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Rivista di Algologia Clinica e Sperimentale
Volume 20, numero 3, 2013
ISSN 1593-2354
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Federdolore - SICD
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Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
3
Rivista di Algologia
Clinica e Sperimentale
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Settembre 2013
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Sommario
Editoriale
Le algie facciali
P. Marchettini 7
Rassegna clinica
Percorso diagnostico terapeutico
(PTDA) nel dolore oncologico
F. Amato, S. Ceniti, S. Palazzo, W. Raffaeli
Rassegna clinica
Sindromi dolorose facciali
trattabili con la chirurgia
A. Franzini, G. Messina
M. Rizzi, G. Broggi
Articolo originale La diagnosi differenziale
del dolore sessuale
nella donna
A. Ghizzani, G. Carli
9
14
23
Review Storia delle teorie del dolore
M. Silvestrini, C.A. Caputi
Up to dating Una famiglia di proteine
di membrana con possibili
potenzialità terapeutiche
F. Amato
39
Ricordi In memoria di Filippo Bellinghieri
W. Raffaeli
42
27
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da Publiediting
Registrata al Tribunale di Milano
al numero 666 - 210905
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ISSN 1593-2354
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
5
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Rivista 1998; (5): 444-888.
Volumi: Rossi M et al. Titolo del lavoro. In: Titolo del libro, seconda edizione. Bianchi e Viola (eds), Casa Editrice,
Milano 1995: pp. 200-400.
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Editoriale
LE ALGIE FACCIALI
FACIAL PAIN
Paolo Marchettini
Responsabile Medicina del Dolore, Ospedale San Raffaele, Milano
Docente di Fisiopatologia e Terapia del Dolore,
Università della Svizzera Italiana, Lugano
Il ricorso al trattamento chirurgico
delle algie facciali è di norma
considerato dai neurologi un’opzione
per i casi di nevralgia trigeminale in
cui sia identificato con certezza un
conflitto neuro vascolare e che non siano
responsivi o abbiano intolleranza
ai trattamenti farmacologici.
Le algie facciali di altra natura non
rientrano quasi mai nelle indicazioni
al trattamento chirurgico proposte
dai clinici, anche nei casi resistenti
a molteplici terapie combinate.
Eppure negli ultimi trenta-quarant’anni
la neurochirurgia a cielo aperto,
la chirurgia stereotassica e le metodiche
di neuromodulazione hanno
radicalmente cambiato le prospettive
terapeutiche dei pazienti con dolore
facciale severo, non responsivo o
solo parzialmente controllato dalla
farmacoterapia. In mani esperte i
pazienti con nevralgia trigeminale
classica hanno rischi operatori non
superiori per gravità alle severe
reazioni agli antiepilettici e un’elevata
percentuale di ottimi risultati.
Recenti studi osservazionali propongono
addirittura che la decompressione
chirurgica sia efficace anche in assenza
di conclamato conflitto neuro vascolare.
Nei pazienti con maggiore età
o controindicazioni anestesiologiche
le metodiche di neurolisi con glicerolo
o radiofrequenza hanno raggiunto
maggiori livelli di sicurezza, non
producendo più deafferentazioni
maggiori e possono anche essere ripetute
nel caso di recidiva. La migliore
conoscenza dell’innervazione del volto
offre un razionale neuro fisiopatologico
alla stimolazione del nervo grande
occipitale, per offrire sollievo alle forme
severe di cefalea a grappolo cronica.
Tra i dolori facciali un tempo confinati
nella categoria delle forme incurabili
i dolori da deafferentazione, iatrogena
o traumatica di rami trigeminali del
volto e la deafferentazione centrale da
ischemia o emorragia talamica trovano
oggi in alcuni casi possibilità di cura con
la stimolazione della corteccia motoria
o cerebrale profonda dei nuclei sensitivi
del talamo. In questa meticolosa e
ampia revisione delle possibilità di
trattamento neurochirurgico dei dolori
facciali non deve essere esclusa
la stimolazione profonda dell’ipotalamo
posteriore per la cura della cefalea
neuralgiforme intrattabile (SUNCT)
introdotta proprio dagli autori che sono
stati i pionieri di questo trattamento.
I risultati clinici dei trattamenti
chirurgici non devono essere valutati
soltanto con l’obiettivo di garantire
un sollievo completo dal dolore, anche
un sollievo parziale del dolore facciale
nelle forme più severe è un enorme
miglioramento nella qualità della vita
se consente di ridurre la posologia
di farmaci con eccessivo effetto sedativo.
Per offrire ai nostri pazienti con dolore
facciale severo le migliori possibilità di
trattamento l’evoluzione delle metodiche
impone una collaborazione sempre più
stretta tra clinici e chirurghi. Siamo
grati ai colleghi dell’Istituto Neurologico
Besta di contribuire a questo dialogo con
il loro esaustivo articolo sul trattamento
chirurgico del dolore facciale.
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
7
Rassegna clinica
PERCORSO DIAGNOSTICO
TERAPEUTICO (PTDA)
NEL DOLORE ONCOLOGICO
PATHWAY FROM DIAGNOSIS
TO THERAPY IN CANCER PAIN
Francesco Amato
Direttore UOC Anestesia, Terapia del Dolore,
CP e Dipartimento di Emergenza
Azienda Ospedaliera Cosenza
Silvia Ceniti, Salvatore Palazzo
UOC Oncologia, Azienda Ospedaliera Cosenza
William Raffaeli
Presidente ISAL, Rimini
RIASSUNTO
Gli autori presentano in dettaglio
la proposta di un progetto mirato
a migliorare, attraverso un percorso
diagnostico terapeutico e la costituzione
di un comitato di esperti delle due
discipline oncologica e antalgica,
la qualità delle cure del dolore
oncologico.
SUMMARY
The authors present in detail
the proposal of a quality improvement
project for cancer pain therapies.
The project should be implemented
through diagnostic and therapeutic
pathways and the setting up
of a community of oncologists
and cancer pain experts.
Parole chiave
Dolore oncologico, disegni
assistenziali, terapie
Key words
Cancer pain, level of assistance,
therapies
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
9
10
INTRODUZIONE
DEFINIZIONE
OBIETTIVI
Nonostante le raccomandazioni della
Organizzazione Mondiale della Sanità e la disponibilità di un notevole
numero di trattamenti efficaci, molti
malati con cancro in fase avanzata lamentano, anche in Italia, dolore nella
misura del 50-80 per cento circa, a
seconda del tipo di cancro e della fase
di malattia.1,2
Per tale motivo, il medico che prende
in cura il malato oncologico deve essere in grado di riconoscere precocemente il dolore e di saperlo trattare in
modo adeguato.
Sono possibili differenti approcci alla
cura del dolore, di tipo sia diagnostico
sia terapeutico, che richiedono conoscenze e tecniche specialistiche; premesso che una preparazione adeguata
nasce da una continua esperienza di
cura del dolore, si ritiene che durante
tutte le fasi del processo assistenziale al malato oncologico sia necessaria
un’attiva collaborazione con i Centri
di Terapia del Dolore.4-6
La Legge 38 sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore prevede
lo sviluppo di rapporti intersocietari.
La proposta è quella di realizzare un
progetto finalizzato a migliorare l’attuale standard di qualità delle cure
nella malattia algologica in oncologia,
che miri inoltre a mettere a disposizione, dei pazienti, dei familiari e dei
medici, informazioni corrette sia sulla diagnosi clinica e strumentale sia
sulla conseguente terapia eziopatogenetica del dolore, attraverso la costruzione di un Percorso Diagnostico
Terapeutico (PDTA), uno strumento
di gestione coordinata dei processi
produttivi sanitari.
Il PDTA mira alla presa in carico del
paziente e al governo della domanda
secondo un approccio sistemico per
ottimizzare la qualità delle cure.
Esso è la contestualizzazione per adattamento alle risorse professionali, organizzative e tecnologiche disponibili in loco delle Linee Guida, con la
quale il paziente riceve una sequenza
e una temporizzazione preordinata,
integrata e condivisa di prestazioni di
diagnosi e cura da parte del personale
medico e non.
Il termine “percorso”, più di altri termini, rende ragione sia dell’esperienza del cittadino/paziente, sia dell’impatto organizzativo che lo strumento del PDTA può avere nella realtà
aziendale che lo utilizza.
I termini “diagnostico”, “terapeutico” e “assistenziale” consentono di
affermare la prospettiva della presa
in carico attiva e totale, dalla prevenzione alla riabilitazione, della persona
che ha un problema di salute, per la
gestione del quale, spesso, diventano
necessari interventi multiprofessionali e multidisciplinari rivolti in diversi
ambiti, come quello psicofisico, sociale e delle eventuali disabilità.
La costruzione di un PDTA definisce gli obiettivi, i ruoli e gli ambiti di
intervento, garantisce chiarezza delle
informazioni all’utente e chiarezza
dei compiti agli operatori, aiuta a migliorare la costanza, la riproducibilità
e l’uniformità delle prestazioni erogate e, nel contempo, aiuta a prevedere
e quindi a ridurre l’evento straordinario, facilitando la flessibilità e gli
adattamenti ai cambiamenti.
È necessario costruire, attraverso rapporti societari e di colleganza, una
cultura comune tale da poter dare origine a una comunità scientifica coesa
e capace di dare risposte alla crescente domanda a quello che oggi viene
definito uno dei primissimi problemi
sanitari, cioè la cura del dolore.
Nonostante tale obiettivo sanitario
non possa certo definirsi ‘nuovo’,
l’inserimento nel circuito europeo ha
inevitabilmente evidenziato i difetti
di formazione della categoria medica
ad affrontare il problema del dolore
in maniera metodologicamente corretta e tecnicamente adeguata alle
esigenze sanitarie della popolazione
con dolore da cancro; a questa popolazione è necessario provvedere anche
mediante la costruzione di una practice clinica omogenea, in cui il medico
sia messo nelle condizioni di progettare il proprio sviluppo, innanzitutto
sottraendosi alla logica della autoreferenzialità.
In particolare ci si propone di:
- migliorare i tempi di attesa dell’iter
diagnostico terapeutico, fissando
degli standard in ossequio a quanto
previsto dal Piano Nazionale del Governo delle liste di attesa;
- migliorare gli aspetti informativi e
comunicativi con il paziente, garantendo un piano personalizzato di intervento;
- ottimizzare e monitorare i livelli di
qualità delle cure prestate, nel rispetto di Linee Guida nazionali e internazionali;
- promuovere la partecipazione attiva
dell’assistito alla gestione della propria malattia;
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
- favorire monitoraggio e gestione
metodica dell’assistito da parte del
medico;
- ottimizzare e razionalizzare l’accesso
alle strutture specialistiche;
- garantire la cura delle complicanze
con integrazione delle diverse competenze;
- migliorare il gradimento dell’utenza
per i servizi ricevuti;
- attivare un sistema di monitoraggio
delle modalità operative previste dal
percorso.
Differenziare le tipologie del dolore e
le sue specificità è utile, perché sono
differenti gli obiettivi di cura e l’approccio terapeutico a seconda della
patologia in essere e ci aiuta a non
trattare il malato oncologico quale
unicum indifferenziato cui applicare
protocolli per il controllo del dolore, ma a definirne i processi di presa
in carico, in relazione sia alle morbosità correlate sia alla regressività e
alla transitorietà o meno del dolore in
atto.
L’attuale sistema assistenziale in Italia
è di tipo settoriale-specialistico, per
cui ciascun soggetto erogatore (medici di medicina generale, specialisti,
ospedali, eccetera) è qualificato per
fornire assistenza con diversi gradi di
complessità clinico-assistenziale. Nel
caso in cui il paziente sia portatore
di dolore, specie dolore da cancro,
emergono criticità che riguardano innanzitutto l’ambito definitorio.
Non si tratta di un problema relativo
solo a necessità di tipo tassonomico/
nosologico, ma soprattutto a necessità di definire il dolore in relazione al
problema dell’assistenza.
Le ricerche attuate su scala nazionale (Federdolore, Istituto Mario Ne-
gri) recentemente condotte, hanno
evidenziato come esistano numerose
aree di inefficacia sia gestionale che
clinica nel trattamento del dolore oncologico. Questa inefficacia è frutto
in parte di una persistente suddivisione dei professionisti afferenti alle diverse aree specialistiche che operano
nell’area del dolore e in parte al fatto
che tutti, anche le società scientifiche,
si avvalgono di protocolli operativi
che non hanno origini nazionali e
utilizzano modelli nati in altre realtà
sanitarie.
Aree di criticità
Prima area di criticità:
percorso diagnostico
Possibile disomogeneità dei criteri
adottati per l’inquadramento diagnostico di malati potenzialmente
“trattabili”; pazienti oncologici con
dolore acuto non da cancro; pazienti
oncologici con dolore persistente da
cancro non trattato adeguatamente;
possibile ritardo nell’individuazione
dei soggetti con dolore da cancro difficile; pazienti con dolore episodico
acuto non diagnosticabile o inguaribile; pazienti con dolore “difficile”
(meccanico-strutturale e neuropatico).
Seconda area di criticità:
impostazione di una
terapia farmacologica
Possibile terapia non congruente/appropriata rispetto alle evidenze scientifiche attuali; difficoltà di mantenere
la formazione tra professionisti che
usano ognuno un proprio modello;
mancanza di valutazione/misurazione del dolore da cancro, inappropriatezza nell’utilizzo dei farmaci: FANS,
adiuvanti, oppioidi.
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
Terza area di criticità:
percorsi gestionali
Richiesta non appropriata di consulenza a centro specialistico (non pertinente); mancanza dell’applicazione
di linee guida tra i differenti livelli e i
centri specialistici; mancanza di piani
condivisi di cura tra centri specialistici di terapia del dolore e rete oncologica ospedaliera.
Quarta area di criticità: follow up
Disomogeneità nelle modalità di effettuazione dei controlli clinici.
PROPOSTA
Le analisi condotte ci hanno indotto a
proporre una fase sperimentale di collaborazione tra le due maggiori società
scientifiche che operano negli ospedali italiani e sono portatrici di competenze e cultura specialistica:
il Collegio dei primari oncologi italiani (Cipomo);
il Coordinamento dei centri di terapia
del dolore italiani (Federdolore).
A tal fine abbiamo voluto sperimentare un percorso di formazione comune
tra Oncologi e Pain community.
Tale progetto si è realizzato mediante:
1 - La costituzione di un comitato di
esperti delle due discipline (oncologica e antalgica) che ha lavorato per
una valutazione critica delle informazioni disponibili sul tema del dolore
in pazienti con cancro. Gli obiettivi
primari: allestire un meta-sito mirante
a facilitare l’uso delle risorse elencate
per tutti gli stakeholders interessati e/o
coinvolti nel problema del dolore da
cancro; preparare un consensus document delle due società da inviare alle
istituzioni regionali e nazionali.
11
2 - Uno studio di outcome research
che valuti: le coordinate epidemiologiche, attualmente carenti, relative
alla gestione del dolore in 10 Centri
di Oncologia; l’incidenza e l’impatto
di alcune strategie analgesiche, considerando quale debba essere il confine
fra la terapia non invasiva e quella invasiva.
3 - Fra gli obiettivi strategici le due
società si sono impegnate a sviluppare un percorso formativo che si è
sviluppato nelle 3 macro aree: Nord,
Centro e Sud-Isole, tale da coinvolgere 15 primari di Oncologia medica
e 15 primari di Anestesia a modulo.
Tale progetto mira all’acquisizione di
un modello educativo che permetta la
conoscenza degli elementi minimi di
complessità della malattia algologica,
delle peculiarità nel paziente oncologico in ognuna delle fasi della sua
malattia e l’acquisizione di elementi
di diagnosi come processi innovativi e
di terapia; contestualmente il progetto
definisce i criteri per implementare i
sistemi organizzativi multidisciplinari
con cui governare i processi di complessità della malattia algologica,
Proposta sperimentale
di un protocollo condiviso:
Progetto VAS 2
Adozione di un protocollo diagnostico-terapeutico condiviso tra specialisti
di oncologia ospedaliera e specialisti
del dolore per la gestione del dolore
da cancro da avviare alla gestione integrata su scala nazionale. Sistema informativo di indicatori tra le componenti
del gruppo di lavoro per la valutazione
di applicabilità e appropriatezza procedurale e clinica. Tra i vari modelli,
abbiamo adottato il percorso che W.
Raffaeli ha adottato nel suo Diparti-
12
mento e che aveva già pubblicato nel
2010.7 Nello specifico, il percorso del
paziente con dolore da cancro può essere quindi inquadrato secondo 3 differenti gradini a complessità crescente
(definiti livelli assistenziali):
via di somministrazione secondo le
tabelle di equianalgesia;
d) imposta il follow up prevedendo un
timing e un setting di rivalutazione del
paziente compatibile con la tipologia
dolorosa e le condizioni del paziente.
Primo livello assistenziale
Operatore che vede il paziente con
dolore da cancro per la prima volta:
a) valuta il paziente e misura l’intensità della sintomatologia dolorosa;
b) imposta il trattamento “front-line”;
c) decide se proseguire con il follow up
o affidarlo agli ambulatori specialistici del dipartimento (oncologia e cure
palliative/terapia antalgica);
d) se decide di prendere in carico il
paziente, procede con il follow-up,
trattando il paziente secondo i criteri
della scala analgesica WHO.
Terzo livello assistenziale
Specifico degli ambulatori di terapia
antalgica:
a) valuta pazienti con dolori “truly
resistant” identificando le condizioni
di potenziale resistenza ai trattamenti
standard;
b) valuta una potenziale responsività
del paziente mediante test di responsività ai trattamenti;
c) valuta l’opportunità di un approccio invasivo, scegliendo la modalità
specifica sulla base delle caratteristiche del paziente e quelle della tipologia dolorosa;
d) imposta i tempi e le modalità della
presa in carico del paziente e del successivo follow up.
Secondo livello assistenziale
Specifico dell’ambulatorio di terapie
di supporto e palliative dell’oncologia, o degli ambulatori di terapia antalgica:
a) prende in carico il paziente inviato
dai colleghi (da altre UO o dal medico di medicina generale);
b) nel caso di pazienti con dolore potenzialmente responsivo (inviati dagli
operatori che hanno valutato in prima battuta la problematica dolorosa
e hanno deciso di non farsi carico
direttamente del paziente), viene impostato il follow up per una corretta
applicazione temporale della scala
analgesica WHO;
c) nel caso di pazienti con dolore “potenzialmente resistente” o con intolleranza all’oppioide del terzo gradino,
imposta un’adeguata terapia di supporto in caso di intolleranza, o applica la rotazione dell’oppioide o della
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
A ognuno dei tre livelli, sulla base
delle caratteristiche del paziente, della
tipologia dolorosa e della storia clinica/storia naturale della malattia, può
essere presa in considerazione l’opportunità di un trattamento radiante palliativo o di un trattamento con
radioisotopi; l’operatore medico che
ipotizza l’impiego della radioterapia
antalgica o della terapia con radioisotopi invia il paziente presso le strutture specialistiche, secondo le modalità
specifiche di interfaccia tra il reparto
inviante (che ha in carico il paziente) e la radioterapia o la radiologia
interventiva (strutture aziendali) o la
medicina nucleare (struttura extraaziendale).
CONCLUSIONI
In conclusione, il primo obiettivo è
quello di inserire la misurazione e il
controllo del dolore nei percorsi di accreditamento professionale, come previsto nell’articolo 7 della Legge 38/10
sulle cure palliative e terapia del dolore, che prevede infatti la rilevazione
del dolore e la somministrazione di
farmaci antalgici in cartella clinica.
Secondo obiettivo è la realizzazione di
un modello clinico-organizzativo, che
miri alla condivisione di un percorso
diagnostico-terapeutico del paziente
oncologico con dolore, finalizzato alla
diagnosi del dolore difficile e alla terapia condivisa.
Questo percorso dovrebbe prevedere
lo sviluppo di interfacce ospedaleterritorio e l’implementazione di specifiche ricerche orientate non solo agli
aspetti farmacologici, ma a una visione d’insieme, secondo l’ottica della
clinical governance.
BIBLIOGRAFIA
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7) Fanelli G, Ventriglia G et al. Il dolore cronico
in medicina generale. Ministero della Salute,
2010.
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
13
Rassegna clinica
SINDROMI DOLOROSE FACCIALI
TRATTABILI CON LA CHIRURGIA
SURGICAL TREATMENT
OF PARTICULAR FACIAL PAIN SYNDROMES
Angelo Franzini, Giuseppe Messina,
Michele Rizzi, Giovanni Broggi
Fondazione Istituto Nazionale Neurologico “Carlo Besta”, Milano
14
RIASSUNTO
Gli autori presentano le tipologie
di dolore facciale farmacoresistenti
che si affrontano con interventi
chirurgici specifici per le diverse
sindromi.
Sono descritte le tecniche chirurgiche
appropriate alle diverse tipologie
del dolore che utilizzano
la microchirurgia stereotassica,
l’impianto di elettrodi o stimolatori
per la neuromodulazione
o la neurostimolazione di strutture
periferiche e centrali in superficie
e in profondità.
Viene riportata l’efficacia
e la sicurezza di queste metodiche
SUMMARY
The authors list the facial
pain syndromes not responsive
to pharmacological therapies
that can be treated with surgical
procedures specific for the different
syndromes.
Surgical techniques
as the stereotaxic microsurgery,
implantation of electrodes
and stimulators to produce
neuromodulation
or neurostimulation of peripheral
and central structures at superficial
and deep level are described.
Efficacy and safety of the surgical
techniques are also reported.
Parole chiave
Dolori facciali, farmacoresistenza,
tecniche chirurgiche
Key words
Facial pain drug-resistant, surgical
treatment, specific different techniques
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
INTRODUZIONE
Il trattamento chirurgico del dolore
facciale è una possibilità terapeutica
da considerare quando la terapia medica farmacologica non risulta efficace
oppure è gravata da effetti collaterali
difficilmente tollerabili. L’inquadramento diagnostico clinico ed eziopatogenetico è il presupposto fondamentale alla chirurgia che comprende
procedure diverse e talora specifiche
per le diverse tipologie di dolore facciale. Le sindromi dolorose facciali, il
cui trattamento chirurgico permette
la scomparsa o la significativa riduzione della sintomatologia dolorosa,
sono:
- nevralgia essenziale del trigemino e
del glossofaringeo;
- nevralgia trigeminale associata a sclerosi multipla;
- cefalea a grappolo cronica;
- SUNCT;
- emicrania cronica parossistica.
Le sindromi dolorose facciali, il cui
trattamento è tuttora oggetto di studio e di ricerca, sono:
- dolore neuropatico;
- nevralgia posterpetica;
- nevralgia facciale atipica;
- emicrania cronica;
- disturbo algico.
NEVRALGIA ESSENZIALE
NEL TRIGEMINO E
DEL GLOSSOFARINGEO
Il dolore caratteristico della nevralgia
essenziale del trigemino è definito parossistico (a inizio e fine improvvisi) e
l’attacco, sempre unilaterale, dura pochi secondi e interessa generalmente la
seconda e terza branca trigeminale. Le
osservazioni di Walter Dandy1 sulla
genesi neurovascolare della nevralgia
trigeminale sono state ampiamente
confermate dalla numerosa casistica di
Jannetta,2 che ha contribuito significativamente alla diffusione e alla standardizzazione dell’intervento chirurgico di decompressione neurovascolare
in fossa posteriore. Questo intervento
consiste nell’esposizione microchirurgica dell’origine del quinto nervo
cranico nell’angolo ponto-cerebellare
per via retromastoidea e quindi nella
ricerca di eventuali arterie o vene in
contatto con il nervo alla sua origine
o nel suo tratto iniziale intracisternale. Il vaso coinvolto nel conflitto neurovascolare viene quindi allontanato
dal nervo mediante interposizione di
materiale sintetico (Teflon), cellulosa (Surgicel) o frammenti di tessuto
muscolare (Figura 1). Il medesimo
meccanismo patogenetico è stato dimostrato per la nevralgia del glossofaringeo, in cui il dolore parossistico
è spesso scatenato dalla deglutizione
e interessa unilateralmente la regione
faringea e talora anche il condotto
uditivo esterno. In questi pazienti il
conflitto neurovascolare coinvolge i
nervi misti e il glossofaringeo in particolare. Anche in questi casi la decompressione neurovascolare microchirurgica per via retromastoidea si è rivelata
efficace nel determinare la scomparsa
degli episodi di dolore parossistico.
Oltre alla decompressione neurovascolare microchirurgica nell’angolo ponto-cerebellare, esistono altre
Figura 1
Immagini intra-operatorie
Foto intra-operatorie realizzate prima (superiormente) e dopo (inferiormente) la risoluzione del
conflitto neuro vascolare a carico della porzione intracisternale del nervo trigemino. Nella foto in alto
a sinistra è possibile notare il contatto tra l’arteria
cerebellare superiore e il nervo trigemino (evidenziato entro il riquadro nella foto in alto a destra).
Nella foto in basso a sinistra, si nota come l’arteria
sia stata allontanata dal nervo e come sia stato interposto un foglietto di Teflon tra tali strutture. In
basso a destra: 1: l’arteria cerebellare superiore; 3: il
nervo trigemino; 2: il foglietto di Teflon
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15
procedure chirurgiche che permettono di trattare efficacemente la nevralgia trigeminale. Queste procedure
sono chiamate percutanee retroganglionari, in quanto sono basate sul
raggiungimento della parte posteriore
del ganglio di Gasser con una agocannula inserita attraverso il forame ovale. Queste procedure percutanee sono
volte a produrre delle lesioni terapeutiche nel ganglio di Gasser mediante
la somministrazione selettiva di calore
prodotto da radiofrequenza (termorizotomia) o mediante la compressione
intracisternale del ganglio con un palloncino all’estremità di un catetere di
Fogarty inserito nell’agocannula precedentemente posizionata nella cisterna di Gasser attraverso il forame ovale
(Figura 2).
La terza metodica percutanea è basata sulla somministrazione di sostanze
neurotossiche nella cisterna di Gasser
alla scopo di ledere le fibre più sottili e
superficiali della porzione retrogasseriana del nervo. È stata abbandonata
l’introduzione di fenolo (alcolizzazione) per il rischio connesso alla diffusione del fenolo alle strutture vicine al
nervo (gli altri nervi cranici e il tronco
cerebrale). È tuttora utilizzata l’introduzione di glicerolo che, non essendo
neurotossico come l’alcool, non presenta i gravi rischi dell’alcolizzazione.
Le metodiche percutanee sono indicate in pazienti anziani o in condizioni
generali tali da non sopportare un
intervento in fossa cranica posteriore.
Sono anche indicate nei pazienti in
cui la decompressione neurovascolare
microchirurgica è risultata inefficace.
Le procedure percutanee sono considerate di seconda scelta in quanto presuppongono la lesione terapeutica del
Figura 2
Immagine radioscopica intra-operatoria
Il palloncino inserito nell’agocannula è posizionato a livello intracranico e insufflato di mezzo
di contrasto (in scuro); nell’immagine in basso,
il catetere di Fogarthy, collegato prossimalmente
a una siringa, presenta il palloncino insufflabile nell’estremità distale; nel riquadro a sinistra,
un particolare del palloncino; nel riquadro di
destra, un’immagine radiografica estesa allo
splancnocranio
16
ganglio o del nervo con conseguente
deficit sensitivo delle branche trigeminali interessate dal dolore. La decompressione neurovascolare è considerata di prima scelta in quanto i pazienti
guariti non presentano alcun deficit
sensitivo. La decompressione neurovascolare permette di controllare
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definitivamente il dolore parossistico
nel 70 per cento dei pazienti affetti da
nevralgia del trigemino o del glossofaringeo.3 Le metodiche percutanee
permettono la guarigione definitiva in
pochi casi, ma considerando la facilità con cui possono essere ripetute nel
tempo, si possono considerare efficaci
in più del 90 per cento dei pazienti,
anche a lungo termine. Un’indicazione elettiva delle procedure percutanee
è la nevralgia trigeminale associata alla
sclerosi multipla,4 nel caso in cui il
dolore parossistico interessi la terza e
la seconda branca trigeminale, mentre
per il dolore in prima branca le procedure percutanee non sono indicate in
quanto l’ipoestesia indotta dalla lesione retrogasseriana comporta il deficit
del riflesso corneale con conseguenti
cheratiti che possono comportare ulcere corneali di gravità tale da comportare la perdita dell’occhio. Il dolore parossistico trigeminale in prima
branca è stato trattato efficacemente
con la stimolazione cerebrale profonda dell’ipotalamo posteriore,5 presso il
medesimo target della cefalea a grappolo. La durata dell’effetto terapeutico delle procedure percutanee è proporzionale al deficit sensitivo facciale
inflitto dalla procedura stessa. Per
quanto riguarda le complicanze più
frequenti delle diverse procedure sono
da considerare l’ipoacusia (incidenza
Figura 3
Immagini TC post-operatorie in un paziente sottoposto a procedura
di posizionamento di sistema di stimolazione sottocutanea occipitale
Figura 4
Immagini RM encefalo pre-operatorie sovraimposte a immagini TC encefalo
post-operatorie in un paziente sottoposto a procedura di posizionamento
di un elettrodo cerebrale profondo in corrispondenza dell’ipotalamo posteriore
Figura 3: veduta posteriore (sinistra) e posterolaterale (destra); si noti la posizione dell’elettrodo,
situato sulla linea mediana, per assicurare la copertura di entrambi i nervi grandi occipitali, 1 cm
al di sotto della protuberanza occipitale esterna.
Figura 4: visione coronale (in alto a sinistra), sagittale (in alto a destra), in assiale (in basso a sinistra); in basso a destra, un’immagine RM encefalo
in coronale in cui la freccia evidenzia l’elettrodo
posizionato
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17
inferiore al 4 per cento) per la decompressione neurovascolare e l’anestesia
dolorosa (incidenza inferiore all’1
per cento) per le procedure percutanee. Naturalmente, trattandosi di
procedure chirurgiche, vi sono anche
numerose altre possibili complicanze di natura infiammatorio-infettiva
(meningiti) o di natura emorragica
(emorragia cerebrale) che, sebbene
rare, possono mettere a rischio la vita
del paziente (la mortalità globale è del
2 per mille).
CEFALEA A GRAPPOLO
CRONICA E NEVRALGIE
TRIGEMINALI
AUTONOMICHE
Il dolore tipico della cefalea a grappolo interessa la regione orbitaria di
un lato del volto e si accompagna a
fenomeni vegetativi (arrossamento,
lacrimazione, miosi, rinorrea, edema
palpebrale e/o congiuntivale). Gli attacchi possono durare dai 15 ai 180
minuti, sono spesso concentrati in periodi di tempo di durata variabile e intervallati da periodi di assoluto benessere. Nella forma cronica, non vi sono
periodi di benessere e gli attacchi hanno frequenza pluriquotidiana. Spesso
l’attacco si manifesta all’inizio del sonno, rendendo ancor più drammatica
la condizione del paziente. La terapia
chirurgica di questa sindrome è basata
sulla stimolazione elettrica cronica di
strutture nervose periferiche (nervo
grande occipitale) e centrali (ipotalamo posteriore). Tale metodica è nota
come neurostimolazione o neuromodulazione in quanto permette di modificare in modo reversibile e selettivo
l’attività di circuiti neuronali coinvolti
18
nella genesi dell’attacco di cefalea. La
stimolazione del nervo grande occipitale permette di modulare l’attività
del nucleo discendente del trigemino,
dove le fibre afferenti del nervo grande
occipitale (C1, C2) sono interconnesse con il sistema anatomo-funzionale
trigemino-facciale.6 La stimolazione
cerebrale profonda dell’ipotalamo posteriore permette di modulare direttamente l’iperattività dei neuroni ipotalamici coinvolti nella genesi dell’attacco doloroso. Entrambe le procedure
sono basate sull’impianto permanente
di neuroprotesi, costituite da un generatore di impulsi elettrici e da un elettrodo a contatto con strutture nervose
da modulare attraverso la somministrazione di corrente elettrica (Figura 3 e Figura 4). La stimolazione del
nervo grande occipitale è considerata
l’intervento di prima scelta in pazienti
affetti da cefalea a grappolo cronica,
in quanto molto meno invasivo della
stimolazione dell’ipotalamo, che presuppone l’inserzione di elettrodi cerebrali profondi nell’ipotalamo posteriore con metodica stereotassica simile
a quanto viene effettuato per la terapia della malattia di Parkinson, dove
il bersaglio della stimolazione elettrica
è il nucleo subtalamico.7 Anche i rischi e gli effetti collaterali sono sicuramente minori nella stimolazione del
nervo grande occipitale, dove gli elettrodi sono extracranici e posizionati
sulla porzione terminale del nervo in
prossimità della protuberanza occipitale, che viene utilizzata come repere
osseo per il corretto posizionamento
degli elettrodi stessi (Figura 3). Questa metodica permette un significativo miglioramento clinico nel 60 per
cento dei pazienti operati e permette
di indurre la scomparsa degli episodi
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
dolorosi per lunghi periodi (scopo
dell’intervento è trasformare la forma
cronica in forma episodica) che possono superare i 3-4 anni. I pazienti che
non rispondono alla stimolazione del
nervo grande occipitale sono candidati alla stimolazione cerebrale profonda
dell’ipotalamo posteriore. Questa metodica è stata introdotta dal gruppo di
neurochirurghi (A. Franzini) e neurologi (M. Leone) dell’Istituto Neurologico C. Besta di Milano8 in seguito agli
studi di un neurologo tedesco (Arne
May) che aveva osservato l’attivazione
dell’ipotalamo posteriore durante l’attacco di cefalea a grappolo in pazienti sottoposti a studi di neuroimaging
funzionale9 effettuati a Londra. Questa metodica ha permesso il controllo
della cefalea a grappolo cronica nel 70
per cento dei pazienti operati e seguiti
a distanza di 5-10 anni. Le complicanze di questi interventi di neuromodulazione sono essenzialmente legate
a fenomeni infettivo-infiammatori
che complicano l’impianto delle neuroprotesi e talora rendono necessaria
la rimozione dell’apparato di stimolazione impiantato. Per quanto riguarda
la stimolazione cerebrale profonda,
le complicanze del tempo chirurgico
endocranico sono le stesse riportate
per la chirurgia della malattia di Parkinson e consistono essenzialmente in
fenomeni emorragici intraparenchimali, che in alcuni casi possono determinare deficit neurologici permanenti e/o la morte del paziente (<1 per
cento dei casi nella nostra casistica).
Altre patologie, in cui la stimolazione cerebrale profonda dell’ipotalamo
posteriore è risultata efficace, sono
la SUNCT,10-12 in cui gli episodi di
dolore in regione orbitaria sono brevi
ma numerosissimi e accompagnati da
lacrimazione e fenomeni vegetativi.
Un’altra rara condizione è l’emicrania
parossistica, caratterizzata da episodi
di dolore dalle caratteristiche simili
a quelle della cefalea a grappolo, ma
che vengono aboliti da dosi terapeutiche di indometacina. Il caso di un
paziente affetto da emicrania parossistica cronica sottoposto (con successo)
a DBS è stato riportato da Walcott;13
il paziente in questione risultava allergico all’indometacina.
DOLORE CRONICO
NEUROPATICO
Il dolore neuropatico facciale è caratterizzato da dolore continuo o subcontinuo conseguente a lesioni del
sistema nervoso centrale o periferico.
Tale sindrome può essere causata da
lesioni del sistema nervoso centrale
(lesioni ischemiche talamo capsulari)
o da lesioni ganglionari o periferiche. Lesioni iatrogene del ganglio di
Gasser possono avere luogo nel corso
di interventi chirurgici di exeresi di
tumori del basicranio o della stessa
termorizotomia trigeminale. La sindrome dolorosa si accompagna a un
marcato deficit sensitivo che riguarda
la medesima area interessata dal dolore (anestesia dolorosa). Anche in questi casi la terapia chirurgica è basata
sulla stimolazione elettrica cronica di
strutture nervose coinvolte nella per-
cezione e nel controllo del dolore. La
stimolazione cerebrale profonda dei
nuclei sensitivi del talamo14 è indicata
nel trattamento del dolore conseguente a lesioni del sistema nervoso centrale mentre il dolore neuropatico conseguente a lesioni periferiche è trattato
con la stimolazione corticale. Questa
metodica, introdotta da un chirurgo
giapponese (Tsubokawa) consiste nel
posizionamento intracranico extradurale di un elettrodo in corrispondenza della corteccia motoria nella
porzione che corrisponde alle aree di
attivazione motoria della faccia e della
mano15 (Figura 5). È stato dimostrato,
in ampie casistiche, che la stimolazione elettrica cronica extradurale della
corteccia motoria risulta efficace nel
trattamento del dolore neuropatico
facciale cronico nel 68 per cento dei
casi.16 Una forma peculiare di dolore
neuropatico cronico conseguente a lesioni nervose periferiche è la nevralgia
posterpetica, che può beneficiare di
un’altra forma di neurostimolazione
introdotta recentemente da un neurochirurgo Italo-americano (Giancarlo
Barolat). Questa metodica consiste
nella stimolazione elettrica sottocutanea dell’area interessata dal dolore e
necessita l’impianto di sottili elettrodi
a filo nel sottocute (Figura 6). Le complicanze di queste procedure sono le
medesime della stimolazione del nervo occipitale e sono essenzialmente di
tipo infettivo-infiammatorio locale o
conseguenti alla migrazione e/o frattura degli elettrodi impiantati. I risultati sono promettenti ma non esistono
ancora casistiche sufficienti a confermarne la validità. Tuttavia le scarse
possibilità terapeutiche del dolore
cronico posterpetico facciale rendono
Figura 5
Ricostruzione TAC 3D con finestra per osso (sinistra) in un paziente
sottoposto a stimolazione corticale extradurale monolaterale destra
per dolore cronico neuropatico all’arto superiore sinistro
I quattro contatti dell’elettrodo sono visibili
nell’immagine centrale; a destra, l’immagine di
una registrazione elettromiografica intraoperatoria relativa a tale paziente, in cui si evidenzia
un’attivazione muscolare all’arto superiore sinistro
a seguito di stimolazione con il medesimo elettrodo
in corrispondenza dell’area corticale motoria controlaterale
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
19
proponibile questa procedura che può
essere ben tollerata anche in pazienti
molto anziani. Una possibile indicazione della stimolazione sottocutanea
è la nevralgia facciale atipica quando il
dolore cronico subcontinuo è limitato
ad aree discrete del volto e quando è
conseguente a lesioni nervose periferiche (come quelle conseguenti a procedure odontoiatriche).
EMICRANIA CRONICA
Per emicrania cronica si intende una
cefalea simile alla comune emicrania
episodica, che si manifesta per almeno
15 giorni al mese da più di 3 mesi, in
assenza di uso eccessivo di farmaci.
La prevalenza dell’emicrania rende
tale disturbo tra le più frequenti e disabilitanti condizioni mediche in generale; il 12 per cento della popolazione statunitense ne è affetto e rientra
tra le 20 più frequenti cause mondiali
di disabilità secondo la classificazione
del WHO.17 Una quota di pazienti
emicranici, compresa tra il 3 e il 14
per cento, svilupperà la forma cronica,
in cui, per più della metà dei giorni
del mese, il paziente è affetto dall’attacco doloroso. In questi casi la terapia medica farmacologica non sempre
riesce a ottenere buoni risultati. La
stimolazione del nervo grande occipitale (ONS) può essere considerata nei
pazienti affetti da emicrania cronica
farmacoresistente e che non presentino controindicazioni a una procedura chirurgica eseguita in anestesia
generale. La procedura è chiaramente
identica a quanto precedentemente descritto per la cefalea a grappolo
cronica, così come il razionale, basato
sul complesso neuronale trigemino-
20
cervicale (“Trigemino-Cervical Complex”). Piovesan, nel 2003, ha infatti
ipotizzato la convergenza delle informazioni nocicettive dei territori trigeminali e cervicali a livello del nucleo
caudale del trigemino, che si estende
fino al segmento midollare cervicale
C2.6. I primi casi di ONS per la cura
dell’emicrania risalgono all’esperienza
di Weiner e Reed18 nel 1999, in cui
sono stati trattati, tra gli altri, 8 pazienti affetti da emicrania cronica.
Un altro gruppo,19 rifacendosi agli studi sovramenzionati, ha proposto una
variante di stimolazione con elettrodi
impiantati a livello sottocutaneo-sovrafasciale presso i territori innervati
dai nervi spinali C2 e C3.
Il gruppo di Reed ha invece proposto
un trattamento di neuromodulazione
combinata ONS-stimolazione sottocutanea del nervo sopraorbitario.
Tale proposta terapeutica attinge sia
dal concetto del “trigemino-cervical
complex” sia da una più ampia copertura cutanea della zona riferita come
dolente nell’attacco emicranico.20 La
ONS, così come le suddette stimolazioni sottocutanee, rientrano nell’ambito delle stimolazioni dei nervi periferici. Tuttavia, a differenza di tecniche quali la stimolazione del nervo
vago (VNS), in cui l’elettrodo risulta
del tutto avvolto attorno al nervo in
questione, in questi casi vi sono uno
o più contatti addossati sia al tronco
nervoso principale che alle diramazioni terminali. Il suddetto primo report
sulla ONS per la cura dell’emicrania
in 8 pazienti ha mostrato la pressoché totale scomparsa del disturbo in 4
pazienti; 2 pazienti hanno riferito un
miglioramento importante, sebbene
siano persistiti episodi emicranici, e
Figura 6
Ricostruzione 3D di TC cranio post-operatoria in paziente sottoposto
a intervento chirurgico di posizionamento di elettrodi sottocutanei
in corrispondenza delle regioni innervate dalla I (oftalmica) e dalla II (mascellare)
branca del nervo trigemino, per nevralgia facciale atipica a sinistra
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
i restanti 2 hanno beneficiato di una
riduzione del dolore pari al 50-75 per
cento.18 Il primo studio prospettico in
merito (ONSTIM) ha riportato una
diminuzione della frequenza dell’emicrania di almeno il 50 per cento degli
episodi nel 39 per cento dei pazienti
(su un totale di 66) con un follow-up
di 3 mesi.17 Secondo lo studio PRISM
(controllato, randomizzato, in doppio
cieco) la popolazione di pazienti che
avrebbe il maggior beneficio è quella di coloro che non ha una storia di
abuso di farmaci anti-emicranici.21
Un recente studio multicentrico,
prospettico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo,
su 157 pazienti, ha mostrato come la
ONS dia un beneficio statisticamente
significativo sul dolore, e una riduzione dei giorni di cefalea e di disabilità
relativa, a 3 mesi dall’impianto.22 Il
gruppo di Reed, sottolineando come
l’efficacia della ONS sia solo parziale
nei pazienti emicranici rispetto a coloro che soffrono di nevralgia occipitale,
ha proposto la combinazione ONSstimolazione sottocutanea del nervo
sovraorbitario (SONS). La risposta
clinica, con un follow-up compreso
tra 1 e 25 mesi, ha mostrato un elevato miglioramento della frequenza e
dell’intensità del disturbo, sebbene lo
studio sia stato una raccolta retrospettiva di soli 7 casi.20
Per quanto riguarda le complicanze,
l’infezione del sistema di stimolazione
avviene fino al 20 per cento dei casi
a seconda delle casistiche; il problema
tecnico principale risulta invece essere
l’esaurimento delle batterie dei generatori di impulsi che, a seconda della
corrente elettrica erogata, può avvenire anche nell’arco di pochi anni,
richiedendo così la sostituzione degli
stessi e nuovi interventi chirurgici.
DISTURBO ALGICO
La definizione di tale disturbo secondo il DMS IV-TR consiste in “disturbo in cui un dolore in una o più sedi
anatomiche è causato esclusivamente
o principalmente da fattori psichici,
è il principale fulcro di attenzione del
paziente e causa una sofferenza e delle
disfunzioni significative”. La corteccia
cingolata anteriore (ACC, area 24 di
Brodmann) è stata usata come target per la DBS in due pazienti, uno
affetto da dolore neuropatico e uno
affetto da disturbo algico. Il volume
di tale target e le sue coordinate stereotassiche corrispondono a quelle del
target usato per eseguire le cosiddette
“cingulotomie” nei pazienti affetti da
dolore cronico, disturbo ossessivocompulsivo e depressione maggiore.
Tale target è stato usato da Spooner
nel 2007 per il trattamento di un paziente affetto da dolore neuropatico
cronico farmacoresistente dovuto a un
pregresso trauma midollare;23 Hutchison, nella medesima regione nel corso
di interventi di cingulotomia, ha registrato un’attività neuronale correlata all’anticipazione delle esperienze
dolorose somatiche.24 La paziente af-
Figura 7
Ricostruzione tridimensionale dell’esame RM encefalo post-operatorio
(sezione sagittale) della paziente sottoposta a stimolazione cerebrale profonda
della corteccia cingolata anteriore per disturbo algico
Nell’immagine a sinistra, una ricostruzione tridimensionale dell’esame RM encefalo post-operatorio
(sezione sagittale) della paziente sottoposta a stimolazione cerebrale profonda della corteccia cingolata anteriore per disturbo algico; l’elettrodo, che
attraversa tale regione fino a lambire il corpo calloso; nel riquadro a destra, la freccia indica la corteccia del cingolo nella sua interezza e nel riquadro sottostante vengono rappresentati i 4 contatti
dell’elettrodo in una ricostruzione in coronale.
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
21
fetta da disturbo algico somatoforme
farmacoresistente è stata trattata nel
nostro Istituto con DBS dell’area 24
(Figura 7). La sindrome dolorosa cronica nella nostra paziente coinvolgeva
principalmente il viso, il capo e a volte
gli arti superiori. Il dolore, che durava
da circa 10 anni e che risultava refrattario a qualsiasi tipo di trattamento
conservativo, veniva percepito come
molto intenso, e la paziente aveva
tentato il suicidio per 6 volte per la
concomitanza di un disturbo depressivo secondario. Dopo l’intervento di
stimolazione elettrica della corteccia
cingolata anteriore, per circa 6 mesi la
paziente ha presentato una remissione
pressoché completa della sintomatologia, seguita da 8 mesi di recidiva della stessa; trascorso tale periodo, nuova
remissione sintomatologica; tale ciclo
di remissione-recidiva si è mantenuto
per circa 3 anni, e in atto la paziente
da circa un anno risulta asintomatica.
Si ha quindi l’impressione che la condizione patologica cronica di questa
paziente si sia tramutata in una condizione patologica episodica; naturalmente, anche riguardo a questa indicazione, vi è necessità di cautela nella
selezione dei pazienti; non esistono tra
l’altro altri report sul disturbo algico
sinora trattati con DBS.
CONCLUSIONI
Negli ultimi quarant’anni la microchirurgia, la chirurgia stereotassica e
le metodiche di neuromodulazione
hanno radicalmente cambiato le prospettive terapeutiche dei pazienti con
dolore facciale farmacoresistente.
I pazienti affetti da nevralgia trigeminale e da cefalea a grappolo cronica
22
possono essere trattati efficacemente
con diverse metodiche chirurgiche
la cui sicurezza ed efficacia è stata
dimostrata in ampie casistiche. Anche sindromi rare di dolore facciale
come la SUNCT o l’emicrania cronica parossistica possono essere trattate efficacemente con metodiche di
neuromodulazione. Il dolore neuropatico cronico conseguente a lesioni
del sistema nervoso centrale era considerato intrattabile chirurgicamente,
mentre ora l’introduzione della stimolazione corticale extradurale offre una
prospettiva terapeutica. Rimangono
tuttavia sindromi dolorose croniche
per le quali il trattamento chirurgico
non esiste, o è ancora oggetto di ricerca, come nel caso della nevralgia
posterpetica e della nevralgia facciale
atipica. Un capitolo nuovo è rappresentato dall’emicrania cronica farmacoresistente, per la quale esistono dati
promettenti e numerosi studi in corso
sull’efficacia della stimolazione occipitale anche in questi pazienti.
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Articolo originale
LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE
DEL DOLORE SESSUALE
NELLA DONNA
DIFFERENTIAL DIAGNOSIS
OF SEXUAL PAIN IN WOMEN
Anna Ghizzani, Giancarlo Carli
Dipartimento di Biologia Molecolare,
Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze
Università degli Studi di Siena
RIASSUNTO
La dispareunia, dolore che si presenta
in risposta al rapporto o al tentativo
di rapporto sessuale è un’entità clinica
che riconosce cause di natura molteplice.
Può essere dovuta a cause organiche
o conseguenti a disturbi funzionali
quali la Sindrome del Desiderio
Funzionale Ipoattivo (HSDD),
il vaginismo e vulvodinia
provocata (PVD). Per la diagnosi
dei disturbi funzionali, la raccolta
dei dati anamnestici è fondamentale.
Per la diagnosi di PVD è importante
che il ginecologo abbia esperienza di
pazienti con sindromi di dolore cronico
diffuso a eziologia sconosciuta, quali
la fibromialgia, perché queste sindromi
sono spesso associate. Nella PVD
è presente iperalgesia locale
e diffusa associata a meccanismi
di sensitizzazione centrale. Anche
se nella PVD i segni locali si limitano
a lieve eritema ed edema, ci sono
evidenze che suggeriscono meccanismi
locali di natura neuropatica.
SUMMARY
Dyspareunia, a pain that occurs
in response to an attempted vaginal
entry or to a sexual intercourse,
is a clinical entity that recognizes
multifactorial etiology.
It may be due to organic diseases
or to functional disorders such
as Hypoactive Syndrome Desire
Disease (HSDD), vaginismus
and provoked vulvodynia (PVD).
A full history is fundamental for the
diagnosis of functional syndromes.
For PVD diagnosis, the gynaecologist
must also have experience of syndromes
of chronic widespread pain of unknown
etiology such as fibromyalgia since these
syndromes are frequently associated.
In PVD local and diffuse hyperalgesia
is associated with mechanisms
of central sensitization.
In PVD there
is evidence suggesting local mechanisms
of neuropathic nature, although local
symptoms consist only in light erythema
and oedema.
Parole chiave
Dispareunia, vulvodinia, fibromialgia,
dolore neuropatico, diagnosi
differenziale
Key words
Dyspareunia, vulvodynia, fibromyalgia,
neuropathic pain, differential diagnosis
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
23
24
INTRODUZIONE
DISFUNZIONE SESSUALE
La dispareunia, dolore genitale che si
presenta in risposta al rapporto o al
tentativo di un rapporto sessuale, è
un’entità clinica che riconosce cause
di varia natura che è necessario individuare con esattezza.1 Quando la dispareunia non è associata ad apprezzabili alterazioni genitali esteriori, sono
le caratteristiche del dolore che ci
guidano verso la diagnosi differenziale
tra le varie possibili eziologie, diagnosi
che, come sempre in medicina, è fondamentale per istituire il trattamento
appropriato. Il dolore scatenato dal
tentativo di penetrazione sessuale è
talvolta così intenso da impedire del
tutto il rapporto oppure da durare per
ore o per giorni se questo avviene, ma
l’intensità e la durata dei sintomi sono
indipendenti dall’eziologia che può
essere ginecologica, dermatologica,
sessuologica oppure sconosciuta. Le
cause organiche includono flogosi,
dermatiti, dermatosi, cicatrici da parto, ipotrofia da carenza estrogenica e
sono evidenti all’osservazione. Al contrario, nella dispareunia dovuta a disfunzione sessuale (Sindrome del Desiderio Sessuale Ipoattivo o HSDD)
oppure associata a vulvodinia provocata (PVD) a eziologia sconosciuta,
non ci sono segni esteriori evidenti
che possano orientare la diagnosi. Entrambe queste sindromi disfunzionali
sono caratterizzate da perdita del desiderio e da problemi di coppia. È possibile distinguere la disfunzione sessuale
dalla vulvodinia provocata per mezzo
dell’anamnesi del dolore, della sua insorgenza e della sua durata, suffragata
dall’osservazione dei genitali esterni
che è raccomandabile in alcuni casi.2
La dispareunia come epifenomeno
di una disfunzione sessuale non richiede in genere esami clinici perché
un’anamnesi ben condotta fornisce
tutte le informazioni necessarie alla
diagnosi.
Tra le disfunzioni, la responsabilità
maggiore va al Disturbo del Desiderio
Sessuale Ipoattivo (HSDD) che è definito dal DSM-IV3 come la riduzione
(o la mancanza) di fantasie sessuali e
di desiderio per l’attività sessuale ed
è causato da qualunque situazione
generi un disagio emozionale importante come la presenza di conflitti nella coppia; in altri casi è secondario a
malattie organiche gravi che alterano
la qualità della vita della paziente o di
un suo familiare prossimo, oppure a
lutti, traumi o eventi negativi come
la perdita del lavoro.
In altri casi alla base del HSDD si
trova un disagio intrapsichico verso
la sessualità in generale o verso alcuni comportamenti sessuali specifici
oppure verso la relazione intima con
l’altro sesso o ancora verso l’immagine
di sé come persona competente sessualmente.4
La perdita del desiderio inibisce la
risposta allo stimolo erotico che è
responsabile della lubrificazione fisiologica delle pareti vaginali e del
cambiamento di stato dei genitali
interni dovuto all’allungamento delle
fibre muscolari vaginali (fenomeno
descritto con il termine “ballooning”).
I genitali femminili non sono pronti
ad accogliere il pene se la donna ha
difficoltà a eccitarsi sessualmente e il
rapporto risulta doloroso.5
Ricordiamo che la perdita del deside-
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
rio sessuale può essere la prima manifestazione dell’anedonia che accompagna la depressione.
VAGINISMO
Il vaginismo è una disfunzione sessuale la cui manifestazione clinica è diversa sia dal quadro clinico di HSDD che
da quello di PVD; ne parliamo brevemente perché spesso viene elencato
tra le sindromi di dolore sessuale e vogliamo presentare alcuni elementi che
facilitino la diagnosi differenziale. Il
disturbo è definito dal DSM-IV come
spasmo involontario (non secondario
a cause organiche) della muscolatura
del terzo esterno della vagina che interferisce con il rapporto. Alla difficoltà sessuale è inevitabile che seguano
mortificazione e difficoltà relazionali
ma è importante sottolineare che il
disturbo non provoca dolore a meno
che la penetrazione non venga forzata.
VULVODINIA PROVOCATA (PDV)
Il dolore sessuale così detto “essenziale” non è causato da vaginismo, né da
mancata lubrificazione, né da un disturbo psichiatrico, né da una disfunzione sessuale e neppure dall’effetto
collaterale di un farmaco o di una
malattia organica, perciò lo specialista è chiamato a fare una diagnosi di
esclusione. Il DSM-IV, in tutti i casi
sopra-menzionati, raccomanda di
trattare la patologia primitiva e considerare la dispareunia come parte del
corredo dei sintomi. Per la diagnosi
differenziale di dispareunia essenziale
il medico deve conoscere le sindromi
di dolore cronico diffuso a eziologia
sconosciuta, come la fibromialgia, di
cui il dolore sessuale può rappresentare una componente. Friedrich6 ha
descritto per primo la sindrome di
dolore sessuale nel 1987 chiamandola Sindrome Vulvo Vestibolare (VVS)
che attualmente si preferisce chiamare Vestibolodinia Provocata (PVD)
per sottolinearne la natura reattiva e
non flogistica.7 Le caratteristiche individuate da Friedrich e ripetutamente
confermate sono: modesto eritema e
modesto edema localizzati all’ostio
vestibolare accompagnati da dolore
urente in risposta a un lieve stimolo
pressorio che in donne sane è percepito come innocuo. Spesso, anche se
non sempre, con la visita bimanuale
si apprezza l’ipertono dei muscoli del
pavimento pelvico, cioè il muscolo
pubo-coccigeo, ramo del muscolo
elevatore dell’ano, che accompagna il
corteo dei sintomi descritti sopra.
La PVD porta molte limitazioni nella vita di una paziente, perché oltre al
sesso ci sono altri comportamenti, del
tutto banali per le donne “normali”,
che scatenano l’iperreattività dell’ostio
vaginale, quali lo stare seduta per un
certo tempo, andare in bicicletta,
camminare a lungo e indossare vestiti
attillati come i comunissimi blue jeans o indumenti intimi che non siano
bianchi e di cotone.8 La limitazione
maggiore è quella imposta alla vita
intima perché il dolore rende insopportabile il rapporto e crea distanza
emotiva con il partner che si sente
respinto, non amato e perfino responsabile di una reazione che gli è incomprensibile, che la sua compagna non
sa spiegare e che può essere difficile
da diagnosticare anche per il medico.9
La PVD insorge in modo quanto mai
vario: può essere al primo rapporto,
dopo anni di vita sessuale normale,
durante una gravidanza o dopo la menopausa ma ci sono pazienti che hanno avuto dolore “lì” fin da piccole.
Iperreattività mucosale
La diagnosi di PVD si ottiene della
raccolta corretta dei dati anamnestici
che sono l’unico strumento indispensabile a questo scopo. Il Q-tip è un
semplice test che si è dimostrato utile,
non per la diagnosi, ma per valutare
il grado di iperreattività mucosale10
che guida la scelta delle prescrizioni
farmacologiche e comportamentali. Il
test si effettua applicando un cotton
fioc in vari punti dell’ostio vestibolare
con una pressione leggera e costante
mentre la paziente valuta l’intensità
del dolore provocato. Nel nostro laboratorio somministriamo il test alle pazienti PVD all’inizio del trattamento
stimolando con una leggera pressione
costante il vestibolo ai punti 2, 4, 6,
8, 10 dell’orologio per 5 secondi. Le
pazienti valutano l’intensità della loro
reazione mucosale su una scala VAS
0-5. Il test è stato effettuato anche
in un gruppo di volontarie sane per
calibrare il metodo nel nostro laboratorio e confrontarlo con esperienze di
altri autori.11-14
Alcuni sperimentatori attualmente
studiano invece la soglia del dolore
con i (peli) filamenti di von Frey, cioè
con stimoli pressori puntiformi, che
sono certamente calibrati nell’intensità ma poco simili allo stimolo pressorio del coito.
Il vantaggio del metodo del cotton
floc consiste nel produrre dolore solo
nei siti allodinici mentre il metodo
von Frey, che si propone di valutare la
soglia del dolore nei cinque siti standard, richiede molto più tempo ed è
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
ovviamente più fastidioso.
Anche se l’eziopatologia della PVD
viene considerata ignota, studi recenti
suggeriscono un contributo importante da parte di meccanismi neuropatici periferici.15,16 Reperti istologici
e istochimici in pazienti affette da
PVD indicano infatti cambiamenti
strutturali dell’innervazione vulvare
con sprouting tra le cellule epiteliali,
aumento delle terminazioni nervose
intraepiteliali17,18 e aumento delle afferenze papillari TRPV1.19 L’allodinia
vulvare prodotta da stimoli meccanici
e termici (caldo e freddo) è probabilmente associata a sensitizzazione
locale periferica sia dei recettori polimodali C normalmente meccano-sensibili che dei meccano-insensibili.20,21
È interessante ricordare che una simile iper-innervazione, associata a
prolungata allodinia, è stata descritta
in un modello animale di allodinia
nelle topoline sottoposte a ripetute
infezioni fungali vulvovaginali sperimentali.22 In conclusione, poiché
questi meccanismi periferici sono associati sia alla vulvodinia che alla esaltata sommazione temporale a stimoli
pressori,23 è stato suggerito il coinvolgimento anche di meccanismi di sensitizzazione centrale nella patogenesi
della vulvodinia.24 L’ipotesi di una
sensitizzazione centrale è avvalorata
dal reperto di abbassamento diffuso
delle soglie dolorifiche meccaniche
e termiche.20,21,23,25 Questa iperalgesia
diffusa, comunemente associata alla
PVD, deve essere ricercata soprattutto per la diagnosi differenziale di altre
patologie che vengono descritte come
“Sindromi da sensitizzazione centrale” (Yunus) e per la determinazione
di comorbidità della PVD con queste
patologie.
25
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
E COMORBIDITÀ
Se teniamo a mente la sequenza temporale in cui i vari aspetti del disagio
sessuale si presentano appare facile,
addirittura intuitivo, distinguerli: nel
vaginismo il corteo dei sintomi è causato dall’ostacolo fisico, nell’HSDD
dalla perdita del desiderio e nella
PVD dalla dispareunia.
Le sindromi di dolore cronico a eziologia sconosciuta, sia diffuso che localizzato, tendono ad associarsi in uno
stesso paziente.
Per questo motivo le pazienti fibromialgiche devono essere valutate attentamente perché potrebbero essere
portatrici di altre sindromi, spesso
identificate come “Sindromi da Sensitizzazione Centrale”,26 quali colon irritabile (IBS), cistite interstiziale (IC),
dolore temporo-mandibolare (TMD)
e fatica cronica (CFS); al momento si
hanno meno dati sull’associazione con
la PVD che è stata descritta recentemente e attualmente è forse ancora
poco conosciuta. È possibile che il dolore cronico diffuso che coinvolge tutto il corpo possa mascherare il quadro
meno pervasivo della PVD.
Infatti, il dolore da PVD può non
essere riconosciuto nemmeno dalla
paziente, che attribuisce la sua sofferenza sessuale alla malattia principale.
Per essere sicuri di non trascurare la
diagnosi di una malattia associata e
garantire un trattamento quanto più
completo possibile, è necessario essere
molto attenti nell’analisi dei sintomi e
della loro sequenza temporale.
Al Laboratorio di Psicofisica del Dolore dell’Università di Siena stiamo conducendo uno studio sull’associazione
26
tra FM e PVD che dimostra come
circa un terzo delle donne fibromialgiche riferisce chiari sintomi di PVD
che fino a quel momento non erano
stati riferiti perché considerati un epifenomeno della FM.
Va sottolineato che, anche se le donne
non erano consapevoli della presenza
di PVD associata alla fibromialgia, la
sua diagnosi di malattia associata e il
conseguente trattamento sono importanti perché permettono il recupero
funzionale dell’attività sessuale, la diminuzione della gravità dei sintomi
e il miglioramento della qualità della
vita.
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Review
STORIA DELLE TEORIE
DEL DOLORE
HISTORY OF PAIN THEORIES
Mirko Silvestrini, Claudio A. Caputi
SOD Medicina del Dolore
Azienda Ospedaliero-Universitaria,
Ospedali Riuniti di Ancona
RIASSUNTO
La storia del dolore è lunga quanto
quella dell’umanità. Sono state
formulate molte teorie sperimentali,
ma a oggi nessuna offre una spiegazione
esaustiva. Storicamente, la clinica
ha messo in pratica la visione che
le civiltà sviluppavano circa il dolore.
Questa review analizza la storia delle
teorie del dolore attraverso un’indagine
della letteratura pubblicata fino al
2013; le fonti principali sono stati
i più importanti motori di ricerca
(Google Scholar e PubMed) utilizzando
keywords come history of pain theories,
chronic pain, neuromatrix.
Le pubblicazioni più rilevanti
sono state scrutinate e citate.
Gli autori concludono che oggi
si rigetta la nozione di centro specifico
per il dolore, a favore di molteplici
reti neuronali integrate in una
neuromatrice, determinata da genetica
e vissuto. Essa genererebbe l’esperienza
del sé-corporeo, di cui dolore
e sofferenza fanno parte.
SUMMARY
The history of pain is as long
as that of the human race.
Several theories have been developed
but none of them are yet exhaustive.
Historically, the clinical approach
has reflected the vision that society
had about pain.
This review analyzes the history
of pain theories through searching
the literature up to the year 2013.
The main source were Google Scholar
and PubMed, using a number
of keywords, e.g. history of pain theories,
pain, chronic pain and neuromatrix.
Relevant issues were then reviewed
and quoted.
The authors conclude that today
the notion of specific central pain
region is rejected in favour of
multiple neuronal networks
integrated in a neuromatrix,
genetically and experientially
shaped. It generates the body-self
sense, which includes both pain
and suffering.
Parole chiave
Dolore, dolore cronico, teoria,
storia, neuromatrice
Key words
Pain, chronic pain, theory, history,
neuromatrix
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
27
INTRODUZIONE
Come osserva Illich “Ogni cultura
elabora miti, rituali, tabù e standard
etici al fine di far fronte alla fragilità della vita […] per spiegare il significato del dolore, la dignità nella
malattia, il ruolo del morente o la
morte”.1 Questo tentativo, tanto costante quanto necessario, di inscrivere
tali fenomeni entro aree semantiche
ben precise, rappresenta uno sforzo
ermeneutico-antropologico
ancor
prima che scientifico, e ha caratterizzato costantemente e universalmente
le espressioni culturali umane. Infatti,
per comprendere l’esperienza dolorosa in senso pieno dobbiamo contestualizzarla in una cultura, in quanto
essa fornisce una modalità di soffrire.
Concetti quali dolore e sofferenza
sono stati di volta in volta reinterpretati, anche il loro rapporto reciproco
ha vissuto dinamiche turbolente. Da
posizioni olistiche, in cui dolore e
sofferenza rappresentano due aspetti
integrati e riconosciuti, a posizioni
riduzionistiche medicalizzate, basate
sulla esclusiva visione “nocicettiva”
o psicologizzate, basate sull’esclusiva dinamica della “conversione”. La
storia del binomio dolore-sofferenza
andrebbe declinata nello spazio e
nel tempo dell’evoluzione culturale.
Eppure il dolore è un’esperienza così
connaturata all’essere umano che si
sarebbe dovuta sviluppare una visione
univoca della sua natura già da molto
tempo. Ironicamente, sembra che più
si tenti di definirne i confini eziologici
e clinici, più il dolore tenda a offrire aspetti oscuri e non codificabili. Il
significato soggettivo che la persona
dà al proprio dolore, assieme alla sua
28
capacità di soffrirlo, non può prescindere dai condizionamenti contestuali.
In termini evoluzionistici, il dolore rappresenta un sistema di allarme
sensoriale ed emozionale con lo scopo
di segnalare rapidamente un danno
tissutale o un processo degenerativo
in atto. Sulla scorta di questa segnalazione seguirebbe quindi un comportamento adattivo e un processo
biologico reattivo. In termini clinici, il dolore è attualmente concepito
come il quinto segno vitale accanto
alla frequenza respiratoria e cardiaca,
alla temperatura e alla pressione arteriosa2-5 per giunta con “l’obbligo di riportare la rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica” come recita, per l’Italia, l’art. 7 della Legge n.
38 del 15 marzo 2010. La definizione
di dolore come “strumento difensivo”
è propria del dolore acuto, cioè di un
fenomeno secondario a qualcos’altro.
Quando invece tale condizione persiste al di là del processo di guarigione,
perdendo così la sua funzione difensiva, acquisirebbe lo status di patologia,
di condizione autoreferenziale.6,7
Questa differenziazione rappresenta
un netto spartiacque tra due paradigmi di dolore qualitativamente diversi:
il dolore come sintomo, ovvero il dolore acuto e il dolore come patologia,
ovvero il dolore cronico. Proprio perché fenomeno esistenziale, antropologico, e socio-economico oltre che biologico, storicamente il dolore è stato
definito, classificato, concepito e vissuto in modi eterogenei. L’attuale definizione dell’International Association for the Study of Pain (IASP) fotografa il dolore come: “un’esperienza
sensoriale ed emozionale spiacevole
associata a danno tissutale, in atto o
potenziale, o descritta in termini di
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
danno”. Oltre all’aspetto sensoriale
secondario a una lesione organica, la
definizione indica quindi l’esperienza
del dolore in termini più complessi,
cioè bio-psicologici.
STORIA DELLE TEORIE
DEL DOLORE FINO AL 1800
La storia del dolore è tanto lunga
quanto quella dell’essere umano stesso. Sono state formulate e proposte
molte teorie così come diversi modelli scientifico-sperimentali ma, a
oggi, per quanto ognuno di essi abbia
avuto una certa fortuna e una propria
utilità, nessuno è mai riuscito a dare
ragione della complessità propria di
questo fenomeno. Storicamente, la
clinica del dolore ha sempre riflettuto
l’interpretazione che di volta in volta
le civiltà sviluppavano a proposito del
fenomeno dolore.
Epoca preistorica e animismo
In un contesto di tribù animiste, del
passato ma anche della contemporaneità, al di là delle singole differenze,
si crede che il dolore e la sofferenza
siano direttamente ascrivibili a spiriti
maligni e a forze occulte penetrate nel
corpo.8
Queste culture, filosoficamente e religiosamente complesse, produssero nel
passato articolati dispositivi culturali,
riti e simbologie, al fine di allontanare
o di ingraziarsi i demoni responsabili
delle malattie, del dolore, dell’afflizione e della morte. La figura dello
stregone o dello sciamano era quella
che dava le interpretazioni e attuava
le procedure individuali e collettive
necessarie. Tutto ciò che risultava positivo e negativo a livello sensoriale,
doveva essere “letto” e “categorizzato”
tramite simbologie in complesse cosmogonie al fine di poter attuare azioni riparatrici o propedeutiche, i rituali
appunto, vere e proprie performance
socio-culturali. In Europa, possiamo
ritrovare tale visione durante l’età del
bronzo (fino al 1000 a.C.) in cui si
pensava che le offese al Dio avrebbero
causato malattie e dolore.
La medicina tradizionale cinese
La testimonianza più antica pervenuta a noi circa il tentativo di dare un
significato al dolore risale alla medicina cinese tradizionale dove il termine
“dolore” compare per la prima volta
nel trattato medico Huang Di Nei
Jing scritto più di 3000 anni fa. 9,10
Secondo i canoni di quella cultura,11
il dolore era il frutto di uno sbilanciamento tra Yin e Yang, una diade
di forze complementari e interrelate l’una nell’altra e dinamicamente
interconnesse. Un eccesso dello Yin
avrebbe dato luogo al “freddo” e danneggiato la forma della materia biologica. Viceversa, uno sbilanciamento a
favore dello Yang avrebbe causato “calore”, un danno agli equilibri energetici del corpo e quindi dolore. Si postulava, inoltre, il concetto di energia
corporea circolante lungo una serie di
canali e meridiani. La terapia mirava
al ripristino dell’equilibrio delle due
forze. L’agopuntura, oggi presente
anche in Occidente, veniva prescritta
per sbloccare i ristagni energetici lungo detti meridiani e canali.11
La visione “tragica”
del mondo classico
Nel mondo Occidentale, dall’antica
Grecia fino all’avvento del pensiero
scientifico contemporaneo, secondo
Natoli, si dipanano due distinte correnti di pensiero entro le quali il concetto di dolore è stato di volta in volta rimodellato: la visione tragica del
mondo classico e la visione ebraicocristiana.12
Dall’accettazione della reciproca necessità di vita e morte nasce la visione
tragica del mondo. Ciò che dona la
vita e la felicità dona ineluttabilmente
il dolore e la morte. In questo realismo, il dolore stesso, interrompendo
il trascorrere armonico dell’esistenza,
è anticipatore di morte ineluttabile,
quindi è tragedia. La morte, è però
condizione necessaria affinché vi sia
una nuova vita. Non è concepibile nel
pensiero classico una felicità disgiunta
dal dolore.13
Questa circolarità, che è accettata
come elemento della vita stessa, non
viene combattuta né rimossa. Il dolore e la sua esperienza sono interpretati
in questa cornice semantico-esistenziale sia individualmente sia collettivamente.
Proprio appellandosi alla natura umana, nei limiti del consentito, l’uomo
ha a disposizione l’opportunità e la
consapevolezza di poter coltivare arti
e virtù al fine di lenire il senso del tragico che gli è proprio e per dare una
forma, una “ragione” alla propria esistenza tutta terrena. Poiché per i greci
antichi la ragione è la più nobile delle
facoltà umane, essa deve essere esercitata per fini terreni, per dare significati e forme all’esistenza. Il dolore, se
letto con ragione, sarà un’opportunità
di crescita per le umane arti e virtù.
Affrontando il dolore e arginando la
sofferenza entro una “forma”, un’armonia, il greco della classicità tende
a diventare virtuoso. Il dolore nel
mondo classico tende a diventare in-
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
nocente, cioè non secondario a colpe
o peccati, bensì connaturato alla vita
stessa, e perciò accettato. La sofferenza è concepita nell’ambito del complesso rapporto tra dolore di natura
somatica e dolore di natura psichica.
In Occidente, la visione animista del
dolore come una punizione divina
causata dalle negligenze umane o da
una presenza intrusiva degli spiriti
maligni viene ridimensionata a partire dalla cultura greca.13 Nell’Occidente, la prima descrizione del dolore
appare per la prima volta nell’ottavo
secolo a.C., nei poemi epici del poeta
greco Omero, l’Iliade e l’Odissea.14
Con Ippocrate (460-377 a.C.), si
inaugura una nuova concezione organicista della medicina, nuove arti
sanitarie basate su tentativi di interpretazione razionale dei fenomeni naturali.13 Sarebbero le circostanze umane della persona e non gli interventi
divini a causare la malattia e il dolore.
La teoria umorale seguita da Ippocrate sostiene che il corpo è governato
da quattro diverse tipologie di umori,
bile gialla e nera, sangue e flegma.15
Le varie combinazioni e gli equilibri
tra questi fluidi condurrebbero a salute o a malattia. Tra i presocratici,
Democrito (460.360 a.C.) interpreta
i dolori come rimandi a una vita condotta in modo non retto. Il rimedio
era il perseguimento della saggezza e il
rifuggire dai beni materiali.16 Platone
(428-347 a.C.) concepisce il dolore
come proveniente da aspetti sensoriali ma anche dalle emozioni proprie dell’anima che alberga nel cuore.
Il dolore sarebbe lo scotto da pagare
per chi si è allontanato dalla verità assoluta.17 La rettitudine poteva essere
guadagnata lungo un percorso di sofferenza purificatrice. L’uomo, per gli
29
Stoici (300 a.C.), con l’autocontrollo
e il distacco dalle cose terrene, poteva sopportare e superare la sofferenza
fino a raggiungere l’integrità morale e
intellettuale.
Nella loro etica del dovere, “sopporta
e astieniti”, venivano accolte le vicissitudini della vita senza per questo farsi
emotivamente coinvolgere.15
Alcmeone, Democrito e Anassagora
ipotizzarono che il cervello, e non il
cuore come Empedocle preconizzava,
fosse la sede della sensibilità e della
razionalità.8 Lo stesso Aristotele (384322 a.C.) postulava il cuore come la
sede delle sensazioni (vista, udito, tatto, olfatto e dolore), sostenendo che
proprio il tatto, a fronte di stimoli
eccessivi, fosse il responsabile del dolore. Formulò così il primo concetto
organicista del dolore.11
Il dolore era ormai associato a cause
organiche e sottratto a quel velo di
misticismo che ancora lo caratterizzava. Egli ipotizzava il dolore come
“emozione che irrompe nella coscienza”. Erofilo (335-280 a.C.) dimostrò
anatomicamente l’appartenenza del
cervello al sistema nervoso centrale e
postulò l’encefalo come la sede della
percezione come Pitagora (570-495
a.C.) e Anassagora (500-428 a.C.)
avevano sostenuto in precedenza.8
Galeno (130-201 d.C.) e Avicenna
(980-1039) in seguito avrebbero ripreso tale ipotesi.14
Galeno, inoltre, ipotizzava la presenza
dei meccanismi del dolore nel SNC,
descrivendo il processo acuto infiammatorio come caratterizzato da dolor,
calor, rubor, tumor (tetrade originaria
del romano Celsus, 25 a.C. - 50 d.C.)
e functio laesa.16 La cultura greca,
nonostante le proprie interpretazioni naturalistiche e razionalistiche del
30
dolore, non seppe scegliere tra algos,
pathos, odune e aisthesis.8
La tradizione giudaico-cristiana:
dalla Bibbia al Medioevo
Nel Vecchio Testamento, il dolore
consegue a una colpa ed è in relazione
a un peccato, inteso come scioglimento dell’alleanza con Dio conseguente
alla violazione del patto che ha come
fine la salvezza dell’uomo.12 Tale alleanza è promessa e legge allo stesso
tempo, quindi il peccato è possibile
solo nell’ambito di tale contesto. La
promessa divina circa la salvezza dalla schiavitù e dalla sofferenza è possibile solo se l’uomo, grazie alla fede
e al rispetto dei comandamenti, saprà
condurre una vita terrena ineccepibile. Ecco che tale conduzione separa
l’uomo dalla vita terrena in favore della contemplazione di una vita ultraterrena priva di dolore e sofferenza,
tutta da guadagnare. Nel frattempo
la vita terrena è luogo di sofferenza,
di dolore e di stenti proprio perché,
per sua natura, l’uomo è imperfetto
e tende a trasgredire le leggi divine.
Di qui il meritato castigo terreno, il
dolore appunto.13 Esso è sì punizione
ma è anche espiazione e unico viatico
verso la redenzione. “Paziente” è colui
che sa sopportare, sa stare nel dolore.
Nel Nuovo Testamento, il dolore
viene interpretato in modo diverso.
Cristo, poiché è il solo a essere puro e
retto, ha posto in essere un sacrificio
espiatorio, accentrando su di sé la sofferenza del dolore fisico e della morte
e, in generale, quella del male. Illich
sottolinea che in alcune lingue come
il francese e l’italiano, in contesti clinici, il dolore fisico è anche nominato
“male” (J’ai mal là/Mi fa male qui).18
Gesù, detto per ciò “il redentore”,
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
con la sua morte esemplare estingue
il peccato e il male per tutta l’umanità presente e futura. Da Gesù in poi
non si rendono più necessari ulteriori
sacrifici tra gli uomini. D’ora in poi
il dolore, proprio della vita terrena,
deve essere accompagnato con docilità e pazienza, come abbandono e
adesione alla sofferenza di Cristo, un
preciso mezzo che avvicina a Dio.
Sant’Agostino d’Ippona (354-430)
distinse il male fisico del corpo dal
male morale dell’anima legato al peccato, sorpassando così la convinzione che la malattia e il dolore fossero
punizioni divine provenienti dalle
cattive condotte umane. Nonostante ciò, attribuì una natura metafisica
al dolore, alla fame, alla malattia e al
peccato. 15
In contesti medioevali clericali, il dolore, a volte, era incluso nell’ambito
della “pedagogia della sofferenza”, in
cui veniva accettato e ricercato tramite pratiche auto-punitive per fini
espiatori, per redimersi e per crescere
spiritualmente.19 Tommaso d’Aquino
(1224-1274), frate domenicano, interpretò il dolore come una passione
dell’anima sostenendo che quando
soffre il corpo patisce anche l’anima.
Propose l’idea che la compassione altrui avesse la capacità di lenire il dolore del sofferente, condividendone
il fardello e alleggerendone la pena.20
Nel suo Summa Theologiae, Tommaso ricordava che il fine ultimo della
vita è il raggiungimento della felicità
terrena e quindi eterna, concezione
cristiana coincidente anche con la
spiritualità orientale.21 L’affrancamento dal dolore e il raggiungimento
della felicità erano possibili solo grazie
all’autodisciplina che, per il pensiero
ebraico-cristiano stava nell’osservare
i dieci comandamenti, nel pensiero
orientale nel praticare le regole dello
yama-niyama (astensione-disciplina).
Il concetto dell’autodisciplina è presente anche nelle ultime teorie cliniche del self-management del dolore e
la de-passivizzazione del paziente.22,23
Il dolore tra Medioevo e modernità
Nel Medioevo si sviluppò la medicina
conventuale dei monaci benedettini.
L’utilizzo di erbe medicinali personalmente coltivate, preparate in pozioni
e direttamente vendute nelle botteghe-farmacie dei monasteri faceva di
questi monaci gli antesignani della
futura industria farmaceutica.8 Molto
tempo prima, in Cina, il medico Hua
Tuo (145-208) aveva somministrato
preparati a base di cannabis e vino
per anestetizzare i pazienti da operare
chirurgicamente: un antesignano dei
concetti di anestesia e analgesia.11
Avicenna (980-1037) medico e filosofo musulmano, nel suo Canone
della Medicina del 1025, propose
per la prima volta il dolore come una
sensazione indipendente dal tatto
o dalla temperatura11 ed estese da 4
a 15 i tipi di dolore della precedente classificazione di Galeno24 usando
una terminologia molto simile agli
aggettivi-descrittori del McGill Pain
Questionnaire,25 uno dei questionari
più usati oggi per la valutazione del
dolore. Egli, inoltre, avanzò l’ipotesi
che la vera causa del dolore fosse il
cambiamento delle condizioni fisiche
dell’organo coinvolto, a prescindere
dalla presenza o meno di un danno.
Ciò fece di questo medico un degno
precursore dell’algologia moderna e il
primo a formularne una teoria specifica.26
Con la svolta dell’anno mille, l’Euro-
pa vide nascere la fase pre-universitaria della medicina. In questo contesto, principalmente per merito della
Scuola Salernitana, la medicina fu
coinvolta in un processo di laicizzazione che permise di tornare a concepire malattia e dolore come gli effetti
di cause naturali.27
Tra Rinascimento ed epoca moderna, epoca di fatto universitaria, Galilei (1564-1642) e Descartes (15961650) rappresentano i maggiori
fautori dell’evoluzione del pensiero
scientifico e del metodo sperimentale
applicato al dolore.8
Il primo gettò le basi per una visione
razionale del dolore permettendo così
l’abbandono di concezioni filosofiche
e metafisiche.
Il secondo considerò il dolore come
un preciso segnale sensoriale relativo
a determinate disfunzioni biologiche.
Con Descartes comparve il modello di trasmissione dell’informazione
sensoriale dolorosa dove uno stimolo esterno attivava i nervi periferici
i quali, tramite il midollo spinale e
i ventricoli cerebrali, portavano alla
ghiandola pineale l’informazione che,
in quella sede, sarebbe diventata percezione cosciente.11
La rigorosa logica dualistica cartesiana
esclude la possibilità dell’intervento di
fattori metafisici ma anche psicologici
nella percezione del dolore.28 Corpo e
anima erano per la prima volta nettamente separati sotto il punto di vista
della conoscenza.
Il corpo equiparato a una macchina e
il dolore a un segnale che permetteva
al corpo di reagire in segno di autodifesa. Successivamente, Willis (16211675), pioniere dell’anatomia dell’encefalo, fornì convincenti prove circa il
ruolo del cervello nella percezione del
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dolore, includendo la corteccia cerebrale.14
Questa nuova concezione era nettamente in contrasto con quella proposta da Paracelso (1493-1541) qualche
decennio prima.
Egli basava la sua medicina su un approccio olistico dell’uomo, in cui il
dolore era interpretato in termini psicofisici e non scotomizzando la psiche
dal soma.8 Al centro della sua medicina c’era l’uomo vivo e la semeiotica. Il
suo approccio non era aggressivo bensì conservativo: “bisogna solo stimolare la natura ed essa provvederà da sé”.
Sul versante dell’anestesia utilizza per
primo l’etere solforico e il laudano.
Il laudano in forma liquida, un composto a base di oppio, zafferano, cannella, chiodi di garofano e vino per
scopi analgesici e antidolorifici venne
invece utilizzato da Sydenham (16241689).29 Sempre lungo il versante
psicofisico, Spinoza (1632-1677) nel
concetto di dolore inserì anche quello
di melanconia a tal punto che il dolore è visto come un’emozione, anticipando così il concetto di dolore come
emozione omeostatica.30 Utilizzando
il termine “tristizia” intendeva appunto indicare contemporaneamente sia
il dolore fisico sia quello di origine
psichica, anticipando in questo caso
l’attuale concetto di total pain.8 Alla
fine, questo periodo sarà caratterizzato da una concezione scientifica della
natura, in cui prevaleva un forte razionalismo che avrebbe caratterizzato
il metodo sperimentale della moderna medicina meccanicistica. Qui il
focus era tutto proiettato sugli aspetti
organicistici della malattia. Il dolore
era sempre più concepito in termini
causali-lineari, sintomo esclusivo di
una causa fisica, tangibile, prossima.
31
Se il dolore era diventato “utile”, perché funzionalmente adattivo, gettando così le basi del concetto di dolore
acuto, si allontanava, d’altro canto,
la partecipazione attiva della psiche
al percetto del dolore. Le proposte
di Paracelso e di Spinoza, inerenti a
una visione psicofisica del dolore, non
avrebbero trovato seguito, in quanto
la concezione newtoniana del razionalismo scientifico avrebbe preso il
sopravvento, disarticolando nuovamente il rapporto tra dolore e sofferenza. Rimaneva comunque il punto
fermo che il cervello rappresentava il
vertice più alto dalla sensibilità, mentre il dolore diventava un input afferenziale.
Dal finire del Diciottesimo secolo
fino ai giorni nostri, un caso particolare nel rapporto tra mente e sensazione, razionalità e suggestione fu
rappresentato dall’ipnosi. L’ipnosi è
definibile come un’induzione seguita
da una o più suggestioni.31
L’esperienza della suggestione è un
fenomeno capace di elicitare cambiamenti e alterazioni nella percezione soggettiva, nella sensazione, nelle
emozioni, nei pensieri o nel comportamento.32
Una serie di nomi sono legati alle fortune alterne di tale tecnica: Mesmer
e il magnetismo animale, Elliotson e
l’analgesia da ipnosi durante la chirurgia, Charcot e l’induzione tramite
ipnosi delle nevrosi, Bernheim e la
cura dell’isteria, Janet e la dissociazione ipnotica, Breuer e il trattamento
dei sintomi della paralisi, Freud e le
reazioni isteriche, Hull e la possibilità di alterare la percezione del dolore,
Erickson e Hilgard che fece ricerche
sugli effetti dell’ipnosi e sull’analgesia
da ipnosi.
32
STORIA DELLE TEORIE
DEL DOLORE DAL 1800
AL PRESENTE
A questo punto, il concetto di dolore si disgiunse da quello di sofferenza specializzandosi in modelli sempre
più sofisticati in termini neuroanatomici e neurofisiologici. Nemmeno la
psicologia scientifica se ne interessò
particolarmente, in quanto figlia di
un approccio positivistico. Dal 1850
in poi, con la nascita della fisiologia
sperimentale, ebbe inizio una nuova
stagione di ricerca basata sullo studio
della sensibilità. Il dolore, sulla scia del
pensiero cartesiano, sarà inizialmente
interpretato in chiave riduzionista,
esclusivamente come input afferenziale, fino a essere concepito nuovamente
come percetto frutto di una commistione di variabili sensoriali-discriminative, emotivo-motivazionali e cognitivo-valutative sullo sfondo di un
paradigma bio-psico-sociale. In ambito sperimentale, si è molto discusso se
il dolore fosse mediato da specifiche
strutture neuroanatomiche o se queste
fossero in condivisione con altre funzioni sensoriali, per esempio il tatto, le
funzioni termiche o gli assi neuroendocrini. Fino a oggi, condizionati da
tale dicotomia, si sono maggiormente
evidenziati otto modelli: la teoria della
specificità, dell’intensità, del pattern,
del cancello, della modulazione discendente, della neuromatrice, della
matrice del dolore e dei disturbi del
dolore idiopatico.
La teoria della specificità:
un approccio qualitativo
Per la teoria della specificità, il dolore
rappresenterebbe una modalità speci-
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
fica di sensibilità, dotata di un proprio
apparato afferente distinto dalle altre
afferenze sensoriali. Sebbene sia stata
la prima a essere formulata in ambito
scientifico, tale teoria è, di fatto, una
delle più influenti. Per questo approccio il dolore, che non è spiegabile tramite una causalità lineare, non può
essere considerato reale e quindi sarà
di pertinenza psichiatrica.15 La prima
scoperta che offre basi scientifiche allo
studio del dolore è rappresentata dalla legge Bell-Magendine della prima
metà dell’Ottocento, la quale sostiene
che le radici nervose anteriori spinali
sono di natura motoria, mentre quelle
posteriori hanno una funzione sensoriale. Nel 1835, il fisiologo Muller
propone la legge della energia specifica dei nervi per cui la natura della
percezione è definita dalla via nervosa sulla quale transita l’informazione
sensoriale. Perciò le differenze nella
qualità della sensazione, udito, vista,
olfatto, tatto e dolore sono causate
dalle differenze delle strutture nervose elicitate da tali stimoli33 anche se
ancora non sapeva se tali differenze
fossero ascrivibili alle vie nervose periferiche o al sistema nervoso centrale.
Sul finire del Diciannovesimo secolo
il fisiologo Max von Frey evidenziò
che la cute umana era caratterizzata
da molti punti sensoriali, peculiari per
le diverse sensazioni. Le terminazioni
libere dei nervi nella cute furono classificate come recettori specifici del dolore. Da questa scoperta, in seguito, si
riuscì a identificare la cosiddetta “via
del dolore” nei tratti spinotalamici.34
All’inizio del Ventesimo secolo la formulazione del concetto di nocicezione
e di sinapsi avrebbe dato ulteriore sostegno a tale teoria. La psicologia, sul
finire dell’Ottocento, diede al dolore
un duplice significato, quello di sensazione e quello di sentimento. Medicina e psicologia non ebbero modo di
confrontarsi costruttivamente e l’avvento della medicalizzazione, dietro
la spinta dell’industrializzazione, non
fece che acuire il pensiero positivistico
e la visione meccanicistica del dolore.
Il sopravvento del sensismo e il relativo riduzionismo biologico del dolore
ebbe l’effetto di escludere la coscienza
e la sofferenza dalla clinica sanitaria.
Di conseguenza, in tale sede, l’obiettivo fu quello di inibire la sensorialità,
bloccare lo stimolo nocicettivo tramite le neurotomie periferiche, le cordotomie, le sinapticectomie, l’anestesia
locale per contatto, l’anestesia spinale,
l’alcolizzazione e la roentgenterapia.
John Bonica, anestesista italo-americano e padre della terapia del dolore,
fondò a New York il primo ambulatorio di terapia antalgica, evento storico
riguardo l’utilizzo del blocco nervoso
periferico, con modalità anestetiche o
ablative, come metodica terapeutica o
palliativa a fronte del dolore refrattario ad altre terapie o intrattabile.
La teoria dell’intensità:
un approccio quantitativo
Per i sostenitori di tale approccio, il
dolore sarebbe il risultato di qualsiasi
stimolo sensoriale che avesse raggiunto una particolare intensità. Durante
il termine del Diciannovesimo secolo,
il neurologo Erb fu il maggior sostenitore di tale teoria per cui la somministrazione di un debole stimolo
avrebbe elicitato una sensazione non
dolorosa, mentre uno stimolo più intenso avrebbe causato un’attivazione
nervosa più elevata al punto da divenire, oltre certi limiti, una sensazione
sgradevole e poi dolorosa. In seguito,
nel Ventesimo secolo, tale approccio
veniva ripreso dalla teoria dei codici
che, su tale base, sosteneva come il dolore fosse caratterizzato dalla frequenza e dalla ritmicità degli impulsi, comunicando così con i vertici del SNC.
La teoria dell’intensità trovò un successivo supporto a seguito della scoperta dei “neuroni ad ampio spettro
dinamico” nelle corna dorsali del midollo spinale.35 Questa popolazione di
neuroni risponde a diverse modalità
sensoriali (meccanica, termica, nocicettiva), così come a un ampio spettro
di intensità di afferenze. A fronte di un
incremento dell’intensità dello stimolo, hanno la proprietà di incrementare
costantemente il “firing neuronale”
fino ad assumere anche caratteristiche
nocicettive. Questi particolari neuroni sono coinvolti nel dolore viscerale e
permettono di spiegare anche il fenomeno del dolore riferito.
La teoria del pattern: la complessità
delle connessioni sensoriali spinali
L’utilizzo dell’oscilloscopio a raggi catodici e delle registrazioni elettrofisiologiche permisero di identificare, tra il
1930 e il 1965, differenti pattern di
attività nervosa nelle fibre afferenti in
risposta a stimoli meccanici, termici e
chimici.36 Ne seguì la classificazione
delle singole fibre sensoriali secondo
la grandezza e la velocità di conduzione. Anatomicamente, tali afferenze
furono classificate in fibre mieliniche
e fibre non mieliniche. In base alla velocità di conduzione le fibre A alfa e A
beta trasmettono l’informazione sensoriale più o meno velocemente; esse
sono ricoperte da uno strato spesso
di mielina. Mentre le A delta hanno
una conduzione lenta e sono coperte da un sottilissimo film di mielina.
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
Infine, la fibre C sono le più lente e
non mielinizzate. Le vie sensoriali somatiche furono, all’inizio del Ventesimo secolo, ripartite in due classi:
l’epicritica, altamente discriminativa e
fine, comprendente la sensibilità tattile e pressoria, e la protopatica, più
grossolana e comprendente la sensibilità tattile diffusa e quella nocicettiva.
Ranson sosteneva che la sensazione
protopatica fosse condotta dalle fibre
non mielinizzate.11 Questi risultati
permisero allo psicologo americano
Nafe di formulare nel 1929 la teoria
del pattern, la quale sosteneva che gli
organi di senso somatici fossero dotati di un’ampia scala di responsività
e, a livello midollare, caratterizzati da
complesse configurazioni di eterogenee connessioni sensoriali.
Il dolore sarebbe il risultato di precisi pattern spazio-temporali di trasmissione e di scarica d’informazioni
provenienti da fibre specializzate. Con
questa teoria era possibile spiegare,
almeno in parte, fenomeni quali la
persistenza del dolore a seguito della
scomparsa della causa, o il fenomeno
dell’iperalgesia, dovuto all’effetto della sommazione spaziale e temporale
dei segnali nocicettivi a livello spinale.36 Su questa base s’iniziò a distinguere qualitativamente il dolore acuto
da quello cronico.
La teoria del cancello e la modulazione sovraspinale del dolore
I successivi sviluppi della teoria del
pattern portarono a formulare, soprattutto riguardo al dolore cronico,
la teoria del cancello,37 la quale diventò popolare a tal punto da condizionare la ricerca per tutto il Ventesimo
secolo. Questa nuova prospettiva teorica ipotizzava la presenza di “cancelli
33
neurali” a livello delle corna posteriori del midollo spinale, precisamente
nelle sinapsi tra le afferenze primarie
periferiche e gli interneuroni, di natura inibitoria, localizzati nella lamina
II (detta, assieme a una piccola parte
della lamina III, “sostanza gelatinosa”). I meccanismi proposti erano tre:
anzitutto, quando l’attività neuronale
in quel sito era maggiormente caratterizzata da segnali provenienti dalle
afferenze non-nocicettive, ciò inibiva
l’attività delle afferenze nocicettive
tramite l’attivazione degli interneuroni inibitori della lamina II, causando
così ipoalgesia o analgesia; secondo,
quando l’attività neuronale era maggiormente caratterizzata da segnali
provenienti dalle fibre nocicettive, si
aveva un’esacerbazione del dolore a
causa della de-attivazione degli interneuroni inibitori della lamina II; infine, tale gating sarebbe stato dinamicamente modulato sia in senso facilitatorio che inibitorio da un postulato
sistema sovraspinale discendente.
Nonostante le semplificazioni e le imprecisioni,38 tale teoria gettò le basi
per una concezione più articolata e
“unitaria” del dolore. Questo avrebbe
stimolato la ricerca sul cervello e dato
impulso alla nascente neuroscienza
cognitiva e alla neurofarmacologia,
orientata a nuovi antidepressivi e anticonvulsivanti. Nuove tecniche psicologiche sarebbero state applicate al
fine di procurare sollievo nel dolore
cronico. Tutto ciò avrebbe inaugurato una stagione di nuove prospettive
basate su network neurali cerebrali paralleli, in cui l’aspetto sensoriale, affettivo e cognitivo svolgevano un ruolo
attivo nella percezione e nell’esperienza del dolore. D’altronde, anche
l’esperienza clinica che stava matu-
34
rando, per esempio sul dolore da arto
fantasma, suggeriva che oltre a ricevere e ad analizzare gli input sensoriali, il
cervello generava l’esperienza percettiva del dolore anche in assenza di input
esterni.39
La teoria della modulazione
endogena discendente del dolore:
il sistema oppioide endogeno
Tra gli anni Sessanta e Ottanta, accanto alla scoperta dei nocicettori, delle
loro localizzazioni e di alcuni meccanismi molecolari coinvolti nella nocicezione, altre fondamentali scoperte
andarono a comporre il sistema della
modulazione endogena discendente
del dolore: gli oppioidi endogeni, i
rispettivi recettori nel SNC e il loro
coinvolgimento in alcune zone del
tronco encefalico, del sistema limbico
e dei lobi frontali. La scoperta che la
stimolazione della sostanza grigia periacqueduttale mesencefalica (PAG)
generava un potente effetto analgesico fu un passo decisivo.40,41 Sulla
base di ciò, si ipotizzò la presenza di
recettori per la morfina nel sistema
nervoso centrale umano e, infatti, tra
gli anni Settanta e Novanta, furono
isolati nell’uomo gli oppioidi endogeni (come dinorfina, endomorfine,
endorfina, encefaline) e i recettori oppioidi μ (Mu), k (Kappa) e δ (Delta),
da cui la teoria biochimica dei recettori oppioidi. 42 Un altro promettente
settore di studi riguardava l’analgesia
indotta dal cervello tramite l’effetto
placebo. L’effetto viene definito come
“un fenomeno psicobiologico che accade nell’encefalo del paziente a seguito della somministrazione di una
sostanza inerte o un finto trattamento
fisico come una procedura chirurgica
simulata assieme a una suggestione
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
verbale (o ogni altro stimolo) di beneficio clinico”.43 Una serie di studi
sostiene che il sistema oppioide connette la corteccia cingolata anteriore
(ACC), l’amigdala del sistema limbico, la corteccia orbito-frontale e dorso-laterale della corteccia prefrontale
al PAG, nel tronco encefalico, il quale
modula l’attività della parte rostraleventro-mediale del midollo allungato
(RVM) che a sua volta è connessa alle
corna posteriori del midollo spinale.44-47 Questo sarebbe il sistema discendente ACC/PAG/RVM. Inoltre,
questi autori dimostrano il coinvolgimento del sistema discendente ACC/
PAG/RVM nell’analgesia da placebo;
l’effetto placebo, attivando il sistema
oppioide, produce condizionamenti
sul dolore, sull’apparato respiratorio
e cardiocircolatorio48,49 riducendo così
l’arousal psicofisica, l’attività del sistema nervoso simpatico e i relativi sintomi neurovegetativi, spesso presenti
nel dolore cronico, come nella fibromialgia, nel “low back pain” o nella
distrofia simpatica riflessa.50 Nel RVM
sono stati identificati due tipi di cellula: le cellule “on”, attivabili da stimoli
dolorosi e le cellule “off ”, de-attivabili
da stimoli dolorosi ma attivabili dalla morfina.51 Il bilancio tra gli stati
delle due popolazioni di cellule concorrerebbe a determinare l’effetto di
controllo sul dolore da parte degli oppioidi endogeni. In condizioni di dolore neuropatico o infiammatorio tale
modulazione discendente non lavorerebbe in senso antinocicettivo a causa
di uno sbilanciamento in senso nocicettivo delle cellule del RVM che esacerberebbero il dolore.52 Il campo del
placebo è oggi un settore attivo e produttivo nella ricerca e, a causa dei differenti meccanismi bio-psico-sociali
implicati è considerato il “melting
pot” dei concetti neuroscientifici.53
La teoria della neuromatrice:
il significato “centrale” del dolore
Tra la fine del Ventesimo e l’inizio del
Ventunesimo secolo, lo psicologo canadese Melzack, prendendo spunto
dalla propria teoria del cancello, propose un modello teorico più evoluto
e maggiormente complesso, la teoria
della neuromatrice,50,54-57 Questa teoria forniva una nuova cornice concettuale rispetto al dolore in generale e al
dolore cronico nello specifico. Quattro riflessioni fecero da necessaria
premessa: la percezione permanente
del dolore localizzato in una parte del
corpo che non c’è più, come nell’arto fantasma; l’assenza temporanea
di percezione del dolore di fronte a
obiettivi danni tissutali, come in certi
traumi durante una reazione del tipo
“flight or fight”; la presenza costante
di dolore percepito in tutto il corpo
accanto a sintomi neurovegetativi,
distress, alto arousal psicofisico e assenza di franche condizioni mediche
obiettivabili come accade nel dolore
idiopatico tipo la sindrome fibromialgica; la percezione del dolore cronico
localizzato propria delle neuropatie.
L’autore descriveva il dolore come
un’esperienza multidimensionale prodotta da un pattern di impulsi nervosi soggettivi, la “neurosignature”
appunto, generati dalla matrice del
Sé corporeo, una complessa rete neurale cerebrale ampiamente distribuita
e ricorsivamente collegata. Gli input
in questa matrice erano rappresentati
da tre dimensioni: i fenomeni collegati all’aspetto sensoriale-discriminativo (la trasduzione e la trasmissione
nocicettiva); i fenomeni riguardanti
l’aspetto affettivo-motivazionale (le
variabili emotive accanto a quelle limbiche, neuro-ormonali e immunitarie); gli aspetti cognitivo-valutativi (le
variabili toniche come quelle culturali,
educazionali, personologiche, accanto
alle variabili fasiche, come l’attenzione, l’aspettativa, l’ansia, l’umore).
Altre tre dimensioni rappresentavano gli output della neuromatrice: la
percezione del dolore (un percetto
integrato delle tre dimensioni appena
elencate dell’input, ovvero cognitivovalutativa, motivazionale-affettiva e
sensoriale-discriminativa); i programmi di azione (il comportamento involontario e volontario, le strategie di
coping e la comunicazione sociale), i
programmi omeostatici di regolazione
dello stress (tutte le reazioni neuroormonali, immunitarie e del sistema
oppioide endogeno). L’architettura di
questa rete neurale, sebbene abbia una
determinazione genetica, può modificarsi in funzione delle esperienze sensoriali.50 L’aspetto sensoriale-discriminativo del dolore sarebbe rappresentato dalle aree S1 e S2 della corteccia
somatosensoriale, il cosiddetto “sistema laterale del dolore” o “nodo somatosensoriale”. L’aspetto affettivo sarebbe di natura limbica, il cosiddetto
“sistema mediale del dolore” o “nodo
affettivo”. Le varie parti anatomiche
della neuromatrice, il talamo, la corteccia prefrontale e somatosensoriale,
il sistema limbico, il sistema discendente ACC/PAG/RVM sono collegati tramite dei loop. Funzionalmente,
tali loop lavorano sia in parallelo, per
processare le informazioni di ingresso, sia in convergenza, per permettere
una sintesi. La ripetizione di processi
ciclici e di sintesi degli impulsi nervosi attraverso la neuromatrice pone in
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
essere la neurosignature. Continuamente emergente dalla matrice del
Sé-corporeo, la neurosignature proietta, in “modalità biforcata”, il proprio
pattern di impulsi, sia verso alcune
aree cerebrali, dette centri neurali senzienti, in cui diviene un continuo e
mutevole flusso di consapevolezza, sia
verso la neuromatrice stessa al fine di
attivare i neuroni spinali per elicitare
il movimento muscolare, l’azione. La
neurosignature è la percezione delle
differenti qualità sensoriali provenienti dal corpo in un’unica e soggettiva
unità-percetto. L’origine, lo sviluppo
e la formazione di essa è la neuromatrice del Sé-corporeo, non gli input
sensoriali per sé, i quali non la producono ma la stimolano. Questa teoria
era in netto contrasto con gli approcci
della specificità in cui si sosteneva un
rapporto uno-a-uno tra input nocicettivo periferico ed esperienza dolorosa
sulla base di un modello epistemologico causale-lineare. Concependo la
neuromatrice come una rete che “interpreta” su basi genetiche modulate
dal vissuto soggettivo, interposta tra
l’ambiente e la consapevolezza, si possono meglio comprendere fenomeni
come l’allodinia, l’iperalgesia, la sensitizzazione centrale e le neuroplasticità
encefaliche e spinali associate.
La teoria della matrice del dolore
Attualmente, c’è una tendenza a interpretare la neuromatrice come sostrato neurale necessario ma esclusivo
per la percezione del dolore, approdando così al concetto di matrice
del dolore.58-65 La questione riguarda
l’esclusività o meno di tali strutture
per il dolore sebbene per Melzack la
percezione del dolore rappresentasse
una delle proprietà emergenti dalla
35
neuromatrice stessa. In una review
di recente pubblicazione Iannetti e
Mouraux argomentano che così come
sono concepite oggi, le strutture coinvolte nella matrice del dolore non
sarebbero specifiche per la nocicezione.66 Sembrerebbe non esserci nessuna
specificità circa il percetto del dolore
qui, la “pain neurosignature” sarebbe
un aspetto del “body-self ”. La matrice
del dolore apparirebbe una deviazione dal concetto originale, un riaffioramento, in chiave contemporanea,
della teoria delle specificità. Inoltre,
gli autori avanzano l’ipotesi che la salienza di una qualsiasi informazione
sensoriale, cioè la capacità che l’input ha di competere col background
di informazioni in cui è inserito e di
imporsi, sarebbe in ultima istanza la
qualità determinate affinché uno stimolo provochi il percetto dolore.67 Le
caratteristiche della salienza sono la
novità, la non conoscenza, la mancanza di pregressa esperienza rispetto a un
input sensoriale. Le risposte cerebrali a
stimoli nocicettivi non proverrebbero
da attività cerebrali specifiche per la
nocicezione bensì da attività cerebrali
equamente coinvolte nel processo della salienza dell’input sensoriale nocicettivo e non nocicettivo. Parti delle
strutture cerebrali, proprie di questa
matrice neurale, sarebbero dedicate
alla salienza dell’input, a prescindere
dal fatto che l’informazione provenga dalle vie nocicettive o sia soltanto
percepita come dolore. Riabilitando l’utilizzo in senso originario della
body-self neuromatrix di Melzack, si
rimetterebbe in gioco la dimensione
psicologica, del rapporto stress-dolore e dei processi omeostatici, quella
dell’adattabilità al contesto ambientale e del significato attribuito dal
36
soggetto allo stimolo e al contesto.Disturbi da dolore idiopatico e sindromi
da sensitività centrale: la sensitizzazione centrale. Negli ultimi vent’anni, sia
nelle ricerca, sia nella clinica, è stato
sottolineato che diverse sindromi
croniche con dolore e disturbi funzionali abbiano in comune una serie
di manifestazioni sintomatologiche e
cliniche fondamentalmente raggruppabili in due ampie dimensioni: anormalità sensoriali associabili a disturbi
dell’equilibrio vegetativo-autonomico, dell’attività motoria viscerale, delle
funzioni neuroendocrine e del sonno
e anormalità affettive associabili alle
alterazioni dell’umore, all’aumento
dell’ansia, della paura, dell’angoscia,
delle somatizzazioni e di una minore
resilienza all’impatto ambientale così
come una maggiore inclinazione allo
stress.68 Nomenclature come disturbo
da dolore idiopatico69 così come somatizzazione, dolore psicosomatico,
funzionale,70 sindrome somatico funzionale,71 sindromi medicalmente non
spiegabili,72,73 postulano un continuum di condizioni mediche complesse
dove il dolore rappresenta la maggiore
lamentela clinica, la quale, però, appare sproporzionata a una obiettività medica. Il concetto di disturbo
da dolore idiopatico69 comprende in
tale dimensione condizioni come la
sindrome fibromialgica, la sindrome
temporo-mandibolare, le cefalee croniche, il ‘low back pain’, il dolore pelvico cronico, la cistite interstiziale, la
vestibulite vulvare, il tinnitus cronico
e la sindrome da colpo di frusta. Tale
approccio permette una lettura capace
di collegare le molteplici manifestazioni cliniche e sintomatiche di tali
sindromi, altrimenti descritte come
sintomi associati o comorbidità.68
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
Questi fenotipi clinici sono associati
a fenomeni come l’amplificazione del
dolore e il distress psicologico, i quali
sarebbero mediati dalla variabilità genetica individuale e dall’esposizione,
sia passata che presente, agli eventi
ambientali.69 Secondo Yunus tali categorie non chiarirebbero abbastanza
i meccanismi fisiopatologici sottesi,
così come le similitudini cliniche delle sindromi in esame e, proseguendo
l’analisi critica, avanza il paradigma
di “sindromi da sensitività centrale”
(CSS) proponendo la “sensitizzazione
centrale” (CS) come uno dei suoi meccanismi caratterizzanti.70-72 La sensitizzazione centrale, come processo di
apprendimento non-associativo in cui
ripetute somministrazioni di uno stimolo causano una progressiva amplificazione della risposta del SNC, darebbe ragione di fenomeni tipici come
l’allodinia, l’iperalgesia, l’incremento
del campo ricettivo e l’abbassamento
delle soglie del dolore e il prolungato
firing neuronale e la sensazione di dolore che permangono per molto tempo dopo un stimolo-insulto.73 L’autore comprende nelle sindromi da sensitività centrale la sindrome fibromialgica, la sindrome da fatica cronica, la
sindrome dell’intestino irritabile, le
cefalee tensive, l’emicrania, i disturbi
temporomandibolari, la sindrome del
dolore miofasciale, la sindrome delle
gambe senza riposo, la sensibilità chimica multipla, la dismenorrea primaria, la cistite interstiziale, il disturbo
post-traumatico da stress, sarebbero,
a vario livello, caratterizzate dalla presenza della CS. Cause e concause della
CSS sarebbero la co-occorrenza di alcuni polimorfismi genetici, una iperreattività del sistema ortosimpatico o
una ipoattività del parasimpatico, una
disfunzione nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con ipocortisolemia associata, fattori psicologici, stress, infezioni, infiammazioni, traumi, disturbi
del sonno e fattori ambientali percepiti intrusivamente.70
CONCLUSIONI:
IL FUTURO DEGLI STUDI
SUL DOLORE
Dal punto di vista dell’evoluzione
delle teorie sul dolore oggi le cose
sono molto diverse rispetto ai primi
approcci scientifici. Il SNC non è
più considerato un recipiente passivo
delle afferenze nocicettive provenienti
dalla periferia bensì un complesso network neurale che processa e modula le
informazioni.
Come è stato argomentato, le informazioni nocicettive non sono più
viste come la condizione necessaria
e sufficiente affinché si esperisca dolore, soprattutto nel dolore cronico.
Infine, non sembrerebbe esistere un
centro per il dolore cerebrale, piuttosto molteplici reti neuronali integrate
in una neuromatrice che, sinergicamente, producono l’esperienza del
dolore. Melzack39 sostiene che all’inizio del Ventunesimo secolo figurano
diverse ragioni per essere ottimisti
riguardo il futuro della ricerca e della
terapia del dolore. Anzitutto, l’utilizzo
sempre più evoluto delle tecniche di
neuroimaging confermerebbe sempre
più la presenza di un network neurale complesso e aspecifico come generatore di dolore caratterizzato da una
moltitudine di input e output. Queste
scoperte stanno inoltre indirizzando
la ricerca verso l’integrazione dei fenomeni neuro-endocrino-immunitari,
in quanto finalizzati alla difesa della
omeostasi dopo il distress associato a
traumi e patologie. In secondo luogo,
lo studio dei meccanismi modulatori
sovraspinali e spinali potrebbe ulteriormente integrare le strategie modulatorie top-down con le conoscenze
provenienti dal campo dell’evoluzione
filogenetica e ontogenetica cerebrale.
Infine, la conoscenza della genetica
dello sviluppo dell’encefalo sta rapidamente aumentando accanto alla crescente moltitudine di componenti del
DNA identificati e associati al dolore.
L’inevitabile convergenza di questi approcci verso ulteriori conoscenze circa
le funzionalità encefaliche, secondo
l’autore, guiderà auspicabilmente al
sollievo del dolore e della sofferenza
delle persone. Ormai è palese la necessità di un approccio multidisciplinare
e critico per il futuro degli studi sul
dolore. Sappiamo ancora molto poco
sul dolore cronico, il quale non sarebbe più un campanello di allarme o un
sintomo diretto, bensì un fenomeno
autoreferenziale, che si è emancipato
dalle concause sottostanti, divenendo
esso stesso una patologia.
Il concetto di “sofferenza”, a questo
punto, rappresenterebbe un aspetto
imprescindibile sia per la ricerca sia
per la clinica. Ricongiungendo la dimensione psicologica a quella sensoriale-nocicettiva, gli attuali paradigmi
del dolore conferiscono piena dignità
alla sofferenza e al vissuto soggettivo.
Si rende perciò necessaria l’implementazione nell’odierno paradigma del
dolore di diversi costrutti psicologici
capaci di analizzare il vissuto relazionale e affettivo, le emozioni e gli stili
di coping del paziente con dolore cronico. A riprova di ciò, la clinica del
dolore insegna che “l’abolizione della
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
sola componente nocicettiva potrebbe non essere sufficiente a far dire al
paziente che non ha più dolore. Egli
continuerà a lamentarsi, e alla domanda riduttiva del curante, focalizzata
sulla scomparsa del sintomo dolore,
risponderà di esserne ancora affetto,
essendo fusi, nella mente del malato,
il concetto di dolore sintomo e dolore
malattia (sofferenza). Il dolore diviene
in questo caso una modalità comunicativa di richiesta d’affetto”.8
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Up to dating
UNA FAMIGLIA DI PROTEINE
DI MEMBRANA CON POSSIBILI
POTENZIALITÀ TERAPEUTICHE
A MEMBRANE PROTEIN FAMILY
WITH HIGH POTENTIAL FOR SUITABLE THERAPIES
Francesco Amato
Direttore UOC Anestesia, Terapia del Dolore,
CP e Dipartimento di Emergenza
Azienda Ospedaliera Cosenza
RIASSUNTO
L’autore presenta un excursus
sui risultati, ottenuti con tecniche
avanzate, in studi su una famiglia
di proteine di membrana: i recettori
accoppiati alle proteine G (GPCR)
posizionati sulla superficie delle cellule
con ruoli essenziali in molti processi
fisiologici.
In dettaglio vengono descritte le ricerche
mirate a identificare i meccanismi
biologici, genetici, molecolari del
gruppo di GPCR con ligandi oppioidi
con particolare attenzione al recettore
m (MUR), un sito di legame elettivo
per gli oppioidi con potenti effetti
analgesici. Si formula l’ipotesi
che sulla base dei risultati già ottenuti
si possano sviluppare nuove terapie
con minori effetti collaterali
e maggiori vantaggi per i pazienti.
SUMMARY
The author presents an excursus
of the results, obtained using advanced
techniques, in researches
on a membrane protein family, the
G protein-coupled receptors (GCCP),
that are localized on the cell membrane
ad have a crucial role in many
physiological processes.
In detail studies aimed to identify
mechanisms, biologial, genetic
and molecular, of the GCPR group
with opioid ligands, with particular
attention to the m-receptor, elective
for the opioids with strong analgesic
effects, are reported.
The hypothesis is put forward that,
on the basis of the already obtained
results, new analgesic therapies with less
undesired effects and more advantageous
for the patients can be developed.
Parole chiave
GPCR, proteine di membrana,
recettori m-oppioidi
Key words
GPCR, membrane protein,
m-opioid receptors
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
39
I recettori accoppiati alle proteine G
GPCR (G Protein Coupled Receptor)
svolgono ruoli essenziali in vari processi fisiologici. Essi sono classificati in
una famiglia proteica molto varia per
struttura e funzione e i suoi membri,
per la loro posizione strategica sulla
superficie delle cellule e il loro coinvolgimento nei processi cellulari e
fisiologici fondamentali, sono tra gli
obiettivi più studiati per lo sviluppo
applicativo di nuovi farmaci.1,2
In particolare, nei mammiferi essi
sono stati distinti cinque principali famiglie quali: glutammato, rodopsina,
adesina, frizzled e secretina secondo la
classificazione GRAFS.3,4
Essi svolgono un importante ruolo
nella trasduzione del segnale e nella
risposta cellulare agli stimoli extracellulari. Le ricerche sui meccanismi molecolari alla base dei GPCR sono state
ostacolate dalla limitata solubilità e
difficoltà di isolare quantità sufficienti
di recettori funzionali, difficoltà causate in parte dal gran numero di residui
idrofobici transmembrana.5
Durante gli ultimi anni di studi e di
ricerca, la cristallografia dei GPCR ha
conosciuto una crescita esponenziale
con la determinazione di sedici distinte strutture recettoriali, nove delle
quali sono state determinate nel solo
anno 2012; di queste, il 12 per cento
approssimativamente sono in relazione alla superfamiglia GPCR umana.
Tecniche biochimiche e biofisiche,
come la risonanza magnetica nucleare e di scambio idrogeno-deuterio
accoppiate alla spettrometria di massa, stanno fornendo approfondimenti
inerenti al ligando in relazione a un
equilibrio dinamico tra i suoi diversi
stati funzionali. Recenti osservazioni,
anche mediante tecniche ad alta riso-
40
luzione, hanno permesso di rivelare
come i recettori allosterici si possano
paragonare a delle macchine che sono
controllate non solo dai ligandi, ma
anche dagli ioni, dai lipidi, dal colesterolo, e dalle stesse molecole di acqua.
Questa ricchezza di dati sta aiutando
a ridefinire la nostra conoscenza di
come GPCR riconosca una tale gamma diversificata di ligandi e come si
trasmettano i segnali in 30 angstrom
attraverso la membrana cellulare; inoltre questi dati iniziano a far luce sulla
modulazione allosterica delle suddette
proteine.6,7
Il recettore μ (MUR) è un recettore
accoppiato alla proteine G (GPCR) e
costituisce il sito di legame elettivo per
gli oppioidi, molti dei quali, come la
morfina, sono potenti analgesici ampiamente utilizzati per il trattamento
del dolore maligno e non.8
Il consumo di oppiacei è cresciuto a
dismisura negli ultimi anni,7-9 e al recettore mu sono stati collegati molti
dei suoi effetti collaterali noti, tra cui
la dipendenza, la depressione respiratoria eccera.6,7
L’attenzione per la loro posizione strategica sulla superficie delle cellule si sta
quindi focalizzando su due fronti:
1 - sui meccanismi molecolari che regolano la funzione dei GPCR e che
rimangono da approfondire grazie alle
indicazioni ottenute di recente da diverse strutture cristalline ad alta risoluzione.
Gli sviluppi tecnologici si sono soprattutto focalizzati sulla stabilizzazione e
la cristallizzazione di questi recettori
che hanno portato a significative innovazioni nella determinazione della
struttura dei GPCR. La stabilizzazione
del recettore è stata effettuata mediante l’impiego di una tecnica combinata
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
di cristallizzazione lipidica in fase cubica (LCP).10,11 Altri studi strutturali
si sono soffermati sulla messa a punto
di modulatori allosterici, che sembrano essere le molecole di acqua, gli
ioni sodio e i lipidi/colesterolo, tutti
coinvolti nella stabilizzazione delle
GPCR.12 La creazione di varianti solubili in acqua dei GPCR costituisce
un potenziale metodo per superare le
difficoltà di indagine.
2 - Il secondo fronte di studio è costituito dalla sostanziale necessità di
identificare i meccanismi biologici
genetici e molecolari che mediano le
risposte individuali per la terapia degli
oppioidi.
Recenti scoperte mostrano che le variazioni genetiche del locus genico
per il recettore μ-oppioide (OPRM1)
svolgono un ruolo essenziale nelle
inter-risposte individuali. La maggior parte degli studi di associazione
genetica si sono concentrati sul polimorfismo A118G, che codifica per
un cambiamento (non-sinonimo) in
OPRM1 a livello dell’esone 1. Futuri
studi clinici cercheranno di identificare le varianti genetiche funzionali
all’interno del locus OPRM1 e dei
meccanismi molecolari associati; ciò
si tradurrà in una migliore comprensione delle risposte individuali alla terapia oppioide e in un nuovo sviluppo
farmacoterapeutico e di strumentazione diagnostica.13-18
Comprendere i cambiamenti conformazionali che avvengono in queste
proteine quando un ligando si lega e
attiva il recettore o le variazioni genetiche correlate alla suddetta proteina
recettoriale dovrebbe agevolare lo sviluppo di potenziali farmaci con minori effetti collaterali e proprietà farmacologiche più favorevoli.
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41
Ricordi
IN MEMORIA
DI FILIPPO BELLINGHIERI
IN MEMORY
OF FILIPPO BELLINGHIERI
A cura di William Raffaeli
Oggi salutiamo Filippo, scivolato dalla
vita il primo settembre alle 12.47.
Ho visto Filippo per la prima volta
nel 2002, quando arrivò ai corsi
Isal con il suo carico di valigie che
voleva riempire di sapere. Che fosse un
uomo deciso e caparbio nel suo amore
per la scienza del dolore fu evidente
dall’attiva partecipazione e dalla
successiva capacità di costruire, a fine
corso, la sezione ISAL Sicilia; con la
stessa decisione e con tutto il suo gentile
e bonario carisma sostenne la nascita di
Federdolore e ne facilitò l’approdo nella
nuova Federdolore-Sicd.
Mi ricordo il suo sorriso spuntare
dietro le quinte: se oggi ripercorriamo
i momenti più importanti del nostro
frastagliato universo di battaglie per
dare un senso di disciplina al nostro
lavoro, scopriamo che Filippo c’è sempre
stato; magari dietro, un po’ in disparte,
ma sempre presente. Gli era naturale
esserci … “Filippo, vieni su a Milano
per la…” “Vieni a Roma per il…”
Così come per noi era una gioia andare
nella sua Taormina, dove ci riempiva
di delizie, dalla granita al gelso ai
cannoli con la ricotta, gustati nei
meriggi di sole declamando le virtù di
uno dei tanti amici; sì perché Filippo
era pieno di amici, come il mitico
Victor, gestore del ristorante meno Vip
del paese, ma dove potevi assaggiare
le più raffinate golosità di quella
bellissima terra, nel suo amatissimo
paese, Gianpilieri.
Un uomo di forti sentimenti che
cercava gli affetti sinceri, quelli che
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richiedono la capacità di essere uomini
di parte e giammai di opportunismo.
Era un professionista severo con se
stesso e cercava quel sapere che talora
temeva gli mancasse; per questo, per
anni, si è imposto i numerosi viaggi nel
“Continente“ per partecipare a corsi e
riunioni, nonostante i disagi della sua
malattia: mi fa tenerezza ricordarlo,
un giorno mentre si correva a prendere
il treno a Milano: affranto e affaticato
mi disse: “Vai William, vai, che questa
maledetta gamba non mi sorregge”
Mi sono fermato, rattristato nel vedere
come, nonostante la fatica fisica,
desiderasse inseguire i ritmi della
scienza. Filippo amava il nostro gruppo
ed era triste se vedeva che qualcosa si
incrinava, che non tutto era perfetto.
Ma il suo sogno lo ha realizzato: nelle
numerose difficoltà, a piccoli passi, nel
suo ospedale, con il primo ambulatorio,
la scuola, la società e l’impegno
nelle piazze si è battuto per creare a
Taormina un Centro di eccellenza.
Filippo ci sei riuscito: un mese prima
di morire! Hai lasciato questo dono
a chi soffre; lo ricorda bene in questa
sua umana disponibilità ad ascoltare
i semplici il suo amico Guido, che lo
ha visto negli ultimi giorni mentre,
sofferente, rincuorava un paziente
affetto da dolore da cancro. E noi ti
diciamo che non tradiremo la tua
speranza: al dolore sapremo dare cura e
della tua amicizia sapremo onorarne la
memoria.
Ciao Filippo,
buon viaggio nel sogno.
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
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FILIPPO BELLINGHIERI
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