157
Processi di apprendimento e processi di insegnamento delle lingue:
l’offerta di formazione linguistica in Italia
Giuliano Bernini (Milano, 29 settembre 2006)
“
183
Nell’insegnamento delle lingue, la sfida è far emergere la domanda
potenziale e diffondere l’apprendimento per tutto il corso della vita
Simonetta Caravita
Parte II: Esperienze europee a confronto
Parte III: L’offerta di formazione linguistica oggi
Appendice: Interventi dei Workshop
PREFAZIONE
Questa indagine sui fabbisogni di formazione linguistica e sulle esperienze
che promuovono e sviluppano l’apprendimento delle lingue straniere in Italia rappresenta un contributo significativo alla ricostruzione del quadro reale
dell’offerta di formazione linguistica e dell’analisi della domanda di formazione in lingua in Italia. Ne emerge non soltanto lo stato dell’apprendimento
e dell’insegnamento delle lingue straniere in Italia, ma anche la visione che
i cittadini e le imprese hanno dell’importanza della conoscenza delle lingue
straniere e i motivi che hanno determinato questa visione. Esiste, infatti, una
“questione linguistica” nell’ambito delle più generali riflessioni sulla formazione, professionale e continua in particolare, come emerge chiaramente
anche dalla intensa attività in materia della Commissione europea.
A tale proposito, sembra utile richiamare i principi comunitari riguardanti il
multilinguismo, inteso come capacità del singolo di usare più lingue e come
coesistenza di differenti comunità linguistiche in una determinata area geografica.
L’Unione europea sostiene la diversità linguistica e culturale dei suoi cittadini poiché la considera uno strumento per la maggiore comprensione reciproca ed un fattore di trasparenza, legittimazione ed efficienza della sua azione.
Per questo è impegnata in un’attiva politica di sostegno alla diversità linguistica, in grado di creare un contesto favorevole alla piena espressione di tutte
le lingue e allo sviluppo dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico.
Secondo l’indagine Eurobarometro Europeans and Languages del 2005, la metà
dei cittadini comunitari dichiara di poter sostenere una conversazione in una
lingua diversa dalla propria lingua madre; le Conclusioni del Consiglio europeo di Barcellona del marzo 2002 hanno riconosciuto la necessità di
un’azione comunitaria e nazionale volta a migliorare l’apprendimento delle
lingue ed hanno individuato nell’acquisizione di competenze linguistiche di
base relativamente ad almeno due lingue, oltre alla lingua madre, una delle
azioni necessarie per la costruzione di un’economia competitiva basata sulla
conoscenza: si tratta del cosiddetto obiettivo “lingua madre + 2”, confermato
dalla Commissione europea nel documento Promuovere l’apprendimento delle
VIII
PREFAZIONE
lingue e la diversità linguistica. Piano d’Azione 2004-2006 e nella successiva
Comunicazione del 2005 Un nuovo quadro strategico per il multilinguismo.
In particolare, nel Piano d’Azione la Commissione sviluppa ed estende le
iniziative già esistenti per promuovere l’apprendimento delle lingue e la diversità linguistica, concentrando la sua attenzione sulla formazione linguistica lungo tutto l’arco della vita, sul miglioramento dell’insegnamento delle
lingue e sulla creazione di un ambiente quotidiano più favorevole alle lingue.
Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale ha, pertanto, accolto gli
inviti della Commissione europea, impegnandosi a promuovere la qualità dei
percorsi formativi per l’apprendimento delle lingue attraverso gli strumenti
istituzionali che gli sono propri (il Programma Leonardo da Vinci, l’Iniziativa
comunitaria Label europeo, i fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua) e, dal momento che la formazione linguistica incide in maniera determinante nel processo di miglioramento dell’offerta formativa e
della qualificazione professionale, ha ritenuto opportuno promuovere e finanziare questa ricerca che ha l’obiettivo di definire la reale condizione della
formazione linguistica in Italia.
Il settore della formazione professionale in Italia è stato coinvolto profondamente nel processo di sviluppo della conoscenza linguistica, attraverso azioni
volte a favorire lo sviluppo di percorsi innovativi e la creazione di maggiori
opportunità, con riferimento al lifelong learning ed alla mobilità dei lavoratori.
La ricerca ha consentito di rilevare e interpretare le dimensioni quantitative
e qualitative della domanda e dell’offerta di formazione linguistica, tramite
l’analisi dei fabbisogni di conoscenze e competenze linguistiche, con particolare riferimento alle esigenze degli individui e delle imprese, anche sotto il
profilo delle ricadute occupazionali e delle caratteristiche dell’offerta (pubblica e privata) di formazione linguistica a carattere corsuale a fini professionalizzanti già disponibile e consolidata a livello nazionale.
Una particolare attenzione è stata riservata ad alcuni elementi specifici che
caratterizzano i processi di apprendimento e di insegnamento linguistico nel
nostro Paese: la relazione tra le lingue e l’uso delle tecnologie, tra la padronanza di una o più lingue straniere e la mobilità dei lavoratori, tra la lingua
e gli aspetti interculturali tipici delle realtà lavorative, il ruolo degli operatori
PREFAZIONE
IX
della formazione linguistica e le esigenze di adeguamento delle loro competenze.
I risultati evidenziano importanti ragioni di soddisfazione rappresentate: a)
dall’esistenza di un’offerta ampia e diversificata dal punto di vista delle istituzioni coinvolte, dei soggetti erogatori e delle proposte formative; b) dall’aumento del numero di alunni e studenti coinvolti in programmi di formazione
linguistica; c) dalla disponibilità di significative risorse finanziarie; d) dall’esistenza di diversi casi di eccellenza. Tra gli elementi di criticità, oltre al basso
tasso di conoscenza delle lingue straniere dichiarato dai nostri concittadini,
emerge soprattutto la mancanza di standard minimi per le strutture di
erogazione e per i livelli di prestazione e la mancanza di una strategia unitaria dell’educazione linguistica.
Da questo punto di vista pensiamo che la ricerca rappresenti un importante
strumento di supporto per quanti sono chiamati ai diversi livelli istituzionali
a prendere decisioni di tipo strategico ed operativo in materia di formazione
linguistica, e possa essere considerata come uno degli elementi attraverso i
quali il Ministero del lavoro e della previdenza sociale esercita la sua funzione di promozione delle politiche della formazione e delle azioni per l’integrazione dei sistemi della formazione, della scuola e del lavoro contribuendo,
per quanto di sua competenza, alla definizione di metodologie, modelli e
strumenti diretti all’utilizzo da parte dei decisori e degli operatori locali.
Vera Marincioni
Direttore Generale per le politiche per l’orientamento e la formazione
Ministero del lavoro e della previdenza sociale
INTRODUZIONE
1
Apertura dei lavori
IL PROGETTO LETitFLY 3 IL PROGETTO LETITFLY
Marianna D’Angelo Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale Direzione Generale per le Politiche per l’Orientamento e la Formazione Si presentano in questa sede i risultati del rapporto finale della ricerca per l’affidamento di servizi per la realizzazione di una ricerca‐azione sui fabbisogni di formazione linguistica a fini professionalizzanti e su quelli riconducibili alla educazione che promuovono e sviluppano l’apprendi‐
mento delle lingue straniere in Italia. La ricerca costituisce un’indagine sui fabbisogni di formazione linguistica e sulle esperienze che promuovono e sviluppano l’apprendimento delle lingue straniere in Italia. Essa viene riconosciuta come un contributo significativo alla ricostruzione del quadro reale dell’offerta di formazione linguistica e dell’analisi della domanda di formazione in lingua in Italia. I risultati più evidenti, sottolineati anche nella prefazione, riguardano la rilevata esistenza di un’offerta di formazione linguistica ampia e diversificata, dal punto di vista delle istituzioni coinvolte, dei soggetti erogatori e delle proposte formative; l’aumento del numero di alunni e studenti coinvolti in programmi di formazione linguistica; la disponibilità di significative risorse finanziarie; l’esistenza infine di diversi casi di eccellenza. Tra gli elementi di criticità emerge, invece, un basso tasso di conoscenza delle lingue straniere e la necessità di individuare degli standard minimi per le strutture di erogazione e per i livelli di prestazione; la mancanza di una strategia unitaria in materia di educazione e di formazione linguistica. Da questo punto di vista si ritiene che la ricerca rappresenti un importante strumento di supporto per quanti sono chiamati, ai diversi livelli istituzionali, a prendere decisioni di tipo strategico ed operativo in materia di formazione linguistica. Si ritiene inoltre che questa ricerca possa essere considerata come uno degli elementi attraverso i quali il Ministero del 4
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Lavoro e della Previdenza Sociale eserciti la sua funzione di promozione
delle politiche della formazione e delle azioni per l’integrazione dei sistemi
della formazione della scuola e del lavoro, contribuendo, per tutto quanto è
di sua competenza, alla definizione di metodologie, modelli e strumenti
diretti all’utilizzo da parte dei decisori e degli operatori locali.
I risultati di questa ricerca, qui presentati come risultati finali, sono stati
oggetto di presentazione nel corso di workshop regionali. Essi sono stati,
inoltre, presentati anche alla Giornata Europea per le Lingue, al convegno
organizzato dalla Rappresentanza del Parlamento europeo e dalla Commissione europea, saranno presentati al convegno sul Label europeo e, su
richiesta delle Rappresentanze nel Parlamento europeo, al 50enario della
firma dei Trattati istitutivi della CE.
Vorrei introdurre ora la ricerca ed il contesto nel quale il Ministero nel 2004
l’ha avviata per poi passare la parola alla rappresentante della Commissione
europea, la dott.ssa De Stefanis, e alla dott.ssa Schir che rappresenta il
coordinamento delle Regioni e che ha accompagnato, come membro del
Comitato di Mainstreaming, la realizzazione di questo progetto.
L’obiettivo che il Ministero del Lavoro intendeva perseguire è quello di voler
corrispondere agli interventi che vengono attuati dalla Commissione
europea per il miglioramento e lo sviluppo economico e sociale degli Stati
membri, contribuendo al perfezionamento del sistema della formazione e
dell’educazione, riconoscendo un ruolo importante allo sviluppo dei sistemi
di apprendimento e di insegnamento delle lingue. Si ritiene infatti che
costituiscono un contributo fondamentale allo sviluppo dei sistemi di
formazione professionale.
Si è colta quindi l’indicazione del piano di azione delle lingue proposto dalla
Commissione europea, che attribuisce all’apprendimento e all’insegnamento
delle lingue un ruolo fondamentale. Si è voluto altresì corrispondere anche
alle esigenze, che emergevano dal mondo del lavoro, di maggiore
specializzazione delle competenze e alle esigenze relative ai fabbisogni di
formazione linguistica.
L’iniziativa si colloca nell’ambito di altre attività già avviate a livello
IL PROGETTO LETitFLY 5 istituzionale per lo sviluppo della formazione linguistica: il Label Europeo, il programma Leonardo, i Fondi interprofessionali per la formazione lin‐
guistica. Per corrispondere al piano di azione delle lingue, il Ministero ha avviato nel 2004 una analisi del piano di azione per le lingue su tre macro‐obiettivi: il miglioramento dell’insegnamento delle lingue in un’ottica di Life Long Learning; il miglioramento delle lingue dal punto di vista dell’insegna‐
mento; la creazione di un ambiente più favorevole per l’apprendimento delle lingue stesso. In seguito a tale analisi, il Ministero ha deciso di lanciare il bando di ricerca finalizzandola ad un’indagine sui fabbisogni di formazione linguistica a fini professionalizzanti, riconoscendo la necessità che le autorità locali regionali e nazionali sviluppino delle strategie volte a favorire l’utilizzo delle lingue a fini professionalizzanti. Scopo principale pertanto della ricerca e quello di fornire degli strumenti per l’elaborazione di politiche che vadano in questa direzione. Il progetto quindi, nell’indagare sull’uso e la conoscenza delle lingue, si serve di una particolare lente di ingrandimento puntata sui bisogni emergenti nel mercato del lavoro e va ad analizzare quali sono le caratteristiche dell’offerta formativa in termini linguistici, riservando una particolare attenzione alle esigenze dei lavoratori. Il risultato è una mappatura qualitativa e quantitativa della domanda e dell’offerta di formazione linguistica sulla base di tre particolari punti di vista: quello del fabbisogno di conoscenze e competenze linguistiche espresso dagli individui e dalle imprese, con un’attenzione all’aspetto delle ricadute occupazionali; quello dell’offerta formativa sia pubblica che privata, sulle base dell’analisi del sistema formativo attualmente esistente; quello dell’incrocio dei risultati di queste due ricerche, sulle basi dell’analisi degli aspetti trasversali, su alcuni aspetti particolari quali: formazione linguistica e interculturalità, efficacia delle nuove tecnologie e delle metodologie non tradizionali nell’apprendimento delle lingue, mobilità e apprendimento delle lingue, evoluzione del profilo del formatore tutor di lingua, analisi e stima delle risorse finanziarie impegnate sia sul lato dell’offerta che sul lato della domanda. 6
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
I risultati delle indagini sono contenuti nel rapporto finale e in cinque
rapporti tematici oggi in distribuzione. In essi sono individuati, nell’ambito
della formazione linguistica, i gap che si registrano, sia rispetto agli obiettivi
previsti dal piano di azione delle lingue, sia rispetto all’attuale stato del
sistema della formazione linguistica a fini professionalizzanti. Si è inoltre
tentato di realizzare anche un collegamento con i fabbisogni espressi dalle
imprese e dai lavoratori, in un’ottica di miglioramento del sistema della
formazione professionale e quindi di sviluppo della competitività delle
imprese.
Si auspica pertanto che il lavoro di cui ho anticipato le linee progettuali
abbia raggiunto gli obiettivi e che le indicazioni che emergono per le
strategie e le politiche da attuare a livello regionale e nazionale vengano
raccolte e attuate.
LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO
7
LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA
IN MATERIA DI MULTILINGUISMO
Claudia De Stefanis
Rappresentanza in Italia della Commissione europea
Ho il piacere di portarvi il saluto della Rappresentanza in Italia della
Commissione europea e dei miei colleghi della Direzione generale “Istruzione e cultura” di Bruxelles, che hanno seguito la ricerca-azione LETitFLY
fin dal suo avvio e che purtroppo non possono essere presenti qui oggi.
Come sapete, la strategia della Commissione in materia di multilinguismo,
lanciata esattamente un anno fa con una comunicazione del Commissario
Figel’, persegue tre grandi obiettivi:
-
il primo obiettivo consiste nel fornire ai cittadini l’accesso alla
legislazione, alle procedure e alle informazioni sull’Unione europea nella
loro lingua; è quello che viene definito il “regime del multilinguismo”;
-
il secondo obiettivo consiste nell’incoraggiare l’apprendimento delle
lingue e promuovere una società multilingue;
-
il terzo obiettivo consiste, infine, nel promuovere una solida economia
multilingue.
Vorrei soffermarmi sul secondo e sul terzo obiettivo, che peraltro sono
fortemente interconnessi tra loro.
La capacità di comprendere e di comunicare in più di una lingua è, da un
lato, un traguardo auspicabile per tutti i cittadini europei, in quanto stimola
ognuno di noi ad aprirsi a culture e a punti di vista diversi dai propri (si
tratta, cioè, di una competenza per capirsi e per sviluppare tolleranza e
solidarietà), e dall’altro è un fattore fondamentale per poter operare in modo
efficiente sul mercato del lavoro.
Una società multilingue è essenziale per il futuro stesso dell’Unione
europea. È perciò indispensabile incoraggiare i cittadini ad apprendere le
lingue e a utilizzare le loro competenze linguistiche lungo tutto l’arco della
vita.
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
8
L’obiettivo a lungo termine della Commissione è promuovere il
multilinguismo di ciascun individuo in modo tale che sia in grado di
comunicare in almeno due lingue oltre la propria, anche se non
necessariamente al livello di un parlante nativo. Nel 2002 a Barcellona i capi
di Stato e di governo dell’Unione europea hanno sollecitato l’insegnamento
di almeno due lingue straniere fin dall’infanzia.
Tuttavia gli ultimi dati disponibili mostrano alcune tendenze non proprio
confortanti:
-
in primo luogo, il numero medio di lingue straniere apprese nel ciclo
dell’istruzione secondaria è ancora ben lontano dall’obiettivo fissato a
Barcellona;
-
in secondo luogo, la gamma delle lingue insegnate è piuttosto ristretta;
-
in terzo luogo, la situazione attuale, per quanto riguarda le competenze
linguistiche nell’Unione europea, è ancora molto disomogenea. Secondo
una recente indagine Eurobarometro, metà dei cittadini dell’Unione
europea afferma di essere in grado di sostenere una conversazione in
almeno una lingua diversa dalla propria. Il dato generale è di per sé
confortante, ma la percentuale varia notevolmente da un paese all’altro,
da una regione all’altra (ad esempio, a seconda che si tratti di regioni
centrali o periferiche), nonché in funzione della categoria sociale di
appartenenza e della classe di età;
-
in quarto luogo, l’età dei professori continua a salire. È legittimo
chiedersi se si possa fare qualcosa per migliorare la preparazione degli
insegnanti di lingue, in modo da consentire loro di rispondere meglio alle
sfide alle quali sono confrontati.
In ogni caso la Commissione europea lavora su più fronti per promuovere
una società multilingue:
-
attraverso il “piano d’azione per la promozione dell’apprendimento delle
lingue e della diversità linguistica”, finalizzato ad estendere i benefici
dell’apprendimento delle lingue a tutti i cittadini (apprendimento
precoce, apprendimento durante il ciclo dell’istruzione e della
formazione secondaria e durante l’istruzione superiore, apprendimento
LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO
9
degli adulti), a migliorare la qualità dell’insegnamento delle lingue e a
creare un clima più favorevole all’apprendimento delle lingue;
-
attraverso il processo “Istruzione e formazione 2010”;
-
attraverso una serie di programmi di finanziamento, in particolare nel
campo dell’istruzione, della formazione e della cultura. Tramite i
programmi Socrates e Leonardo, la Commissione investe oltre 30 milioni
di euro l’anno in progetti che stimolano l’entusiasmo di chi apprende e di
chi insegna le lingue. Occorre inoltre ricordare l’enorme investimento in
termini di mobilità realizzato con l’azione Erasmus, con il programma
Gioventù e con altre iniziative, come il gemellaggio tra le città.
Molto spesso si afferma che il modo migliore per far interessare le persone
alle altre lingue e alle altre culture è quello di offrire loro un soggiorno
all’estero, e certamente dalle relazioni inviate dai partecipanti alle azioni
finanziate dalla Comunità si ricava l’idea che la mobilità è un fattore
determinante nella motivazione ad apprendere le lingue.
Per questo motivo, nelle proposte riguardanti la nuova generazione di
programmi che avrà inizio nel 2007, la Commissione ha voluto aumentare
notevolmente le risorse a disposizione della mobilità e accrescere la gamma
e la varietà di azioni in campo linguistico; tuttavia la sua proposta, come
sappiamo, non ha ricevuto un adeguato sostegno da parte degli Stati
membri.
Il terzo obiettivo fissato nella strategia per il multilinguismo consiste nel
promuovere una solida economia multilingue. L’importanza delle lingue e
del multilinguismo per l’economia europea è infatti spesso sottostimata. Nel
contesto della strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, l’Unione
europea si è posta l’obiettivo di sviluppare una società fondata sulla
conoscenza come fattore decisivo per diventare l’economia più competitiva e
dinamica al mondo all’orizzonte del 2010. Se l’obiettivo è sviluppare
un’economia altamente competitiva, la competenza linguistica e la
comunicazione interculturale assumono un’importanza sempre maggiore.
Ma attenzione: competenza linguistica non significa una sola lingua franca,
non significa necessariamente l’inglese. Per concludere affari con imprese
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
10
situate in altri Stati membri o nel resto del mondo, le imprese europee hanno
bisogno di competenze specifiche sia nelle lingue dell’Unione europea sia
nelle lingue dei loro partner commerciali esteri. Ciò vale in particolare per le
medie imprese, che rappresentano i motori principali per l’innovazione, la
creazione di posti di lavoro e l’integrazione sociale e locale nell’Unione
europea. Alcuni studi realizzati per conto della Commissione europea hanno
però dimostrato che le imprese europee perdono opportunità perché non
sono in grado di esprimersi nelle lingue dei loro clienti, perché sono
sprovviste di competenze multiculturali in grado di entrare veramente in
contatto con le esigenze degli interlocutori.
Per concludere, la carenza di competenze linguistiche rischia di incidere su
due livelli:
-
in primo luogo, rischia di limitare le opportunità offerte a ciascun
lavoratore, e più in generale a ciascun cittadino, dal mercato interno e
dall’Unione
europea.
Il
lavoratore
che
dispone
di
competenze
linguistiche ha infatti maggiori possibilità di scelta rispetto ad un collega
monolingue. Il cittadino che conosce più lingue può approfittare più
agevolmente della libertà di studiare e di viaggiare in un altro Stato
membro;
-
in secondo luogo, la carenza rischia di incidere sulla competitività del
sistema Europa. Per conseguire gli obiettivi strategici che l’Unione
europea si è prefissa, è importante accrescere le competenze linguistiche
dei cittadini, soprattutto in un contesto di crescente concorrenza a livello
mondiale e nell’ottica della creazione di nuovi posti di lavoro più
qualificati. Sotto questo profilo, come riconosciuto recentissimamente dal
Parlamento europeo nella sua risoluzione sulla strategia per il
multilinguismo proposta dalla Commissione, è indispensabile migliorare
la qualità, l’efficacia e l’accessibilità dei sistemi di istruzione e formazione
dell’Unione europea, favorendo l’apprendimento delle lingue straniere.
A tal fine è essenziale analizzare le dinamiche che influiscono
sull’acquisizione delle competenze linguistiche, onde rimuovere gli
ostacoli eventualmente esistenti all’apprendimento.
LE STRATEGIE DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN MATERIA DI MULTILINGUISMO
11
Di qui l’importanza dell’analisi condotta nell’ambito del Progetto LETitFLY,
e soprattutto delle discussioni che sarà in grado di suscitare per convertire i
risultati in proposte concrete di intervento. Con questa speranza formulo i
miei migliori auspici per la riuscita del convegno.
Nota: Le opinioni espresse in questo intervento non riflettono necessariamente quelle
della Commissione europea.
VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA
13
VERSO UNA PROGETTUALITÀ CONDIVISA
Maria Chiara Schir
Coordinamento Tecnico delle Regioni
Dati di scenario
Per quanto riguarda la percezione delle lingue straniere nel nostro paese, è
ancora molto diffusa l’idea che siano qualcosa per cui è necessario essere
portati. Questo dato emerge chiaramente anche dalle indagini del progetto
LETitFLY che prova come, nonostante tutti gli intervistati riconoscano
l’importanza delle lingue straniere nella formazione delle persone, nel
nostro paese non si studino in maniera efficace e non si parlino a sufficienza.
È necessario attenuare questa idea che ha molto ostacolato le persone
nell’avvicinarsi all’apprendimento di una lingua straniera. Beppe Severgnini
afferma, nel suo ormai famoso libro1, che l’inglese “è una lingua che non si
ama, si usa”. Lo stesso potremmo dire anche delle altre lingue. Non si tratta
di strumenti delicati che solo pochi eletti possono usare, ma di veri e propri
mezzi di comunicazione di cui dobbiamo dotarci per poter abitare l’Europa
ed il mondo.
Le indagini condotte all’interno del progetto ci aiutano a conoscere e leggere
il contesto italiano per quanto riguarda le lingue straniere ed avere un’idea
più precisa dello scenario nel quale ci muoviamo. La lingua straniera in
Italia viene ancora oggi vissuta come “[…] disciplina umanistica più che
come strumento di scambio”; come si legge nei rapporti del Progetto
LETitFLY la “[…] propensione alla mobilità è ancora scarsa e troppo legata
alla memoria di esodi coatti piuttosto che ad una scelta spontanea per
seguire opportunità di lavoro e/o di studio […]”; certamente nei rapporti si
evidenzia come l’assenza “[…] di un utilizzo diffuso delle lingue nei contesti
locali dove tutto viene tradotto, fa venire meno il supporto che porterebbe
allo studio delle lingue, l’esposizione ai suoni, alla cultura, ai segni non
linguistici che una lingua sottende”; “[…] le politiche di integrazione dei
1
Cfr. Beppe Severgnini, Inglese – Lezioni semiserie, BUR Superpocket.
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
14
flussi recenti delle popolazioni straniere immigrate sono ancora incerte
anche se rappresentano una risorsa potenziale per lo sviluppo di
competenze
interculturali,
componente
sostanziale
della
conoscenza
linguistica e facilitatrici dell’apprendimento delle lingue”.
Un grande impulso al cambiamento di questo contesto viene dalle nuove
direttive comunitarie, che invitano ad agire sugli esistenti fabbisogni
linguistico-formativi espressi sia dalla popolazione che dalle imprese, e
forniscono alcuni suggerimenti riguardo alle modalità di organizzazione
della rete di offerta. Il momento è propizio, dato che stiamo vivendo una
nuova sensibilità per il plurilinguismo, dovuta anche ai consistenti flussi
migratori verso il nostro Paese, alla accresciuta mobilità turistica e alla
maggiore attenzione per i mercati esteri da parte delle imprese.
Non è, però, sufficiente intervenire in maniera episodica con progetti di
durata limitata, ma è necessario stabilire delle priorità sulla base di quanto
stabilito dalle direttive europee. Obiettivi e priorità dovrebbero essere
stabiliti dapprima ad un livello nazionale, condivise dalla conferenza StatoRegioni e poi tradotti a livello locale nelle Regioni e Province, così da creare
una vera politica nazionale per le lingue straniere, condivisa e co-progettata
e che preveda l’impegno a portare avanti la promozione dell’insegnamento e
dell’apprendimento delle discipline linguistiche in una prospettiva di
sistema. Nascerebbe così la consapevolezza che, per poter essere incisivi
nell’ambito delle lingue bisogna agire sulla base di fabbisogni rilevati, azioni
di progetto e monitoraggio con dei momenti di verifica cadenzati che
servano alla riprogettazione e all’introduzione di eventuali correttivi alle
azioni intraprese.
Regioni e Province, centri di formazione professionale e scuole, aziende,
associazioni professionali di categoria, associazioni di docenti di lingua sono
i protagonisti delle azioni di promozione delle lingue, ognuno nel loro
campo e per le proprie competenze.
Nei paragrafi successivi si cercherà di suggerire alcune linee operative, che
potrebbero servire come primi spunti per individuare nei singoli ambiti
alcune azioni possibili per iniziare a dar vita ad una politica linguistica vera
e propria.
VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA
15
Regioni e Province
A livello regionale sarebbe opportuno, anche in ottemperanza all’attenzione
prioritaria data alle lingue straniere dall’agenda di Lisbona, creare presso le
Regioni o le Province un coordinamento che accolga tra i suoi membri non
solo i responsabili delle politiche educative a livello regionale, ma anche i
coordinatori dei diversi dipartimenti lingue presso le scuole2, gli insegnanti e
i membri dei vari IRRE e degli Uffici scolastici Regionali che ricoprano un
incarico riguardante le lingue straniere, in modo da poter delineare delle
linee di azione concrete, elaborate in maniera condivisa con la partecipazione degli attori principali, che possano essere tradotte in pratica,
monitorate e verificate nei loro effetti sul sistema scolastico. Si potrebbe, in
questo modo, andare seriamente incontro ai reali bisogni della popolazione e
delle imprese, creando la percezione che lo studio delle lingue non soltanto è
consigliabile, ma deve essere supportato da una politica articolata e
condivisa, non solo dalle istituzioni scolastiche, ma anche dal mondo del
lavoro.
Tra i compiti di un ipotetico comitato di coordinamento regionale delle
politiche linguistiche, ci può senz’altro essere anche quello di aggiornare,
con dati a carattere locale, lo scenario delineato dai risultati delle ricerche del
progetto LETitFLY, aggiornamento che dovrebbe condurre ad una
mappatura dei fabbisogni formativi espressi sia dalla popolazione che dagli
operatori che si occupano della formazione linguistica.
Nelle scuole di ogni ordine e nei centri di formazione professionale
Apprezzabili interventi di promozione dello studio delle lingue in un’ottica
europea sono già stati effettuati nei diversi contesti: le singole scuole negli
ultimi anni hanno cercato di introdurre una seconda e una terza lingua
straniera e un tentativo nella stessa direzione è stato fatto anche dal Ministro
Moratti nella sua riforma del sistema scolastico. A livello regionale, molti
2
Il dipartimento lingue in una scuola è l’organo che raccoglie tutti gli insegnanti di
lingua che, insieme, sviluppano delle azioni in favore dell’insegnamento delle lingue
come la creazione di progetti CLIL o un insegnamento per gruppi di livello.
16
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
IRRE ed Uffici Scolastici Regionali hanno promosso progetti ed iniziative per
lo studio di più lingue straniere, proponendo anche metodologie innovative
per aumentare la qualità dell’insegnamento.
Sarà sufficiente citare qui alcune di queste esperienze innovative come il
progetto CLIL, promosso dall’IRRE Lombardia, la pionieristica rete CLIL,
istituita in Friuli Venezia Giulia con il sostegno dell’Ufficio Scolastico
Regionale, o le esperienze maturate in Emilia Romagna con il supporto
dell’IRRE. Si tratta, però, solo di alcune tra le molte esperienze che sono nate
negli ultimi anni. Interessanti anche alcune iniziative sorte in collaborazione
con aziende, come quella di un Liceo in provincia di Salerno, che ha
progettato e realizzato una descrizione in inglese della filiera alimentare del
pomodoro con esperienza di lavoro al reparto spedizioni del porto, dove gli
studenti hanno fatto esperienza nel settore import-export, utilizzando la
lingua studiata in un reale contesto di lavoro.
Per realizzare queste esperienze, è stato necessario abbandonare la classica
metodologia frontale per insegnare la lingua in favore di una modalità più
cooperativa e di scoperta, davvero più favorevole all’apprendimento. La
lezione frontale per l’apprendimento delle lingue, infatti, si sta rivelando
uno strumento non del tutto adeguato per la tipologia di utenza che si
incontra oggi nelle scuole e nei Centri di Formazione Professionale:
maggiore successo formativo è stato ottenuto in quelle esperienze in cui si è
riusciti a creare delle situazioni di apprendimento che hanno permesso, a chi
studia la lingua, di contestualizzare il proprio apprendimento, rendendolo
più reale e significativo.
Le competenze linguistiche che si acquisiscono nelle scuole, poi, dovrebbero
essere sempre certificate in modo da poter diventare spendibili sia nel
mondo del lavoro che nel contesto universitario. In tutte le scuole e i Centri
di Formazione Professionale si studiano le lingue per tutta la durata del
corso di studi, ma lo studente non ottiene sempre una certificazione in
uscita. Alla fine del percorso scolastico o di formazione professionale è
necessario rilasciare una certificazione linguistica a tutti gli studenti, non
soltanto ai più volenterosi che decidono di ottenere una certificazione sulla
base delle loro già buone capacità. Le Regioni e le Province possono
VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA
17
intervenire con finanziamenti per la copertura dei costi degli esami,
permettendo così a tutti gli studenti di accedere alle certificazioni
linguistiche, mettendo a disposizione delle scuole un finanziamento
dedicato alla copertura dei costi dell’esame, almeno per tutti coloro che lo
superino con successo.
In azienda
Per quanto riguarda la formazione in azienda, dai rapporti LETitFLY,
emerge come siano ancora poche le aziende che hanno una vera attenzione
per le lingue straniere. Per molte imprese italiane sembra non essere
necessario offrire o richiedere formazione linguistica ai propri dipendenti a
causa delle dimensioni ridotte dell’impresa stessa e della mancanza di
rapporti con l’estero. Molte imprese di medie o grandi dimensioni, d’altra
parte, continuano a promuovere corsi di alfabetizzazione linguistica senza
fare sì che i propri operatori progrediscano a livelli più alti.
Per questo scopo ricorrono di solito alle scuole di lingua, ma spesso senza
sapere che non tutte le scuole di lingua sono uguali e che esistono scuole
accreditate da appositi Enti dei paesi europei che vengono regolarmente
monitorate e approvate. La formazione che viene offerta, dunque, molto
spesso risulta inadeguata e non dà luogo ad un vero apprendimento.
Potrebbe essere interessante, invece, far sì che il coordinamento regionale
per le lingue, di cui si parlava sopra, promuova l’istituzione di partenariati
con scuole o Centri di Formazione Professionale che potrebbero inserire,
all’interno della loro offerta formativa, dei corsi di lingue per le imprese,
facendo anche capire agli studenti il valore delle lingue e l’importanza di
studiarle già a scuola. Intensificare i rapporti tra imprese, scuole e Centri di
Formazione Professionale aiuterebbe poi anche nella creazione di obiettivi
condivisi per un apprendimento più mirato delle lingue straniere,
specialmente negli Istituti tecnici e nei Centri di Formazione Professionale.
Una volta poste in essere le iniziative in favore di un ambiente più propizio
all’apprendimento delle lingue, a cui è stato fatto riferimento sopra,
sicuramente anche il tessuto imprenditoriale, in quanto espressione del più
18
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
ampio contesto socioeconomico, risentirà del diverso clima culturale,
ricollocando le competenze linguistiche nella propria scala di priorità,
naturalmente se opportunamente guidato e informato delle possibilità che
offre il territorio. Si potrebbero in questo modo coinvolgere anche le aziende
nella sponsorizzazione di iniziative formative in collaborazione con le
scuole, per dare finalmente concretezza al tanto auspicato rapporto di
collaborazione tra imprese e mondo scolastico. In secondo luogo, sarebbe
auspicabile assecondare il pragmatismo che guida le decisioni aziendali,
facilitando l’accesso alla formazione finanziata attraverso l’ottimizzazione di
procedure e tempi di reazione all’eventuale domanda espressa dalle stesse
imprese.
Associazioni di categoria
Il coinvolgimento delle associazioni di categoria nel comitato regionale per
le lingue straniere potrebbe essere molto interessante per cercare di creare
partenariati per stages all’estero per studenti, in cooperazione con le
Istituzioni scolastiche ed i Centri di Formazione Professionale, che hanno
sempre coltivato rapporti di collaborazione e scambio con il mondo
aziendale. In questa maniera le aziende fornirebbero un valido supporto per
la promozione di un apprendimento funzionale della lingua straniera,
mirato ad una formazione professionalizzante ben spendibile.
Le Associazioni stesse potrebbero, poi, adoperarsi per creare dei protocolli
di intesa attraverso i quali i certificati linguistici vengano valutati dai datori
di lavoro al momento dell’assunzione e riconosciuti come titolo ai fini della
definizione del profilo professionale dell’impiegato. Esse potrebbero, altresì,
svolgere un’azione di sensibilizzazione presso i loro associati riguardo
all’esistenza e all’utilizzo del cosiddetto “passaporto delle lingue” integrato
in Europass, il curriculum vitae proposto dall’Unione europea.
Associazioni di docenti lingua
È diventata ormai una condizione imprescindibile quella di lavorare sulla
consapevolezza, sia linguistica sia metodologica, degli insegnanti per poter
VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA
19
esercitare un’efficace azione di cambiamento che possa dar luogo ad un reale
apprendimento e alla creazione di un clima facilitante l’acquisizione di
competenze linguistiche. C’è ancora molto da fare per migliorare la qualità
dell’insegnamento, anche se si possono registrare alcuni tentativi,
specialmente da parte delle associazioni di insegnanti come LEND3, di
offrire formazione adeguata agli insegnanti di lingue e supporto adeguato
per accompagnarli nella ricerca di metodologie di insegnamento più efficaci.
Le azioni delle associazioni di docenti di lingua, però, potrebbero essere
molto più efficaci se coordinate e inserite in un più ampio piano di azione
che parta da una direttiva nazionale per essere tradotto a livello locale da
coloro che sono responsabili della formazione linguistica.
Sarebbe necessario, poi, che anche le associazioni di industriali e artigiani
conoscessero e collaborassero con associazioni di docenti di lingua per poter
scegliere la corretta formazione linguistica da proporre nelle aziende e per
usufruire delle iniziative già intraprese sul territorio, ma questo sarà
possibile solo quando le azioni per la promozione e l’apprendimento delle
lingue saranno elaborate e coordinate nel modo descritto sopra, per evitare
sprechi di risorse e la sovrapposizione di iniziative portate avanti
parallelamente senza che ve ne sia consapevolezza.
Policies
Da La domanda e l’offerta di formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY,
Novembre
2006)
si
evince
come
“[…]un
ambiente
orientato
al
multilinguismo si realizza attraverso azioni distribuite in modo capillare sul
territorio che si concretizzano nell’aumento di strutture ed opportunità
dedicate allo scopo (dalle infrastrutture culturali a quelle scolastiche, alla
promozione di gruppi di conversazione autogestiti nella forma di circoli di
studio, ai cineforum in lingua originale, ai programmi TV sottotitolati, dai
gemellaggi ai programmi di mobilità per studio e lavoro), avendo presente
che contestualmente all’incremento dell’esposizione linguistica deve avere,
3
Viene citata solo quella presente al convegno finale del Progetto LETitFLY, ma ne
esistono molte altre.
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
20
altresì, luogo un’azione di indirizzo e sostegno delle diverse iniziative. In
altri termini, si potrebbe ipotizzare una sorta di “piano di mainstreaming
delle competenze linguistiche” che individui luoghi e ambiti di intervento
all’interno dei preesistenti circuiti della formazione formale, non formale ed
informale in sinergia con i sistemi di governance già in essere. […]” (pag. 8).
Inoltre, dallo stesso volume, si evince che “[…] vengono a svolgere un
importante ruolo di snodo […] le Regioni, in quanto soggetti aventi poteri di
programmazione nel campo della formazione professionale e dell’educazione degli adulti (a loro volta sottosistemi del più ampio sistema della
formazione permanente) ed in grado di integrare le eventuali misure di
policy in ambito linguistico all’interno di più ampie politiche di animazione e
sviluppo locali” (pag. 10).
Politiche regionali attente, dunque, mirate ad investire denari nella
formazione dei docenti di lingua anche garantendo un periodo di
formazione in servizio4 potrebbero costituire un passo importante nel
miglioramento della qualità dell’insegnamento delle lingue nelle scuole,
primo ambiente nel quale i futuri cittadini europei vengono a contatto con le
lingue e le culture degli altri paesi. Ciò che può veramente creare un nuovo
corso nella formazione linguistica in Italia è dunque, come già evidenziato
nei documenti del Progetto, l’organizzazione delle iniziative formative
secondo un’ottica di sistema, per evitare sovrapposizioni e duplicati
nell’offerta corsuale, stimolando e valorizzando le iniziative già in essere e
promuovendo l’utilizzo degli strumenti che già esistono in questo ambito,
specialmente quelli offerti dall’Unione europea.
È auspicabile
anche la creazione di figure di sistema all’interno dei
Dipartimenti Istruzione e degli Assessorati all’Istruzione presso le Province
e le Regioni che si occupino di istituire gruppi interistituzionali per la
promozione di esperienze significative di apprendimento linguistico,
finanziate dagli stessi Istituti Autonomi in collaborazione con le Regioni e gli
Enti locali; all’obiettivo di incrementare la domanda di formazione
linguistica deve, infatti, corrispondere un sforzo simmetrico nella program-
4
Si potrebbe pensare ad iniziative speciali di aggiornamento metodologico con distacco
parziale dall’insegnamento, per esempio per un quadrimestre.
VERSO UNA PROGETTUALIÀ CONDIVISA
21
mazione di un’offerta in grado di garantire opportunità formative all’insieme della popolazione adulta, sia in funzione del mantenimento e dello
sviluppo delle specializzazione professionali, sia a supporto delle diverse
tappe di una vita adulta, sempre più inserita in un processo circolare ed
interattivo di formazione permanente.
Senza dubbio bisognerà favorire la diffusione ulteriore dei risultati
LETitFLY e la manutenzione del portale, in modo che esso diventi uno
strumento di comunicazione efficace e tempestiva a tutti gli organismi, i
decisori politici e le persone interessate per dare rilievo a tutto ciò che si
muove a livello nazionale e locale nell’ambito della formazione linguistica.
In alcune regioni esistono già portali dedicati alla scuola che ospitano aree
specifiche per l’apprendimento linguistico, raccolgono diverse esperienze di
apprendimento e insegnamento delle lingue, e rappresentano importanti
esperimenti di nuove e più efficaci metodologie. Le già esistenti risorse
online vanno sfruttate maggiormente e il portale LETitFLY potrebbe
costituire un luogo di segnalazione dei siti maggiormente significativi da cui
si possono trarre spunti e buone prassi.
Da sostenere e continuare sono inoltre le iniziative volte alla manutenzione
delle competenze linguistiche raggiunte, come gli scambi Comenius ed Etwinning e le altre iniziative che da anni vengono proposte dalla Unione
europea, le quali incoraggiano la circolazione dei cittadini europei dentro gli
Stati dell’Unione e favoriscono il contatto tra culture diverse, facendo
nascere una consapevolezza della necessità e della opportunità di conoscere
almeno due lingue oltre alla propria.
Un’ulteriore direzione in cui le Regioni potrebbero intervenire è quella della
promozione dell’alfabetizzazione in una seconda lingua a partire alla scuola
materna, per iniziare a far esperire il multilinguismo già in età prescolare e
introdurre lo studio delle lingue sotto forma di gioco fin dall’età più tenera.
Le riflessioni esposte in queste pagine si propongono di suggerire ai pubblici
decisori alcune indicazioni funzionali di massima per la pianificazione e lo
sviluppo di interventi volti alla promozione e al progressivo miglioramento
22 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO dell’apprendimento e dell’insegnamento linguistico in Italia. Queste indica‐
zioni non pretendono di essere in nessun modo prescrittive o vincolanti, ma possono rappresentare un buon terreno di partenza per sviluppare in maniera condivisa, assieme a tutti i protagonisti citati, interventi volti alla promozione dell’apprendimento delle lingue in un’ottica di lifelong learning, facendo particolare attenzione soprattutto all’obiettivo di creare un ambiente più favorevole alle lingue rispetto allo scenario attuale. L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO
Interventi delle Parti Sociali
23
L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO
25
L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI
PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO
Arianna Domenici
Confindustria - Area Ricerca, Innovazione ed Education
L’impresa (o quantomeno le imprese più avanzate) oggi può essere definita
come una Learning Organization, ovvero come una “organizzazione in
grado di cogliere, grazie alla propria specifica cultura, le necessità e di
soddisfare le domande del mercato”.
Se l’Europa non può competere nel mercato globale sul piano della
manodopera a basso costo, esiste il settore competitivo della conoscenza e il
multilinguismo ne è un aspetto essenziale in quanto veicolo per stimolare la
conoscenza, l’innovazione e la creatività.
L’imprenditore, capace di visione e di progettualità e, al tempo stesso,
capace di riconoscere e trattare con la giusta consapevolezza il fattore
umano, riconosce che è proprio il fattore umano, oggi, l’elemento
discriminante per implementare ed aumentare le competenze aziendali quali
fattori critici di successo (con tutto ciò che questo comporta in termini di
valori, aspettative, speranze, idee). Tra queste le competenze linguistiche
sono sempre più trasversali e integrative di quelle puramente tecniche o
specifiche di un determinato settore.
Il possesso di competenze linguistiche adeguate contribuisce ad accrescere il
bagaglio di competenze del singolo e, in maniera proporzionale, del contesto
aziendale in cui opera, facendo registrare un ROI capitalizzabile in termini
sia di aumento della mobilità e, quindi, aumento della occupabilità
dell’individuo, sia di aumento della produttività per l’azienda stessa.
Dal secondo dopoguerra il multilinguismo è al centro dell’integrazione
europea e della nostra coesistenza pacifica ed è uno degli aspetti sul quale
trova valore il motto dell’UE “Unità nella diversità”. Motto che assume
sempre più rilevanza in vista dell’inclusione, entro l’anno prossimo, di 3
nuovi Paesi nell’Europa dei 25.
26
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Il Consiglio europeo di Barcellona del 2002 ha lanciato l’obiettivo per i Paesi
Membri di inserire l’insegnamento di almeno 2 lingue straniere sin dalle
scuole primarie. Ed in questa direzione si sta muovendo anche la
riprogettazione del sistema dell’educazione e della formazione linguistica in
Italia. La politica relativa all’educazione linguistica dovrebbe promuovere
l’inclusione di tutti i gruppi linguistici e culturali presenti nella società,
rappresentando un aspetto centrale della politica di inclusione sociale.
Infatti, a livello nazionale e regionale promuove l’appartenenza sociale
mentre a livello internazionale, promuove l’interazione con altre società e le
loro componenti.
La criticità fondamentale individuata in questo processo di innalzamento del
livello generale di conoscenza delle lingue straniere in Italia è scaturita dal
legame, a nostro parere necessario e virtuoso, che deve esistere tra le
politiche economico-industriali e formative. Nel campo delle lingue, però, la
logica della competenza linguistica quale fattore cruciale per il successo
economico e la diffusa idea che il mondo economico ha e continuerà ad
avere bisogno di una lingua passepartout, ha portato alla prevalenza
dell’inglese sulle altre lingue di cui, per giunta, nell’aspetto orale si
registrano carenze diffuse nelle performance. E i datori di lavoro da sempre
concentrano le loro preoccupazioni sugli obiettivi professionalizzanti
dell’apprendimento linguistico tralasciando, a volte, una visione di sistema
del fenomeno.
L’anello forte della catena dell’apprendimento linguistico, e del relativo
aggiornamento, è individuabile nella collaborazione tra università ed
impresa, dal momento che i maggiori cambiamenti in termini di miglioramento delle competenze linguistiche sono attesi nel breve termine dai
laureati. Ed è infatti nella coorte dei laureati che, fatto 100 il numero di
assunzioni previste dalle imprese di risorse umane che abbiano competenze
linguistiche, le imprese ipotizzano di assumere il 53% circa del personale nel
2006 (rilevazione Excelsior 2006).
Il sistema economico italiano è impegnato in un intenso processo di
cambiamento per riposizionarsi nel panorama internazionale avendo come
obiettivo principale la crescita della produttività. Le imprese dimostrano
L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE TRASVERSALI PER LE IMPRESE: IL MULTILINGUISMO
27
importanti segnali di reazione agli stimoli ma soprattutto alle difficoltà del
mercato, ricercando professionalità sempre più qualificate.
Tutto ciò richiede un ingente investimento nell’innovazione (di processo e di
prodotto), negli assetti organizzativi e quindi soprattutto nel capitale
umano. Il contesto imprenditoriale è, però, dominato per più del 90% da
PMI e sul totale delle imprese italiane, una percentuale ancora troppo bassa,
se comparata con i partner UE, svolge attività di formazione continua per i
propri dipendenti. Il nodo del problema è ravvisabile proprio in questo
punto. Benché esistano dei casi di eccellenza che investono sistematicamente
nella formazione del proprio personale anche nelle lingue (per esempio Fiat,
Pirelli, Merloni, Luxottica, etc.), quasi sempre l’investimento è legato alla
dimensione transnazionale dell’azienda.
Mentre continuano a perpetuarsi atteggiamenti poco lungimiranti nelle
scelte di alcuni piccoli imprenditori di fronte ad un’ampia serie di attività
centrali per la vita dell’azienda. La proiezione di queste logiche sul mercato
comporterebbe una improvvisa caduta di successo se non adeguatamente
supportate da attività di formazione. Le singole energie individuali devono
essere valorizzate e messe nella condizione di essere il motore, di fare lo
sviluppo dell’azienda stessa.
L’apprendimento delle lingue e il vento di multiculturalità che porterebbe
con sé, è una dimensione dello sviluppo organizzativo troppo spesso
trascurata. Le PMI vanno aiutate. In tal senso, l’attività di formazione
continua, promossa anche attraverso i Fondi Interprofessionali, deve poter
rispondere alle esigenze di semplificazione delle PMI. I Fondi, nella fase a
regime, dovranno, oltre alle risorse che vanno direttamente nel conto
formazione (70%), assicurare per le restanti risorse (26%) una priorità di
accesso per le PMI.
In sintesi, l’iperspecializzazione richiesta da molti contesti produttivi non è
più la chiave del successo nella società/economia della conoscenza. Essa
impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) e l’essenziale
(che dissolve). Un’istruzione ed una formazione trasversale, che metterebbe
fine alla separazione tra i saperi, consentirebbe di rispondere alle sfide della
globalità e della complessità nella vita quotidiana, nazionale, mondiale,
28
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
sociale e politica. Ed è al suo interno che trova spazio la formazione
linguistica.
In qualsiasi società, il fattore ultimo dello sviluppo e del benessere è
costituito dal lavoro e dal ruolo che l’uomo ha con la sua capacità di
innovare e apprendere continuamente. Questo ruolo non si ridurrà nel
futuro, anzi sarà esaltato nel nuovo contesto dell’economia della conoscenza,
obiettivo verso cui tutti a livello individuale, locale, regionale, nazionale, ci
stiamo muovendo nell’Europa della diversità.
MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA
29
MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA
Armando Occhipinti
Confapi - Responsabile Politiche del Lavoro - Ufficio Istruzione e Formazione
Area Relazioni Industriali
Saluto le persone presenti e ringrazio gli organizzatori. Vorrei, inoltre, fare i
complimenti a chi ha vinto il bando di concorso per questo progetto. Oggi
parlo da sconfitto, sicuramente non da perdente, perché noi di Confapi
siamo arrivati secondi nella partecipazione a questo bando, al quale
avevamo ritenuto opportuno partecipare, come fatto necessario. I motivi per
i quali era necessario per noi partecipare li analizzeremo poi nel corso
dell’intervento.
Quella di cui oggi parliamo è un’iniziativa del Fondo Sociale Europeo che
fotografa una particolare situazione del nostro paese: è un’indagine sui
fabbisogni linguistici, che cerca poi di conoscere quelle che sono le possibili
promozioni e gli sviluppi nell’apprendimento delle lingue straniere,
apprendimento che in Italia non riesce a decollare.
La Confapi, quando c’è necessità di spingere l’economia italiana (che ha il
suo tessuto economico nella piccola e media impresa), e quando vede che ci
sono delle opportunità, si impegna in tal senso. Infatti, pur non essendo
entrati in questo progetto, abbiamo tuttavia partecipato come testimonial e
condividiamo la fotografia alla quale io ho qui brevemente fatto riferimento.
Siamo, dunque, dentro al progetto, perché, per esempio, stiamo lavorando
con il Ministero del Lavoro, con l’Isfol e con Italia Lavoro, nell’ambito del
progetto Saf, ex Fadol, per cercare di inserire delle unità didattiche più
vicine alle logiche di mercato. E ci stiamo battendo, inoltre, per introdurre,
con un nostro contributo, l’inglese tecnico; ma approfondiremo questo
aspetto più avanti. Abbiamo, poi, avviato la macchina dei Fondi interprofessionali. A tal proposito, Confapi ha, ad esempio, il Fapi e ci sarà, in
questa sede, anche il contributo di un nostro rappresentante, contributo che
forse vi stupirà, perché ribalterà e smentirà alcuni dati, forse perché noi
rappresentiamo aziende di piccole e medie dimensioni, aziende mani-
30
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
fatturiere, dove le esigenze si fanno più forti. Mentre per il discorso del Saf,
della formazione a distanza, stiamo costruendo una rete di esperti, in cui le
unità didattiche, relative alle lingue straniere, possono sicuramente fare la
parte del leone.
Purtroppo operiamo ormai in un mondo globalizzato, in cui si possono
individuare dei blocchi: c’è il far-est e c’è il blocco americano. Noi, che
dobbiamo mirare alto, non dobbiamo certamente rincorrere situazioni dove
il costo della manodopera è più basso. In tal senso, l’investimento di Lisbona
sulla conoscenza è importante. Tuttavia, partiamo con un handicap: gli Stati
Uniti d’America, ad esempio, viaggiano con una sola lingua comune, noi,
invece, negli Stati Uniti d’Europa, abbiamo una ventina di lingue. Abbiamo
già risolto diversi problemi, come quelli relativi alla mobilità delle merci e
dei capitali, abbiamo realizzato la moneta unica. Fatichiamo, però, con la
mobilità dei cittadini. Quindi, oltre a tutta una serie di situazioni da
omogeneizzare e da omologare, c’è anche il problema della lingua nella
mobilità. Se da un lato il multilinguismo è segno di trasparenza, così come è
segnalato nelle indicazioni fondanti dell’Unione europea, dall’altro lato
questa diversità linguistica è pur sempre un problema. Vorrei ricordare che
non più di dieci, quindici anni fa, l’Olanda ha proposto di cambiare
addirittura la propria lingua nazionale con l’inglese. Nel Lussemburgo, se
voi considerate i dati, parla una seconda lingua il 98% della popolazione, ma
in questo caso siamo di fronte ad un fatto di necessità. Il Lussemburgo è un
granducato, si trova in mezzo ad un pool di nazioni in cui ognuno parla la
propria lingua, dunque tale percentuale rappresenta un fatto di sopravvivenza.
Qui in Italia, evidentemente, il mercato domestico, che ha dominato fino a
ieri, non ci ha fatto affrontare bene il problema. Per noi, inoltre, è una
questione di cultura, perché la nostra lingua ha una tradizione storica
superiore a qualsiasi altra. Tuttavia, in questa sede, possiamo cogliere
l’occasione per parlare e chiedere in maniera ancora più incessante di fare
sistema.
Io vorrei esprimere la preoccupazione per quei piccoli strumenti che erano
significativi ed importanti. Abbiamo visto, ad esempio, che il programma
MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA
31
Leonardo ha fatto la sua parte ed aveva una volée appositamente creata.
Ora, invece, si parla in termini generali di un Leonardo che raccoglie una
serie di situazioni diverse, con il rischio che i progetti lingua possano
disperdersi. Avevamo, inoltre, lo strumento del Label e speriamo di
continuare ad averlo. Ancora, abbiamo il premio che viene dato alle
iniziative relative a progetti sulle lingue, ma si fa a fatica, in questo
momento, a capire se esso avrà un futuro. Inoltre, la globalizzazione ormai
non è più una semplice parola, ma è un fatto concreto. Il termine
globalizzazione richiama il discorso dell’internazionalizzazione, la quale
significa anche innovazione tecnologica utile per poter competere di più e
per poter affrontare i competitor che sono oltre confine. Quindi dobbiamo
crescere sia culturalmente, sia in termini di dimensione come piccole e
medie imprese.
L’esperienza del TFR ci ha fatto riflettere su come siamo fatti in termini di
impresa. Si era parlato inizialmente di versare il 50% della quota del TFR,
poi si è trovata un’altra soluzione, nella quale emerge che si può pagare il
50% per le aziende che hanno oltre quarantanove addetti. Abbiamo quasi
cinque milioni di aziende sotto tale soglia e un pugno di aziende che hanno
più di quarantanove addetti. Ciò significa che abbiamo un tessuto
economico troppo piccolo per poter affrontare in futuro i temi della
globalizzazione e quindi bisogna fare degli sforzi, non abbassare la guardia e
ribaltare la cultura, perché abbiamo visto che questi dati mostrano che la
situazione aziendale è problematica. Io stesso, ad esempio, sto cercando da
diverse settimane un project manager per la nostra società operativa nella
Confapi e continuo a non avere risultati perché nelle selezioni che faccio
manca quello che è forse uno degli elementi fondanti ed importanti per me,
che è la conoscenza delle lingue straniere. Dunque, o c’è piena occupazione,
o mancano figure che conoscono bene una seconda lingua in modo tale da
poter essere assunti.
L’imprenditore ritiene necessario che un suo dipendente conosca la lingua
inglese, però poi vediamo che non si fanno corsi (meno del 5% delle imprese
organizza corsi di lingue) e che la metà delle aziende non usa neanche
l’inglese. Come affermavo prima, noi siamo interessati a sviluppare questo
problema del multilinguismo, perché abbiamo aree del paese che si
32
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
confrontano con competitor transfrontalieri, e quindi con la lingua straniera
(ad esempio nel nord-est di più con il tedesco, nel nord-ovest di più con il
francese). Riteniamo che, pur avendo cominciato a veder realizzate una serie
di situazioni che sono favorevoli – come la realizzazione dei Fondi
interprofessionali che stanno cominciando ad uscire dalla prima fase
sperimentale e stanno mettendosi a regime, dando le prime soddisfazioni –
questo non sia sufficiente. Ho visto, nella presentazione della Rappresentante del Coordinamento delle Regioni, l’incitamento ad un coinvolgimento forse anche maggiore, ma noi siamo con le macchine a pieno regime.
Forse siamo nei fondi interprofessionali i primi, se non gli unici in questo
momento, a fare delle riflessioni nell’area del fondo dirigenti, dove non
parliamo solo e soltanto di formazione in termini spiccioli, ma abbiamo
provato ad inserire delle logiche di assessment e di counselling, cioè delle
iniziative propedeutiche, ancor prima della formazione, per poter aprire gli
occhi ai dirigenti, per provare a fare emergere dei nuovi fabbisogni rispetto a
nuovi scenari.
In Italia tutti affermiamo che la lingua straniera serve, però tre persone su
quattro non l’apprendono, il 95% delle aziende non fa corsi di lingua
straniera. Intanto il 66% della popolazione dice di conoscere una seconda
lingua, però, quando si va a misurare il livello e il grado di tale conoscenza,
la percentuale del 66% scende. La seconda lingua straniera è dunque
conosciuta da una rappresentanza sparuta di persone.
È importante che, cogliendo l’occasione di questo convegno, si cominci a
ragionare, ed è necessario fare sistema. Noi abbiamo apprezzato molto
l’intuito che ha avuto il Ministero del Lavoro, perché tale indagine è come
una tessera che va a completare un puzzle che fotografa una serie di
situazioni e di criticità.
Gli strumenti che noi oggi abbiamo per poter reagire a questa problematica
con il Fondo Sociale Europeo sono a rischio. Spero di sbagliarmi, però si
prevede una flessione del 35% rispetto a come siamo abituati, quindi
sicuramente, mentre noi qui stiamo rilanciando un’esigenza, rischiamo poi
di vederla naufragare. Già prima la Rappresentante della Commissione
europea ci ha detto che avevano auspicato delle risorse, ma poi alla fine c’è
MULTILINGUISTICO: LA NECESSITÀ DI FARE SISTEMA
33
stato un taglio. Abbiamo, infine, altri pochi strumenti in mano: ci sono
soprattutto i fondi interprofessionali e la possibilità, con la legge sulla
formazione continua, di poter tenere banco.
Concludo dicendo che se vogliamo bene all’Italia, se vogliamo che l’Italia
continui a cavalcare la tigre (e parlo della tigre perché ci ricorda i mercati
cinesi), in prospettiva, non dobbiamo preoccuparci solo di conoscere la
lingua passepartout, la lingua del business che è l’inglese. Dobbiamo
cominciare a rompere la campana di vetro sotto cui teniamo i nostri figli,
perché dobbiamo raccontare loro che, nel 2020, 150 milioni di tecnici indiani
cominceranno a prendere la valigetta, a partire e ad andare in giro per il
mondo. In questo momento, mentre i nostri figli forse non sentono
l’esigenza e non sono stimolati ad apprendere una seconda lingua, c’è un
coetaneo cinese o indiano che sta studiando per rubare loro il posto di
lavoro. Per cui se vogliamo continuare a cavalcare la tigre, non dico che
dobbiamo fare come molti cinesi – che vanno a scuola alle sette del mattino,
escono alle cinque, tornano a casa e continuano a studiare – ma dobbiamo
cominciare a spaventarli un po’ di più, i nostri figli, perché altrimenti non
vogliamo bene né a loro né all’Italia.
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MONDO DEL LAVORO
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LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MONDO DEL LAVORO
Roberto Pettenello
Cgil Nazionale - Responsabile delle politiche comunitarie della formazione
Vorrei esprimere, innanzitutto, il mio apprezzamento per il Progetto
LETitFLY, perché mi sembra uno strumento importante per poter favorire il
fondamentale passaggio culturale dagli addetti ai lavori ai decisori, che
devono anche impegnarsi a diffondere le iniziative che si intraprendono:
quello della diffusione è, infatti, un reale problema dell’Italia, non solo per
ciò che riguarda l’apprendimento delle lingue.
Abbiamo già parlato con il Ministero del Lavoro e l’Unione europea – nel
corso di altre iniziative anche recenti, come ad esempio, in occasione
dell’Anno europeo delle lingue – di alcuni aspetti del problema che oggi
affrontiamo e che vorrei riprendere.
Vorrei toccare in maniera rapida tre punti. Il primo riguarda la necessità di
far crescere culturalmente la questione, il secondo riguarda il far concertare
di più i soggetti fra loro, come ricorda anche la rappresentante delle Regioni,
ed il terzo riguarda le risorse. Spesso, nel nostro paese, il capitolo
maggiormente complesso è proprio quello del mettere in sinergia le risorse:
non sempre bisogna chiederne di più, a volte, infatti, le risorse non mancano,
ma non sempre vengono utilizzate in modo coordinato e programmato.
Prima di tutto vorrei sottolineare che, nel settore di cui stiamo parlando,
occorre far crescere una cultura che faccia capire che l’apprendimento di una
lingua straniera, ma anche la L2 per gli stranieri, è una competenza di base e
non una competenza accessoria. Chiaramente la lingua serve anche ad altro,
ma il punto chiave è che deve essere intesa come una “normale” competenza
basilare.
Inoltre, bisogna anche ragionare meglio su un altro aspetto, sul quale è già
stato fatto qualche accenno dai miei colleghi: si tratta del rapporto fra le
lingue e la competitività delle imprese. Tale competitività viene colta in
genere nel modo più ovvio: ad esempio, quando un’impresa italiana si pone
36 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO l’obiettivo di vendere delle scarpe in un altro paese, si rende conto più facilmente dell’utilità della conoscenza della lingua straniera. Ma per le imprese, la conoscenza delle lingue è fondamentale anche per far crescere una competitività di sostanza, basata sullo sviluppo del patrimonio fondamentale che abbiamo noi italiani, che è la qualità del prodotto. E quando ci si inserisce in un ambiente diverso dal proprio, in particolare in uno stato diverso, la lingua dell’altro paese non è solo uno strumento, è anche conoscenza della cultura, capacità di interagire con i gusti, con gli interessi altrui. Rappresenta, a mio avviso, un punto assolutamente fondamentale. Bisogna promuovere, dunque, una serie di iniziative per far crescere questa cultura anche tra gli imprenditori, oltre che tra i lavoratori, per i quali la consapevolezza dell’importanza di conoscere le lingue diventerà più solida se inseriremo anche la formazione, lingue comprese, tra i diritti di cittadinanza di tutti i cittadini italiani. Per questo è molto importante l’impegno appena assunto dal Ministro del Lavoro – insieme al Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e al Ministro dell’Istruzione – per arrivare ad un disegno di legge sui diritti alla formazione dei cittadini italiani, che dovrebbe prevedere un monte ore, cumulabile in più anni, utilizzabile per diverse attività formative. Pure molto importante, all’interno della legge finanziaria appena approvata, è l’articolo che prevede un rafforzamento dei centri territoriali per l’educazione degli adulti, finalizzato soprattutto all’italiano per stranieri, per motivi che sono facili da intuire. Si tratta di una opportunità molto importante, che farà crescere la discussione sul tema di cui parliamo oggi, soprattutto sul versante della L2. Per ciò che riguarda la concertazione tra diversi soggetti e le risorse, abbiamo, rispetto alla formazione nell’ambito del lavoro, tre tipologie di strumenti e di risorse che possono agire sul medesimo versante: innanzitutto il Fondo Sociale Europeo, che tutti senz’altro conoscerete, in dimensioni più ridotte, rispetto all’esistente, per il periodo 2007‐2013; alcune leggi nazionali, come la 236/93 e la 53/2000, che permettono di realizzare piani formativi; e, infine, i Fondi interprofessionali per la formazione continua. I Fondi sono LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MONDO DEL LAVORO 37 associazioni costituite da organizzazioni imprenditoriali e sindacali, che attivano piani formativi attraverso lo 0,30% del monte salari dei lavoratori che ogni impresa versa all’INPS, qualora l’impresa decida di riversarlo a uno dei fondi. Si sono finora costituiti undici Fondi, con una mole finanziaria, in questo momento, di circa 400 milioni di euro all’anno, che potrebbero arrivare a circa 600 se tutte le imprese si iscrivessero: sono cifre di rilevante entità, superiori a quanto il FSE e le leggi citate hanno messo in campo negli ultimi tempi. Sul tema della concertazione, c’è da sottolineare un importante accordo, recentemente siglato da Ministero del Lavoro, Regioni e Parti Sociali, ove si prevede che Regioni e Parti Sociali attivino un tavolo di confronto per fare il punto delle rispettive risorse (provenienti dal FSE, dalla legislazione e dai Fondi interprofessionali) e decidano quali sono le priorità formative per ogni territorio e quali sono i target da investire. Anche le lingue dovranno rappresentare, in questo ambito, dei temi prioritari, concordando i compiti da affidare alle Regioni, che potrebbero svolgere un ruolo più forte rispetto alla formazione linguistica di carattere generale; invece, le attività in campo linguistico, promosse dai Fondi interprofessionali, potrebbero essere più collegate ai bisogni specifici dell’organizzazione del lavoro delle imprese. Naturalmente, la realizzazione delle attività dovrà essere affidata alle scuole, ai CTP, ad agenzie private, ma nell’ambito di un clima di concertazione e di programmazione coordinata. Per concludere, vorrei citare un altro punto. Un elemento importante, infatti, che emerge dalla ricerca che si presenta oggi, è che, mentre spesso i decisori sembrano un po’ scettici, decine di migliaia di cittadini italiani hanno capito che la conoscenza delle lingue serve, tanto è vero che la formazione linguistica occupa, in percentuale, una grossa parte dei corsi organizzati dai CTP o dai centri dove si pratica l’educazione degli adulti. Anche per questo penso che sia decisivo per il nostro paese – per far crescere ancora di più la motivazione dei cittadini – affrontare finalmente il problema della certificazione degli apprendimenti formativi e delle competenze non formali e informali, all’interno del percorso in atto per arrivare a un modello europeo di riconoscimento delle competenze, sul quale stiamo lavorando a 38 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO tutti i livelli, con i governi e le parti sociali di tutti i paesi. Tuttavia, per tre ambiti – l’informatica, L2 e la lingua straniera – è possibile costruire da subito delle modalità che favoriscano questo percorso, attivando opportune sinergie tra i diversi soggetti istituzionali. Credo che in tale direzione siano utili tutte le iniziative che producono incontri volti a creare azioni comuni. Auspico, ad esempio, che il Ministero del Lavoro possa organizzare un incontro con le parti sociali e con i fondi interprofessionali, non teorico, ma finalizzato a capire cosa si può fare insieme, partendo anche dai materiali raccolti all’interno di questo progetto. È evidente che tutto questo non si può realizzare se non attraverso operatori competenti. Chi insegna le lingue ha, dunque, un ruolo decisivo che va rafforzato, riqualificato e rilanciato. Sono, quindi, importanti tutte le occasioni come questa che possono contribuire a rafforzare la funzione dei formatori di lingue, così come l’incrocio e lo scambio fra loro. PERCHÉ LETitFLY
Gli Italiani e le lingue
nei dati della ricerca-azione LETitFLY
39
PERCHÉ LETitFLY
41
PERCHÉ LETitFLY
Franco Iannelli
Consorzio SINFORM
In fase di progettazione e preparazione ci siamo chiesti più volte perché
fosse importante e per certi versi “urgente” fare LETitFLY. Era una domanda
semplice ma decisiva, per aiutarci a capire e rafforzare le nostre scelte, che
vedevano le competenze linguistiche al centro delle ricerche e delle indagini
del Progetto. Le competenze linguistiche nel loro rapporto strategico con i
cittadini, le imprese e le istituzioni. Le competenze linguistiche come snodo
problematico nel tema dominante della globalizzazione del lavoro e dei
mercati.
Come già alcuni relatori hanno evidenziato, la conoscenza linguistica
diventa fondamentale per facilitare la mobilità geografica e professionale, la
relazione tra imprese e mercati, l’integrazione sociale delle popolazioni
migranti, l’identità europea (con la necessaria tutela delle specificità culturali
delle singole nazioni).
E tuttavia, proprio in parallelo a questa indicazione del rafforzamento del
multilinguismo come tema fondante della coscienza europea, si riscontrano
ritardi nel nostro paese che sembrerebbero inconcepibili e in qualche modo
paradossali se non fossero correlati a importanti fenomeni che le ricerche di
LETitFLY hanno indagato: la diffusa sottovalutazione dei processi di
internazionalizzazione e globalizzazione, prima di tutto, ma anche il
permanere di un’impostazione scolastica dell’insegnamento delle lingue,
fino ad arrivare alla scarsa propensione degli italiani alla mobilità per
migliorare le opportunità di lavoro e di studio o alla sottovalutazione delle
risorse dell’interculturalità.
Certo, si evidenziano anche fenomeni positivi, che denotano uno scenario in
evoluzione. Sicuramente c’è più attenzione al multilinguismo nei processi di
riforma dei sistemi scolastici e formativi, sempre più si utilizzano standard e
dispositivi di certificazione che rafforzano una cultura di sistema dell’ap-
42
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
prendimento linguistico e si moltiplicano i programmi di mobilità. E poi un
aspetto rilevante, che tocca il nodo dell’offerta: da una parte l’utilizzo di
fonti finanziarie diversificate per lo sviluppo e l’erogazione della formazione
linguistica e dall’altra una moltiplicazione di soggetti che la erogano.
Siamo quindi davanti ad una realtà complessa, con diversi percorsi e
traiettorie che incrociano la domanda di formazione linguistica (la
popolazione e le imprese) e l’offerta (gli enti e le strutture che erogano
servizi formativi linguistici). Ecco, qui prende corpo l’importanza e
l’urgenza di LETitFLY: all’interno delle contraddizioni e delle potenzialità di
un ambiente complesso, che vede in questi anni lo sviluppo notevole sia
della domanda sia dell’offerta, e specialmente nell’esigenza di costruire una
conoscenza strutturata e approfondita dei fenomeni correlati. Solo un tale
lavoro strutturato poteva configurarsi come valido strumento e indicazione
funzionale ai pubblici decisori che intendono pianificare la promozione e il
miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento linguistico.
Insomma, penso che siamo tutti un po’ stufi di ascoltare o usare aneddoti sul
rapporto fra gli italiani e l’apprendimento linguistico, c’è invece bisogno di
utilizzare nei discorsi dei dati precisi su cosa è la domanda, su quali sono i
fabbisogni della domanda, su come viene offerta oggi la formazione
linguistica in Italia. Dati di conoscenza per migliorare la qualità. E questo è
stato il prodotto principale di LETitFLY.
Consentitemi ora un ulteriore veloce approfondimento. Avete ascoltato altri
relatori prima di me che facevano riferimento ai fondi interprofessionali per
la formazione continua e, più in generale, al mondo della formazione
professionale nel suo complesso. È un mondo che si sta trasformando, con
una focalizzazione sempre maggiore sulla domanda rispetto all’offerta. In
termini semplici si può dire che si tende a favorire il cosiddetto accesso
individuale alla formazione, puntando a finanziare non più l’offerta, e
quindi gli enti e le strutture che erogano il servizio della formazione, ma
direttamente il cittadino, il lavoratore, che tramite un voucher può gestirsi
una scelta personale di percorso formativo attingendo ad un’offerta
organizzata a catalogo. Assistiamo di fatto a una rivoluzione epocale, che
recepisce la spinta comunitaria al life long learning (la formazione durante
PERCHÉ LETitFLY
43
tutto l’arco della vita) e determina un assetto inedito delle modalità
organizzative e gestionali della formazione, specialmente quella riferita agli
adulti.
Mi sembra che il modello di lavoro di LETitFLY abbia toccato il punto chiave
di questo cambiamento, andando a indagare i due elementi portanti (la
domanda e l’offerta) della formazione linguistica, con l’obiettivo di dare
strumenti alla Pubblica Amministrazione orientati sia a facilitare la
conoscenza delle attese degli utenti, sia a dinamizzare il mercato dell’offerta
nelle sue componenti privato/pubblico. Risulta evidente che ogni strategia
non può che puntare a un incrocio ottimale tra i reali (non presunti)
fabbisogni formativi dell’utenza e un imprescindibile livello di qualità che
deve caratterizzare l’offerta.
Teniamo presente che la Commissione europea, con il Piano di azione per la
promozione dell’apprendimento delle lingue e della diversità culturale, individua
proprio tre settori di intervento: a) la promozione dell’apprendimento delle
lingue per tutta la vita (life long learning); b) il miglioramento della qualità
dell’insegnamento; c) la creazione di un ambiente più favorevole per
l’apprendimento linguistico. Abbiamo visto come queste indicazioni di
percorso siano state ampiamente tenute in considerazione, come bussole di
riferimento, nel nostro Progetto.
Ecco perché ci tenevo tanto a questo ulteriore approfondimento che lascio
alla vostra riflessione in chiusura dell’intervento: LETitFLY come modello di
lavoro attento ai cambiamenti di sistema in atto e trasferibile anche ad altri
contesti.
E spero di aver risposto alla semplice domanda iniziale: perché LETitFLY?
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
45
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
Andrea Toma
Fondazione CENSIS
Inizierei subito a ragionare sui numeri, sui risultati della ricerca, poiché fino
ad ora abbiamo ragionato in termini di politiche e di strategia, oltre che sul
contesto e sui processi che coinvolgono non soltanto gli Stati a livello di
integrazione politica ed economica, ma anche le imprese e, di conseguenza,
anche gli individui.
Per fare questo, per dare una risposta a tale trasformazione e a questi fattori
di forte innovazione che si stanno verificando a livello europeo, nazionale e
dei singoli individui, il progetto LETitFLY ha previsto un’indagine in grado
di fissare alcuni punti fermi per interpretare la realtà.
Il progetto è dunque una lettura di come oggi si presenta l’Italia, al di là dei
confronti che vengono fatti con altri paesi, in modo tale da fissare un tempo
da cui partire, anche per raggiungere gli obiettivi che ci vengono imposti da
Bruxelles, vale a dire il fatto che ogni individuo dovrebbe conoscere, oltre
alla lingua nativa, altre due lingue, entro il 2010-2015. Se questo è un
obiettivo che vale per quattrocento milioni di persone a livello europeo,
vediamo come noi, cinquantasei milioni di italiani, riusciamo a rispondere.
Primo punto fermo: la ricerca si basa su un campione della popolazione
formato da 2503 individui di almeno quindici anni. Si tratta, dunque, di un
campione nazionale, rappresentativo a livello territoriale, intervistato su
questi temi lo scorso anno.
Primi risultati della ricerca
La prima domanda consisteva in: “Lei conosce o meno una lingua?”. A
livello nazionale il 33,8% del campione dichiara di non conoscere nessuna
lingua oltre l’italiano, il 66,2% invece dichiara di conoscere almeno una
lingua. Vi sono differenze tra le diverse parti del paese (Nord-Ovest, Nord-
46
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Est, Centro, Sud ed Isole): è stato fatto dunque anche un confronto
territoriale; la prima percentuale (relativa alle persone che non conoscono
altre lingue) è più bassa nel nord-ovest e nel nord-est, il centro è ancora al di
sotto della media nazionale, il sud e le isole, invece, presentano diversi punti
percentuale più elevati. Naturalmente, in maniera speculare, sappiamo
quello che succede per quelli che dichiarano di conoscere un’altra lingua
oltre la propria. In conclusione, abbiamo che un terzo della popolazione non
conosce nessuna lingua, mentre due terzi della popolazione dichiarano di
conoscerne almeno una.
Passiamo adesso ad analizzare quali sono le lingue più conosciute, sempre
per area geografica. A livello nazionale, è l’inglese la lingua più conosciuta.
Oltre la metà di chi ha risposto positivamente alla prima domanda, dichiara
infatti che è l’inglese la lingua più nota, seguita da una percentuale superiore
ad un terzo di chi dichiara di conoscere il francese. Nel nord-ovest, anche
per vicinanza e per tradizione, c’è una percentuale maggiore di persone che
conosce il francese, mentre al centro la percentuale più elevata, anche
rispetto alla media nazionale, riguarda la conoscenza dell’inglese. Per ciò che
concerne le altre lingue, vale a dire tedesco, spagnolo e italiano per stranieri
– inserito per gli intervistati stranieri residenti in Italia – si hanno percentuali
allineate intorno al 2%, con un picco del 3,9% nel nord-est, dove c’è una
maggiore presenza di persone straniere.
La successiva domanda riguarda, invece, il numero di lingue conosciute nel
nostro paese. Ritroviamo, a livello nazionale, il 33,8% di chi afferma di non
conoscere nessuna lingua. Viene, tuttavia, dichiarato che almeno una lingua
è conosciuta dal 42,1% e due lingue dal 18,9%, un dato questo che sale al
24,2% nel nord-est. Il nord-est, come si vedrà anche incrociando i dati, è
forse l’area più dinamica, per la presenza di immigrati, ma anche per
tradizione storica ed economica e per il fatto che il nord-est è più proiettato,
rispetto ad altre aree del paese, verso i mercati internazionali. Quest’ultimo
è senza dubbio uno dei fattori che bisogna tenere in considerazione nel
momento in cui si fanno dei confronti con altre aree del paese.
Quindi abbiamo detto che il 66,2%, due terzi cioè del campione, dichiara di
conoscere una lingua. Bisogna però valutare come tale campione
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
47
autodefinisce la propria conoscenza delle lingue. Si sono scelte quattro
modalità di risposta: molto buono, buono, di base e scolastico. Si è scelto di
inserire questo ultimo livello non a caso, poiché è quello che nella percezione
delle persone viene considerato come un livello di conoscenza; anche se nel
curriculum europeo tale livello non esiste, nei curricula che girano tuttora
nelle aziende ancora si trovano indicazioni di questo tipo. Si tratta in ogni
caso di una conoscenza che sta al di sotto del livello di base, perché si ha di
esso una percezione piuttosto negativa o comunque che ha a che fare con un
livello di conoscenza ben circoscritto, definito, collocabile all’interno di un
periodo dell’esperienza personale molto particolare.
Se il 66% dichiara di conoscere una lingua, tuttavia, il 50,1% dichiara di
conoscerla a livello scolastico; pertanto è come se si fossero dimezzati quei
due terzi. Alla fine, infatti, si ha un terzo che dichiara di non conoscere
nessuna lingua, un terzo che dichiara di conoscere una lingua ad un livello
di base o superiore, ed un altro terzo che dichiara di conoscere almeno una
lingua a livello scolastico, quindi inferiore al livello di base. Si ha dunque il
gioco delle tre componenti, di tre terzi che si affiancano, gli uni agli altri,
secondo diverse modalità.
Questo a livello nazionale; per il nord-est la percentuale, per il livello di
conoscenza “scolastico”, scende al 46,6%, ma sono pochi punti percentuali di
differenza; il nord-est presenta anche il livello di conoscenza, con la modalità
“molto buono”, più elevata. La percentuale di chi dichiara di conoscere una
lingua a livello scolastico, sale al 53,5%, nel Sud e nelle Isole, il Mezzogiorno
di Italia. Essa rappresenta la percentuale in assoluto più elevata di persone
tra quanti dichiarano di avere una conoscenza scolastica della lingua. In
sintesi, abbiamo visto, che per la metà delle persone intervistate, la
conoscenza di una lingua straniera è legata alla lingua inglese.
La successiva domanda chiedeva, a chi conosceva le lingue, in quali
occasioni le utilizza. Abbiamo dato alle persone intervistate la possibilità di
risposte multiple, vale a dire con più modalità di risposta. A livello
nazionale, risulta che la modalità più scelta è quella relativa ai viaggi e alle
vacanze, che ha raggiunto la percentuale più elevata, seguita dalla modalità
“comunicare con familiari, amici e conoscenti”, con una percentuale del
48
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
35,4%, seguita, infine, dalla modalità “lavoro”, con il 28,6%, che rappresenta
circa la metà della prima motivazione. Le prime due motivazioni sono di
carattere culturale e relazionale: certamente non si tratta di motivazioni
professionali e questo è un dato molto importante. Se consideriamo la
distribuzione per aree geografiche, le percentuali più elevate, per la
motivazione di carattere professionale, sono presenti al nord-ovest e al nordest con il 36% e 32%, al centro siamo al 26,8%, quindi una percentuale
inferiore alla media nazionale, mentre al Sud e nelle Isole c’è una
percentuale ancora più bassa. Si potrebbero fare, dunque, tutta una serie di
considerazioni, di correlazioni sul tasso di disoccupazione e sulla diffusione
di un sistema produttivo a livello territoriale. Alla luce di ciò si riconferma,
per l’ennesima volta, una sorta di dualismo che ancora esiste fra le diverse
aree del paese.
La successiva domanda chiedeva “se conosce la lingua, che tipo di utilizzo
ne ha fatto in ambito lavorativo?”. In Italia chi conosce una lingua, nel 66%
dei casi, non la usa in ambito lavorativo e tale percentuale è dunque coerente
con quel 28% circa che abbiamo considerato in precedenza. È invece
utilizzata, in questo momento, dal il 35,5%; al contrario, non la utilizza oggi,
ma l’ha utilizzata in passato, il 3,8%. La rappresentazione è simmetrica per
quanto riguarda le diverse ripartizioni territoriali: il nord-ovest ha il livello
più basso di persone che non hanno mai utilizzato per lavoro la propria
lingua conosciuta, naturalmente ha un utilizzo attuale costante e
contemporaneo più elevato.
Si ricordi, inoltre, il termine scolastico come auto-percezione della propria
conoscenza delle lingue. A tal fine si è chiesto come viene considerata la
preparazione scolastica e che percezione si ha della preparazione fornita
dalla scuola pubblica italiana.
Le risposte possibili erano: “eccessiva”, “adeguata”, “scarsa”, “gravemente
insufficiente”; alcune persone hanno anche risposto “non sa/non indica”. E
questo perché, ragionando anche in termini generali, abbiamo una popolazione dai quindici anni in su, in cui, quindi, la componente anziana è molto
forte. Per chi è avanti nell’età, infatti, le occasioni di utilizzo e di studio della
lingua straniera sono più rare, per diverse generazioni.
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
49
Nel complesso, per analizzare il giudizio sulla scuola, se mettiamo insieme i
dati di chi definisce il grado di preparazione “scarso” e “gravemente
insufficiente”, si arriva al 55,9% di giudizio negativo sulla preparazione
acquisita durante il periodo scolastico, che è poi, generalmente, l’unica
occasione vera e comune di utilizzo, anzi di studio, di una lingua, nella
esperienza formativa di un individuo.
Di conseguenza, abbiamo chiesto, “in proiezione, pensate di poter studiare
in futuro una lingua, avete intenzione di farlo, siete, in qualche modo,
propensi a fare questo tipo di investimento sulla conoscenza delle lingue?”.
Unendo le risposte “sicuramente sì” e “probabilmente sì” – quindi le due
percentuali di chi ha una tendenziale propensione ad investire nelle lingue –
non raggiungono neanche il 22% del totale. L’insieme delle risposte
“probabilmente no”, “sicuramente no”, copre il restante 78%.
Fermiamoci un istante sul 22%: tale percentuale scende al 18,4% nel nordovest (quindi si ha una propensione inferiore alla media nazionale), è
leggermente superiore nel nord-est, inferiore al centro e, stranamente, ma in
ogni modo un dato interessante, si attesta al 25,9% per quanto riguarda le
persone residenti nell’Italia meridionale (dunque sopra la media nazionale).
Si ha, pertanto, una domanda potenziale sullo studio delle lingue che
raccoglie il 22% della popolazione.
L’analisi totale sulla popolazione ci mostra, in generale, una situazione
piuttosto statica: non c’è una grande propensione, non c’è una grande
conoscenza, sono pochi quelli che studiano o hanno studiato le lingue o
hanno intenzione di studiarle, che le stanno utilizzando per lavoro e che
hanno una motivazione allo studio delle lingue legata alla propria
professione, al proprio ruolo professionale.
La situazione dal lato delle imprese
Abbiamo isolato un campione rappresentativo di imprese con almeno due
addetti. Si tratta di un campione molto vasto, poiché esso supera le 1600
unità. Per le imprese, la lingua più utile è naturalmente l’inglese con una
percentuale del 99,4%, seguita dalla lingua tedesca (come sappiamo la
50
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Germania è uno dei mercati più importanti per la nostra economia); vi è poi
il francese con il 27,7% e lo spagnolo con il 19,7%. Scendendo nella classifica,
cominciano ad esserci delle indicazioni interessanti che coprono delle quote
minime della popolazione, ma che hanno, a nostro avviso, comunque una
tendenziale possibilità di crescere: ad esempio per il cinese, con il 7,3%, si ha
un dato di tutto rispetto, per il russo si ha il 1,9%, per l’arabo il 1,2%, per il
giapponese 0,8%.
Siamo dunque entrati ancora di più nel problema, perché questi sono i dati
relativi alle imprese, per le quali, come abbiamo visto, l’inglese rimane la
lingua più importante. Nel proprio contesto aziendale, l’inglese è dunque
definita come lingua più importante nel 71,9% dei casi, mentre per il 24,6%
delle imprese, nessuna lingua è importante e utile all’interno della azienda.
Praticamente un quarto delle aziende afferma “a me della lingua e della
conoscenza delle lingue non me ne importa nulla”: la lingua rimane, cioè, un
fattore marginale, quasi esclusa dalla propria attività.
Anche nel caso delle aziende, abbiamo un raffronto tra una percezione
generale ed una percezione rispetto alla propria esperienza e rispetto al
proprio vissuto aziendale. In generale agli imprenditori abbiamo chiesto che
tipo di valutazione operano e se considerano utile un personale con
competenze linguistiche. Il 57,3% degli intervistati ha risposto che lo
considera “molto utile”, seguita da un ulteriore quota del 3% di “poco utile”
e da una percentuale di “abbastanza utile” del 38%. Se mettiamo insieme le
quote di “molto utile” e “abbastanza utile” si ha una percentuale molto alta
di persone che considera utile disporre di personale con competenze
linguistiche. Tuttavia, se la stessa domanda è posta rispetto alla propria
azienda, il “molto utile” scende al 29,1%; questo dato, messo insieme
all’abbastanza utile, dà quasi un 60%, quindi un dato molto inferiore a
quello visto in precedenza.
Più nel dettaglio, abbiamo chiesto per quali funzioni sono valutate le
competenze linguistiche in sede di selezione. Il 66,1% delle imprese risponde
che non sono valutate per nessun tipo di funzione. Pertanto nel 66,1% dei
casi si tratta di un aspetto che, nel momento in cui fa selezione, non viene
affatto preso in considerazione; si valutano altri elementi, come gli aspetti
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
51
tecnici, relazionali, professionali, ma non quello della conoscenza delle
lingue. Se, invece, la conoscenza delle lingue è considerata utile – come nel
settore delle vendite e del commerciale, è infatti relativamente agli addetti
alle vendite che si raccoglie la percentuale più elevata – arriviamo al 17%
circa, che non è comunque una quota elevata.
Se vengono valutate le competenze linguistiche, quali sono le modalità? Nel
45,4% dei casi le competenze linguistiche vengono valutate sulla base della
sola dichiarazione, sulla base del curriculum, senza alcun tipo di test; si
chiede in sostanza se si conoscono le lingue e si può rispondere ‘sì, le
conosco molto bene’. Le competenze vengono valutate con prova orale solo
per il 38% delle imprese, dunque solo per una quota minoritaria del
campione; in modo formale tramite test solo il 15,5% delle imprese.
In sostanza, il dato di fondo è che quasi la metà delle imprese – se chiede ad
una persona, che sta selezionando per il proprio organico, il livello di
competenze linguistiche raggiunte – si fida in sostanza della dichiarazione
fatta dal candidato.
Ritorniamo adesso sul concetto di propensione all’investimento alla
formazione. Fatte cento le nostre imprese, vale a dire le 1600 che abbiamo
intervistato, il 95,4% non ha attivato alcun tipo di iniziativa sulla formazione
linguistica. Questo è il dato da tenere in considerazione, quando si ragiona
in termini di domanda potenziale delle imprese per quel che concerne la
formazione linguistica.
Sappiamo molto bene, però, che anche il dato sulla formazione in generale –
quindi la propensione ad investire in formazione delle nostre aziende – è
molto basso rispetto ad altri paesi. E sappiamo benissimo che l’elemento
fondamentale che caratterizza questo tipo di risposta è dovuto al fatto che la
stragrande maggioranza delle imprese nel sistema produttivo del nostro
paese, come anche il nostro campione, è formato da imprese piccole, che non
hanno spazio, né possibilità, né orizzonti di investimento così lunghi da
aspettarsi dei ritorni di investimenti in termini di formazione.
Visto quante imprese investono in formazione, abbiamo chiesto se in
prospettiva nei prossimi due anni queste stesse imprese hanno intenzione di
52
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
investire in formazione linguistica. Il 66% del campione risponde
“sicuramente no”, collegato ad un “probabilmente sì” che ha una
percentuale del 7,2%, a cui si aggiunge “sicuramente sì” col 19,7%, quindi
una quota minoritaria di chi ha intenzione di investire in formazione. Chi
l’ha fatto, come sappiamo, sono cinque imprese su cento; in questo caso
quelle che potrebbero in qualche modo avere una logica di prospettare un
investimento in formazione, raggiungono il 25%, non di più. Dunque le
imprese sono molto fredde verso la formazione linguistica, oltre che verso la
formazione in generale. Esse non percepiscono come un fattore importante,
per la propria azienda, la possibilità di disporre di competenze linguistiche,
poiché le aziende sono più orientate, in sintesi, ad acquisire competenze
formali e tecnico-professionali, sul processo e sugli aspetti operativi, non
tanto sulla potenzialità che le competenze linguistiche possono dare per
l’allargamento del proprio mercato; la maggioranza delle imprese è, infatti,
molto concentrata sul proprio mercato locale e domestico.
L’offerta
Dopo le imprese, il terzo anello della catena di analisi che abbiamo
considerato è rappresentato dalle strutture di offerta. Abbiamo ragionato
fino ad ora in termini potenziali, sulla domanda della popolazione e delle
imprese; vediamo invece i risultati relativi alle strutture di offerta, cosa ci
viene detto da chi rappresenta l’altra metà del mercato della formazione
linguistica.
In questo caso, abbiamo definito un indirizzario che, a livello nazionale, ha
raccolto 4900 enti che erogano formazione; ci hanno risposto in 1231, quindi
una quota che, rispetto a questo settore, risulta molto interessante, perché
più di 1200 enti che hanno risposto danno un valore a questa indagine di
non poco conto: non esiste, oggi, in Italia un’indagine con queste
caratteristiche, con un campione così vasto.
Il 45% di questi enti fanno capo alla formazione professionale; il 18% al
sistema di istruzione (e quindi alle scuole e tutto ciò che è collegabile alle
istituzioni scolastiche); il 21,3% alle scuole di lingua privata; mentre il 15% al
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
53
terzo settore, quindi associazioni, organizzazioni no profit ed altre strutture
pubbliche. Il 30% di questo campione è collocato nelle regioni del nordovest; il 23,2% nel nord-est, il 21,6% al centro, il 24,9% nel meridione (in
pratica un quarto del campione). Le regioni più rappresentative sono la
Lombardia con il 16,5% delle strutture, il Piemonte, al secondo posto, ma
piuttosto distanziato dal primo, con il 10,8%, Veneto con il 10,3%, Toscana
con l’8,9%, Lazio 7,1%, Sicilia 7% (ed è la prima regione meridionale che
entra in gioco in questa ipotetica classifica), seguita dall’Emilia Romagna con
il 6,2%.
Vediamo adesso i numeri dell’offerta, entrando più nel dettaglio. Su queste
1231 strutture che abbiamo analizzato, 1033, pari all’84%, hanno effettuato
corsi di formazione linguistica nel triennio 2003-2005. La parte restante, vale
a dire il 22%, cioè 226 strutture, ha, invece, erogato solo moduli di
formazione linguistica all’interno di corsi di formazione professionale, là
dove è previsto, all’interno di un corso, un modulo dedicato alla formazione
linguistica. Ritorniamo, però, alle 1033 strutture che sono quelle che
costituiscono la maggiore componente di offerta.
Ottocentosette hanno erogato almeno un corso di formazione linguistica. Di
queste, 463 (pari al 57%) hanno proposto solo corsi di lingue straniere; 292
(pari al 37%) hanno proposto corsi di italiano L2 e di lingue straniere; 52
(pari al 6%) solo corsi di italiano lingua L2, quelli dedicati solo alla
conoscenza dell’italiano per gli immigrati, per gli stranieri che vivono nel
nostro paese.
Analizziamo adesso l’utenza dell’offerta. Quante persone hanno coinvolto,
all’interno dei propri corsi di formazione, queste 1231 strutture?
Abbiamo, in ogni modo, un’utenza effettiva superiore, in questo triennio, ai
273.000 individui: sono persone che hanno avuto modo di fare un corso di
formazione linguistica, ma è possibile che una persona abbia potuto fare più
corsi; non sono teste, ma, appunto, utenti finali. Tra queste persone, 110.000
hanno seguito corsi professionalizzanti, legati ad una motivazione connessa
al lavoro, cosa che in precedenza abbiamo visto non essere così fondamentale. Questo dato è in linea con ciò che abbiamo già detto: la
motivazione fondamentale di una persona a seguire un corso di formazione
54
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
linguistica è di tipo personale, culturale, quindi si parla di viaggi, vacanze,
amici, conoscenza di nuove persone.
Sempre di questi 273.000, il 15,7% ha seguito dei corsi individuali, quindi,
come dire, dei corsi molto personalizzati sulle singole esigenze, il 66,4% corsi
di gruppo (che è la modalità più tradizionale), il 17,9% corsi aziendali e per
la pubblica amministrazione.
Ma a quale livello? Il 44,9% (quindi, quasi la metà) dichiara di avere seguito
corsi a livello elementare, il 35,9% a livello intermedio, il 19,2% a livello
avanzato. Per quanto riguarda i corsi professionalizzanti, dei 110.000 di cui
sopra, il 24,7% ha seguito corsi individuali: si tratta, di una percentuale
maggiore rispetto ai corsi degli utenti in generale, perché per i corsi
professionalizzanti la tendenza all’uso dei corsi individuali è molto
maggiore; il 41,9% ha seguito corsi di gruppo, il 33,4% corsi aziendali e per
la pubblica amministrazione. Per ciò che riguarda il livello, il 38% dei corsi è
di livello elementare, contro il 44,9% degli utenti di corsi generali, 35,8% di
livello intermedio, mentre, per l’avanzato, raggiungiamo una quota
percentuale molto maggiore, con il 26,2%.
Queste 1200 strutture che abbiamo analizzato, nel 45,6% dei casi, sono attive
da più di dieci anni, nel 31% dei casi da cinque a dieci anni, poi via via
abbiamo le altre modalità, vale a dire quelle inferiori ai cinque anni, con un
restante 22-23%.
Ma quali tipologie di corsi sono stati attivati? Sono stati attivati soprattutto
corsi di italiano L2 o corsi di lingua straniera ed è questa la principale
tipologia di offerta. Sulle 1200 imprese, il 37,6% ha organizzato corsi di
lingue straniere, il 23,7%, invece, corsi di italiano L2 e corsi di lingue
straniere, mentre l’italiano L2 è stato considerato come unica tipologia di
corso per il 4,2% delle strutture; nessuna delle due tipologie per il 34,5%.
Anche in questo caso, per la tipologia di corso seguito e per il livello di
insegnamento, l’inglese è prima lingua nel 56,3% dei casi, l’italiano L2 nel
18,2% dei casi, le altre lingue 25,5%. L’inglese presenta un livello elementare
del 52,8%, 58,2% di livello intermedio, 60,7% di avanzato. Ciò vuol dire che
la richiesta dell’inglese cresce proporzionalmente: come a dire che chi ha già
PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
55
una conoscenza tende a migliorare quella conoscenza e ad investire su
quella stessa lingua.
Per ciò che riguarda i moduli di formazione linguistica nell’offerta formativa
degli enti, essi sono presenti in alcuni corsi, sia di fondo sociale europeo che
non, nel 50,6% dei casi in base alla figura professionale; nel 12,1% dei casi in
corsi regionali o fondo sociale europeo.
C’è poi un’altra modalità che in qualche modo connota la presenza di
moduli che fanno capo alla componente residuale di chi organizza solo
moduli di formazione linguistica all’interno della formazione professionale.
E questo è un altro dato tutto sommato interessante, perché non abbiamo
analizzato solo le strutture, dunque il profilo dell’ente, vale a dire la dimensione, la propria struttura organizzativa, ma abbiamo anche analizzato i
progetti, le caratteristiche dell’offerta strettamente erogata dagli enti di
formazione, soprattutto attraverso la lente dell’innovazione o meno di questi
percorsi formativi. Nel 79,1% dei casi, gli enti hanno dichiarato che, fra il
2003 e il 2005, non hanno attivato niente di significativo dal punto di vista
innovativo, dunque quasi l’80%; otto su dieci. Invece, hanno attivato un
corso innovativo il 12,4% delle strutture, mentre hanno attivato un progetto
innovativo all’interno dei corsi il 4,2% delle strutture.
Ad ogni modo viene rimarcata questa proporzione di otto su dieci, in cui la
caratteristica del tradizionalismo è fondamentale; è vero che abbiamo una
domanda che non è molto propensa ad entrare in un circuito di formazione
linguistica, ma è anche vero che l’offerta, dall’altra parte, non sembra in
grado di intercettare altre esigenze: a domanda standard corrisponde offerta
standard. Questo crea una sorta di circuito vizioso dove la situazione finale è
abbastanza statica, ferma, forse non in linea con i processi e gli obiettivi che
dovremmo in qualche modo raggiungere, come dicevamo prima, a livello
europeo.
Sintesi degli altri dati delle indagini
Per ciò che concerne i dati sulla popolazione, il 21,9% ha intenzione in futuro
di studiare una lingua straniera, e questo è un dato di propensione che
56 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO avevamo già visto; altro dato: il 68,4% ha dichiarato che non avrebbe partecipato ad un corso di lingua, neanche se gratuito, e questo è un dato interessante. Naturalmente abbiamo un campione con una componente anziana molto forte, con una bassa motivazione a seguire corsi e ad essere interessato alla formazione. Tuttavia, questo dato, nell’ottica dell’educazione degli adulti, del lifelong learning, di cui tanto si parla, non è molto soddisfacente. Il 47,6%, quasi la metà del campione, si dichiara troppo anziana per studiare una lingua; il 27,6% non ha preso iniziative per lo studio perché non motivato, il 24,7% dichiara di non avere tempo per studiare una nuova lingua, il 60,7% degli occupati non ha mai utilizzato in ambito lavorativo la lingua straniera conosciuta. In sintesi, c’è una bassa propensione da parte della popolazione ad investire nella formazione linguistica. Per ciò che riguarda gli immigrati, vediamo due dati soprattutto: il 70,1% degli intervistati ha intenzione in futuro di migliorare la conoscenza dell’italiano – dunque abbiamo un dato contrario a quello del 21,9% della popolazione in generale. Abbiamo considerato un campione a parte di immigrati, abbiamo fatto una sorta di carotaggio, di focus su questa dimensione; si ha un 70,1% che ha intenzione di migliorare la propria conoscenza, perchè sono in un ambiente che in qualche modo li costringe. Il 56,3% si dichiara molto d’accordo con la affermazione: “nel lavoro che attualmente svolgo è indispensabile che io conosca la lingua italiana”, quindi anche in questo caso, collegata alla propria attività lavorativa, la conoscenza dell’italiano è fondamentale. Vediamo in sintesi i risultati anche per le imprese. Il 56,4% delle imprese intervistate non ha alcun addetto che conosce una o più lingue straniere; solo cinque aziende su cento, come abbiamo visto, hanno realizzato corsi, ma questo dato sale a 43% nel caso delle grandi imprese, cioè con una dimensione superiore ai 250 addetti. Il 66,6% delle imprese dichiara che sicuramente non utilizzerà corsi di formazione linguistica nei prossimi due anni e questo è un dato di propensione, ma per le grandi imprese questo valore scende al 18,5%, quindi c’è una relazione positiva tra propensione all’investimento e dimensione di impresa. PRESENTAZIONE DEI DATI DELLA RICERCA LETitFLY 57 Quali indicazioni conclusive, a livello di politiche, possono essere prese? Si è affermato che abbiamo in ogni caso un quadro di riferimento che è dato dal piano d’azione 2004‐2006 che si compone di tre obiettivi: apprendimento delle lingue in una ottica di lifelong learning, innalzamento della qualità dell’insegnamento delle lingue e creazione di un ambiente favorevole all’apprendimento delle lingue. Si tratta di obiettivi abbastanza generici, non prescrittivi: però da questo punto di vista è importante considerare il piano come un quadro di sfondo entro cui ogni singolo paese dovrebbe muoversi. Quali indicazioni vengono dalla ricerca LETitFLY? La prima: bisogna trovare qualche strumento che aggiri i fattori ostativi che sono socio‐demografici e riguardano la popolazione. La popolazione anziana non è motivata, non ha voglia, né intenzione, né tempo per studiare una lingua, ma noi siamo già in unʹottica di formazione degli adulti, di lifelong learning, quindi si deve trovare un grimaldello che sblocchi questa situazione. Sulla qualità dell’insegnamento delle lingue: un approccio di sistema per l’offerta linguistica che abbia attenzione per la certificazione linguistica delle competenze in uscita; sappiamo che ciò non accade poiché oltre il 30% delle strutture non rilascia alcun tipo di attestazione. Seconda indicazione: standard minimi di dotazione strutturale. Anche in questo caso, dal punto di vista delle metodologie, si manifesta una necessità di aumentare il livello di dotazione strutturale anche per consentire e garantire una maggiore innovatività nelle metodologie e per supportare il personale docente; naturalmente la domanda è orientata verso il personale di lingua e questo è un dato da considerare come molto importante. Terzo: un piano di mainstreaming delle competenze linguistiche per creare un ambiente più favorevole. Si tratta anche in questo caso di un’indicazione generica, però è questo l’unico aspetto sul quale bisogna raccogliere le esperienze che sono diffuse, sebbene in maniera non sistematica a livello nazionale. Ciò vuol dire che bisogna raccogliere quegli strumenti, quegli escamotage, quelle esperienze che hanno avuto successo, e riportarle su scala maggiore, perché coinvolgano sempre più persone e non rimangano delle esperienze di nicchia. L’ultimo aspetto riguarda cosa può succedere dopo LETitFLY: andando oltre 58
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
i risultati di questa ricerca, abbiamo scoperto tutta una serie di cose, siamo
entrati nel dettaglio dell’offerta, delle modalità e delle metodologie. A noi
interessa ciò che potrà accadere negli anni successivi, sempre in questa
logica di raggiungimento di obiettivi che altri paesi hanno già raggiunto e
hanno già a disposizione.
Diffusione e valorizzazione dei risultati LETitFLY. Possiamo continuare su
altri aspetti: ci sono dei seminari di sensibilizzazione e diffusione che hanno
avuto successo a livello locale e possono essere replicati; abbiamo un portale
LETitFLY: può diventare un punto di riferimento per tutte le novità; per
tutto ciò che succede nell’ambito della formazione linguistica; per seminari
di studio ed eventi vari che possano creare un ambiente favorevole
all’apprendimento linguistico; per azioni di web-marketing rivolte all’offerta
che sul portale può trovare tutta una serie di indicazioni che possono
migliorare il proprio orientamento; per la creazione di community di esperti
ed operatori. Abbiamo coinvolto moltissime persone che a livello nazionale
sono dei grandi teorici, ma anche degli operatori che sanno molto. Manca
una sistematicità di queste conoscenze, per questo sarebbe importante creare
una community ed il portale di LETitFLY può essere questo luogo di
accoglienza del dibattito orientato agli obiettivi prima indicati.
Possibilità di manutenzione del patrimonio informativo. Abbiamo messo un
punto zero a tutto il dibattito sulla conoscenza delle lingue, adesso sappiamo
come sono effettivamente orientate le persone e le imprese a livello
nazionale e possiamo fare questo tipo di attività a livello territoriale per
sviluppare quelle esperienze che possono, dal basso, creare un ambiente più
accogliente per la formazione linguistica. Infine: aggiornamento dei dati
LETitFLY. Questo della conoscenza delle lingue è un fenomeno da tenere
sotto osservazione in maniera molto precisa, con una periodicità di riscontro
che consenta di capire in che modo ci stiamo orientando, e anche che tipo di
efficacia stanno avendo gli strumenti che sono stati messi in campo per
migliorare l’accesso alla formazione linguistica oltre che i risultati di tale
formazione.
LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA
I decisori politici e gli scenari
della formazione linguistico-professionale:
il Progetto Trio, un esempio di best practice
59
LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA
61
LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO
DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA
Natalia Guido
Ricercatrice ISFOL - Presidente Comitato Mainstreaming di “LETitFLY”
I risultati presentati dal Censis relativamente al lavoro svolto attraverso
l’indagine LETitFLY permettono di costruire un quadro complessivo delle
attese e delle tendenze, in Italia, in merito alla così detta “questione
linguistica” o, più specificamente, al problema relativo all’insegnamento e
all’apprendimento linguistico nel nostro Paese.
Data la vastità del lavoro svolto e la ricchezza dei risultati emersi, ritengo
importante e doveroso riconoscere l’impegno e il valore dell’investimento,
non
solo
economico,
del
Ministero
del
Lavoro,
che
ha
voluto,
coraggiosamente, affrontare un’operazione complessa riguardante una
tematica ancora considerata di nicchia. Una tematica attorno alla quale, però,
si sta costruendo una maggiore consapevolezza, in particolare sul ruolo che
la conoscenza e l’uso delle lingue straniere possono svolgere in funzione
della costruzione di una più certa inclusione sociale e di una fattiva
integrazione lavorativa.
L’evento di quest’oggi ne è una chiara conferma e la partecipazione di
esperti nazionali e internazionali, nonché di attori strategici che operano in
questo settore, dimostra, a mio avviso, il cresciuto interesse, in Italia, attorno
a questi temi.
Mi preme a questo punto sottolineare due aspetti emersi nel corso delle
presentazioni che mi hanno preceduta e che appaiono, a mio avviso,
particolarmente significativi.
I dati presentati dal Censis dimostrano, sul piano teorico, una sostanziale
crescita di interesse nei confronti della conoscenza delle lingue straniere. Ciò
ha permesso di arricchire la “questione linguistica” di elementi e di
significati tali da rendere questa tematica un argomento di discussione,
anche a livello politico, nell’ambito dell’ampio dibattito sul futuro dei
62
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
sistemi educativi e formativi e sul loro ruolo in funzione della costruzione di
una più chiara e competitiva identità economica e sociale europea.
Nello stesso tempo, sul piano pratico, le attività e le azioni finalizzate alla
promozione dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico rimangono,
in Italia, ancora rilegate a contesti ristretti, con il limite di non riuscire a
rispondere, efficacemente, alle richieste di maggiore qualità ed efficacia, così
come previsto a livello europeo e, nel contempo, di non poter dare seguito
alle attese dei discenti e alle crescenti necessità del mercato del lavoro.
A questo punto, ritengo che ciò che dobbiamo auspicarci è che i risultati
della ricerca LETitFLY vengano rapidamente tradotti in azioni concrete
finalizzate a valorizzare, quanto emerso, nel quadro della discussione più
generale sul ruolo e sulle funzioni dell’insegnamento linguistico. Ciò al fine
di garantire la costruzione di una politica “linguistico-formativa”
differenziata e adeguata ai diversi livelli territoriali: locali, regionali e
nazionale, in grado di rispondere alle reali attese dei cittadini e delle
imprese. Questa azione consentirebbe la costruzione di una sistema politico
nazionale e regionale volto a sostenere una maggiore consapevolezza sul
ruolo dell’insegnamento e dell’apprendimento linguistico, nel quadro delle
strategie di investimento sul capitale umano.
In questo scenario ci sono, a mio avviso, due attori principali: uno è
rappresentato dallo stesso Ministero del Lavoro che sarà, quindi, ancora una
volta chiamato in causa per dare continuità alla ricerca e per assicurare che i
risultati finali possano produrre dei frutti ulteriori. Dall’altro lato, ci sono le
Regioni a cui spetta il compito più complesso di tradurre le aspettative
espresse in strategie concrete, rispondenti alle molteplici e variegate attese
dei propri territori locali.
A testimonianza della significatività del ruolo di questi attori strategici e
dell’importanza di azioni concrete realizzate, in particolare, dagli Enti Locali,
introdurrei a questo punto la presentazione di un caso di eccellenza
rappresentato dalla Regione Toscana che, attraverso il Progetto TRIO, da noi
ritenuto un chiaro esempio di best practice, dimostra come sia possibile
attuare alcune strategie politiche di investimento sulla formazione profes-
LETitFLY: UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO DELLA QUESTIONE LINGUISTICA IN ITALIA
63
sionale e in particolare anche sulla formazione linguistica, in azioni concrete.
Azioni che si traducono in progetti in grado di coinvolgere un ampio
numero di utenti, offrendo loro una proposta formativa capace di rispondere
alle loro reali necessità professionali.
L’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE NELL’ESPERIENZA TOSCANA 65 L’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
NELL’ESPERIENZA TOSCANA
Elio Satti Responsabile Area Organizzativa Apprendimento per tutta la Vita ‐ Regione Toscana Sono estremamente felice per aver esaminato un prodotto quale quello che ci è stato presentato, cioè i risultati del Progetto LETitFLY: se lo avessimo avuto a disposizione quando in Regione Toscana stavamo per programmare le nostre politiche regionali nel settore della formazione, avremmo sicuramente avuto a disposizione una serie di informazioni che ci avrebbero aiutato nella predisposizione delle azioni da inserire nel Piano di Indirizzo Generale Integrato Educazione, Formazione, Lavoro. Anche noi avevamo condotto un’indagine nello stesso settore, ma ovviamente non con la profondità con cui questa di LETitFLY è stata portata avanti e conclusa. Il mio compito è, comunque, quello di introdurre in questo convegno ed in maniera rapida, il quadro all’interno del quale in Toscana si situano le politiche legate all’apprendimento delle lingue. Il Piano di Indirizzo Generale Integrato indica nei bench mark europei provenienti dalle strategie di Lisbona e Barcellona gli obiettivi da raggiun‐
gere. Molti di questi obiettivi presuppongono competenze linguistiche specifiche. Per questo le politiche del diritto all’apprendimento per tutta la vita – che sono contenute all’interno del piano – vedono le lingue come un elemento fondamentale poiché si pongono a supporto e ad integrazione di tutta una serie di misure che il piano stesso sviluppa. Vi faccio qualche esempio ricordando le misure più importanti stabilite dal Piano. La mobilità: il nostro piano prevede uno sviluppo notevole della mobilità, mobilità che non è solo quella studentesca ma che riguarda anche gli apprendisti, il personale in formazione, gli imprenditori. Evidentemente senza la conoscenza delle lingue, la mobilità non si può fare. Vi è un’altra 66 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO misura che presuppone un supporto di conoscenze linguistiche ed è quella relativa all’educazione non formale degli adulti; sempre di più gli adulti hanno bisogno di muoversi all’interno di settori, pensiamo ad internet, in cui le lingue sono indispensabili per non sentirsi completamente isolati. Altra misura è quella della interregionalizzazione delle politiche che la Regione Toscana ha messo all’interno del proprio Piano 2006‐2010: anche in questo caso, per esempio, i funzionari pubblici non possono non conoscere lingue se vogliono raggiungere gli obiettivi prefissati, poiché in questo caso si tratta di interagire con colleghi di altre regioni d’Europa, ciascuna con una sua propria identità linguistica. Vi è, inoltre, tutta la parte relativa alla imprenditorialità. Abbiamo subito, in Regione Toscana, un processo abbastanza forte di cambiamento all’interno del settore; pensate ad esempio al distretto tessile di Prato, che ha subito una serie di crisi che hanno introdotto nuovi scenari di sviluppo. C’è la necessità che la nostra classe imprenditoriale possa in qualche modo recuperare o meglio inserirsi all’interno di un processo innovativo che presuppone la conoscenza delle lingue. Ecco che allora, a questo punto, le azioni specifiche, a partire da queste misure, sono due. La prima è un’azione territoriale, puntuale, che riguardi le agenzie formative del territorio, i centri territoriali permanenti, che già si occupavano in passato di questo tipo di formazione linguistica a livello locale. La seconda azione è più propriamente di sistema – sulla quale abbiamo puntato molto già in passato, sulla quale abbiamo fatto grossi investimenti e su cui punteremo molto in futuro – ed è l’azione legata all’apprendimento delle lingue online e dunque al Progetto TRIO. Il livello locale e il livello di sistema di queste azioni interverranno in settori specifici, come quelli della formazione continua, degli occupati, dei disoc‐
cupati, degli apprendisti, dell’educazione degli adulti anche attraverso l’utilizzo di progetti‐pilota. Questo è il quadro all’interno del quale si situano le politiche dell’apprendimento delle lingue e sulle quali la Regione Toscana intende puntare per il prossimo quinquennio. IL PROGETTO TRIO E L’AZIONE DI ALFABETIZZAZIONE LINGUISTICA
67
IL PROGETTO TRIO E L’AZIONE DI ALFABETIZZAZIONE
LINGUISTICA PER CITTADINI STRANIERI
Simone Borselli
Coordinatore Progetto Stranieri – Staff Direzione Didattica TRIO
Cercherò di illustrarvi il Progetto Stranieri – “Azione di alfabetizzazione
linguistica per cittadini stranieri” in maniera molto sintetica, focalizzando
l’attenzione soprattutto sul “cuore” dell’offerta formativa del Progetto: i corsi
online di lingua italiana per stranieri. Il Progetto Stranieri è un progetto
promosso dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e dalla Regione
Toscana, con l’obiettivo di dotare i cittadini stranieri, residenti in Toscana, di
maggiori strumenti di integrazione con la comunità locale di riferimento:
migliorando il livello di alfabetizzazione linguistica, migliorando la
conoscenza degli aspetti caratteristici del territorio toscano (sotto il profilo
culturale ed istituzionale), attraverso una prima conoscenza del mondo del
lavoro (sotto l’aspetto dei diritti e doveri e delle normative più importanti).
Tutto questo grazie ad un’offerta formativa di corsi online fruibili sul portale
TRIO. Il Progetto TRIO è, infatti, il portale della formazione a distanza della
Regione Toscana; un portale che si rivolge a tutti i cittadini. Tutti possono
iscriversi e fruire gratuitamente dei corsi a catalogo, sia attraverso postazioni
private di accesso ad internet, sia attraverso i Poli di Teleformazione TRIO.
Complessivamente, sono diciannove i Poli di Teleformazione presenti in
tutte le province della Toscana. Ogni polo è dotato di un’aula informatica
con postazioni multimediali e un impianto di videoconferenza. In ogni Polo
di Teleformazione è presente un tutor che svolge la funzione di accoglienza,
di supporto tecnico e di facilitatore dell’apprendimento.
Il progetto TRIO fornisce anche servizi di orientamento, di tutoraggio online
e servizi personalizzati. A titolo di esempio, cito il servizio WLG, per gruppi
di utenti che da differenti punti di accesso ad internet possono collegarsi alla
stessa home page TRIO, personalizzata. Infine, nel portale sono presenti
forum tematici, community e aule virtuali.
68
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Per quanto concerne le varie fasi del progetto, dopo una prima fase di analisi
finalizzata ad acquisire informazioni sulla popolazione destinataria dell’intervento formativo, sono stati individuati i partner da coinvolgere nell’iniziativa, ovvero, le Istituzioni e le organizzazioni del terzo settore che
potevano garantire una diffusa promozione del progetto sul territorio e un
forte coinvolgimento degli stranieri.
Contemporaneamente, sono stati progettati e prodotti ventisei corsi online:
ventiquattro corsi di lingua italiana, un corso di diritto alla sicurezza sul
lavoro (che ha come obiettivo didattico il fornire un quadro sintetico delle
normative vigenti in materia di sicurezza) e un corso di orientamento al
territorio (che ha come obiettivo il fornire una panoramica dei servizi attivi
presenti sul territorio toscano a cui gli stranieri possono accedere).
I ventiquattro corsi sono auto-consistenti, con una struttura modulare che
consente la costruzione di percorsi formativi: un percorso di lingua italiana
di livello base, un percorso di livello elementare ed uno intermedio. Tutti i
corsi del progetto sono stati testati in una classe sperimentale, organizzata
dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’Empolese Valdelsa, uno dei partner del
progetto, e dall’ARCI Regionale Toscana. La sperimentazione ha avuto un
esito positivo e ha garantito il perfezionamento dei corsi a catalogo.
Gli utenti hanno fruito dei corsi del progetto sia presso i Poli di
Teleformazione, sia in gruppi e classi di utenti organizzati nelle sedi delle
varie associazioni partner. Complessivamente, avevamo 39 sedi, dove gli
utenti potevano fruire dei corsi.
Ogni corso di lingua italiana si caratterizza per un livello di multimedialità
molto alto e si pone l’obiettivo didattico di sviluppare, in maniera molto
equilibrata e relativamente ad uno specifico ambito tematico e situazionale,
le competenze linguistiche relative alla comprensione e alla produzione
orale e scritta.
Le varie componenti multimediali, quindi, sono perfettamente inserite nel
corso. Ogni corso è caratterizzato da un’introduzione, composta da tre
sezioni: modalità di fruizione, indice e presentazione; dopo aver definito gli
obiettivi e i contenuti del corso, segue un test di ingresso (un test di auto-
IL PROGETTO TRIO E L’AZIONE DI ALFABETIZZAZIONE LINGUISTICA
69
valutazione, finalizzato a determinare le competenze in ingresso dell’utente)
e il “cuore” del corso, cioè tre lezioni incentrate sulle quattro abilità: la
comprensione orale, la comprensione scritta, la produzione orale, la
produzione scritta. Nella terza lezione viene spiegata, con il supporto di
esempi, la regola grammaticale che è analizzata nel corso.
Vi è anche una sezione vocabolario, che contiene l’elenco dei vocaboli più
rilevanti presenti nel corso con relativa definizione e possibilità di ascolto
della pronuncia, e con le sezioni alfabeto e verbi, contenenti la spiegazione
della regola grammaticale.
Il corso si conclude con un test finale. Il test è tracciato dal portale TRIO,
quindi, se l’utente risponde correttamente ai due terzi delle domande, può
richiede un attestato di frequenza, che viene rilasciato gratuitamente.
Per quanto concerne i risultati del Progetto, circa mille utenti hanno fruito dei
corsi del Progetto Stranieri. Il Progetto è terminato nel febbraio del 2006, ma i
corsi sono ancora disponibili e utilizzabili sul catalogo TRIO. Abbiamo
constatato una forte fidelizzazione da parte dell’utenza: infatti, chi ha
usufruito dei corsi del Progetto Stranieri, successivamente, ha continuato a
recarsi presso le sedi dei partner e presso i Poli di Teleformazione per sfruttare
non solo l’offerta formativa del Progetto Stranieri, ma anche gli altri corsi
presenti sul catalogo TRIO, soprattutto corsi di informatica e di lingua inglese.
L’85,7% dei corsi usufruiti sono stati completati con successo, quindi con il
superamento del test finale. Molto bassa è la percentuale dei corsi abbandonati, il 2,4%. Il 91,6% degli utenti ha seguito i corsi di lingua italiana,
l’8,4% i corsi: “Diritto alla sicurezza sul lavoro” e “Orientamento al turritorio”. Per quanto riguarda la distribuzione percentuale delle nazionalità degli
utenti iscritti, l’11,75% sono utenti provenienti dal Marocco, seguiti da
albanesi, somali, rumeni e cinesi. Il livello di scolarizzazione dell’utenza è
medio-basso. Il 55% degli utenti del progetto sono donne. Per quanto
riguarda l’età, il 43% degli utenti ha un’età compresa tra i 18 e i 32 anni,
segue poi dal 27% con un’età compresa tra i 33 e i 44 anni. Infine, come già
ricordato, il Progetto TRIO ha vinto l’edizione 2006 del “Label Europeo”,
attestato di qualità assegnato dalla Commissione europea alle iniziative
innovative nel campo dell’insegnamento/apprendimento linguistico.
ALCUNE RIFLESSIONI SUI DATI DELLA RICERCA LETitFLY
71
ALCUNE RIFLESSIONI SUI DATI DELLA RICERCA
LETitFLY
Giuseppe Roma
Direttore Generale Fondazione Censis
La formazione linguistica in Italia si basa su una contraddizione di fondo: se
da un lato è opinione diffusa che la conoscenza delle lingue straniere è utile,
dall’altro ci troviamo in una situazione in cui i giovani, pur essendo passati
attraverso il sistema formativo scolastico, che prevede l’offerta linguistica,
hanno una scarsa conoscenza delle lingue.
Il canale scolastico resta infatti uno dei punti dolenti del nostro Paese,
perché, anche se si va verso una maggiore efficacia del sistema formativo, le
modalità di apprendimento sono troppo flessibili, e lo studio che i giovani
fanno delle lingue straniere risulta carente.
C’è e ci sarà sempre più una crescita delle motivazioni da parte delle nuove
generazioni, e in generale da parte di tutti gli italiani, verso la necessità di
poter comunicare in un’altra lingua, e questo fatto avrà sicuramente un
effetto positivo. Lo si è già visto negli ultimi anni con un’alfabetizzazione, di
tipo spontaneo, avvenuta ad esempio attraverso le numerose adesioni degli
studenti universitari ai progetti Erasmus, o alla nascita di diverse forme di
apprendimento della lingua fuori dal circuito scolastico. C’è quindi una
maggiore sensibilità al mondo esterno, che fa da traino all’esigenza di
padroneggiare un veicolo linguistico.
Il Progetto LETitFLY approfondisce anche un aspetto legato all’iniziativa del
Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale – che ha ideato e promosso
questa ricerca – che è quello della formazione linguistica a fini professionalizzanti. L’inglese per tutti non basta più. Per lavorare oggi, occorre
imparare delle lingue di segmento, come il cinese, l’arabo, il rumeno, che
servono per il processo d’internazionalizzazione che il nostro paese sta
realizzando.
Chi parla più lingue e conosce civiltà diverse dalla nostra è in grado di
operare meglio nel mondo contemporaneo, caratterizzato dall’incontro tra
72
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
culture e da una società sempre più globalizzata.
Creare l’Europa senza la possibilità di comunicare è impensabile, e credo che
l’Italia di oggi sia più interessata a relazionarsi con il resto del mondo e ad
imparare le lingue, di quanto non lo fosse all’epoca dei nostri padri quando
era, invece, un paese autarchico e abituato a guardarsi all’interno. I nostri
padri hanno realizzato molte cose, e anche noi dobbiamo fare qualcosa in
più su questo versante internazionale.
GLI ITALIANI E LE LINGUE
Oltre le asimmetrie tra domanda e offerta:
popolazione, imprese
e attori della formazione
73
74
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
GLI ITALIANI E LE LINGUE
75
Parte I
La popolazione tra esigenze reali e desideri
76
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
GLI ITALIANI E LE LINGUE
77
GLI ITALIANI E LE LINGUE:
OSSERVAZIONI PER UNA POLITICA LINGUISTICA
IN UN MONDO DI CONTRADDIZIONI
Gaetano Berruto
Università degli Studi di Torino
1. Il mio intervento non può che portare una prospettiva molto angolare alla
discussione che si è avviata oggi sui risultati della megaindagine condotta
dal progetto LETitFLY, ed è la prospettiva di un accademico, abituato a
“contemplare invidiosi veri” e non a scendere sul concreto degli obiettivi
politici, delle strategie di formazione nel mercato del lavoro, delle pratiche
didattiche. Inoltre, è la prospettiva di un sociolinguista, che vede le cose
nell’ottica dei rapporti fra lingua, cultura e società, che è certamente una
visuale che ha la sua rilevanza nel contesto dell’indagine ma è appunto una
visuale settoriale.
Debbo subito dire che l’indagine che è stata oggi presentata rappresenta un
passo molto importante anche per gli addetti ai lavori (linguisti e
sociolinguisti intendo), in quanto fornisce una radiografia ampia, dettagliata
e attendibile, condotta con metodologia affidabile, della situazione del
nostro paese quanto alle lingue seconde e straniere. In un certo senso,
possiamo dire che ci viene proiettato un film dal titolo “Gli italiani e le
lingue”. Che cosa ricaviamo da questa proiezione? Un panorama
estremamente variegato. Molte cose appaiono ovvie, non c’era bisogno di
alcuna indagine apposita per saperle; ma altre cose sono invece molto meno
ovvie; ed alcune sono anzi sorprendenti.
In generale, emerge come ritratto complessivo un’ulteriore conferma che
l’Italia è un paese di forti contraddizioni. In questo caso, in primo luogo,
contraddizioni fra le rappresentazioni e i comportamenti. Una prima
contraddizione palese di fondo è, come del resto si è già ben visto oggi, che a
un atteggiamento largamente favorevole in generale all’apprendere le lingue
(peraltro da ritenere ovvio, in quanto tale, essendo indubbiamente le lingue
un bene per lo meno socio-culturale anche nell’immagine ingenua di tutti) fa
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
78
riscontro una notevole insensibilità quanto ad operazioni concrete in tal
senso. Tra il dire (“sarebbe bello/utile sapere le lingue”, a seconda della
prospettiva della popolazione e del mondo imprenditoriale) e il fare
(impegnarsi in concreto per imparare/insegnare le lingue) c’è un vero mare. I
dati dell’indagine sono a questo proposito molto coerenti, e dalla prospettiva
della popolazione in generale, e da quella delle imprese. È un bel caso topico
– verrebbe da dire –, almeno una volta, di totale convergenza di vedute fra
imprese e lavoratori!
Coglie esattamente il succo della questione, quindi, il rapporto finale, La
domanda e l’offerta di formazione linguistica in Italia (d’ora in poi, Formazione)
quando afferma (a p. 39) che la domanda potenziale di formazione
linguistica è molto forte, ma al tempo stesso
“è appunto una domanda potenziale, una domanda che rimane sospesa sulla
soglia delle intenzioni e non trova la spinta necessaria per mutarsi da
intenzione in azione […]. La maggior parte rifugge al contatto della
formazione e si ritrova ormeggiata nel più rassicurante ambito nazionale che
non chiede e non stimola competenze linguistiche avanzate. Si spiega così il
78,1% della popolazione che non ha alcuna intenzione di apprendere una
lingua straniera e il 95,4% di imprese che non organizzano formazione in
ambito linguistico”.
Nel complesso, dal film proiettato viene fuori un bel ritratto dell’italiano
medio sub specie linguistica. Vorrei pertanto segnalare qui, un po’ alla rinfusa,
alcuni dettagli che mi paiono degni di nota, dotati di spiccato valore
sintomatico nel quadro generale. Anzitutto, il ritratto è ben riflesso anche
nella prospettiva degli “altri” per antonomasia: l’88% degli immigrati
interpellati concorda con l’affermazione che “gli italiani dovrebbero
conoscere di più le lingue straniere” (Formazione, pag. 55). È un ritratto in cui
più del sessanta per cento (61,8%; Formazione, pag. 51) di coloro che lavorano
e conoscono le lingue non ha mai avuto occasione di utilizzarle sul lavoro.
Dalle prime inquadrature del film, apparirebbe invero qualche lineamento
di tutt’un altro ritratto. Una situazione molto rosea, anzi: il 66,2% degli
italiani dice di conoscere almeno una lingua straniera, e il 28,6% addirittura
due (v. pagg. 42-43 di Formazione). Ma come? Due nostri concittadini su tre
GLI ITALIANI E LE LINGUE
79
sanno una lingua straniera! La cosa sembra conflagrare clamorosamente con
l’esperienza quotidiana… E in effetti si sconta qui la relatività di come possa
essere inteso il “conoscere una lingua”, e che cosa voglia dire conoscere
effettivamente una lingua. Se andiamo a vedere la conoscenza concretizzata
nell’autovalutazione del livello di competenza, le cifre però si chiariscono (e
diventano preoccupanti, vista anche la loro coerenza con quelle del
rilevamento Eurobarometro del 2005): la percentuale di coloro che
conoscendo una lingua affermano di saperla a un livello “buono” o “molto
buono” precipita al 30,9% (Formazione, p. 48). E questa è la falsariga su cui il
quadro si sviluppa.
Certi risultati apparentemente strani si spiegano proprio in questo quadro,
che riproduce esattamente le fattezze stereotipiche, quanto a lingue straniere, del cosiddetto italiano medio tipico. Per esempio, si spiega come mai
la competenza dichiarata in fatto di abilità linguistiche assegni un rango
relativamente più ampio al leggere che alla comprensione all’ascolto
(contrariamente a quanto ci si aspetterebbe secondo le normali gerarchie di
acquisizione di lingue seconde studiate dalla linguistica acquisizionale e
dalla glottodidattica): ciò non riflette altro che la risaputa difficoltà degli
italiani con la pronuncia delle lingue straniere, diventata ormai un luogo
comune. Basti pensare, aneddoticamente, alla quantità di pronunce quanto
meno un po’ disastrate di nomi propri (antroponimi, toponimi ecc.) stranieri
da parte di coloro che dovrebbero essere speaker professionali (per es. al
giornale radio nazionale); o a quante volte in radiocronache o telecronache
calcistiche si sente dire la formula “il giocatore X dal nome impronunciabile”. Entrambe cose poco immaginabili in un qualunque paese
dell’Unione europea. Ovvio, quindi, che i nostri intervistati nell’autovalutazione
della
competenza
pongano
la
“capacità
di
tenere
una
conversazione” al grado più difficile di prestazione nella lingua straniera che
dicono di conoscere! (v. pag. 49 di Formazione). Gli italiani noti parlatori non
sanno/non amano parlare in lingue che non siano l’idioma materno.
D’altro canto, i due terzi (66%) delle imprese si dicono d’accordo con
l’affermazione che “nel lavoro è sufficiente avere competenze linguistiche
minime, per poter leggere manuali o navigare in internet” (v. pag. 69 di
Formazione). E si noti anche qui che si tratta di competenze che non
80
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
riguardano il parlare: in perfetta coerenza con quanto appena sopra
sottolineato. Del resto, quasi la metà (il 48%) delle aziende ritiene “poco o
per niente utile personale con competenze linguistiche all’interno
dell’azienda” (Formazione, pag. 73), affermazione che dal punto di vista del
linguista risulta poco meno che scandalosa.
Infine, e lo dico del tutto fra parentesi, è testimoniata dall’indagine anche
un’altra peculiarità italiana: la cattiva utilizzazione delle risorse. Come è
possibile altrimenti che un’ora di lezione di lingua costi mediamente 46 € in
provincia di Bolzano, 106 € in Toscana, 239 € in Emilia-Romagna (v. pag. 128
di Formazione)?!
Si pone dunque, in conclusione, la domanda: sapere le lingue, in Italia,
all’inizio del XXI secolo, va ancora considerato un lusso inutile?
2. Passando dalle osservazioni più puntuali sul significato dell’indagine a
considerazioni più generali e volte al futuro, direi che anche dal punto di
vista delle politiche linguistiche da assumere, una volta deplorata questa
situazione, si presentano per il sociolinguista due esigenze di fondo in parte
contrapposte: da un lato, avere una lingua franca, veicolare; dall’altro,
tutelare la diversità linguistica (come è stato ampiamente dimostrato per la
diversità e pluralità biologica, così la pluralità culturale e linguistica è un
bene sicuramente da salvaguardare). Con la conseguente necessità di sforzi
congiunti nelle due direzioni.
Queste due esigenze teoriche corrispondono anche a una contraddizione, o
per lo meno dualità, fra motivazioni e obiettivi. Ragioni utilitaristiche,
meramente economiche nel senso più banale del termine (“far economia”)
portano ovviamente a focalizzarsi, puntare e insieme appiattirsi sull’inglese.
Ragioni socio-culturali portano invece a puntare su una gamma diversificata
di lingue. Non sembra che né la popolazione in genere né le imprese
percepiscano appieno il vero valore di queste dualità: prevale largamente, in
fatto di lingue, l’atteggiamento che le vede in fondo come una questione
privata, un di più che può migliorare certi aspetti della vita, un benefit
aggiuntivo.
GLI ITALIANI E LE LINGUE
81
Dal punto di vista propositivo, di fronte alla situazione messa così
chiaramente in evidenza dal Progetto LETitFLY pare dalla mia ottica che
debbano essere sottolineate e sostenute due tesi fondamentali. La prima tesi
è che il rilevamento dei desideri e bisogni della popolazione e delle imprese
rende necessaria anche, e vorrei dire anzitutto, un’operazione preliminare di
effettiva “motivizzazione” e diffusione più profonda (e non solo al livello
puramente epidermico fatto emergere dall’indagine) della coscienza
dell’importanza anche economica, in tutti i sensi, e non solo personale, della
formazione linguistica. Sapere lingue non è affatto un lusso, ma possiede un
valore oggettivo preciso. Anzi, due tipi di valore. Un valore culturale, che
comprende sia il guadagno meramente intellettuale di cimentarsi con un
modo di codificare verbalmente l’esperienza e la realtà un po’ o molto
diverso da quello che ci è abituale e intrinseco perché l’abbiamo acquisito
nella socializzazione primaria, sia il guadagno sociale di permettere di
entrare in contatto con più persone e più mondi e di fruire di contatti
altrimenti inattingibili. E un valore economico in senso proprio, mercantile,
come mostrato inequivocabilmente fra gli altri dallo studioso svizzero
François Grin. Tale opera di “motivizzazione” implica la maggior diffusione
possibile nel pensiero comune condiviso di principi ampiamente assodati
dalla linguistica e sociolinguistica ma che sono rimasti dominio degli addetti
ai lavori. Non sarà in questo contesto il solito lamento dell’accademico che
vede solo ciò che lo interessa l’affermare l’opportunità di introdurre
nell’insegnamento scolastico nozioni di linguistica e sociolinguistica,
totalmente assenti dalla tradizione scolastica ancora di impianto tendenzialmente crociano e post-crociano intinto in sociopedagogismo a volte fumoso.
La seconda tesi è che, dal punto di vista degli obiettivi formativi, occorra
promuovere una gamma ampia di lingue, evitando la limitazione al solo
inglese. Il concentrare la formazione linguistica sull’anglo-americano da un
lato non può che portare a lungo termine a una piatta uniformità e a un
generico globalismo intriso di provincialismo, e dall’altro è destinato ad
approfondire lo svantaggio delle culture non anglofone e ad avere effetti
negativi sulle stesse culture anglofone. Non è stato abbastanza notato negli
ambienti attenti alle questioni delle lingue, mi pare, il fatto, che troverei
preoccupante per più di un aspetto se fossi un suddito del Regno Unito, che
82
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
c’è un grande paese europeo in cui non si sospetterebbe certo che la
conoscenza delle lingue straniere si situi a livelli più bassi che nel nostro: ed
è la Gran Bretagna, i cui cittadini nel rilevamento Eurobarometro 2005
risultano “in grado di partecipare a una conversazione in una lingua diversa
da quella materna” nel solo 30% dei casi, contro il 36% dei cittadini italiani
(cfr. pag. 33 di Formazione)! Non si tratta ovviamente che dell’altra faccia
della medaglia rispetto alla diffusione globale universale dell’inglese come
unica lingua franca internazionale: se tutti imparano l’inglese, gli anglofoni
non trovano più la motivazione di imparare alcuna altra lingua. Con una
perdita secca complessiva non indifferente. Mi pare ovvio, almeno dalla mia
ottica professionale, che si tratti di un problema di enorme portata, di fronte
al quale non si può infilare la testa nella sabbia. E non c’è bisogno in questa
sede di chiamare in causa gli evidenti interrogativi in termini di equità
generale posti dall’unificazione linguistica mondiale sull’anglo-americano,
che significa anche una gigantesca ridistribuzione di risorse a vantaggio
degli anglofoni nativi e crea nuove disuguaglianze di partenza.
3. In sostanza, risulta dunque da una ricerca-azione quale quella qui
discussa che è assolutamente necessario un molto maggior impegno delle
istituzioni in una politica linguistica complessiva. Politica linguistica che, sia
detto fra parentesi, dovrebbe toccare anche la questione dei dialetti, rimasta
totalmente fuori dai discorsi che abbiamo potuto fare in questa occasione
perché non rientrava nei temi e negli obiettivi di LETitFLY, ma che non può
non essere oggetto di attenzione nella politica linguistica, essendo
notoriamente i dialetti italiani veri e propri sistemi linguistici diversi e
autonomi presenti sul territorio (e non semplici varietà locali parlate
dell’italiano), e quindi garanti (finché dureranno…) di una ricchezza e
varietà culturale che fa dell’Italia uno dei paesi europei più interessanti e
dotati da questo punto di vista. Politica linguistica che al momento mi pare
del tutto inesistente. E di cui temo ohimé non si percepisca nemmeno
vagamente l’importanza cruciale da parte dei decisori politici, almeno finché
la questione della formazione della popolazione italiana viene affrontata con
la stucchevole litania “delle tre I” (impresa, internet, inglese).
GLI ITALIANI E LE LINGUE
83
Dal rapporto finale e dal complesso delle indagine del Progetto LETitFLY
emergono in conclusione due generi di cose. Cose di cui prendere atto, con
maggiore o (spesso) minore soddisfazione. E cose su cui intervenire. Fra le
cose grosse su cui intervenire, se si vuole effettivamente che anche questa
ricerca-azione non resti un nuovo cumulo di carte accanto agli altri ma al
contrario la crisalide si trasformi in farfalla e non degeneri a larva, vi sono a
mio avviso certamente la diffusione motivante della consapevolezza
dell’importanza delle lingue presso tutta la popolazione e il mondo
imprenditoriale, e la promozione al tempo stesso di formazione non
monocentrica, bensì rivolta a più lingue. Se è vero che abbiamo pur sempre
di fronte il fatto positivo che l’atteggiamento verso le lingue correla molto
con le classi di età ed è molto più favorevole presso i giovani, e questo come
notava giustamente nel suo intervento Giuseppe Roma deve rendere
ottimisti e, essendo quindi la motivazione media destinata ad aumentare, fa
bene sperare per il futuro, è anche vero che non sarà male fornire a questo
presumibile trend spontaneo una spinta, una forte spinta appoggiata a una
politica linguistica finalmente in azione.
IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA
85
IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA
IN ITALIA: BUONE PRATICHE E PROSPETTIVE
Anna Maria Curci
Vicepresidente LEND
Ringrazio innanzitutto il comitato che ha organizzato questa giornata e il
gruppo di progetto, con il quale Lend è da tempo in contatto, per averci dato
la possibilità di incontrare il mondo del lavoro. Ce ne fossero di occasioni,
sistematiche, di contatto e di collaborazione di questo tipo! Come insegnante
in servizio ormai da decenni, sento sempre più drammatico il divario tra il
mondo della scuola e il mondo del lavoro, un divario che non è stato mai
pienamente colmato neanche dalle pur lodevoli raccomandazioni che
vengono regolarmente diramate attraverso direttive ministeriali, le quali
insistono, per esempio, sull’opportunità di collegare progetti di istituto,
didattici ed educativi, con il mondo del lavoro. Ben lontana da questa
auspicata apertura è purtroppo la realtà quotidiana, che vede l’insegnante di
buona volontà costretto ad affrontare le classiche dodici fatiche di Ercole per
far approvare dalla dirigenza uscite e progetti di stage per i propri studenti.
Provo subito a rispondere alle domande che sono state poste, dicendo dove
si colloca Lend, Associazione di Lingue e Nuova Didattica, che opera in
Italia dal 1971 e che raccoglie, su base volontaria, docenti dell’area
linguistica, docenti di italiano L1 ed L2, docenti di lingue moderne e, anche
se in misura minore, docenti di lingue classiche. Lend si colloca, o prova a
collocarsi, in quell’area che il professor Berruto ha definito “tra il dire e il
fare”.
Quando vogliamo farci del bene, ci auto-definiamo professionisti riflessivi e
proviamo a dare concretezza ai nostri studi così come a garantire una base di
trasferibilità a quello che facciamo. Di cosa parlerò in questo intervento?
Parlerò del progetto Leonardo ALPEC e di una fase particolare di tale
progetto, così come delle proposte di Lend per la formazione linguistica e,
soprattutto, per la formazione degli insegnanti di lingue. Stamattina, Maria
Chiara Schir, che era qui in rappresentanza del Coordinamento delle
86
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Regioni, ma che fa parte della nostra associazione, essendo iscritta al gruppo
Lend di Trento, sottolineava la necessità urgente di una prospettiva di rete in
un’ottica di sistema.
Come agganciarci a tutto questo? Dai dati forniti dal dottor Toma emerge
che solo nel 12,4% dei casi sono stati attivati corsi di carattere innovativo e
significativi per l’apprendimento delle lingue. Ed è quello che abbiamo
provato a fare con il progetto Leonardo ALPEC. ALPEC è un acronimo che
sintetizza la finalità principale del progetto: Apprendere le Lingue per
Educare alla Cooperazione. Si tratta di un progetto che ci ha visti impegnati
per alcuni anni e che ha avuto anche il riconoscimento del Label Europeo
nell’anno 2005.
Che cosa cercavamo di fare e che cosa abbiamo ottenuto lo vedremo adesso.
L’obiettivo era di costruire dei moduli per l’apprendimento delle lingue
italiano, francese e inglese, per i docenti coinvolti in progetti di cooperazione
transnazionale. Chi è nel mondo della scuola sa quanto sia arduo se non
addirittura imbarazzante, per un docente di lingua, proporre a colleghi di
collaborare in uno scambio culturale, in un progetto europeo del programma
Socrates (Comenius scolastico, linguistico o di sviluppo della scuola) e
sentirsi rispondere: “va bene, ma se la lingua di comunicazione non è
l’italiano, come facciamo a comunicare?”. Il personale amministrativo è
anch’esso coinvolto direttamente o indirettamente nei progetti e sente spesso
la necessità di poter partecipare più consapevolmente agli scambi linguistici.
Di fronte a questa necessità urgente abbiamo cercato di offrire un’alternativa.
Per costruire questi moduli e per finalizzare i nostri sforzi alla produzione di
materiali efficaci e trasferibili, siamo partiti con un audit linguisticocomunicativo. Abbiamo usato questo strumento che viene dal mondo
dell’impresa ed è dunque simbolo dell’osmosi – che noi, come associazione,
cerchiamo in qualche modo di promuovere – tra mondo del lavoro e mondo
della scuola. Abbiamo studiato anche la bellissima ed esauriente trattazione
che la professoressa Franca Bosc ha redatto a proposito dell’audit linguisticocomunicativo come strumento di rilevazione. Non dimentichiamo che il
termine “rilevazione dati” è la parola chiave di questa giornata!
IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA
87
Abbiamo, dunque, usato questo strumento di controllo costruttivo, di guida
e di orientamento, con le sue quattro funzioni: diagnostica, di controllo, di
garanzia della qualità, di pianificazione. Ma come abbiamo raccolto questi
dati?
Li abbiamo raccolti in tre momenti importanti. Il primo è stato quello del
questionario, rivolto alle scuole partner – ed io ho avuto la ventura di
insegnare in una delle scuole partner del progetto, nella quale i moduli sono
stati validati e dove si è cercato di concretizzare le attività, facendo entrare
davvero nel mondo della scuola, inteso qui come comunità lavorativa, un
progetto di formazione linguistica. Il questionario si proponeva di rilevare
quali fossero, per ogni singolo istituto – altri istituti partner erano in Scozia e
in Francia e dunque i nostri colleghi partner scozzesi e francesi hanno
operato con modalità analoghe – le opportunità e le occasioni di cooperazione transnazionale e, da queste, capire quali fossero le necessità e i bisogni di affinare le proprie competenze linguistiche in determinati campi, in
determinate situazioni.
L’altro momento, che è stato anch’esso molto importante, finalizzato
all’individuazione dei bisogni linguistico-comunicativi per la costruzione del
questionario da somministrare, è stato focalizzato sull’osservazione sul
campo. Si sono rilevati i dati proprio in occasione di un seminario
transnazionale, che ha avuto luogo a Desenzano nel 2003, direttamente da
docenti che provenivano da diversi paesi europei e che provavano a
comunicare tra di loro sulla base di un progetto comune, l’educazione alla
cittadinanza.
Il terzo momento dell’audit è stato costituito dalle interviste su traccia.
Queste ci hanno dato molte informazioni non solo sui bisogni, ma anche sui
punti dolenti, riguardanti le situazioni che venivano considerate un po’ a
rischio (come quelle del momento della negoziazione o quando ci manca la
parola giusta) da parte dei docenti anche di discipline non linguistiche e
dallo staff amministrativo della scuola.
Un altro punto che mi sta a cuore è la dimensione culturale della lingua, un
fattore che non andrebbe mai dimenticato. Credo che ciò che spesso ha
limitato e impoverito l’apprendimento linguistico nel contesto istituzionale
88
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
della scuola, sia stato il fatto di finalizzarlo a soli scopi utilitaristici. Non
sono completamente d’accordo con chi oggi ha affermato che c’è una
tradizione troppo marcatamente umanistica nell’insegnamento delle lingue.
Dipende: alcune lingue, come le lingue classiche, vengono tuttora insegnate
con un approccio esclusivamente grammaticale-traduttivo e ignorano, per
esempio, alcune procedure, che nella didattica delle lingue moderne sono
state applicate con successo. In altri momenti, è stata invece la completa
mancanza di riflessione sui meccanismi linguistici e la pressoché totale
assenza di un modello di educazione linguistica integrata ad impedire una
reale crescita del sapere linguistico plurilingue degli apprendenti e dunque
una reale efficacia degli apprendimenti linguistici.
Il progetto Leonardo ALPEC, non solo ha ricevuto il Label europeo ma, nelle
realtà in cui è stato applicato, ha dato buoni frutti. Presso l’IRRE Lazio sono
stati avviati, per il personale docente non dell’area linguistica, corsi di
formazione linguistica con materiali Leonardo ALPEC, materiali che si sono
rivelati tanto efficaci da essere trasferiti anche in altri contesti di
apprendimento. Attualmente, ad esempio, ci si avvale dei moduli Leonardo
ALPEC per insegnare l’italiano agli immigrati in Calabria.
Per ciò che riguarda, invece, la formazione in servizio di coloro che poi
andranno ad operare nei corsi di apprendimento linguistico, riprendo una
frase della Dottoressa De Stefanis: “occorre studiare le dinamiche che
presiedono l’apprendimento linguistico per poter rendere più efficaci gli
interventi”. Non solo questo, non solo studiare le dinamiche che presiedono
all’apprendimento linguistico, ma soprattutto lavorare in un’ottica di
educazione linguistica integrata, vale a dire studiare e mettere in pratica la
possibile trasferibilità di conoscenze e competenze da una lingua all’altra:
sono questi gli ambiti in cui si gioca il futuro della formazione linguistica.
Non solo studi, quindi, ma – per quanto mi riguarda e per quanto riguarda
altri insegnanti che fanno capo a Lend e che lavorano nel mondo della scuola
– anche l’adozione di pratiche di educazione linguistica plurilingue
(intendendo, con educazione linguistica plurilingue, la promozione di un
sapere linguistico integrato) si è rilevata efficace.
Che cosa occorre, infine, per poter mettere in pratica tutto questo? Occorre
IL RUOLO DI LEND NELLA FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA
89
che si investano risorse finanziarie adeguate nella formazione linguistica in
servizio degli insegnanti e che gli insegnanti siano a loro volta disposti a
mettersi in gioco, ad uscire dal proprio ambito disciplinare, spesso angusto,
come si rivela drammaticamente ogni giorno di più alla prova di una realtà
realmente multilingue e multiculturale. I docenti di una lingua straniera
moderna, ad esempio, devono essere disposti ad imparare un’altra lingua
straniera moderna, i docenti di italiano almeno due lingue moderne, come
prevede per tutti i cittadini dell’Unione europea, già dal 1995, il Libro Bianco
Insegnare e apprendere. Verso una società conoscitiva e come ribadisce la
strategia di Lisbona. Questo affinché i docenti possano mettere in comune,
per esempio, la terminologia per la descrizione dei fenomeni linguistici, e
siano in grado di discutere con cognizione di causa sull’adozione di modelli
di descrizione di una lingua. Anche perché, nella pratica, l’apprendente che
studia inglese con una determinata insegnante, tedesco con un’altra, latino
con un’altra ancora, che non comunicano tra loro, ha l’impressione di
trovarsi di fronte a tre realtà linguistiche, cognitive, culturali e metodologiche completamente diverse, senza mai farsi sfiorare dall’idea che si tratta
di tre sistemi linguistici che, come sottolineava Mario Wandruszka, il padre
dell’interlinguistica moderna, hanno in comune almeno degli universali, sui
quali varrebbe la pena di soffermarsi sistematicamente, oltre a una
sorprendente quantità di punti di contatto determinati anche da precise
vicende ed evoluzioni storico-culturali.
Ricordo, infine, che sul sito www.lend.it è possibile consultare i moduli
Leonardo ALPEC e anche materiali e informazioni sui gruppi di studio
avviati sul plurilinguismo e sul profilo del docente di lingua in un’ottica
europea. Potrete trovare, inoltre, informazioni importanti su un altro
progetto, Poseidon - Apprendimenti di base, nel quale Lend, insieme alle
associazioni ADI-SD, AICC e GISCEL, collabora attivamente con il Ministero
della Pubblica Istruzione e con l’INDIRE. Il progetto Poseidon – che si
propone, appunto, di superare il grande scoglio dei risultati drammatici per
gli studenti italiani, risultati OCSE-PISA, in vista del raggiungimento degli
obiettivi di Lisbona – è rivolto all’area degli apprendimenti linguistici e si
propone, proprio con modalità di blended learning, cioè di formazione in
servizio attuata come elearning integrato, di formare una comunità di
90
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
pratiche come quella che descrivevo poco fa e come quella che come
insegnante in servizio auspico si attui urgentemente.
LA SFIDA È FAR EMERGERE LA DOMANDA POTENZIALE
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NELL’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
LA SFIDA È FAR EMERGERE LA DOMANDA POTENZIALE
E DIFFONDERE L’APPRENDIMENTO
PER TUTTO IL CORSO DELLA VITA
Simonetta Caravita
Dirigente 4° CTP Luigi Di Liegro - Roma
Io non sono un esperto in senso stretto di formazione linguistica, ma sono da
anni dirigente, oltre che di una scuola media che si occupa della formazione
di base, anche di un Centro Territoriale Permanente per l’Istruzione e la
Formazione in età adulta tra i più grandi della regione Lazio, e ho
partecipato alla realizzazione di tutta la rete che si sta tessendo, in questo
momento, nella nostra regione e a livello nazionale, per la diffusione e la
qualificazione dell’“Educazione degli adulti” e da qui vorrei partire.
L’indagine di cui si occupa la ricerca a cui è dedicata la giornata, è stata
svolta sulla formazione linguistica, ma porta a delle conclusioni molto simili
a quelle emergenti da altre iniziative, a livello più o meno generale. Ne cito
due: una che trovo molto interessante che è quella dell’Isfol sull’offerta
formativa nella regione Lazio, ed un’altra più specifica, che abbiamo
condotto solo nella città di Roma, in occasione di una sperimentazione che
vede la nascita dei primi Comitati Locali per l’Educazione degli Adulti.
Queste indagini arrivano tutte ad una stessa conclusione: i desideri (di
formazione) non sono i bisogni (di formazione).
Le persone che sono portatori di bisogni di formazione, non li esprimono
sotto forma di domande esplicite, non hanno, cioè, consapevolezza che la
formazione serva a risolvere questioni personali di vita. Io faccio, ripeto, un
discorso generale, perché non credo che il problema del rientrare in
formazione per l’apprendimento della lingua, sia differente da quello per
l’apprendimento informatico o quello che riguarda il drammatico calo delle
competenze di base, quello che chiamiamo analfabetismo di ritorno, o,
ancora, la definizione delle nuove soglie dell’alfabetismo funzionale oggi
necessario per mettere ogni individuo in grado di agire nella vita privata,
92
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
nella società, nella attività lavorativa.
Il problema è che ci troviamo di fronte al fatto che la popolazione, che non
sia già acculturata, non individua nella formazione elemento per il
miglioramento della propria condizione soggettiva di vita, che sia
lavorativa, che sia relazionale, che sia di inserimento nella società. Ciò
emerge diffusamente da varie indagini e dalle esperienze dirette svolte nei
CTP, a livello nazionale.
La maggioranza della popolazione non sembra intenzionata a migliorare le
proprie conoscenze linguistiche e il 54,9% della popolazione italiana dichiara
che sicuramente o probabilmente non le migliorerà. Per quanto riguarda la
domanda potenziale di formazione linguistica, un quinto della popolazione
ha intenzione di imparare una nuova lingua in futuro e questa propensione
è più spiccata per chi ne conosce almeno una, quindi “piove sul bagnato”.
Per questo, rispetto all’intervento della rappresentante del Lend, che da una
vita conosco ed apprezzo per la sua azione di qualificazione dell’insegnamento delle lingue seconde, vorrei però precisare che l’attenzione centrale
non deve essere l’alta formazione.
Qui il problema è come si intercetta un bisogno implicito, cioè come lo si fa
emergere come bisogno esplicito, consapevole, condiviso, facendolo
incontrare con le adeguate risposte di formazione: come si fa diffusamente a
far prendere consapevolezza che l’apprendimento, la padronanza di altre
lingue è utile, oltre che necessario, per la “vita” (a tutto tondo) di un
individuo. Mi permetto di dire che si deve partire dai bisogni funzionali,
dall’utilità di conoscere una lingua, più che dalle strutture linguistiche o
dalle meta-culture.
Problema più specifico è quello dell’insegnamento dell’Italiano come Lingua
2 per gli immigrati e per i giovani cittadini stranieri che crescono in Italia
provenienti da altre culture e altre lingue: il bisogno funzionale è, in questo
contesto, chiaro, ma bisogna, come docenti, come sistema formativo, sociale
e politico, vigilare (sapendolo fare) che non vengano cancellate le radici dei
nostri immigrati e trovare il modo di rispettare le loro culture.
Però ritengo che gli approcci debbano essere funzionali e contestuali. Se nel
LA SFIDA È FAR EMERGERE LA DOMANDA POTENZIALE
93
processo di insegnamento ed apprendimento non si portano le persone a
mettere a fuoco a che cosa serve una determinata cosa, l’obiettivo strategico
posto da Lisbona 2000 (Diventare l’economia basata sulla conoscenza più
competitiva e dinamica in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con
nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale) sarà più lontano
proprio perché non compreso.
Io, come già detto, sono dirigente di una scuola media in un quartiere come
Casal Bruciato con alcune situazioni drammatiche e socialmente molto
diversificato. Da quando c’è stato il passaggio, diffuso a tutti, allo studio
della seconda lingua, devo fare costantemente una forzatura perché si studi
questa seconda lingua europea perché la gente preferisce fare il “disegno
tecnico” (cioè apprendimenti stereotipati) che lingue parlate e diffuse
nell’Europa.
È questa la realtà. Allora ci vogliamo misurare con il fatto che non c’è
consapevolezza? Anche le indagine svolte sul versante delle imprese lo
fanno capire, perché alcune arretratezze di tipo culturale, formativo hanno
serie conseguenze sulle possibilità di diffusione della produzione.
Io lavoro nel quinto municipio di Roma, dunque in un distretto in cui vi è
una certa diffusione di strutture produttive piccole e medie. Con il Comitato
Locale, abbiamo coinvolto sia l’Unione Industriale che il CNA: emerge che
non vi è un interesse primario per l’internazionalizzazione delle imprese,
eppure, nello stesso tempo, le piccole imprese di artigiani risentono per la
diffusione dei loro prodotti, in quanto non riescono a comunicare, per
esempio, con i cinesi e quindi non riescono ad esportare in Cina o in altri
paesi.
Allora il problema è di carattere politico, di politica culturale, di come
raccordare la domanda inespressa con l’attivazione di nuovi percorsi
formativi, di far emergere la domanda potenziale.
La questione generale sottesa al rientro in formazione di persone adulte, non
è tanto il bisogno, perché il bisogno c’è, ed è espresso, ad esempio, attraverso
parole come “voglio vivere meglio”, “voglio guadagnare di più”, “voglio
fare più serenamente il mio lavoro”, “voglio dare un senso al mio lavoro”, e
94
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
dal lato del datore di lavoro, “voglio essere più produttivo”, ecc., quanto
sostenere l’individuazione di corrette risposte a tali “aspirazioni”, rilevare e
far emergere progetti di crescita personale e/o professionale, arrivare a
costruire via via, in modo rispettoso, delle individualità e delle esperienze
personali, un quadro delle conoscenze e delle competenze che i progetti
mettono in gioco, quelle che si hanno già e quelle da acquisire. La questione
fondamentale dell’educazione degli adulti è quella di consentire ad ogni
persona di rendersi conto che si può imparare ad imparare.
L’attenzione si deve spostare sull’apprendere l’apprendere, su come un
soggetto deve comprendere che si deve formare in continuazione e che lo
può fare facendo leva sulle sue risorse. In questo la nostra scuola ordinaria
spesso perde occasioni formative serie: per cui le esperienze di formazione
destinate agli adulti non devono essere disgiunte da quelle destinate in
termini di scelte metodologiche e di scelte organizzative e che devono
caratterizzare la scuola dell’autonomia nei percorsi di prima formazione.
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA
Parte II
Esperienze europee a confronto
95
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA
97
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL
LAVORO: LA LITUANIA1
Audra Daubariene
Kaunas University of Technology
Il presente intervento descrive quanto segue:
-
L’insegnamento formale delle lingue straniere in Lituania a livello
secondario e terziario;
-
Le principali caratteristiche della formazione linguistica nel settore
dell’educazione non-formale;
-
Il fabbisogno di formazione linguistica nel mercato del lavoro;
-
Gli attuali fabbisogni linguistici nell’ambito dell’educazione terziaria in
relazione alle opportunità professionali.
L’insegnamento delle lingue straniere in Lituania nella scuola secondaria
Successivamente alla riconquista dell’indipendenza da parte della Lituania,
avvenuta 16 anni fa, la domanda di formazione linguistica si è ampliata e al
contempo è radicalmente mutata. La società lituana ha compreso
l’importanza delle lingue straniere e, di conseguenza, ha manifestato un
crescente bisogno di formazione linguistica. Una rapida crescita economica e
l’ingresso nell’Unione europea hanno diversificato le opportunità professionali all’interno del mercato del lavoro lituano e dei paesi dell’Unione. La
conoscenza delle lingue straniere è necessaria non soltanto per coloro che
vogliono lavorare all’estero, ma anche per coloro che cercano lavoro nelle
aziende straniere, o a partecipazione internazionale, presenti in
Lituania.
Analogamente a quanto avviene in altri paesi, questo nuovo interresse per le
lingue straniere è in primo luogo un interesse per la lingua inglese, sebbene
l’offerta, tanto in termini di educazione formale quanto all’interno dei
circuiti non-formali, sia piuttosto variegata.
1
La traduzione italiana è di Lara Sorrentino.
98
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Per questi motivi, l’insegnamento delle lingue straniere nell’ambito
dell’educazione secondaria ha subito riforme radicali a partire dal 1992. Le
mutate condizioni sociali hanno spinto gli educatori ad aggiornare l’offerta
linguistica, dando la priorità alle lingue dell’Europa occidentale e fornendo
la possibilità di imparare anche due o tre lingue straniere. In questo contesto,
lo studio del russo si è significativamente ridimensionato, mentre nuove
metodologie didattiche sono state introdotte.
Mutando i curricula d’insegnamento delle lingue straniere, ed enfatizzate le
competenze linguistiche socio-culturali e comunicative, sorgeva l’esigenza di
produrre nuovi materiali didattici e talvolta era necessario mutuarli da
editori inglesi, francesi, tedeschi.
Senza dubbio, possiamo affermare che le lingue straniere costituiscono la
parte dei programmi d’insegnamento che più di tutte ha subito modifiche
nei metodi e nei contenuti. Spesso sono stati adottati modelli, metodologie e
pratiche didattiche già in uso in altri paesi.
Tuttavia, nell’ambito delle pratiche scolastiche quotidiane il cambiamento è
stato più lento, e i metodi tradizionali per l’insegnamento delle lingue,
incluso quello basato su “grammatica e traduzione”, persistono talvolta in
aula o nei libri di testo, anche se si tratta di fenomeni più rari.
Sebbene lo status della lingua russa sia radicalmente mutato, e molti
insegnanti di russo abbiano dovuto cambiare professione o specializzazione
(alcuni hanno sostituito alla propria qualifica quella di docente di altra
disciplina), il russo come lingua straniera ha mantenuto una posizione
piuttosto forte nelle scuole della Lituania. Dal momento che nella scuola
primaria (dalla 6ª alla 10ª classe) è obbligatorio studiare una seconda lingua,
gli allievi scelgono l’inglese come prima lingua straniera e il russo come
seconda lingua. Diversi fattori spiegano la posizione che il russo ancora
mantiene nelle scuole: disponibilità di insegnanti, genitori che a loro volta
hanno appreso il russo a scuola e sono dunque in grado di aiutare i ragazzi
con i compiti a casa; inoltre, il russo è utilizzato come lingua di lavoro in
alcune aziende o settori professionali.
Sebbene la combinazione inglese-russo limiti il campo delle scelte
linguistiche, molti ritengono che tale combinazione sia utile alle nuove
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA
99
generazioni per sviluppare contatti con l’Europa e per offrire opportunità
professionali. Il futuro dirà in che misura questa scelta si riveli efficace.
I documenti ufficiali enfatizzano l’importanza delle lingue straniere nei
mutamenti oggi in atto nella società lituana, sottolineando che le conoscenze
linguistiche sono fondamentali non soltanto per lo sviluppo e la crescita
economica, ma anche per l’arricchimento culturale, lo scambio e la
condivisione di informazioni e di valori civili, l’integrazione delle
competenze.
Le tendenze nella scelta delle lingue. Le peculiarità del sistema lituano:
-
Lo studio della prima lingua straniera può cominciare dalla 2ª classe,
anche se diviene obbligatorio a partire dalla 4ª classe;
-
La seconda lingua straniera è obbligatoria dalla 6ª alla 10ª classe;
-
La terza lingua straniera non è obbligatoria nella scuola secondaria;
-
Il tempo dedicato all’insegnamento della lingua straniera può essere di 24 ore settimanali.
La scuola secondaria
Come ho già detto, l’inglese domina come prima lingua straniera studiata.
Nel periodo 2001-2003 il numero di studenti che hanno scelto l’inglese come
prima lingua è cresciuto dal 77,6 all’83,2%. Nello stesso periodo, la scelta del
tedesco come prima lingua è diminuita dal 18,5 al 14,1%, e quella del
francese dal 3,9 al 2,7%.
Anche la scelta della seconda lingua ha subito dei cambiamenti, ma è
tuttavia più stabile. Il russo domina come seconda lingua (nel periodo 20012003 è passato dal 74,8 al 74%; la scelta del tedesco è passata dal 14,5% nel
2001 al 15,3% nel 2003). È probabile che il tedesco si diffonderà sempre più
come seconda lingua straniera studiata, anche se sta perdendo popolarità
come prima lingua.
Non abbiamo molti dati in merito alle opzioni relative alla terza lingua.
100
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Siamo qui, infatti, nell’ambito delle scelte operate dagli studenti che
intraprendono studi umanistici. Anche in questo caso, la prima lingua viene
scelta tra le solite quattro: inglese, tedesco, francese e russo. Altre lingue,
come lo spagnolo, l’italiano, il danese, lo svedese, il polacco, il lettone
costituiscono una percentuale molto piccola della seconda e terza lingua
studiata.
Scuole professionali
Circa il 30% degli studenti appartenenti al relativo gruppo di età studia in
scuole professionali. L’inglese come prima lingua straniera costituisce qui il
56,3%, il russo circa il 30,3%, il tedesco il 25,2%. Più dell’80% degli studenti
impara solo una lingua straniera.
Educazione superiore
La situazione in questo ambito è molto diversa. Il numero degli studenti che
studiano una o due lingue è assai elevato, il che prova l’esistenza di
motivazione e interesse a lungo termine per la formazione linguistica, dal
momento che lo studio della lingua straniera non è necessariamente richiesto
in tutti i programmi di studio. Di nuovo domina l’inglese, mentre il tedesco
recupera terreno, rispetto al russo, come seconda lingua straniera.
Educazione non-formale e apprendimento delle lingue straniere in età
adulta. Possibilità di formazione permanente nell’ambito delle lingue
straniere
Il concetti di formazione permanente e società dell’apprendimento sono
diventati importanti non solo in Europa, ma anche in Lituania. L’Associazione Lituana per l’Educazione degli Adulti, fondata nel 1992, ha prestato
particolare attenzione alle possibilità di sviluppo della formazione permanente nell’ambito delle lingue straniere.
Nel 2000-2001 il numero degli utenti degli istituti formali per l’educazione
degli adulti è stato di 15.272. Di questi, 7.299 hanno scelto l’inglese come
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA
101
prima lingua straniera, 4.117 il tedesco, 516 il francese, 3.340 il russo. Non
possediamo i dati relativi al numero degli utenti adulti di corsi di lingua
straniera all’interno di istituti nel settore dell’educazione non-formale.
Prima di partecipare a questo Convegno, ho personalmente cercato sulle
pagine gialle tutte le scuole di lingua lituane (56). Nell’ambito dell’offerta di
corsi di lingua straniera, l’inglese è ancora una volta al primo posto, seguito
dal tedesco e dal francese. Nelle due principali città del paese, Vilnius e
Kaunas, si riscontra il maggior numero di lingue straniere offerte: inglese,
tedesco, francese, spagnolo, italiano, danese, svedese, norvegese, giapponese, polacco. In altre tre città universitarie, Klaipeda, Siauliai e
Panevezys, l’offerta include anche lingue diverse dalle tre principali. Per le
città più piccole, che hanno una sola scuola di lingue, l’offerta si limita a una
o due lingue straniere. Ma l’aspetto più interessante da osservare è che
nessuna di queste scuole propone corsi di russo. Molto spesso, accanto a
corsi generici, le scuole offrono corsi specialistici, ad esempio corsi di lingua
business.
Fabbisogni linguistici nel mercato del lavoro
Il Ministero dell’Educazione e della Scienza ha commissionato all’Istituto
per la Ricerca Sociale e del Lavoro un’indagine su 600 imprese o istituti e 480
lavoratori con grado di istruzione universitario, al fine di determinare i
fabbisogni e le aspettative del mercato del lavoro lituano, da un lato, e dei
laureati dall’altro. I risultati dell’indagine sono stati sintetizzati nello studio
“Competitività dei laureati nel mercato del lavoro nel contesto della
domanda e offerta d’impiego” (Gruzevskis et al., 2003).
Lo studio rivela che un gran numero di datori di lavoro (135) è insoddisfatto
del livello di formazione pratica dei laureati. Secondo loro, occorrerebbe
perfezionare i seguenti aspetti dell’educazione terziaria:
-
applicazione pratica delle conoscenze teoriche;
-
adattamento delle qualifiche professionali alle esigenze del mercato del
lavoro e dell’economia;
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
102
-
aggiornamento dei programmi e delle metodologie didattiche;
-
a completamento delle qualifiche professionali, una maggiore attenzione
dovrebbe essere dedicata alle lingue straniere, alla psicologia e all’etica
professionale, elementi basilari per la comunicazione e il lavoro di
squadra.
Dalle risposte dei lavoratori, risulta che la maggior parte dei laureati in
discipline umanistiche (72%) ritiene di aver ricevuto un’adeguata
formazione all’università, mentre solo il 52,1% dei laureati in ingegneria
ritiene che il percorso universitario abbia fornito loro un’adeguata formazione professionale.
In generale, i maggiori inconvenienti della formazione universitaria messi in
luce dai rispondenti laureati negli anni 1996-2002 riguardano il mancato
raggiungimento di un buon livello di conoscenza delle lingue straniere
(61,7%), la mancata acquisizione di conoscenze giuridiche di base (50%) e di
competenze tecnico-professionali (41,7%).
Secondo i risultati dell’indagine, più della metà dei lavoratori rispondenti
vorrebbe migliorare la propria formazione frequentando corsi professionalizzanti o di specializzazione. La maggiore domanda formativa espressa dai rispondenti riguarda il miglioramento di competenze relative a:
-
lingue straniere (– 28,9%);
-
direzione e gestione d’impresa (– 22,6%);
-
qualifiche professionali (– 15,6%);
-
psicologia (– 5,6%);
Simili opinioni sono state espresse dai datori di lavoro. Secondo loro, il
personale necessiterebbe di ulteriore formazione nell’ambito di:
-
direzione e gestione d’impresa (– 34,3%);
-
qualifiche professionali (– 24,5%);
-
lingue straniere (– 23,8%);
-
informatica (– 21,7%);
-
psicologia, etica (– 16,8%).
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA
103
La necessità di migliorare le competenze linguistiche è pertanto considerata
fondamentale da una gran parte dei rispondenti tanto sul lato dei datori di
lavoro quanto su quello dei lavoratori, e le lingue straniere sono considerate
molto importanti nel mercato del lavoro lituano, sebbene non vi siano studi
specifici su quali siano le concrete qualifiche e competenze richieste.
Sin dal primo stadio della privatizzazione, diverse aziende straniere hanno
investito in Lituania, creando nuove sedi o avviando joint venture. La
maggior parte dello staff aziendale è in questi casi costituito da personale
locale specializzato, ed è pertanto naturale che si ponga il problema della
competenza linguistica.
Al fine di conoscere gli indirizzi e le strategie linguistiche delle imprese
internazionali operanti in Lituania sono stati intervistati rappresentanti di
Telecom (T), Omnitel (O) Kraft Foods Lithuania (K), Castrol (C) e Degussa
(D).
Agli intervistati sono state poste le seguenti domande:
1. Una buona conoscenza delle lingue straniere è un requisito obbligatorio
per ottenere un impiego nell’azienda?
2. La buona conoscenza delle lingue straniere è un fattore importante per la
carriera?
3. È richiesta una certificazione degli esami/test di lingua svolti?
4. Vengono organizzati corsi di lingua per i dipendenti dell’azienda?
5. Quali competenze linguistiche sono maggiormente necessarie all’impiego
in azienda – comunicazione orale, lettura, scrittura?
Le risposte date mostrano che, in tutte le aziende sopra citate per accedere
agli impieghi amministrativi è richiesta la buona conoscenza di una lingua
straniera (principalmente l’inglese), formalmente (O, K, C, D) o informalmente (T). In molti casi il colloquio di assunzione si svolge in inglese.
Parlare correntemente l’inglese rappresenta un fattore decisivo per la
carriera, poiché orienta la selezione dei candidati per le sessioni di
formazione all’estero, che conducono a ottenere più elevate posizioni
104
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
lavorative. E naturalmente, più elevata è la posizione, maggiore è il contatto
con stranieri, perciò se non si conoscono le lingue non è possibile
comunicare. Comunque, laddove ci sia un numero sufficiente di risorse in
grado di parlare l’inglese correntemente, la competizione si sposta su altri
ambiti professionali.
Alla domanda numero 3, gli intervistati hanno risposto che formalmente non
è richiesto alcun certificato attestante la conoscenza di una lingua straniera,
perché ciò che importa non è la qualifica ma le competenze dimostrate nella
pratica.
Le aziende investono in formazione del personale, e organizzano corsi di
lingua durante l’orario di servizio; può anche accadere che le risorse umane
più preziose vengano inviate all’estero per corsi di lingua intensivi.
Alla richiesta di indicare quali siano le abilità linguistiche necessarie, gli
intervistati sottolineano l’importanza di tutte le competenze, e in primo
luogo dell’abilità comunicativa.
Riassumendo, si può dire che le imprese si aspettano che i candidati parlino
correntemente almeno una lingua straniera (di solito l’inglese) e tengono
conto delle competenze linguistiche nella promozione dei dipendenti,
sebbene non siano formalmente richieste certificazioni che attestino il livello
di conoscenza. I corsi di lingua sono di solito organizzati regolarmente a
spese dell’azienda.
Ovviamente, un simile sistema di formazione del personale può essere
sostenuto soltanto in aziende di grandi dimensioni e di successo, mentre le
aziende più piccole si rivolgono spesso a servizi esterni di traduzione/interpretariato, tradizionalmente forniti da linguisti/insegnanti di lingue
straniere.
Gli attuali fabbisogni linguistici nell’educazione terziaria in relazione alle
possibilità di carriera
Nel 2004, nell’ambito del progetto quadro TNP3, è stata condotta
un’indagine mediante questionario tra i laureati di università lituane (N=49).
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA
105
Il questionario mirava a ottenere informazioni sulle competenze linguistiche
possedute e sulla loro attinenza alle esigenze del lavoro. Di seguito sono
riportate alcune delle domande e delle risposte al questionario.
Tab. 1 – Risultati dell’indagine sui laureati in Lituania
La formazione nell’ambito delle lingue e della comunicazione
fornita dall’Università si è rivelata adeguate al tuo lavoro?
%
Abbastanza adeguata
35
Perfettamente adeguata
24
Non molto adeguata
22
Per niente adeguata
19
Le competenze linguistiche ti hanno aiutato a ottenere l’attuale
lavoro? Sì:
40%
Per la tua carriera, sarebbe importante imparare una nuova lingua
straniera? Sì:
60%
È ovvio che il numero dei rispondenti è troppo esiguo per definire una
tendenza generale. Tuttavia, i risultati dimostrano che gli studenti odierni
sono attivamente europei, ed acquisiscono ulteriori competenze linguistiche
frequentando corsi al di fuori dell’università o andando all’estero; nel
lavoro, utilizzano molto spesso le lingue straniere.
In molti casi, la lingua straniera è importante per la carriera dei laureati.
Comunque, le risposte date rivelano che i laureati non giudicano
particolarmente elevato il proprio livello di competenza linguistica e non
sono particolarmente soddisfatti delle competenze acquisite all’università.
Il questionario mirava anche a rivelare quali competenze linguistiche siano
più importanti per il lavoro. In particolare, sono state prese in considerazioni
le seguenti abilità linguistiche:
-
Comprendere e interagire in situazioni lavorative (ad esempio: accogliere
un visitatore, telefonare, viaggiare, parlare del proprio lavoro, etc.);
-
Lavoro di squadra, ad esempio sul luogo di lavoro nelle situazioni di
problem-solving o progettazione;
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
106
-
Navigazione in rete e collaborazioni in ambiente virtuale;
-
Leggere e scrivere e-mail e brevi testi di ambito lavorativo (come
appunti, brevi report, pagine web, etc.).
I partner del progetto TNP3, in seguito alle indagini esplorative portate
avanti nei relativi paesi d’origine (inclusa la Lituania), hanno definito quali
abilità e competenze linguistiche debbano essere considerate essenziali per i
professionisti che vogliano diventare a tutti gli effetti membri della società
dell’Unione Europea. La tradizionale “conoscenza linguistica”, tanto della
lingua madre che della lingua straniera, è considerata in una prospettiva più
ampia, e copre abilità e competenze che più spesso sono identificate come
cognitive o psicologiche piuttosto che propriamente linguistiche. “Il fabbisogno linguistico” è inteso come un concetto di ampio respiro che include:
- conoscenza del sistema della lingua;
-
capacità di utilizzare praticamente quel sistema in diversi contesti e per
vari scopi, il che implica che la conoscenza linguistica e la capacità di
comunicare sono legate tanto a competenze generiche della comunicazione interpersonale e strategica, quanto a competenze soggettive e
specifiche;
-
capacità di aggiornare le competenze linguistiche e interculturali nel
tempo (formazione continua).
Conclusioni
Gli odierni mutamenti sociali ed economici in Lituania hanno generato
nuove sfide ed esigenze relativamente alle competenze linguistiche e alle
abilità comunicative. Il mondo accademico ha dovuto affrontare il problema
di adattare i programmi ai fabbisogni del mercato del lavoro e ha dovuto
cercare soluzioni insieme alle parti interessate, a livello nazionale e
internazionale.
I pochi studi condotti nel campo della formazione linguistica a fini
professionalizzanti ci permettono di giungere alle seguenti conclusioni:
LA FORMAZIONE LINGUISTICA E IL MERCATO DEL LAVORO: LA LITUANIA 107 ‐ I programmi di lingua e formazione interculturale devono essere basati sulle reali esigenze del mondo del lavoro. Ciò richiede un dialogo costante tra istituzioni e imprese nella definizione dei contenuti didattici; ‐ È necessario un incremento nell’ambito della ricerca empirica; ‐ Bisognerebbe prevedere e promuovere la possibilità di scegliere percorsi didattici personalizzati nell’ambito dei moduli linguistici nei programmi di studio universitari; ‐ Bisognerebbe istituire un forum permanente che metta insieme accademici, imprese e associazioni di lavoratori al fine di garantire una reale formazione nell’ambito delle lingue straniere e della comunicazione interculturale a fini professionalizzanti. Bibliografia Thematic Network Project in the Area of Languages III (TNP3), (2003‐2006) www.fu‐berlin.de/tnp3 TNP3 National Reports (2004) http://web.fu‐berlin.de/tnp3/consultation/sp2.html RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 109
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE
LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO
Rosanna Sornicola
Università degli Studi di Napoli Federico II
1. Alcuni problemi della pianificazione linguistica
I processi di integrazione europea dell’ultimo ventennio hanno giustamente
sollecitato un crescente interesse per gli aspetti linguistici in essi implicati.
Lo studio delle situazioni di mono- o plurilinguismo dei singoli stati
dell’Unione, in rapporto alle diverse tradizioni scolastiche, ai diversi bisogni
comunicativi delle società dei paesi europei e ai loro diversi adattamenti alle
nuove sollecitazioni che provengono dalle normative europee, costituisce da
molto tempo un dominio di ricerca caratteristico della sociolinguistica e
della cosiddetta “pianificazione linguistica” (language planning). È senza
dubbio molto importante che tale studio travalichi gli ambienti scientifici e
diventi un problema all’attenzione di governi e opinioni pubbliche. Questo
passaggio non è, però, ovvio né facile. Gli orientamenti delle politiche
linguistiche di singoli paesi o di istituzioni sovrastatali, come l’Unione
europea, sono spesso mossi da aspirazioni ideali o da esigenze politiche che
poco hanno a che vedere con le dinamiche linguistiche reali di una società,
cioè con i comportamenti effettivi degli individui, con i loro atteggiamenti
verso la lingua nazionale e le altre lingue, che costituiscono sempre la spia di
più complessi atteggiamenti culturali.
Ma c’è di più. Le politiche linguistiche possono essere scollegate e quindi
inefficaci rispetto alle esigenze e agli interessi reali di un paese, che variano a
seconda della geografia e storia di questo e di condizioni di contesto
economico e culturale. I problemi di pianificazione linguistica che pone un
paese come l’Italia possono essere molto diversi da quelli che si pongono per
la Gran Bretagna. La convergenza di una popolazione verso il multilinguismo può essere considerata un sommo bene, ma di per sé, come
aspirazione priva di articolazioni concrete, non è che un principio ideologico
vuoto. Se una forma mentis tipicamente romantica ci ha abituati a pensare che
110
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
la lingua sia uno degli aspetti fondanti di una nazione, potrebbe essere una
banale ovvietà che un’unione politica sovranazionale desideri e promuova,
accanto alla coesistenza e all’integrazione economica, culturale e politica tra
stati, la coesistenza e la diffusione delle rispettive lingue. Ma questo
obiettivo è molto problematico. La costante Paese = lingua non è generale.
Esistono società che per secoli hanno vissuto senza tale questa equazione:
tutti i grandi imperi, da quelli dell’Oriente antico a quello romano,
dall’impero austriaco a quello russo. Ciò accade anche in paesi di dimensioni
ben più ridotte, come la Svizzera.
Il problema si è posto in modo diverso anche nelle colonie europee dei secoli
scorsi. In questo caso i dominatori hanno usato senz’altro le loro lingue
senza alcun riguardo per le competenze linguistiche dei loro sudditi, ai quali
non restava che adeguarsi. Ciò ha portato nel lungo periodo all’adozione
delle lingue europee dei colonizzatori da parte dei colonizzati, come è
avvenuto ad esempio in America del sud, o almeno al suo uso come lingua
amministrativa, come è accaduto ed accade in Africa. Il caso più interessante
è forse l’India, che a differenza di altre colonie era paese di più lingue,
spesso di grande diffusione e di antica e prestigiosa cultura. Ma anche qui
l’inglese è risultato il collante indispensabile di un paese così vasto e
complesso e, dopo l’indipendenza, è rimasto in uso tra larghe fasce della
popolazione, quelle di maggior peso politico, sociale ed economico.
L’Unione Europea si trova in una situazione diversa. Alcune delle lingue in
essa parlate sono comuni a più stati membri (l’inglese, il francese, il tedesco),
ma accade anche, spesso, che all’interno di un singolo stato membro si usi
più di una lingua, come in Spagna, in Belgio ed in Irlanda. La politica
dell’Unione ha affermato e difeso la pari dignità di tutte le lingue nazionali,
ma non è ancora riuscita a risolvere in modo soddisfacente il problema delle
lingue minoritarie. Non è dunque un’eccezione la situazione dell’Italia, che
si articola in una molteplicità di identità regionali, spesso antiche e radicate.
Si sa che la stessa diffusione dell’italiano come lingua parlata da tutti è un
fenomeno degli ultimi cento anni.
Il fatto è che dinamiche linguistiche reali e interessi concreti hanno una
ineliminabile dimensione storica e pratica. In pochi settori, come nella
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 111
pianificazione linguistica, i politici/legislatori corrono un rischio così grande
di cadere in una sterile astrattezza che rimane lettera morta, o – peggio – di
non intercettare “il fabbisogno” effettivo e perdere opportunità che hanno
una complessa dimensione culturale ed economica.
Sarebbe però ingenuo ritenere che, in generale, ci sia una relazione diretta
tra aumento delle conoscenze linguistiche (maggiore diffusione della
conoscenza di più lingue) e benefici economici per l’intera società. Certo, è
evidente che tra potenziamento delle competenze linguistiche e vantaggi
industriali e commerciali possono sussistere legami stretti. In provincia di
Como, le fabbriche che lavorano la seta sono interessate ad assumere
personale che abbia una conoscenza del cinese, ed esempi di questo tipo
potrebbero essere moltiplicati senza difficoltà per industrie o attività
commerciali con altri paesi, tanto più per industrie che hanno delocalizzato
la produzione in aree diverse del mondo. Ma questa pur importante
dimensione commerciale e industriale è solo una parte di un problema più
ampio. Non si tratta infatti solo di garantire che una società avanzata abbia i
“tecnici” di settori linguistici che permettano il funzionamento di attività o
iniziative economiche (nei paesi in cui le istituzioni universitarie svolgono
ruoli di programmazione effettivamente agganciati alle esigenze del mercato
del lavoro, un tale compito è assicurato da queste). Nelle società della
conoscenza contemporanee, le competenze linguistiche e il plurilinguismo
sono un aspetto di un più complessivo funzionamento, da cui dipende la
formazione delle identità degli individui e delle società. Infatti, i singoli ed i
gruppi si riconoscono nella propria lingua, ne assumono il retaggio culturale
e le forme di pensiero. Le capacità linguistiche, d’altra parte, condizionano
profondamente le possibilità degli individui. È chiaro che coloro che
rimangono monolingui non hanno la possibilità di accedere a certi ruoli
sociali ed economici, che di fatto restano riservati a chi invece dispone delle
necessarie conoscenze linguistiche. Per evitare che questi condizionamenti
provochino una pericolosa, eccessiva, stratificazione della nostra società e ne
impediscano la mobilità interna, non è possibile che i governi si
disinteressino della questione. Ci sono poi questioni meno “oggettive”.
L’interesse per le lingue si collega ad una dimensione immaginaria e
simbolica che esprime valori e aspirazioni relativi a chi si vorrebbe essere, e
112
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
a come si vorrebbe vivere. È questa dimensione che può innescare potenti
processi di trasformazione e innovazione a livello individuale e sociale.
Se il dirigismo politico in materia linguistica offre i rischi poco fa
menzionati, dovremmo concludere che le politiche di pianificazione
linguistica siano inutili, e che bisognerebbe adottare anche per le lingue il
vecchio detto del liberalismo classico, laissez faire, laissez passer? Dopotutto,
proprio una cospicua parte dei risultati emersi dalla ricerca LETitFLY ha
dimostrato l’esistenza sul territorio italiano di un’ampia gamma di gruppi e
associazioni della società civile che operano nei settori della formazione
linguistica, fornendo servizi differenziati e in non pochi casi valutabili in
maniera positiva o molto positiva.
D’altra parte, preoccupa che, sempre tra i risultati della ricerca, emerga una
bassa percentuale di attività di formazione linguistica da parte delle piccole
e medie industrie. In definitiva, come in tutte le scienze sociali, si pone un
problema di metodo: è fondamentale conoscere per intervenire. In questo
senso, il Progetto LETitFLY è stato una occasione preziosa per la
comprensione della situazione italiana e l’ampia gamma di risultati che esso
ha fornito è importante sia per chi ha responsabilità politiche di
pianificazione che per i membri del mondo della ricerca.
2. L’Europa, un gigante con i piedi di argilla
È stato spesso notato negli ultimi anni, negli ambienti inglesi e americani
“euroscettici”, che un problema tutt’altro che secondario, che costituisce una
seria difficoltà all’integrazione europea, è la questione linguistica. Alcuni si
sono spinti a sostenere che di tutte le difficoltà che l’Unione ha davanti,
questa sia una delle più insidiose, una sorta di mina vagante che potrebbe
seriamente infirmare le basi dell’integrazione. Questo punto di vista ha
trovato un’espressione sintetica nella metafora dell’Europa come un gigante
dai piedi di argilla, costituiti per l’appunto dal problema linguistico.
Sono molte le domande che ci si può porre. La prima riguarda una questione
che i linguisti considererebbero sostanziale: la diversità linguistica del
continente europeo è, nelle concrete realtà comunicative individuali, sociali e
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 113
istituzionali, davvero un handicap? Bisogna naturalmente distinguere i
primi due livelli dal terzo. Come mostrano numerose esperienze extraeuropee – ad esempio quella, poco fa ricordata, del sub-continente indiano,
dove coesiste da secoli un'impressionante diversità di lingue e culture – la
comunicazione individuale e sociale può non essere affatto impedita da una
forte diversità linguistica. Esistono infatti meccanismi naturali o spontanei di
adattamento comunicativo che individui e gruppi sociali mettono in atto. Si
vedono qui tutte le potenzialità dell’apprendimento spontaneo in rapporto
alle spinte di motivazione o interesse, potenzialità ben osservabili anche nei
gruppi di lavoratori transnazionali e negli emigrati che hanno propensione
ad integrarsi nel paese di arrivo. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati
sia per situazioni del passato che del presente.
La questione della comunicazione a livello istituzionale spinge a porre
ulteriori problemi. È qui che emergono aspetti politici ed ideologici tutt’altro
che trascurabili. Le due serie di aspetti sono ovviamente collegate. L’ideale
della “unità nella diversità”, che ha accompagnato il processo di integrazione
europea e che costituisce da secoli un’aspirazione delle élites intellettuali e
politiche del continente, si riflette nella tendenza a rispettare le diverse identità
linguistiche e culturali e a considerarle come un valore aggiunto. Questa
concezione è parte sostanziale dell’idea di cittadinanza europea. In effetti,
bisogna ammettere che la situazione linguistica che si è venuta a creare con
l’unificazione europea non ha paralleli storici, perché non ha paralleli
l’esperienza storica e politica corrispondente. Il monolinguismo istituzionale
di molte società occidentali, che pure hanno al loro interno, in maniera
diversa, plurilinguismi sociali e/o regionali, riflette una concezione antiquata
di stato e di cittadinanza. Si capisce dunque quale corda profonda della
mentalità europea tocchi il problema del rapporto tra cittadinanza e
rappresentazione linguistica. Garantire uguali diritti di cittadinanza comporta
garantire le identità linguistiche di tutti i 25 paesi dell’Unione.
Questo ideale si scontra con numerose difficoltà di applicazione pratica. Ne
menziono solo due, evidenti e ben note: il problema della traduzione in tutte
le lingue dell’Unione delle leggi europee e quello delle lingue di lavoro
dell’amministrazione centrale europea. Come osserva l’Economist in un
articolo del 13 dicembre 2006, “Brussels politicians… seldom admit… that
114
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
languages are a logistical and expensive headache, as well as a cause of
nationalistic squabbles”. Il punto di vista del settimanale britannico può
essere espresso nel caratteristico stile disincantato e tagliente, ma è difficile
negare che abbia del buon senso. Ad alcuni, le politiche linguistiche
dell’Unione sembrano comprensibilmente un rompicapo in cui – oltre alle
difficoltà di pianificazione linguistica di società e amministrazioni sofisticate
– entrano in gioco mentalità e tradizioni culturali nazionali del tutto
eterogenee. Gli auspici e le raccomandazioni generali espressi al riguardo
negli ultimi dieci anni dalla Commissione Europea sembrano in verità molto
generici e poco concreti. Se si vogliono superare queste genericità,
bisognerebbe riconoscere che il problema della politica linguistica
dell’Unione è una delle aree in cui il passato delle varie nazioni è ancora ben
vivo e impedisce la formazione di convergenze su questioni concrete. In
effetti i possibili regimi linguistici concepibili per l’Unione europea sono
molteplici. Uno studio francese ne contempla ben sette. Se tutti, compresi gli
stessi Inglesi, si dichiarano contrari al regime “monarchico” (dominio di una
sola lingua), le opinioni sul da farsi differiscono fondamentalmente. È stato
giustamente notato da Ammon che, all’aumentare della diversità linguistica
istituzionale, si rischia di fare il gioco delle lingue di monopolio, in
particolare dell’inglese. D’altra parte, come lo stesso Ammon osserva, la
situazione di plurilinguismo può essere così stressante per i parlanti che essi
si orientano spontaneamente verso il monolinguismo. In ogni caso, il
principio della pari dignità impone un complesso e costosissimo sforzo
organizzativo.
3. Difficoltà dell’interpretazione dei dati “di ambiente” in interventi di
pianificazione linguistica
Ma anche conoscere, per quanto riguarda i fatti linguistici, è meno facile di
quanto si creda. Come in tutte le scienze sociali, è complicato interpretare
atteggiamenti e comportamenti. Pertanto, una seria politica linguistica deve
tenere in conto numerosi fattori. In generale, è da tempo ben noto alla ricerca
scientifica che nei processi di acquisizione/apprendimento esiste una grande
variabilità individuale. Al livello del singolo parlante, le condizioni “di
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 115
ambiente” dipendono da parametri come l’età dell’esposizione all’acquisizione/apprendimento, le capacità individuali di stabilizzare le competenze
linguistiche o farle regredire sotto condizioni d’uso diverse, e le specifiche
motivazioni psicologiche, fattore quest’ultimo giustamente ritenuto di
fondamentale importanza. Ma possono esserci altre differenziazioni a
seconda dell’età, del sesso, dell’etnia di appartenenza dei parlanti. Ulteriori
condizioni in gioco riguardano le cosiddette abilità linguistiche. Non si
dovrebbe mai sottovalutare l’ampio scarto che può sussistere nello stesso
parlante tra acquisizione/apprendimento di abilità di lettura, di ascolto, di
fluenza nella conversazione, di capacità di scrittura. Fondamentale è anche il
tipo di apprendimento (naturale vs guidato, e inoltre scolastico vs non
scolastico). Né si può sottovalutare quali siano le finalità per cui si stimola e
promuove l’apprendimento. Una pianificazione linguistica su larga scala
richiederebbe lo sviluppo di progetti articolati in dettaglio rispetto a tutte
queste coordinate.
Ancora più complessi sono i fattori macro-sociolinguistici. S’intende che le
situazioni sono assai diverse da paese a paese e a volte anche all’interno
dello stesso paese. Non tutti i partner europei arrivano all’appuntamento
dell’integrazione linguistica nella stessa maniera, per ragioni storiche, per
ragioni geografiche, per ragioni culturali. Ho accennato prima alla
circostanza che all’interno dell’Unione europea vi sono paesi a identità
multipla, per ragioni storiche che sarebbe lungo spiegare qui, anche perché
ogni caso fa a sé. Il Regno Unito accenna fin dal suo nome alla convivenza di
Inglesi, Scozzesi, Irlandesi e Gallesi. Il Belgio ospita, non senza problemi,
una comunità vallone ed una fiamminga. La Francia ha Fiamminghi, Bretoni
e Catalani e nel suo Midi alcuni gruppi si considerano prima Occitani che
Francesi. In Spagna esistono conflitti linguistici acuti tra parlanti del
casigliano, del catalano e del basco. I paesi scandinavi mostrano oggi un
multilinguismo sviluppato e ben organizzato. Qui il multilinguismo è
rappresentato in contesto scolastico sin da epoca antica. In Svezia esistono
condizioni di bilinguismo svedese-finlandese, in cui il finlandese è insegnato
come seconda lingua in molte scuole. In Finlandia, oltre all’inglese che è
presente nella scolarizzazione sin da età molto precoce, è solidamente
radicato il multilinguismo finlandese, russo, svedese.
116
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Una situazione che induce a riflessione è quella della Germania, un paese
che ai traumi della seconda guerra mondiale ha saputo reagire, riprendendo
e sviluppando, a partire dalla ricostruzione post-bellica, l’antica attenzione
agli altri universi culturali (un sentimento molto profondo nell’identità
intellettuale tedesca). Chi viaggia oggi in Germania è colpito da un paese
fortemente multietnico e multiculturale, in cui la conoscenza delle lingue
straniere ha un buon livello di diffusione in varie classi sociali e di età, anche
se, qui come altrove, sono i giovani la punta avanzata del cambiamento. La
Germania, del resto, ha eccellenti tradizioni di formazione nelle scienze del
linguaggio. Vale la pena ricordare che la filologia e la linguistica comparate
sono nate in questo paese. Oggi (come un secolo fa e ancor prima) le
Università tedesche hanno centri di eccellenza di slavistica, orientalistica,
africanistica, opportunamente sostenuti da politiche accademiche lungimiranti.
A parte queste considerazioni, la diffusione del turismo giovanile ha
permesso a molti di rendersi conto della grande varietà culturale e
linguistica dell’Europa, che è senza dubbio una ricchezza e non un
problema. Il governo di questo processo non poteva essere abbandonato allo
spontaneismo. I programmi Erasmus/Socrates lo hanno dunque affrontato a
livello dell’Unione, puntando sullo scambio di studenti universitari e poi
anche delle scuole secondarie. Sebbene la necessaria preparazione linguistica
preliminare sia stata spesso inadeguata, per le migliaia di giovani che vi
hanno partecipato, i programmi Erasmus/Socrates sono stati un’esperienza
fondamentale. Poiché si tratta dei giovani che poco a poco verranno a
costituire la classe dirigente dei nostri paesi, è fondamentale che essi abbiano
coscienza ed esperienza diretta della realtà europea e siano in grado di
superare le barriere linguistiche che la caratterizzano. S’intende che, a questo
livello, diventino decisivi l’importanza assegnata alla formazione universitaria e quindi il ruolo attivo degli insegnanti, sui quali ricade la
responsabilità di tale formazione, problemi su cui tornerò tra poco.
Ho già detto degli stati plurilingui, ma esistono anche paesi che, ad un certo
livello, possono dirsi monolingui, almeno quanto a lingua ufficiale. L’Italia è
uno di questi, ma non è il solo. L’Inghilterra è un paese monolingue in una
maniera molto diversa rispetto all’Italia, cosa di cui chi ha responsabilità di
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 117
pianificazione culturale e politica in Gran Bretagna si rende ben conto.
Qualche mese fa (il 26 Agosto 2006) sul quotidiano inglese Guardian è
apparso un interessante articolo dal titolo “Tongue tied”, traducibile come
“Con la lingua legata” o forse meglio, in maniera più libera, “Con pastoie
linguistiche”. La giornalista, Agnès Poirier, faceva presente che una
Inghilterra cosmopolita e assolutamente orientata sul mercato del lavoro
internazionale in realtà stia correndo seri rischi dal punto di vista della
preparazione linguistica dei giovani, che sono in larga maggioranza
esclusivamente anglofoni. D’altra parte, le associazioni degli insegnanti
inglesi, vari membri del Parlamento e quella parte dell’opinione pubblica,
con
più
viva
sensibilità
sociale,
hanno
espresso
ripetutamente
preoccupazioni per il fatto che manchi una seria politica linguistica per le
numerose situazioni scolastiche della Gran Bretagna, specie in distretti come
Londra, Birmingham, Manchester, in cui sono presenti bambini provenienti
di minoranze etniche. Viva preoccupazione è stata inoltre espressa dalle
stesse forze sociali e politiche per il forte calo del numero di studenti che
scelgono le lingue moderne come specializzazione nell’ultimo biennio
scolastico e all’Università. Da questo punto di vista, si ha l’impressione che
le esperienze scolastiche dei paesi scandinavi e baltici costituiscano delle
realtà molto avanzate e preziose.
Dall’inchiesta di Eurobarometro risulta che paesi come la Spagna, la Francia,
l’Inghilterra hanno dei livelli di consapevolezza dell’importanza del plurilinguismo abbastanza bassi. Sebbene sussistano delle notevoli differenze
sociolinguistiche tra queste nazioni, non è forse un caso che esse siano state
grandi potenze coloniali, che hanno imposto la loro lingua altrove nel
mondo. L’Italia è un paese monolingue, ma che non è mai stata una vera
potenza coloniale. È possibile che i dettami della Unione europea, che
vediamo anche riportati nel dossier finale del progetto LETitFLY, siano
troppo tarati su una comunità mittel- e nord-europea, in cui da molti secoli,
nell’asse franco-tedesco e anche olandese, le condizioni di multilinguismo
individuale e sociale sono profondamente radicate. L’area del Mediterraneo,
da questo punto di vista, mi sembra che presenti problemi molto diversi.
La questione di fondo è forse il grado di internazionalizzazione culturale,
economica e linguistica di ogni stato membro. L’Italia è un paese che ha un
118
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
baricentro proiettato verso l’interno? È un paese che potremmo definire
inward-looking, cioè che guarda verso di sé? Per certi versi forse sì. Ci si può
chiedere se il quadro che emerge dalla inchiesta non sia complementare a
quello di un paese con un mercato del lavoro che è poco liberalizzato e poco
aperto verso l’estero. Basti ricordare le grandi preoccupazioni che negli
ultimi mesi la Banca d’Italia e vari esponenti del governo hanno espresso sul
problema dell’apertura economica dell’Italia ai mercati internazionali.
Il caso della esperienza lituana mi sembra che illustri, in un modo
interessante, come un paese che aveva una tradizione di plurilinguismo
relativamente antica, abbia poi avuto una accelerazione nello sviluppo delle
politiche che favoriscono il plurilinguismo, in ragione delle condizioni di
ingresso nell’Unione europea e di ulteriore apertura ai mercati internazionali. Gli interventi della prima tavola rotonda di questo pomeriggio
hanno sottolineato la necessità di politiche linguistiche integrate. Già
nell’incontro di Roma di fine maggio si è parlato di una sorta di messa a
sistema di sinergie virtuose, di tutte le forze positive che il paese ha a
disposizione, perché ce ne sono e l’indagine LETitFLY lo dimostra. Il
problema è però che, a mio avviso, non possiamo aspettarci che le medicine
abbiano effetto rapidamente e neanche che le politiche linguistiche da sole
servano a portarci rapidamente nelle condizioni di plurilinguismo richieste
dall’Unione europea.
In più punti del rapporto finale La domanda e l’offerta di formazione linguistica
in Italia (Progetto LETitFLY, Novembre 2006), si parla dell’effetto ambiente e
dell’importanza dell’ambiente sulle politiche linguistiche. Si potrebbero fare
alcune considerazioni da linguista su questo concetto di ambiente. Si auspica
(cito da pagina 8) la costruzione di un ambiente orientato al multilinguismo
realizzato attraverso azioni distribuite in modo capillare su tutto il territorio,
per esempio infrastrutture culturali scolastiche, promozione di gruppi autogestiti di conversazione nella forma di cineforum in lingua originale, circoli
di studio, gemellaggi, programmi di mobilità, e così via. Tutte queste sono
azioni assolutamente auspicabili. Ma per il multilinguismo italiano,
soprattutto dei giovani, è possibile che abbia giocato un ruolo molto più
incisivo un programma come il Socrates/Erasmus, che ha fortemente
contribuito a sviluppare le conoscenze linguistiche delle nuove generazioni.
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 119
Certo, progetti come questi hanno comportato un contributo finanziario
imponente da parte dell’Unione europea e mi chiedo se la spesa da parte
dell’Unione a questi fini sia sostenibile. Ma questo è un problema che
riguarda gli economisti.
Sulla questione di una migliore conoscenza e definizione dei fattori di
ambiente ci sarebbe molto da riflettere. È lecito avere dei dubbi sul fatto che
le lodevoli indicazioni della Commissione europea possano essere, nel breve
e medio periodo, qualcosa in più di una pia intenzione per larghi strati
sociali di non pochi paesi. Per quanto riguarda l’Italia, sono convinta che
sarebbe necessario, per il futuro, uno studio ulteriore delle condizioni di
ambiente che possano veramente favorire medicine efficaci.
4. Politiche di sostegno e condizioni di sistema
Uno degli aspetti fondamentali della politica linguistica europea riguarda
senza dubbio la scuola e l’Università. Non è solo un problema che comporta
risvolti tecnici e pratici, come le attrezzature limitate o le numerose carenze e
arretratezze con cui docenti e studenti devono confrontarsi ogni giorno. Da
esponente del mondo universitario mi permetto di dire alcune cose che forse
non sono piacevoli, ma tant’è: è forse bene cercare di non nascondere la
polvere sotto il tappeto. Gli esponenti delle organizzazioni degli insegnanti
che sono intervenuti in questa sede hanno sottolineato le difficili condizioni
di lavoro di chi opera in Italia nei settori della formazione linguistica. Mi
sembra indubbio che le condizioni in cui lavorano gli insegnanti dei settori
linguistici siano di una drammatica arretratezza. D’altra parte dall’indagine
LETitFLY esce il quadro di una propensione alta, più alta della media
europea, all’apprendimento delle lingue straniere e nello stesso tempo di
una auto-valutazione che è, invece, sensibilmente più bassa. A mio avviso,
questo è il quadro di un paese che ha un grande desiderio di
modernizzazione, un grande desiderio di aperture transnazionali ed
internazionali, ma che non ha le condizioni culturali, materiali e politiche
per realizzare questa aspirazione. È un sogno in cui ci sono forse elementi
stereotipati, ma è un sogno che mi pare profondamente indicativo di più
complesse esigenze culturali degli Italiani.
120 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO I colleghi che lavorano nelle Università conoscono bene i tanti problemi cronici che ogni anno agitano corsi di laurea e facoltà di lingue per il reclutamento dei lettori e degli insegnanti di lingua straniera: è una emergenza continua. Ma c’è di più, diciamolo. La realtà delle Università italiane non è orientata, nel suo complesso, verso lo studio delle lingue stra‐
niere moderne. Non mancano certo le esperienze positive in controtendenza, ma non è un caso che esse fioriscano piuttosto in retroterra cittadini con un robusto assetto economico, specie industriale e manageriale. Questo si può considerare una riprova del fatto che lo sviluppo di competenze linguistiche secondo politiche serie è il correlato di società prospere e avanzate. In verità, il baricentro di molte facoltà umanistiche italiane è in settori quali la filologia classica, l’italianistica, la storia, la filosofia. Si tratta, certo, di ambiti disciplinari che hanno una grande importanza ed un meritato prestigio culturale. Ma il paese deve sapere su che cosa vuole investire a livello di politiche universitarie: non si può probabilmente avere tutto o, quanto meno, bisognerebbe studiare una mediazione onorevole tra la necessaria conservazione di tradizioni culturali che caratterizzano l’Italia e l’apertura verso nuove realtà. Tutti noi siamo sempre impressionati, quando viaggiamo all’estero, dal livello di conoscenza delle altre lingue dei giovani di questi paesi. Come direttore del Master in Linguistica e Sociolinguistica delle Lingue d’Europa, all’Università di Napoli Federico II, ho avuto il piacere di accogliere a Napoli ragazzi di tutta Europa. Lituani, russi, svedesi conoscono bene l’italiano, parlano correntemente inglese, francese e tedesco. Anche i ragazzi tedeschi hanno uno spettro ampio di conoscenze linguistiche. I ragazzi italiani, molto bravi, che mandiamo all’estero con il programma Socrates, spesso devono fare corsi di lingua compattati e accelerati prima di poter accedere al programma di scambio inter‐
universitario. Tornano poi contenti, ma hanno avuto vita dura, dovevano recuperare un gap formativo. Come mai? Perché in molte nazioni europee agli studenti in lingue e letterature straniere moderne si richiede il soggiorno di almeno un anno nel paese estero di cui studiano la lingua (ciò è obbligatorio in Germania e Gran Bretagna?). Questa esperienza è fondamentale nella formazione di insegnanti e studenti. RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DELLA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA IN CONTESTO EUROPEO 121
Ci sono poi a mio avviso fattori di natura sociale. Fino a qualche anno fa
essere studente di una facoltà di lingue straniere molto spesso significava
appartenere a famiglie della upper o middle class, che potevano consentire ai
figli di andare a perfezionare le loro competenze linguistiche all’estero. Molti
ragazzi russi, tedeschi, inglesi e di altri paesi possono consentirsi il
soggiorno di un anno all’estero. Il fatto è che si mantengono lavorando parttime come camerieri, commessi e così via. Ma è dubbio che un buon numero
di famiglie italiane sia preparato ad accettare simili soluzioni. A molti
ragazzi italiani, che rimangono in famiglia fino circa trenta anni, esperienze
del genere sembrerebbero forse poco appetibili. Ovviamente, questo è un
problema di struttura familiare e sociale dell’Italia.
Sarebbe altamente desiderabile ed utile che i risultati della ricerca LETitFLY
fossero diffusi in vari ambienti. Essi meritano senza dubbio di diventare
oggetto di riflessione comune perché, con il problema di organizzare una
pianificazione linguistica nazionale il paese si gioca una carta importante.
Non è soltanto questione di ridisegnare politiche sociali, scolastiche ed
universitarie che sono ormai indispensabili. Bisogna fare una sorta di
autoanalisi non indolore e riconoscere le luci ed ombre del paese in cui
viviamo. Nella questione delle politiche linguistiche è ricapitolata la storia
italiana: è economia, è storia sociale e storia linguistica dell’Italia.
Si può desiderare per il nostro paese che la partecipazione all’Unione
europea avvenga secondo i ripetuti auspici e le raccomandazioni
dell’Unione, anche se a questo appuntamento arriviamo in ritardo. Ma è
bene mettere nel conto che la strada non sarà breve. Alcuni hanno osservato
che apprendere le lingue ed apprendere l’informatica comportino problemi
simili. Forse no, perchè apprendere una lingua è un lavoro che dura tutta la
vita, un lavoro difficile che richiede un coinvolgimento ed un impegno
straordinari a livello individuale. A maggior ragione, la crescita delle
conoscenze linguistiche di un intero paese, specie di un paese come l’Italia,
comporta un impegno straordinario a livello politico.
INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO
Parte III
L’offerta di formazione linguistica oggi
123
INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO
125
INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO
Franca Bosc
Università degli Studi di Torino
Innanzitutto vorrei complimentarmi per i risultati della ricerca LETitFLY: è
stata sicuramente una grande impresa da parte dei soggetti che hanno
collaborato; vorrei quindi esprimere le mie congratulazioni a Sinform, al
Consorzio Fridericiana, all’Enaip e naturalmente al Censis e a GN Research.
Il mio intervento riguarda l’insegnamento e l’apprendimento delle lingue
nel mondo delle imprese. Partirei molto velocemente da due dati: 1992 e
4,5%; si tratta della percentuale emersa in una ricerca condotta dall’Isfol
(1992), analizzando i progetti europei che si occupavano dell’insegnamento
delle lingue nelle piccole e medie imprese; tale studio presentava un
panorama molto significativo che andava dal Piemonte, al Friuli Venezia
Giulia, all’Emilia Romagna, e toccava anche alcune aziende della Campania,
quindi anche il Sud Italia era compreso. A distanza di quattordici anni
abbiamo, dai dati di LETitFLY, una percentuale del 4,6% di imprese che
attivano formazione linguistica. Naturalmente si possono fare molte
obiezioni su questi due dati, perché il target è diverso, i questionari utilizzati
sono diversi. Tuttavia, di fatto, resta significativo che nell’arco temporale di
quattordici anni questa percentuale non si è mossa e, stamattina, si diceva
che il 66,1% delle aziende non ha nessuna funzione che richieda competenze
linguistiche ed è questo un dato che fa riflettere.
In questo lasso di tempo, in quattordici anni, la globalizzazione è andata
avanti; questo significa internazionalizzazione di ruoli, saper interagire con
altre culture. La globalizzazione avanza e le aziende italiane restano al 4,6%
nella formazione linguistica. L’altro dato, a mio avviso importante, che
emerge dai risultati di questa ricerca è la tipologia corsuale che le aziende
hanno attivato. Il 57% ha fatto dei corsi generali, solo il 16,4% ha attivato
corsi specialistici. Quando ci si rivolge alle aziende, la lingua standard non è
più sufficiente, bisogna intervenire non solo a livello di vocabolario, ma
126
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
anche a livello di strutture testuali e pragmatiche: è necessario, quindi,
puntare sulla lingua speciale, secondo la denominazione di Cortelazzo
(1994). Le varietà delle lingue utilizzate in settori specifici della vita sociale e
professionale sono denominate con nomi diversi e non sempre sinonimi:
linguaggi settoriali (Beccaria, 1973), sottocodici (Dardano, 1973; Berruto,
1974).
Una lingua speciale è definita come una varietà di lingua che dipende da
una sfera di attività o da un settore di conoscenze specialistici ed è utilizzata
da un gruppo di parlanti più ristretto della totalità dei parlanti per
soddisfare i bisogni comunicativi di quel settore. Essa, in estrema sintesi, è in
relazione alla conoscenza del mondo modellizzata da una disciplina, nonché
al suo apparato epistemologico, e risponde ai bisogni comunicativi di una
comunità scientifica o professionale, trai quali, in primo luogo, quelli di
chiarezza, precisione, rapidità. Tali comunità scientifiche o professionali
sono “comunità discorsive”, caratterizzate da convenzioni di comportamento, incluso, non da ultimo, il comportamento linguistico: attraverso esso,
i membri di una data comunità si riconoscono tra loro, delimitando i confini
verso i profani.
La definizione sopra riportata individua quella che è stata chiamata la
“dimensione orizzontale” delle lingue specialistiche, cioè l’articolazione in
branche del sapere e settori di attività. Esse si discostano dalla lingua della
comunicazione quotidiana per aspetti testuali, morfosintattici e lessicali.
L’organizzazione testuale segue schemi vincolanti e altamente prevedibili, la
coesione e coerenza del testo è trasparente per il modo in cui si organizzano
le informazioni e per l’uso di connettori che lo strutturano, e orientano il
lettore. Per quanto riguarda la morfosintassi, le lingue specialistiche si
distinguono per la maggiore occorrenza, rispetto alla lingua comune, di
alcuni fenomeni che possono essere riportati a due caratteri del discorso
scientifico-professionale: da un lato, l’orientamento verso gli oggetti, gli
eventi e i processi più che verso l’agente, dall’altro, la tendenza all’economicità. Di qui caratteristiche come la sinteticità espressiva (ad esempio, per la
lingua italiana l’uso di forme nominali del verbo in sostituzione della frase
relativa), la nominalizzazione e l’uso di una rosa ristretta di verbi generici, la
spersonalizzazione del soggetto, l’uso del passivo, la semplicità del periodo
INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO
127
consentita dal fatto che la complessità è piuttosto nel gruppo nominale. I
testi scritti, scientifici e professionali, si caratterizzano per la densità
lessicale: la percentuale delle parole piene, cioè delle parole con un
contenuto semantico preciso, sul totale delle parole è elevata. Il lessico
inoltre tende ad essere referenziale (non emotivo, non conativo), non
ambiguo nella misura in cui, all’interno di una data lingua specialistica, ad
un termine è attribuito un solo significato (monoreferenzialità) e ad un
significato è attribuito un solo termine (assenza di sinonimi), relativamente
stabile nel tempo, in grado di ampliarsi in base a regole derivative condivise
(per esempio attraverso prefissi e suffissi).
Queste caratteristiche dovrebbero esser oggetto dell’insegnamento per il
mondo delle imprese; la scelta, invece, di attivare corsi standard fa riflettere
sul perché in questi anni, a partire dal 1991, da quando L’Unione Europea ha
lanciato il programma Lingua – che aveva, in modo particolare nella sua
Azione III, un indirizzo specifico per le aziende – sono stati elaborati molti
materiali che avevano come scopo l’insegnamento delle lingue europee nelle
aziende. Questa fervida produzione è poi proseguita con i programmi
Leonardo e Socrates. In quegli anni ero a Bruxelles e avevo la funzione di
valutatrice tecnica dei progetti italiani: la lingua italiana è considerata a
livello europeo “langue modime”(moins diffusée, moins enseignée) e questo
la rendeva particolarmente attraente per la formazione del partnerariato. Per
questo motivo ho potuto analizzare parecchi materiali che riguardavano
settori molto diversi tra loro: si andava dall’industria calzaturiera, all’industria dei mobili, all’informatica; c’è, però, il problema della scarsa
diffusione dei materiali e di questo sono consapevoli anche a Bruxelles.
Abbiamo a disposizione il Linguanet dove si possono trovare esempi di
questi materiali, però non è sufficiente, perché sui materiali bisogna ancora
lavorare: ci sono, ma bisogna andare a scovarli; bisogna fare sistema, in
modo che questi materiali possano raggiungere le aziende e le scuole, perché
sono stati elaborati con partner di un certo spessore dal punto di vista
scientifico. I materiali sono molto importanti per l’insegnamento delle
lingue: dice l’insegnante di lingua “uno, nessuno e centomila”. Però il fare
riferimento a materiali elaborati e anche sperimentati, e questa è la
differenza, mi sembra dal punto di vista didattico una buona partenza.
128
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Quali sono i punti importanti per l’insegnamento delle lingue nelle aziende?
La predisposizione di un percorso didattico mirato, perché abbiamo due
soggetti, l’adulto in formazione e l’azienda. Abbiamo visto dai dati
LETitFLY che le aziende ritengono che la formazione linguistica tocchi
all’individuo, perché è difficile valutarla, è difficile attivare dei corsi.
Dobbiamo soddisfare le esigenze delle aziende e nello stesso tempo tenere
conto dell’adulto in formazione. Ed in questo l’androgogia ci viene incontro,
perché l’adulto è abituato a dei modelli di apprendimento, a dei meccanismi
di fissazione e di formalizzazione degli elementi linguistici, e poi vuole
avere una lingua che possa utilizzare nel mondo del lavoro. La stessa cosa
avviene per l’italiano L2. Abbiamo visto che il 56% degli immigrati in Italia
ritiene che una buona competenza linguistica sia necessaria per il mondo del
lavoro; nella formazione professionale, dove adulti e ragazzini imparano la
lingua ed il mestiere, bisogna lavorare molto perché il non sapere interagire
in lingua sul posto di lavoro, oltre a dare problemi di comunicazione, può
dare problemi anche dal punto di visto pratico. Sia nella formazione
professionale per l’italiano L2 e sia nella scuola, si gioca una parte del futuro
del nostro paese: inseriamo i ragazzini nelle scuole e aiutiamo gli adulti ad
inserirsi nel mondo del lavoro.
Lo strumento dell’audit linguistico e comunicativo deve essere il punto di
partenza per ogni percorso aziendale e anche qui in Italia, con il programma
Lingua, abbiamo avuto degli strumenti di audit molti significativi che, però,
non sono stati diffusi. Ad esempio quello dell’Elea/Olivetti, suddiviso in
quattro eventi comunicativi: presentazione, produzione, negoziazione,
gestione, con tutti i materiali e gli atti linguistici autentici utili per la
formazione linguistica in azienda. L’audit ha la funzione di “controllo” e
“guida e orientamento” (Bosc, 1994).
L’audit linguistico-comunicativo ha l’obiettivo di controllare gli elementi
strutturali (funzione diagnostica) che sono che sono responsabili di alcuni
problemi di un’istituzione (funzione di controllo). I risultati dell’audit
devono aiutare a correggere le lacune (funzione di garanzia della qualità). Se
risulta necessario, potrà servire per la ricostruzione di un sistema (funzione
di pianificazione) (Raash, 1994).
INSEGNAMENTO DELLE LINGUE PER IL LAVORO
129
La definizione di audit linguistico-comunicativo vuole sottolineare la
complementarietà dei due termini linguistico e comunicativo. La combinazione rimanda alla competenza linguistica e comunicativa, include i processi
interattivi e i contesti coinvolti e fornisce indicazioni per la stesura del
sillabo.
Sono necessari più elementi per comprendere la complessità della
comunicazione sul posto di lavoro o in un corso di formazione professionale:
-
gli interlocutori con i loro reciproci ruoli;
-
il contesto in cui avviene lo scambio (tempo, luogo, dati sociocontestuali:
comprese le condizioni del canale percettivo che permette lo scambio);
-
il contenuto proposizionale dell’interazione;
-
la forma linguistica utilizzata nell’interazione;
-
lo scopo dell’interazione;
-
l’effetto di ciascun stimolo verbale sull’interlocutore.
Si tratta di un percorso che viene talvolta utilizzato in azienda, ma non in
tutte le sue fasi, e qui gioca un ruolo importante la certificazione, perché
quando una persona ha la sua certificazione linguistica, anche per l’azienda
o per chi fa l’audit, si riesce meglio a collocarlo e a dargli una formazione
linguistica adeguata. Naturalmente l’audit coinvolge la lingua, coinvolge la
comunicazione e la cultura.
E con l’audit entrano in gioco le lingue speciali con i loro vocabolari, con le
loro caratteristiche morfosintattiche e le loro caratteristiche testuali: solo
partendo da questo riusciamo a soddisfare le esigenze delle aziende che
vedono una ricaduta immediata. E qui è il punto dolente, perché la maggior
parte dei corsi attivati in azienda riguarda la lingua standard;
bisogna
invece andare oltre ed inserire trasversalmente la lingua speciale del
determinato settore. C’è sicuramente un problema: questa predisposizione
di percorso didattico mirato alle esigenze dell’azienda ha dei costi. Però, poi,
questo significa anche avere una qualità migliore nella formazione
linguistica e, soprattutto, migliori prestazioni da parte degli addetti che della
lingua speciale si avvalgono nel loro lavoro (oltre a produrre altri materiali
didattici da diffondere).
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
130
Bibliografia
Beccaria G. L. (a cura di), I linguaggi settoriali in Italia, Bompiani, Milano,
1973.
Berruto G., La sociolinguistica, Zanichelli, Bologna, 1974.
Bosc F., “Extraits d’audit”, in LINGUA – Audits linguistiques et Analyses des
Besoins, Actes du Symposium Saarbrücken, Commission Européenne,
Bruxelles, 1994.
Cortelazzo M., Lingue speciali. La dimensione verticale, Unipress, Padova, 1994.
Dardano M., Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Bari, 1973.
ISFOL (a cura di Gilli D.), Seconda lingua, società e strategie formative, Franco
Angeli, Milano, 1992.
Raasch A., “Les audits linguistiques”, in LINGUA – Audits linguistiques et
Analyses des Besoins, Actes du Symposium Saarbrücken, Commission
Européenne, Bruxelles, 1994.
LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA
131
LA FORMAZIONE CONTINUA
E LA FORMAZIONE LINGUISTICA
Sergio Bonetti
Responsabile ufficio formazione FAPI - Fondo PMI
Il Fondo ha molto a che fare con la presente ricerca, che rappresenta davvero
un ottimo lavoro, soprattutto perché non dobbiamo dare per scontato che le
imprese, i lavoratori e le parti sociali abbiano coscienza di quanto sia
importante la formazione linguistica per i lavoratori e per le imprese.
Nonostante tutti i discorsi dell’Unione europea e degli esperti sull’importanza, nella società della conoscenza, della cultura generale e della
conoscenza delle lingue, prevale ancora, nei contenuti e negli obiettivi degli
interventi formativi, una concezione di tipo fordista.
Noi abbiamo investito, iniziando nel 2005, circa 35 milioni di euro in piani
formativi. La formazione continua si rivolge ai lavoratori in impresa. La
critica che spesso viene fatta da alcuni componenti delle parti sociali, che
sono il cervello politico del Fondo, è che i progetti riguardanti la formazione
linguistica (in massima parte di lingua inglese e qualcuno di lingua francese
e di lingua tedesca che noi abbiamo finanziato) sono scarsamente utili.
Questo significa che prevale ancora una concezione per cui la formazione è
intesa quasi esclusivamente come addestramento a funzioni presenti nella
fabbrica in cui prevale una organizzazione del lavoro tayloristica. Non è che
non esista più il lavoro operaio. C’è ancora la fatica, la chiave inglese, il
grasso e quant’altro, però questa mancanza di consapevolezza – da parte di
imprenditori, organizzazioni sindacali, organizzazioni di rappresentanza
datoriale – di quanto sia importante la conoscenza delle lingue per le
esigenze di competitività nel contesto dell’internazionalizzazione sempre
più spinta della produzione e del mercato, è una cosa grave. La ricerca
condotta nell’ambito del Progetto LETitFLY può dare veramente un
contributo importante, per cui deve avere la giusta diffusione.
I Fondi sono l’adeguamento del nostro paese ad una realtà europea già
132
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
molto avanzata, dove la formazione continua per i lavoratori non viene
indirizzata più dai Ministeri o dalle Regioni, ma direttamente dalle parti
sociali, organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali, perché sono più
vicine ai bisogni dei lavoratori e delle imprese, con un sistema che via via sta
crescendo. Il sistema di formazione continua nasce infatti nel nostro paese
con la Legge 236 del 1993 e i fondi cominciano a costituirsi a partire dal 2000
e ad essere operativi nel 2004.
Il FAPI-Fondo PMI è intervenuto sulla formazione linguistica. A partire dal
2005 ha finanziato 2.146 progetti: di questi ben 385 sono progetti di
formazione linguistica. Quindi più del 4,6% emerso dalla ricerca LETitFLY.
Siamo intorno al 17,94%.
Di questi 385 progetti di formazione linguistica, quattordici riguardano
l’italiano come lingua seconda per i lavoratori stranieri. Questi dati sono
calcolati per difetto, perché ci sono anche singoli moduli di formazione
linguistica all’interno di progetti di natura più professionalizzante. Per fare
un esempio: ci può essere un progetto che mira all’addestramento e all’uso
di un software per il magazzino e dentro questo progetto ci può essere un
modulo di apprendimento di alcuni termini lessicali perché il software è in
inglese.
Vediamo alcuni aspetti qualitativi che emergono a livello generale. I progetti
di formazione linguistica sono tutti, tranne i quattordici di italiano, di lingua
inglese. Da dove nasce questo bisogno? Possiamo ipotizzare che nasca da
esigenze di sviluppo organizzativo e di innovazione di prodotto, ovvero da
esigenze fondamentali rispetto ai cambiamenti del mercato del lavoro. Il
fatto che la formazione sia soprattutto in lingua inglese probabilmente
risponde ad un bisogno immediato. L’obiettivo è far crescere questo
bisogno.
L’internazionalizzazione del lavoro richiede sicuramente alle imprese
acquisizione di competenze linguistiche che non siano solo quelle in lingua
inglese. Ecco i principali problemi che ci troviamo ad affrontare. Innanzitutto, chi è che tradizionalmente fa questa formazione? Nei nostri bandi
permettiamo che siano le imprese a candidarsi direttamente per avere il
finanziamento per fare formazione; le imprese potranno poi avvalersi di
LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA
133
esperti e consulenti esterni o ricorrere a società di formazione accreditate
presso le Regioni. Questo tema dell’accreditamento, che nasce da
un’esigenza giusta, è in realtà una situazione di vincolo rispetto all’insegnamento delle lingue, perché l’accreditamento presso le Regioni delle
società di formazione viene fatto per lo più su criteri che non sono di qualità
e di competenza: vengono prese in considerazione, ad esempio, la capienza
delle aule, l’accessibilità delle stesse e via dicendo. Quindi un problema che
noi abbiamo, che le imprese hanno e che hanno anche i lavoratori (perché i
destinatari finali sono loro) è quello di alzare la qualità dei soggetti che
realizzano l’intervento formativo. Devo riconoscere che su questi 385
progetti spesso la qualità non è particolarmente innovativa. Però anche qui
non ci si può limitare a criticare, perché è un processo che va accompagnato,
che va fatto crescere, introducendo via via elementi di qualità.
L’altro problema è che noi finanziamo nei nostri bandi anche attività che
sono propedeutiche, ad esempio attività di audit, di assessment, di analisi dei
fabbisogni, di bilancio delle competenze. Nella quasi totalità di questi 385
progetti, la formazione viene erogata senza un momento a monte che
permetta di focalizzarla su una serie di funzioni che sono state riconosciute
come importanti. Non è un’autocritica, perché è un processo che sta
nascendo. Bisogna intervenire in questa direzione.
L’altro tema importante è quello della certificazione. Siccome in tutti questi
385 progetti si propongono percorsi brevi, perché rispondono a bisogni
immediati dei lavoratori e delle imprese, diventa problematico fare un
sistema di certificazione su un percorso formativo, per esempio in lingua
inglese, breve. C’è il problema di costruire delle certificazioni modulari su
degli skill che riguardano alcuni percorsi professionalizzanti legati anche alla
lingua inglese, che è un terreno nuovo e interessante da esplorare.
Che cosa vogliamo fare? Vogliamo, innanzitutto, intervenire su questi temi
della formazione, linguistica e non solo, con dei voucher individuali,
cercando di rompere questo vincolo dell’ente accreditato. Vorremmo, cioè,
cercare di dire noi dove si può spendere questo voucher, per esempio presso
società di formazione, enti, università popolari, centri territoriali permanenti, che applicano la certificazione nelle lingue. È importante che il
134
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
lavoratore a cui è stato dato il voucher abbia, a monte, un momento quanto
meno di orientamento verso la formazione linguistica per aiutarlo e
motivarlo su questo aspetto.
Altro grande tema è quello dell’italiano per i lavoratori stranieri. È un tema
che si carica di altri aspetti – che la ricerca LETitFLY evidenzia in modo forte
– che sono quelli culturali dell’apprendimento della lingua. Io ho trovato
personalmente molto negativo che sul discorso della cittadinanza si
chiedesse l’esame della lingua italiana e mi sembra strano che un governo di
centro-sinistra non tenga conto dell’esperienza dei nostri lavoratori emigrati.
I lavoratori immigrati hanno dei percorsi di auto-apprendimento di una
lingua. Più che un esame ad escludere, dovrebbe essere un esame ad
includere, nel senso che gli si dovrebbe offrire un corso di perfezionamento.
Immaginate i nostri lavoratori che non hanno la cittadinanza perché non
sanno rispondere a delle domande?
Il nostro fondo non è il più grande, però è un fondo strategico perché le
piccole e medie imprese rappresentano il 96% del sistema produttivo Italia e
perché le piccole e medie imprese sono quelle che non riescono a fare
formazione da sole.
Le piccole e medie imprese, rispetto ai loro problemi hanno, un
atteggiamento reattivo, non investono in formazione. Ho il problema delle
nuove buste paga? Chiamo un consulente. Ho il problema della internazionalizzazione? Chiamo un consulente che mi scrive le lettere in cinese, in
inglese, eccetera. Non si pongono il problema della formazione come una
leva strategica che fa crescere complessivamente la competitività delle
imprese. Lavorare con le PMI sul tema strategico dell’apprendimento
linguistico è fondamentale.
Un’altra cosa poi è da rilevare. Se la formazione e la conoscenza della lingua
madre dell’italiano è quella che è, si complica da morire l’insegnamento e
l’apprendimento delle lingue seconde. Qui i dati sono drammatici, perché
abbiamo un milione e mezzo di analfabeti funzionali e circa due milioni a
rischio di analfabetismo funzionale. Sono dati molto inquietanti; se ci
aggiungiamo anche tutti i dati sulle competenze di lettura e via dicendo,
allora un obiettivo che dovremmo avere, e come Fondo delle PMI ci stiamo
LA FORMAZIONE CONTINUA E LA FORMAZIONE LINGUISTICA
135
provando (ma c’è una grande resistenze delle imprese e delle parti sociali), è
quello di finanziare progetti di formazione linguistica per i nostri lavoratori
anche di italiano, cioè per la capacità di lettura, di espressione, la capacità di
scrivere piccoli rapporti. Voi sapete che rispetto a queste cose l’analfabetismo funzionale salta al 36%? Prima si chiedeva perché i giovani di altri
paesi europei conoscono l’inglese e l’italiano, la risposta è che lo imparano a
scuola. La grande domanda da porci è: perché da noi ciò non avviene,
perché all’estero si apprendono almeno quei livelli di comunicazione di base
che noi non abbiamo e, rispetto alle competenze in lingua seconda con cui si
esce dalla scuola, noi stiamo tra gli ultimi posti in Europa?
Il lavoro del Progetto LETitFLY rispetto a tutto ciò è stato davvero molto
importante e bisogna lavorare per una diffusione ed una fertilizzazione. Per
questi motivi, mi auguro che ci sia una fase due di LETitFLY.
IMPARARE IL TEDESCO IN ITALIA: L’OFFERTA DEL GOETHE INSTITUT
137
IMPARARE IL TEDESCO IN ITALIA:
L’OFFERTA DEL GOETHE INSTITUT
Stefan Gerspach
Goethe Institut
Buonasera a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare l’organizzazione per aver
invitato l’istituto Goethe a questa conferenza. È stato molto interessante e
anche utile comprendere meglio quali sono le motivazioni, i bisogni e anche
i desideri degli italiani nel momento in cui debbono imparare a parlare una
lingua straniera. Anche in qualità di responsabile di corsi di lingua per me è
importante capire come noi possiamo aggiornare la nostra offerta per
soddisfare meglio quello che è richiesto.
A tal proposito vorrei dare un quadro di come noi possiamo venire incontro
a queste esigenze. E vorrei presentare brevemente il nostro istituto. Il Goethe
è l’istituto culturale della Repubblica Federale di Germania ed è presente in
tutto il mondo attraverso una rete di centoventinove istituti in ottanta
diversi paesi, oltre i tredici della Germania. In Italia, il Goethe Institut ha
sede nella città di Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste.
Attraverso sette istituti e più di quaranta associazioni e istituti culturali italotedeschi (ACIT e ICIT) presenti in diciassette regioni (Piemonte, Liguria,
Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli e Venezia Giulia, Emilia
Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia,
Calabria, Sicilia e Sardegna) il Goethe Institut ha una presenza capillare su
tutto il territorio italiano. Siamo divisi in quattro sezioni: c’è una sezione che
si occupa di programmi culturali, c’è una parte che si occupa della
cooperazione con il settore scolastico e universitario nell’insegnamento del
Tedesco, sia per la formazione di insegnanti che per appoggiare il Tedesco e
promuovere il Tedesco in Italia.
Abbiamo anche centri informazioni e a tal proposito vorrei anche riferire in
merito alla nostra offerta di corsi di lingua. Quest’anno abbiamo scelto un
motto: “parla tedesco, muoviti al ritmo dell’Europa”, che credo coincida
138 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO anche bene con lo spirito di questa conferenza. Viviamo in un tessuto di diverse lingue europee e, in questo contesto, promuoviamo il tedesco in Italia. Vorrei parlare un po’ del nostro metodo, basato su moderne metodologie di studio finalizzate ad un apprendimento attivo e interattivo della lingua tedesca, in cui insegnati e studenti non sono solamente emittenti e riceventi di un messaggio verbale, ma gli artefici di un flusso di comunicazione biunivoca. Il Goethe Insitut offre corsi di tedesco in base a diversi programmi. Prima abbiamo sentito parlare dei problemi della formazione linguistica nelle scuole, nelle università: vorrei far vedere la differenza con il nostro metodo che si basa fondamentalmente su un criterio comunicativo, diversamente da una formazione frontale, nella quale gli studenti non possono partecipare e svolgere attività interattive. La nostra offerta si divide in un programma standard – con corsi semestrali, che si orientano al quadro europeo di riferimento – e in programmi speciali: ad esempio grammatica o letteratura e tutto quello che è interessante per andare oltre la conoscenza della lingua, perché conoscere una lingua è anche conoscere un’altra cultura. È interessante il fatto che, come ho spiegato all’inizio in riferimento all’organizzazione dell’Istituto, abbiamo la possibilità di una rete in Germania. Ciò vuol dire che gli studenti possono iniziare da noi, o andare direttamente in Germania, dove ci sono tredici istituti. Stare in Germania dà un approccio completamente diverso alla lingua. Abbiamo sentito diversi esempi, come il programma Socrates, Eramus, eccetera: noi abbiamo questa struttura e offriamo ad esempio ai ragazzi una combinazione tra corsi di tedesco e altre attività. Prima si è parlato molto del problema della certificazione o, diciamo, del management di qualità e voglio spiegare un po’ come funziona. Nei nostri corsi di tedesco c’è, dopo un corso standard, una valutazione. Poi ci sono, soprattutto, gli esami. La certificazione è riconosciuta a livello internazionale ed è molto richiesta anche da studenti che non hanno fatto fino ad ora nessun corso da noi, magari vengono da fuori, vengono dalla scuola o anche dall’università. Questo perché i nostri esami sono riconosciuti e consentono di avere crediti. IMPARARE IL TEDESCO IN ITALIA: L’OFFERTA DEL GOETHE INSTITUT
139
Per quanto riguarda il numero degli iscritti, ci sono diversi dati. A Milano
c’è l’istituto più grande e ci sono più di 1400 iscritti e 260 corsi. Al secondo
posto c’è Roma: ci sono più di mille iscritti e più di cento corsi. Poi Torino:
quasi 600 iscritti e più di cento corsi. E Napoli con 400 iscritti e quasi
cinquanta corsi.
Perché imparare il tedesco? Ecco alcune ragioni: la Germania è il più
importante paese esportatore al mondo, il tedesco è la lingua più parlata
nell’Unione Europea, nel mondo il 18% di tutti i libri pubblicati è stampato
in Germania, molte aziende internazionali hanno sede in Germania, studiare
e imparare il tedesco non risulta più complicato che una qualsiasi altra
lingua. Molte persone hanno spesso un’immagine forse non adatta e giusta
del tedesco. Il tedesco è la seconda lingua più diffusa nel mondo scientifico,
è la lingua di Goethe, Nietzsche e Kafka, ma anche di Mozart, Bach,
Beethoven. Questo significa che chi studia il tedesco ha libero accesso ad una
regione dell’Europa centrale importante dal punto di vista intellettuale,
economico e storico-culturale. Qui vorrei aprire una parentesi: il programma
speciale di cui ho parlato prima è anche un punto forte da noi, perché i
nostri insegnanti sono tutti madrelingua, noi stessi facciamo conoscere e
vivere il tedesco e la cultura della Germania in un modo diverso. Cerchiamo
di creare un ambiente già “madrelingua”, autentico, all’interno dell’istituto e
gli studenti possono usufruire di diversi mezzi come computer, biblioteca,
eccetera. Un altro punto notevole, forse soprattutto a Napoli, è che i tedeschi
rappresentano per molte nazioni la fonte turistica più importante. E il
turismo rappresenta sicuramente una fonte economica molto rilevante.
Con questo vorrei concludere e ringraziarvi per l’attenzione.
SALUTI DI CHIUSURA
141
SALUTI DI CHIUSURA
Silvia Costa
Coordinatrice IX Commissione Istruzione, Lavoro, Innovazione
e Ricerca della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome
Speravo di poter intervenire questa sera ma impegni consiliari me lo
impediscono. L’argomento e la ricerca promossa dal Ministero del Lavoro e
della Previdenza Sociale merita una grande attenzione e una sinergia
programmatica
anche
a
livello
regionale
per
le
competenze
di
programmazione dell’offerta scolastica e formativa che ci competono, anche
a sostegno dell’attività delle autonomie scolastiche.
I dati rivelano una troppo inadeguata competenza linguistica tra la nostra
popolazione, ma anche tra le imprese. E anche tra chi dichiara di conoscere
una lingua straniera (i 2/3 della popolazione), meno della metà è in grado di
sostenere una conversazione in altra lingua e permangono differenze molto
significative non solo tra livelli territoriali e titoli di studio, ma anche tra
uomini e donne. Nonostante le iniziative comunitarie e la previsione
dell’inserimento della lingua inglese nella scuola primaria e di una seconda
lingua nella scuola secondaria di primo grado e l’aumento del numero di
istituti superiori coinvolti nella certificazione esterna (ad es. del Trinity
College) che vede coinvolte nel Lazio 35 scuole, siamo molto lontani dai
bench mark europei.
Nell’ambito del Coordinamento degli Assessori Regionali all’Istruzione e
Formazione e come Assessore del Lazio, ho già fatto presente l’esigenza di
inserire più esplicitamente, negli obiettivi strategici dei Programmi
Operativi Regionali del FSE, l’elevazione e l’ampliamento delle competenze
linguistiche degli studenti e degli adulti come una delle strategie
fondamentali nell'ambito dell’Asse D - Capitale Umano.
In ambito regionale abbiamo promosso nel Lazio diverse iniziative volte a
migliorare le competenze linguistiche. Ne cito solo tre:
-
Un bando C3 Select per integrare la certificazione delle competenze
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
142
linguistiche e di altre specifiche materie per gli studenti in entrata nelle
Università;
-
L’offerta di voucher formativi a catalogo (che ha visto il coinvolgimento di
quasi 4.000 persone) comprendente anche l’offerta di formazione
linguistica e certificata;
-
Il bando ancora in atto sulla Misura C 1 che consentirà ai 90 Istituti
Professionali la realizzazione di laboratori linguistici e tecnologici.
LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
Appendice
Interventi dei Workshop
143
144
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
145
LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO
SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
Sergio Scalise
Università di Bologna
Bologna, 16 maggio 2006
Innanzi tutto desidero osservare che l’acronimo LETitFLY è molto riuscito: è
efficace e si ricorda bene. Naturalmente non basta volare: si vola verso una
qualche direzione. In quale direzione “vola” questo progetto? Prima di dare
una risposta (che non può che essere “leggera” al pari della domanda)
desidererei fare un po’ di strada insieme a voi.
Valutazione
La mia valutazione globale dei risultati raccolti nella pubblicazione che ho
ricevuto è sostanzialmente molto positiva. Vi è dietro, evidentemente, il
lavoro di professionisti e dunque il “decollo” di questo volo è riuscito.
Naturalmente ciò non significa che non vi possano essere punti controversi,
da discutere ed approfondire o anche seriamente problematici.
Ad una prima lettura, si osservano dati interessanti, come ad esempio il fatto
che la conoscenza della lingue straniere sia un “valore” cui non
corrispondono azioni conseguenti (p. 103)1 e dunque velleitarismo e
abbandoni (p. 174). Che a domanda vaga corrisponde offerta generica (p.
177) per cui “il mercato si è adeguato abbassando la qualità dei corsi offerti”
(p. 178)
Ciò che comporta una depauperizzazione dell’inglese (p. 176) anche in fase
di “offerta”. Osservazione, questa, che dovrebbe in qualche modo essere
nota a chi si iscrive a dei corsi.
1
Analisi di scenario, Progetto LETitFLY, Settembre 2006. Tutte le citazioni che seguono
sono tratte da questo volume.
146
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Un altro punto che mi ha colpito (ma – devo ricordare – chi parla è un
teorico del linguaggio e non un tecnico dell’insegnamento delle lingue)
riguarda la nozione di “Stile di apprendimento”. “La scuola difficilmente
insegna che tipo di discenti siamo [...] e l’adulto medio quasi mai sa quale
atteggiamento adottare in riferimento alle strategie formative” (p. 177). Una
nozione quella di “stile di apprendimento” forse trascurata dalla medietà di
un insegnamento anonimo e non mirato. Emergono dal rapporto anche fatti
curiosi come ad esempio il fatto che francese è più conosciuto dalle donne
che dagli uomini. Forse ognuno di noi sarebbe in grado di avanzare delle
ipotesi, ma – in mancanza di certezze documentate – preferisco solo
segnalarlo appunto come curiosità.
Lo scenario Europeo
Come in tutto il rapporto emergono dati interessanti. Si direbbe che l’aspetto
“quantitativo” del lavoro è molto forte, ben curato.
Multilinguismo
Uno dei punti che ha attirato la mia attenzione è quello relativo al
“Rafforzamento del multilingusimo”. In più punti emerge una sorta di
raccomandazione a promuovere la conoscenza effettiva di tre lingue
dell’Unione europea (p. 7).
Ora, tale raccomandazione è intuitivamente molto corretta, chi può
dubitarne? Vorrei solo ricordare che appoggiare e promuovere il
plurilinguismo non è la sola alternativa nell’intento di tutte le persone
illuminate di promuovere lo scambio linguistico tra i popoli.
Da diversi anni Claire Blanche Benveniste dell’Università di Aix-enProvence ha messo a punto un metodo (sponsorizzato dall’Università degli
Studi di Roma 3, sicuramente nella persona del prof. Raffaele Simone) per
sviluppare il pluringuismo “passivo” (cfr. Eurom4).
In cosa consiste tale proposta? È una proposta che riguarda “Famiglie”
LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
147
linguistiche e Claire Blanche Benveniste ha lavorato sulla Famiglia delle
lingue Romanze. Il metodo è di far studiare non ad apprendere delle lingue
ma a capirle (per essere più esatti – in questa fase – a saperle leggere) e si
promette che in 40 ore di lavoro un parlante di una delle 4 lingue romanze
incluse nel pacchetto sarà in grado di leggere un articolo di media difficoltà,
diciamo un fondo del Corriere della Sera.
Indipendentemente dalla veridicità della “promessa”, la proposta è molto
interessante perché permetterebbe ad un cittadino italiano di capire (o
meglio di leggere) un articolo di Le Monde, di El Pais ecc. dopo un certo
numero (comunque limitato) di ore di lavoro.
Purtroppo (a mia conoscenza) questa proposta è stata elaborata nei dettagli
solo per le lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese e di
recente è stato aggiunto il catalano). Ma si pensi: se fosse almeno
parzialmente vero che con 40 ore di lavoro un cittadino tedesco fosse messo
in grado di capire inglese, olandese e danese, ciò significherebbe che con un
centinaio di ore di lavoro un cittadino dell’Unione europea sarebbe in grado
a) di parlare la propria lingua in molta parte d’Europa;
b) di capire una gran parte dei suoi interlocutori europei.
Poter parlare la propria lingua è sempre una ricchezza aggiuntiva, dato che un
adulto non raggiungerà mai la competenza dei ‘nativi’ in una qualsiasi L2.
In conclusione: è vero che bisogna sviluppare forme di plurilinguismo, ma
sia attivo che passivo.
Descrittori di competenza
Un secondo punto che ha attirato la mia attenzione riguarda la nozione di
“Descrittori di competenza linguistica”. In particolare, si consideri la
seguente citazione:
“L’apprendimento di una seconda lingua, in un’ottica di multilinguismo
non è concepito come un processo lineare ma è altresì determinato dalle
competenze possedute nella lingua materna […] competenza linguistico-
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
148
comunicativa […] competenza plurilingue e pluriculturale” (p. 15) e quindi
debbono tenersi in considerazione
-
età dei soggetti in formazione;
-
conoscenza di altre lingue già possedute dai soggetti;
-
gli altri insegnamenti presenti nel curriculum (p. 15).
Tutto giusto. Ma vorrei sottolineare che un “indicatore” di grande rilievo
dovrebbe essere il grado di conoscenza della lingua madre.
Tali conoscenze andrebbero valutate nei dettagli non solo come conoscenza
linguistica, ma anche come conoscenza “metalinguistica”. Le cosiddette parti
del discorso hanno nomi come “verbo”, “aggettivo”, “nome”... Ebbene posso
dire – ahimé per esperienza diretta – che gli studenti universitari non
conoscono le differenze tra queste “parti del discorso” (oggi le chiamiamo
“categorie lessicali”) e ciò che rende difficile l’insegnamento della linguistica
ma mi permetto di sospettare che renda difficile anche l’insegnamento di
una lingua. Ma la cosa si complica se la lingua di provenienza dell’apprendente è tipologicamente lontana dalla lingua d’arrivo.
Per esempio: se nella lingua di provenienza la distinzione tra verbo ed
aggettivo non esiste per nulla o è diversa da come funziona nella lingue
europee
(casi
entrambi
possibili),
allora
bisognerà
tenerne
conto.
L’insegnamento della lingua è soggetto ad una restrizione cui l’insegnamento della chimica, per dire, non è sottoposto: l’oggetto dell’insegnamento coincide con lo strumento attraverso cui l’insegnamento passa. La
lingua è “oggetto” ma è anche metalinguaggio.
Dunque nelle ricerche future sarà a mio parere necessario aggiungere, tra gli
elementi da tenere in considerazione:
-
conoscenza della lingua madre;
-
la possibilità di quella lingua di funzionare come metalinguaggio
comune.
LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
149
Tipologia Linguistica
Quel che si è detto sin qui implica che questa tipologia di indagini si fondino
sugli studi più avanzati di Tipologia Linguistica.
Se un parlante di una lingua isolante (il cinese) affronta una lingua flessiva
(l’italiano), vi è un largo quadro di problematiche di difficoltà per gli
apprendenti del tutto prevedibili.
Se uno studente cinese che è stato picchiato da un compagno riferisce al suo
professore:
‘picchia io’
Il professore dovrebbe essere allertato che il cinese è una lingua isolante e
che come tale non fa le distinzioni flessive che l’italiano fa e dunque il
pronome corrispondente ad io in cinese è wo ma questo può significare sia
‘io’ che ‘mi’ che ‘me’.
Ancora. Non so se i presenti hanno mai riflettuto su un’espressione come
‘vado al night’
Ad un parlante inglese questa espressione risulta quanto mento ridicola.
Suona come ‘vado alla notte’, Come è possibile? E non è un’espressione
isolata, si pensi alle seguenti:
‘ho indossato lo smoking’
‘hanno riparato il water’
che sarebbe come dire ‘ho indossato il fumante/da fumo’ e ‘hanno riparato
l’acqua’.
Dunque per un parlante inglese “vado al night” letteralmente ‘vado alla
notte’ è una frase problematica da intendere. Ma perché l’italiano ha fatto
queste scelte?
Il fatto è che ci sono lingue che nei composti hanno testa a destra, come
l’inglese (una high school É UNA scuola, costituente a destra) e vi sono lingue
che hanno la testa a sinistra, come l’italiano (capo stazione É UN capo non É
UNA stazione). (cfr. Scalise 1994).
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
150
La parola night club è inglese e dunque con testa a destra: É UN CLUB.
L’italiano – prendendo a prestito la parola – ha superimposto i propri
schemi (testa a sinistra) e dunque dice il NIGHT
night da night club
smoking da smoking jacket
water da water closet
L’italiano (come tutte le altre lingue romanze) ha testa a sinistra nei
composti, l’inglese (come tutte le altre lingue germaniche) ha testa a destra.
In questo caso di “prestito” la lingua “ospite” sovrappone i propri schemi
strutturali e con ciò toglie salienza ad un costituente e ne attribuisce di più
ad un altro.
Formazione degli insegnanti e teorie linguistiche
Profilo Europeo per la Formazione degli Insegnanti di Lingua: “In
particolare, con riferimento al punto 1) [1. ...strutturazione dei corsi per la
formazione iniziale ed in servizio degli insegnanti] l’attenzione si focalizza
sul rapporto tra teoria/e e pratica, quindi, sul collegamento tra lo studio
teorico delle materie linguistiche e le reali situazioni di insegnamento/apprendimento” (p. 17).
Vi sono qui due punti che desidererei commentare e cioè a) la formazione
degli insegnanti e b) studio teorico delle materie linguistiche.
Per insegnare qualcosa bisogna conoscere bene quel qualcosa. Ora,
conoscere una lingua significa conoscere come è strutturata, come funziona,
come si evolve, come muore, come è stratificata, come è memorizzata, se
richiede sistemi cognitivi specifici o comuni ad altri sistemi cognitivi, etc. Ma
queste conoscenze travalicano di gran lunga le conoscenze relative ad una
lingua: sono in realtà conoscenze del “linguaggio umano” vale a dire quella
capacità astratta che caratterizza solo gli esseri umani che ne vengono dotati
come parte del patrimonio biologico. Purtroppo una lingua è un “oggetto”
di uso comune e dunque se ne hanno conoscenze intuitive ed immediate, ma
LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
151
familiarità e consuetudine non bastano a capire cos’è e come funziona una
lingua.
Oggi abbiamo visioni molto elaborate del linguaggio umano (si veda Moro,
2006 e Graffi & Scalise, 2004). Certo si possono dare risposte “ingenue” ed
intuitive ma saranno sempre ed irrimediabilmente parziali.
Si considerino i seguenti dati. Dalla frase in 1a) si può derivare la
corrispondente interrogativa in 1b)
1a)
Giovanni ha trovato una foto di qualcuno
1b)
di chi Giovanni ha trovato una foto ___ ?
Ma dalla frase in 2a) non possiamo ricavare la corrispondete interrogativa in
2b) che è palesemente non grammaticale.
2a)
Giovanni ha sentito una storia su una foto di qualcuno
2b)
*di chi Giovanni ha sentito una storia su una foto ___?
Perché questo? Una spiegazione sta nella teorie delle “barriere” di Noam
Chomsky. Per fare l’interrogativa 1b) da 1a) cosa si è fatto? Si è “preso” il
costituente “di qualcuno”, lo si è reso interrogativo (di qualcuno -> di chi) e
lo si è spostato all’inizio di frase. In questo “spostamento” “di qualcuno” ha
dovuto attraversare una barriera (qui indicata dalla parentesi quadra):
1c)
Giovanni ha trovato [una foto di qualcuno
Per le frasi in 2) invece, lo spostamento del costituente “di qualcuno”
dovrebbe attraversare due barriere:
2c)
Giovanni ha sentito [una storia su [una foto di qualcuno
Ma questo non si può fare. E il fatto che questa sia una restrizione su tutte le
lingue fa forse pensare che tutte le regole di movimento siano in qualche
modo ristrette e che non vi possano essere movimenti di “lunga distanza”.
Non ci addentreremo qui se la questione abbia a che fare con dei limiti di
computo della mente umana, ci basta segnalare che le lingue sono sistemi di
complessità del tutto inaspettate e molto delicate.
Gli insegnanti non ricevono attualmente un’istruzione adeguata di
152 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO linguistica e – come si sa – “nemo in alium transferre potest plus quam ipse habet...”. Naturalmente il problema sta nelle sedi formative, in primis l’Università che dovrebbe poter costruire liberamente curricula più specifici ed adeguati. Quello delle teorie linguistiche è un altro problema. In tutta franchezza oggi non è chiaro quale sia la teoria migliore su cui basare metodi di insegnamento. È chiaro a tutti che una teoria è necessaria, ma abbiamo visto applicare e passare le grammatiche strutturalistiche, abbiamo visto applicare e passare le grammatiche generativo‐trasformazionali. E sinceramente non hanno lasciato dei grandi rimpianti. Anche in ambiti teorici molto raffinati vi è oggi un po’ di incertezza sulla forma della teoria al punto che qualcuno, come Matthew Dryer (Buffalo University) grande studioso degli Universali linguistici, propone una semplice “Basic Linguistic Theory”, vale a dire una teoria basata sui risultati acquisiti. Questa questione è stata ampiamente dibattuta nell’ambito del GISCEL (costola della SLI guidata ai tempi da Tullio De Mauro) e ricordo che uno studioso di grande vaglia, Lorenzo Renzi, di Padova, proponeva di basare l’insegnamento su una grammatica “potata” (credo volesse dire, di buon senso). Ad ogni modo una delle grammatiche dell’italiano più recenti è quella di Salvi‐Vanelli (2004) de Il Mulino e forse varrebbe la pena di “guardare” quanta e quale teoria vi sia dietro. In conclusione, in relazione al panorama Europeo farei le seguenti osser‐
vazioni: ‐ plurilinguismo sì, ma sia attivo che passivo; ‐ attenzione ai gradi di conoscenza della lingua madre anche come metalinguaggio; ‐ attenzione alla tipologia delle lingue; ‐ attenzione al periodo storico: quale teoria? ‐ attenzione alla formazione degli insegnanti. LETitFLY - OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO
153
Lo scenario italiano
Uno degli aspetti più problematici incontrati nella lettura del rapporto è
quello delle interviste telefoniche e delle autovalutazioni.
Alcune interviste de visu sarebbero a mio parere necessarie soprattutto per
quel che riguarda le autovalutazioni. Si incontrano spesso nel rapporto frasi
come la seguente: “sono alte le percentuali di coloro che dicono di parlare
una lingua diversa dall’italiano (...) nel contesto familiare” (p. 82). O frasi
relative ad una vera e propria autovalutazione delle conoscenze di una
lingua. Ora, la sociolinguistica – da Labov in poi –
ha accertato senza
nessuna ombra di dubbio che la situazione formale “intervista” fa scattare
codici linguistici più “alti” e che i parlanti non descrivono correttamente i
loro reali comportamenti linguistici. Lavob ha impiegato tecniche specifiche
per ottenere campioni di “linguaggio spontaneo”, ma queste richiedono
tempo e controllo anche di alcune “spie” caratteristiche (come l’aumento
della velocità del parlato, delle risate di tipo nervoso, ecc.). Non credo ci si
possa fidare completamente delle autovalutazioni.
Un altro punto riguarda i giudizi su “facile” e “difficile” relativamente ad
una lingua, tema che riguarda sia l’aspetto dell’offerta che della domanda e
che traspare da molte interviste. Ora, il tema “facile/difficile” è spesso
trattato nella manualistica come uno dei “pregiudizi linguistici” insieme a
questioni come “lingue belle, lingue brutte”, “lingue logiche e lingue non
logiche”. In realtà la questione della difficoltà delle lingue è stato affrontata
di recente in un bel lavoro di McWhorth (2001) e ripreso in un lavoro di
Ceccagno e Scalise (2006) le cui conclusioni schematiche sono le seguenti:
-
A partire da che lingua per imparare che lingua?
-
Il punto di vista del parlante è diverso da quello dell’ascoltatore.
-
Facilità sintagmatica o paradigmatica?
-
Facilità e Ridondanza.
-
Per che attività linguistica?
-
Per che livello stilistico?
154
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Non è qui il caso di ripercorrere questo cammino che ci porterebbe a
questioni tecniche un po’ complesse (come facilità sintagmatica o
paradigmatica): basti qui osservare che la questione non può essere
affrontata in termini assoluti, ma in relazione a parametri come quelli qui
sopra numerati e probabilmente altri ancora. Ciò che in una lingua è difficile
ad un livello linguistico può rivelarsi facile ad altri livelli. Per esempio, se si
confronta la morfologia dell’italiano con quella del cinese, si vede
immediatamente come la prima sia infinitamente più complessa della
seconda. Ma se si considera il problema della scrittura allora il giudizio
viene rovesciato. Ed ancora: quando sentiamo parlare una lingua straniera,
di solito si osserva come sia difficile segmentare le unità della frase, ciò che
si traduce in un giudizio generico per cui “gli spagnoli, i francesi, ecc.
parlano in fretta”. In realtà tutti gli esseri umani possono parlare sia in fretta
che lentamente e quando parlano in fretta il parlante non-nativo ha
difficoltà, ma queste difficoltà derivano anche dal fatto che il parlante nonnativo non conosce i “demarcatori” delle unità.
Per esempio il francese ha l’accento sull’ultima sillaba di tutte le parole,
l’ungherese ha l’accento sulla prima sillaba di tutte le parole: ebbene,
l’accento in queste due lingue con accento a posizione fissa (diversamente
dall’italiano e dall’inglese per esempio che hanno accento libero) sono dei
“demarcatori”, sono cioè segnali che indicano quando una parola finisce (nel
caso del francese) o quando una parola inizia (nel caso dell’ungherese). Si
prenda ancora l’inglese: se una consonante occlusiva iniziale di parola (p, t,
ecc.) è aspirata, questo è indice di inizio di parola. Questi “segnali” vanno
studiati, capiti ed insegnati. Ma solo una preparazione raffinata può
organizzare queste informazioni lingua per lingua.
In conclusione: gli insegnanti non ricevono istruzione adeguata rispetto alle
teorie (e per colpa dell’organizzazione degli studi universitari) che – se
studiate in funzione di applicazioni mirate – potrebbero aiutare molto a
comprendere i meccanismi raffinati che ogni lingua possiede. E qui si
potrebbe fare un’altra osservazione che riguarda il fatto che le applicazioni
in Italia sono arretrate rispetto alle conoscenze generali che oggi abbiamo del
fenomeno “linguaggio umano”.
LETitFLY ‐ OSSERVAZIONI SULL’ANALISI DELLO SCENARIO EUROPEO E ITALIANO 155 Basterebbe pensare a dei siti web dove l’articolazione dei suoni è ben illustrata non solo con filmati ma anche con sezioni sagittali dell’apparato vocale e degli organi articolatori implicati nella formazione di ogni suono. Due siti molto interessanti possono essere: ‐ http://www.uiowa.edu/~acadtech/phonetics/about.html# ‐ http://www.paulmeier.com/ipa/charts.html Questa questione è un po’ simile alla situazione dei dialetti in Italia: ci si vanta di avere una ricchezza straordinaria di dialetti diversi, ma questi non sono stati adeguatamente studiati, per colpa soprattutto di una tradizione storicistica che ha privilegiato lo studio dell’evoluzione diacronica dal latino ai vari dialetti, relegando in ambiti ristretti lo studio del funzionamento sincronico a livello morfologico e sintattico dei dialetti. Così, anche lo studio delle applicazioni glottodidattiche ha fatto in Italia gran rumore ma non sono stati approntati strumenti didattici efficienti almeno adeguati a quanto oggi sappiamo delle lingue del mondo. Con gruppi di lavoro mirati si potrebbe disporre di strumenti più adeguati, più innovativi e all’interno di quadri “alla moda” (absit iniuria verbo...) come internet sarebbe in grado di offrire. Per concludere, LETitFLY sì ma con qualche aggiustamento in modo che si voli in right direction. Bibliografia Bisetto A., “Composizione con elementi italiani”, in Grossmann M. e Rainer F. (eds.), La Formazione delle parole in italiano, Niemeyer, Tuebingen, 2004, pp. 33‐51, pp. 53‐55. Ceccagno A. e Scalise S., “Composti del cinese: analisi delle strutture e identificazione della testa”, in Palermo A.M., La Cina e lʹaltro, Il Torco‐
liere, Napoli 2005, pp. 1‐29. Eurom 4: método do ensino simultâneo das linguas românicas, La Nuova Italia, Firenze, 1997, coordinato da C.B. Benveniste e A. Valli. 156 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO Graffi G. e Scalise S., Le lingue e il Linguaggio, Il Mulino, Bologna 2004. Guevara E. e Scalise S., V‐Compounding in Dutch and Italian, Cuadernos de Lingüística del Instituto Universitario Ortega y Gasset , Madrid – XI, 2004, pp. 1‐29. Mcwhorter H. John, “The World’s Simplest Grammars Are Creole Grammars”, in Linguistic Typology, 5, 2001, pp. 125‐166. Moro A. 2006, I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, Longanesi, Milano, 2006. Packard L. Jerome, The Morphology of Chinese. A Linguistic and Cognitive Approach, Cambridge University Press, New York , 2000. Salvi G.P. e Vanelli L., Nuova grammatica italiana, il Mulino, Bologna, 2004. Scalise S., Morfologia, Il Mulino, Bologna, 1994. Scalise S. (a cura di), Eurotaal: le lingue d’Europa, “Lingua e Stile”, 2000. Scalise S. (a cura di), I “Risultati della linguistica”, in Lingue e Linguaggio, 2003. Scalise S. e Ceccagno A., “Facile o difficile? Alcune riflessioni su italiano e cinese”, in Bosc F., Marello C., Mosca S. (a cura di), “Sapere per insegnare. Formazione di insegnanti di italiano LS/L2 fra scuola e università”, Loescher, Torino, 2006, pp. 153‐177. Scalise S. e Guevara E., Endocentricità ed esocentricità dei composti dell’italiano, presentato al IX Congresso Internazionale della Società di Linguistica Italiana, Prospettive nello studio del lessico italiano, Firenze, Giugno 2006. COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
157
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
UNA LETTURA SOCIOLINGUISTICA DEL RAPPORTO
LA DOMANDA DI FORMAZIONE LINGUISTICA
DELLE IMPRESE ITALIANE
Gaetano Berruto
Università degli Studi di Torino
Padova, 23 giungo 2006
1. Nella presente relazione prenderemo in esame, da una prospettiva
latamente sociolinguistica, i dati relativi alla domanda di formazione
linguistica da parte delle imprese, focalizzando l’attenzione sui problemi
sollevati dall’indagine che paiono più rilevanti sia in relazione alla
problematica della formazione sia in relazione più ampiamente alla politica
linguistica e culturale. Cominceremo con lo schizzare il significato generale
dei risultati, e passeremo poi a discuterne aspetti particolari.
La prima impressione epidermica che lasciano i dati del rapporto LETitFLY
su La domanda di formazione linguistica delle imprese italiane (Progetto
LETitFLY, Settembre 2006: d’ora in avanti, Domanda imprese) è quella di un
evidente scollamento fra gli atteggiamenti e i comportamenti: “tra il dire e il
fare c’è di mezzo il mare”, verrebbe da commentare di primo acchito con
una chiosa proverbiale. Infatti, le opinioni rilevate (che dovrebbero rivelare
gli atteggiamenti e le rappresentazioni che i soggetti si fanno della realtà) e i
comportamenti dichiarati (che, in relazione agli atteggiamenti, tale realtà
dovrebbero mettere in atto) appaiono contraddittori.
Occorrono qui un paio di precisazioni teorico-metodologiche, ben note agli
addetti ai lavori. Va infatti tenuto conto in primo luogo che si entra, con un
indagine del genere, nella problematica, più delicata forse di quanto può
apparire ai profani, del rapporto fra atteggiamenti e comportamenti in fatto
di lingua: rapporto che è mediato, non immediato, e può anche risultare
ambiguo; non sempre c’è coerenza tra atteggiamenti e comportamenti, e i
comportamenti non possono essere fatti derivare ipso facto dagli atteggiamenti (Berruto 1995, pp. 109-113). In secondo luogo, a proposito di indagini
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
158
condotte
con
questionari
che
mirino
a
rilevare
atteggiamenti
e
comportamenti dichiarati, occorre rilevare che non è affatto detto che le
risposte degli informatori corrispondono alla realtà di fatto. Bisogna infatti
sempre muoversi nello spazio fra ciò che effettivamente succede, ciò che le
persone pensano che succeda e ciò che le persone vorrebbero che succedesse.
Con queste cautele, comunque, i dati di inchieste con questionari sono
ampiamente usati in sociologia e in sociolinguistica, in quanto rappresentano l’unica modalità veramente efficace di accesso a grosse quantità di
dati rappresentativi, e consentono in ogni caso di apprezzare e analizzare
per lo meno quali sono le rappresentazioni dei soggetti sul fenomeno
indagato, rappresentazioni che sono di cruciale importanza per comprendere bene la situazione.
2. Esplicitato questo, si ricava come acquisizione fondamentale dalla
Domanda imprese che la stragrande maggioranza delle imprese sembra avere
coscienza dell’importanza e utilità generale (e dovremmo dire economica)
della formazione linguistica; ma, sempre detto in soldoni, le competenze
linguistiche del personale per la grande maggioranza delle imprese non
risultano avere un ruolo nella selezione, e la maggioranza delle imprese non
pare intenzionata ad intraprendere iniziative specifiche per un incremento
della formazione linguistica dei dipendenti.
Sembra, in altre parole, che ci sia una scarsa specificità dell’imprenditore in
relazione a competenze linguistiche. Semplificando molto, assistiamo al
profilarsi netto di un generico atteggiamento favorevole alla formazione
linguistica (che del resto non si vede come potrebbe presentarsi altrimenti: se
chiediamo in giro “è meglio sapere una lingua straniera o non saperne
nessuna?” è ovvio che tutti troveranno meglio sapere una lingua, senza che
questo peraltro abbia alcuna connessione con la disposizione e motivazione
effettiva a studiare e imparare le lingue, e tantomeno con l’impegno a farlo;
(si tratta di un common good); ma è diffuso un atteggiamento indifferente
verso il reale potenziamento della presenza delle lingue in azienda. Le
lingue tendono ad essere viste come un surplus, o un lusso, non certo
centrale per la vita dell’impresa.
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
159
Vi è, però, una seconda constatazione fondamentale, che corregge la prima
impressione. Infatti appare molto evidente una notevole divaricazione fra le
grandi imprese e le altre. Grandi differenze nei sottocampioni ci rivelano in
effetti due mondi quasi separati: le piccole e piccolissime imprese, caratterizzate da scarsissima sensibilità verso le lingue, e le grandi imprese, che
manifestano una sensibilità assai più sviluppata. Nel seguito, cercheremo
pertanto di discutere la dialettica fra questi due Leitmotiv della presente
ricerca sui bisogni linguistici delle imprese, sulla base di alcuni dati specifici
particolarmente significativi emergenti dall’indagine.
3. Se, seguendo il percorso dell’inchiesta, cominciamo la nostra disamina dal
dato grezzo generale riguardante la presenza di fatto nelle imprese di
addetti che usano lingue straniere, constatiamo che da questo dato molto
poco differenziato risulta che pur sempre in metà delle imprese vi sono
parlanti che si trovano ad utilizzare una lingua che non è l’italiano, e in un
quarto vi è personale straniero, presumibilmente parlante nativo di una
lingua diversa dall’italiano (v. tab. 1 [tab. 1 di Domanda imprese]). Quindi, la
presenza di lingue straniere appare tutt’altro che insignificante.
Tab. 1 - Presenza di lingue straniere nel personale
%
Presenza di addetti che usano lingue
Presenza di personale straniero
straniere
Sì
50,2
23,5
No
49,8
76,5
Una prima caratterizzazione interessante per chiarire la portata di questo
dato complessivo ci è fornita dalla tab. 2 [tab. 6 di Domanda imprese],
riguardante l’importanza attribuita agli obiettivi di sviluppo e miglioramento dell’azienda.
Emerge qui chiaramente la grande differenza fra le piccolissime imprese (e
in misura minore le piccole e medie imprese) e le grandi imprese. Per le
160
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
microimprese, nessun obiettivo raggiunge i 4 punti (su una scala da 0 a 5), e
in particolare risulta basso il livello di importanza attribuito all’affermarsi
sui mercati esteri ed aumentare il livello delle esportazioni (che va
naturalmente considerato l’obiettivo che più da vicino concerne le lingue); e
l’obiettivo privilegiato è quello di ridurre i costi di produzione. Mentre per le
grandi imprese solo il livello dell’obiettivo “promozione del marchio”
scende sotto il valore 4, e l’obiettivo considerato di più alto livello è quello
della formazione del personale (che anch’esso può avere importanti ricadute
sulla questione delle lingue). Per percepire meglio la nettezza della
contrapposizione fra le due categorie, si badi che la divaricazione fra il
valore medio minimo ottenuto (2,42) e quello medio massimo (4,33), essendo
la scala a 5 punti, corrisponde a una differenza del 38% abbondante
(traducendo in percentuali, fra il 48,4% e il 86,6%), e il valore più alto è quasi
il doppio di quello più basso; e la differenza per l’obiettivo “affermarsi
all’estero ecc.” è del 32%, anch’essa molto rilevante.
Tab. 2 - Grado di importanza degli obiettivi aziendali (scala 1-5)
OBIETTIVI
Microimprese
Pmi
Grandi
imprese
affermarsi all’estero/aumentare le
2,42
3,50
4,03
ridurre i costi di produzione
3,90
4,19
4,10
promuovere il marchio
3,53
3,67
3,70
formare il personale
3,87
3,73
4,33
ampliare la rete di
3,60
4,22
4,05
3,83
3,96
4,22
esportazioni
distribuzione/vendita
innovare il prodotto
È universalmente risaputa la grandissima presenza, e valenza, in Italia delle
imprese molto piccole (si parla infatti a volte al proposito, con abusata ma
efficace metafora, di “nanismo”); si tratta anzi, com’è noto, di un connotato
caratteristico che rende il sistema produttivo italiano unico nel panorama
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
161
economico delle nazioni sviluppate. La rilevanza di questa dicotomia appare
in tutta evidenza anche qui: la gerarchia degli obiettivi, a parità di ogni altro
fattore, è determinata in maniera sensibile dalle dimensioni delle imprese.
Tenuto conto della grande differenza fra le due categorie e del fatto ovvio
che le grandi imprese coinvolgono e interessano un numero molto più alto
di persone e sono quindi assai più consistenti e rappresentative demograficamente, si potrebbe osservare a questo proposito dal punto di vista della
metodologia dell’indagine che, per dare un quadro più esatto della
situazione generale ogni volta che si considerino i risultati globalmente,
sarebbe forse stato opportuno ponderare i dati attribuendo un valore più
rappresentativo alle grandi imprese: per intenderci, è più significativo, anche
e soprattutto per le conseguenze che ciò può avere ai fini della questione che
ci interessa in questa sede che, per dire, una sola grande impresa attribuisca
molta importanza all’obiettivo di affermarsi all’estero che non che un certo
numero di piccolissime imprese vi attribuisca relativamente poca importanza: 1 grande impresa conta assai di più, ai nostri scopi valutativi, dato
l’impatto assai più ampio che può avere in termini per lo meno del numero
di soggetti coinvolti, di 1 microimpresa.
Domanda imprese (p. 14) scrive comunque giustamente che si ricava da questi
dati un “profilo del campione […] piuttosto problematico, in quanto prevalgono atteggiamenti di chiusura, certamente dovuti alla prevalente
dimensione ridotta delle imprese, ma anche ad una scarsa propensione a
valutare positivamente la discontinuità che l’integrazione a livello mondiale
degli scambi sta innescando”.
4. Ma veniamo alle questioni che interessano direttamente le lingue. La
stessa Domanda imprese (p. 27) nota correttamente che “in generale si ottiene
un atteggiamento contraddittorio delle aziende rispetto alla possibilità di
utilizzare le lingue”. I dati sono in effetti lampanti a questo proposito, come
esamineremo meglio nel seguito: i tre quarti degli intervistati constatano la
necessità di avere personale con competenze linguistiche, ma la metà
affermano contemporaneamente che è inutile organizzare corsi di lingua e
ben i due terzi ritengono che nel lavoro è sufficiente avere competenze
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
162
linguistiche minime; un quarto afferma inoltre che le lingue straniere non
sono per loro di alcuna utilità; e quasi i due terzi non sottopongono ad
alcuna valutazione le competenze linguistiche nel reclutamento del personale. La conclusione della Domanda imprese è inevitabile (p. 27): le indicazioni
fornite segnalano “un certo scetticismo nei confronti delle lingue”.
Ma è davvero così, tale scetticismo è generale? Se scorporiamo i dati in
relazione alla dimensione delle imprese, notiamo subito differenze notevoli
su più questioni. Per esempio, quanto alle lingue ritenute più utili in
generale (v. tab. 3 [tab. 18 di Domanda imprese]).
Tab. 3 - Lingue straniere più utili in generale (%)
%
Totale
Microimprese
Pmi
Grandi imprese
inglese
99,4
99,3
99,9
100
tedesco
28,3
27,6
31,9
45,4
francese
27,7
28,1
25,5
26,2
spagnolo
19,7
19,1
24,2
22,9
cinese
7,3
7,3
7,6
2,6
russo
1,9
2,0
0,9
0,4
giapponese
0,8
1,0
-
-
altre
0,3
0,4
-
-
Accanto all’ovvia predominanza assoluta dell’inglese, spicca qui il rapporto
in un certo senso inverso tra tedesco e cinese. Il tedesco ha una posizione di
notevole rilevanza, come lingua trainante in Europa, e spicca per l’utilità che
gli viene attribuita dalle grandi imprese, di cui quasi metà, contro poco più
di un quarto delle microimprese, lo menziona posizionandolo al secondo
rango per importanza con 20 punti percentuali di vantaggio sul francese; le
piccolissime imprese invece menzionano il cinese (e anche il russo, sia pure
con percentuali molto basse) all’incirca tre (e rispettivamente quattro) volte
di più che non le grandi imprese. In generale, le microimprese presentano
poi una dispersione maggiore dei valori, mentre le grandi imprese tendono a
concentrarsi di più su un drappello ristretto di lingue fondamentali.
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
163
5. L’immediato contraltare ai dati circa la percezione del grado di utilità
generale delle lingue straniere è fornito dai dati relativi alle lingue che
risultano specificamente utili alle singole aziende (v. tab. 4 [tab. 20 di
Domanda imprese]). Essi ci danno un quadro del tutto corrispondente al
precedente, fatta salva una certa emergenza dell’arabo, che compare al sesto
posto, con l’1% (stupisce invece un po’, ma avrà le sue ragioni specifiche, la
presenza dell’albanese fra le nove lingue più menzionate).
Tab. 4 - Lingue straniere più utili per le singole aziende (%)
1. inglese 71,9
6. arabo 1,0
2. tedesco 20,6
7. albanese, giapponese, russo 0,4
3. francese 17,6
10. romeno, altre lingue comunitarie 0,2
4. spagnolo 6,7
12. altre lingue slave 0,5
5. cinese 2,0
Il dato più significativo è tuttavia qui che ben il 25% delle imprese (24,6%
globalmente, con la solita diversificazione fra microimprese, 25,2%, e grandi
imprese, 12,0%) affermi di non avere nessun bisogno di conoscenza di lingue
straniere. Che dà dunque da presumere che nell’epoca di internet un quarto
delle imprese italiano non si trovi ad avere alcun contatto con lingue
straniere (dato a prima vista incredibile)! Con buona pace dello stucchevole
ritornello “delle tre I” (Impresa, Internet, Inglese) che si è sentito ripetere alla
noia negli ultimi anni…
A completare il quadro della presenza delle lingue nelle aziende, è
opportuno ora considerare, per le aziende in generale che hanno dichiarato
di avere addetti che utilizzano le lingue straniere per lo svolgimento
dell’attività, quali siano le lingue utilizzate dagli addetti (v. tab. 5 [tab. 31 di
Domanda imprese]).
164
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Tab. 5 - Lingue straniere utilizzate dagli addetti in azienda (%)
1. inglese 92,5
2. francese 32,3
3. tedesco 19,7
4. spagnolo 8,6
5. russo 1,3
6. arabo 0,9
7. cinese 0,8
8. giapponese, svedese, altre lingue slave 0,3
9. albanese 0,2
10. olandese, romeno 0,1
11. altre 0,2
Il dato meritevole di commento è qui che il francese emerge decisamente al
secondo posto, scavalcando il tedesco che lo precedeva sia nella graduatoria
di utilità generale percepita sia in quella delle lingue più utili per l’azienda.
È evidente che tale risultato va riportato al fatto assai banale che nel nostro
paese le conoscenze di francese (fino a un paio di decenni fa la lingua
straniera più studiata a scuola) sono tuttora largamente più diffuse nella
popolazione che non quelle di tedesco. Più significativa, pur nell’esiguità dei
valori percentuali, ci sembra la constatazione che, se scorporiamo i dati delle
imprese dei distretti, vi appare menzionato (0,5%, alla pari con olandese,
romeno e svedese) anche il turco. La presenza sia pure molto marginale di
svedese e olandese conferma la rilevanza che hanno i rapporti con il mercato
mittel- e nordeuropeo, già sottolineata dall’importanza del tedesco, che si
profila chiaramente per le imprese come la seconda lingua straniera – la
prima in realtà, dato che il primo posto dell’inglese, lingua della tecnologia e
delle scienze, del commercio, del potere economico e politico mondiale e
della globalizzazione (v. una disamina essenziale della questione in Crystal
2005), è di default. Nemmeno la presenza marginale del romeno stupisce,
dati i rapporti che, specialmente nel settore delle piccole imprese, legano in
particolare l’Italia di Nord-Est con la Romania. Possiamo citare a questo
proposito due fatti, fra gli altri, poco più che aneddotici, ma comunque
sintomatici. È noto che esiste da anni, tre giorni la settimana, un volo
regolare Verona-Timişoara. Ed è una vera leccornia dal punto di vista
sociolinguistico la pubblicazione, sempre a Verona, di un Breve dizionario
Veneto-Romeno, Român-Veneto. Par badanti, butei, fameje (Edimago, Verona
2004, € 9,50), che sarà certo destinato primariamente alle badanti, ma che
evidenzia comunque la presenza della lingua romena per così dire sul
mercato nell’Italia nordorientale.
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
165
Il linguista, ma anche il profano, sarà poi interessato a un confronto fra la
gamma delle lingue in qualche modo presenti nelle rappresentazioni e nella
realtà del mondo imprenditoriale e la lista delle “grandi lingue” del mondo.
Diamo anzitutto il panorama delle lingue demograficamente più importanti,
in termini del numero assoluto di parlanti di madrelingua (v. tab. 6).
Tab. 6 - Le lingue del mondo col maggior numero di parlanti nativi (2003; parlanti
in milioni; fra parentesi l’incremento percentuale in vent’anni, dal 1983; da Mioni
2005, p. 8)
1. cinese sett
902 (+21%)
19. coreano
72 (+14%)
2. hindi-urdu
457 (+32%)
20. panjabi (India)
74 (+39%)
3. inglese
384 (+24%)
21. francese
74 (+2,7%)
4. spagnolo
366 (+32%)
22. italiano
70 (+5,7%)
5. arabo
254 (+36%)
23. persiano-darí-tagico
68 (+47%)
6. bengali
198 (+28%)
24. turco osmanli
63 (+28%)
7. portoghese
171 (+27%)
25. min del Sud (Cina)
60 (+26%)
8. russo
160 (+1,2%)
26. xiang (Cina)
53 (+20%)
9. indones.-malese
157 (+33%)
27. tagalog (Filippine)
50 (+42%)
10. giapponese
132 (+6,8%)
28. gujarati (India)
11. tedesco
98 (+3%)
49 (+26,5%)
29. hakka (Cina)
47 (+23%)
12. wú (Cina)
93 (+19%)
30. thai (Thailandia)
46 (+13%)
13. giavanese
85 (+27%)
31. swahili (Africa Or.)
44 (+30%)
14. telugu (India)
85 (+30%)
32. malayalam (India)
41 (+29%)
15. marathi (India)
76 (+30%)
33. kannada (India)
40 (+29%)
16. cantonese (Cina)
75 (+26%)
34. hausa (Nigeria)
40 (+25%)
17. vietnamita
75 (+32%)
35. polacco
39 (+0,9%)
18. tamil (India)
73 (+27%)
36. ucraino
39 (+ 0,9%)
Accanto a questa graduatoria aggiornata basata sul numero presuntivo di
persone che parlano la lingua come lingua materna, sarà utile un confronto
con una graduatoria, sia pure meno aggiornata nei dati (sempre presuntivi, e
quindi a volte discordanti in dipendenza della fonte), che tenga conto anche
del numero di parlanti non nativi, cioè delle persone che parlano una certa
lingua avendola imparata, a scuola o in altro modo, come lingua seconda,
come nella seguente tab. 7.
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
166
Tab. 7 - Lingue del mondo (da Berruto 2004, p. 32; dati al 1999-2000, cifre tra
parentesi in milioni):
per numero
(stimato) di
parlanti nativi
per numero
(stimato) di
parlanti
differenza
percentuale
numero di
paesi in cui vi
sono gruppi
parlanti
cinese mandarino
1. (800)
1. (1000)
+ 25%
16
hindi/urdu
2. (550)
3. (900)
+ 64%
23
inglese
3. (400)
1. (1000)
+ 150%
105
spagnolo
3. (400)
4. (450)
+ 12,5%
44
arabo
5. (200)
6. (250)
+ 25%
30
bengali
6. (190)
6. (250)
+ 32%
9
portoghese
7. (180)
6. (250)
+ 39%
34
russo
8. (170)
5. (320)
+ 88%
31
malese/indonesiano
9. (165)
9. (190)
+ 15%
8
giapponese
10. (120)
10. (130)
+ 8%
27
tedesco
11. (100)
11. (125)
+ 25%
41
francese
12. (90)
11. (125)
+ 39%
54
wú
13. (85)
coreano
17. (75)
vietnamita
17. (75)
italiano
19. (70)
(75-80?)
+ 7-14%?
30 [4]
In rapporto alla nostra questione delle lingue nella rappresentazione delle
imprese, non vi sono in realtà grandi osservazioni da fare, al di là della mera
constatazione di presenze e assenze la cui spiegazione appare del tutto
ovvia. È tuttavia non privo di interesse che sia estranea al panorama delle
lingue di qualche rilevanza per le imprese una lingua neolatina come il
portoghese, dotata di un retroterra ampio e potenzialmente fra i più
promettenti dal punto di vista economico qual è il Brasile.
Considerazioni analoghe si hanno facendo invece riferimento alla presenza
delle lingue in internet (v. tab. 8, tratta da B. Lanvin, L’anglais sur Internet,
colosse aux pieds d’argile, “Le Temps”, 16 settembre 2005, p. 18; cifre un po’
diverse, relative ad anni diversi, ma della stessa valenza, sono fornite da
Pennisi 2005).
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
167
Tab. 8 - Lingue in internet (luglio 2005)
utenti in milioni
utenti in % sul totale utenti
di internet
1. inglese
297
31,6
2. cinese
124
13,2
3. giapponese
78
8,3
4. spagnolo
61
6,4
5. tedesco
55
5,9
6. francese
39
4,1
7. coreano
32
3,4
8. italiano
29
3,0
9. portoghese
29
3,0
10. olandese
15
1,6
totale 10 lingue
756
80,5
altre lingue
183
19,5
totale mondiale
939
100
Fra le nove lingue, oltre all’italiano, più rappresentate in internet e che
coprono nell’insieme i quattro quinti dei siti e degli scambi in rete, coreano e
portoghese non rientrano nella dozzina di lingue più menzionate dalle
imprese: per la ragioni anzidette, la cosa pare un po’ strana per il portoghese, mentre la grande distanza linguistica, evidentemente non
compensata da una sufficiente massa critica di attività economica, vale a
spiegare l’assenza del coreano.
6. Veniamo ora al giudizio dato dalle imprese sulle conoscenze linguistiche
del personale e sulla loro utilizzazione. Domanda imprese (p. 37) nota
giustamente anche qui che risulta una potenziale contraddizione: infatti
“dalle opinioni espresse si inferisce l’esistenza di una divaricazione tra
percezione d’utilità e acquisizione in azienda di conoscenze, competenze,
abilità
linguistiche.
Queste
ultime
sembrano,
infatti,
rappresentare
sostanzialmente un asset aziendale, se proiettato all’esterno del proprio
contesto di riferimento”. Ma di nuovo occorre sottolineare che le
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
168
microimprese e le grandi imprese paiono configurare due mondi aziendali
completamente diversi. È quello che emerge in maniera spiccata e concorde
dai dati relativi all’utilità attribuita al personale con conoscenze linguistiche
(v. tab. 9 [tab. 23 di Domanda imprese]), da quelli circa le funzioni aziendali
per le quali sono valutate le competenze linguistiche nella selezione del
personale (v. tab. 10 [tab. 25 di Domanda imprese], da quelli riguardanti le
iniziative ultimamente intraprese per la formazione linguistica del personale
(v. tab. 11 [tab. 32 di Domanda imprese]).
Tab. 9 - Grado di utilità del personale con conoscenze linguistiche (%)
Microimprese
Pmi
Grandi imprese
molto
18,9
38,2
45,5
abbastanza
30,5
24,2
31,5
poco
30,4
20,1
20,7
per niente
19,9
17,5
1,6
Tab. 10 - Funzioni per le quali sono valutate le competenze linguistiche in sede di
selezione (%)
Totale
Grandi imprese
NESSUNA
66,1
21,9
addetti alla commercializzazione
17,3
50,3
impiegati
15,9
55,7
dirigenti
6,4
43,9
funzionari/quadri
5,4
43,0
operai
4,1
3,8
Tab. 11 - Corsi/iniziative per la formazione linguistica del personale negli ultimi
due anni (%)
Microimprese
Pmi
Grandi imprese
4,1
5,8
43,1
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
169
Le cifre parlano da sole: sulla base di una diffusione in generale (anche nelle
grandi imprese) meno ampia di quel che sarebbe auspicabile della
convinzione dell’utilità del sapere le lingue, solo meno di un quinto delle
piccolissime imprese, contro quasi la metà delle grandi imprese, giudica
“molto utile” il personale con competenze linguistiche; e ben un quinto delle
piccolissime imprese lo giudica “per niente utile”.
Le differenze fra i due mondi diventano macroscopiche riguardo alle
funzioni all’interno dell’impresa per le quali sono richieste o augurabili, e
dunque valutate al momento della selezione del personale, conoscenze
linguistiche: per addirittura i due terzi delle imprese in generale non
vengono valutate nella selezione del personale conoscenze linguistiche per
nessuna funzione, mentre lo vengono almeno per qualche funzione in quasi i
quattro quinti delle grandi imprese (ma va osservato anche che, v. tab. 27
della Domanda imprese, quando vengono valutate lo sono in quasi la metà dei
casi solo mediante le autodichiarazioni dei candidati); inoltre più dei due
quinti delle grandi imprese valutano competenze linguistiche per dirigenti e
vertici aziendali e per funzionari e quadri, di fronte a un misero 5-6% in
generale. Stessa proporzione, con cifre pressoché trascurabili per le
microimprese e per le piccole e medie imprese, si ha quanto all’aver
organizzato recentemente corsi e attività per la formazione linguistica del
personale. Inoltre, laddove siano state intraprese iniziative per la formazione
linguistica (v. tab. 34 di Domanda imprese), nelle grandi imprese queste hanno
riguardato gli impiegati nell’82,2% dei casi e funzionari e quadri nel 56,8%
dei casi contro i soli 33,5% e 14,6% rispettivamente nelle microimprese.
Anche per quel che riguarda le lingue che sono state oggetto di formazione,
le grandi imprese si differenziano sia per la sensibilmente maggiore (a parte
naturalmente l’onnipresenza di default dell’inglese) quantità relativa
dell’attenzione rivolta che per la gamma delle lingue studiate, mentre le
microimprese e le piccole e medie imprese sono concentrate pressoché
esclusivamente sull’inglese (v. tab. 12 [tab. 36 di Domanda imprese]).
Ancor più significativa è la divaricazione circa eventuali iniziative future a
breve termine per la formazione linguistica (v. tab. 13 [tab. 45 di Domanda
imprese]): più dei due terzi delle piccolissime imprese, e quasi i due terzi
170 PROGETTO LETitFLY ‐ ATTI DEL CONVEGNO delle piccole e medie imprese, dicono “sicuramente no”, mostrandosi dunque del tutto disinteressate alla questione, mentre un terzo delle grandi imprese si dichiarano sicuramente intenzionate a organizzare corsi o attività, contro un trascurabile due e mezzo per cento delle piccolissime imprese. Una volta di più, l’interesse verso le lingue e la formazione linguistica appare direttamente proporzionale alla dimensione delle imprese, che risulta allora dal complesso di questa indagine la variabile di gran lunga più significativa e determinante, il più netto e principale fattore di variazione, quanto al rapporto fra impresa e lingue. In generale comunque la propensione ad organizzare attività di formazione linguistica non risulta spiccata: nota giustamente la Domanda imprese (p. 59) che “sommando insieme chi propende per il no con chi ritiene che sicuramente non effettuerà nessun intervento formativo, anche per le grandi imprese otteniamo una propensione negativa (47,6%)” (superiore sia pure di pochissimo alla speculare propensione positiva, 46,4%). Tab. 12 ‐ Lingue studiate nei corsi/iniziative di formazione negli ultimi due anni (%) Microimprese Pmi Grandi imprese inglese 100 100 96,6 tedesco 3,5 4,9 14,4 spagnolo 2,7 4,7 3,8 francese ‐ 9,4 20,6 russo ‐ ‐ 1,0 Quanto alle lingue che la minoranza di imprese ha risposto di voler sicuramente o probabilmente fare oggetto di formazione (e questa volta le differenze fra le grandi imprese e le altre non sono più così nette, se non per il francese: 22,7% per le grandi imprese contro 6,5% per le microimprese), il panorama è ovviamente dominato dall’inglese. Nel drappello delle altre lingue commercialmente appetibili, il secondo posto è del tedesco, ma con 83 punti percentuali di distacco dall’inglese, e le altre lingue sono relegate a percentuali inferiori al 10% (v. tab. 12 [tab. 47 di Domanda imprese]). COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
171
Tab. 13 - Propensione alla formazione linguistica nei prossimi due anni (%)
Microimprese
Pmi
Grandi imprese
sicuramente no
67,7
62,8
18,5
probabilmente no
19,5
20,5
29,1
probabilmente sì
6,9
9,3
13,5
sicuramente sì
2,6
4,8
32,9
Tab. 14 - Lingue oggetto di formazione nei prossimi due anni (%)
1. inglese 94,5
4. spagnolo 2,1
2. tedesco 11
5. cinese, russo 1,0
3. francese 9,5
7. giapponese 0,8
7. A questo punto sarà interessante confrontare il quadro che risulta dalle
opinioni e dalle affermazioni delle imprese col panorama che risulta
dall’indagine svolta sulla popolazione italiana complessiva, facendo
riferimento ai risultati esposti nell’altro rapporto LETitFLY su La domanda di
formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY, Settembre 2006: d’ora in
avanti Domanda popolazione). Vedremo quindi la situazione com’è fotografata
dal punto di vista delle aziende e com’è fotografata dal punto di vista dei
potenziali utenti, in un certo senso “dalla parte dei lavoratori” contrapposta
alla “parte dei datori di lavoro”.
La graduatoria delle lingue conosciute dalla generalità della popolazione e
in relazione ad alcuni fattori sociali rilevanti (v. tab. 15 [tabb. 1, 4 e 5 di
Domanda popolazione]) non può che mostrare l’ovvia predominanza
dell’inglese. I due terzi della popolazione affermano comunque di conoscere
almeno una lingua straniera: si tratta indubbiamente di una percentuale alta,
su cui andrà fatta la tara di che cosa voglia veramente significare dichiarare
di “sapere una lingua”, abilità che, per poter essere adeguatamente valutata
al di là delle impressioni soggettive, andrebbe testata con appositi strumenti.
La conoscenza dichiarata di lingue straniere correla comunque fortemente
con l’età: solo meno di un decimo della classe d’età dei giovani dice di non
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
172
conoscere alcuna lingua straniera, e ben quasi il novanta per cento denuncia
conoscenze di inglese; la conoscenza dell’inglese crolla a un misero 15%
nella classe d’età più anziana, presso la quale invece (così come nella classe
d’età 45-64) il francese precede nettamente l’inglese: la curva rilevata
dall’indagine riflette dunque molto bene l’inversione verificatasi fra gli anni
Settanta e Ottanta tra francese e inglese come prima lingua straniera
insegnata nelle scuole. Peraltro i quasi due terzi degli anziani dichiarano di
non conoscere alcuna lingua straniera, il che riflette certamente l’aumento
medio del grado di istruzione per le giovani generazioni.
La controparte più diretta dell’universo imprenditoriale indagato, quella
quindi che ci interessa più direttamente in questo confronto, è ovviamente
costituita dalla popolazione con occupazione dipendente. Essa mostra
mediamente una conoscenza delle lingue straniere lievemente maggiore che
nel complesso della popolazione; e soltanto poco più di un quinto dei
dipendenti afferma di non conoscere nessuna lingua.
Tab. 15 - Lingue straniere conosciute dalla popolazione italiana (%)
totale
15-24 a.
25-44 a.
45-64 a.
>64 a.
con occupazione
dipendente
inglese
45,4
87,7
59,5
32,4
15,0
55,7
francese
35,5
39,5
35,7
40,1
26,5
40,5
tedesco
7,0
11,1
6,9
5,4
6,6
8,2
spagnolo
5,6
8,3
5,4
5,0
4,9
4,8
altre
3,3
1,8
3,0
3,1
4,7
2,8
nessuna
33,8
8,6
22,8
39,2
59,5
22,5
Tale quadro sostanzialmente ottimistico (con le riserve accennate sopra sulle
reali abilità in lingua straniera dei parlanti che dichiarano di conoscere
lingue) circa la presenza delle lingue straniere nella popolazione in generale
e nella popolazione occupata in particolare va però incontro a una delusione
quando si vanno a vedere le cifre relative all’effettiva utilizzazione della
lingua straniera conosciuta sul lavoro (v. tab. 16 [tab. 14 di Domanda
popolazione]).
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
173
Tab. 16 - Utilizzazione della lingua straniera sul lavoro da parte della popolazione
occupata dipendente che conosce una lingua (%)
sì, attualmente
sì, in passato
no, mai
34,4
3,8
61,8
Quasi i due terzi degli intervistati che hanno un’occupazione dipendente e
hanno qualche competenza di una lingua straniera infatti non hanno
attualmente e non hanno mai avuto in passato l’occasione di usare tale lingua
sul lavoro. Siamo in presenza di un mondo aziendale fondamentalmente
monolingue; si conferma pienamente qui, dal lato dei lavoratori dipendenti, la
concezione delle conoscenze di lingue straniere come un extra non importante
nel mondo della produzione, un surplus inessenziale, che era emersa dalle
opinioni degli imprenditori (v. par. 2 sopra).
Sarebbe a tal proposito anche interessante, per completare il quadro effettivo
delle lingue nell’impresa italiana, compiere un’indagine capillare su vasta
scala circa la presenza di requisiti di competenze linguistiche nelle offerte
d’impiego. Una recentissima indagine dell’Unioncamere e del Ministero del
Lavoro e della Previdenza Sociale (Rapporto Excelsior 2006. Alcune tendenze
evolutive del mercato del lavoro in Italia, p. 60) rileva che fra il 2005 e il 2006 il
numero delle assunzioni di diplomati di scuola secondaria a indirizzo
linguistico è aumentato del 12,5%. Sarebbe bene saperne di più e più in
dettaglio, su tali aspetti della questione. Certamente siamo in ogni caso in
una situazione a priori ben diversa da quella di un piccolo paese multilingue
come il Lussemburgo, dove per esempio un’indagine (Pigeron-Piroth/Fehlen
2005) rilevava nel 2004 che su un campione di 1075 offerte di lavoro apparse
nel giornale Luxemburger Wort meno di un terzo (il 31,5%) non richiedeva
alcuna conoscenza linguistica, mentre il 33,8% richiedeva addirittura tre
lingue, il 19,5% due lingue, il 9,7% una lingua e il 5,4% quattro lingue. E con
una diminuzione progressiva delle offerte senza requisiti di conoscenze
linguistiche dal 53,8% del 1984 al 31,5%, appunto, del 2004. Le cifre italiane
per forza non potrebbero mai essere paragonabili, essendo troppo diverse la
situazione e le condizioni delle rispettive comunità parlanti; ma il 16,5% pare
davvero poco…
174
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Sempre nell’ottica di un approfondimento della ricerca, appare a posteriori
che sarebbero state utili domande specifiche su quando specificamente viene
utilizzata, in quali occasioni e per quale scopo in concreto una lingua
straniera in una data impresa. E sarebbero state utili, in questa prospettiva
microsociolinguistica di ricostruzione della vita aziendale delle lingue, anche
interviste a dipendenti dell’impresa che conoscessero una lingua straniera.
Una certa divaricazione fra le immagini e le prospettive delle imprese e
quelle della popolazione occupata dipendente emerge anche confrontando la
paletta di lingue per cui le imprese hanno recentemente offerto o intendono
a breve offrire iniziative di formazione con la paletta di lingue straniere che
si ha intenzione di imparare (per inciso, sarebbe tuttavia meglio parlare di
lingue che si ha intenzione di “studiare”) da parte della popolazione in
generale. Anzitutto, va però segnalato qua il dato sconfortante, che fa
stavolta perfetto parallelo con la prospettiva delle imprese (v. sopra tab. 11),
di un generalizzato disinteresse nella popolazione a imparare lingue
straniere in futuro: più di metà degli intervistati si dice sicuramente non
intenzionato a imparare una (nuova) lingua straniera, e tre quarti
abbondanti (78,1%) manifestano al proposito un atteggiamento negativo;
atteggiamento negativo prevalente anche nei quasi due terzi (63,6%) della
classe d’età più giovane (v. tab. 17 [tab. 32 di Domanda popolazione]).
Tab. 17 - Intenzione di imparare una lingua straniera in futuro da parte della
popolazione (%)
totale in generale
15-24 anni
sicuramente no
52,9
27,5
probabilmente no
25,2
36,1
probabilmente sì
17,9
28,4
sicuramente sì
4,0
8,0
Rispetto alle intenzioni di offerta delle imprese, che si concentrava su un
piccolo gruppo di lingue con assoluta preminenza dell’inglese (cfr. tabb. 12 e
14 sopra), qui vi è invece una certa dispersione, e l’inglese pur essendo al
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
175
primo posto non raggiunge nemmeno la metà delle designazioni di interesse
(v. tab. 18 [tab. 33 di Domanda popolazione]). Suscita notevole interesse lo
spagnolo (forse perché viene percepita, ed esaltata, la sua vicinanza genetica
e strutturale con l’italiano, che equivale ad una maggiore facilità di
apprendimento), e quasi tutte le principali lingue sullo scenario mondiale ed
europeo (cfr. tabb. 6, 7 e 8 sopra) sono rappresentate, sia pure con cifre
percentuali molto basse.
Tab. 18 - Lingue straniere che si ha intenzione di imparare in futuro (%)
inglese 42,8
portoghese 1,1
spagnolo 32,9
olandese 0,5
tedesco 10,1
greco 0,4
francese 9,5
albanese 0,2
arabo 3,8
danese 0,2
cinese 2,7
svedese 0,2
russo 2,4
altre 0,7
giapponese 1,3
Infine, un dato utile a completare il quadro del confronto fra opinioni e
intenzioni delle imprese e opinioni e intenzioni della popolazione è fra gli
altri quello delle aspettative di quest’ultima circa le istituzioni che
dovrebbero farsi carico dei costi dell’insegnamento di lingue straniere. Qui
le opinioni sono decisamente stataliste e centraliste: più dell’85% degli
intervistati afferma che la diffusione della conoscenza delle lingue è una
questione pubblica, che i costi dovrebbero essere assunti dallo stato (ben i tre
quarti degli intervistati) o dalle regioni o province (v. tab. 19 [tab. 28 di
Domanda popolazione]). Il che è perfettamente coerente con l’immagine delle
conoscenze delle lingue come, tutto sommato, poco specifiche e non troppo
interessanti in ambito economico-produttivo, che viene chiaramente fuori
dalla presente indagine. In particolare, un’infima minoranza anche fra i
lavoratori dipendenti è dell’opinione che le spese dovrebbero essere
sostenute dalle imprese stesse.
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
176
Tab. 19 - Chi dovrebbe sostenere le spese per l’apprendimento di lingue straniere
(%)
popolazione in
generale
popolazione occupata
dipendente
Pubblica Amministrazione centrale
74,0
70,9
Pubblica Amministrazione locale
13,6
15,3
l’interessato
6,3
6,2
le imprese
3,2
4,3
sia il pubblico che il privato
1,2
1,9
Il quadro delle lingue in azienda nell’Italia di oggi potrà poi essere integrato
anche con un cenno al comportamento linguistico degli immigrati (che
costituiscono uno dei gruppi bersaglio opportunamente messi a fuoco nella
Domanda popolazione). I dati (v. tab. 20 [tab. 43 di Domanda popolazione])
confermano il generalmente ampio apprendimento e la grande diffusione
dell’italiano come lingua franca presso gli immigrati messo in luce dalla
copiosa ricerca sociolinguistica su lingue e immigrazione in Italia (v. per es.
Giacalone Ramat, 2003; Chini, 2004).
Tab. 20. Lingua usata sul lavoro da parte degli immigrati (%, N = 201) [Fonte: La
domanda di formazione linguistico in Italia, Progetto LETitFLY, Novembre 2006.
italiano 90,4
lingua materna 4,8
altra lingua 4,8
8. Veniamo ora a considerazioni conclusive e a un commento generale.
L’esame che abbiamo compiuto, selezionando quelli che ci sembravano i
principali risultati dell’indagine sulla domanda di formazione linguistica
presso le imprese, permette di arrivare ad alcune conclusioni. Potremmo
formularle riassuntivamente come segue. Sia per la società nel suo
complesso che per i singoli cittadini, una lingua è allo stesso tempo un bene
culturale ed ecologico e una risorsa economica. In Italia per lunga tradizione
il plurilinguismo non è tuttavia considerato una risorsa veramente
importante. Non appare veramente radicato negli atteggiamenti della
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
177
popolazione il principio che sapere (parlare) una lingua straniera
rappresenta un notevole valore aggiunto, non solo culturalmente ma anche
economicamente. E se una lingua straniera è importante, questa ha da essere
necessariamente l’inglese, lingua globale internazionale.
Ancora ad inizio Terzo Millennio quindi, nonostante i grandi mutamenti
economico-culturali avutisi soprattutto sul piano della comunicazione
nell’ultimo ventennio del ventesimo secolo, e le spinte sempre più forti alla
globalizzazione, le opinioni espresse condivise, pur certamente favorevoli in
linea di principio al plurilinguismo, paiono essere un fatto superficiale, non
un costituente profondo nella coscienza collettiva dei parlanti. Tale
situazione generale si riflette grosso modo anche nel mondo delle imprese.
Gli atteggiamenti degli ambienti imprenditoriali in fatto di lingue
riproducono in buona parte, e con differenziazioni interne, quelli che sono
stereotipi e atteggiamenti vigenti nella comunità sociale nel suo complesso.
Sviluppando il discorso, sono necessarie, per poter discutere più a fondo del
significato del problema di cui ci stiamo occupando, ulteriori premesse.
Occorre infatti tener conto anche dei presupposti recentemente sviluppati in
economia dell’educazione e in economia delle lingue, nuovi settori di ricerca
interdisciplinare (Grin, 1999; Grin, 2005) che sono specialmente rilevanti per le
tematiche di LETitFLY. Ci limitiamo qua a richiamarne sommariamente alcuni
dei concetti più salienti ai nostri scopi. In economia dell’educazione, è
ampiamente assodata una teoria basilare del capitale umano, secondo cui “un
attore che detiene certe competenze è più produttivo che se non le avesse”
(Grin 1999, p. 43; traduzione mia, qui come nel seguito): saper fare certe cose
(e quindi aver acquisito le competenze necessarie a farle) rappresenta un
vantaggio per la produttività; assioma che pare ovvio, ma che è gravido di
conseguenze anche magari in puri termini di teoria economica.
Sapere una lingua è un tipico esempio di saper fare una cosa; e una cosa
complessa, specialmente importante nel mondo attuale dominato dalla
comunicazione. In economia della lingua, è altrettanto assodato ormai che la
lingua costituisce un valore (una risorsa, una ricchezza) misurabile
economicamente. In particolare, c’è “un valore mercantile delle competenze
in lingue seconde [che] si traduce nei differenziali salariali che toccano alle
178
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
persone dotate di queste competenze”: Grin (1999, p. 35) giunge a tali
conclusioni mostrando molto bene, sulla scorta di dati oggettivi,
“misurabili”, come in Svizzera non solo il sapere l’inglese (com’era da
aspettarsi) ma anche il sapere una delle due lingue nazionali diversa dalla
propria (è noto che la Confederazione Elvetica ha tre lingue nazionali,
tedesco, francese e italiano, ciascuna con una sua area territoriale) porti a un
tasso di remunerazione più alto sul mercato del lavoro. Che le cose stiano
così, a ben vedere, ha la sua ovvia ragione nel fatto che tra lingua ed
economia c’è un rapporto molto più intimo di quanto non sembri, dato che
la lingua fa parte per così dire inosservata, automatica, del nostro agire
quotidiano: tutte le fasi della vita economica, vale a dire la produzione, la
distribuzione, lo scambio e il consumo di beni e di servizi, si svolgono in un
contesto linguistico dato e l’attività linguistica è un componente diretto del
loro svolgersi (seguo sempre la stringente argomentazione di Grin 1999).
D’altra parte, accanto a valori economici misurabili, che riguardano il
benessere materiale (chiamiamoli valori E), ci sono evidentemente valori non
economici e non misurabili monetariamente, che riguardano il benessere
ambientale e culturale in senso lato (chiamiamoli valori C). E tutt’e due i tipi
di valori vanno tenuti presenti, a livello generale, in un panorama che non è
più solo di economia e formazione, ma diventa di politica.
Si pongono qui, in termini di scelte e strategie politiche, problemi di ampia
portata. Il primo problema da risolvere è il problema di fondo: scegliere se
sviluppare le lingue straniere oppure no, lasciando andare le cose per loro
conto. Se si assume che sia altamente vantaggioso, come ci sono tutte le
ragioni per credere, sviluppare le lingue straniere, e che quindi la prima
opzione si imponga necessariamente, nasce come corollario un secondo
problema: come rendere operativamente imprese e cittadini più consci
dell’importanza delle lingue straniere e più motivati verso la formazione
linguistica. Questo secondo problema ne alimenta un terzo, che chiameremo
“problema dell’inglese”: scelto di sviluppare le lingue, e motivando a ciò il
mondo imprenditoriale e la popolazione in generale, quali lingue
promuovere? Solo l’inglese, o l’inglese più altre lingue (per una dibattito
analogo a livello europeo, v. già Sociolinguistica, 1994)?
Il predominio dell’inglese, se sembra in generale ovvio e assodato per molti
COSA C’È ‘DI MEZZO FRA IL DIRE E IL FARE’?
179
motivi, e se in particolare fuoriesce indiscutibile anche dalla presente
indagine, non è tuttavia esente da punti critici di carattere generale, che
devono per lo meno far riflettere e discutere una collettività che voglia essere
sensibile alle ragioni culturali profonde. La questione trascende peraltro il
problema della mera formazione linguistica, giacché stiamo assistendo a una
trasformazione dei rapporti linguistici di carattere, come si suol dire,
epocale, una “rivoluzione delle lingue” (come suona il titolo del volumetto
di Crystal, 2005),
che comporta una grossa sfida di politica linguistica
globale e scelte radicali. La diffusione e predominanza assoluta dell’inglese
in tutte le attività economiche, tecnologiche, comunicative e nei rapporti
internazionali ha portato nel quadro mondiale a una situazione per molti
versi straordinaria, mai verificatasi in epoca storica, nella quale una lingua è
parlata al mondo da una persona su quattro e conta un numero di parlanti
non nativi più alto di quello dei parlanti nativi, ed è la sola lingua
ampiamente usata, quale lingua di default, nei rapporti internazionali.
Si sta insomma creando una situazione di potenziale (e in parte già effettivo)
pericolo per le altre grandi lingue di cultura, che rischiano di venir via via
spodestate dalla loro funzione di lingue di alta formazione e del progresso
scientifico e tecnologico e deprivate delle risorse (sia in termini di lessico che
di strutture testuali e argomentative) atte a soddisfare i bisogni della sfera
intellettuale più avanzata, specialistica e complessa. Si pensi che già oggi in
parecchi settori della ricerca, in particolare nelle scienze della natura e nelle
discipline biomediche, gli addetti ai lavori comunicano fra di loro in contesti
di un certo livello esclusivamente in inglese (ma la cosa si sta estendendo
anche nelle scienze umane: nel piccolo del linguista, non è più così
infrequente che in convegni scientifici si parli di tematiche riguardanti
l’italiano, anche fra linguisti italiani, in inglese; e importanti riviste italiane
del ramo pubblicano prevalentemente contributi in inglese).
Ora, lo scenario che si va profilando va accolto così com’è o va discusso? Il
predominio totale dell’inglese va accettato supinamente, o addirittura
favorito e assecondato, come un “ordine naturale delle cose” contro cui nulla
si può fare, oppure vanno pensate strategie che contrastino la tendenza al
monolinguismo inglese? Sembra indubbio che da un punto di vista culturale
ed ecologico, così come è indiscusso in biologia, il preservamento della
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
180
diversità sia un valore di fondo, un bene da coltivare; e che quindi sia
saggio, in termini di politica linguistica ed educativa, promuovere la
formazione di una certa pluralità di lingue. Le scelte generali per la società
devono tener conto di entrambi i tipi di valori sopra indicati, valori E e
valori C. Le scelte per il mondo del lavoro devono tener conto primariamente dei valori E, senza però danneggiare se possibile, anzi favorendo
anche i valori C.
L’indagine che qui viene commentata ha mostrato ampiamente, come
abbiamo cercato di argomentare in dettaglio, che nel mondo delle imprese
quanto alle lingue in primo luogo c’è una divaricazione fra il dire e il fare, e
in secondo luogo c’è una chiara diversificazione fra grandi imprese e piccole
e piccolissime imprese, con le seconde particolarmente toccate dalla
disattenzione verso le lingue e la formazione linguistica. In mezzo a questa
divaricazione, e diversificazione, stanno da un lato stereotipi socioculturali e
atteggiamenti di comodo largamente diffusi nel nostro paese, e dall’altro lato
la scarsa percezione dell’importanza anche economica delle lingue.
Di fronte a questa situazione, appare urgente non solo cercare di far
penetrare nelle imprese un più spiccato interesse per la formazione
linguistica, ma anche cercare di promuovere una diversificazione di tale
interesse su più lingue: questo può essere considerato l’auspicio finale
dell’indagine qui commentata, che riteniamo rappresenti indubbiamente un
contributo molto valido per capire i veri lineamenti del problema e per
disegnare qualche contorno del quadro strategico in cui agire, di come agire
e con quali priorità.
Bibliografia
Berruto G., Fondamenti di sociolinguistica, Laterza, Roma/Bari, 1995.
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mondiale nei prossimi decenni”, in Banti G./Marra A./Vineis E. (a cura
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PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
183
PROCESSI DI APPRENDIMENTO
E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE:
L’OFFERTA DI FORMAZIONE LINGUISTICA IN ITALIA
Giuliano Bernini
Università degli Studi di Bergamo
Milano, 29 Settembre 2006
1. Introduzione
L’offerta di formazione linguistica in Italia (Progetto LETitFLY, Ottobre 2006: da
ora in avanti Rapporto) rappresenta in modo attendibile le iniziative di
insegnamento delle lingue straniere nel nostro Paese nel triennio 2003-2005,
essendo l’elaborazione di un numero di risposte ai questionari del progetto –
1231 – ben calibrate sul territorio nazionale rispetto ai 4931 destinatari
originari. Il Rapporto permette quindi di fare riflessioni sui diversi aspetti che
queste iniziative coinvolgono. Dal punto di vista geografico, le agenzie di
formazione linguistica considerate si aggregano maggiormente nel nordovest e, a seguire, nel sud e nelle isole, nel nord-est e infine nel centro,
riflettendo in parte la consistenza demografica e occupazionale delle diverse
regioni (cfr. la figura 2 a pag. 5 del Rapporto). I quattro tipi di agenzie
considerate (v. tabella 1 del Rapporto, p. 6), ovvero agenzie di formazione
professionale, centri di istruzione pubblica, scuole di lingua private e
strutture del terzo settore, per un totale di 23 categorie, mostrano pure
diverse aggregazioni territoriali: nella formazione linguistica i centri di
formazione professionale sono più attivi nel nord, mentre le scuole private
nel centro. Nel settore dell’istruzione pubblica, il sud e le isole vedono
particolarmente attivi i centri per l’educazione agli adulti.
In questo contributo voglio soffermarmi su quei risultati della rilevazione
alla base del Rapporto che meglio si lasciano interpretare sullo sfondo di
quello che avviene nei processi di formazione linguistica, ovvero nei
processi di insegnamento che forniscono l’input che serve a mettere in moto
l’acquisizione della lingua straniera da una parte, e dall’altra, nei processi di
apprendimento della lingua straniera, che seguono, come vedremo, loro
strade predefinite.
184
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
Se è vero, come si afferma alla pag. 37 del Rapporto, che “Le lingue straniere,
al pari dell’informatica sono da tempo annoverate tra i nuovi alfabeti che
devono essere conosciuti per potersi inserire proficuamente sul mercato del
lavoro”, è anche vero, come lamenta un intervistato appartenente al mondo
dell’università alle pagg. 247-8 del volume dedicato alla Analisi di scenario,
(Progetto LETitFLY, Settembre 2006) che “Una cosa è l’offerta per
apprendere una lingua e un’altra cosa è creare dei percorsi che portino al
riconoscimento di apparente apprendimento linguistico” in quanto “il testing
non è garanzia di conoscenza linguistica”.
Nella prospettiva di collegare le iniziative di offerta di insegnamento
linguistico con i risultati che da questa ci si può attendere, tra gli aspetti
toccati nel Rapporto mi soffermerò a riflettere su due punti: anzitutto sulle
lingue oggetto di studio e in seguito sulle abilità linguistiche che hanno
dichiarato di voler sviluppare coloro che hanno risposto al questionario alla
base del Rapporto. In base a queste considerazioni, cercherò di inserire i
risultati del Rapporto nel quadro dei processi di apprendimento e
insegnamento linguistico e dei livelli e dei tipi di conoscenza che si
intendono raggiungere.
2. Le lingue studiate
Il primo degli aspetti che qui voglio toccare sono le lingue offerte nel
triennio 2003-2005 in corsi di diverso tipo, rivolti a gruppi e singoli,
professionalizzanti o meno. I dati che voglio commentare sono riportati nella
tabella 10 a pag. 24 del Rapporto.
Le lingue presenti nell’offerta sono da una parte l’italiano per utenti stranieri
immigrati (italiano L2 nella tabella) e dall’altra lingue straniere per utenti
apparentemente italofoni. Tra queste è messo in rilievo l’inglese rispetto ad
altre lingue, considerate nel loro insieme senza ulteriori differenziazioni. In
percentuale, i 273.208 utenti dei corsi considerati nel Rapporto si sono
distribuiti tra le tre voci qui menzionate come indicato nella tabella 1 e nella
figura 1. Nella gamma dell’offerta l’inglese occupa più della metà delle
iniziative di insegnamento linguistico, l’italiano per stranieri poco meno di
un quinto del totale delle iniziative, il restante quarto si suddivide tra altre
lingue straniere per utenti italofoni.
PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
185
Riaggregando questi dati come nella tabella 2 e nella figura 2, si ha una
visione d’insieme dell’offerta linguistica in base ai destinatari a cui si rivolge.
Come già si è detto poco sopra, l’offerta ha dunque riguardato per poco
meno di un quinto la formazione linguistica di stranieri immigrati, per i
quali il bisogno di alfabetizzazione primario è l’italiano, cioè la lingua del
Paese ospite. Per gli altri 4/5 l’offerta ha invece riguardato la formazione in
lingua straniera di italofoni.
Come già appariva dai dati della tabella 10 del Rapporto (cfr. fig. 1) e come
messo in rilievo qui nella tabella 3 e nella figura 3, gli utenti (probabilmente
italofoni) di corsi di lingua straniera si distribuiscono in misura diversa tra
inglese – ben più dei due terzi del totale degli utenti di lingua straniera – e
altre lingue, che hanno un numero di utenti percentualmente molto
inferiore, che si attesta a meno di un terzo del totale.
Tab. 1 - Utenti per lingua in %
Italiano L2
Inglese L2
Altre L2
18,2
56,3
25,5
Fig. 1 - Utenti per lingua in %
60
50
40
30
20
10
0
Italiano L2 Inglese L2 Altre L2
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
186
Tab. 2 - Utenti per italiano per straniere e lingue straniere per italofoni
Italiano L2
Lingue straniere
18,2
81,8
Fig. 2 - Italiano per stranieri e lingue straniere per italofoni
100
80
60
40
20
0
Italiano L2
Lingue
straniere
Tab. 3 - Utenti italofoni di lingue straniere
Inglese
Altre lingue
68,79
31,21
Fig. 3 - Utenti italofoni di lingua straniera
70
60
50
40
30
20
10
0
Inglese
Altre lingue
Questi dati riflettono bene anche per lo specifico dell’Italia la situazione
linguistica che caratterizza di fatto il nostro pianeta in questo periodo di
inizio XXI secolo e che è stata ben delineata dal linguista inglese David
PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
187
Crystal in un volumetto dal titolo The language revolution, uscito dalla Polity
Press di Cambridge nel 2004, e tradotto in italiano da Il Mulino di Bologna
nel 2005 col titolo La rivoluzione delle lingue.
Da una parte, l’Italia è un Paese mèta di migrazioni come altri Paesi europei
ed extra-europei e l’offerta di italiano L2, cioè di italiano per stranieri – come
già abbiamo detto – risponde al bisogno di preparazione linguistica a fini sia
di sopravvivenza sia professionalizzanti di questa categoria di utenti.
Dall’altra parte la formazione in lingua straniera per gli italofoni vede in
posizione preminente l’inglese, la lingua che nel giro di un cinquantennio,
per ragioni diverse ben illustrate da David Crystal, è diventata una sorta di
lingua veicolare globale. In altri termini, tra persone che non condividono la
stessa lingua è più probabile che si possa instaurare un rapporto
comunicativo in inglese che in un’altra lingua; inoltre le pubblicazioni
rilevanti a livello sopranazionale per certe professioni o per certi lavori sono
più probabilmente in inglese che in altre lingue.
Il diverso peso specifico dell’inglese sia globalmente sia nella specifica
situazione italiana è sottolineato inoltre dalla dispersione degli utenti della
voce “Altre lingue”. In termini percentuali, sul totale degli utenti di corsi di
lingue, cioè avendo come sfondo i valori della figura 1 qui sopra riportata,
nel Rapporto questi sono considerati nella tabella 14 a pag. 28 e nella tabella
18 a pag. 32. La prima tabella delle due qui menzionate tiene conto degli
utenti di corsi individuali; la seconda tiene conto di utenti di corsi di gruppo.
Tralasciando le sottovoci relative a “Altre lingue UE” e “Altre lingue non
UE” non ulteriormente differenziate, l’elenco comprende undici lingue.
L’offerta di queste ulteriori undici lingue, variamente articolata ancorché
sempre su valori percentuali esigui, merita un commento.
Come riportato nella tabella 4 e nella figura 4, solo tre di queste undici
lingue, ovvero francese, spagnolo e tedesco, raccolgono nei due tipi di corsi –
individuali e di gruppo – e tenendo conto dei tre livelli considerati –
elementare, intermedio, avanzato – percentuali di utenti che si situano tra
6,2% (utenti di spagnolo avanzato in corsi di gruppo) e 11,6% (utenti di
francese intermedio in corsi individuali). Al polo opposto, utenti di altre tre
lingue (rumeno, turco, greco) sono presenti solo nei corsi individuali con lo
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
188
0,1% nei tre livelli. Tuttavia il turco è assente anche dal livello elementare di
corsi individuali. Le altre cinque lingue elencate, ovvero portoghese, arabo,
cinese, giapponese e russo, si pongono in posizione intermedia, con
percentuali di utenti diverse nei diversi livelli e nei due tipi di corsi. Queste
vanno da 0,1% di utenti di giapponese in corsi individuali di livello
intermedio e in corsi di gruppo di livello elementare e avanzato, a 1,7% di
utenti di russo in corsi di gruppo intermedi.
Tab. 4: Altre lingue (in corsivo le lingue corrispondenti ai valori minimi, in
grassetto le lingue corrispondenti ai valori massimi)
min
max
francese, spagnolo tedesco
6,2
11,6
portoghese, arabo, cinese, giapponese, russo
0,1
1,7
rumeno, turco, greco
0,0
0,1
Fig. 4 -Altre lingue
12
francese,
spagnolo
tedesco
10
8
portoghese,
arabo, cinese,
giapponese,
russo
6
4
rumeno, turco,
greco
2
0
m in
m ax
La distribuzione degli utenti riflette evidentemente l’impatto culturale e
commerciale che in Europa hanno francese, spagnolo e tedesco da un lato e
rumeno, turco e greco dall’altro. Delle prime tre lingue, inoltre, come è noto,
francese e spagnolo hanno anche una vocazione extra-europea per la storia
coloniale di Francia e Spagna. La stessa ragione, probabilmente, sta alla base
della posizione del portoghese tra le cinque lingue del secondo gruppo, che
raccoglie 1,2% di utenti nei corsi individuali di livello intermedio. In questo
PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
189
gruppo si classifica, nei valori relativamente alti, anche il russo tra le lingue
europee con vocazione extra-europea, stavolta asiatica.
Nel secondo gruppo di cinque lingue sono comprese anche tre delle lingue
dell’Asia, veicolo di tradizioni culturali che hanno forte impatto sulle
relazioni internazionali nei più diversi ambiti. Tra queste lingue – sempre in
termini molto relativi – marginale sembra la posizione del giapponese
rispetto al cinese e all’arabo, i cui corsi raccolgono un numero di utenti
maggiore. Dai questionari risulta che rispetto ai corsi di gruppo, i corsi
individuali sono rivolti in misura maggiore a utenti che hanno fini
professionalizzanti. Ciò vale in generale per l’italiano per stranieri, l’inglese
e le altre lingue.
Tuttavia, da un punto di vista generale, di fronte a esigenze diverse di
professionalizzazione, lo squilibrio nel numero di utenti tra inglese e altre
lingue è particolarmente sensibile nei confronti di arabo e cinese. La ragione
sta soprattutto nelle diverse tradizioni e abitudini di interazione dei parlanti
queste lingue, che costituiscono un punto critico del contatto con le lingue
europee ora evidente nel campo delle relazioni commerciali. Queste
tradizioni comportano l’adozione di strategie comunicative diverse da quelle
in uso in Europa e che sono oggetto di studio scientifico, per esempio nel
libro pubblicato nel 2005 a cura di Francesca Bargiela-Chiappini e di
Maurizio Gotti per l’editore Lang di Berna, dal titolo Asian business
discourse(s). La distanza tipologica di queste lingue dall’italiano e il retroterra
di atteggiamenti positivi, creato dalla posizione egemonica degli Stati Uniti
d’America in molti campi, rendono più appetibile la richiesta di formazione
relativa alla lingua inglese. È però auspicabile che non venga oscurata la
necessità di accedere a lingue di vasta portata culturale, veicolo di tradizioni
e modi di interagire la cui conoscenza può favorire massimamente il campo
delle relazioni commerciali e di lavoro in generale.
Lo squilibrio tra inglese e altre lingue ha, alla lunga, anche conseguenze sul
sistema di formazione superiore di insegnanti di lingue e sulle risorse da
attribuirvi. La poca appetibilità delle altre lingue rispetto all’inglese non
dovrà tradursi in una riduzione di risorse per l’approfondimento scientifico
di tradizioni rilevanti quali quella araba, cinese e – anche se mai menzionata
190
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
nel Rapporto – indiana, veicolata dalla lingua hindi. La formazione
universitaria di insegnanti di lingue straniere anche in questi ambiti richiede
mezzi adeguati per poter essere all’altezza di affrontare percorsi di
istruzione appropriati che mettano in grado di utilizzare a scopo
professionale lingue diverse, soprattutto per quei contatti in cui l’inglese può
costituire per lo più una forma superficiale e strumentale di trasmissione di
informazioni e non anche uno strumento di comunicazione internazionale in
contesti lavorativi più sofisticati.
2. Le abilità linguistiche
Rivolgendoci ora al secondo aspetto annunciato nell’introduzione, relativo al
quadro dei processi di apprendimento e insegnamento linguistico, mi
soffermo anzitutto a commentare brevemente la terminologia usata nei
questionari per fissare i livelli di preparazione. Nelle tabelle del Rapporto
discusse poc’anzi, ovvero la 10 (pag. 24), la 14 (pag. 28) e la 18 (pag. 32) i
livelli di preparazione sono descritti in base ai tre termini ordinati in scala
“elementare”, “intermedio” e “avanzato”. La tabella 5 alla pag. 15 del
Rapporto, dedicata al “Livello dei corsi erogati per macrotipologia di offerta e
area geografica”, sembra aggiungere al di sotto di “elementare” il livello di
“alfabetizzazione” e, apparentemente, sostituisce a “elementare” il termine
“di base”. Questi termini, ancorché suggestivi, non si lasciano ricondurre a
descrizioni attendibili delle competenze linguistiche che vi corrispondono
nelle prestazioni degli utenti. Almeno per le lingue nazionali con più
parlanti nativi dell’Unione Europea – e per il russo – si dispone ora di un
“Quadro comune europeo di riferimento” che definisce i livelli di
apprendimento attesi in base a una serie di descrittori generali che, lingua
per lingua, si lasciano convertire in regole e elementi lessicali. Il Rapporto
utilizza ben sì il “Quadro comune europeo di riferimento”, ma solo nella
parte relativa alle 169 strutture che hanno proposto iniziative di
insegnamento significative o innovative. Si veda, per esempio, la tabella 53
alla pag. 71 del Rapporto, dove i corsi formativi sono correlati con i livelli di
competenza iniziali. Si ha così, ma solo per quelle strutture, l’articolazione
dei livelli come riportato nella tabella 5 qui sotto, che può comunque
PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
191
costituire un buon punto di riferimento anche per l’interpretazione dei
termini solo suggestivi delle altre tabelle.
Tab. 5 - Corrispondenza tra livelli e “Quadro comune europeo di riferimento”
Terminologia usuale
Quadro comune
A1
Elementare
A2
B1
Intermedio
B2
Avanzato
C1
Più importante, per valutare l’impatto dell’offerta formativa rispetto ai
processi di apprendimento e insegnamento delle lingue straniere, è la tabella
34 (alla pag. 48 del Rapporto) – là riportata con un breve commento non
interpretativo –, dedicata alle abilità linguistiche verso cui focalizzare i
moduli linguistici. La domanda del questionario permetteva due risposte. I
dati della tabella sono riportati nelle tabelle 6 e 7 e nelle corrispondenti
figure 5 e 6 qui sotto.
In queste tabelle, e in queste figure, le abilità linguistiche sono riportate
nell’ordine in cui dovrebbero svilupparsi nei processi di apprendimento,
ovvero: abilità che impegnano l’oralità (capire e parlare) prima di abilità che
impegnano la scrittura (leggere e scrivere); abilità ricettive (capire e leggere)
prima di quelle produttive (parlare, scrivere). Nella tabella 53 del Rapporto è
in realtà presente la voce “ascoltare”, che qui è stata intesa secondo la
terminologia più comune come “capire”.
Nel Rapporto, nelle pagine citate, è presente tra le abilità menzionate nei
questionari, anche la traduzione, senza però precisare se scritta o orale. La
traduzione è una abilità particolare, che presuppone le altre quattro
fondamentali elencate qui sopra. Richiede inoltre una profonda competenza
sia nella lingua nativa sia nella lingua seconda. Infine la traduzione
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
192
professionale è svolta sempre verso la lingua nativa del traduttore. È
probabile che la domanda del questionario e le risposte elaborate nel
Rapporto si riferissero a una delle possibili attività di apprendimento
linguistico, ovvero all’esercizio di traduzione noto dai metodi più
tradizionali.
Nelle tabelle (e nelle figure) qui sotto riportate, non compaiono i valori
indicati nel Rapporto per la risposta “altre attività” (rispettivamente lo 0,8%
tra le prime risposte e lo 0,8% tra le seconde risposte) e la voce “non indica”,
che raccoglie sorprendentemente lo 0,5% tra le prime risposte. Queste voci
non sono qui considerate perché non paragonabili alle altre, oltre che per la
loro marginalità statistica.
Tab. 6 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici. 1a risposta
(%)
Capire
(= ascoltare)
parlare
leggere
scrivere
tradurre
8,1
75,8
5,4
7,9
1,5
Fig. 5 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistica. 1a risposta
(%)
80
70
60
50
40
30
20
10
0
ca
pa
le
sc
tr
Già a un primo esame delle tabelle e delle figure qui riportate è
immediatamente evidente il divario nella dispersione delle risposte prime e
seconde: bassissimo nelle prime, che si concentrano per il 75,8% sul parlare;
minore nelle seconde, dove sono privilegiate quasi alla pari per valori molto
minori lo scrivere (32,3%) e il capire (30,5%). Queste risposte meritano un
PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
193
commento interpretativo, in quanto hanno un impatto diretto sui processi di
apprendimento e di insegnamento delle lingue straniere.
Tab. 7 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici. 2a risposta
(%)
Capire
(= ascoltare)
parlare
leggere
scrivere
tradurre
30,5
12,1
14,8
32,3
9,7
Fig. 6 - Abilità linguistiche verso cui focalizzare i moduli linguistici: 2a risposta
(%)
35
30
25
20
15
10
5
0
ca
pa
le
sc
tr
Gli studi di linguistica acquisizionale svolti sia in Italia sia all’estero hanno
ormai definito con una certa sofisticazione i fattori coinvolti nei processi di
apprendimento spontaneo – cioè senza retroterra scolastico – delle lingue e
le vie che un apprendente percorre per arrivare a gradi di competenza
sempre maggiori e, tendenzialmente, vicini a quelli dei parlanti nativi.
Semplificando un po’, i fattori più rilevanti nei processi di apprendimento
sono tre: l’input della lingua da apprendere fornito agli apprendenti dai
parlanti nativi nelle conversazioni; la componente cognitiva che nella nostra
mente presiede all’organizzazione degli elementi linguistici; la vicinanza o la
lontananza nell’organizzazione grammaticale delle lingue coinvolte, ovvero
la lingua prima dell’apprendente e quella da imparare – si pensi all’italiano
rispetto allo spagnolo e al cinese.
L’apprendente costruisce la seconda lingua a poco a poco elaborando i
194
PROGETTO LETitFLY - ATTI DEL CONVEGNO
materiali linguistici (parole, morfemi, regole di sintassi) da lui ipotizzati in
base all’input. Il processo di elaborazione segue percorsi analoghi per tutti i
gruppi di apprendenti: per esempio, la prima distinzione che si crea nel
verbo italiano è quella fra una forma base come lavora, che vale per tutti i
tempi e i modi, e una forma marcata come lavorato, che esprime solo le azioni
concluse. In seguito, compare l’imperfetto ma prima col verbo essere. Il
futuro viene elaborato solo dopo l’imperfetto. La distanza tra la lingua
prima dell’apprendente e la lingua da imparare può accelerare o rallentare
fino anche a fermare il percorso di apprendimento, ma sempre lungo le
stesse linee di elaborazione che si rilevano lingua seconda per lingua
seconda.
Nei processi di apprendimento spontanei, l’oralità ha preminenza sulla
scrittura e le abilità di ricezione, cioè il capire (o ascoltare come chiesto nei
questionari), hanno la priorità su quelle di produzione, cioè il parlare.
L’apprendente spontaneo parla elaborando frasi anche molto diverse da
quelle dei nativi (p. es. io no capito in italiano, I no understand in inglese) in
base a quanto ha “ascoltato” e “capito” dai nativi: la risposta no, p. es., è più
facile da capire della negazione non, perché è accentata e isolata; essa viene
quindi riutilizzata come negazione anche coi verbi. Ascoltando e capendo un
numero di enunciati sempre maggiore, l’apprendente potrà confrontare le
proprie produzioni linguistiche con quelle dei nativi e correggerle adeguandole sempre più alle loro.
Nell’apprendimento scolastico dell’italiano per stranieri qui considerati, le
lezioni sono una sorta di input arricchito e ordinato che si sovrappone a
quello a cui gli apprendenti sono esposti sul lavoro e nel tempo libero in
Italia. Per le altre lingue come l’inglese, invece, i corsi forniscono di fatto
l’unico input a disposizione degli apprendenti, non essendo la lingua
straniera parlata come lingua nativa da un consistente gruppo nel nostro
Paese. Anche questo tipo di input (le conversazioni e le spiegazioni
dell’insegnante, i materiali dei libri di testo o di altri mezzi telematici più
sofisticati) innesca i meccanismi dell’apprendimento linguistico evidenti nel
contesto spontaneo, come si può facilmente rilevare mettendo gli utenti in
situazioni comunicative vere. Detto un po’ scherzosamente, anche nei corsi
vale la ricetta condivisa – e un po’ rudimentale – riportata alla p. 249
PROCESSI DI APPRENDIMENTO E PROCESSI DI INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
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dell’Analisi di scenario: “gli elementi essenziali per apprendere una lingua
straniera sembrano essere l’esposizione alla lingua, il lessico e molta
comunicazione”
In questo quadro è evidente come la focalizzazione sull’abilità del parlare
riscontrata nelle risposte al questionario rappresenti un obiettivo didattico
illusorio: il parlare implica anzitutto il capire e, in secondo luogo, parlare
vuol dire essere in grado di costruire enunciati che, a poco a poco, si
avvicinano a quelli dei nativi, cioè, in altri termini, enunciati che
inizialmente contengono “errori” che derivano dalle comuni capacità di
elaborazione del linguaggio. L’apprendimento di una lingua è infatti un
processo che assomiglia di più a quelli di affinamento delle abilità fisiche
(saper saltare, saper correre ecc.) che non allo studio di discipline che
implicano l’accumulo di conoscenze (sapere la storia dello Stato dell’Italia
medievale).
Il Rapporto, da questo punto di vista, è un utile strumento per capire come
intervenire nelle agenzie che prevedono formazione linguistica, per
ottimizzare offerta e risultati e rimediare così alle carenze riassunte nella
citazione dall’Analisi di scenario riportata all’inizio di questo intervento.
Riordinando in un più consono equilibrio le quattro abilità di capire, parlare,
leggere e scrivere, nei corsi di lingua individuali e di gruppo si potrà
sviluppare una competenza reale e non solo la capacità di svolgere con
accuratezza gli esercizi che la testano.
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Atti del Convegno Finale