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e assessorato all’istruzione
Le A.D.R.:
risposta al contenzioso scolastico
risorsa per il progetto formativo della scuola
a cura di Maria Martello
ATTI DEL CONVEGNO NAZIONALE
DIRIGENTI SCOLASTICI DEGLI ISTITUTI
STATALI E NON STATALI
16 marzo 2006
Centro Congressi della Provincia
Milano
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La pubblicazione degli atti
è promossa da:
- Provincia di Milano
Via Petrarca, 20 - Milano
Direzione centrale istruzione ed edilizia scolastica
Settore istruzione
www.provincia.milano.it
- IstitutoDeva
www.istitutodeva.it
[email protected]
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Si ringrazia la Direzione Generale del Ministero dell’Istruzione e la Provincia di
Milano per il sostegno dato all’iniziativa, Giovanna Granito, Licia Magnani, il Personale Amministrativo dell’Istituto Paganelli di Cinisello Balsamo e quanti hanno collaborato alla realizzazione del Convegno.
Si esprime una particolare gratitudine all’Assessore all’Istruzione, Dottor Giansandro Barzaghi e agli uffici del Settore Istruzione della Provincia di Milano che
hanno permesso la pubblicazione degli atti.
Un riconoscimento sentito va a tutti i relatori che con il loro qualificato contributo hanno dato impulso alla riflessione sulla gestione dei conflitti a scuola, un tema
tanto fondamentale quanto, di solito, trascurato.
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INDICE
Presentazione del convegno
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APERTURA DEI LAVORI
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Mario DUTTO
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Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale
Loredana LEONI
19
Presidente Regionale Lombardia ANDIS
Giansandro BARZAGHI
20
Assessore Provinciale all’Istruzione
Don Serafino MARAZZINI
25
Responsabile Uff. scuola, Diocesi Milano
IL CONTENZIOSO nella scuola e la funzione delle A.D.R.
29
Marisa VALAGUSSA
31
Ispettrice, Ufficio Scolastico Regionale Lombardia
Maria MARTELLO
34
Docente a.c. di Psicologia dei rapporti interpersonali, Università Cà Foscari, Venezia
LA FILOSOFIA E LA TECNICA DELLA MEDIAZIONE
PER GESTIRE IL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Luciana VOLTA
53
Dirigente Ufficio legale della Direzione Scolastica Regionale per la Lombardia
IL CONTENZIOSO SCOLASTICO TRA NORMATIVA E PRASSI
Marcello MARINARI
60
Magistrato, Corte d’Appello di Milano
LE A.D.R. UNA NUOVA ALTERNATIVA PER IL DIRITTO
E PER LE CONTROVERSIE NELLA SCUOLA
Giovanna GRANITO
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Dirigente scolastico Ist. Paganelli
QUALI RISORSE PER IL DIRIGENTE NELLA GESTIONE DEL CONFLITTO
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Le A.D.R.
Roberto ANSELMINO
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Assessore alla Pubblica Istruzione Cinisello Balsamo
LE POSSIBILITÀ, LE SCELTE E GLI INTERVENTI
Dal dibattito…
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LA MEDIAZIONE risorsa per il progetto formativo della scuola
95
Umberto MARGIOTTA
97
Pro Rettore politiche per la formazione permanente e l’insegnamento a distanza,
Università Cà Foscari, Venezia:
LO SVILUPPO DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA
E DELLE COMPETENZE RELAZIONALI NEL PROGETTO FORMATIVO
Giuseppe VICO
129
Ordinario di Pedagogia, Università Cattolica, Milano:
GLI EFFETTI DEL CONFLITTO SULL’EFFICACIA
DEL PROGETTO FORMATIVO
Annamaria FIORILLO
138
Sostituto Procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Milano:
I VALORI E I PRINCIPI DELLA MEDIAZIONE
PER LA RISOLUZIONE DEI CONFLITTI
NEL PROGETTO FORMATIVO DELL’ADOLESCENTE
Riflessioni intorno alla formazione
147
Salvatore LEONE
149
Dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Bollate
Carla RUFFINI
155
Dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Giuseppe Giusti” di Milano
Daniela GIORGETTI
160
Dirigente scolastico Istituto comprensivo di Carugate
Daniele GIARDINA
164
Dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo Trilussa di Milano
Annamaria FALCO
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Dirigente scolastico I.C. “Martiri della Libertà” Sesto San Giovanni (Milano)
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INDICE
Conclusioni
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Maria MARTELLO
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SUL CONVEGNO
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Pareri dei partecipanti
APPENDICE
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Note a margine del Convegno
“A relazionarsi si impara”
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Bando dell’Università Ca’ Foscari:
“La mediazione dei conflitti”
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Presentazione del Convegno
“Le A.D.R. (Alternative Dispute Resolution) Risposta al contenzioso
scolastico - Risorsa per il progetto formativo della scuola” è stato un convegno nato come restituzione pubblica del progetto di formazione per Dirigenti scolastici “Intelligenza emotiva: dalla mediazione del conflitto alla relazione costruttiva”, finanziato dal MIUR con Decreto Regionale prot.n°215/C2
del 9 gennaio 2004.
Per la prima volta a livello nazionale ha proposto la linea culturale che
va sotto il nome di Mediazione per la risoluzione pacifica dei conflitti, applicata al mondo della scuola.
Ha visto la partecipazione di ben 638 operatori in prevalenza Dirigenti
scolastici, delle scuole statali e non statali. Promosso dall’Andis, è stato
organizzato a Milano, il 16 marzo 2006 presso il Centro Congressi della Provincia, in Via Corridoni 16 dall’IstitutoDeva1, con il Patrocinio della Direzione Generale scolastica della Lombardia e della Provincia di Milano, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Si è trattato di un convegno dei Dirigenti e per i Dirigenti aperto a tutte
le componenti della scuola, trasversale così come lo è il conflitto: lo incontrano tutti, prima o poi ed è di tutti la responsabilità di gestirlo in modo
costruttivo.
La prima parte della giornata è stata dedicata al tema della risoluzione
alternativa del contenzioso. I lavori del pomeriggio, hanno analizzato i risvolti della Mediazione per la gestione del conflitto, sul progetto formativo per
gli allievi.
Sono intervenuti esperti della materia, magistrati, docenti universitari,
autorità di alto livello del mondo della scuola con relazioni di altissima qualità culturale e formativa.
La Mediazione per la risoluzione pacifica dei conflitti è stata unanimemente riconosciuta come meglio rispondente alle sempre più complesse e
diversificate istanze sociali degli alunni i quali in molti casi non trovano più
reale soddisfazione in una soluzione autoritaria che stabilisce vincitori e
1 - www.istitutodeva.it - [email protected] - tel. 02 6182284 e 349 7743618
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vinti, ma necessitano di ricostruire una relazione interpersonale, come è di
fatto possibile con i metodi alternativi.
La formazione del dirigente, ma anche del docente, è stato ampiamente
sottolineato, ora può arricchirsi di strumenti efficaci ed ormai indispensabili
per la sua funzione. Può ispirarsi ai principi di questa linea culturale, che facendo appello all’intelligenza emotiva rende possibile la sfida di una vita di relazione con l’altro in cui l’io e il tu attuano un felice scambio basato sulla diversità.
Nella scuola la capacità di instaurare relazioni costruttive con e tra il
personale docente e non docente, con gli studenti e le loro famiglie, con gli
enti locali, è fondamentale per il successo formativo dei giovani e può, e
deve, essere oggetto di apprendimento. Tale capacità rende il dirigente promotore di un clima di lavoro sereno e produttivo, in quanto capace di gestire i conflitti che inevitabilmente insorgono all’interno di un ambiente di
lavoro, mentre offre ai docenti la possibilità di progettare più efficaci percorsi di formazione per l’allievo.
Non può esserci successo formativo degli allievi, qualunque sia il loro
corso di studi, senza una buona qualità delle relazioni interpersonali. È
all’ordine del giorno, invece, raccogliere espressioni di profonda insoddisfazione al riguardo che giungono da tutte le componenti: dagli studenti stessi, dai docenti, dai dirigenti, dalle famiglie. Purtroppo non di rado questo
malessere giunge a manifestarsi con azioni che denunciano il disagio e
comunque producono forme anche gravi di burn out, bullismo, dispersione
e ogni sorta di altri fenomeni di malessere sociale.
Tutto ciò ha assunto toni ormai allarmanti. Si deve ancora constatare
che siamo del tutto sprovveduti nel trattare in modo costruttivo i momenti
critici della relazione, quelli in cui scatta il conflitto. Esso dovrebbe essere
considerato quale momento fisiologico della relazione e, come tale, divenire
occasione di crescita per tutti.
È possibile se si conosce e si applica la Mediazione, nuova ed efficace
metodologia di intervento.
In mancanza di strumenti idonei a gestirlo diventa, al contrario, distruttivo.
Sulla base di questi presupposti e con la certezza che questi ambiti
richiedano attenzione improcrastinabile si è affermato che: “a relazionarsi si
impara”. L’educazione alla relazione permette di gestire pacificamente un
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conflitto, invece di soffermarsi a individuare le responsabilità, magari ritrovandole “consolatoriamente” negli altri.
Occorre iniziare subito, a partire da chi ha più sensibilità e senso della
sua responsabilità.
Il corso di formazione di cui durante il convegno si sono restituiti gli esiti
è risultato particolarmente coinvolgente e ha aperto sia prospettive sia spazi
di intervento. Era stato richiesto dall’Andis, finanziato dal Ministero dell’Istruzione, ideato e condotto da Maria Martello.
Di seguito riportiamo i dati relativi alla partecipazione al convegno.
PERCENTUALE CALCOLATA SUL TOTALE DEGLI ISCRITTI
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Apertura dei lavori
Interventi
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Mario Dutto
Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale
Quando la Prof.ssa Martello mi propose l’iniziativa, non ero convinto che
i tempi fossero maturi per trattare i temi del convegno, ma la partecipazione numerosa documenta che sono stato incauto e che stiamo, invece,
seguendo la giusta strada.
Due sono le ragioni fondamentali per le quali consideriamo con interesse e con attenzione il tema della mediazione: la prima è sicuramente la
necessità di riportare nelle nostre scuole una filosofia corrente e quotidiana, che consenta di affrontare in modo funzionale ed efficace situazioni di
difficoltà, di diversità, di contrapposizione e, in generale, di conflitto. La
mediazione è connaturale all’ambiente scolastico, il quale dovrebbe essere
l’immagine di una comunità coesa in cui si condividono valori, si partecipa
attivamente e ci si confronta nel rispetto delle diversità e peculiarità individuali.
Penso che nell’azione dei Dirigenti scolastici sia opportuno promuovere
una cultura diversa, che non mancherà di produrre effetti positivi anche nei
diversi Organi operanti nella scuola; non di rado assistiamo a situazioni di
tensione e di incomprensione che si trascinano nel tempo e non si riescono
ad affrontare e a superare, quasi che la scuola non abbia strumenti per risolvere tali disagi.
Poiché è inevitabile che le situazioni di conflitto abbiano effetti negativi
sugli studenti, anche se non direttamente coinvolti nel problema, la seconda ragione che ci spinge a lavorare nella direzione della mediazione è poi
quella di creare e diffondere una cultura diffusa e una filosofia della mediazione nella scuola, acquisendo le necessarie competenze tecniche, per crescere le nuove generazioni in un contesto che faccia della mediazione stessa uno dei paradigmi correnti per affrontare le difficoltà.
In quest’ottica credo debbano essere riconsiderati alcuni versanti nuovi
dei diritti degli studenti; nella fase storica in cui viviamo è fondamentale che
la scuola riconosca, quale obbligo e propria responsabilità, la possibilità per
tutti gli studenti di sentirsi integrati e di raggiungere risultati positivi, anche
in presenza di diversità linguistiche, culturali e religiose. Su questo versante le scuole sono chiamate a rivedere il proprio funzionamento e a re-inter-
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rogarsi insieme a noi sulle vecchie categorie dell’obbligo e dell’evasione scolastica, che vivono oggi una situazione di difficoltà a superare i tassi di
dispersione e di abbandono.
Riportare la nostra attenzione verso i diritti che dobbiamo garantire ai
nostri studenti credo sia una parte costitutiva della nostra funzione; in questa prospettiva la cultura della mediazione può apportare uno spirito diverso, offrendo soluzioni tecnicamente valide, che consentano alle nostre scuole di essere buoni esempi di condivisione delle regole e di superamento di
situazioni di contrasto.
Il Dirigente scolastico, infatti, sperimenta ogni giorno quanto complessa
sia la gestione di una scuola aperta al dialogo e disposta a relazionarsi con
una pluralità di attori, con generazioni di studenti che si succedono e genitori con differenti aspettative; in tale situazione è necessario un forte sostegno della professionalità dei Dirigenti e degli Organi interni alla scuola.
Al termine del nostro convegno mi auguro che emergano non solo nuove
prospettive di studio e linee di lavoro, ma soprattutto sensibilità ispiratrici
di nuove prassi da condividere all’interno della scuola.
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Loredana LEONI
Presidente Regionale Lombardia ANDIS
L’Andis si propone di rappresentare i bisogni professionali dei Dirigenti
scolastici. La sua specifica funzione associativa pone come prioritario il
compito di promuovere il confronto, interno ed esterno alla categoria, per la
definizione di un ruolo dirigenziale cui spetta la responsabilità della scuola
come principale e specifica istituzione che deve formare le giovani generazioni alla cittadinanza responsabile e solidale.
L’Associazione ha sostenuto e partecipato attivamente alla stesura del
progetto di formazione rivolto ai Dirigenti scolastici della Lombardia, nell’ambito del sostegno professionale alla dirigenza scolastica. Al Dirigente
scolastico è riconosciuta la specificità incentrata su una leadearship di tipo
educativo, che non può prescindere dalla capacità di intervenire nelle relazioni interpersonali. Per essere promotore di un clima di lavoro positivo, il
Dirigente scolastico ha bisogno di avere strumenti culturali e professionali
per intervenire nel conflitto, non per annullarlo, ma per utilizzarlo in maniera costruttiva. Allora una formazione ispirata all’utilizzo dell’intelligenza
emotiva, può essere il primo passo per diffondere competenze che consentano al Dirigente di affrontare il mondo di relazioni che è la scuola e di stimolare la progettazione di efficaci percorsi formativi, nel rispetto delle
diversità degli studenti e dei docenti.
Se buona parte dei risultati delle azioni didattiche della scuola dipendono dalle relazioni che in essa si instaurano, allora la “Mediazione per la
gestione del conflitto” dovrebbe essere una modalità, innanzitutto da conoscere per poter decidere come e quando possa essere utile per affrontare e
tentare di risolvere quelle situazioni di disagio che sono presenti in misura
differente, in modo esplicito o implicito nei contesti scolastici.
L’Andis è quindi orgogliosa di aver contribuito a far conoscere la proposta della Dott. Maria Martello e delle sue possibili implicazioni scolastiche.
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Giansandro BARZAGHI
Assessore Provinciale all’Istruzione
Porto i saluti del Presidente Penati a questa bella, qualificata, interessata vostra presenza.
Saluto tutti gli organizzatori, la prof.ssa Martello, la preside prof.ssa Granito, l’Ufficio Scolastico Regionale nella persona della dott.ssa Valagussa e
un saluto particolare al Direttore dott. Dutto, saluto tutti i presenti.
Non vorrei limitarmi ad un saluto formale, cercherò di entrare nel merito del convegno e di sviluppare alcune riflessioni che spero possano essere
utili al dibattito; innanzitutto si propone qui oggi di discutere di un argomento trasversale a diversi ambiti quali: quello scolastico, quello giuridico,
quello sociale, aziendale, familiare... quello istituzionale.
È questa una questione che travalica i problemi interni di un mondo particolare e trova la sua ragione di essere, soprattutto in un mondo che
potremmo definire “reale”, costituito da esseri sociali ed umani, in relazione
tra loro che, oserei dire, si spogliano di ruoli ed etichette diverse ed escono
dal contesto in cui agiscono.
Mi sembra, questa, una dimensione interessante che attribuisce senso e
spessore all’azione della mediazione, che qui viene proposta, come strumento di gestione del conflitto, perché riconduce il problema al nocciolo delle
relazioni, quelle fatte di persone in carne ed ossa con le loro storie e i loro
vissuti individuali e tutti particolari.
Consente di pensare all’azione dell’incontro di mondi tutti diversi, di
trattare della relazione con “l’altro da noi”, senza il quale la vita sociale, che
connota gli esseri umani e di cui hanno necessariamente bisogno, non
potrebbe esistere.
Il percorso evolutivo di ciascun essere umano è, infatti, sempre attraversato e messo in discussione dalla continua presenza dell’altro: entrare in
relazione con l’altro rappresenta l’esperienza importante di entrare in relazione con qualcuno che è diverso da noi e, allo stesso tempo, quella di prendere maggiore consapevolezza della nostra identità, mentre riconosciamo
l’altro che ci viene incontro.
È da questa diversità, che è fondamentale per la nostra crescita, che si
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generano però spesso conflitti, paure, ansie, sospetto, nasce un senso di
minaccia che ci spinge al suo annullamento. Per comprendere questi concetti, basti pensare a quanto disagio abbia creato nel passato e crei ancor
oggi nel presente, la presenza di alunni stranieri o alunni diversamente abili
o dei cosiddetti alunni difficili, nel sociale, negli educatori e all’interno dei
gruppi.
Ragionando poi sul significato del termine conflitto, mi viene da dire
che, come per molte parole, anche a questo termine i nostri tempi assegnano un significato ambiguo o forse troppo definito e rigido. Troppo spesso
questa parola viene usata per evocare l’orrore della violenza, cosa che restituisce in tal modo al conflitto stesso un significato di negatività sociale,
verso cui esibire un sentimento, anche solo superficiale, di ripugnanza etica.
Il termine “conflitto” deve invece rimandare al riconoscimento della
potenziale vitalità che la tensione conflittuale reca in se stessa, potenzialità
sempre riconvertibile nel cambiamento e nella trasformazione della tensione in energia propulsiva: una risorsa insomma di straordinaria efficacia culturale, da porre al servizio dell’idea di formazione dell’uomo.
Non a caso, proprio nei primi decenni del XX secolo, una delle più acute
genialità intellettuali d’Europa, Georg Simmel, colse nel “conflitto della cultura moderna”, il principio di una “filosofia della vita” capace d’interpretare
i molti livelli sul cui piano il conflitto stesso agisce come elemento di propulsione dinamica; attribuendo così, all’idea di conflitto, il significato di chiave
intelligente e problematica di comprensione della vita.
L’ambito forse più proprio, in cui si esplica nella sua interezza il senso del
conflitto, è a mio avviso quello educativo, perché: ... cos’è l’educare se non
lo sperimentare continuo di un conflitto che si propone e si dissolve in divenire?… cosa se non la messa in discussione di noi stessi e del mondo che ci
circonda?
L’educarsi, va dunque inteso sul piano di un progetto da costruire, un
luogo che consente di interpretare i luoghi concreti dell’azione formativa
come luoghi di mediazione conflittuale, capaci di trasformare le tensioni in
progetti e di farlo riconducendo in tal modo l’idea di conflitto al tema della
responsabilità pedagogica, come strumento di lucida consapevolezza storica ed esistenziale.
La scuola, dunque, rappresenta l’ambito primo dove il conflitto si esplica nel suo operare, non solo attraverso la fondamentale relazione che lega
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lo studente al docente, ma anche attraverso tutte le nuove e molteplici relazioni a cui è giunta la scuola, da quando cioè si è costituita come un mondo
aperto alle relazioni con l’esterno, rappresentato dal territorio, con le sue
diverse agenzie formative e con le diverse istanze istituzionali.
A partire dalla scuola dell’autonomia, l’aspetto dell’educare è stato
ampliato e riconvertito: l’uomo del duemila, deve essere educato alla cittadinanza responsabile, cioè alla convivenza possibile e duratura, sostenuta da
valori universali; deve essere educato all’appartenenza, che non è chiusura
o grettezza, ma è fratellanza consapevole e vissuta; deve essere educato alla
memoria di sé, del cammino proprio e degli altri uomini verso la civiltà.
Tante educazioni difficili a detta di molti esperti, difficili, perché portano con sé valori complessi che richiedono conoscenza dei fenomeni di lunga
durata, che implicano il rispetto per gli altri, la consapevolezza delle proprie
radici e senso di responsabilità verso l’ambiente, la cultura e la società.
La richiesta forte, che oggi viene riformulata dunque al docente, è
quella che il suo ruolo non si esaurisca nella funzione della trasmissione
spesso nozionistica del sapere, ma debba qualificarsi nella capacità di
gestire le educazioni e la relazione educativa. Si richiede insomma la presenza di un docente con una rinnovata sensibilità pedagogica, che sia
esperto dei processi di apprendimento e della gestione del conflitto, un
formatore con uno stile educativo nuovo ed avanzato, che si qualifichi
attraverso la trasmissione emotiva del sapere, il colloquio, la comunicazione e la capacità di ascolto.
Già in parte questa filosofia è stata introdotta nella scuola, verso la fine
degli anni novanta, con i progetti salute, i CIC, i servizi d’ascolto rivolti agli
studenti, gli sportelli psicologici, la costruzione di iniziative rivolte alla realizzazione del benessere nella scuola, spesso attuate in collaborazione anche
con le ASL. Si è cercato insomma di fare passare una filosofia della formazione che tenesse anche conto del benessere dello studente - cittadino nella
scuola.
Non nascondiamoci però, per contro, quanta resistenza queste iniziative
abbiano trovato e trovino ancor oggi, presso buona parte del mondo della
scuola, ma soprattutto non dimentichiamo come i tagli alle risorse, portati
avanti dai provvedimenti che hanno applicato o tentato di anticipare la riforma Moratti in questi ultimi anni, abbiano agito con una forza dirompente
contro queste fondamentali finalità educative.
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Sono stati effettuati tagli a progetti, come quelli dell’integrazione degli
alunni stranieri (con l’ausilio di insegnanti facilitatori di apprendimento), a
risorse già esigue per la gestione dell’attività educativa, con il risultato di un
pesante impoverimento della qualità ovvero della possibilità di gestire le
attività più strettamente educative, da parte della scuola pubblica.
L’appesantimento dell’orario di lavoro dei docenti, inoltre, attraverso
una politica al risparmio nella gestione delle cattedre, nella scuola primaria
e secondaria, sta cancellando valori essenziali per la realizzazione degli
obiettivi educativi e per la gestione della relazione educativa e del progetto
formativo, quali la continuità didattica e la possibilità di costruire relazioni
più serene, anche attraverso un più ristretto rapporto numerico docente/
alunni, nei diversi ordini di scuola.
Le scelte e le politiche non sono andate perciò nella direzione auspicata
da chi la scuola la fa, la vive, la costruisce ogni giorno. Con la riforma Moratti si sono messe le basi per una scuola selettiva, dove lo spazio per la relazione educativa è stato fortemente compresso.
Di contro, non possiamo neppure negare che l’aumento del conflitto, a
tutti i livelli, sia anche un fenomeno di cambiamento sociale e che non si può
perciò chiedere solo alla scuola la responsabilità di sostenere un carico di
lavoro oserei dire “onnipotente”, per supplire ad alcune secche perdite di
orizzonti educativi della società e anche della famiglia.
Per dirla con le parole di noti pedagogisti: “Le comunità non esercitano più la riproposizione sistematica di alcune certezze che accompagnano la crescita: stabilità delle figure adulte di riferimento, riti di
passaggio e di iniziazioni, ..., l’ascolto di storie e di memorie raccontate, la vita simbolicamente segnata lungo il tempo circolare fatto di
ripetizioni confortanti e da parte di persone di generazioni diverse”.
Di fronte a tali dimensioni, in questo contesto sociale nuovo e più difficile, ben vengano quindi supporti ed idee nuove, come quella di oggi che
propone un’azione educativa su differenti fronti, un modo sicuramente utile
per fronteggiare questa emergenza che investe tutte le istanze sociali, a partire dalla famiglia e dalla scuola.
La scuola e le persone che la costituiscono credo debbano farsi portatori di una cultura nuova che proponga lo sviluppo di una “nuova” intelligenza emotiva, accanto a quella razionale che le è più propria. Questo può voler
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dire predisporre una progettazione didattico-formativa, sull’educazione alla
relazione, dove i conflitti verranno affrontati, non per cercare insipidi compromessi, ma per rinnovare, migliorare e rivitalizzare la relazione stessa, coltivando una dimensione di maggiore serenità e benessere.
In questa direzione, come Assessorato all’Istruzione della Provincia di
Milano, vorremmo collaborare con tutti voi, con i Dirigenti scolastici, con le
Associazioni magistrati, con l’Ufficio Scolastico Regionale, con il mondo universitario per promuovere insieme progetti che vedano una fattiva collaborazione anche tra le diverse Istituzioni.
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Don Serafino Marazzini
Responsabile Uff.scuola, Diocesi Milano
Porgo un cordiale saluto ai promotori e agli organizzatori di questo Convegno nazionale dei Dirigenti scolastici e a tutti voi provenienti dagli Istituti statali e non statali e qui partecipanti a questa iniziativa che apre alla
conoscenza e poi al confronto e al dibattito circa il contenzioso scolastico
come una situazione solo in parte problematica (e/o negativa), perché, a
certe condizioni, può invece essere considerata e diventare – come recita il
titolo – “risorsa per il progetto formativo della scuola”.
Ricordo pensieri e orizzonti di senso più o meno simili in una non lontana circostanza, quando ho partecipato ad una discussione e a un dialogo a
più voci, dove in altro modo e con altre parole, ho incontrato e accostato
questa medesima impostazione culturale, quasi “una nuova linea culturale”
sintetizzata – in quella occasione – con lo slogan “a relazionarsi si impara”1.
Come allora, anche oggi, porgo con il saluto un sentito grazie. Sì, perché
diventa per me (e penso per tutti) una nuova occasione per fermarmi – in
mezzo alle tante e faticose occupazioni – ad ascoltare e ad approfondire, ad
imparare e poi a riflettere e a rielaborare attorno a nuove e stimolanti prospettive culturali che diventano percorsi di istruzione e ultimamente di
esperienza e di educazione.
Nutro un certo interesse, direi meglio, una certa curiosità davanti a questo argomento.
Mi incuriosisce il fatto di cogliere e comprendere che la mediazione (o le
mediazioni) per la risoluzione pacifica dei conflitti possa diventare una risposta per ricostituire relazioni interrotte o per favorire e portare ad un diverso
livello o spessore altre e più antiche relazioni. Nella sua specificità e singolarità questa risposta porta con sé alcune intuizioni preziose – ne intravedo in
particolare tre – che possono rimotivare i Dirigenti e i Docenti.
1 - In appendice è riportata la relazione e la brochure dell’iniziativa.
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Anzitutto la considerazione non solo empirica e sperimentata, ma ben
consapevole e conosciuta che il conflitto non è più una eccezione. Nella
nostra situazione socio culturale complessa e ricca di diversità il conflitto è
invece la condizione normale nella quale ci si trova, anche in quella società
particolare chiamata scuola.
Ed è davvero diverso avere questo sguardo sulla realtà e sapere che da
qui si parte!
Poi altrettanto decisiva e determinante è l’urgenza di costruire un clima,
o meglio uno stile, aperto e critico eppure rispettoso e promettente come
un’urgenza che fa appello alla responsabilità di tutti e di ciascuno senza
eccezioni. Non si dà infatti che possa risultare superfluo o tanto meno inutile ogni singolo contributo; anzi solo l’accoglienza condivisa dell’apporto di
tutti e di ciascuno permette di offrire lo spazio e di determinare il tempo
dentro il quale realizzare quell’“inno alla diversità delle persone” e di approdare a quell’ “arte .. per giungere al profondo dell’altro” (da “Il conflitto e le
modalità per risolverlo” di Maria Martello).
Infine, ed è la terza intuizione preziosa, lo sviluppo e l’appropriazione di
questa nuova linea culturale mi pare possa aprire nuove prospettive alla
scuola e in specie nella direzione più significativa, quella appunto di consegnarle la vita di tutti i soggetti della scuola – studenti, docenti e dirigenti,
genitori e agenzie presenti nel territorio – perché la scuola possa aprirsi alla
vita delle persone ed arricchirle in umanità, conoscenze e abilità, competenze e professionalità, in vista di una autentica convivenza civile, quale distintivo qualificato del comune diritto di cittadinanza.
Se così è, allora, proprio attraverso questo percorso, da un lato si dà
sostanza al compito di formazione di tutta intera la scuola e di tutti i soggetti della scuola; e dall’altro lato si trovano rinnovate e più profonde ragioni di
speranza e di fiducia nell’azione intelligente di risoluzione del contenzioso
scolastico quale occasione di formazione e di autoformazione per tutti e per
ciascuno.
Ed è questo il duplice augurio che formulo in apertura dei lavori di questo interessante convegno: “buon lavoro!”
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IL CONTENZIOSO nella scuola
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la funzione delle A.D.R.
Interventi
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Marisa VALAGUSSA
Dirigente Tecnico, Ufficio Scolastico Regionale Lombardia
Una delle parole-chiave che, accanto a “mediazione”, ritroveremo nelle
riflessioni che verranno svolte all’interno del Convegno di oggi sarà “conflitto”. Inteso come dato ineliminabile,che fa parte della nostra esperienza relazionale in quanto esperienza sociale. Noi siamo istituiti nella relazione -per
usare le parole della filosofia-e quindi anche nel conflitto. Non resta che
assumerlo, ragionare attorno ad esso, non per fermarvisi, certo, bensì per
andare oltre.
Partire dal conflitto, dunque, e renderlo fertile, come dice Maria Martello, fra i principali studiosi del tema in Italia, che in uno dei suoi saggi ha
scritto: “le stesse energie utilizzate per creare il conflitto possono essere trasformate fino a divenire la via per uscirne e addirittura uscirne cresciuti”.
Naturalmente per ottenere ciò sono necessarie modalità di intervento
che richiedono una formazione specifica, quella che Maria Martello definisce come formazione alla relazione costruttiva e nella quale sono implicate
tanto l’intelligenza razionale quanto l’intelligenza emotiva. E sappiamo che
entrambe non sono date una volta per tutte, ma vanno coltivate, educate,
sviluppate, di pari passo con l’istituzione di tutte le condizioni capaci di promuovere nella persona una consuetudine di rispetto e di assunzione di
responsabilità.
L’essere istituito nella relazione implica infatti la necessità, per ciascuno, di acquisire la consapevolezza della irrinunciabile responsabilità individuale insita nella relazione sociale e la comprensione dei modi attraverso i quali può avvenire l’espressione di una positiva identità relazionale e
comunicativa.
La questione sta nello spostamento della responsabilità: da evento individuale, atomizzato, a elemento che appunto ha a che fare con la relazione
e con il sociale. Ed è in questo passaggio che la responsabilità si configura
come disponibilità a “rispondere” di ciò che si è, di ciò che si è fatto o di ciò
che non si è fatto, sulla base delle regole che definiscono il patto fra soggetti che si trovano a condividere un’esistenza sociale.
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Le diverse Filosofie del Diritto si interrogano (e non da oggi e non solo
in Italia) sui modi che meglio possono favorire, all’interno di realtà culturali e sociali complesse e mutevoli, comportamenti ispirati al principio e alla
pratica della responsabilità, come forme non di eliminazione del conflitto,
ma di rimedio al conflitto.
Il Diritto, infatti, per la sua natura di Scienza della Società, si presenta
come un “sistema culturale funzionale”-secondo la definizione di Vygotskyche la società ha elaborato per l’analisi e il controllo dei propri processi, che
nel tempo hanno il loro inizio, nel tempo si muovono e si modificano,così
come fa il Diritto, seguendo, accompagnando, a volte anche anticipando il
movimento e le modificazioni delle società storiche.
Sul piano teorico uno dei frutti dell’evoluzione del pensiero giuridico è
la figura del cosiddetto “Diritto mite” (in l’Italia riconducibile, fra gli altri,
agli studi di G. Zagrebelsky e di E. Resta) che tende a sottolineare il valore
delle norme quali strumenti regolatori e ordinatori dell’agire e in quest’ottica ipotizza la costruzione di percorsi alternativi a quelli propri della giustizia retributiva come mezzi per dare soddisfazione alla vittima della violazione dell’ordine sociale che segue a comportamenti dannosi e ingiusti.
Si parla così di giustizia di prossimità, per indicare i percorsi e le tecniche che attengono ad una giustizia che si vuole riparatrice, capace cioè di
ricostituire, di reintegrare nella coscienza dei soggetti in conflitto le ragioni
culturali, emotive, civili, di una comune, pacifica convivenza.
Su questo impegnativo crinale il “Diritto mite” incrocia le proprie elaborazioni teoriche con quelle su cui si fonda la Mediazione per la gestione pacifica del conflitto, pratica che appartiene, per l’appunto, alla categoria della
giustizia riparatrice.
Quanta sia ormai la sua diffusione e quale il suo prestigio è testimoniato
dal numero crescente di documenti elaborati in sedi ufficiali, che incoraggiano il ricorso alla pratica della Mediazione come mezzo per risolvere i conflitti e prevenire il ricorso alle procedure giudiziarie.
Per citarne tre soltanto:
1 - la Legge italiana di ratifica (marzo 2003) della Convenzione europea, sull’esercizio dei diritti del fanciullo, che prevede gli strumenti atti a rendere effettivi i diritti che erano stati proclamati con la famosa Convenzione
siglata a Strasburgo nel 1989.
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2 - Il Documento finale ad esito dell’Incontro Nazionale promosso nel
2005 dalla sezione italiana dell’UNICEF, che significativamente ha per
titolo: “Mediazione e diritti dei bambini” e all’interno del quale si
definisce la Mediazione uno strumento prezioso per l’evolversi della
dimensione sociale della persona. Si tratta di un documento molto
esteso e ricco di indicazioni al quale si rimanda chi fosse interessato ad
una lettura completa.
3 - Il Codice di condotta europeo dei mediatori (2004) a significare l’importanza e la diffusione che ha ormai assunto la pratica della Mediazione e
contemporaneamente l’attenzione che viene dedicata a che il suo esercizio avvenga nel rispetto di regole certe e condivise.
A questo punto, in quanto responsabili dell’Amministrazione scolastica,
non possiamo che fare nostro, per sostenerlo, l’auspicio dell’UNICEF, che “la
Mediazione rientri al più presto nei Piani dell’offerta formativa nell’ambito
dell’educazione alla convivenza civile, onde far apprendere ai giovani la
gestione non conflittuale dei rapporti interpersonali”, nelle modalità che da
anni la Prof. Maria Martello indica come possibili ed efficaci. Anche perché
la scuola italiana, con la Legge di Riforma, ha visto l’introduzione dell’educazione alla convivenza civile come uno degli ambiti privilegiati per la
costruzione di percorsi di apprendimento volti a formare giovani capaci di
adottare comportamenti ispirati al principio di responsabilità e alla pratica
della cittadinanza, e che devono garantire il pieno sviluppo della persona
nelle sue molteplici dimensioni.
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Le A.D.R.
Maria MARTELLO
Docente a.c. di Psicologia dei rapporti interpersonali,
Università Ca’ Foscari, Venezia
LA FILOSOFIA E LA TECNICA DELLA MEDIAZIONE
PER GESTIRE IL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Vorrei prima di tutto esprimere la gioia di vedere che in tanti avete condiviso la mia stessa passione: occuparsi del conflitto e di tutte le argomentazioni ad esso connesse.
Può sembrare eccentrico, lo so, ma è tutt’altro che una stravaganza
porre alla vostra attenzione un tema che di solito cerchiamo di evitare, perché fa soffrire, crea ansie e assorbe quasi tutte le nostre energie sottraendole a quanto di più interessante e impegnativo il nostro lavoro ci offre.
È anzi urgente e improcrastinabile.
Perché si fa perentorio oggi l’invito a riflettere, in particolare, sui modi
che di solito si seguono per dirimere i nodi delle relazioni?
Stiamo vivendo una stagione in cui il deserto della barbarie nei rapporti interpersonali avanza, in cui i toni del confronto costruttivo lasciano
sempre più spesso spazio al disprezzo dell’altro, all’insulto gratuito, al
dileggio, alla sopraffazione. Molti, anzi troppi, sembrano diventati incapaci
di dialogare, di tenere conto dell’altro, di ascoltare le altrui opinioni, di
apprezzarne lo sguardo diverso che può portare sulle questioni del vivere
sociale e su quanto le connota di senso. Si parla per slogan, non si argomenta. Si ragiona per schieramenti, si condanna e si esclude in base a preconcetti. Spesso la scuola diventa il luogo fertile per il bullismo, il teatro di
gruppi e di schieramenti dove il confronto critico tra idee, opzioni e priorità degenera in conflitto con attacchi alla persona, alla sua dignità. L’altro,
percepito come non omogeneo alle proprie posizioni, viene vissuto subito
come rivale da distruggere, da zittire con ogni mezzo, anche a costo di
ingiustizie e falsità. Ben lungi dal rispetto e dall’accoglienza della diversità
come valore.
Troppo spesso anche noi educatori ci riveliamo “cattivi maestri”, lasciandoci contagiare da questo stile dilagante e adottandolo sia nei rapporti con
gli altri operatori della scuola sia nei confronti degli allievi.
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Inoltre per qualcuno, spesso per troppi, l’incarico di dirigente significa il
rischio di una vita di problemi senza fine, del disagio del ruolo.
Progetti, incombenze amministrative, peso della gestione di relazioni
numerose e diversificate, la spinta verso l’innovazione, lo stile efficientistico
e scientifico, portano a difendersi ricorrendo al ruolo, alle maschere, ma eludono la dimensione della “persona”: la persona del dirigente e di conseguenza la persona del docente, dell’allievo, dei collaboratori, delle famiglie.
Tutti diventano pedine per raggiungere gli obiettivi e attuare le strategie. Inoltre una percezione di emergenza continua, di affanno e di “tempi
stretti” contagia tutti.
La mia proposta è di riprendere a ripensare la scuola come comunità di
persone che si confrontano, si scontrano, coalizzano le loro competenze,
praticano valori per creare un ambiente “sano”. Dove le relazioni sono
costruttive e la creatività di ciascuno potenzia e arricchisce quella degli altri.
Dove il fare è risposta ad un senso veramente sentito come tale, pieno e
appagante. Dove la dimensione esistenziale dell’allievo è tenuta presente da
adulti che vedono la loro stessa rispettata. Dove la dimensione di vita personale, le gioie, le paure, il bisogno di sentirsi riconosciuti trovano spazio,
ascolto e rispetto. Sono certa infatti che è a partire da ciò che possono circolare contagiosi la fiducia, la motivazione, l’impegno, l’entusiasmo, la cooperazione. È a partire da ciò che si raggiunge il successo formativo degli
allievi e il successo professionale di chi vi opera. Lungi dalla sciagurata trappola di essere fautori di malessere che a cascata contagia tutti!
Ma tutto ciò è frutto non tanto della qualità organizzativa, del “cosa faccio”, delle procedure, ma del “come faccio”, dei comportamenti che metto
in atto, del senso del fare, dell’essere. Non è effetto di talenti individuali, ma
di una sistematica, costante, approfondita e impegnativa formazione. Dove
l’intelligenza emotiva, la qualità delle relazioni, la gestione del conflitto, l’accoglienza diventano non nuove competenze edulcorate, non rassicuranti
protocolli operativi, non formule vuote, quasi trucchi per “vendere” un’immagine oggi vincente, ma un radicale cambiamento profondo, una risposta
forte al bisogno che ognuno fortemente sente: di essere in equilibrio e far
essere equilibrati.
Ho studiato un nuovo modello di leadership di tipo umanistico, e sto proponendo il metodo per esercitarla. I risultati sono così confortanti e gli effetti davvero al di sopra delle più felici aspettative, grazie alla partecipazione
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seria e coinvolta dei corsisti (alcuni dei quali oggi interverranno) che ringrazio tutti.
La linea culturale che presentiamo questa mattina ci porta a non preoccuparci tanto della presenza dei conflitti in quanto contrasto di interessi o
di idee diverse, ma delle conseguenze della gestione improvvisata, istintiva,
“incompetente”.
Al suo nascere ogni contrasto, di solito, fa scattare, sia nei docenti e
negli adulti in generale così come negli studenti, la volontà di sopraffare l’altro, di dominarlo, di distruggerlo. Fa entrare in una spirale automatica,
naturale, spontanea, immediata, governata dalla paura dell’altro, dove non
ci si ascolta più, e la violenza nelle parole e nei comportamenti sembra l’unica via d’uscita.
Sono queste le reazioni che lo fanno diventare distruttivo.
Ciò non è un effetto necessario, connesso alla stessa natura dell’evento.
Infatti, se invece si ha il coraggio di apprendere modalità di gestione “colte”,
lo si può vivere perfino come fattore di evoluzione, di educazione, di crescita, di ricchezza. Questo modo è vantaggioso in senso lato. Oltretutto riduce
lo stress, fa imparare a prendere la distanza necessaria dagli eventi: “conditio sine qua non” per capire meglio se stessi e l’altro, per conoscersi meglio
(la situazione conflittuale che fa emergere la parte più profonda di sé, al di
là delle forme apparenti). E soprattutto si veicola con successo il progetto
formativo e didattico altrimenti drasticamente ostacolato e inficiato da relazioni compromesse e ostili.
Agire modalità costruttive è possibile a tutti, ma richiede una formazione di alto profilo, efficace solo se molto profonda e non direttiva, che parte
dai conflitti in cui si è direttamente coinvolti, che si centra sulle specifiche
persone affinché emergano i veri desideri e a partire da questi si elaborino
proposte di lavoro.
A mio parere, quindi, il conflitto, o meglio la capacità di gestirlo senza
distruggere e distruggersi, è il tema più urgente da porre all’attenzione del
mondo della scuola e per questo ringrazio tutti per essere intervenuti e
soprattutto i Relatori che hanno accettato di riflettere insieme a noi su di un
argomento complesso che richiede di essere esaminato da diversi punti di
vista.
La giornata odierna ci permetterà di valutarlo secondo l’ottica del magistrato, del pedagogista, dell’avvocato, dello psicologo.
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Che cosa ancora ci spinge a proporre questo tema con tanta determinazione e impegno?
Certamente la convinzione che se non ci occupiamo della relazione
interpersonale, dello sviluppo dell’intelligenza emotiva e delle modalità di
gestire il conflitto, la qualità della nostra vita viene compromessa così come
la nostra efficacia professionale al punto tale che viene vanificato l’impegno
che poniamo nell’organizzare l’ufficio, la dirigenza, la nostra disciplina d’insegnamento, e nel predisporre le migliori didattiche.
Chi di noi non ricorda di avere amato una materia in quanto presentata da un insegnante capace di motivarci, di darci fiducia, di sostenerci? Lo abbiamo sperimentato tutti sulla nostra pelle. Così avviene ancora per i nostri ragazzi: a volte il nostro progetto formativo non ha gli esiti
per i quali abbiamo lavorato, forse perché siamo stati poco competenti
nel gestire le relazioni, o forse perché non abbiamo saputo educare ad
una gestione che trasformasse il conflitto in un’occasione preziosa di
vita. A ciò si aggiunga che difficilmente siamo stati in grado di offrire ai
nostri allievi occasioni di formazione, sistematica e strutturata, in tale
settore.
D’altronde nessuno di noi nel suo curriculum scolastico ha avuto
momenti di formazione ad hoc, di conseguenza oggi tale formazione è
urgente, prioritaria e inderogabile.
È chiaro, affascina la candida supposizione che se non esistessero i conflitti interpersonali, se gli altri non ci creassero problemi, non ci mettessero
“i bastoni tra le ruote”, tutto procederebbe bene; affascina il sogno di vivere da beati in paradisi affollati da pacifici. In qualche momento tutti siamo
come la colomba di Kant, convinta che, in mancanza della resistenza dell’aria avrebbe potuto volare molto meglio. Di fatto è proprio la resistenza
dell’aria che consente che si trasformi in volo il battere delle ali. Analogamente per noi il conflitto è uno dei modi per sviluppare le nostre capacità,
per esprimere e applicare le risorse individuali, per evolvere. Quindi, con
esso occorre coesistere e confrontarsi. Importante è “vivere il conflitto e
non “esserne vissuti”.
Sulla base di questi presupposti non possiamo più considerare il conflitto come un incidente di percorso, ma dobbiamo considerarlo nel modo innovativo che oggi cercheremo di introdurre.
Partendo non tanto dalla tecnica, ma dalla filosofia delle A.D.R., la quale
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illumina il modo di concepire il conflitto, oggi occorre assolutamente uno
“sguardo nuovo”.
In questo contesto presentiamo gli esiti del corso di formazione che ho
realizzato nell’anno 2004/2005 con un gruppo di Dirigenti scolastici della
Lombardia secondo i principi prima annunciati. Il progetto, presentato in
collaborazione con l’ANDIS, approvato e finanziato dal MIUR è stato coordinato dalla Dirigente scolastica Giovanna Granito e fa riferimento alla Mediazione, perché questa metodologia offre spunti preziosi ricchissimi, vitali e, a
mio parere, indispensabili per la scuola e per il progetto formativo. Per
Mediazione intendiamo una metodologia che ha una sua deontologia, una
sua tecnica, delle procedure molto rigorose e soprattutto una filosofia; dunque siamo molto distanti dal significato che tale terminologia assume nel linguaggio comune (via di mezzo, rinuncia bonaria, accordo).
La Mediazione è parte integrante della filosofia del diritto: le A.D.R. sono
tecniche alternative alle vie giudiziarie e hanno l’attenzione del mondo della
giustizia.
A questo proposito vorrei riferirvi la definizione del filosofo del diritto
Eligio Resta che pone la Mediazione come la risposta adeguata alle dispute
che necessitano di ritrovare linguaggi diversi rispetto al linguaggio del giudice. Infatti la Mediazione va oltre il punto di arrivo del giudice stesso, il giudice si ferma alla sentenza e alla sua applicazione, prende in considerazione
i fatti che oppongono le parti. La Mediazione indaga, affronta, si occupa, non
solo dei fatti, ma di tutti gli affetti, cioè di tutte le radici, che hanno prodotto quei fatti.
È dunque una soluzione del conflitto molto più articolata e complessa e
risulta necessaria soprattutto tra coloro che al termine del conflitto dovranno continuare a relazionarsi.
Esistono applicazioni della Mediazione in campo penale, in campo commerciale e in campo familiare che in Italia si è iniziato a trattare da un
decennio, mentre all’estero vi sono esperienze trentennali.
A maggior ragione, se si ritiene la Mediazione uno strumento efficace per
la risoluzione di conflitti intercorsi tra persone che possono anche non rivedersi mai più, pensate quanto essa risulti importante nell’ambito scolastico
dove l’allievo, il docente, il dirigente, dovranno continuare, il giorno dopo la
sentenza, o dopo l’esito di una ispezione ad opera di un dirigente tecnico, ad
incontrarsi, a lavorare insieme, a perseguire obiettivi.
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Pertanto, nel mondo della scuola, la Mediazione, in quanto offre indicazioni precise e atte a modificare in modo nuovo la modalità di relazione, è
strumento assolutamente vitale alla realizzazione della “mission”, sia come
risoluzione alternativa del contenzioso scolastico sia come filosofia delle
relazioni.
Può sembrare un invito a riflettere su una responsabilità aggiuntiva alle
troppe già assegnatevi nei confronti degli allievi: la metodologia della Mediazione facilita e potenzia i nostri compiti istituzionali. Inoltre è importante
prima che per gli allievi anche per la qualità della nostra vita. Vorrei porvi
alcune domande: come state? Come state vivendo il vostro ruolo all’interno
della scuola?
Immagino quale sia la vita di un docente che entrando in classe non riesce a governare i suoi allievi, col rischio continuo di esserne sopraffatto;
immagino situazioni in cui le famiglie attaccano la scuola o la scuola è in
contrasto con loro; oppure situazioni in cui il dirigente non ha ancora varcato la soglia della scuola e già è raggiunto dal bidello, dall’insegnante, dal collaboratore di segreteria che lo coinvolgono e lo informano di conflitti e problemi da risolvere, di esiti di un conflitto mal gestito o trascurato da altri.
A questo punto: qual è la qualità del servizio che un dirigente può offrire? Come sta quel dirigente quando esce dalla sua scuola? Sente di essere
soddisfatto e di aver passato una mattinata di piacevole impegno oppure è
assolutamente sovraccaricato da tante scorie emotive negative che ha
assorbito? Cosa potrà offrire questo dirigente il giorno dopo? E cosa succede quando il dirigente ha dovuto trascurare il rapporto con i docenti, gli
obiettivi didattici, etc., per occuparsi di un contenzioso che “quella” bidella,
che malauguratamente ha avuto un incidente sul lavoro tre anni fa, in modo
pretestuoso ha portato avanti per anni e anni? Quali energie questo dirigente ha dovuto sottrarre al suo lavoro per seguire queste vicende giudiziarie?
Quali vissuti dirigente e bidello hanno? Quali conseguenze il loro conflitto
ha sul clima della scuola?
Ma si pensi anche alle problematiche legate alla contrattazione di istituto che chiedono al Dirigente scolastico di confrontarsi sistematicamente con
la RSU non in una situazione di contrapposizione, ma di concertazione. Si
pensi anche ad un collegio di docenti in conflitto con il dirigente… e viceversa!
Tutte queste situazioni hanno un costo, e nella scuola il costo è molto
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alto: si guasta il clima e in queste condizioni l’esito di qualunque proposta
sensata, ragionevole e innovativa, da chiunque venga avanzata, è sicuramente incerto, ostacolato, combattuto.
Certo occorre il coraggio di porre all’attenzione questo tema e di farlo in
modo inusuale cioè coinvolgendo non solo una, ma tutte le componenti del
mondo della scuola, dirigenti o docenti, perché i conflitti si può certamente
dire che sono trasversali, interessano tutti, ma la soluzione di un conflitto
può avvenire solo con l’impegno di tutte le parti coinvolte.
Sembra però che tanto più sappiamo dentro di noi che i conflitti esistono tanto più cerchiamo di esorcizzarli, di chiuderli prima possibile, di dire
che noi non li abbiamo, che sono degli altri. Crediamo che sia la scelta più
elettiva quella di bloccarli al loro nascere, di evitarli, di ignorarli.
Spesso quanto più se ne è sopraffatti tanto più si evita di parlarne.
Infatti un conflitto genera ansie, paura di inadeguatezza, senso di debolezza e di vulnerabilità, voglia di negarlo, timore di soccombere e perdere la dignità insieme al polso della situazione, spinta a chiuderlo o meglio soffocarlo in
qualche modo, ma prima possibile. Atteggiamenti naturali che spesso tuttavia
lasciano l’amaro in bocca, che possono portare alla quiete formale, ma alimentano frustrazioni, rancori, insoddisfazioni, rabbie, progetti di rivalsa; oppure
depressione, squalifica di se stessi, demotivazione, senso di debolezza.
Ecco che da un segno di vita il conflitto diventa, nella norma, un segno
negativo, di morte.
Di solito quando sentiamo che una persona ci aggredisce normalmente
ci sentiamo obbligati a difenderci e troviamo un modo diretto o indiretto per
contrattaccare.
L’aggressione nasce sempre da paura e sensi di colpa. Nessuno aggredisce senza essersi prima sentito minacciato e se non crede di poter dimostrare la propria forza a spese dell’altrui vulnerabilità. Agire modalità costruttive dipende dall’impegno di tutti, dall’acquisizione generalizzata di una
nuova mentalità. Come sostiene William G. Neville, uno dei fondatori della
mediazione familiare:
“Puoi entrare nel mondo di un altro solo se non ne sei spaventato.
Quindi parte del lavoro del mediatore è quello di aiutare la famiglia,
sia individualmente sia come sistema, a vedere che la crisi e il conflitto non sono la fine della famiglia stessa, ma solo che essi impongono
una sua ristrutturazione e che in tale ristrutturazione i bisogni di cia-
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scuno verranno ascoltati e considerati e, attraverso la collaborazione e
lo scambio resi possibili dall’ascolto, la famiglia e i suoi beni possono
essere adattati e, eventualmente, ridistribuiti in maniera equa”.
La soluzione “ecologica”, costruttiva, del conflitto può avvenire solo
attraverso una nuova consapevolezza e nuove competenze che permeino
tutti. Non basta la buona volontà di uno solo anche se, è vero, come dice la
saggezza popolare “se uno non vuole l’altro non litiga”. La formazione che
propongo modifica, quindi, nell’immediato lo stile di relazione.
A volte si sente l’urgenza di avere indicazioni pratiche da applicare subito e quasi per magia far sparire i problemi. Quasi sempre a poco serve affidarsi a regole esterne, può, anzi, causare perfino il rammarico di non averle
seguite pur conoscendole.
Noi proponiamo la via della formazione, l’unica per poter governare i
problemi e per non lasciarsi governare da loro. Per non appiattirsi sul fare,
ma essere protagonisti di senso del proprio fare.
Una vecchia storiella racconta di un pellegrino che stava passeggiando
in un bosco quando si imbatté in un taglialegna che, con grande frenesia e
molto sforzo, cercava di segare in pezzi più piccoli un tronco d’albero. Incuriosito si fece più vicino per vedere su che cosa il taglialegna si stesse tanto
affaticando, e gli disse: “Mi scusi ma ho notato che la sua sega è sdentata: perché non l’affila?” E quello rispose borbottando: “Non ho tempo per
queste cose: io devo segare!”
Anche noi spesso siamo come quel taglialegna: talmente sovraccarichi e
assorbiti dal peso della quotidianità che crediamo di non avere il tempo per
fermarci.
Presi dal fare ci dimentichiamo di “affilare” i nostri strumenti, ci priviamo dei vantaggi di fermarci e “metterli a punto”. E a volte questi non sono
“affilati”, sono “spuntati”, non “tagliano” più, non incidono o meglio, incidono negativamente!
Quando sono “sdentati”, facciamo fatica noi e la facciamo fare agli altri.
Troppo spesso sono inidonei a gestire costruttivamente i conflitti!
La vostra presenza oggi è il significato stesso di questo convegno; esprime il desiderio di smettere di fare fatica improduttiva: non possiamo vivere
nei conflitti, perché di conflitti si muore!
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In realtà non è di per sé grave il conflitto, come non è grave tagliare la
legna, ma è grave il modo in cui lo affrontiamo; la “sega sdentata” ottiene
risultati sfilacciati a costo di alta fatica.
Il conflitto è un momento delle dinamiche relazionali e riguarda tutti.
Ammettere che il conflitto esiste, e che non abbiamo paura di negarlo, è
già un passo importante, un elemento positivo. Così come essere convinti
che la loro presenza a scuola è indice di come ancora questa sia il luogo di
relazioni forti.
Eppure ci sono situazioni di assenza di conflitto.
Non ci sono contestazioni, le circolari vengono applicate in maniera corretta, al dirigente non arrivano forme di disappunto da parte dei docenti, o dei
genitori o del personale ATA. Le giornate passano senza scossoni. Una condizione davvero auspicabile? Un sogno da realizzare? Un paradiso a noi negato?
A volte alcuni dirigenti vantano che nelle “loro” organizzazioni lavorative non vi siano problemi e viga la regola del “vogliamoci bene”. Come mai?
È noto che il conflitto fa parte della vita, di tutti i rapporti in cui nessuno
soccombe all’altro, ma ciascuno cerca il “proprio posto” per essere propositivo e attivo.
In questi casi, però, sorge il dubbio che la situazione vantata possa essere, viceversa, proprio un segnale allarmante. Dietro a molti “buonismi” si
può nascondere un atteggiamento paternalistico o di protagonismo che usa
il bisogno di considerazione e di rispetto, bramato da ciascuna persona, per
veicolare supremazia e affermare il proprio potere. Un modo furbo ed efficace per imporre la propria volontà e rendere l’altro inoffensivo: “la controparte è talmente buona e gentile che ... accetto, non ho la forza di esprimere il mio disappunto”, mettendosi così in condizione di coltivare una
rabbia inespressa, il disagio soffocato proprio di numerosi professionisti.
A questo tipo di gestione delle relazioni si affianca anche, di solito, l’efficientismo: bisogna fare molte cose, curare l’immagine della azienda e delle
istituzioni all’esterno. E in nome di ciò, con la fretta sfuggono i veri messaggi che l’altro dà: troppo impliciti per chi “va di corsa”.
L’educazione alla relazione: con orgoglio, con trionfalismo si dice che la
si condivide, perché si fa qualche progetto sul tema o qualche iniziativa.
Come se ci fosse l’urgenza di esorcizzare un problema spinoso e complesso dichiarandolo già sotto controllo.
La risposta è: fare, fare, fare e, tra l’altro, garantisce un rassicurante e
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confermante ritorno d’immagine.
Neanche la scuola sta sfuggendo a questa logica: quando il disagio
aumenta, aumenta il numero dei progetti!
Non c’è conflitto tutte le volte che si sta vivendo una relazione debole: è
normale, per esempio, che un bambino o un adolescente litighi con i genitori, fa parte del processo di crescita, ma i conflitti tra genitori e figli cessano
o diminuiscono significativamente quando la famiglia è in crisi, quando il
figlio sente che i due genitori si stanno separando e capisce che non può
legittimare il suo bisogno di crescere attraverso il conflitto e il confronto con
loro, troppo dilaniati dalle loro sofferenze. Coglie la situazione di pericolo e
sa che deve tacere.
Ugualmente può sembrare che nel nostro tempo il conflitto stia diminuendo e ciò è tutt’altro che un segnale di benessere, anzi è solo un’amara
e pericolosa realtà.
Diminuisce, perché si indeboliscono i tempi e la qualità delle relazioni,
perché sta aumentando l’individualismo, perché si sta perdendo la centralità dei gruppi primari: come si fa a litigare con un computer?
Si litigava quando si avevano occasioni di incontro in strada, nell’oratorio, quando s’incontrava fisicamente l’altro e da lì poteva nascere un confronto nel quale era possibile affermare posizioni diverse.
E ancora, non esiste conflitto quando una parte prevarica l’altra; esso
esiste quando i due soggetti hanno deciso di rendersi attivi protagonisti. E
nel nostro tempo, lo verifichiamo purtroppo spesso, sono i rapporti di forza
e di prevaricazione ad affermarsi.
Illusione di pace che ci richiama l’affermazione di Tacito: “HANNO
FATTO UN DESERTO E L’HANNO CHIAMATO PACE”.
Deserto che fa germogliare le forme di violenza, di malessere e di intolleranza più gravi e difficili poi da contenere.
Per questo è impegno doveroso imparare a considerare il conflitto come
un’espressione di vita. Trovare il coraggio di dimostrare che: “non siamo talmente saturi da non potercene e volercene occupare”. È dalla decisione di
prenderlo in esame, infatti, che consegue la possibilità di imparare a gestire
e a trasformare il conflitto in occasione di crescita.
Da anni lavoro concretamente per realizzare attività di sensibilizzazione
in questa direzione. Sarebbe piacevole raccontarvi le esperienze concrete,
già peraltro riferite nei miei scritti. Forse il riferimento all’esperienza risul-
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terebbe rassicurante, ma sarebbe poco utile: raccontare che abbiamo attuato la Settimana della Relazione, o presentarvi esperienze di risoluzione
alternativa di conflitti tra pari o tra adulti e adolescenti può risultare consolatorio e facilmente accattivante, ma poco in linea con il mio modo di operare. Vi inviterei, se lo facessi, ad una operazione di “buonismo autoconsolatorio”, rassicurante, ma di pura forma che invece voglio evitare, ma che so
richiesto.
A volte non è, infatti, consolatorio favorire un progetto per gli allievi,
aprire uno sportello, invece che lasciarsi interpellare profondamente e in
prima persona dai problemi per cogliere le nostre responsabilità nel generarli e anche nel risolverli?
Non sembra forse più comodo esorcizzare i problemi, espellendoli, o affidandone la risoluzione ad estranei, come se non ci toccassero?
Facilmente si tende a rispondere alle ansie di oggi con la teoria antipanico corrente: la teoria del “fare fare fare”, i cui esiti a volte sono paragonabili a quanto si dice in medicina:” l’operazione è riuscita, ma il malato è
morto!”. Non credo utile proporvi di introdurre nelle vostre scuole un altro
“carrozzone”. Di progetti ce ne sono già tanti più o meno validi, più o meno
efficaci. Non serve avere fretta di fare sperimentazioni: esse hanno efficacia,
valore e importanza solo se sono frutto dell’esito di un cambio di mentalità
da parte di chi le propone e in generale degli educatori. Altrimenti il rischio
è che restino operazioni episodiche, che non incidono sul cambiamento
reale e sull’acquisizione delle competenze. Come altrimenti potrebbe funzionare la tecnica stessa della Mediazione se il professionista che la offre
non ha prima rivisto in sé alcune modalità? Come potrebbe altrimenti, in
modo autentico e non di facciata, essere, così come è richiesto dalla specifica linea di intervento, durante la seduta di Mediazione, rispettoso della
dignità dell’altro, della sua diversità, del suo punto di vista fino a giungere al
non giudizio, alla neutralità, alla fiducia nelle altrui risorse? Ma questo modo
di essere non è anche richiesto sempre, in ogni momento, all’educatore, al
dirigente, al docente?
Si può essere in tal maniera solo a seguito di un percorso di formazione
alla relazione costruttiva, alla gestione del conflitto, con una traccia che si
dipana dallo spazio dell’ascolto allo spazio del sé, dell’altro, della relazione,
della Mediazione passando attraverso l’ascolto delle emozioni e che termina
con il benessere emotivo, il silenzio, l’uso del tempo, ma anche il non giudi-
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zio, la cura di sé, la fiducia, l’alterità. Alcune tappe, queste, che sono una
sorta di quadro delle capacità che potranno essere messe in atto sia da un
mediatore professionale sia da un professionista in qualsiasi campo, che si
“gioca” sempre e comunque in relazione con gli altri. Sia da ogni persona
che a livello privato incontra, nel corso della sua vita, il conflitto e che quotidianamente si misura nelle relazioni interpersonali.
Viceversa si possono organizzare tantissime cose all’interno della scuola. Sulla carta e nelle intenzioni risposte innovative ai bisogni rilevati, ma di
fatto potrebbe trattarsi di forme per esorcizzare il problema, relegarlo ad
esperti, estrometterlo dalla nostra responsabilità.
Più conveniente per sé, per la scuola e per la società tutta, astenerci dal
“fare” prima di aver curato “l’essere”. Dobbiamo sforzarci di metterci in
gioco, evitando la delusione di “tenere aperto un ulteriore sportello” che
non ci permetterà di conseguire l’effetto sperato e per cui formalmente è
nato.
Parlare quindi di Mediazione, sempre intesa come la forma più elettiva
di A.D.R., prioritariamente ci porta a considerare l’opportunità di una riflessione più radicale sul conflitto e di porci la domanda: qual è la migliore
risposta al conflitto per la prevenzione del disagio sociale? È concesso impunemente di eluderlo, negarlo o è doveroso riconoscerlo, assumerlo e facilitare la sua evoluzione ristrutturando le relazioni? Di quali competenze
occorre attrezzarsi per gestirli con efficacia e valenza formativa, insegnando
così agli allievi a fare lo stesso?
Il lavoro della scuola è fondamentale: ogni azione non è mai neutra, è o
positiva o negativa. Quindi la scuola o dà risposte costruttive alle dinamiche
del conflitto oppure le dà negative; e ciò accade quando non crea dei percorsi di educazione alla gestione costruttiva del conflitto o quando offre
testimonianza e modelli di risoluzione autoritaria. Quando essa stessa dimostra di non saper avviare, condurre e sostenere il dialogo interpersonale con
tutte le componenti.
La Mediazione invita ad andare oltre i ruoli professionali. Per questo noi
la consideriamo come una sfida trasversale: tutte le attività di formazione
che abbiamo condotto sono state interprofessionali, aperte al Dirigente scolastico, al direttore amministrativo, al bidello, al docente, al genitore e agli
allievi, nel caso di scuola superiore.
Occorre dunque prendere in considerazione il senso e l’efficacia del
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nostro “fare”; del resto a poco servirebbe aver lavorato sodo quando poi gli
effetti non sono quelli desiderati.
Dobbiamo sempre considerare il nostro “fare” perfettibile, perché diventa positivo solo quando è utile sia agli altri sia a noi. Nell’ottica della Mediazione propongo un impegno che, nel momento stesso in cui risulta efficace
e utile per chi lo riceve, risulta prezioso per chi lo propone.
La Mediazione è oltre che uno strumento prezioso, una linea culturale
del tutto nuova che ha un suo statuto, una sua filosofia, una sua tecnica che
supera il principio di “vincitore- vinto” per giungere a quello di “vincitorevincitore”.
Che cos’è la Mediazione?
È un’attività in cui una parte terza imparziale aiuta due o più soggetti a
capire l’origine del conflitto e a confrontare propri punti di vista; ovviamente si tratta di un lavoro professionale assegnato ad un professionista altamente qualificato.
Le sue modalità operative sono molto diverse da ciò che si fa per istinto.
Al centro dell’interesse vi sono dunque i conflitti e i punti di vista dei
soggetti partecipanti. Normalmente siamo portati a fare altro. La Mediazione lascia che la soluzione sia trovata dalle parti stesse; quindi non sono il
giudice o il dirigente che decidono una questione tra insegnanti e genitori o
tra docenti e allievi. Altro aspetto fondamentale è che la Mediazione non si
ferma ad affrontare la punta dell’iceberg del conflitto, ma affronta il problema dalle radici. In campo giudiziario di solito un reo deve rispondere allo
Stato dell’azione compiuta mentre la Mediazione propone, quale assoluta
novità, che chi si è reso protagonista dell’evento scatenante il conflitto
renda conto a chi ha subito il suo operato. Solo partendo da questa forte
responsabilizzazione si giunge ad accettare, anzi desiderare, di provvedere
al risarcimento che è un passaggio vitale, riparativo dell’evento e risolutore
delle malessere tra i contendenti.
La Mediazione introduce un altro elemento utile e prezioso per tutti: la
non accettazione della delega; in fondo in situazioni di conflitto si manifesta
il rischio di perdita di dignità e, come da bambini si ricorreva al papà e alla
mamma, da adulti si ricorre al giudice o al dirigente o comunque ad un’autorità esterna cui delegare il conflitto.
La Mediazione va oltre questa logica, diversamente dall’azione giudicante ha l’esclusivo compito di ripristinare la comunicazione interrotta dal con-
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flitto facendo emergere ermeneuticamente in ciascuna delle parti il reciproco riconoscimento della dignità violata.
Di solito un conflitto si risolve con un vincitore e con un perdente. la
Mediazione lo risolve con due vincitori, perché tutte le volte che un conflitto si risolve in modo “mors tua vita mea” pone le basi per la nascita di un
nuovo conflitto e chi si trova nelle vesti del perdente inizia a nutrire progetti di rivalsa, si sente non capito e ingiustamente trattato; viceversa chi si
sente vincitore è portato a non considerare le responsabilità che ha avuto
nella gestione del conflitto. Del resto è difficile stabilire in modo netto le
ragioni e i torti; ecco quindi che la Mediazione, andando oltre l’idea che una
parte non può vincere se l’altra non perde, propone “l’et et” entrambi riconosciuti nelle proprie ragioni e nella propria dignità.
È fondamentale evitare quell’atteggiamento naturale che ci porta a scaricare le responsabilità sulle colpe dell’altro; la Mediazione è dunque il superamento del punto di vista personale e la presa in considerazione delle
ragioni dell’altro.
Può sembrare per la scuola una opzione invece è una necessità.
Si potrebbe cominciare a domandarci: che idea abbiamo, in fondo in
fondo, di conflitto e come questa condiziona la nostra reazione?
Cosa succede in noi e in chi ci sta intorno ogni volta che seguiamo la logica vincitore-vinto?
Quali i danni economici anche per quanti non direttamente coinvolti nel
conflitto?
Naturalmente tutti auspichiamo di essere dalla parte giusta: quella del
vincitore. Eppure gli esiti del contenzioso e delle liti spesso sono battaglie e
vittorie di Pirro. Normalmente quanto tempo, quante risorse, quanto clima
deteriorato, quanto malessere...!
Vediamo cosa è successo in una situazione:
Due impiegate di pari livello, dello stesso settore aziendale, entrambe
accreditate nell’ambiente e stimate dalla direzione, perché entrambe seriamente impegnate nel loro lavoro; due personalità che appaiono granitiche,
pur nella loro disponibilità e socievolezza. Da tempo, o forse da sempre, non
riescono a tenere un vero dialogo fra loro. Entrambe con diversi anni di
esperienza sul campo e di fedeltà all’azienda, ma anche sufficientemente
lontane dall’ipotesi di un trasferimento o di un avanzamento di carriera,
sono costrette ad una durevole e poco gradita convivenza gomito a gomito.
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Liberano, poi, gli umori compressi di tale relazione nei rispettivi ambiti
familiari o nelle rispettive cerchie amicali, le quali, assaporando il confortante piacere dell’uomo di sentir dire male degli altri, piacere che nasce dal percepirsi esclusi sul momento dalla critica negativa, restano ferme comunque,
di volta in volta, ad una sola versione dei fatti.
Accade, inoltre, che entrambe cerchino alleanze fra i colleghi e che si
propongano come modello, non certo edificante, di disarmonia, direttamente o indirettamente coinvolgendoli e richiedendo una presa di posizione a
proprio favore.
Le chiamiamo per convenzione Maria e Rossana. Il conflitto esplode per
un fatto occasionale, allorquando per un trasloco occorre stabilire spazi,
scrivanie, uffici da occupare.
Rossana pretende la stanza che Maria avrebbe occupato: la rivendica,
perché le rende più veloce il lavoro essendo più vicina alla segreteria, alle
fotocopiatrici, ai commessi. Per lei che deve ottimizzare il tempo e che deve
far fronte ad impegni complessi e delicati è una assoluta necessità. Maria
invece potrebbe sistemarsi altrove, non necessita di particolari condizioni
logistiche. È guerra aperta.
La cosa è portata al setting di Mediazione.
Il mediatore richiede alle due lavoratrici la chiara decisione di affidarsi a
questa modalità di risoluzione e la disponibilità autentica a usufruire delle
dinamiche dell’incontro; quindi precisa qualche piccola regola di comportamento: il rispetto dell’altro, vale a dire, il silenzio e l’ascolto nel momento in
cui questi estrinsecherà i suoi vissuti.
Poi le invita a presentare alternativamente prima l’una e poi l’altra i fatti
secondo il proprio punto di vista, le rivendicazioni e le motivazioni. Ma
soprattutto consente che si esprimano le proprie posizioni, il proprio disappunto in ordine ai fatti intercorsi.
L’una, allora, accusa l’altra non solo di un’infaticabile logorrea che impedisce ogni possibilità di comunicazione, riducendosi quello che dovrebbe essere un dialogo ad un fastidioso ed egocentrico monologo, ma anche di soprusi
e prepotenze, di fagocitare tutte le energie dei collaboratori, mostrando loro
la centralità del suo compito e la dedizione profonda con cui lo svolgeva.
L’altra rimbecca le accuse ed evidenzia un improduttivo e quindi fuor di
luogo atteggiamento di revanche, per compiti di importanza non primaria e
del tutto di routine.
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Aggiunge che quei “leader” che vogliano imporsi devono dimostrare di
saperlo fare.
Le reciproche accuse grondano di svalutazione.
È il primo momento della Mediazione. Il mediatore, ora, con l’arte che gli
compete, con i feedback necessari che ribadiscono alcuni punti fondamentali delle singole versioni dei fatti, indirizza pian piano, pur senza la consapevolezza delle parti, l’incontro verso l’esplicitazione delle motivazioni più
profonde del conflitto.
Maria allora confessa il suo sentirsi svalutata agli occhi dei colleghi come
persona, nel momento in cui vengono svalutati il suo lavoro e la sua competenza a cui ha dedicato i migliori anni della sua vita. Dice che le riesce intollerabile, per sua natura e formazione, la comunicazione di superficie di chi,
liberando un incontrollato fiume di parole, resta sostanzialmente noncurante dei detriti che esso trascina con sé, della ruggine che sta sotto la patina
linda dell’apparenza; di chi, nonostante i rancori, si esibisce in chiacchiere
estranianti. Cosa ancora più fastidiosa, qualora avvenga nell’intervallo,
quando lei avrebbe bisogno piuttosto di riposo per il precedente stress lavorativo o vorrebbe sciogliere le tensioni in situazioni di moderata ilarità, per
godere dei benefici effetti del riso.
Il mediatore si inserisce a questo punto ponendo qualche domanda e lascia
a ciascuna delle due agio di esprimere con libertà l’entusiasmo nei confronti
del proprio lavoro; le peculiarità, la ricchezza delle rispettive mansioni. Pertanto si riappropriano della loro dignità e integrità di persone, al di là di torti e
ragioni messi in campo nella loro relazione conflittuale. Trovano il coraggio ed
anche il piacere quindi di scoprire a se stesse e verbalizzare all’altra le loro
strutture interne, i loro “paletti”, le convinzioni che guidano il loro approccio
alla vita. Li riconoscono diversi, ma entrambi aventi il diritto di esistere.
Appare chiaro ai loro stessi occhi che la passione che ciascuno ha da
sempre messo nello svolgimento del proprio lavoro, perdendo la sua sostanza positiva, le ha poste in competizione, le ha rese nemiche, più che affiancarle nel comune intento produttivo, fino a costituire il limite del loro rapporto. Comincia a insinuarsi il “dubbio” e gli interrogativi indotti aprono la
condizione che porta a riconoscere una responsabilità condivisa.
Segue uno scambio di vissuti, lungo, doloroso, ma propulsivo.
Ciascuna fa contatto con se stessa e permette all’altra di fare lo stesso.
Si crea un contagio positivo, intanto che il mediatore, che tutto ciò ha per-
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messo con il suo approccio empatico nei confronti di ciascuna, va eclissandosi, per dare spazio assoluto ai protagonisti dell’incontro.
Continua, infatti, il discorso Rossana, e mette a nudo le sue difficoltà nell’acquisizione di una personalità sufficientemente sicura di sé, lo spazio
anche eccessivo dato alla riflessione, per compensare un suo incrinato rapporto con la realtà, la sua incapacità perciò di ritrovare un piano d’intesa con
chiunque non si muova nel campo che le dà certezza. Accenna a fatti infelici della sua adolescenza, le costrizioni psicologiche di un autoritarismo subito in ambito familiare, il suo sentirsi talora come lieve scialuppa in balia delle
onde, il suo anelito ad una serena acquietante dimensione del vivere. Vissuto che ha finito per diventare il criterio di approccio di ogni relazione. Giunge anche, liberata in parte la tensione iniziale del confronto, grazie alla
modulazione che al momento questo riceve, a confessare il suo affetto di
fondo per l’altra, aprendo, spontaneamente, lo spazio al superamento del
blocco comunicativo.
L’altra può così senza remore testimoniare la personale sofferenza per la
consueta freddezza della collega, per la sua disattenzione alle proprie comunicazioni. Può richiamare alla mente il lungo tempo della loro conoscenza
radicata nell’infanzia. E confessare, infine, di portare una maschera atta a
celare il bisogno di essere compresa nelle sue emozioni profonde.
Prima figlia di sei fratelli, le è stato da bambina affidato un ruolo protettivo e fattivo nei loro confronti. Non è stata coccolata dalla madre, abbracciata, giustificata. Non è mai riuscita a venir fuori dal suo cliché, ha avuto
paura di mostrare la propria fragilità, di perdere la propria identità, di non
essere più apprezzata. La sua logorrea che ha impedito agli altri di notare le
incrinature di una personalità apparentemente non scalfibile nel suo monolitismo raziocinante, che ha inteso porre delle barriere, adesso le si rivela
una gabbia da cui vuole evadere. Ammette anche lei il suo affetto per l’altra
e piange mentre l’abbraccia, mentre si abbracciano.
Due mondi diversi, due mondi che incominciano a vedere possibile e
desiderabile la ricerca ciascuno del proprio spazio. In modo indipendente,
ma in relazione. La competizione, l’esclusione, l’isolamento, la squalifica iniziale, celebrati sull’altare di una bonaria tensione, di una violenza sottile, ma
penetrante, lasciano il posto alla partecipazione al dolore dell’altra; alla tristezza per averlo inconsapevolmente incrementato; al desiderio di invertire
le dinamiche il più presto possibile. Non si può aspettare oltre. Urge uscire
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dalla sofferenza e proiettarsi nel terreno del riscatto. Proprio, dell’altra, del
nuovo rapporto. Una forte pulsione che parte dalla responsabilità condivisa.
Ora il mediatore assiste, come un sacerdote al rito finale in cui entrambe, in
autonomia, giungono ad una soluzione del loro conflitto.
Gli spazi contesi, presentati inizialmente come il vero problema erano
svaniti durante tutta la seduta di mediazione. Ridimensionati di fronte
all’emergere del vero bisogno: la richiesta di “spazio” affettivo, di rispetto, di
riconoscimento del reciproco valore.
Ora anche la collocazione logistica viene risolta a partire da una capacità
di rapportarsi nuova, che ha avuto un’inversione di marcia. La loro intesa si è
fatta più profonda e prosegue, crescendo, sullo stesso piano di intimità, nutrita di acquisizioni diverse, di diversa consapevolezza, di inattesa complicità.
Due persone si sono palesate l’una all’altra nel loro essere più profondo.
Questo il frutto ricco della Mediazione.
Sia per evitare conseguenze spiacevoli che per arricchirsi degli effetti di
una gestione costruttiva di questi momenti critici della relazione si possono
ipotizzare diverse piste di utilizzo della Mediazione. Per poter gestire i conflitti in modo umano. Per migliorare il progetto formativo. Per inviare le
famiglie che spesso informano la scuola di loro problemi personali.
Operativamente vi si può ricorrere nelle controversie che oggi giungono
davanti al giudice del lavoro e si può pensare all’interno di ciascuna scuola
all’istituzione di un servizio interno per i conflitti tra pari.
Una terza via, per me di particolare utilità e urgenza, è quella di assorbire la cultura e i principi della Mediazione attraverso una formazione degli
adulti (docenti, genitori, personale ATA) per:
- gestire in modo qualificato ed efficace i rapporti interpersonali nel quotidiano
- creare dei curricoli di formazione rivolti ai ragazzi
- offrire “momenti forti” di formazione dei ragazzi alla intelligenza emotiva,
all’ascolto dei vissuti e dei bisogni profondi, alle dinamiche interpersonali
nei gruppi.
Se la terza proposta è stata fatta in modo serio ed efficace, si può passare incisivamente alle altre che possono essere assunte dai docenti stessi.
Concludendo, investire in questa linea culturale e apprendere queste
tecniche è urgente anche per salvaguardare la propria integrità emotiva
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essendo come dirigenti e come docenti il collettore anche di conflitti che
altri hanno fatto nascere o malgestito.
Significa quindi:
- arricchirsi di nuovi strumenti della ricerca più aggiornata
- evitare gli effetti di una gestione improvvisata e a volte devastante dei conflitti
- trasformare una difficoltà in occasione per conoscersi meglio e creare
nuove vie di rapporto nel rispetto di entrambe le parti
- lavorare per la creazione di “ben-essere” nel contesto specifico a vantaggio della società tutta
- rendere possibile la fruizione e l’accoglimento della proposta culturale di
ciascuna materia sempre veicolata dalla buona relazione.
I lavori di questa mattina verteranno sulle A.D.R. applicate alla soluzione del contenzioso scolastico non tanto perché questo sia il nostro obiettivo principale (potrebbe essere obiettivo principale delle Istituzioni preposte), ma soprattutto perché, come accennavo prima, sono convinta che il
contenzioso scolastico e la sua gestione producano effetti importanti sulla
formazione e sul clima della scuola. Solo chi sperimenta in un proprio contenzioso, sulla base della sua esperienza diretta, il valore e l’efficacia di queste tecniche può essere un valido interlocutore dei ragazzi e guidarli nelle
loro esperienze di vita anche quando conflittuali.
In ultimo vale precisare ulteriormente che il mediatore non deve giudicare né interpretare: è necessario che egli sia neutrale e assuma dunque un
comportamento inusuale visto che normalmente siamo portati a schierarci
e soprattutto a dare consigli.
L’argomento è complesso e per una trattazione esaustiva rimando ad
altra sede, o meglio al contesto della formazione, ben più appropriato per
una comprensione dettagliata. Passo la parola sicura che saranno i saperi
che si intrecceranno a restituirci una visione variegata di questo ambito di
studio, infatti proprio la pluralità degli interventi potrà portare un arricchimento, una visione più completa del tema e potrà promuoverne una diversa delle realtà relazionali e conflittuali scolastiche.
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Luciana VOLTA
Dirigente Ufficio legale della Direzione Scolastica Regionale per la Lombardia
IL CONTENZIOSO SCOLASTICO
TRA NORMATIVA E PRASSI
Considerando il tema oggetto di questo convegno, che riguarda appunto i sistemi “alternativi” di soluzione dei conflitti, o ancor meglio i metodi per
evitare il radicarsi di conflitti, il mio intervento pare un “corpo estraneo”.
Riflettendo meglio, però, si rileva come contenzioso (inteso in senso
lato) e metodiche di mediazione siano le facce di una stessa medaglia, problematiche strettamente connesse, tanto che l’una non si giustificherebbe
forse senza l’altro.
Entrambi tali argomenti riguardano senza dubbio gli aspetti più complessi del sistema scuola, ed in particolare le problematiche che hanno investito il sistema scolastico in tempi relativamente recenti.
La riforma della P.A., con l’introduzione di logiche e schemi privatistici peraltro già previsti dal D. Lgs. 29/93 e dalle successive norme modificative
- ha interessato anche il mondo della scuola che, se da un lato si è rafforzata nella sua realtà di organismo autonomo, dall’altra ha vissuto con qualche
difficoltà l’intensificazione progressiva delle responsabilità correlate.
La scuola, dunque, ha visto ampliarsi progressivamente le sue competenze, rivisto i suoi moduli culturali, rivoluzionando - è il termine più corretto l’intera sua organizzazione e rivedendo le proprie professionalità interne,
dovendosi adeguare ad un quadro oneroso di “decentramento funzionale”.
Si pensi intanto all’intervenuta riorganizzazione dell’Amministrazione
centrale, che ha comportato il progressivo consolidarsi degli U.S.R. e la trasformazione degli ex Provveditorati agli Studi in C.S.A., nonché l’attribuzione della dirigenza agli ex Capi di Istituto, operazione questa resasi necessaria in considerazione del fatto che le scuole sono oggi “persone giuridiche”.
Nell’attuale panorama normativo, dunque, le scuole sono da considerare soggetti giuridici autonomi, titolari di situazioni giuridiche attive e passive mentre i Dirigenti scolastici, responsabili per i risultati del servizio offer-
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to, sono identificati dalla legge quali legali rappresentanti dell’istituzione
scolastica - persona giuridica nei rapporti con i terzi, nonché come “protagonisti” della gestione concreta del contenzioso, lavoristico e non.
È opportuno precisare come tale ultima affermazione discenda dalla
innovazione (introdotta già nei lontani anni 90) prodotta dal D.Lgs. 29/93
nel riparto di giurisdizione nel Pubblico Impiego.
Tale innovazione risulta recepita dal D. Lgs. 165/01, il quale ha sancito il passaggio al G.O., in funzione di Giudice del Lavoro, di “tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni... ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti”.
Il legislatore ha dunque previsto - quale parte del più ampio disegno di
riforma delle PP.AA. - il passaggio dalla giurisdizione del G.A. a quella del
G.O. di gran parte del contenzioso del P.I. privatizzato, tra cui quello scolastico.
Ulteriore novità, in argomento, è quella (posta già nel D. Lgs 80/98 e
confermata nel T.U. 165/01), rappresentata dall’affidamento della difesa in
giudizio della P.A. ai suoi stessi dipendenti.
In proposito, è sufficiente ricordare l’introduzione, nel codice di proc.
civ., dell’art. 417/bis, il quale prevede che - nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti della P.A., limitatamente almeno al giudizio di
primo grado, le Amministrazioni possono stare in giudizio avvalendosi
appunto dei propri dipendenti.
Ed ancora, la normativa vigente prevede che tale “capacità” si estenda
alla previa ed obbligatoria fase conciliativa e/o alla eventuale fase arbitrale.
Dal panorama normativo sin qui descritto discendono alcune considerazioni generali:
oggi le scuole autonome debbono considerarsi quali unità produttive ed
i loro Dirigenti quali datori di lavoro, anche agli effetti processuali.
Ciò ha comportato un ampliamento delle responsabilità che gravano sui
Dirigenti delle Pubbliche Amministrazioni, responsabilità connesse a tutti
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gli atti di gestione amministrativa ed organizzativa delle risorse umane e
finanziarie.
La P.A. scolastica ha dovuto dunque riorganizzarsi al suo interno, al fine
specifico di gestire - e se possibile prevenire - il pur inevitabile contenzioso.
L’istituzione presso gli U.S.R. di Uffici Legali - che nel caso della nostra
regione funziona attraverso articolazioni territoriali nei singoli C.S.A. – ha
voluto essere una risposta alle esigenze delle singole istituzioni scolastiche
e dei loro Dirigenti, proprio per meglio affrontare tutte le problematiche
connesse al contenzioso, fatte comunque salve le competenze in materia
delle Avvocature Distrettuali dello Stato.
Il servizio funziona ormai a regime da più di tre anni e costituisce anche
una sorta di osservatorio privilegiato sullo stato del contenzioso scolastico.
Le riforme e le innovazioni introdotte nelle Pubbliche Amministrazioni
non hanno in realtà comportato il pur temuto “incremento esponenziale” del
contenzioso, anche se, oggettivamente, un incremento vi è stato rispetto al
passato.
Certo, in un’Amministrazione non più ordinata secondo una rigida struttura gerarchica, e dunque secondo schemi prefissati che consentivano una
sorta di de-responsabilizzazione dei singoli funzionari e dirigenti, e dove
invece ciascun dirigente è anche individuabile quale datore di lavoro
responsabile per la propria gestione delle risorse umane e materiali, è più
“facile” - se così si può dire - che il cittadino utente o il dipendente insoddisfatti instaurino una vertenza, per veder riconosciute le proprie pretese.
Proprio in considerazione di ciò, la vigente normativa in ambito scolastico prevede alcuni strumenti deflativi del contenzioso “istituzionali”, individuabili propriamente nei c.d. tentativi di conciliazione proponibili o avanti
le Direzioni Provinciali del Lavoro o avanti le Segreterie di conciliazione,
istituite appositamente presso ciascun C.S.A.
Tali strumenti, almeno per l’esperienza sinora maturata, si sono rivelati
però poco funzionali rispetto ad un effettivo decremento dei conflitti.
Nella maggior parte dei casi, in effetti, le questioni poste dagli istanti si
rivelano concretamente non conciliabili.
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Le scelte operate dall’Amministrazione scolastica, infatti, specie per
quanto concerne la gestione dei rapporti di lavoro, sono il più delle volte
“necessitate”, ovvero dovute all’applicazione di normativa specifica interna.
Gli atti adottati in proposito dai D.s., pertanto, risultano vincolati:
i tentativi di conciliazione proposti dagli interessati, dunque, restano
tali, non potendo tali vertenze definirsi in sede di bonaria composizione.
Ciò almeno per quanto concerne le questioni di stato giuridico del personale o le questioni contrattuali o stipendiali.
A parte la fase conciliativa, si rivela ancora piuttosto diffuso il contenzioso in materia di reclutamento, che verte però - nella più parte dei casi – su
problematiche di ordine generale legate all’interpretazione e/o applicazione
della normativa di settore.
Trattandosi di materia che è rimasta assegnata alla Giurisdizione Amministrativa (TAR e Consiglio di Stato), il contenzioso relativo è ancora gestito,
per l’Amministrazione scolastica, dalle competenti Avvocature Distrettuali
dello Stato, che chiedono supporto solo per istruire debitamente le vertenze.
Lo stesso può dirsi per il contenzioso attivato dalle famiglie e/o dagli
alunni avverso i giudizi di non ammissione alle classi successive, che si mantiene costante.
Altro ambito di rilevante contenzioso nel mondo della scuola è quello
della c.d. mobilità, anche se - nella più parte dei casi - tali vicende trovano
soluzione in sede conciliativa, mediante accordi tra il personale interessato.
Ed ancora, altro ambito di conflittualità diffusa è quello legato alle questioni stipendiali e/o di carriera.
Trattandosi di questioni che riguardano il rapporto di lavoro già costituito, risultano attribuite alla giurisdizione del Giudice Ordinario quale giudice
del lavoro, e delle medesime siamo chiamati ad occuparci direttamente,
anche gestendo la fase più propriamente giudiziale.
Valga per tutti l’esempio delle vertenze “di massa” attivate dal personale ATA transitato ex lege dagli EE.LL. allo Stato, oppure quello più attuale
dei D.S.G.A. che, in ambito nazionale, lamentano - anch’essi “in massa” - una
scorretta attribuzione stipendiale, dipendente da un’errata (a loro dire)
interpretazione della disciplina pattizia vigente.
A parte questa tipologia di contenzioso dal carattere seriale, si deve
segnalare quello che potremmo definire contenzioso di ambito “disciplina-
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re”: si tratta delle vertenze attivate dal personale docente ed ATA che si
vede destinatario di sanzioni disciplinari, ma anche del contenzioso originato dall’adozione di provvedimenti datoriali da parte del D.s., provvedimenti
che comunque incidono sul quotidiano svolgersi del rapporto di lavoro (ad
esempio: esercizio dello ius variandi nel caso di rapporti di lavoro part-time,
oppure concessione e/o diniego di assenze, fruizione di congedi parentali,
assegnazione del personale ai singoli plessi scolastici etc.).
Altro ambito “tipico” di conflitto è quello relativo all’instaurarsi di rapporti di lavoro a T.D., legato però, il più delle volte, ad errata interpretazione della normativa - come noto estremamente complessa - relativa al reclutamento del personale a tempo determinato nella scuola.
Anche queste ultime fattispecie, peraltro, difficilmente sfociano in un
giudizio; nella più parte dei casi le parti coinvolte giungono ad una bonaria
composizione delle vertenze.
Altro ambito di possibile contenzioso può rivelarsi quello relativo alla
contrattazione interna alle istituzioni scolastiche, e dunque ai rapporti tra
D.s. ed RSU rappresentanti dei lavoratori.
Non rilevante, ma comunque presente, tale tipologia di contenzioso
trova - nella più parte dei casi - soluzione in sede conciliativa avanti l’apposito organismo di conciliazione istituito presso l’USR.
Ambiti di conflitto che invece si vanno progressivamente affermando
sono:
- quello legato all’attività “contrattuale” - intesa in senso privatistico - della
scuola rappresentata dal D.s., e dunque le vertenze con soggetti terzi che
con la scuola entrano in contatto in virtù di rapporti contrattuali/civilistici
e dunque, ad esempio, vertenze riguardanti la conduzione delle gare o
comunque le procedure per la stipulazione di contratti per le forniture di
beni e servizi:
- quello relativo alla sicurezza, che spazia dalle vertenze relative al risarcimento danni da infortunio ad alunni e/o personale, al rispetto degli obblighi sanciti dalla normativa vigente a carico dei datori di lavoro che, come
noto, sono - ai sensi della L. 626/94 - i Dirigenti scolastici;
- ed infine l’ambito più strettamente connesso ai rapporti interpersonali (e
non solo professionali) tra dirigente scolastico e lavoratori, che è quello del
c.d. mobbing o bossing che dir si voglia.
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Le A.D.R.
Il concetto di “scuola sicura” oggi, va inteso in senso lato, e dunque non
solo come ambiente scolastico pulito, accogliente e sicuro ai fini della prevenzione degli infortuni, ma come ambiente che garantisca una permanenza a scuola sicura, ma anche serena e confortevole per alunni e personale.
L’originarsi ed il progressivo affermarsi di contenzioso in questo specifico ambito, mi induce a richiamare l’attenzione di tutti sulla cura nella gestione dei rapporti interpersonali,
per evitare l’originarsi di conflittualità che poco hanno a che vedere con
i rapporti di lavoro e molto con i rapporti umani tra individui.
Nella mia pur breve esperienza ho potuto rilevare come ogni situazione
conflittuale che si verifichi in ambito lavorativo - sfoci oppure no in vero e
proprio contenzioso - porta con sé un pesante carico di ansia e frustrazione,
che non può non riverberarsi sull’attività quotidiana di ciascuno, aggravando il già oneroso carico di responsabilità e di adempimenti che grava sul personale della scuola, ed in particolare su chi la scuola è chiamato a gestire (il
Dirigente scolastico).
Concludo questo mio intervento per sottolineare come, nel corso di
questi anni, l’attività del Servizio Legale si sia - non a caso - via via trasformata da attività di supporto nella gestione concreta delle cause o comunque del contenzioso, in costante azione di supporto, informazione e consultazione in ambito giuridico, legislativo e normativo in genere, rispetto alla
struttura amministrativa dell’ente e rispetto alle singole scuole: in una attività, dunque, tesa più a prevenire e/o ad evitare il contenzioso, piuttosto
che a gestirlo.
Questo non solo per evitare alla P.A. i costi economici di una vertenza
(sempre presenti anche in caso di vittoria), ma perché l’avvio di un contenzioso giudiziale comporta comunque una frattura difficilmente sanabile dei
rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, che potrebbe senz’altro compromettere anche la buona gestione dell’ente.
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Le A.D.R.
Marcello MARINARI
Magistrato, Corte d’Appello di Milano
LE A.D.R. UNA NUOVA ALTERNATIVA PER IL DIRITTO
E PER LE CONTROVERSIE NELLA SCUOLA
La tematica della Risoluzione Alternativa delle Controversie, o A.D.R.
(Alternative Dispute Resolution) come si preferisce chiamarla più comunemente, secondo l’acronimo in voga nel mondo anglo-americano, è ormai
uscita dal ristretto campo degli specialisti del diritto comparato, e la stessa
sigla A.D.R. è certamente meno misteriosa, non ancora, forse, per il grosso
pubblico, ma certamente per gli operatori del diritto e dell’economia, anche
se non sembra ancora raggiunto un completo accordo lessicale, dato che si
parla indifferentemente dell’A.D.R. e degli A.D.R., forse per comprendere in
un unico concetto il meccanismo in se stesso ed i numerosi strumenti di
A.D.R. ormai conosciuti ed utilizzati.
Sviluppatasi negli USA, con particolare vigore dopo la fine della grande
crisi petrolifera degli anni ’70, l’A.D.R. si è estesa rapidamente nei Paesi
regolati dal common law, ed in particolare nel Regno Unito, come strumento per risolvere rapidamente ed in modo meno costoso le controversie,
anche se non si tratta di un fenomeno nuovo, in sé considerato.
L’esistenza di meccanismi di Mediazione dei conflitti è nota fino dall’antichità, sia nel mondo per così dire occidentale che nell’oriente, dove
anzi vanta grandi tradizioni, e dove gioca tuttora un ruolo imponente, e
certamente maggiore, quantitativamente, rispetto a quello dell’A.D.R.
occidentale, se lo valutiamo dalla riduzione dell’impatto delle controversie sul sistema giudiziario. Nella stessa Europa continentale non manca
una lunga tradizione di strumenti conciliativi, anche formalmente e proceduralmente collegati alle controversie giudiziarie, come nel caso dell’ordinamento francese (e, quanto al tentativo di conciliazione giudiziale,
anche nel codice Codacci Pisanelli e nei più antichi codici degli Stati preunitari italiani, come in quello di Giuseppe II d’Austria della fine del
’700).
In alcune culture, in particolare, il modello principale di risoluzione delle
controversie è proprio quello della giustizia conciliativa, affidata a figure
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carismatiche, come quelle dei saggi, o a consigli di anziani, o agli stessi meccanismi di controllo assicurati dalla famiglia o dalla comunità.
In paesi come la Cina o il Giappone, ma anche come l’Afghanistan, per
fare un altro esempio, il ricorso al giudice ed alla sentenza come strumento
di risoluzione di un conflitto, pure previsto dalla legge, è molto raro, e
comunque socialmente impopolare, se non addirittura riprovato, e se ne
trova traccia nel bassissimo numero di cause civili che si iscrivono nei tribunali di questi paesi.
Anche in Europa, e in Italia, in particolare, in altre epoche, anche a prescindere dalla conciliazione giudiziale, come già detto, la società stessa
vedeva la presenza di figure mediatorie di fatto, alle quali, per il loro prestigio e per la loro autorevolezza, ricorrevano le persone in conflitto per ottenere un intervento presso l’altra parte, o anche un consiglio.
Se oggi ci interroghiamo sulla necessità di introdurre forme di Mediazione sociale è anche perché queste figure, specie quella dell’anziano, particolarmente importante nell’ambito della famiglia patriarcale allargata, non esistono più, benché il fenomeno trovi una ulteriore spiegazione nell’aumento
della litigiosità che è collegato all’incremento dei settori regolamentati dalla
legge, e della consapevolezza dei diritti individuali, fenomeno che si colloca
sul versante positivo della litigiosità.
Tuttavia, ciò che caratterizza il più recente fenomeno A.D.R. di origine
americana è certamente la sua strutturazione in forme per così dire tecnicamente programmate, il suo approccio dichiaratamente economicistico,
anche senza trascurare, per la verità, pretese “sostanzialistiche” che vedono quello mediatorio come un meccanismo preferibile, nei suoi effetti, e
nelle sue ricadute sociali ed individuali, a quelli giudiziari (fino a parlare di
Appropriate Dispute Resolution).
Non si deve mai dimenticare, a questo proposito, quale sia il contesto in
cui le tecniche di A.D.R. sono nate, vale a dire quello americano, nel quale,
come del resto in quello britannico, solo una piccolissima parte delle controversie giudiziarie (attorno al 5%) raggiungono la fase della decisione con
una sentenza e sono tradizionalmente gestite direttamente dagli avvocati,
attraverso un processo di verifica incrociata delle rispettive ragioni e delle
prove disponibili nel quale si inserisce un processo permanente di negoziazione.
In questo contesto, l’A.D.R. è stata vista, e lo è ancora, come uno stru-
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mento per ridurre la durata del tempo necessario a raggiungere una definizione che si verificherebbe comunque, piuttosto che come uno strumento
per ridurre il numero delle decisioni vere e proprie, e si tratta di un elemento molto importante, se pensiamo al diverso modo di intendere questo strumento nel nostro contesto sociale e giuridico, caratterizzato da un elevatissimo numero di controversie che vengono decise con sentenza (attorno al
50%) numero che porterebbe a sicuro collasso i sistemi giudiziari di common law.
Tuttavia, da un punto di vista più generale, le finalità dell’A.D.R. e le sue
implicazioni sul piano deflativo sono comunque di grande importanza anche
nel mondo anglo-americano, se pensiamo al fenomeno della litigation explosion, che solo negli Stati Uniti si prevede porti alla decuplicazione delle
cause entro un decennio.
I metodi di A.D.R. comprendono sia strumenti noti da tempo, anche nel
mondo dei Paesi di diritto scritto, come l’arbitrato, sia strumenti nuovi, sviluppatisi in luoghi e situazioni diversi, talvolta per iniziativa, ed inventiva, di
singoli giudici o avvocati.
Sono sorti così metodi di valutazione anticipata della decisione che ci si
può ragionevolmente attendere ad opera di esperti autorevoli estranei alla
controversia, ma con solide radici nel mondo giuridico-forense, così come
strumenti che si basano su vere e proprie simulazioni del processo, che rappresentano varianti più o meno complesse dei primi, e che tendono a riprodurre, in scala minore, ma pur sempre realistica, l’atmosfera e gli effetti di
un vero e proprio processo, per saggiare la resistenza delle prove e degli
argomenti delle parti.
La casistica è molto ampia, e comprende talvolta anche forme miste, in
ogni caso non suscettibili di una completa elencazione, anche perché è proprio la creatività una delle componenti essenziali del fenomeno A.D.R., che
male si adatterebbe ad una rigida tipicizzazione, altro elemento sul quale si
deve certamente riflettere, per la sua maggiore difficoltà di penetrazione e
di adattamento al nostro contesto, nel quale, anzi, si tende sempre a ricercare un’impossibile completezza di elencazione dei vari strumenti di A.D.R.,
con le relative definizioni e classificazioni.
Il più noto tra gli strumenti di A.D.R. è certamente, peraltro, la c.d
mediation, solo nel nome assimilabile all’italiano “Mediazione”, almeno nel
senso del contratto che porta questo nome nel nostro ordinamento, tanto da
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indurre qualcuno a consigliare l’uso del termine conciliazione per comprendere tutte le tecniche che tendono al raggiungimento di un accordo attraverso l’intervento di un terzo, anche se, effettivamente, l’uso di questo termine nella nuova accezione appare ormai consolidato in alcune aree, almeno, come in quella dei conflitti di famiglia.
La recente bozza di direttiva europea sulla Mediazione in ambito civile e
commerciale stabilisce però di riservare il nome di Mediazione alle sole ipotesi di definizione alternativa svolta in ambito extragiudiziale.
La Mediazione si propone di mettere in contatto le parti in conflitto, portandole ad elaborare, con il supporto, peraltro decisivo, del mediatore, o
neutral, secondo altra terminologia sempre di origine americana, una soluzione che, proprio perché liberamente accettata, attraverso un meccanismo
progressivo di individuazione sempre più approfondita dei reali interessi e
delle reali finalità che le parti si propongono, garantisce una stabilità ed una
efficacia certamente maggiori rispetto a quelle assicurate da una decisione
autoritativa, che talvolta è fonte di nuovi conflitti.
Quello che conta, comunque, è che il mediatore svolge un ruolo completamente diverso da quello del giudice, poiché non decide alcuna controversia, ma cerca di portare le parti a risolverla da sole. Come è stato efficacemente detto da Eligio Resta, la stessa neutralità del mediatore è diversa da
quella del giudice, poiché il mediatore deve tendere ad essere entrambe le
parti, e non, invece, a non essere alcuna delle due.
Credo sia importante mettere in rilievo che sarebbe al tempo stesso
ingenuo e pericoloso vedere nell’A.D.R. una specie di ancora di salvezza per
la nostra giustizia civile malata, che può rapidamente risollevarne le sorti
assorbendo grandi quantità di conflitti e liberando la giustizia dal numero
sempre più opprimente, ed oppressivo, delle cause che quotidianamente
affollano le aule giudiziarie.
Al contrario, l’A.D.R. di tipo statunitense, al quale ho fatto fin qui riferimento, richiede certamente un sistema efficiente di giustizia civile, per
incentivare, le parti che sanno di non aver nulla da guadagnare dal ricorso
al giudice, ad utilizzare un metodo alternativo, come è certo più difficile che
avvenga nella prospettiva di un lungo giudizio che può rimandare all’infinito la resa dei conti, pur senza sottovalutare, come si può constatare dall’esperienza di alcuni paesi del Sud America, la prospettiva dell’effetto deflativo che un consistente sviluppo delle tecniche e soprattutto della pratica
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dell’A.D.R. potrebbe avere anche sul numero delle cause pendenti dinanzi
ai Tribunali.
L’esperienza argentina, con la previsione di un tentativo obbligatorio di
conciliazione da svolgere in un brevissimo periodo di tempo subito dopo
l’inizio della causa, è risultata molto positiva, anche in termini di riduzione
del contenzioso.
L’esigenza della ricerca di soluzioni differenziate ed appropriate dei conflitti è talmente sviluppata, ormai, che ha superato i confini delle controversie civili, e si è estesa al campo penale, benché, nel nostro Paese, il principio di obbligatorietà dell’azione penale limiti il numero delle controversie
nelle quali la Mediazione può condurre anche allo stesso abbandono dell’accusa. Ciònonostante, la restorative justice ha indubbi riflessi positivi sia sui
trasgressori che sulle vittime, in molte ipotesi di reato, anche supponendo
che la criminal mediation possa toccare solo alcuni aspetti della sanzione, ed
è significativo che alla Mediazione faccia riferimento anche la recente disciplina della competenza penale dei Giudici di pace.
Quello che ormai si chiama il movimento A.D.R. comincia a crescere
anche in Italia, benché sia difficile dare una dimensione quantitativa del
fenomeno, che spesso comprende ipotesi di servizi definiti di conciliazione,
ma offerti dalla stessa istituzione che rappresenta una delle parti in causa,
per così dire, elemento che, sul piano dei principi, differenzia questi casi in
modo netto da quelli di vere e proprie ipotesi di Mediazione.
Si può senz’altro ritenere che esista già, nel nostro paese, un numero
non irrilevante di operatori anche non istituzionali che operano nella pratica professionale della Mediazione, anche se non è facile ipotizzare le dimensioni del fenomeno.
Ciò che è veramente decisivo, peraltro, per il successo e l’estensione di
qualunque ipotesi alternativa, è avere a disposizione un numero adeguato di
esperti, sia in enti ed agenzie privati che nelle strutture pubbliche che gestiscono l’arbitrato e la Mediazione, e proprio per questo motivo appare determinante l’attività di formazione.
Per sviluppare la formazione, ma anche per diffondere il ricorso all’arbitrato ed alla Mediazione occorrono pertanto risorse, anche economiche,
specie se si vuole rendere veramente significativo, sul piano della quantità
e della qualità, il ricorso alle alternative.
Un altro punto importante credo, è quello del ruolo e dell’efficacia della
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risoluzione alternativa delle controversie all’interno di un procedimento
giudiziario già iniziato, e non mi riferisco solo al tentativo di conciliazione
affidato nel nostro processo al giudice, ma anche alla stessa possibilità di
introdurre una fase di Mediazione o il ricorso all’arbitrato nell’ambito dello
stesso procedimento giudiziario, come sarebbe teoricamente possibile,
benché non espressamente previsto, anche nel nostro sistema, ma solo su
iniziativa di parte, attraverso lo strumento della sospensione facoltativa del
processo.
Attualmente, una simile ipotesi è prevista solo per il procedimento in
materia di controversie societarie ed assimilate, con l’istituzione di un registro degli organismi accreditati.
L’esercizio della Mediazione professionale non è in effetti subordinata
all’iscrizione nel registro, ma solo gli accordi raggiunti presso tali organismi
sono suscettibili di esecuzione forzata.
La legge ha anche tutelato la riservatezza del tentativo di conciliazione,
per impedire che la condotta delle parti e le loro proposte siano utilizzabili
in sede giudiziale in caso di fallimento del tentativo, accorgimento da ritenere certamente fondamentale, sulla base dell’esperienza degli altri paesi.
Probabilmente, come ho già osservato in relazione alle caratteristiche
del tutto particolari del tentativo di conciliazione affidato allo stesso Giudice che dovrebbe in caso di fallimento della trattativa decidere la controversia, la figura del Giudice non è la più adatta a svolgere questo compito, a
prescindere, evidentemente, dalla maggiore o minore capacità o attitudine
personale del singolo Giudice, che può essere anche eccellente, talvolta,
almeno se ci riferiamo a quel modello di Mediazione del quale ho finora parlato, salvo forse il caso del Giudice del lavoro, caratterizzata da un ruolo fortemente “protagonistico” che la legge assegna al giudicante, se pure in
un’interpretazione del ruolo conciliativo certamente diversa da quella della
Mediazione.
Il ruolo del Giudice può rivelarsi infatti estremamente importante per un
altro motivo e ad altri fini: l’identificazione delle controversie per le quali un
tentativo di Mediazione appare non solo astrattamente, ma soprattutto realisticamente possibile.
Credo che anche il mondo della scuola possa giovarsi enormemente dell’introduzione di strumenti di Mediazione, e non mi riferisco solo, e neppure soprattutto, alle controversie per così dire ordinarie che possono sorgere
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nell’ambito dell’attività scolastica, come quelle relative alla vigilanza degli
insegnanti sugli studenti loro affidati.
Mi riferisco, più in generale, alle prospettive che si aprono con una sempre maggiore privatizzazione degli strumenti di gestione degli istituti scolastici, che è destinata, molto probabilmente ad incrementare il numero delle
controversie che coinvolgono la scuola nella sua attività quotidiana.
Si tratta di una tendenza non solo italiana, ed è proprio di questi giorni
la discussione alla camera dei Comuni del nuovo Education Bill, destinato a
trasformare gli istituti scolastici in soggetti che operano come organismi privati.
Ma la conflittualità scolastica può riguardare anche i rapporti tra genitori ed insegnanti, quelli tra studenti, quelli tra gli stessi insegnanti.
In questa prospettiva, pertanto, non si deve fare riferimento tanto alla
Mediazione di controversie giudiziarie, quanto alla Mediazione di conflitti
interpersonali o istituzionali, che costituisce un settore di grande importanza e di grande delicatezza, e certamente di importanza strategica, perché
non solo può portare a dirimere conflitti ed a prevenire il sorgere di controversie giudiziarie di carattere civile o amministrativo, ma anche, e soprattutto, a ricercare soluzioni di compromesso in positivo destinate ad incidere
sulle stesse scelte di politica scolastica.
In questo senso, un’istituzione sociale come la scuola può trarre straordinario giovamento dall’uso di appropriate tecniche di Mediazione.
Occorrerà, però, a tale fine, che gli strumenti di Mediazione siano utilizzati con sapienza e competenza professionale, da soggetti dotati di esperienza e sensibilità, anche nel campo specifico dell’attività scolastica, e ciò
rimanda, ancora una volta, alla necessità di una profonda opera di formazione, senza la quale è impossibile raggiungere risultati soddisfacenti.
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Giovanna GRANITO
Dirigente scolastico Ist. Paganelli Di Cinisello
QUALI RISORSE PER IL DIRIGENTE
NELLA GESTIONE DEL CONFLITTO
Credo proprio di non essere mai stata sola a pensare che la riuscita formativa e, quindi, la buona qualità di collaborazione nella scuola, dovessero
essere sorrette da una altrettanto buona relazione fra le sue componenti.
Avevo modo, però, di osservare che questa convinzione, che apparteneva e
appartiene a molti dirigenti, docenti e genitori, stentava a tradursi nella realtà dei fatti. Il disagio, invece, aumentava col trascorrere del tempo. Il disagio non solo degli alunni di varie età, ma anche degli stessi adulti.
A lungo ho cercato modalità adeguate per la formazione in servizio dei
docenti i quali dovevano misurarsi con il problema della collaborazione nei
team, richiesta dalla nuova organizzazione che si andava affermando nella
scuola di base a partire dagli anni settanta. Ancora più difficoltosa si era presentata la situazione con l’esordio della “verticalizzazione” e l’avvio degli istituti comprensivi.
Qui era emerso, in forme a volte davvero drammatiche, il problema del
“dialogo fra sordi”.
Poi, quasi per caso, sono venuta a conoscenza del lavoro della Martello
sul fronte della Mediazione e delle esperienze di formazione nella scuola
rivolte addirittura a studenti, docenti e genitori e condotte con successo.
Così, per quel senso di curiosità che mi spinge a non accontentarmi del
“sentito dire”, ma a sperimentare direttamente le situazioni, ho deciso di
seguire personalmente questi incontri di formazione che intuivo essere
forse una soluzione al problema che da tempo mi impegnava, anche se non
avevo per fortuna situazioni difficili da affrontare.
Se davvero vi avessi trovato risposte valide avrei proposto questi percorsi formativi non solo nell’istituto da me diretto, ma anche ad altri colleghi.
Così è stato.
Ho trovato molto di più di quello che cercavo. Ho conosciuto la forza,
l’efficacia e la serietà di un lavoro condotto facendo fare a ciascuno e nel
gruppo esperienza diretta, quasi” un toccar con mano”, dei concetti e dei
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nodi problematici che connotano la relazione interpersonale. Un lavoro che
chiedeva impegno serio anche, e prima di tutto, di studio… di se stessi, oltre
che di studio della vasta letteratura esistente intorno all’intelligenza emotiva. Un lavoro a volte faticoso, che, però, dava i suoi frutti. A distanza anche
solo di poco tempo ci si scopriva cambiati, più “attrezzati” nell’affrontare le
situazioni quotidiane di lavoro o di vita privata.
Quell’essere più “attrezzati” dipendeva dal fatto che la conduzione della
Formatrice non faceva perno su strategie o simulazioni “di superficie”, non
forniva ricette preconfezionate, si fondava invece sulle implicazioni filosofiche della relazione interpersonale,che stanno a fondamento della preparazione del Mediatore, agendo quindi nel profondo e agganciandosi alle problematiche esistenziali della persona umana. Si agganciava, cioè, al dramma del
nostro vissuto quotidiano stimolando in ciascuno l’utilizzo delle proprie originali risorse. Niente fruizione passiva, ma creatività e impegno personale.
Questo era, a mio avviso, uno degli aspetti più qualificanti del metodo
elaborato dalla Martello.
La prima occasione di proporre la formazione agli istituti del territorio di
Cinisello Balsamo con i quali da moltissimi anni esiste una collaborazione di
rete su diverse materie, si presentò nel 2001 come dirigente di istituto capofila di progetto.
Fra il 2001 e il 2005 sono stati condotti, con il sostegno dell’Ente Locale, con esiti alquanto positivi, diversi incontri seminariali diretti a docenti,
non docenti, dirigenti e genitori appartenenti agli istituti in rete.
In particolare ricordo qui due esperienze significative per il segno che
hanno lasciato nei partecipanti ai corsi e per il riscontro avuto dalle stesse
Istituzioni che le hanno sostenute.
La prima: un corso residenziale per docenti e Dirigenti scolastici approvato dall’USR della Lombardia, effettuato nell’anno scolastico 2004/2005 e
concluso con una restituzione pubblica condotta dagli stessi corsisti intitolata “A relazionarsi si impara”, nella Sala degli Specchi di Villa Ghirlanda
Silva a Cinisello Balsamo, con la partecipazione, in qualità di discussant, di
esperti appartenenti al mondo accademico e della magistratura minorile. In
quell’occasione fu allestita una mostra molto “sui generis” di materiali elaborati dai corsisti, metafore dei problemi della relazione 2.
2 - Vedi appendice.
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La seconda esperienza si è appena conclusa con questo convegno nazionale che ne sigla gli esiti.
Il corso di formazione era infatti destinato ai Dirigenti scolastici e finanziato dallo stesso Ufficio XV - Ufficio Organizzazione, Gestione e Valutazione dei Dirigenti scolastici di Mantova per conto del MIUR.
Due appuntamenti che hanno visto la partecipazione di un folto pubblico, segno evidente non solo dell’interesse per questi temi di formazione, ma
soprattutto dell’urgenza di trovare modalità efficaci per affrontare un problema avvertito come sempre più urgente: migliorare la qualità di vita relazionale nella scuola, per favorire la qualità dell’apprendimento e il successo
formativo, a vantaggio di tutti.
Il Conflitto: problema e risorsa
La condizione di reale o potenziale conflitto è presente nella scuola,
come in qualsiasi altra realtà lavorativa. Dove c’è relazione prima o poi,
quando i rapporti si precisano, sorge inevitabile il conflitto. Nella scuola,
realtà ad alta complessità sociale, dove ognuno è portatore di una sua storia
personale, questa è una realtà endemica. Il conflitto non è ancora la guerra,
ma è già l’evoluzione di un disagio non riconosciuto.
In altre parole il disagio, come assenza di agio, produce malessere e questo determina una situazione di conflitto la cui esasperazione fa scoppiare la
guerra.
Di qui l’importanza di saper prevenire o gestire i conflitti.
A noi, in qualità di responsabili dei risultati, compresi quelli prodotti dall’azione educativa ed amministrativa, si richiede di saper intervenire adeguatamente.
Ma di quali strumenti possiamo avvalerci per sostenere un ruolo che
richiede di dover affrontare situazioni conflittuali di varia entità e qualità?
Sarebbe irrealistico attendersi, da noi e solo da noi, determinate soluzioni, quasi magiche. L’esperienza mostra quanto sia improduttivo delegare a
uno soltanto il compito di risolvere in via duratura i conflitti (macro e micro).
Dovremmo poter contare anche sulla preparazione del personale docente e
non docente, ma anche questa è una realtà che va ancora costruita.
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Per questo, sovente, si avverte una certa inadeguatezza, un certo disagio nel constatare quanto gli sforzi, le raccomandazioni, le circolari interne,
i colloqui con gli studenti, con i genitori, col personale amministrativo non
raggiungano i risultati attesi. In palio ci sono, magari, mesi di impegno per
concretizzare un progetto, oppure l’armonia lavorativa dell’ufficio di segreteria, oppure l’efficacia e l’efficienza della comunicazione fra gruppi di
docenti o fra questi e i genitori.
Come spesso accade, sono proprio le situazioni microconflittuali quelle
che maggiormente insidiano la buona riuscita di un servizio, forse perché
ritenute, con eccessivo ottimismo, più facilmente gestibili, o riconosciute
troppo in ritardo.
Si tratta assai spesso di situazioni subdole e striscianti. Esse nascono e
si alimentano nel malessere relazionale e, se non ben gestite, sfociano,
prima o poi, in problemi di superiore complessità, in grado di produrre
danni alla scuola e alle persone che vi lavorano.
È infatti esperienza di molti come un clima di malessere produca
disagio con ripercussioni in vario modo negative sulle persone, sui risultati del servizio, e, cosa ancor più preoccupante, anche su quelli educativi.
Nella formazione rigorosa, approfondita e ricorrente, si possono trovare
strumenti utili per la gestione delle relazioni e dei conflitti.
Torna alla memoria la frase iniziale di presentazione del primo progetto
di formazione per i dirigenti ideato quattro anni fa.
La frase stimolo era: “Può una singola persona, il Dirigente, fare la differenza in organizzazioni complesse quali le scuole?”.
Si era trattato di un primo timido esperimento di una sola giornata, di
cui si erano potuti valutare gli aspetti promettenti di una formazione fondata sui principi della Mediazione, secondo il modello umanistico, per la risoluzione pacifica dei conflitti.
Tale formazione, come la Martello ha ben descritto in Intelligenza emotiva e Mediazione, Giuffré, 2004, è finalizzata all’educazione alla relazione,
attraverso l’esperienza diretta del funzionamento della propria intelligenza
emotiva, condotta con modalità operative.
La fase iniziale richiede un lavoro prima di tutto rivolto a se stessi con la
scoperta e la rivalutazione delle emozioni positive e negative, che sottendono il comportamento relazionale di ciascuno. Gli approfondimenti successi-
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vi degli aspetti problematici della relazione conducono ad acquisire e a utilizzare competenze e modalità di essere propri del mediatore, che nei suoi
interventi adopera in gran parte questo tipo di intelligenza, che gli consente di “sentire”, con intuizione diretta, le situazioni.
Il dirigente, così formato, può correttamente considerarsi un professionista in grado di utilizzare molti strumenti del mediatore, anche se non può
considerarsi necessariamente un mediatore di professione.
L’organizzazione e gli strumenti della formazione
Come descrive la Prof.ssa Martello, condizione ideale per questo tipo di
formazione è la residenzialità, lontano dai “disturbi” del quotidiano, per consentire una produttiva metabolizzazione di quanto si viene apprendendo,
mediante il confronto e la riflessione nel gruppo e individuale. Ognuno, nel
gruppo, porta il suo contributo e accresce le sue competenze secondo la sua
particolare condizione e necessità, quindi in maniera differente rispetto agli
altri. Il gruppo, limitato a non più di 15/16 persone, dà forza all’accrescimento relazionale di ciascuno, così come ciascuno diventa ben presto elemento
prezioso per il gruppo. Ai corsisti, nel contratto formativo, sono immediatamente chiariti questi aspetti organizzativi finalizzati alla miglior produttività
possibile, a vantaggio di tutti. L’impegno richiesto è quello di portare ricadute positive nella propria condizione lavorativa, promuovendo momenti di
sensibilizzazione alla cultura della relazione costruttiva e di formazione
diretti alle varie componenti dell’istituto, con l’obiettivo di realizzare percorsi di educazione alla relazione per i docenti, gli studenti, i non docenti, i
genitori, potenziando così le risorse per contrastare il disagio e migliorare,
oltre alle condizioni lavorative e di studio, la qualità del servizio educativo
nella scuola.
Il metodo di lavoro è quello della ricerca azione, dall’analisi dei feed back
alla riprogettazione o revisione delle azioni poste in essere.
Le tematiche sono affrontate secondo le effettive esigenze del gruppo.
Per questo ogni corso, ha sue specifiche caratteristiche di contenuto,
pur nel rispetto degli obiettivi della formazione, per il cui raggiungimento è
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necessario lavorare sui concetti fondanti la relazione e i problemi che ne
derivano. Ne cito alcuni:
• La positività del conflitto e del problema.
• La specificità dell’ascolto empatico.
• Il non giudicare.
• Il cambiamento e il senso dell’equilibrio precario su cui si fonda la relazione interpersonale.
• Il principio di responsabilità verso se stessi e gli altri: cura del “ben-essere” individuale, per contrastare il “mal-essere” relazionale.
• L’alterità come mistero insondabile e come fonte di ricchezza, di scambio.
• Il problema della comunicazione.
• La fiducia.
• Il non consigliare.L’inutilità o la dannosità dei consigli, come blocco del
diritto all’autodeterminazione personale, o non riconoscimento delle risorse dell’altro.
• Lo stimolo all’agire in autonomia.
• La funzione di orientamento.
• Il concetto di dignità.
• L’autorevolezza versus autorità.
• L’impiego del tempo necessario, il saper attendere.
• La gestione del ruolo, senza indebite sovrapposizioni identificative.
• L’accettazione del senso del limite come imperfezione.
• Il senso del realismo.
Tutte parole sensibili legate ai concetti con cui i corsisti sono impegnati
a misurarsi e che sono ripresi nella descrizione di ciò che avviene, di fatto,
durante il cammino della formazione nel libro di Maria Martello Mediazione dei conflitti e counselling umanistico: lo spazio della formazione,
Giuffré 2006.
Innanzitutto va sottolineato il modo di considerare il conflitto: non
necessariamente solo come una condizione negativa, ma anche come terreno di prova e di crescita personale. Invece di fuggire o negare un conflitto è
più vantaggioso affrontarlo, aprendosi la possibilità di scoprire risorse personali prima sconosciute. Così pure il problema stesso può divenire una
risorsa che ci permette di sperimentare le nostre capacità o competenze.
Quante volte si sente affermare nella scuola l’importanza dell’ascolto?
Ma quale tipo di ascolto? Non un ascolto normalmente condotto, maga-
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ri pensando già a cosa rispondere e quindi di fatto dando ascolto soltanto a
se stessi.
Ma l’ascolto competente, l’ascolto empatico, come ascolto profondo,
valutativo, ma non giudicante, libero dal pregiudizio, condotto non sui parametri della razionalità, ma su quelli della emozionalità, valorizzando adeguatamente gli aspetti comunicativi del linguaggio verbale e soprattutto di quello non verbale.
Il giudizio, proprio della razionalità, infatti, cristallizza l’altro in una condizione dettata non dal suo modo reale di essere, ma dalla nostra attività
raziocinante inevitabilmente soggettiva.
Cosa ancor più grave, questo atteggiamento rischia di impedire all’altro
la strada di accesso al cambiamento possibile, inteso come tensione al
miglioramento o al superamento di un problema.
Il cambiamento non solo è possibile, ma è una realtà ineludibile e quotidiana.
Un alunno, un docente, un genitore, una situazione non rimarranno mai
uguali a se stessi. È bene che anche noi dirigenti vi riflettiamo quando ci
viene da considerare, magari in qualche comprensibile momento di sconforto, che ogni sforzo è vano, perché “tanto le cose non cambieranno mai”!...
Oppure quando, al contrario, pensiamo che una condizione particolarmente
felice possa durare in eterno…
Si parla molto di responsabilità, in ordine ai risultati conseguiti, oggetto
di valutazione del Dirigente scolastico.
Dare significatività e concretezza a questi risultati richiede di valorizzare adeguatamente la diversità come arricchimento, di predisporsi al
rispetto profondo dell’altro, in quanto diverso da noi con capacità differenti dalle nostre. Questo comportamento si fonda sull’acquisizione di
competenze relazionali educate alla promozione della responsabilità verso
l’altro e verso il proprio ruolo, a partire dalla grande attenzione da porre
alla gestione della comunicazione, foriera di molti equivoci e fraintendimenti, derivanti proprio dalla diversità che ci connota a tutti i livelli relazionali.
L’altro è diverso da noi ma, come noi, è anche portatore del diritto al
riconoscimento della propria dignità come persona. Sovente infatti fra i
nostri collaboratori scopriamo competenze, capacità di vario genere da valorizzare con un corretto incoraggiamento.
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Bisogna, quindi, dare fiducia nella possibilità di trovare soluzioni utili al
cambiamento e al miglioramento, o al superamento di un problema.
Allora, al di là di ogni facile tentazione, è opportuno non fornire consigli,
ma stimolare l’altro ad attivare le proprie risorse. Stimolarne cioè la crescita in autonomia, attivare le capacità collaborative e propositive con azioni di
orientamento.
All’origine di tanti conflitti spesso c’è proprio il mancato riconoscimento
di questa dignità, quando addirittura essa non viene calpestata con qualche
risposta impositiva.
Pur senza volere, è molto frequente nella relazione produrre disagio,
dolore, sofferenza. Si tratta di sentimenti che spesso non trovano il dovuto
riconoscimento. Di solito ci si preoccupa di trovare subito una qualche soluzione per allontanare al più presto una situazione scomoda: l’alunno che
disturba, il collega scarsamente collaborante, il genitore che pone questioni
difficilmente risolvibili, il personale ata o docente coinvolto in azioni rivendicative…
Gestire un conflitto, promuovendo la riattivazione della comunicazione
interrotta, o un problema stimolando l’impegno attivo da parte di chi lo deve
risolvere richiede tempo. E bisogna quindi predisporsi ad accordare tutto il
tempo necessario.
Un dirigente, che pure avverte disagio, ha necessità di imparare l’arte di
saper attendere, concedendo agli altri le occasioni per mettere in campo le
soluzioni più adeguate, avendo fiducia che queste soluzioni arriveranno e
saranno tanto più durature se non imposte autoritariamente, cercando riparo nel proprio ruolo (o maschera) di dirigente, forse per il timore di mettere in gioco la propria autorevolezza.
Ma la relazione autentica, pur nella corretta assunzione del ruolo di ciascuno, è quella interpersonale, da cui bandire ogni forma di mistificazione o
di ipocrisia.
Non vittime della preoccupazione di “dover essere” (del dover apparire
perfetti in tutto e per tutto), ma orientati ad “essere”.
Imparare a mettersi in gioco come persona, nella consapevolezza dei
propri ed altrui limiti, a saper riconoscere, oggettivandole, ponendosi ad una
giusta distanza, le proprie emozioni positive e negative, dando loro cittadinanza, è uno dei maggiori punti di forza di questa formazione.
Non solo non bisogna temere le emozioni negative, nostre ed altrui,
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guardandole per così dire, “in faccia”, ma soprattutto questo esercizio prepara ad affrontare le situazioni con adeguato senso di realismo, imparando
a vedere le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Partendo quindi dal dato di realtà è possibile attivarsi per far evolvere le situazioni da conflittuali a costruttive.
Queste alcune importanti modalità di essere che una formazione iniziale di base e ricorrente conduce ad acquisire; questi alcuni importanti strumenti relazionali che sarebbe auspicabile e urgente poter estendere a tutto
il personale della scuola e che, a mio avviso, costituiscono per il Dirigente
scolastico, come professionista mediatore, risorse necessarie e irrinunciabili per la gestione del conflitto.
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Roberto Anselmino
Assessore alla Pubblica Istruzione-Cinisello Balsamo
LE POSSIBILITÀ,
LE SCELTE E GLI INTERVENTI 1
Come premessa un ringraziamento agli organizzatori per avermi invitato. Il mio intervento sarà breve in quanto gli argomenti del convegno sin qui
trattati, assolutamente tutti da ascoltare con grande interesse, credo abbiano esaurito la vostra capacità di porre ulteriore attenzione e, di conseguenza, non voglio dilungarmi.
Per alleggerire partirò da una bellissima frase di Stanislasky oggi riferita
dall’attrice Lucia Vasini “Più semplice, più su, più allegro”… frase che
dovrebbe essere iscritta su tutte le porte di teatri e luoghi pubblici e giustamente anche davanti agli ingressi delle scuole.
Certamente, dopo aver ascoltato la relazione della Dr.ssa Volta sulle
nuove competenze e responsabilità dei Dirigenti scolastici, mi viene da
affermare che la questione è molto seria e che da stare allegri c’è decisamente poco.
Senza polemiche voglio premettere che sono un assertore dell’autonomia scolastica in quanto la scuola, principale agenzia formativa di qualsiasi
paese, può arrivare a nuovi livelli di capacità. Ma l’autonomia è, allo stesso
tempo, una disciplina ambigua dato che inquadra, sulla norma di una disciplina privatistica, la funzione del Dirigente scolastico nelle vesti di datore di
lavoro senza fornire gli strumenti necessari ad assumere, secondo esigenze
e competenza, tale funzione.
La prima questione che l’Amministratore Pubblico (sia locale che nazionale) deve affrontare è la necessità di ragionare con gli organi competenti
affinché l’autonomia scolastica e di conseguenza la funzione del Dirigente da cui dipende il buon andamento della funzione Docente, senza la quale non
può esserci una buona scuola - rappresentino l’idea di scuola che davvero
vogliamo nel nostro paese e di come essa debba funzionare strutturalmente.
Se, finalmente, siamo arrivati a concepire a livello culturale, concettua1. Il testo è tratto dalla registrazione e non è stato rivisto dal relatore.
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le, filosofico e psicologico il conflitto, come connaturato anche all’interno
della scuola e non come un semplice elemento esterno proiettato all’interno
della stessa, non possiamo consentirci di avere una scuola non preparata ad
accoglierlo ed elaborarlo.
La scuola porta con sé elementi che rischiano di essere poco utili all’elaborazione del concetto di conflitto. Essi sono il livello dell’età evolutiva e
dello sviluppo graduale del procedere del “tempo scuola” e la questione dell’accelerazione o della precocità delle scelte; elementi che finiscono col
diventare deleteri e che non ci permettono di concentrarci su temi importanti quali l’elaborazione del conflitto.
Quanto detto non significa che dobbiamo procedere con due tempi differenziati; non dobbiamo attendere il migliorarsi della scuola affinché questa scuola, finalmente migliorata, possa funzionare: i tempi devono essere
interconnessi e gli amministratori locali devono preoccuparsene collaborando per la risoluzione della questione con il mondo della scuola e, in primis,
con la dirigenza scolastica.
Per favorire la collaborazione con l’amministrazione scolastica un buon
amministratore non deve porsi in modo invasivo, ma creare alleanze relazionali dalle quali imparare.
L’amministrazione di Cinisello Balsamo, anche se con difficoltà, sta provando a seguire la strada relazionale qui brevemente accennata. Attraverso
il sistema di alleanze abbiamo tentato di orientare al mondo dell’insegnamento altre competenze, per es. quelle degli architetti, vista la necessità di
rimettere in discussione la struttura “luogo scuola” per renderla funzionale
alle esigenze della società contemporanea.
Abbiamo bisogno di apprendere nuovi approfondimenti di carattere
pedagogico, psico-pedagogico riferiti all’ambito dell’età evolutiva; dobbiamo
allargare il mondo delle alleanze e, dall’interno della scuola, creare strumenti di comprensione e di capacità, non già risolutivi ma se non altro strumenti per sostenere meglio le esigenze poste dall’età evolutiva.
Una di queste alleanze mi ha portato a conoscere la Prof.ssa Martello e,
assieme a lei e ai nostri dirigenti, a costruire un percorso, che dura ormai da
anni, di formazione professionale innovativa, non acquisita né attraverso le
vecchie magistrali né attraverso il nuovo mondo universitario, che forma i
nuovi docenti, né dal mondo della formazione scolastica in generale.
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Comprendere il conflitto e, attraverso la mediazione, considerarlo “il
motore della storia” è la filosofia nella quale mi riconosco e che ho sempre
contemplato.
Concludo ponendomi in netta contrapposizione con le decisioni che il
governo francese vorrebbe prendere oggi.
Basti pensare che è dell’altro giorno la messa in discussione al Parlamento di una proposta di legge che prevede vi sia il monitoraggio, a partire dalle
scuole materne fino in età adulta, di tutti coloro che non rispettano perfettamente la disciplina scolastica come se fossero potenziali portatori di sovvertimento distruttivo!2 Per quel che mi riguarda, siedo a questo tavolo
ponendomi in contrapposizione a tali scelte.
2. N.D.R: l’intervento dell’Assessore sottintende una visione del conflitto (e della complessità delle relazioni interpersonali) non da demonizzare e combattere bensì da accogliere ed elaborare. Non così, si ritiene, nella proposta di
legge in discussione al Parlamento francese.
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Dal dibattito...
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Coord. VALAGUSSA
Data la qualità del tema che stiamo trattando, abbiamo a disposizione tre
quarti d’ora per aprire un confronto fertile. Il clima che si è creato è tale, con
tutte le suggestioni che sono state inviate, e spero, raccolte, da consentire
un proficuo scambio e approfondimento delle tante questioni che sicuramente hanno smosso contemporaneamente la nostra intelligenza e la nostra
emozione.
Vorrei pregare quindi tutti coloro che desiderano proporre approfondimenti di questioni o esporre il proprio punto di vista di intervenire per iniziare una interlocuzione con tutte le persone al tavolo.
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INTERVENTI
Serena FIORANI
Docente - Scuola Villa di Cinisello Balsamo
Raccogliendo qualche domanda che ho sentito tento di rispondere. Cosa
c’entra la Mediazione con l’insegnamento? A mio parere c’entra moltissimo.
La prima volta che ho ascoltato Maria Martello parlare di Mediazione e
di risoluzione pacifica dei conflitti mi si è aperto il cuore; immediatamente
il mio pensiero è andato proprio agli insegnanti; ho pensato che fosse per
loro uno strumento non solo importante, ma prezioso e indispensabile. Ho
riconosciuto nelle sue parole tutta la fatica investita in una vita di insegnante nell’intrecciare relazioni sane, costruttive tra gli alunni. Il capitale più
importante ed anche il più trascurato, a mio parere, dentro la scuola è la
relazione: la si dà per scontata ed è un errore madornale, un errore colpevole che genera malessere a cascata; si riproduce contagiosamente. A mio
parere il primo compito di ogni insegnante all’interno della scuola è quello
di creare un clima di serenità e di collaborazione in quanto è un portone spalancato verso l’apprendimento, verso la cultura e trasforma la fatica in passione e in gusto di imparare; il primo gradino della lunga scala che porta alla
cultura è l’ascolto, negare il conflitto e liquidarlo sbrigativamente come una
perdita di tempo è un errore.
Albalisa AZZARITI
Dirigente scolastico - Scuola di Bussero
Vorrei porre una domanda specifica: ho visto, nel depliant che era inserito all’interno del materiale distribuito, che avete realizzato in alcune scuole lavori in cui sono stati coinvolti i genitori; un aspetto che mi pare in grande crescita e che non è stato necessariamente toccato, probabilmente per
mancanza di tempo, è il conflitto docenti-genitori, ad esempio, rispetto alla
scheda di valutazione piuttosto che la valutazione di un compito in classe o
il programma che viene svolto e così via... che tipo di lavoro si può fare per
facilitare il dialogo costruttivo tra genitori e insegnanti e tra genitori e scuola nel suo insieme?
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MARISA ISOARDI
Dirigente scolastica – Prov. Cuneo
Mi collego alla domanda precedente e anch’io vorrei un approfondimento sulla questione genitori: in questo senso, nella mia esperienza, ho riscontrato un progressivo aumento della conflittualità tra genitori con la richiesta
a dirigenti o insegnanti di svolgere un ruolo di mediazione; genitori che
entrano in conflitto per questioni, dal nostro punto di vista, marginali: i litigi fra bambini, sottrazioni di oggetti utili... piccole questioni che un tempo
non venivano considerate e che determinano nei genitori componenti di
ansia e iper-protezione che fanno scattare meccanismi conflittuali: i genitori che rimproverano altri bambini ponendosi allo stesso livello.
La questione mi sembra complicata e mi interesserebbe un approfondimento in merito.
Coord. Valagussa: assegnerei la domanda alla Professoressa Martello.
RISPOSTA
Maria MARTELLO
Stamattina abbiamo detto che è quasi un orgoglio e un onore poter affermare che a scuola ci sono conflitti, perché questo significa che la scuola
rimane ancora, per fortuna, un luogo di relazioni forti.
Credo che le due domande ci riportino a considerare un ruolo forte di
altro tipo, che ancora la scuola ha: in una società in cui molti punti di riferimento vengono a mancare spesso è l’unico luogo che ancora accoglie e
ascolta le difficoltà interpersonali. E spesso la famiglia si rende conto di questa sensibilità e ne approfitta immediatamente. Così il dirigente e gli insegnanti acquistano il ruolo di persona di fiducia con cui parlare dei propri
problemi.
La scuola non può farsi carico della risoluzione dei problemi della famiglia, ma sapere che ci sono delle vie alternative per la risoluzione dei con-
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flitti è un modo per poter assumere il ruolo di inviante; quindi quando la
scuola viene a conoscenza di drammi che la famiglia sta vivendo e non può
e non ha la competenza per entrare nel merito, può utilmente dare informazione e già questo credo sia un contributo prezioso.
La famiglia, è certo, sta vivendo una situazione di grande difficoltà e di
crisi: abbiamo sempre di più genitori soli, spaventati, fragili, disorientati.
Nella società virtuale tutto deve essere in ordine, ma i drammi delle famiglie
crescono: non sono dicibili, perché dobbiamo apparire come sempre in ordine; un dramma indicibile non solo non viene risolto, ma aumenta e peggiora; quindi gli operatori della scuola spesso trovano genitori in difficoltà. Si
tratta di genitori che non sanno contenere le difficoltà di relazione, ma le
fanno esplodere. Appare a volte come se le piccole questioni (un permesso
negato, un criterio di valutazione non condiviso) diventino il motivo per
catalizzare tutte le altre angosce e le altre soddisfazioni; ecco che quindi il
rapporto, da rapporto di collaborazione, di fiducia, di scambio, diventa un
rapporto competitivo, aggressivo, violento e pronto all’attacco.
Noi abbiamo fatto dei progetti di formazione, non tanto per soli genitori, anche, ma soprattutto per genitori insieme ai docenti e insieme anche ai
dirigenti. Sono state esperienze molto arricchenti, perché è come se questi
tre mondi, che si sono parlati e hanno litigato, si ascoltassero per la prima
volta e quindi le istanze degli uni venissero colte, in una condizione di formazione simulata e protetta, dagli altri ruoli.
Questo percorso di formazione che questa mattina ho chiamato interprofessionale ha permesso di far riflettere tutti sul tema dei vantaggi che la relazione costruttiva consente; riflettere sulle modalità costruttive per la gestione dei conflitti è anche acquisire questi strumenti. Si tratta di processi certamente lunghi, ma efficaci, perché creano un reale cambiamento nelle persone; questo cambiamento ciascuno lo porterà fuori dal corso di formazione
e costituirà un elemento generatore di relazioni positive con “effetto onda”.
Visti i risultati continuiamo a proporre tale percorso e possiamo affermare che si tratta di formazione senza confini né di età né di ruolo; formazione che vogliamo pensare come un nuovo percorso di alfabetizzazione all’intelligenza emotiva e alle modalità di relazione costruttiva.
A relazionarsi si impara, nessuno di noi lo ha imparato, ed è sempre il
momento giusto per iniziare a farlo.
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INTERVENTI
LA MANTIA
IC De Pisis – Brugherio
Ho sentito una frase pronunciata dal giudice: “il conflitto è un disagio
non riconosciuto” e di seguito ha proseguito riferendo dell’escalation “ disagio, malessere, conflitto, guerra”… Certo può accadere nella scuola: se il
dirigente scambia l’autonomia della scuola per la propria si troverà a non
essere condiviso, motivo per cui rimarrà un generale senza esercito. Aggiungerei che questa mattina ascoltando si sono aperti molti orizzonti e resterò
sino alla fine. Proporrò personalmente di sviluppare in ogni sede possibile
questa ipotesi così interessante ed innovativa, perché è risposta, l’unica produttiva, ad un malessere che ormai è diventato insostenibile.
MARIELLA CASTELLINO
Dirigente scolastica – Prov. Padova
Mi complimento, perché da questa prima parte del convegno ho avuto
un valore aggiunto. Il conflitto a livello psicanalitico evoca sempre fantasmi,
viene quasi sempre esorcizzato come se fosse patologico e il valore aggiunto di questa mattina è che il conflitto lo vedrò non come un aspetto patologico ma positivo!
Comunque restano le resistenze e su questo occorrerà lavorare.
La terza cosa che vorrei dire è che coniugando l’intervento del magistrato dottor Marinari con chi l’ha preceduto mi trovo in difficoltà, perché generalmente la norma, che rientra nel mio lavoro, viene usata o per sanare un
conflitto creando dei perdenti o vincitori o, comunque, un nuovo conflitto.
Per questo vorrei capire: come coniugare la norma con il concetto di conflitto come risorsa?
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SANTALUCIA ROBERTO
Preside incaricato Scuola di Dervio - Prov. Lecco
Premetto che ho capito che ho buone difficoltà di non confliggere con
mia moglie se resto poco a casa, versione edulcorata, per certi aspetti, del
sartriano “La porta chiusa”… il nostro inferno sono gli altri per cui meno sto
con gli altri meno possibilità ho di litigare…
Dal mio personale punto di osservazione vorrei portare alla riflessione di
questa assemblea una mia sensazione: soprattutto negli ultimi quattro o cinque anni credo si stia affermando il bisogno di un riconoscimento di tutti gli
attori che lavorano nella scuola (e per tutti intendo docenti, ata, e gli stessi
genitori); mi trovo spesso in situazioni in cui rifletto che l’altro, che non è il
mio inferno, ha bisogno o cerca in me un riconoscimento reale e immediato
della validità del suo intervento. Di conseguenza vorrei porre la seguente
domanda: se siamo consapevoli di questo, non è che la società intorno a noi
sta cambiando e non ne abbiamo la consapevolezza?
PASQUALOTTO
Preside Oriani Mazzini – Milano
Nella mia scuola, già da alcuni anni, ci occupiamo di conflitti collaborando con un’associazione che se ne occupa a pagamento, di conseguenza ogni
anno mi trovo a negoziare sulla questione finanziaria rispetto alle classi su
cui intervenire o alla formazione dei docenti. Per questo chiedo all’ANDIS o
a chi di dovere di diffondere, quanto più possibile, queste iniziative e di favorire l’accesso a più scuole possibili visto l’interesse e il giovamento tratto da
docenti e dirigenti.
Coord. Valagussa:
Accogliamo con grande attenzione e serietà questa richiesta che non
sarà lasciata cadere e che riporteremo al direttore Dutto la cui presenza
questa mattina manifesta la considerazione in cui tiene questa questione.
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PIAZZARDI
Dirigente scolastico – Scuola Majno di Milano
Il mio intervento sarà un po’ fuori dal coro. Sono contraria alla formulazione teorica non perché non credo che la mediazione non sia importante
nei conflitti, ma perchè il valore supremo di un’istituzione scolastica (come
di tutte le istituzioni) sia la pace e le scuole funzionano nella misura in cui
si verifica una situazione di pace.
Durante la mia lunghissima carriera per fortuna ho avuto pochi, ma consistenti conflitti e mi rendo sempre più conto che non è vero che il conflitto è un valore: c’è e nel momento in cui c’è ci attrezziamo anche con la
mediazione per risolverlo. Ma quando si dice che abbiamo paura delle scuole in cui non esistano conflitti… magari queste scuole li hanno, ma cercano
di risolverli senza sotterrare tutto fingendo che tutto vada bene. Un conflitto non può a mio parere essere un valore: ciascuno di noi peggiora ed è
come se si trovasse in una piccola guerra nel momento in cui lo affronta. Per
questo mi chiedo se non fosse meglio prima quando avevo più fiducia negli
altri!
Sono contraria al valutare il conflitto positivamente perché ci arricchisce. Come diceva Vittorini “la guerra crea una ferita dentro di noi” e qualche volta insanabile, per questo noi prosperiamo non nel conflitto, ma
miglioriamo in altri modi.
Coord. Valagussa:
Darei ora la parola ai relatori per aprire il confronto con le vostre osservazioni.
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
RISPOSTE
MARINARI
Mi ricollego a quanto detto dalla professoressa Piazzardi puntualizzando
che anche coloro che ritengono il conflitto un valore non lo apprezzano.
Il conflitto viene apprezzato solo nel senso che contiene qualcosa della
quale si possa tener conto per migliorare, ma non perché senza il conflitto
non si potrebbe vivere; questo oltre ad essere il mio pensiero è qualcosa di
largamente condiviso.
Porre fine al conflitto definitivamente è un bene, ma come si fa?
Io non sono un mediatore e non voglio fare l’apprendista stregone, sono
un ricercatore e ho visto all’opera grandissimi mediatori negli Stati Uniti e
ho notato che, se uno sbaglia, molte volte crea un danno irrecuperabile; certamente occorrono delle capacità per intervenire: serve predisposizione e
bisogna essere professionisti; dunque serve una formazione.
Occasionalmente è capitato di avere il tempo di risolvere qualche problema all’interno di convulse cause e faccio un esempio: mi ricordo di una
persona che voleva sequestrare una pubblicazione, perché conteneva delle
foto che non erano state riconosciute come sue, chiedendo il risarcimento;
mentre lui parlava ho capito che si sentiva offeso, perché non gli era stato
riconosciuto il suo lavoro e quando gli ho proposto di ristampare l’opera a
suo nome mi ha risposto che avrebbe rinunciato a qualsiasi somma e il problema si è risolto.
Questo piccolo esempio, come l’esempio delle arance riportato nella
quarta di copertina del volume della Martello, dimostra che occorre sapienza e predisposizione, ma anche formazione.
Certamente il conflitto non sempre si presta ad essere risolto con la
Mediazione: esistono casi che non possono essere risolti con la Mediazione,
ma per i quali serve una decisione. Concludo dicendo che deve esserci sempre un terzo neutrale rispetto alle parti; quando l’istituzione interviene a
decidere per le parti non c’è Mediazione.
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Giovanna GRANITO
Concordo con la mia collega la quale, giustamente, non ama i conflitti,
ma ci sono conflitti e conflitti: quando si dice che il conflitto può essere
un’opportunità per crescere e dunque un’opportunità per mettersi alla
prova si parla, a quel punto, di superamento del conflitto che non esiste più
e cede il posto alla pace condivisa.
Mi spiace di aver dato l’impressione di amare troppo il conflitto, perché
non lo amo né nel pubblico e né tanto meno nel privato; ma, quando occorre confrontarsi e affermare la propria dignità di persona o difendere la dignità dell’altro, non bisogna aver timore di riconoscere questa realtà, cercando
di negarla..
Risponderei al docente che poneva la questione dell’escalation: “disagio,
malessere, conflitto” che, purtroppo, quando si mette in moto un meccanismo di questo tipo difficilmente esso si ferma spontaneamente: il moto procede e se il disagio di una persona non trova risposta, presto diventa malessere che facilmente si spande intorno e può innescare situazioni ancora più
complesse di belligeranza.
Concordo con la richiesta del docente che ha auspicato corsi di formazione alla relazione interpersonale sia per docenti che dirigenti, perché in
effetti ogni componente della scuola dell’autonomia ha funzioni importanti
da assolvere: nessuna componente è al di fuori del problema. Vorrei sottolineare un altro aspetto: a mio avviso questo tipo di formazione dovrebbe
essere preso sempre più in considerazione anche per la preparazione dei
futuri docenti (e penso al percorso di formazione universitario), per fare in
modo che il docente che si affaccia sul mondo del lavoro abbia a disposizione maggiori strumenti per affrontare un impegno così complesso ed importante con tutta la serenità possibile, serenità che trasmetterà, inevitabilmente, a tutti i suoi alunni.
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Luciana VOLTA
Mi riallaccio ad alcune considerazioni: secondo me va fatta una distinzione nettissima tra quello che è il conflitto e ciò che è il contenzioso: il conflitto può essere costruttivo se è gestito positivamente, altra cosa è parlare di
contenzioso laddove venga vissuto negativamente, perché questo significa
che il conflitto è arrivato ad uno stadio tale che non vi è più una possibilità
di recupero: le parti si sono arroccate sulle proprie posizioni e aspettano l’intervento di un terzo per trovare la soluzione.
Credo che il conflitto sia qualcosa di assolutamente diverso e ritengo che
esso possa essere positivo se gestito correttamente; quindi direi che l’assenza di conflitti può essere negativa nel senso che può significare una carenza
di interesse, mentre l’assenza di contenzioso è qualcosa di sicuramente
positivo verso la quale dovremmo tendere.
Maria MARTELLO
Non si litiga mai da soli, occorre che vi sia almeno un’altra persona e pertanto, se i conflitti è vero che sono trasversali, ancora più importante è sottolineare che la soluzione costruttiva di un conflitto può avvenire solo con
l’impegno di tutte le parti. Pertanto quello che si è cercato di proporre questa mattina è stata la necessità di un modo diverso, di acquisizione generalizzata, di una nuova mentalità sia rispetto alla concezione del conflitto e
soprattutto alla sua gestione perché ci sia davvero una relazione interpersonale pacifica, lungi dalla pace del camposanto.
Mi collego con la mia esperienza personale: non ho mai litigato con nessuno, ma ne ho sofferto tantissimo. Avevo talmente l’orrore e la paura del
conflitto che ho sempre evitato di affrontarlo restando un passo indietro
rispetto al conflitto stesso; ora invece sto molto meglio, perché capisco che
posso dire anch’io il mio punto di vista e capisco che si può anche confliggere rinforzando il rapporto; prima nel silenzio arrivavo ad una certa saturazione e poi ero costretta ad interrompere completamente i rapporti con
quelle persone ora invece, imparando a confliggere con le giuste modalità, i
rapporti non solo non si interrompono, ma si ricostituiscono, saldati su basi
nuove e anche migliori. Nel conflitto ho spesso avuto modo di affermare il
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mio punto di vista e di conoscere meglio gli altri, non soltanto nei loro aspetti positivi, ma nella loro realtà: quindi nei loro limiti e anche nei loro aspetti negativi.
Relazione significa saper interagire non con un’immagine falsata, idealizzata ed edulcorata dell’altro, ma con quello che davvero io sono e con quello che l’altro davvero è. Tra l’altro nel comunicare usiamo delle parole, ma
di fatto comunichiamo noi stessi e così l’altro comunica se stesso. È molto
urgente che non deleghiamo ad altri la nascita di questa nuovo modo di
essere; anzi, se crediamo che questa mentalità sia vantaggiosa per gli altri,
è forse più “furbo” iniziare ad appropriarcene noi.
Concludo ricordando Moliére “Se i furfanti sapessero quanto si guadagna ad essere onesti diventerebbero onesti per furfanteria”. Allora, se noi
riuscissimo a capire quanti vantaggi ci sono all’interno delle relazioni
costruttive e dei rapporti pacifici (ma allo stesso tempo vivi e veritieri), probabilmente privilegeremmo questo tipo di apprendimento e questa acquisizione di consapevolezza al di sopra di qualunque altra. È opportuno ricordare che non c’è possibilità di successo e di carriera in azienda se non si dimostrano capacità relazionali. La cura che noi mettiamo nel fare il nostro lavoro spesso non dà i frutti, non raggiunge gli obiettivi desiderati non per mancanza di competenze tecniche, ma proprio per mancanza di competenze
relazionali. Vale la pena apprenderle per avere successo nel lavoro nel quale
ognuno di noi investe le proprie energie con passione e con impegno.
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
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LA MEDIAZIONE
risorsa per il progetto formativo
della scuola
Interventi
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UNA RISORSA PER IL PROGETTO FORMATIVO DELLA SCUOLA
Umberto MARGIOTTA
Pro Rettore politiche per la formazione permanente e l’insegnamento a distanza,
Università Cà Foscari, Venezia
LO SVILUPPO DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA
E DELLE COMPETENZE RELAZIONALI
NEL PROGETTO FORMATIVO
Un saluto cordiale a tutti e un ringraziamento per essere così numerosi,
sono qui da questa mattina e desidero, mentre ringrazio, complimentarmi
con gli organizzatori di questa iniziativa: l’ANDIS, l’Ufficio Scolastico Regionale in particolare nella persona del suo Dirigente Generale.
A coronamento di un momento che vi vede partecipare in modo così
sereno e positivo e, nelle vesti di Direttore della Scuola di Specializzazione
per gli Insegnanti Secondari del Veneto, vorrei anticipare un’iniziativa che la
SSIS del Veneto delibererà il 23 marzo p.v.: il Consiglio approverà l’attivazione di un corso di perfezionamento sulla mediazione secondo le metodologie
che la Professoressa Martello (che tra l’altro insegna presso la nostra Università da più di tre anni) così ottimamente porta avanti; la cosa interessante è che non vogliamo limitarci a lanciare questo corso di perfezionamento
on line, vogliamo evitare il solito localismo e lo facciamo on line in modalità
“blanded” con annesso un Servizio che consenta di sviluppare nei diversi
territori o tra le diverse comunità che si collegano una comunanza di pratiche sul tema della relazione educativa.
Poco fa, a pranzo con l’amico Vico, dicevo che credo possa essere un
esempio di triangolazione anche con altri poli universitari o con altre istituzioni, e che credo sia necessario iniziare ad uscire dalla logica del localismo
(che un po’ è vincolato da questioni anche logistiche) utilizzando anche
queste opportunità in modo da plasmare le metodologie formative per l’alta
formazione su temi così centrali; quindi l’11 aprile il Senato Accademico
approverà l’attivazione di questo corso di perfezionamento; dopo di che
verrà pubblicato il bando che potrete trovare sul sito www.univirtual.it 1.
1 - Il bando è riportato in appendice.
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Volevo darvi questa notizia in anteprima come segno concreto dell’apprezzamento del lavoro svolto da Maria Martello presso la SSIS e di coincidenza con le ragioni profonde di questa giornata tant’è che il sottotitolo della
mia relazione, in realtà, è il seguente: “Le ragioni della relazione educativa”.
A rischio di scandalizzare devo dire che voglio prendere l’appiglio da un
tema che oggi viene sbandierato: si parla molto, soprattutto a partire dal
gennaio scorso, di emergenza-educazione e voi sapete che in occasione
della ripubblicazione di un volume di Don Giussani intitolato “ Il rischio educativo” è stato rilanciato questo tema (già anticipato nel 2003 dalla “fondazione italiani europei”) e segnalerei come nel nostro paese ci sia questo
senso profondo: il tasso di relazionalità è molto basso: proprio su questo
tema ci confronteremo.
1. Il rischio educativo
L’unico modo per rilanciare un orizzonte educativo dotato di senso per
il futuro consiste nel ritornare a lavorare “in interiore homine”. Adotto questa espressione come mossa d’inizio, nel senso che dichiaro il mio scetticismo nei confronti della ingegneria sociale. Serve molto poco contare sulla
massa e sulla quantità: i numeri non faranno né la "rivoluzione" della Scuola né la sua riforma. Per ciò di cui si ha bisogno, per la posta in gioco, è bene
piuttosto puntare sulla interiorità dei processi di personalizzazione dell’esperienza e della conoscenza. Non a caso ce lo ricorda un educatore:
“Parlare di educazione oggi coincide con il trovarsi di fronte a due
atteggiamenti che, se pur diversissimi, sono ambedue sintomi più di un
disorientamento ormai cieco che della percezione di un problema. Da
un lato un buon senso misto alla passività, più o meno colpevole, dell’essersi almeno in parte fatti travolgere dagli avvenimenti può far dire:
oggi educare è molto più impegnativo di un tempo. I ragazzi, i giovani,
i bambini, si dice, sono più svegli, più esperti, sentono il mondo attorno e hanno problemi, e si finisce con l’imparare da loro più che insegnare loro qualcosa. Dall’altro lato un malinteso senso di libertà conquistata, la convinzione di essersi scrollati di dosso retaggi educativi
costringenti, contingenti e inadeguati porta a dire, come affermazione
di principio, che educare oggi è soprattutto non imporre, non condizio-
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nare, non limitare. Insomma è soprattutto un non ripetere errori passati di cui ci si può anche essere sentiti vittime. Il risultato di ambedue
questi atteggiamenti finisce con l’essere identico. Infatti, sia la perplessità, talvolta l’impotenza di fronte a nuove generazioni particolarmente segnate da un mondo in cui l’uomo è diviso, sia l’affermazione dell’antiautoritarismo come chiave di volta per costruire un nuovo atteggiamento educativo hanno come denominatore comune l’assenza di
una proposta di valore”. D.L. Giussani, Il rischio educativo, Jaca Book,
Milano 1977,9-10.
La proposta fa pensare. Essa, tuttavia, si basa sulla riconquista di una
pre condizione essenziale per poter ricominciare a parlare di relazione; in
breve si fonda sul recupero del gusto e dello spessore di una consapevolezza storica nei giovani che passa in verità attraverso la riscoperta delle fonti,
e insomma di quella tradizione europea di classici della formazione che un
certo sociologismo imperante ci ha disabituato a riascoltare, a gustare, e che
invece bisogna mostrare di quanto non siano inaridite.
Ho ripreso in mano di J. Maritain L’educazione al Bivio e leggendo le
pagine da lui dedicate agli errori dell’educazione contemporanea mi è venuto da riflettere su quanto abbiamo dovuto girovagare per i sentieri impervi
di micro-ricerche e sottofiliazioni disciplinari per ritrovarvi oggi conclusioni
a cui, dopo di lui, molti a noi contemporanei sono giunti in forma magari
dettagliata, ma senza riuscire a produrre prospettive di senso e di valore. Mi
è venuto anche da pensare a come Maritain, Dewey, Bergson siano stati
oggetto di diatribe contrapposte e di steccati, e di come ai nostri giovani
spesso continuiamo ad offrire solo interpretazioni, ovvero - nel migliore dei
casi - i risultati della critica storiografica sugli autori. Di certo non abbiamo
più trasmesso il senso storico di una loro collocazione e di un loro pensiero,
perché non abbiamo salvaguardato i classici dalla furia iconoclasta delle
mode, delle ideologie, delle semplificazioni di ogni tipo. E dunque sarebbe
già un primo buon passo se dicessimo ai giovani che prima delle nostre
parole, attraverso la "nostra" pedagogia, è un loro diritto poter ripartire proprio da qui: tornare a scoprire, a gustare, a dimostrare che le fonti non sono
inaridite; soprattutto spiegare, dimostrare, esplicitare, non limitarsi a
mostrare.
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2. Gli errori dell’educazione contemporanea
Ci si permetta, allora, di provare questo assunto ripercorrendo con Maritain un siffatto ritorno alle fonti di una tradizione europea che sembra ormai
obliata dai più. E facciamolo confrontando quanto egli ritrovava di critico,
da un punto di vista filosofico e civile, con i tratti dell’educazione anche a
noi più prossima.
Il primo errore è rappresentato dal disconoscimento dei fini. È una critica al pandidatticismo, al formalismo degli schemi di programmazione
didattica buoni a tutti gli alibi, una critica al tecnicismo “fai da te”, ad uno
sperimentalismo pratico che diviene tanto esperto nelle tecniche di analisi
quanto immemore della costante necessità di mettere a prova le ipotesi educative di riferimento da divenire saccente2. Si è prodotta cioè una "Pedagogia di Stato” che esprime nel vuoto delle proprie saccenti direttive l’incartamento burocratico dei suoi dirigenti. Per quanto ancora potremo tollerare il
sistematico becero slittamento di significati a cui il lessico della ricerca
pedagogica ed educativa viene quotidianamente sottoposto? Fino a quando
potremo consentire la sistematica banalizzazione dei fini, in nome della
taciuta convinzione circa una loro indifferente equipollenza, a cui viene
ridotta l’educazione dalla gran massa vociante di “apprendisti stregoni” che
formano, aggiornano, lucrano, dirigono, ispezionano, orientano?
Il secondo errore: la cacofonia dei fini. Può l’educazione limitarsi entro il
ridotto dell’aula scolastica? Può l’educazione essere agnostica rispetto ai
propri stessi fini? Se scopo fondamentale dell’educazione è quello di “guidare l’uomo nello sviluppo dinamico durante il quale egli si forma in quanto
2 - “Se i mezzi sono voluti e studiati per amore della loro propria perfezione - e non soltanto
come mezzi - in questa precisa misura cessano di condurre al fine e l’arte perde la sua forza
pratica: la sua vitale efficienza è sostituita da un processo di moltiplicazione all’infinito, perché ogni mezzo si sviluppa per se stesso e prende per se stesso un campo sempre più esteso. Questo primato dei mezzi sul fine e il conseguente crollo di ogni finalità certa e di ogni
vera efficacia nel realizzarla, sembra sia il principale rimprovero che si possa rivolgere
all’educazione contemporanea... Il perfezionamento scientifico dei mezzi e dei metodi pedagogici è in se stesso un progresso evidente, ma quanto più acquista importanza tanto più
richiede un parallelo rafforzamento della sapienza pratica e della tensione dinamica verso il
fine da raggiungere” (J. Maritain, L’educazione al bivio, Brescia, 1963).
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persona umana” (Ibidem, 25) allora la sapiente tessitura di tale persona,
nella sua finissima multilateralità e unicità; la costruzione di un profilo formativo integrale della persona; tutto ciò non è compito da affidare solo
all’istruzione, non solo alla formazione extrascolastica, non a piani compensativi che per mille rivoli assicureranno finanziamenti e glorie, ma di certo
fatalmente distolgono dallo scopo che è, invece, unitario, multilaterale, continuo. Esso passa piuttosto e ancora una volta per la formazione delle
coscienze, che è problema da riprendere a tematizzare con urgenza sia in
senso storiografico che critico.
Terzo errore, il praticismo. Facciamo dunque i conti con i risultati di
tanta pedagogia cosiddetta “ad ispirazione pragmatica”, rivelatasi ogni giorno di più fondata su una inconclusività teoretica che è giunta perfino a teorizzarsi come forma necessaria di ricerca nelle scienze dell’educazione.
“Insistere sull’importanza dell’azione, della «prassi» è certo una cosa
eccellente sotto più di un punto di vista, perché la vita è azione. Ma l’azione
e la prassi si tendono ad uno scopo, ad un fine che le determina, senza il
quale esse perdono la loro direzione e la loro vitalità... È un disgraziato errore quello di definire il pensiero umano come un organo di risposta agli stimoli e alle situazioni attuali dell’ambiente... (Invece) il pensiero umano è
capace di illuminare l’esperienza, realizzare desideri che sono umani, perché sono radicati nel desiderio primordiale del bene illimitato, e di dominare, controllare e foggiare di nuovo il mondo. Al principio dell’azione umana,
in quanto umana, c’è la verità, conosciuta (o che si crede di conoscere) per
se stessa, per amore cioè della verità. Senza la fede nella verità non c’è efficacia umana. Questa è a parer mio la critica principale da fare alla teoria
“strumentalista” della conoscenza. Nel campo dell’educazione questa teoria
della conoscenza, passando dalla filosofia alla pedagogia, può difficilmente
produrre nella gioventù qualcosa di diverso da uno scetticismo scolastico
equipaggiato delle migliori tecniche di cultura mentale e dei migliori metodi scientifici che serviranno, a dispetto della natura e contro la tendenza
stessa dell’intelligenza, a generare la diffidenza verso l’idea stessa di verità
e di sapienza e a far abbandonare ogni speranza di raggiungere una unità
dinamica interna. Inoltre a forza di insistere sul fatto che per insegnare a
John la matematica è più importante conoscere John che la matematica - il
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che in un certo senso è abbastanza vero - l’insegnante tanto riuscirà a conoscere perfettamente John quanto John non riuscirà mai a sapere la matematica. La pedagogia moderna ha fatto incommensurabili progressi nell’accentuare la necessità di analizzare attentamente e non perdere mai di vista il
soggetto umano. Il torto comincia quando l’oggetto da insegnare e il primato dell’oggetto vengono dimenticati e quando il culto dei mezzi - non per il
fine ma senza il fine- sfocia in una specie di adorazione psicologica del soggetto” (Ibidem, pp. 27-29).
Chi non dimentica i danni di tanta cosiddetta socializzazione cognitiva
nell’istruzione di base, ovvero chi ha presenti gli andirivieni di tanta ricerca
psicopedagogica e docimologica in materia, o ancora l’analisi di J. Gardner
in Nation at Risk, 1989, non potrà non ritrovare disegnati in questi essenziali tratti problemi con cui ci stiamo misurando oggi; con l’aggravante di trovarci dinanzi a generazioni di allievi che per tali “esperimenti” sono già passati.
Quarto errore: il sociologismo. Qui la critica è profonda e ci interessa con
un’attualità pregnante. Dice Maritain:
“L’essenza dell’educazione non consiste infatti nell’educare un
futuro cittadino alle condizioni e interazioni della vita sociale, ma
prima di tutto nel fare un uomo e con ciò preparare il cittadino.
Opporre educazione per la persona e educazione per la comunità è
più che vano e superficiale; infatti l’educazione stessa per la comunità implica e richiede innanzitutto l’educazione per la persona e, a sua
volta, questa è praticamente impossibile senza quella, perché non si
forma un altro che in seno a una vita di comunità dove cominciano
già a destarsi l’intelligenza civica e le virtù sociali”. (Ibidem, 31).
Dobbiamo riconoscere il fatto che stiamo uscendo da almeno un ventennio in cui l’opposizione tra educazione per la comunità e educazione per la
persona è divenuta quasi un paradigma discriminatorio. Assistiamo, invece,
ad un ritorno prepotente del bisogno di valori, e ci rendiamo conto di aver
certo perso più tempo di quanto ci fosse concesso nel non aver contrastato
in modo deciso quelle forme di secolarizzazione o se volete di mondanizzazione dell’educazione per la persona, di cultura della crisi e del pensiero
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debole, che davvero sfornano non solo dalla scuola, non solo per colpa della
scuola, ma certo della cultura diffusa e alfabetizzata (ma che pur sarà passata da qualche aula scolastica) giovani soprattutto preoccupati (e talvolta
disperati) della propria solitudine.
Quinto errore: l’intellettualismo. L’errore a cui pensa Maritain si ammanta della luciferinità del vero e proprio per questo ipostatizza in divisione ciò
che dovrebbe essere unito, e che pur oggi invero viene riconosciuto come
sinergico e reciprocamente fusionale: intendo la cultura della parola e la cultura della mano. Invece, secondo una tradizione a torto considerata classica, l’educazione coincide con la pura abilità dialettica o retorica. Una seconda forma di intellettualismo, inoltre, che ha le sue radici nell’americanismo
e nel fordismo, aggrava l’errore e lo completa: “abbandona i valori dell’universale e insiste sulle funzioni pratiche e operative dell’intelligenza” (Ibidem,34). Vi sono pagine molto belle nella ricerca storiografica sulla nostra
tradizione culturale che ricostruiscono il peso avuto dalla tradizione retorico-letteraria nell’impostazione e, per qualche verso, nella deformazione dei
fini unitari e formativi dell’istruzione. Ed invero c’è da farsi poche illusioni:
un’istruzione generale politecnica quale la disegnava Cattaneo era di certo
molto più umanistica di quanto trascorra in numerosi sottoprodotti culturali oggi correnti come “Progetti assistiti”; poco è cambiato nella compartimentazione disciplinare dell’istruzione universitaria (vera silva silvarum),
perché poco è cresciuto il senso del fare didattica e formazione con giovani
adulti tra i docenti universitari. Ma v’è soprattutto un ritardo e una disomogeneità nella cultura epistemologica degli insegnanti, sicché a tutti i livelli
drammaticamente scarsa è la capacità di concettualizzare la propria area di
insegnamento entro uno spazio di comunicazione disciplinare; entro uno
spazio cioè che riconosca il lavoro di ogni ricercatore come un “programma
di ricerca”, e dunque come un confronto e una verifica continui tra programmi di ricerca diversi. Su questo la storia della scienza e la filosofia della
scienza sono giunte da molto tempo, sia pur in modo critico e ancora dibattuto, a convenire; ma è raro che un professore di matematica si intenda con
uno di lettere sulle trame concettuali convenienti all’educazione intellettuale efficace degli allievi che pur hanno in comune. Tale sordità non dipende
dalla scienza né dal lavoro riflessivo della ricerca scientifica su se medesima.
Dipende, come traccia generale da quell’errore di “pigrizia o di narcisismo”
intellettuale che è appunto l’intellettualismo, né è tuttora rimuovibile se non
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in virtù di una profonda e strutturale riforma dell’idea stessa di Università
nel nostro Paese.
Sesto errore: il volontarismo: e cioè due forme di volontarismo in diretto collegamento compensatorio con le forme succitate di intellettualismo. O
ci si adagia in un movimento di coscienza non illuminato dalla scienza che
produce come unico risultato una spiccata tendenza volontaristica in pedagogia; ovvero si alberga entro una moltiplicazione dei modi di descrivere il
darsi dell’educazione e della formazione, senza nemmeno tentare lo sforzo
di spiegarle, avvitandosi così in una affabulazione senza fine paga, appunto,
di voler esistere.
Le radici (invero macroscopiche) sono nella storia mitteleuropea dell’educazione del Novecento: “l’educazione mirava a concentrarsi tutta o
sulla volontà che doveva essere disciplinata secondo un qualche tipo o
modello nazionale o sulla libera espansione della natura e delle potenzialità
naturali” (Ibidem,36). Ovvero, nella seconda forma, “la tendenza volontaristica in pedagogia si combina molto bene con la cultura tecnica....e può
essere considerata come uno sforzo per compensare gli inconvenienti della
seconda forma di intellettualismo - educazione tecnica specializzata all’eccesso - con ciò che è conosciuto come educazione della volontà, educazione
del sentimento ecc.”.
In sintesi Maritain richiama il principio classico secondo cui non c’è educazione senza “disciplinamento” interiore. E nessuna delle due fonti della razionalità coltivata - l’intelletto e la volontà- possono essere debitamente sviluppate se non in una continua reciproca armonia. Uno dei mali profondi della dilacerazione culturale contemporanea è senza dubbio il fatto di enfatizzare ora
l’una ora l’altra di tali fonti, senza preliminarmente e fondativamente assicurare un’ipotesi di governo e di “crescenza” delle due; senza un diffuso e sistematico impegno della ricerca pedagogica a ricostruirne la genealogia epistemica
e istituzionale insieme. Sicché congiunte con indifferenza e con insipienza,
esse unitariamente divengono complementari e forti agli occhi dei giovani.
Settimo errore: il pensare che tutto può essere insegnato, e pensare o
ritenere che ogni cosa possa essere appresa mediante l’istruzione. Questa è
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la denuncia che più colpisce al cuore ogni illusione panpedagogistica e cioè
l’illusione che tutto possa essere insegnato a tutti. Qui c’è Comenio, dietro
la tesi che Maritain critica, con nettezza, e quindi c’è tutta una tradizione
scolastica e statuale e insomma una filosofia di pensiero che sarebbe lungo
qui ricordare, ma rispetto alla quale Maritain lancia un monito: è illusione
pensare che ogni cosa possa essere appresa mediante l’insegnamento; non
riducete la formazione all’istruzione, non riducete il contenuto alla forma.
3. La relazione educativa
Ho introdotto questo veloce ripercorrimento per avviare l’analisi di un
fenomeno così avvolgente e in crescita come l’incremento di una domanda
di senso e di valore; domanda che si ripresenta nonostante quarant’anni di
dibattiti e di interventi pedagogici e scolastici. Se attraverso l’analisi di J.
Maritain cogliamo come ancora validi i tratti di sfondo della critica, di certo
dobbiamo porci un interrogativo: o i tratti fondamentali della relazione educativa permangono sempre gli stessi e sono refrattari a qualunque intervento ovvero stiamo assistendo ad una profonda implosione del mondo educativo e scolastico così come lo abbiamo imparato a predicare.
Poichè la prima ipotesi è al postutto insostenibile, vale la seconda e ciò
significa che i tratti fondamentali della relazione educativa vanno profondamente modificandosi e, per così dire, incarnandosi in modo inedito nel vivo
del nostro stesso bisogno di speranza.
Quali dunque i fattori cruciali della relazione educativa che, ritornando
alle nostre fonti ci par di dover richiamare? Innanzitutto il primo fattore è
dato dal fatto che l’allievo chiede che di sé il docente colga la mente e non
soltanto l’intelligenza: la mente - intendo - come espressione di tutta la sua
personalità in sviluppo. È quindi con la mente dello spirito che l’arte dell’insegnamento deve coniugarsi e intimamente correlarsi. Ma questo con le
seguenti precisazioni:
- tutto l’apprendimento è in colui che apprende e non in colui che insegna;
- la responsabilità dell’apprendimento, la cifra della qualità dell’apprendimento è data dal modo con cui il soggetto percepisce e impara ad apprezzare come il suo potenziale educativo si va sviluppando in quanto mente,
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non in quanto intelligenza, separata o sezionata in tanti sottoaspetti di personalità.
Un secondo fattore ci sembra fondamentalmente richiesto dalla rivoluzione educativa in atto. Esso è nella domanda di un’arte dell’insegnare che
sia intesa e praticata come ars cooperativa humanitatis alla stregua di come
la medicina viene intesa e interpretata come ars cooperativa naturae. Arte
cooperativa dell’umanità. Insomma ogni prospettiva di insegnamento e
apprendimento cooperativo si fonda e si esprime su una rigorosa e appropriata cooperazione di persone specializzate nel promuovere e sviluppare la
personalizzazione di modelli esperti di padronanza della vita e della cultura.
Un altro fattore ancora è importante: investire sulla qualità e sulla creatività dell’intelligenza. Questi due caratteri rappresentano invero la nuova
frontiera dell’educazione su scala planetaria. Si continua a concepire la creatività come se fosse una sorta di “liberazione” espressiva, antireale e antiqualcosa. Invece essa racchiude, in coerenza con il suo etimo il tema della
padronanza, in quanto soglia autoconsapevole di formazione insieme specifica e universale della propria personalità. Ne ritroviamo conferma in una bellissima pagina del Trattato del carattere di E. Mounier. Allorché Mounier sottolinea, nelle ultime pagine del primo capitolo, come il carattere rappresenti
la cifra identificativa delle scelte di responsabilità del soggetto, e quindi come
il carattere non sia altro che il metodo, ovvero la strada che ogni soggetto alla
fine si è dato maturando e contestualizzando le sue scelte, ebbene in questa
mirabile pagina egli tenta di dimostrare che esiste una radice ontologica al
problema del metodo. Il metodo profondo dell’educazione, in particolare di
quella adulta (ma a questo punto la specificazione ci appare riduttiva) è il
metodo della relazione educativa; non ha dimensione applicativa, di conoscenze o di tecniche, ma ha dimensione generativa e di responsabilità discriminative proprie dell’esperienza di vita del soggetto, in quanto egli si reinventa e si ridisloca continuamente come persona nei diversi mondi e universi (dell’esperienza, dell’età, del linguaggio, della conoscenza).
4. Il concetto di intelligenza emotiva
Sebbene abbia solo di recente conquistato l’interesse del pubblico, il
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costrutto di intelligenza emotiva è stato elaborato nella letteratura scientifica circa un decennio fa da Salovey e Mayer (1989/90) e deriva dai precedenti concetti di intelligenza sociale e intelligenza personale. Nel delineare la
sua teoria delle intelligenze multiple, Gardner (1983) descrisse due forme di
intelligenza personale: l’intelligenza intrapersonale, che è la capacità di accedere alla propria vita affettiva, e l’intelligenza interpersonale, che è la capacità di leggere gli stati d’animo, le intenzioni e i desideri degli altri. Gardner
(1983) considerava le due forme di intelligenze personali come abilità biologicamente fondate di elaborare le informazioni - una diretta verso l’interno e
l’altra verso l’esterno - intimamente intrecciate. In psicoanalisi, queste abilità vengono spesso definite auto-consapevolezza emotiva ed empatia.
Queste abilità fondamentali dell’intelligenza personale sono centrali nel
costrutto di intelligenza emotiva, che Salovey e Mayer definirono originariamente come “la capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le
proprie azioni”. Questa definizione implica l’idea che il sistema affettivo funzioni solo in parte come sistema di elaborazione delle informazioni e delle
percezioni. Infatti Salovey e Mayer affermano che “i processi sottostanti l’intelligenza emotiva vengono attivati quando l’informazione affettiva entra per
prima nel sistema percettivo”.
Oltre alla consapevolezza e all’apprezzamento dei propri sentimenti soggettivi, l’intelligenza emotiva comprende la percezione e la considerazione
dei comportamenti emotivi non-verbali, incluse le sensazioni corporee evocate dall’attivazione emozionale, le espressioni facciali, il tono della voce e
la gestualità esibita dagli altri. Vi sono però differenze individuali nella capacità delle persone di elaborare ed usare l’informazione. Individui con elevati livelli di intelligenza emotiva riescono facilmente ad identificare e descrivere i sentimenti in sé stessi e negli altri, a regolare efficacemente gli stati
di attivazione emozionale in sé stessi e negli altri ed usano generalmente le
emozioni in modo adattivo (Salovey et al, 1983; Salovey e Mayer, 1989/90).
Mayer e Salovey (1997) hanno di recente modificato la loro definizione
di intelligenza emotiva per sottolineare in maniera più decisa “la capacità di
pensare sui sentimenti”. Bar-On (1997), che ha elaborato un questionario
autosomministrato per valutare l’intelligenza emotiva, adopera un modello
più esaustivo del costrutto che include l’adattabilità, le capacità di gestione
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dello stress e l’intelligenza intrapersonale e interpersonale. Nonostante la
varietà delle definizioni, comunque, le componenti centrali dell’intelligenza
emotiva mostrano alcune convergenze teoriche con molti concetti psicoanalitici, fra cui il concetto freudiano di emozione come segnale. In “Inibizione,
sintomo e angoscia” (1926), Freud, infatti, ipotizzò che l’ansia fosse un’informazione generata dall’Io sul suo stato di sicurezza e sul bisogno di mobilitare le difese contro pulsioni e fantasie interdette. Freud incluse in questa
concezione anche gli affetti depressivi in quanto essi segnalano all’Io la perdita dell’attaccamento ad una persona amata e gratificante. Le successive
teorie psicoanalitiche hanno poi ulteriormente esteso la funzione di segnale
ad un’ampia gamma di affetti (Jacobson, 1994).
Nonostante il riconoscimento dell’aspetto di informazione e di segnale
per quanto riguarda gli affetti, Freud (1915) non ha mai abbandonato la sua
idea originaria che gli affetti derivino dalle pulsioni. Nella psicoanalisi contemporanea gli affetti vengono però considerati come fattori motivazionali
primari di un sistema basilare che valuta e comunica lo stato del sé in ogni
momento nel corso del tempo (Jones, 1995; Spezzano, 1993). Infatti gli
affetti vengono oggi considerati come il nocciolo e l’origine della soggettività umana: è grazie al fatto di provare sentimenti che noi sappiamo chi siamo
- e questa è una delle caratteristiche centrali dell’intelligenza emotiva (Gardner, 1983).
Un altro concetto psicoanalitico convergente con il costrutto di intelligenza emotiva è quello di “psychological mindedness”. Sebbene questo concetto sia stato spesso usato come sinonimo di altri concetti definiti in modo
però più vago (introspezione, auto-consapevolezza), la maggior parte degli
analisti seguono la concezione di Appelbaum (1973) secondo cui la “psychological mindedness” si riferisce alla “capacità individuale di saper valutare le
relazioni fra pensieri, sentimenti e azioni, con l’obiettivo di imparare i significati e le cause delle proprie esperienze e dei propri comportamenti”. La
capacità di accedere e di pensare alle origini ed ai significati dei sentimenti
soggettivi è una caratteristica importante della “psychological mindedness”,
ed è anche ritenuta centrale nell’influenzare il corso di una psicoterapia analitica (Conte et al, 1990).
La capacità di pensare e riflettere sugli stati emotivi propri e altrui viene
indicata da Fonagy e colleghi (1991) come “funzione auto-riflessiva” o, più
semplicemente, “funzione riflessiva” (Fonagy & Target, 1997). Tale funzio-
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ne richiede la capacità di formare delle rappresentazioni mentali di emozioni ed altre esperienze (ad es. la mentalizzazione), comprese le rappresentazioni del mondo mentale degli altri. È una funzione che evolve precocemente nella vita quando il bambino sviluppa una “teoria della mente” ed è strettamente legata al raggiungimento delle abilità di regolazione affettiva.
Dunque, la definizione di Mayer e Sallovey (1997) dell’intelligenza emotiva sottolinea sia la capacità di riflettere e pensare sui sentimenti che la
capacità di regolare le emozioni. Come per l’intelligenza emotiva, gli individui variano nella misura in cui impiegano la funzione riflessiva. Si presume
che tali differenze stiano a significare differenze qualitative nella mappatura delle emozioni e dell’esperienza di sé (Fonagy & Target, 1997).
Ma che cos’è quest’intelligenza emotiva? È una miscela equilibrata di
motivazione, empatia, logica e autocontrollo, che consente, imparando a
comprendere i propri sentimenti e quelli degli altri, di sviluppare una grande capacità di adattamento e di convogliare opportunamente le proprie
emozioni, in modo da sfruttare i lati positivi di ogni situazione.
Il termine intelligenza emotiva usato da Goleman si riferisce alla “capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi
stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente,
quanto nelle relazioni sociali”. Sono abilità complementari ma differenti dall’intelligenza, ossia da quelle capacità meramente cognitive rilevate dal Q.I.,
che rappresenta l’indice generale delle facoltà cognitive.
Tra queste abilità complementari rientrano ad esempio la capacità di
motivare se stessi e di continuare a perseguire un obiettivo nonostante le
frustrazioni; la capacità di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; la capacità di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza
ci impedisca di pensare; la capacità di essere empatici e di sperare.
Più in generale, alla base dell’intelligenza emotiva ci sono due grosse
competenze, caratterizzate rispettivamente da abilità specifiche.
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COMPETENZA PERSONALE
Determina il modo in cui controlliamo noi stessi
CONSAPEVOLEZZA
DI SÉ
• Comporta la conoscenza dei propri stati interiori-preferenze,
risorse e intuizioni
• Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti
• Autovalutazione accurata: conoscenza dei propri punti di
forza e dei propri limiti
• Fiducia in se stessi: sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità
PADRONANZA
DI SÉ
• Comporta la capacità di dominare i propri stati interiori, i
propri impulsi e le proprie risorse
• Autocontrollo: dominio delle emozioni e degli impulsi distruttivi
• Fidatezza: mantenimento di standard di onestà e integrità
• Coscienziosità: assunzione delle responsabilità per quanto
attiene alla propria prestazione
• Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento
• Innovazione: capacità di sentirsi a proprio agio e di avere un
atteggiamento aperto di fronte a idee, approcci e informazioni nuovi
MOTIVAZIONE
• Comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di obiettivi
• Spinta alla realizzazione: impulso a migliorare o a soddisfare
uno standard di eccellenza
• Impegno: adeguamento agli obiettivi del gruppo o dell’organizzazione
• Iniziativa: prontezza nel cogliere le occasioni
• Ottimismo: costanza nel perseguire gli obiettivi nonostante
ostacoli e insuccessi
Tratto da Lavorare con l’intelligenza emotiva di Daniel Goleman pag. 42
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COMPETENZA SOCIALE
Determina il modo con cui ci rapportiamo agli altri
EMPATIA
• Comporta la consapevolezza dei sentimenti, delle esigenze e
degli interessi altrui
• Comprensione degli altri: percezione dei sentimenti e delle
prospettive altrui; interesse attivo per le preoccupazioni
degli altri
• Assistenza: anticipazione, riconoscimento e soddisfazione
delle esigenze del cliente
• Promozione dello sviluppo altrui: percezione delle esigenze
di sviluppo degli altri e capacità di mettere in risalto e potenziare le loro abilità
• Sfruttamento della diversità: saper coltivare le opportunità
offerte da persone di diverso tipo
• Consapevolezza politica: saper leggere e interpretare le correnti emotive e i rapporti di potere in un gruppo
ABILITÀ
SOCIALI
• Comportano abilità nell’indurre risposte desiderabili negli
altri
• Influenza: impiego di tattiche di persuasione efficienti
• Comunicazione: invio di messaggi chiari e convincenti
• Leadership: capacità di ispirare e guidare gruppi e persone
• Catalisi del cambiamento: capacità di iniziare o dirigere il
cambiamento
• Gestione del conflitto: capacità di negoziare e risolvere situazioni di disaccordo
• Costruzione di legami: capacità di favorire e alimentare relazioni utili
• Collaborazione e cooperazione: capacità di lavorare con altri
verso obiettivi comuni
• Lavoro in team: capacità di creare una sinergia di gruppo nel
perseguire obiettivi comuni
Tratto da Lavorare con l’intelligenza emotiva di Daniel Goleman pag. 43
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Entrambe le competenze sono caratterizzate da abilità specifiche. In
particolare, alla base della competenza personale troviamo la consapevolezza, la padronanza di sé e la motivazione; alla base della competenza sociale
troviamo invece l’empatia e le abilità nelle relazioni interpersonali.
Le abilità alla base della “competenza personale”
LA CONSAPEVOLEZZA DI SÉ
Implica innanzitutto la capacità di riconoscere le proprie emozioni
dando loro un nome. In genere quando qualcosa non va - il lavoro non riesce, i colleghi non ci capiscono, non ci considerano o peggio ci sfruttano l’emozione prevalente è la rabbia. A ben guardare la rabbia è una emozione
secondaria, cioè l’espressione di qualcosa che sta più a fondo e che può
essere di volta in volta delusione, sconforto o anche paura. Dare il nome giusto a ogni emozione significa già esercitare una prima forma di contenimento, di controllo.
In secondo luogo la consapevolezza di sé comporta un’autovalutazione
accurata delle proprie risorse interiori, delle proprie abilità e dei propri limiti e quindi porta sia alla percezione del proprio valore e delle proprie capacità, sia ad una sana fiducia in se stessi. Su queste basi sarà poi possibile
proporsi con fermezza quando si tratta di mettere in evidenza i propri punti
di vista, i propri diritti o di dar voce a opinioni impopolari ma giuste.
LA PADRONANZA DI SÉ
Seppur vada intesa principalmente come autocontrollo, quindi come
capacità di dominare le emozioni, non implica assolutamente la soppressione, il soffocamento o la negazione delle stesse. Da questo punto di vista se
tutte le emozioni sono permesse, non tutte possono essere espresse. Infatti
se non siamo responsabili dei nostri sentimenti, di ciò che proviamo interiormente di fronte a comportamenti o avvenimenti, siamo però responsabili per il modo in cui decidiamo di esprimerli.
In questo senso, essere dotati di intelligenza emotiva significa essere in
grado di gestire i propri sentimenti, essere quindi capaci di controllarli ed
esprimerli in modo appropriato ed efficace.
Spesso la ragione per cui molte persone non esprimono appieno il loro
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potenziale risiede in una loro incompetenza emotiva, cioè in una incapacità
di gestire le proprie emozioni. In effetti, non è raro il caso in cui, pur essendo intelligenti si agisce da stupidi sull’onda di un’emotività incontrollata, a
volte impedendo, in tal modo, una collaborazione serena e finalizzata al raggiungimento di obiettivi comuni. Viceversa chi è padrone di sé è maggiormente in grado di comportarsi con onestà, agendo eticamente, nel rispetto
delle regole, adoperandosi per costruire un clima di affidabilità e autenticità, ammettendo i propri errori e assumendosi le proprie responsabilità per
quanto attiene alla propria prestazione, al rispetto degli impegni e all’attenzione al compito.
Il concetto di padronanza di sé potrebbe evocare l’intransigenza, la rigorosità assoluta: non è così; implica piuttosto uno spirito di innovazione e
adattabilità, cioè l’essere aperti a nuove idee e approcci nuovi, alla ricerca e
valutazione di soluzioni originali, all’assunzione di prospettive inedite senza
lasciarsi paralizzare dal timore del rischio. Non è la semplice ricerca del
nuovo fine a se stesso - nuovo non è sinonimo di migliore - o il lasciarsi guidare dalle mode, ma l’essere flessibili alle richieste di cambiamento poste
dalle nuove circostanze adottando risposte e strategie adeguate; essere
padroni di sé significa anche saper riconoscere i bisogni e innescare o gestire il cambiamento.
LA MOTIVAZIONE
È data dall’insieme delle tendenze emotive che guidano, sostengono o
facilitano il raggiungimento di obiettivi. La motivazione comporta sia la
spinta alla realizzazione personale - connessa al cercare la propria soddisfazione proponendosi obiettivi stimolanti, orientandosi al risultato, e coltivando l’impulso a migliorare le proprie prestazioni - sia l’impegno nel dare senso
e sostegno anche ad un eventuale lavoro d’équipe.
La motivazione è sorretta da uno spirito di iniziativa che consiste in una
tensione all’obiettivo, al di là di quanto viene prescritto e degli impedimenti burocratici, e nella prontezza a cogliere le opportunità. In ultimo la motivazione è caratterizzata da una buona dose di ottimismo inteso sia come
capacità di essere costanti nel perseguire gli obiettivi al di là degli ostacoli
incontrati e degli errori commessi, sia come capacità di puntare sulla speranza di successo e non sulla paura del fallimento. Una solida competenza
personale con la conseguente capacità di individuare correttamente i propri
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sentimenti e bisogni, consente anche di mettersi in sintonia con i sentimenti degli altri.
Questa è la radice prima dell’empatia, cioè della capacità di comprendere gli altri nei loro sentimenti, punti di vista, interessi, preoccupazioni,
mediante un ascolto attivo.
Le abilità alla base della “competenza sociale”
L’EMPATIA
È, come già detto, insieme alle abilità nelle relazioni interpersonali, alla
base di una delle due grosse competenze su cui si fonda l’intelligenza emotiva nell’ambito della competenza sociale.
Sviluppare empatia significa far risuonare dentro di sé i sentimenti degli
altri come se fossero i propri e senza dimenticare i propri, in una sorta di
vicinanza senza confusione. È l’accettazione incondizionata degli stati d’animo così come vengono offerti nella relazione. Non si può discutere o negoziare il modo in cui gli altri provano un’emozione. Possiamo discutere o
disapprovare i comportamenti, ma non le emozioni sottostanti.
Nell’essere empatici, accanto alla condivisione dei sentimenti, c’è anche
la valorizzazione degli altri, che si manifesta nel credere nelle persone, nel
mettere in risalto e potenziare le loro abilità, nel sostenere la loro autonomia, nel rispettare le loro diversità individuali, etniche e ideologiche, nell’utilizzare le differenze come opportunità al di là di ogni pregiudizio.
LA COMUNICAZIONE
In conclusione, si può affermare che non esiste solo un’intelligenza di
tipo cognitivo, ma ne esiste un’altra, di pari importanza, di tipo emotivo relazionale, che ci consente di capire meglio noi stessi e di interagire in
modo più efficace con gli altri3.
5. Intelligenza emotiva e progetto formativo
Credo davvero che per declinare una siffatta correlazione occorra ritornare al concetto di creatività e domandarsi: “Che cosa può significare la
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creatività come fonte e metodo di sviluppo del potenziale educativo della
persona? Significherà andare incontro ad un giovane, ad un allievo, lasciargli la responsabilità di sbagliare, ma chiedergli di non mentire a se stesso;
ascoltarlo, dargli il senso di aiuto e di appoggio alla sua crescita, senza creargli illusioni, senza cadere in facili psicologismi diagnostici. Fargli scoprire
che un processo di conoscenza è innanzitutto processo di disciplinamento
interiore. E così veramente porlo in condizione di discernere la creatività
dalla libera spontaneità; fargli capire che la creatività è bisogno; bisogno
maturato dal continuo tirocinio dell’autonomia, dell’iniziativa e della critica,
dell’errore e della verifica, dell’ascolto e dell’invenzione.
La creatività segna il passaggio della differenza; ma quest’ultima non si
coglie senza intelligenza emotiva. Nel cogliere la differenza fra conoscente e
conosciuto è il passaggio attraverso cui la coscienza di sé diventa apprezzamento del potenziale umano. Oggi si apprende quanto più e quanto meglio
qualcuno o qualcosa ci aiuti a sapere di sapere e a saper usare il nostro sapere. L’ideale socratico universalistico del “sapere di non sapere” appare purtroppo oggi utilizzato piuttosto come un alibi per insegnare male o per
apprendere peggio, al punto da poter essere brandito come gagliardetto sfilacciato di una scuola e di un’educazione antica. Il “sapere di non sapere” è
invece la soglia massima di umiltà, di disciplina dello spirito, di senso delle
cose, di rispetto per l’anziano, di rigore nella ricerca e nel tirocinio a cui può
pervenire solo un giovane a cui si sia insegnato a saper perdere senza
3 - Occorre invece impegnarsi a tutti i livelli nel prospettare e nel favorire lo sviluppo dell’intelligenza emotiva sia degli adulti che dei soggetti in età evolutiva. Per intelligenza emotiva, come s’è visto, intendiamo la capacità di armonizzare il pensiero e i sentimenti, la parola con i vissuti emotivi, la dimensione mentale con la dimensione affettiva. In particolare
l’intelligenza emotiva prevede le seguenti competenze:
• la capacità dell’adulto e del bambino di riconoscere, rispettare e mettere in parola il
mondo soggettivo dei sentimenti e delle emozioni;
• la capacità di controllare gli impulsi emotivi senza reprimerli e senza entrare in conflitto
frontale con essi e senza neppure, tuttavia, farsene travolgere;
• la capacità di sviluppare l’efficienza mentale e la comprensione della realtà e di motivarsi in
modo globale (con la razionalità e con l’emotività) al raggiungimento di obiettivi e finalità;
• la capacità di percepire e comprendere le emozioni altrui, riuscendo ad essere sensibili
ed empatici;
• la capacità di interagire positivamente con le persone, di trattare con efficacia le interazioni, i conflitti, i problemi comunicativi e relazionali con gli altri.
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nascondere a se stesso le cause oggettive delle sconfitte; un giovane a cui si
sia insegnato a conoscere i suoi reali saperi attraverso un continuo e sistematico “ritorno verso le cose reali”.
Insomma la relazione educativa che si richiede è un’impresa talmente
ardua che non può essere gestita in termini di leggi e di circolari o di organigrammi. Qui il nodo fondamentale della relazione educativa a mio giudizio
è perciò dato dalla capacità del progetto formativo di esplicitare e gestire un
rapporto difficilissimo tra Bildung e Ehrziehung e cioè tra educazione e formazione nel tumultuoso evolversi della “società della conoscenza” 4.
4 - Il termine “knowledge society” è più correlato di quanto non si pensi con gli imperativi della globalizzazione dei mercati e dell’economia e con quello dell’occupazione. Diffusosi internazionalmente nel
1984 (l’anno di Orwell per intenderci), all’incrocio tra letteratura, misure amministrative e dibattito
politico sociale, il termine si è imposto come paradigma dell’avvento di nuove opzioni sociali e tecniche tanto più necessarie quanto più dilagante si faceva- per cause oggettive- il fantasma di una grande paura: quella di una supervisione totale -per via informatica- delle scelte private e dei comportamenti pubblici degli attori sociali. Totalizzazione obbligata dell’informazione, urgenza di creare nuove
e più complete competenze atte a pianificare e a governare meglio la società della conoscenza(e i suoi
rischi, per l’appunto). Creato da scienziati dell’informazione, il concetto trascina una visione che non
contiene traccia di prospettive sociali, politiche o economiche. E perciò resta inadeguato - a dispetto
dell’immaginario che veicola - nel configurarsi come vettore di conoscenza: infatti il messaggio è che
ognuno può arricchire sé stesso grazie all’informazione. La sostanza tecnica del messaggio è che è possibile convertire vecchi e nuovi sistemi tecnici attraverso la tecnologia del computer, nonché collegarli ad ogni nuovo processo. Il risultato sarà quella televisione cablata e interattiva grazie alla quale si
preconizza noi potremo ordinare beni, gestire transazioni bancarie, lavorare a casa. Ma l’aspetto centrale della società della conoscenza resta ancora una volta il medium, non il messaggio. Con tutto ciò
il concetto di “società della conoscenza” investe tutte le sfere della vita pubblica e privata, ed è la stessa assenza di ogni sia pur minima definizione sul contenuto di questa nuova società a favorirne un uso
-nel dibattito- quasi esclusivamente centrato sui suoi significati tecnici e sulla sua promessa di potere, grazie all’informazione. L’assunzione in base alla quale il pensiero e l’azione dell’uomo sono destinati a cambiare ovvero ad essere rimpiazzati dai modelli tecnici di elaborazione dell’informazione è tuttavia entrata in crisi nel corso degli anni ’80: il momento dell’avanzata tecnologica della nostra società è stato incapace di prevedere le condizioni di incertezza nella scelta e nelle decisioni del presente.
Il travaglio odierno dell’Europa dell’Est dimostra come nessun settore terziario può sopravvivere dove
sia assente industria e produzione. In Occidente il computer non ha sostituito il libro tradizionale o la
sostanza tradizionale dell’educazione.
Insomma, a dispetto della evidenza pervasiva della società della conoscenza, allorché guardiamo alle
sue origini e ai suoi fondamenti concettuali, scopriamo che essa si fonda su un modello tecnocratico
di vita e di pensiero: un modello che pensa ancora in termini computabili (non funzionali) la complessità; in termini di ordine centralizzato (non decentrato né auto-organizzativo) le strutture sociali; in
termini di conoscenza esistente (e non in termini di processi di esperienza) le strutture dell’operare e
dell’esistere . Se poi cercassimo di identificare la visione economica di tale “società della conoscenza”
scopriremmo che essa non è auto-organizzativa, flessibile, orientata a promuovere apprendimenti
organizzativi. È piuttosto una fabbrica computerizzata senza uomini. Negli anni ’80 abbiamo sperato
che le tecnologie dell’informazione e dell’automazione6 fornissero una risposta alla recessione e alla
crisi della produzione di massa sviluppando sistemi integrati ed esperti di manifatture. Esse hanno
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Il concetto di Ehrziehung richiama, invero, una linea ed una tradizione
che la interpretano come introduzione alla realtà e, per questa strada, alla
realtà totale, nel senso di sistema di esperienze e di conoscenze padroneggiato nel modo più, articolato e completo, cioè coerente con lo sviluppo
della cultura e della civiltà di riferimento. Per Bildung invece si intende sempre di più lo sviluppo del potenziale personale, lo sviluppo dei propri talenti fino al massimo livello possibile, e per quello che è consentito, in una
dimensione di solidarietà, di comunicazione, di percezione dell’altro come
parte obbligante di sé, non eliminabile della propria esperienza.
Inserire la padronanza emotiva nella propria esperienza significa sviluppare un itinerario di ascolto sistematico: le due linee non sono in contrasto,
sono piuttosto le due facce di un percorso unitario. Con cosa ci confrontiamo invece oggi? Abbiamo una derivata riduttiva di entrambe a livello istruzionale.
Sul piano della organizzazione delle conoscenze, cioè dei programmi di
insegnamento e dell’aggiornamento dei contenuti del sapere l’entropia delle
conoscenze e l’abbondanza dei contenuti in continua espansione e in contemporanea auto-esautorazione pone in imbarazzo le istituzioni scolastiche,
le aule e le agenzie formative. Sicché diviene incerto il significato stesso
mantenuto le promesse, ma solo in un contesto di centralizzazione della pianificazione, del controllo
e della supervisione dei processi di produzione. Al di fuori di tali condizioni, esse si sono rivelate incapaci di assicurare quel livello di flessibilità nel frattempo richiesto dall’evoluzione dinamica dei mercati. È ormai chiaro che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono essere
applicate solo entro una logica ferrea di riduzione dei costi associata a strategie centralizzate di controllo della produzione e dei servizi. Le nuove tecniche di elaborazione dell’informazione posseggono
dunque solo un’anima economica, e solo quando vengono associate a metodi flessibili di produzione;
solo quando competenze funzionali e specialistiche vengono collocate in presa diretta sul posto di
lavoro; solo quando la produzione e il lavoro hanno trovato soluzioni alla crisi ovvero quando i processi di lavoro sono stati resi più flessibili da pratiche di auto-organizzazione.
Ma al postutto il paradigma della “società della conoscenza”, pur resistendo e dilagando, mostra le
corde proprio sul terreno dell’apprendimento e della speranza di lavoro che al primo viene collegata.
La società della conoscenza, portata fino al suo compimento logico, altro non è che l’espressione della
sproporzione radicale tra i limiti temporali, spaziali e sociali imposti alla vita umana e la potenziale infinità e illimitatezza di acquisizione dei dati. È in questa disparità che emerge il problema cruciale della
qualità dell’occupazione e quello della qualità della formazione. Perché i dati assicurati da una
qualsiasi network non possono a rigore costituire di per sé informazione. È solo nella
mente umana che i dati possono ricevere significati, vengono elaborati e valutati. Ed è solo
entro un contesto di comunicazione sociale che questa informazione può trasformarsi in
giudizio, produrre scelte e decisioni, dar luogo a linee d’azione.
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della conoscenza necessaria da assicurare ai giovani. E L’Ehrzieung si trasforma soprattutto in organizzazione dei processi di alfabetizzazione di
massa. Il che rappresenta indubbiamente una necessità e un dovere. Bisogna che tutti accedano alla possibilità di parlare e di intelligere. Ma per corrispondere a questa domanda stiamo correndo il rischio di perdere la
sostanza del problema; la quale è data essenzialmente dal rispetto di un
principio: si parla e si comprende tanto più quanto meglio si impara ad
ascoltare, insomma a pensare i sentimenti. Nessun programma di alfabetizzazione di massa riuscirà mai da solo a corrispondervi in modo rigoroso e
autentico.
Sul terreno della organizzazione degli apprendimenti, la scoperta cognitiva del fatto che nessun apprendimento può dirsi veramente sentito come
tale e realmente appreso se esso non si mostra capace di rappresentarsi
emotivamente a se stesso e agli altri è criterio di tale selezione della qualità
degli apprendimenti da risultare di difficile percorribilità da parte delle scuole; le quali - a loro volta - raramente possono permettersi di qualificare i propri ambienti come ambienti realmente formativi. Peraltro la scoperta cognitiva non fa che spiegare qualcosa che già avviene da sempre nella vita e nella
pratica individuale; e che da sempre, per deficienza e limite della ricerca psicologica e scientifica, aveva finito per essere abbandonato al caso e all’arbitrio. Oggi che la tecnologia della comunicazione, la stessa complessità del
vivere quotidiano, portano naturalmente ciascuno a vivere la propria relazione con il mondo, con gli altri e con i saperi nella costante dimensione del
sentire, la pedagogia torna a ricordare che nessun apprendimento può dirsi
veramente significativo per il soggetto se qualcuno non glielo rende davvero
significativo. Insomma non può esservi ancora formazione su contenuti isotipici; non si dà formazione su linguaggi spezzati; non formazione su modelli di pensiero, di comportamento, di ricerca e di studio, sganciati da una educazione al dono come evento dei sentimenti. Poiché ciò non è, l’esperienza
della personalizzazione dei propri apprendimenti percorre i sentieri sghembi dell’approssimazione forzata alla qualità e al risultato. Sì che gli apprendimenti di tutti si configurano come apprendimenti prossimali, fatti cioè di
giustapposizioni spesso caotiche, di modelli spezzati e o parziali, di meccanismi di interiorizzazione non intimamente e completamente visitati. E l’organizzazione degli apprendimenti si fa per tutti un lungo difficile cammino di
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Sisifo, dove troppe continuano ad essere le risorse sprecate.
È per questa via che la Bildung dell’uomo postmoderno ha finito per
configurarsi come una linea spezzata, tormentata, incerta e alfine incapace
di interagire pienamente con una Ehrzieung istituzionalizzata altrettanto
inadeguata. Per gli stessi motivi la relazione educativa non può permettersi
soltanto di essere giocata sul piano isolato di uno solo dei fattori citati. Questi la qualificano, e la certificano storicamente; ma i suoi contenuti e i suoi
paradigmi, ebbene il loro significato storico ci provengono da una cultura,
da una esperienza e da una vita che si è costantemente alimentata ed evoluta in modo più rigoroso dei suoi più rigorosi analisti.
Limitandoci qui a descrivere i segni di quella che presentiamo come una
vera e imminente rivoluzione educativa, il contesto di transizione difficile e
delicata che stiamo vivendo a livello planetario sembra invitarci a riflettere
su un fatto che naturale non è e che mal tollera ogni ipocrisia. Stiamo passando nel contesto della relazione educativa, quale si determina nella cifra
del sentire individuale e collettivo, dal paradigma scuola o della cultura linearsequenziale, alla paideia multilaterale e multimediale. Stiamo cioè evolvendo dall’equazione scuola/libro (cui corrisponde anche un modello logicista assai diffuso di analisi psicologica dei bisogni educativi), ad una in cui i
termini dell’equazione sono dati fondamentalmente dall’oggettivarsi e dal
compiersi di un più profondo e intimo rapporto tra semantica e cultura.
Come si scopre che lo sviluppo della mente del bambino è da considerarsi non più solo equivalente ma ontogeneticamente omologo allo sviluppo
delle sue funzioni filogenetiche, così si passa a privilegiare fondativamente
una equazione diversa per l’istruzione e la formazione. I termini dell’equazione non sono più dati dalla scuola e dal libro (logica = psicologia), ma da
quelli dell’immagine, del sentire e dell’ascolto (semantica = cultura). Sembrerebbe insomma che alla paideia della scuola che ha sicuramente onorato
i processi di alfabetizzazione di massa, oggi vada sostituendosi una paideia
della relazione adulta, una paideia multilaterale, cioè, che privilegia un paradigma di generazione del valore come strategia antropologica significante
l’umano di tipo non lineare e ricorsivo. Secondo tale nuovo paradigma l’apprendimento si fa prossimale anziché sequenziale, e la scuola da “chiostro”
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si fa “specchio”. Lo specchio riflette, ma rischia di riflettere sempre se stesso. È forse questa l’immagine che rende la cifra di una complessità impegnata a giocare la sua ultima partita “a somma zero” con il rischio educativo, per
quanto inavvertita essa risulti della sua destinazione.
Certo il problema della difficile paideia odierna sarà anche un problema
di numeri, di produttività dei sistemi scolastici e formativi e quant’altro; ma
è soprattutto, a questo punto, problema di qualità delle persone, di qualità
di apprendimento e di insegnamento cooperativi, di riconquista del senso
storico, di tematizzazione rigorosa del valore. Occorre ormai reimpostare le
questioni al di fuori di ogni ipocrisia sociale e istituzionale: che cosa significa, ad esempio, mettere al centro della scuola l’allievo senza adoperarsi
strutturalmente per colmare il deficit di comunicazione culturale e di relazione educativa che lega i giovani al difficile rapporto con gli anziani per un
verso, e al loro futuro per l’altro?
Insomma oggi i giovani chiedono, i genitori si attendono e gli stessi insegnanti percepiscono in maniera sempre più cogente che la relazione educativa deve tornare ad intercettare tre categorie: la categoria della speranza,
la categoria della personalizzazione, la categoria della cultura.
6. Il principio speranza
La categoria della speranza dice che, paradossalmente, a dispetto di
vent’anni di teorizzazioni di tipo economico e sociale, il futuro dello stato
sociale passa per la formazione. La misura di questa sfida è presto quantificata: secondo Delors l’Unione Europea deve puntare alla creazione di 15
milioni di posti di lavoro entro la fine del secolo. E il nostro Paese, per partecipare appieno alla costruzione della nuova Europa, deve fare ancora di
più, recuperando da qui in poi le divergenze reali che già oggi lo allontanano irrimediabilmente da una soglia di speranza percorribile. Il problema dell’occupazione è ormai molto più che una condizione fisiologica dello sviluppo: il 23% in Spagna, l’11% in Francia, l’8,1% nella ex Germania orientale;
circa il 12% in Italia (stime febbraio 1994) con punte del 18% nel nostro
Mezzogiorno5.
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Tutto ciò avrebbe, tuttavia, le caratteristiche del “deja vu” qualora non
lo si correlasse con altri due fattori che rendono planetaria la sfida occupazionale, facendola fuoriuscire da un registro meramente economico e
ponendola invece al centro della riflessione sulle politiche educative e sulle
strategie sociali possibili per il prossimo futuro.
Tali fattori consistono per un verso nella crescita della popolazione attiva nei Paesi in via di sviluppo e per l’altro nella forte accelerazione dei flussi migratori da questi verso o Paesi industrializzati. È fenomeno molto più
rilevante di quanto non sembri per la stessa riforma dei programmi e dei
percorsi formativi del XXI secolo6.
Dunque in una società multietnica, la competizione sul costo del lavoro
non potrà più essere regolata da misure difensive, può essere affrontata e
gestita solo sul terreno della qualità e della equivalenza delle competenze.
In una società dalle forti e rapide oscillazioni economiche non ci sarà più un
tempo per capitalizzare e un tempo per spendere quanto si è risparmiato. In
Europa si stima già oggi che un quarto della popolazione attiva si colloca
intorno alla soglia di povertà: un poco al di sotto o poco più su. Tutto ciò
5 - I dati strutturali della situazione italiana sono noti ma vanno doverosamente ricordati:
- modesto tasso di occupazione della popolazione attiva (in Italia solo il 37% degli adulti, negli Usa il
51%, in Giappone il 46%, in Europa il 40%);
- alta incidenza dei giovani e delle donne nelle fasce di disoccupazione (in Italia l’88% dei disoccupati
contro il 63% della media europea);
- un mercato del lavoro particolarmente chiuso e protetto con regole che difendono soprattutto che
un lavoro l’ha già;
- forte squilibrio strutturale tra Nord e Sud sia in materia di occupazione che di produzione. Si può
lavorare meno, ma certo al Sud non lavorerebbero mai tutti. Il lavoro di cui si dovrebbero ridurre gli
orari, per redistribuirlo, sta purtroppo prevalentemente al Nord.
- inadeguata capacità di competizione internazionale per la stragrande maggioranza delle piccole e
medie aziende.
L’incremento recedente delle esportazioni non va frainteso: è soprattutto dovuto alla svalutazione
della lira nonché alla capacità micro-imprenditoriale di salvaguardare nicchie di mercato. Ma ciò non
consente di affermare una capacità di competizione internazionale che ha bisogno di altre logiche e di
ben altri investimenti sovra-individuali.
6 - Intorno al 2015 l’Africa subsahariana fornirà da sola - secondo stime OCSE (1993,122), e ogni anno,
un contingente di popolazione attiva in cerca di lavoro quattro volte superiore a quello congiunto dei
Paesi Europei, di quelli dell’Est e dell’ex Unione Sovietica. Nei prossimi 25 anni un miliardo di aspiranti al lavoro si aggiungerà ai 2 miliardi circa di forza lavoro registrata nel 1990 all’interno di tutti i
Paesi OCSE. E parallelamente al tasso di disoccupazione giovanile si stima che andrà crescendo - in
misura proporzionale- il tasso di disoccupazione delle categorie più istruite della popolazione attiva.
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crea (e creerà sempre di più) un mercato del lavoro ad altissimo tasso competitivo soprattutto fra i soggetti meno dotati di potere contrattuale. Si comprende come per questa via e a queste condizioni lo stato sociale ponga a se
stesso una questione di sopravvivenza7. Senza lavoro non si danno persone,
non si danno cittadini, non si danno uomini che possano esercitare liberamente i propri diritti. Ma lo stato sociale oggi sa che la disoccupazione giovanile è irrecuperabile; i tassi di disoccupazione, non solo giovanile, sono
tassi irrecuperabili a breve. E se per il breve ci si muove sul piano della concertazione internazionale delle politiche economiche e finanziarie, sul
medio e lungo periodo l’unica risposta seria appare essere quella di por
mano ad una profonda radicale riforma delle strategie formative, degli
ambienti scolastici, della qualità della relazione educativa.
Ma per quello che riguarda la categoria della speranza, questa speranza
i giovani la percepiscono nel senso che per primi dubitano profondamente
della efficienza e delle efficacia delle misure tanto insistentemente declamate o promosse dagli Stati nazionali e dagli organismi sovranazionali. E ne
traggono conseguenze per molti versi lungimiranti. Una implicazione tra le
tante: se il miglioramento dell’occupazione nell’Unione Europea dipende dal
conseguimento di una competitività globale, su mercati mondiali altamente
concorrenziali e instabili; e se il capitale umano è fattore decisivo a tal fine;
allora anche nell’istruzione - oltre che nella formazione - è oramai necessario ragionare in termini di vantaggi competitivi e non più di vantaggi comparativi. Questi ultimi corrispondono tradizionalmente alla disponibilità di fattori quali le risorse naturali, professionali e finanziarie, le norme di gestione
e di uso di ciascun tipo, i piani di utilizzo e di sviluppo. Sono perciò abbastanza rigidi, settoriali, di facile strutturazione e di difficile combinazione
strategica. I vantaggi competitivi sono invece basati su elementi qualitativi
7 - Lo stato sociale si regge infatti su un patto costitutivo: esso offre servizi sociali di interesse e pubblica utilità, di cui uno in particolare è il lavoro. Ovviamente col lavoro, la speranza del lavoro e di un
lavoro non sottoqualificato. Perciò tutti accettano di pagare un’istruzione che costa progressivamente
di più quanto più il lavoro si complessifica sia nei contenuti che nella organizzazione; perciò tutte le
famiglie accettano anche di tenersi i figli fino a ventotto e trent’anni a casa, perché di fatto, tramontato il sogno della laurea con il posto fisso, tutti però confidano che a fronte di un investimento che costa
moltissimo, di fatto esista comunque una rete di solidarietà sociale incarnata da un soggetto pubblico
che con proprie regole garantisce il rispetto del patto. Costi e partecipazione complessiva agli oneri
dello stato sociale in cambio di occupazione piena.
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e cioè sulla capacità di combinazione e di ricombinazione costante delle
risorse e dei mezzi a disposizione; sono anzi ampiamente influenzabili dalle
strategie di scelta e di decisione degli attori sociali come dalle politiche pubbliche. Con tali parametri la mobilità delle risorse a disposizione, la capacità di abbinare efficacemente e di impostare un consenso sociale sul loro utilizzo e sulla ripartizione del loro valore aggiunto diventano elementi molto
più importanti della continua rincorsa alla disponibilità delle risorse, quale
si è avuta finora come cultura dominante entro un’ottica di vantaggi comparativi.
La qualità dell’istruzione e della formazione non può allora più essere
misurata dai vantaggi comparativi che essa può promettere. Prospettive e
indicazioni quali quella di B. Bloom (1979) appartengono appunto, all’epoca in cui era ancora possibile bilanciare il tempo di apprendimento, il tempo
di lavoro e quello del divertimento nella vita di un uomo. In sintesi Bloom
definisce la qualità dell’istruzione come “quel grado di adeguatezza degli stimoli, dell’esercizio e del rinforzo dell’apprendimento ai bisogni dell’allievo”,
sì che essa risulti misurabile in quanto differenza tra le caratteristiche degli
allievi (prima che essi vengano esposti ad un intervento di istruzione) e
quelle che i medesimi presentano in conseguenza dell’apprendimento sviluppato. Ciò che infatti - secondo Bloom - può alterare il rapporto tra il
prima e il dopo nelle caratteristiche degli allievi, è proprio ciò che egli definisce la qualità di istruzione.
Questo modello non regge più alla prova dei fatti, perché non risulta né
sufficientemente esplicativo né predittivo. Non è esplicativo, perché non
consente di comprendere perché e in che modo la personalità dell’allievo (il
suo potenziale di apprendimento) si auto-organizza e si auto-modella per
corrispondere alla complessità del suo attuale mondo di vita, utilizzando e
filtrando anche gli interventi di istruzione. Non è predittivo, perché, limitandosi il modello a descrivere i vantaggi comparativi acquisibili dall’allievo in
conseguenza di un intervento di istruzione, esso perde di vista il reale termine di confronto, che per l’allievo non è la scuola, ma il lavoro o la sua esistenza per sé.
Un trend inedito della categoria speranza viene ad essere così rappre-
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sentato dal bisogno di assicurarsi vantaggi competitivi: esso insieme unifica
e divide tutti gli attori sociali: dall’allievo (e la sua famiglia) che chiede
apprendimenti qualificati da vantaggi competitivi, all’insegnante che ne è
richiesto e che deve garantirli anche per difendere il proprio posto di lavoro, all’istituzione che è chiamata a sviluppare politiche formative e non più
solo politiche di istruzione. Li unifica nel bisogno, li divide nella fruizione e
nella negoziazione. Il clima che li circonda è dato dal prevalere dell’insicurezza evocata da una “società della conoscenza” che sembra poter dare tutto
a tutti, ma che in realtà da solo a chi più può. La cruna dell’ago si fa così più
sottile tanto per l’occupazione che per la formazione, e la sfida forse troppo
impegnativa per gli strumenti concettuali a nostra disposizione. Occorre
infatti riempire l’onnipotenza della tecnologia di contenuti che l’esistenza
umana può comprendere; convertire la neutralità dei dati in standard formativi impegnativi per la pratica del lavoro; dimostrare i concreti benefici
delle tecnologie per i processi di formazione e di lavoro in quanto tali e per
gli obiettivi individuali di vita.
Ma se il bisogno (per la formazione e per il lavoro) di porre un’attenzione crescente alla sostanza della tecnologia e ai suoi contenuti procede da un
bisogno ancor più originario, e cioè dalla necessità di rivalutare la prospettiva del pieno impiego come diritto compatibile, insomma come speranza
per quanti partecipano - appunto - dei benefici della società del conoscere;
se qui è il punto focale di sfida, allora anche per i pedagogisti è giunta l’ora
di abbandonare i propri orticelli autoreferenziali e di impegnarsi in un programma di ricerca sull’uomo capace di attivare sistematiche, non occasionali, interazioni di studio, di ricerca e di progetto con tutti i settori della ricerca scientifica, tecnologica e culturale. Si tratta insomma di rilanciare il programma bruneriano sul significato dell’educazione al futuro : un programma di ricerca, intendo, aggiornato su nuove basi e sviluppato come strategia
multilaterale e teoreticamente conclusiva di riorganizzazione storica e paradigmatica delle Scienze della Formazione.
7. La categoria della personalizzazione8
I giovani sanno che la qualità della formazione va misurata sui vantaggi
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competitivi che possono derivare o meno dalla loro partecipazione ai processi formativi, e che consisterà nel grado di auto-organizzazione che
mostreranno di aver raggiunto nel combinare e nel dirigere a buon fine gli
stimoli, gli esercizi, le risorse che la società, il lavoro e la formazione hanno
insegnato ad utilizzare in modo proprio. La categoria-speranza sul versante dei giovani si traduce così logicamente in una meta significativa: personalizzazione di talenti esperti. Questo la scuola attuale non può assicurarlo
anche volendo, per la sua particolare organizzazione a canne d’organo con
un centro amministrativo onnipresente, a sua volta impastoiato in una normativa dirigistica e immobilistica e ossessivamente preoccupato di garantire a se stesso, comunque sia, la propria eterna sopravvivenza. Che signifi8 - L’idea fondamentale che regge la scienza cognitiva nel suo complesso è che la mente umana non è solo
un complesso sistema di elaborazione delle informazioni; è ancor più partner di un continuo e ricorsivo processo di trasformazione e di conservazione di reti di informazioni. Non si può più sostenere semplicemente che le informazioni, che ci provengono dal mondo esterno in varie forme (visive, linguistiche, ecc.) sono quei certi condizionamenti culturali che vengono, poi, decodificati, elaborati e integrati dalla mente attraverso una serie di processi costruttivi ed organizzativi che ne rappresentano gli
apprendimenti. Il prodotto di tali trasformazioni è, invece, allo stesso tempo ciò che guida tali processi costruttivi e organizzativi dell’esperienza e ciò che dà forma culturale ai meccanismi di elaborazione delle informazioni organizzati in modo stabile e conservati permanentemente nella memoria
(memoria a lungo termine). Sono tali interiorizzate e personalizzate strutture di informazioni che forniscono la “cornice” entro la quale i nuovi eventi esperienziali vengono assimilati e integrati. I modelli culturali diventano, così, secondo la recente prospettiva cognitiva, la trama narrativa dei processi di
apprendimento e di personalizzazione dei medesimi. È in memoria che le informazioni guadagnano
stabilità e ricorsività. Ogni processo di acquisizione di nuove conoscenze può dunque considerarsi allo
stesso tempo guidato dai paradigmi e dai modelli di esperienza che già possediamo (conceptually driven) e guidato dai nuovi che riceviamo (data driven) (Bobrow e Norman, 1975; Norman e Bobrow,
1975). La misura in cui, di volta in volta, l’acquisizione di nuove conoscenze è determinata da ciò che
è presente nella mente o da ciò che, per la mente è nuovo, varia chiaramente di caso in caso (talvolta
prevale l’attività di interpretazione del nuovo in base a ciò che già si sa, altre volte invece è prevalente il peso degli elementi, o dati, nuovi). In ogni caso, ogni attività di acquisizione di nuove conoscenze si configura come un’attività di “comprensione” o integrazione di tali conoscenze con le strutture
di conoscenze preesistenti. Ne discende che per un siffatto “ecosistema di reti mentali” il motore principale delle continue interazioni è un processo reciproco e multipolare di interpretazione. Si comprende, da un lato, perché all’interno della prospettiva delineata, memoria/comprensione/apprendimento
costituiscano settori di indagine strettamente interrelati (Paris e Lindauer, 1977); e come anzi l’ipotesi-guida di molte delle ricerche in corso consista nel sostenere che il processo della comprensione e
quello dell’apprendimento siano sostanzialmente simili, nel senso che entrambi sono processi di
costruzione in memoria di relazioni culturali, cioè di rappresentazioni di informazioni dotate di significato. (Poggi,1991). È altresì evidente perché l’analisi dei processi di comprensione, di lettura e di
scrittura di testi assuma crescente rilevanza euristica non solo per la scienza cognitiva o per la psicopedagia dell’apprendimento scolastico, ma altresì, in generale, per la ricerca educativa e didattica.
Interrogativi antichi acquistano nuovo sapore alla luce del discorso fin qui svolto: come sono organizzate le conoscenze? Come si sviluppano? Come vengono recuperate e usate? Quali metodi o tecniche
educative sembrano utili per facilitare l’acquisizione di conoscenze nuove? (Anderson e altri, 1977).
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ca invece personalizzare? Ogni allievo sa di essere una risorsa non ricuperabile a livello di ecosistema planetario; ogni allievo sa di essere indispensabile per quello che riguarda la sopravvivenza di se medesimo. Lo intuisce
e lo esperimenta; solo non sa fino a che punto tutto ciò sia decisivo per la
qualità del suo futuro. Rendere trasparente la cifra metodica di ogni contenuto di conoscenza e di esperienza che sia insegnato, è forse l’unico modo
per aprire l’expertise dei saperi al potenziale cognitivo e umano di ogni
allievo. Cimentandosi creativamente con essa, egli misura il proprio differenziale di apprendimento, e riesce ad incontrare, nelle forme a lui congeniali, i saperi esperti. Non si limiterà per questa via ad apprenderli: li farà
suoi imparando a padroneggiarli. E così facendo imparerà a sviluppare al
massimo grado possibile e per quanto gli sarà possibile o gli parrà conveniente i suoi talenti.
8. La categoria della cultura
Per questa via di ragionamento, certo le responsabilità storiche della
nostra generazione si fanno più pesanti. L’organizzazione delle conoscenze
e degli insegnamenti a livello accademico appare infatti sempre più essere
la vera causa, per quanto non unica e definitiva, di una visione che privilegia lo steccato alla comunicazione, la nicchia alla responsabilità sul risultato finale; il bizantinismo delle interpretazioni e dei controlli causidici all’agire cooperativo e responsabile. Certo non sono tempi da invitare a “lanciare
il cuore oltre la siepe”; ma sicuramente i modi della cooperazione e della
comunicazione scientifica tra intellettuali testimoni di esperienze disciplinari diverse sono ancora lunghi e difficili da conseguire. Eppure dobbiamo
prenderne atto e dichiararlo: se la ricerca educativa e pedagogica, ma più
generale la stessa ricerca universitaria non è capace di comprendere e di
sintonizzare le proprie categorie logico-disciplinari, sì che tutti si parlano ma
nessuno si ascolta allora c’è un passaggio molto stretto che bisogna tornare
ad attraversare. Qui davvero si tratta di riformulare la “missione dell’intellettuale” come nuova frontiera della società della conoscenza 9.
Intendo per tale la vita come ricerca, la fuoriuscita definitiva da una ben
precisa retorica dell’illuminismo che, a furia di esaltare la scomposizione
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infinita delle conoscenze come fondamento dell’accesso universale al sapere e dunque principio di ogni diritto di parola, ha finito con il far dimenticare come non v’è diritto di parola che tenga quando esso non si accompagni
all’esercizio del diritto alla parola intelligente. E come per questa via, si
rischi di perdere, con il senso e il valore del problema del metodo, la stessa
conoscenza.
Chi ci insegna il coraggio della verità? I giovani sono stanchi di cono9 - Un buon esempio ci deriva dal confronto dei nostri saperi con la questione circa il futuro della tecnologia. Si può dire infatti della tecnologia sia che elimini sia che crei lavoro. Generalmente essa distrugge i salari più bassi, i lavori a produttività minore, perché crea lavori che sono più produttivi, richiedono abilità più elevate e meglio remunerate. Gli effetti sul reddito sono di solito superiori a quelli provocati dai processi di riconversione produttiva; e il progresso tecnologico risulta accompagnato non
solo da un incremento di produttività, ma anche da un innalzamento generalizzato dei tassi di occupazione. Tuttavia la transizione dalle vecchie alle nuove tecnologie è un processo impegnativo che crea
confusione e incertezza tra le abilità che la gente possiede e quelle di cui ha bisogno. Il gap tra lavoratori che beneficiano del cambiamento tecnologico e quanti invece ne rimangono esclusi rischia di
diventare una nuova questione sociale. Infatti l’adozione di nuove importanti tecnologie sul lavoro si
realizza di solito solo dopo un lungo periodo di apprendimento e comporta sempre un cambiamento
organizzativo maggiore e spesso difficoltoso sul posto di lavoro.
Inoltre va radicandosi la convinzione che, nei Paesi industrializzati siano state seriamente sottovalutate le difficoltà connesse alla diffusione e all’applicazione delle nuove tecnologie dell’informazione.
Reali ed espliciti benefici per l’occupazione, in conseguenza delle NTI, risultano realizzarsi solo quando esse vengono completamente adattate e integrate nell’organizzazione del lavoro. Comunque difficoltà rilevanti nell’assorbire le nuove tecnologie sono state rilevate in tutti i Paesi industrializzati,
anche se per situazioni o problemi differenti: in Germania e in Svezia, ad esempio, considerati Paesi
leader nell’uso delle NTI, numerose aziende sono state costrette a rallentare i processi di riorganizzazione e di rimodellamento dei sistemi produttivi per i contro-effetti negativi che manifestava l’automazione dei processi di produzione industriale. Non c’è dubbio, tuttavia, che la tecnologia produca nuova
occupazione. Negli anni ‘70 e ‘80 il Giappone ha realizzato il 4% di incremento annuo nell’occupazione industriale, in conseguenza dell’uso massivo di alta tecnologia sia nella produzione che nel commercio. Nello stesso periodo in Europa, si assisteva ad un decremento di occupazione industriale del 20%,
specie nelle industrie a bassa tecnologia. Oggi si può solo affermare che i benefici occupazionali connessi all’uso delle NTI si registrano in modo evidente solo nelle industrie che assemblano componenti ovvero nelle industrie di processo; e piuttosto nelle grandi imprese che in quelle medio-piccole. Non
a caso gli organismi sovranazionali (OCSE, UE, EFTA) insistono da anni nel raccomandare alcune politiche ben precise: 1. evitare che i sussidi all’occupazione continuino ad essere generici, a rallentare
piuttosto che a stimolare significative trasformazioni nell’organizzazione del lavoro oltre che nei processi produttivi; 2. rimuovere gli ostacoli all’assorbimento delle NTI specie da parte delle piccole
imprese assicurando soprattutto standard, protocolli e protezione dei diritti e dei dati; 3. educare e
istruire in ambienti tecnologicamente avanzati le nuove generazioni: e questo proprio allo scopo di
annullare progressivamente il gap esistente tra i modelli tecnologici di sviluppo organizzativo del lavoro e la tecnologia usualmente applicata nella maggior parte delle imprese. Con tutto ciò non può dirsi
casuale il grande incremento, della disoccupazione, specie giovanile, a dispetto degli sforzi finora fatti
in materia. Più che una rivoluzione culturale, le NTI hanno rappresentato finora - per il mondo del
lavoro nella sua generalità - una protesi artificiale.
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scenze opache. Chi ci insegna a rispettare l’altro, anche se è un perdente?
Essi vogliono soprattutto sapere, e scoprire in che modo anche un paradigma “perdente” continui a fecondare lo sviluppo di percorsi di ricerca, di studio o di esperienza storica. Stare insieme, per andare...verso dove? Non
terapeuta, né confessore, non tribuno, né mentore, non supermercato né
fai-da-te della conoscenza: come costruire con loro uno spazio, un tempo e
un pensiero capaci di intercettare una relazione educativa insieme antica
e... “novissima”?
Se son queste in fondo le loro domande fondamentali, su di esse deve
tornare ad innestarsi una relazione educativa eminentemente esperita come
Bildung; e dunque riorganizzarsi un pensiero scientifico, una storiografia,
una ricerca all’altezza del compito.
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UNA RISORSA PER IL PROGETTO FORMATIVO DELLA SCUOLA
Giuseppe VICO
Ordinario di Pedagogia, Università Cattolica, Milano
GLI EFFETTI DEL CONFLITTO
SULL’EFFICACIA DEL PROGETTO FORMATIVO
La scuola tra nodi e snodi
Ritengo che le molte analisi e i tanti studi dedicati alla “istituzione-scuola” abbiano spesso, se non rimosso, per lo meno assunto l’“istituzione” come
aspetto secondario, quasi accessorio, complementare della realtà scuola.
Nel rapporto tra istituzione e scuola, pertanto, i conti non tornano e occorre riprendere in esame lo “statuto” di entrambe per porre in luce somiglianze e differenze, risvolti tautologici e identità precise, risvolti metaforici e
narrativi di due realtà che devono essere entrambe rivalutate alla luce di
tutto ciò che di positivo l’ “età dei diritti” ha offerto all’uomo e alla società in
termini di possibilità concrete di esercizio dei diritti e dei doveri e di affermazione della dignità e della libertà della persona. La Costituzione e la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, entrambe del 1948, aprono un
periodo nuovo e costituiscono la base forte per dare inizio ad un cammino
di rigenerazione e di liberazione di uomini, istituzioni, comunità attraverso
quelle forme di partecipazione diretta alla vita politica e civile che rendono
attori le persone e le istituzioni protagoniste del presente e del futuro.
La scuola, con la propria memoria storica e con la consapevolezza di
essere tra gli attori principali nell’opera di costruzione del futuro dei giovani e della società, ha assunto i principi e gli ideali portanti dell’Italia democratica e, pur tra difficoltà enormi, le cui eredità si fanno tuttora sentire, si
è posta come coscienza educativamente vigile, discreta e pronta anche a
tanti sacrifici per intraprendere il cammino civile e didattico in ordine alla
edificazione di una scuola sempre più a misura di tutti gli alunni e di ciascun
alunno e nella prospettiva di una progettualità educativa che avesse come
fine prioritario quello della formazione dell’uomo e del cittadino. La fase
postbellica della ricostruzione, del boom economico, della accelerazione
spesso convulsa dei processi di secolarizzazione e di modernizzazione tecnologica e televisiva hanno spesso posto la scuola di fronte a scelte la cui
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presa di posizione richiedeva non solo innovazioni didattiche bensì revisioni radicali del modo di intendere i rapporti umani, le diversità, le subculture, gli emarginati ecc.
La scuola ha recitato forse le sue pagine più belle e fortemente innovative proprio negli anni Sessanta e Settanta del secolo XX allorché ha assunto, per assunzione in proprio di una nuova coscienza scolastica, educativa e
didattica delle “diversità”, il compito epocale dell’inserimento e dell’integrazione degli alunni “handicappati” e quello altrettanto rilevante del “disadattamento scolastico“ attraverso la declinazione di una logica didattico-educativa non più centrata sulla emarginante istituzione di classi di aggiornamento, differenziali e sperimentali. La cultura del tempo e la classe magistrale
seppero dare vita ad un evento innovativo e creativo in prospettiva di una
nuova assunzione dell’idea di uomo e di alunno, le cui differenze non si
ponevano e non si pongono su un piano antropologico ed etico-civile bensì
su quello didattico e nelle possibili declinazioni di quest’ultimo in termini di
progettazione sempre più competente, di individualizzazione e di personalizzazione dei percorsi formativi, di apertura al contributo partecipativo
delle famiglia e della comunità alla vita della scuola.
“La vita educa”, scriveva Edoardo Spranger, ed educa anche sul piano
informale, oltre che su quello formale, quando le intenzionalità della scuola,
della famiglia, del territorio danno vita ad una collaborazione armonica di
competenze specifiche finalizzata alla promozione di una cultura, di una
scuola e di una didattica attente al fine dell’uomo che deve diventare sempre più uomo e cittadino. La Legge 1859, del 31 dicembre 1962, istitutiva
della scuola media unica dell’istruzione obbligatoria, sintetizza in un evento
veramente “rivoluzionario” il conseguimento di un traguardo, in virtù del
quale nella società e nella scuola nulla sarebbe più stato come prima. Dal
1963 e nei decenni seguenti milioni di preadolescenti ebbero la loro scuola,
una loro identità di preadolescenti-studenti, un loro ruolo in una istituzione
che, per dettato della Legge istitutiva, era scuola del preadolescente, di tutti
e di ciascuno, dell’uomo e del cittadino.
A questo punto è opportuno riprendere l’assunto iniziale, quello della
scuola-istituzione, per identificare, a parere di chi scrive, una accentuazione dell’importanza della scuola e una sottolineatura in tono minore dell’istituzione. Come già sottolineato, appare chiaro anche nell’analisi dell’evoluzione della stessa scuola media unica dell’istruzione obbligatoria come in
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UNA RISORSA PER IL PROGETTO FORMATIVO DELLA SCUOLA
quella riferita ad altri ordini di scuola, la scarsa considerazione della scuola
come istituzione della quale prendersi cura e nella quale e per la quale operare altresì per il bene dei dirigenti, dei docenti, degli alunni e di quella cultura peculiare della scuola come ambiente educativo di apprendimento che
è costituita fondamentalmente di memoria del passato, di immaginazione e
di speranza nel futuro, di coscienza attenta al presente e al vissuto attuale
degli alunni e di tutti coloro che nella scuola operano e con essa partecipano ad attingere fini e obiettivi personalizzati e in prospettiva di un mondo
migliore perché più giusto, frutto di conquiste culturali ed etiche perché “La
cultura è una sorta di rivoluzione permanente. Dire “cultura” equivale a tentare ancora una volta di spiegare il fatto che il mondo umano (il mondo plasmato dagli esseri umani e il mondo che plasma gli esseri umani) è eternamente, inevitabilmente e irrimediabilmente noch nicht geworden (non
ancora divenuto) per usare un’elegante espressione di Ernst Bloch” 1.
Pensare, oggi, alla storia della nostra scuola significa fare i conti con gli
apporti delle scienze dell’educazione, con lo sviluppo culturale e tecnologico, con il relativismo e la caduta di valori etici, personali ed educativi, con
tante eclissi e tramonti del secolo XX. La scuola, tuttavia, non può essere
assunta sempre e solo come “cartina al tornasole” di ciò che non va, delle
urgenze e delle emergenze, ultima spiaggia di tanti fallimenti educativi e
diseducativi ecc. L’istituzione scuola, nella sua peculiarità giuridico-istituzionale, culturale, sociale, civile e formativa è forse la realtà più ricca di fermenti culturali, proprio perché, seppur in forma non sempre riflessa, a volte
spontaneistica, ma sempre con intenzionalità innovativa e didattica, ha cercato di tenere il passo con gli apporti più significativi della cultura contemporanea. Scuola viva, scuola attenta, ma con scarsi mezzi e con insufficienti riconoscimenti sul piano dell’immaginario collettivo spesso più attento e
più disponibile verso l’effimero e il passeggero piuttosto che verso la
“sapienzialità” educativa e didattica; la fatica dell’insegnare e dell’apprendere; la dirigenza di scuole, vere e proprie “esperienze-limite” tra la proposta
formativa e la complessità conflittuale di un territorio specifico; lo scarso e
avvilente riconoscimento economico del personale docente. Eppure genitori e alunni, oltre la scorza grezza dei condizionamenti culturali e delle finzio1 - Z. BAUMAN, K. TESTER, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Cortina,
Milano 2002, p. 33.
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ni ipocrite dei massmedia in difesa della scuola, credono in essa e ne riconoscono l’alta valenza educativa e didattica. Cose, è bene dirlo, da cogliersi
su quella linea di un orizzonte lontano, di un impegno che dura nel tempo,
di una progettazione personalizzante spesso neppure gratificata da un pur
minimo esito valutabile. La scuola, anche all’inizio del terzo millennio, non
può non appellarsi allo spirito dell’educazione, allo stile umano e competente delle interazioni, all’atmosfera attenta, lungimirante e tesa a dare e ridare fiducia agli alunni secondo pensieri che non possono cadere nella quotidianità vuota di senso ma che trascendono il semplice fare scuola per mantenersi sul livello da dove è ancora possibile scorgere desideri e aspirazioni
e operare con una sufficiente dose di speranza quotidiana in ordine alla salvaguardia della dignità personale e istituzionale. Scrive Keith Tester: “Tale
dignità consiste nel trascendere le umiliazioni quotidiane e nel lottare, sul
piano della pratica e dell’immaginazione, per creare un’alternativa idonea
per l’umanità. La sociologia è importante, perché consente una simile rilettura dell’immaginazione e della pratica, perché priva le strutture, le relazioni e le istituzioni dominanti dell’aura di invulnerabilità di cui hanno un
disperato bisogno” 2.
Paul Ricoeur ci dice che l’uomo deve avere cura di sé, cura degli altri, in
istituzioni giuste. In un suo libro, La persona, scrive cose quasi analoghe,
ma con una differenza che è bene tenere presente: cura di sé, cura degli
altri, cura delle istituzioni. Riflette sulla persona e indica nella cura delle istituzioni uno dei compiti fondamentali. È un invito a riflettere anche sull’istituzione scuola, spesso lasciata sullo sfondo come se fosse sufficiente vivervi per essere dirigenti, docenti, alunni e genitori. L’istituzione ha bisogno di
tutti e, in modo peculiare, dei protagonisti di ciò che in essa si avvera in
ordine alla convivenza, alla condivisione, alla partecipazione e alla personalizzazione dei vissuti e dei processi formativi. Pensiamoci: un supplemento
di “cura” all’istituzione produrrebbe forse esiti imprevisti e contribuirebbe a
renderla, proprio in virtù della nostra assunzione di responsabilità, anche
più “giusta” e meglio percettibile dall’immaginario collettivo.
2 - K. TESTER, Introduzione a Z. BAUMAN, K. TESTER, Società, etica, politica. Conversazioni con
Zygmunt Bauman, pp. 13-14.
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Il primato della speranza
Il progetto formativo va interpretato ed elaborato come dimensione qualificante la professionalità nel suo quotidiano esercizio. Alcuni punti critici
richiedono una particolare considerazione proprio in prospettiva di gestione del conflitto e di mediazione, perché: “la pluralità e la difficoltà dei temi
che la scuola si trova oggi ad affrontare e che le sono vieppiù delegati, senza
che sia contestualmente maturata, o per meglio dire riconosciuta, un’elaborazione critica dei problemi e delle questioni connesse con la crescente
complessità del ruolo educativo e di integrazione sociale al quale sono chiamate a far fronte tutte le istituzioni educative” 3.
La scuola appare sempre al centro della problematica del disagio, della
emarginazione, delle “diversità”. Si tratta di una centralità non più diretta,
spesso delegata in tutto e per tutto, costretta all’autarchia interpretativa e
ad una faticosa e quasi impossibile declinazione educativa e didattica delle
interpretazioni degli interventi. Condizione spesso paralizzante e tendente
a sollecitare dall’interno della scuola giochi di finzione e mediazioni, interventi, prassi simulate e destinate all’inerzialità e alla quotidiana assuefazione ad una frustrazione che finisce addirittura per esaurirsi in una vuota interazione tra docenti e alunni.
È tempo di pensare in modo sistemico e, alla luce degli esiti di una ricerca, identificare le competenze per accostare il disagio principalmente fuori
della scuola e ritrovare la valenza di ciascun contributo “dall’interno” della
pratica scolastica e didattica, l’attribuzione del disagio a fattori primari in sé
esterni alla scuola (caratteristiche dell’alunno, famiglia, contesto, eventi
pregressi), l’impressione di trovarsi di fronte ad una problematica che sfugge ad una definizione nitida e che richiede un concorso sistemico di competenze e di risorse per farvi fronte e il coinvolgimento di più istituzioni educative o non peculiarmente educative (Tribunale per i minorenni)4.
La formazione, come dimensione professionale deve essere sempre più
attenta: agli snodi epistemologici e strategico-progettuali della formazione
nella prospettiva dello sviluppo delle professionalità della scuola; alla corresponsabilità di tutti gli interlocutori implicati in un percorso formativo; alla
3 - R. VIGANÒ, Scuola e disagio: oltre l’emergenza, Vita e Pensiero, 2005, p. 198.
4 - Ibi, pp. 197-214.
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circolarità fra teoria e pratica, azione e formazione, sapere d’azione (sapere
agito) e azione pensata.
Il disagio, anche se manifesto, è di incerta interpretazione e dissemina
incertezze, quindi ingenera ulteriori sentimenti di disagio e di insoddisfazione e la fiducia nella scuola e nelle sue competenze processuali e diacroniche
non matura se non come serie indefinita di moti spontanei.
Paradossalmente, ma non troppo, una scuola alla ricerca di se stessa si
trova nella pesante condizione di dovere interpretare periodicamente il suo
rapporto con le varie forme di disagio con le quali deve cimentarsi e per le
quali deve pur sempre elaborare qualche progettualità. La sfida che proviene da varie parti e le condizioni di un disagio che finisce spesso per coinvolgere sistemicamente scuola, famiglia e società, accentuano la bellezza e la
difficoltà del rischio educativo. Occorre in effetti riflettere che: “L’intoppo
consiste nel fatto che, pur sapendo che cosa fare (e che cosa evitare), non
disponiamo della capacità di spingere gli affari umani nella direzione desiderata. Non ci manca la conoscenza del bene e del male; è la capacità e la
voglia di agire in base a quella conoscenza a essere assente da questo nostro
mondo, in cui le dipendenze, la responsabilità politica e i valori culturali
imboccano strade diverse e non si tengono più sotto controllo reciprocamente. Tra la conoscenza e l’azione e tra l’azione e le sue conseguenze si
spalancano abissi spaventosi potenzialmente apocalittici” 5.
Nonostante tutto, della scuola dobbiamo avere un concetto alto. Non
siamo affatto all’ultima spiaggia. Un certo disfattismo diffuso, ma non più
dilagante, continua a predicare rassegnazione, assuefazioni alle frustrazioni
incombenti, scuola svuotata della ricchezza della sua tradizione. Il nostro
tempo, la nostra quotidianità, ci inducono alla ricarica spirituale, alla sottolineatura costante della scuola come istituzione che ha retto l’urto della
modernità, della postmodernità e della globalizzazione connotata da una
iperaccelerazione di processi e di interazioni locali e planetari. La scuola ha
retto e resiste: fino a quando potrà sopportare il peso e la zavorra di mancati aiuti, di latitanze politiche, di disinteresse delle famiglie e della società.
Eppure, dopo avere sottolineato il dovere dello Stato di garantire alla scuola e ai docenti una migliore dignità e identità in tutti i sensi, dobbiamo porre
in risalto, alla luce della nostra esperienza di docenza alla SSIS, una atten5 - Z. BAUMAN, K. TESTER, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Barman, p. 137.
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zione e una motivazione crescenti nei giovani per la professione docente.
Non si tratta solo di corsa ad un posto di lavoro bensì di un desiderio di
entrare nello spirito e nelle dinamiche culturali, didattiche, interattive ed
educative che nella scuola ancora emergono e che hanno nelle dimensioni
antinomiche della asimmetricità/simmetricità, delle dinamiche insegnamento/apprendimento, del rapporto autorità/libertà, dell’interazione scuola/
famiglia il fulcro di quei prerequisiti antropologici ormai in grave crisi nel
resto della società.
Crisi dalla quale occorre uscire soprattutto con strumenti culturali e con
l’esercizio di questi strumenti in stato di condizione potenziale in ogni uomo.
Ciascuna agenzia educativa dovrebbe porsi anche l’interrogativo sul perché
tale esercizio sia in parte venuto meno: tra ragione e decisione non dovrebbe esistere sconnessione e il superamento dei conflitti, come acquisita abitudine alla gestione del desiderio di procedere oltre i conflitti in prospettiva di condivisione, cooperazione e solidarietà, dovrebbe promuovere dialettiche efficaci tra dimensione della progettualità e dimensione della mediazione. Il tutto non può non rivestire un senso politico e progettuale. La scuola, ma non solo la scuola, dispone di quei prerequisiti indispensabili per rigenerarsi in virtù della promozione di tutti e di ciascuno, nella scuola dell’uomo e del cittadino, nella personalizzazione di una proposta culturale che,
proprio perché metodologicamente alta ed educativamente condivisa,
orienta gradualmente al recupero ormai indilazionabile dell’“argomentazione razionale”, del sapere fare silenzio sulle cose essenziali, dell’ascoltare le
voci delle coscienze che si destano, del progettare contro i rischi dell’intolleranza nella pedagogia delle piccole cose quotidiane e del populismo massmediatico sempre più condizionato dall’emotività e sempre più povero di
possibilità di argomentare. Ridefiniamo compiti e fini della scuola e delle
istituzioni educative extrascolastiche, realtà che oltre a potere dare vita ad
un sano e produttivo connubio tra formale e informale, sono le ultime spiagge dell’argomentazione razionale, dell’attenzione, della cura e del servizio
alla persona nella continuità formativa. Evidentemente non si tratta solo di
“salvare” naufraghi di ogni genere, bensì di pensare e di convincersi sull’attitudine degli enti educativi a contribuire alla costruzione di un ethos, di un
collante etico e civile, nel quale vivere “bene”, educare ed educarsi alla realizzazione del bene comune, promuovere l’autonomia delle persone, liberare la dignità delle diversità dai pregiudizi e dai vuoti di senso. In questa luce,
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la rete intenzionale delle presenze formative dovrebbe connotarsi altresì per
la prospettiva escatologica. Nessuna attività umana si situa al di fuori della
sfera dei valori etici e la formazione su questi ultimi apre dimensioni escatologiche di sicura valenza educativa.
La possibilità che nella scuola si possano ancora vivere dimensioni valoriali, formative e didattiche antropologicamente alte e ineliminabili dalla vita
dell’uomo, ci induce a riflettere positivamente sul fatto che la scuola costituisce ancora la realtà istituzionale nella quale la persona può trovare
opportunità per realizzarsi come attitudine alla piena umanizzazione, come
desiderio di trascendere l’esistenza ridotta a quotidianità attraverso un’opera di liberazione e di rigenerazione, come intenzionalità a pensare e ad agire
in ordine all’“attingimento” di fini e finalità personali e comunitari, condivisibili, partecipabili e traducibili in progettualità concrete e fattibili. La scuola non è certo tempo e spazio di conflittualità permanente. È il luogo, invece, nel quale proprio l’evento educativo e formativo dà vita a conflitti che
sollecitano a interrogare, divergere, innovare, formare e formarsi. Tutti
eventi che nascono dal convergere nei processi maturativi di componenti
affettive, interattive, culturali, scientifiche nelle loro declinazioni reali, simboliche e metaforiche. Da sottolineare che: “L’insegnante vive nella dimensione del mutamento per diverse motivazioni: lavora con soggetti che stanno crescendo, le caratteristiche degli stadi evolutivi cambiano, la società si
modifica e originano nuove domande, muta l’organizzazione del lavoro dentro l’istituto scolastico, emergono competenze strategiche; ricerca e cambiamento rappresentano pertanto snodi critici con cui costui deve confrontarsi” 6.
La società del nostro tempo, con i suoi problemi di sempre e con quelli
radicalmente nuovi della mobilità umana a livello planetario, della bioetica e
della qualità della vita, dello sviluppo sostenibile e delle povertà del mondo,
dello sviluppo tecnologico e del contributo che esso può offrire a ricchezze
e povertà in prospettiva di sviluppo equo, giusto e solidale, forse desidera
una scuola che ancora non ha. E la scuola, dal canto suo, chiede risorse, formazione e competenze per essere sempre meglio all’altezza della situazione
e per reggere con intelligenza, creatività e strumenti adeguati il confronto
6 - K. MONTALBETTI, La pratica riflessiva come ricerca educativa dell’insegnante, Vita e Pensiero,
Milano 2005, p. 135.
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con le tante richieste dei giovani e dei non più giovani. I conflitti non mancheranno: sapremo gestirli e, mediando, ricondurli su sentieri meglio percorribili? Ritengo sia un po’ anacronistico e masochistico pensare alla scuola come ambiente educativo di apprendimento e di nuova cultura e in termini di istituzione imprescindibile per formare uomini e cittadini, con la preoccupazione forse un po’ eccessiva ai conflitti e alla loro gestione. Intento
degno di attenzione anche se la strada del futuro, che stiamo già percorrendo, sembra chiederci soprattutto cultura per condividere, partecipare, cooperare e, soprattutto, sperare. Una scuola che non educasse al desiderio di
speranza, non promuovesse alla elaborazione di progetti di vita e ad una
fede, non orientasse attraverso cultura e testimonianze alla cura degli altri,
alla solidarietà e alla cooperazione, non riuscirebbe a compiere la funzione
peculiare che ogni tempo assegna all’esito dell’interazione qualitativa tra
giovani e adulti: la consegna, a chi viene dopo di noi, di considerare soprattutto i bambini e i giovani senza pregiudizi e senza accoglienze preconfezionate. Aldo Capitini osservava: “Il bambino non è la nostra continuazione, ma
è l’annuncio di una possibilità nuova. Egli non viene dal passato, come noi,
da quella mescolanza di bene e di male in cui siamo dibattuti (…), il bambino viene da altro, viene da una realtà liberata e nuova” 7.
7 - A. CAPITINI, Aggiunta religiosa, Parenti, Firenze 1958, p. 266.
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Annamaria FIORILLO
Sostituto Procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Milano
I VALORI E I PRINCIPI DELLA MEDIAZIONE
PER LA RISOLUZIONE DEI CONFLITTI
NEL PROGETTO FORMATIVO DELL’ADOLESCENTE
1. La mediazione è un’espressione della cultura della pace
La mediazione non è un tema tecnico per addetti ai lavori, né una moda
e tanto meno un’utopia.
È un aspetto dell’educazione alla pace che deve essere costante conquista dell’uomo specialmente in un’epoca di globalizzazione come la nostra in
cui il conflitto estremo tra civiltà rischia di compromettere lo sviluppo sostenibile e la stessa sicurezza del pianeta.
Si pensa abitualmente che questo sia un argomento che compete ai Capi
di Stato ai Grandi della Terra e che sia molto lontano dalle persone comuni,
anche da chi come noi ha scelto di svolgere un ruolo istituzionale o una funzione sociale che lo porta a confrontarsi ogni giorno con i problemi del
malessere della famiglia, della violenza sui bambini, della devianza degli adolescenti.
E invece l’educazione alla pace riguarda ciascuno di noi nella concretezza della nostra vita.
In questo senso l’Assemblea dell’O.N.U nella risoluzione 37/73 del
15.02.1978 impegnando tutti gli Stati, le loro politiche, i loro modelli di educazione, i metodi d’insegnamento, così come le attività ed i mezzi d’informazione a preparare la società tutta ed in particolare le nuove generazioni alla
vita nella pace, propone la pace stessa non solo come obbiettivo dei governi, ma come impegno attivo di ogni singola persona per la parte che ha nella
società civile.
Gandhi ha detto: “Non esiste una via per la pace, la pace è la via”.
Nel preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del
1948 si legge che il fondamento della pace (come pure della libertà e della
giustizia) è nel riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della
famiglia umana e dei loro uguali diritti.
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Ciò significa che la pace può costruirsi soltanto attraverso mezzi non violenti, pacifici appunto, e nel rispetto della persona umana.
È un atto di pace l’educazione culturale che solo la scuola può impartire come antidoto contro retoriche bellicistiche e pregiudizi razziali.
È un atto di pace liberarsi della necessità di investire un giudice di una
decisione che vedrà vincitori e vinti e dare alle parti in conflitto la possibilità di giungere ad una soluzione condivisa.
La mediazione serve a questo: rende possibile il dialogo tra parti confliggenti che non riescono a comunicare, è strumento di pace, di più, è pace
essa stessa.
2. La mediazione è già legge in Europa
La Raccomandazione nr. 9919 del Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa obbliga i Paesi membri ad adottare la mediazione penale entro il
2006.
Ma già in precedenza ed in particolare con riferimento ai minori la legislazione europea era intervenuta per sollecitare l’approvazione di una disciplina normativa in tema di mediazione da parte dei singoli stati.
L’art. 13 della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei bambini
di Strasburgo 25.01.1996 chiede agli stati d’incoraggiare l’attuazione della
mediazione per raggiungere l’accordo nei casi appropriati al fine di prevenire o risolvere i conflitti ed evitare procedimenti giudiziari riguardanti i bambini.
In Italia pendono in Parlamento molteplici progetti di legge.
Tra i più noti quello di carattere generale nr. 302 del 30 maggio 2001 presentato da Violante e altri deputati e quelli in materia minorile a firma dei
deputati Lucidi/Valpiano e del senatore Cutrufo.
Il 19 dicembre 2003 è stata fondata a Parigi l’associazione Europea
GEMME (Gruppo Europeo dei Magistrati per la Mediazione) con sede presso la Corte di Cassazione francese, di cui fa parte la Prof. Martello.
Il 2 luglio 2004 si è svolto a Roma presso il C.S.M. il primo incontro della
sezione italiana del GEMME che è costituita, oltre che da magistrati, da
docenti universitari ed esperti.
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3. La mediazione giudiziaria in Italia
Il primo spazio per la mediazione giudiziaria in Italia si è creato proprio
in ambito minorile grazie all’art. 28 D.P.R. 448788 che prevede la possibilità
d’impartire al minore imputato sottoposto alla messa alla prova “prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e promuovere la conciliazione
del minorenne con la persona offesa”.
Il primo esplicito riferimento normativo alla mediazione in ambito minorile riguarda i servizi di mediazione familiare che sono previsti dall’art. 4 L.
nr. 285/1997 per il superamento delle difficoltà relazionali in famiglia e/o con
i figli minori.
La legge nr. 274/2000 sulla competenza penale del Giudice di Pace prevede che per i reati perseguibili a querela di parte il giudice promuova la
conciliazione tra le parti con facoltà di avvalersi dell’attività di mediazione di
centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio.
È dello stesso anno anche l’introduzione di modelli di giustizia riparativa nell’ambito dell’esecuzione penale dei soggetti adulti.
L’art. 27 D.P.R. 30 giugno 2000 nr. 230 stabilisce che “l’osservazione della
personalità dei detenuti deve comportare anche una riflessione sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”.
Con Decreto 26.02.2002 viene istituita la Commissione di Studio sulla
Mediazione Penale e la Giustizia Riparativa nell’ambito del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria.
La Legge nr. 154/2001 novella il codice civile ed il codice di procedura
civile introducendo la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi
familiari.
Tali ordini si fondano sull’esistenza di un grave pregiudizio all’integrità
fisica o morale o alla libertà del coniuge o convivente, se si tratta di un fatto
non costituente reato perseguibile di ufficio.
Oltre all’allontanamento familiare dell’autore dell’abuso è previsto il possibile intervento dei Servizi Sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, oltre a quello di associazioni che curano il sostegno e l’accoglienza di donne, minori e di ogni altra vittima di abuso e maltrattamenti.
La legge sull’affido condiviso (L. 8 febbraio 2006 nr. 54) aggiunge al cod.
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civ. l’art. 155 sexies che prevede la facoltà dei coniugi di ricorrere alla
mediazione familiare per elaborare un progetto comune che disciplini i rapporti familiari futuri.
4. La mediazione penale nel processo minorile
Come si è detto il processo minorile ha rappresentato un importante
laboratorio per sperimentare le possibilità di applicazione della mediazione
nell’ambito più vasto della giustizia riparativa.
L’art. 28 D.P.R. 448788 che disciplina il preziosissimo istituto della messa
alla prova prevede la possibilità che il Giudice imponga all’imputato ammesso al progetto “prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa”.
La giustizia riparativa si fonda:
- sulla rivalutazione della vittima all’interno del processo;
- su di un nuovo concetto di responsabilità dell’autore che tiene conto
non solo e non tanto del comportamento illecito posto in essere, e
quindi della definizione del reato, ma piuttosto delle conseguenze che
il reato ha prodotto nella vittima.
Questo secondo profilo assume fondamentale rilievo nell’ambito del processo minorile che è improntato in ogni suo aspetto alle esigenze educative
del minore.
All’interno del progetto di messa alla prova l’attività riparatoria più consueta è tradizionalmente quella socialmente utile che rappresenta una
forma di riparazione indiretta e di natura simbolica.
Il pregiudizio che l’autore del reato deve risarcire è il danno sociale e,
dunque destinataria della riparazione è la collettività; la parte lesa in questo
caso non entra in gioco e non ottiene alcuna riparazione effettiva del danno
subito.
L’impegno socialmente utile può avere affetti positivi sull’autostima,
sulla responsabilizzazione e sullo sviluppo della personalità e produce effet-
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ti riparativi nel momento in cui restituisce alla società un giovane più
responsabile, più maturo.
L’incontro tra l’autore e la vittima del reato rappresenta tuttavia lo strumento e l’espressione più nobile della giustizia riparativa.
La mediazione è già in sé riparazione.
Una mediazione positiva comporta quanto meno una riparazione interiore.
Ma anche quando la mediazione non raggiunge un risultato pienamente
positivo c’è pur sempre un riavvicinamento, quanto meno il sorgere della
consapevolezza che esiste la possibilità di una comprensione reciproca.
La mediazione è il luogo dell’ascolto e della parola e in quanto tale
soprattutto per il minore autore di reato rappresenta una modalità comunicativa alternativa all’agito attraverso il quale si è manifestato il disagio ed il
conflitto.
Presso il Tribunale per i Minorenni di Milano viene attuato da alcuni anni
un programma sperimentale secondo le direttive previste nei protocolli d’intesa firmati tra il Centro di Giustizia Minorile e gli enti locali.
Durante il processo la mediazione viene inserita nel progetto di messa
alla prova, fermo restando che la sua realizzazione nonché l’esito positivo
richiedono necessariamente la collaborazione della vittima del reato e di
questo naturalmente occorre tenere conto.
Per dare un’idea dell’applicazione della messa alla prova nell’ambito di
giurisdizione del T.M. di Milano si segnala che nell’ultimo anno (dal 1° luglio
2004 al 30 giugno 2005) i processi (udienza preliminare e dibattimento)
sono stati 2101; di questi 183 sono stati sospesi per la messa alla prova: in
107 casi l’esito è stato positivo e la definizione è stata una sentenza declaratoria di estinzione del reato.
Presso la Procura per i Minorenni di Milano, d’intesa con l’Ufficio di
Mediazione, è invalsa la prassi di iniziare la mediazione anche anticipatamente, nel corso delle indagini preliminari su impulso del P.M.
Oltre che per i reati di minore gravità procedibili a querela di parte
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(minacce, ingiurie, percosse, lesioni e danneggiamenti) la mediazione è
stata attuata anche in fattispecie complesse (lesioni gravissime, violenza
sessuale, incendio doloso, rapine ed estorsioni) coinvolgenti talora più
imputati e vittime.
Il monitoraggio complessivo svolto da una recente ricerca C.N.P.D.S.
(centro nazionale di prevenzione e difesa sociale) e da successivi approfondimenti consente di affermare che l’esperienza è positiva.
5. Malessere sociale e devianza giovanile
Livia Pomodoro, Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano,
nella Relazione sull’attività dell’ultimo anno giudiziario scrive (pag. 8):
“Il livello di conflittualità personale e familiare che coinvolge i
minori è sempre più alto e difficile da dirimere, così come si moltiplicano le situazioni di disagio e le violenze nei confronti dei più deboli.
Vicende sempre più gravi e complesse, come la cronaca racconta
quotidianamente, vedono i bambini e i ragazzi oltre che vittime, protagonisti attivi di violenze anche sconcertanti che trovano spesso la
loro origine nella disattenzione ai loro bisogni.
La società italiana ormai in continua, veloce trasformazione omologa sempre più cittadini a modelli non del tutto positivi.
Sono certamente in aumento fenomeni di confusione e difficoltà di
comprensione della realtà e dei bisogni individuali e familiari: è diffuso un malessere che coinvolge sempre di più tutte le agenzie primarie di educazione di crescita, la famiglia, la scuola, il tempo libero.
Il Tribunale per i Minorenni rimane in tale quadro un irrinunciabile punto di riferimento per l’utenza”.
Con riferimento alla materia penale considerazioni diverse devono svolgersi per i minori stranieri rispetto a quelli italiani.
A questo riguardo va detto che i detenuti nel Carcere Minorile Beccaria
sono circa per metà stranieri (nord africani, prevalentemente magrebini, e
nomadi provenienti dai Paesi dell’Est, prevalentemente romeni) e per metà
italiani.
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Le tendenze nella tipologia dei reati sono differenti: furti nei supermercati, borseggi nelle metropolitane e furti in appartamento per i nomadi;
spaccio, furti e rapine per i nord africani.
Per quanto concerne i reati contro il patrimonio, dal 1° luglio 2004 al 30
giugno 2005 i furti consumati e tentati sono stati 1347, le rapine tentate e
consumate 277, le estorsioni tentate e consumate 45.
Se è vero che il numero di tali delitti è leggermente diminuito, tuttavia,
va segnalato che i comportamenti dei ragazzi italiani per i reati che riguardano l’impossessamento di cose, in particolare rapine e scippi, appaiono
sempre più caratterizzati da violenza e sintomatici di un profondo disagio
collegato a gravi carenze educative di tipo familiare e all’abbandono scolastico.
“I fatti delittuosi più gravi, omicidi, tentati omicidi e lesioni gravi hanno
visto un lieve incremento da un punto di vista statistico, ma l’aspetto più
preoccupante è che esprimono una violenza talora gratuita e spesso si ha
l’impressione che la vita abbia una dimensione virtuale.
Alle spalle di questi ragazzi vi sono relazioni familiari distorte, mancati
percorsi educativi con riferimento al rispetto della persona e all’affermazione della legalità” (pag. 46 e 47 della relazione citata).
Relativamente ai reati di gruppo, danneggiamenti, estorsioni, rapine e
violenze private, rappresentano la punta di iceberg di episodi di bullismo e
prepotenza agiti nella scuola e fuori di essa nei confronti di coetanei più fragili ed indifesi.
Si tratta di comportamenti emulativi di un mondo degli adulti vissuto
come sordo e prevaricante, finalizzati ad acquisire potere sui coetanei che
sottintendono modelli fuorvianti proposti dalla società mediatica e testimoniano un disagio crescente nella società attuale e in alcuni casi un vero e
proprio malessere esistenziale.
Spesso questi ragazzi appartengono non a famiglie di criminali, bensì a
famiglie apparentemente “per bene”, ma diseducanti e quindi patogene.
“I genitori sono inconsapevoli delle loro carenze affettive ed educative e
non si pongono altro problema che quello del benessere economico per sé e
per i figli; convivono con figli che non conoscono a cui prestano attenzioni
solo materiali delegando ad altri, prevalentemente la scuola, i compiti di formazione.
Le carenze affettive ed educative sono spesso il frutto di stili di vita fami-
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liare privi di forti riferimenti culturali, sociali e soprattutto morali.
I comportamenti dei giovani vengono persino giustificati dagli stessi
genitori, educati come i figli a ritenere in una falsa, televisiva e mistificante
società del benessere, che tutta la qualità della vita vada ricondotta al profitto facile, al godimento immediato e superficiale, al rigetto del valore morale della fatica per conquistarsi con il lavoro la conoscenza e un’identità
vera.” (pag. 49 della relazione citata).
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Riflessioni intorno alla formazione
Interventi dei Dirigenti scolastici
che hanno iniziato a seguire i corsi
Bibliografia di riferimento:
M. Martello
Oltre il conflitto, Mc Graw-Hill, Milano, 2003
M. Martello
Intelligenza emotiva e Mediazione, Giuffrè, Milano, 2004
M. Martello
Mediazione del conflitto e counselling umanistico, Giuffrè, Milano, 2006
M. Martello
Conflitti parliamone, Sperling e Kupfer, Milano, 2006
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UNA RISORSA PER IL PROGETTO FORMATIVO DELLA SCUOLA
Salvatore Leone
Dirigente scolastico - Istituto comprensivo di Bollate (Mi)
BENESSERE A SCUOLA
Consapevoli delle responsabilità e delle potenzialità innovative connesse al ruolo di direzione, promozione e coordinamento attribuite al Dirigente
scolastico, è risultato naturale durante gli incontri di formazione provare a
gettare un po’ di luce su alcune zone tradizionalmente poco considerate,
anche se nel dibattito pedagogico più lungimirante e sensibile cominciano
ad assumere un rilievo decisamente emergente.
I temi che cercherò di esporre in questa mia breve relazione hanno attraversato solo marginalmente le stimolanti conversazioni avute nel corso di
formazione per Dirigenti scolastici incentrato sulla “Mediazione”, ma sono
rimasti sullo sfondo della nostra riflessione comune ed hanno rappresentato il naturale rimando al nostro compito di educatori. Pur rimanendo latenti nell’insieme delle problematiche affrontate, hanno costituito un riferimento ideale e professionale costante ed ineludibile.
Pur in maniera estremamente succinta, per mancanza di tempo, proporrò alla vostra riflessione alcune idee guida riguardanti:
- l’alfabetizzazione emotiva in ambito scolastico,
- l’indagine sul benessere a scuola svolta nelle classi primarie del II Circolo
didattico di Senago.
In apertura vi propongo un prezioso passaggio del film di I. Bergman
“Scene di vita coniugale”.
Giovanni rivolgendosi alla proprio moglie, da cui si è separato, afferma:
“Ti dirò una cosa banale. In materia di sentimenti noi siamo degli
analfabeti. E il fatto più triste è che ciò riguarda non solo te e me ma
quasi tutte le persone. Noi impariamo ogni cosa intorno al corpo
umano, intorno all’agricoltura nel Sud Africa, intorno al pi greco o
come diavolo si chiama, ma neanche una parola intorno all’anima.
Per ciò che si riferisce a noi stessi e agli altri siamo di un’ignoranza
tremenda, sconfinata. È dottrina corrente ormai che i bambini devono
essere educati a contatto con il resto dell’umanità. Si parla di com-
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prensione, di coesistenza, di eguaglianza, con queste ed altre parole di
moda che non conosco. Ma nessuno concepisce l’idea che dobbiamo
innanzitutto imparare qualcosa intorno a noi stessi e ai nostri sentimenti personali. Intorno alla nostra paura, alla solitudine, alla rabbia.
E restiamo lì abbandonati, impotenti, pieni di rimorsi e di ambizioni
frustrate. Far sì che un bambino diventi cosciente della propria anima
sembra quasi sconveniente. Veniamo allora considerati per poco dei
vecchi antiquati. Come possiamo mai capire gli altri se non sappiamo
niente di noi stessi?”
Per rendere ora maggiormente esemplificativo il mio ragionamento sul
primo punto sopra enunciato, vorrei chiedervi di condividere con me le
seguenti opinioni:
A) Non possiamo più ritenere sufficiente occuparci solamente di alfabetizzazione strumentale, culturale o informatica, se trascinati da una inarrestabile spinta modernista, per garantire livelli qualitativamente dignitosi
di istruzione e formazione. Per certi versi appare, ormai, imprescindibile
ed inderogabile porre in primo piano tutte le diverse questioni, problematiche ed impegni connessi al mondo dell’intelligenza emotiva. Una
fetta sicuramente consistente dei problemi e delle preoccupazioni avvertite nella nostra società deriva dal non sapere discernere, né decifrare gli
stati emotivi in sé e negli altri, dall’incapacità di essere sensibili ed empatici, dal non saper coltivare affetti ed atteggiamenti di solidarietà. Per tali
ragioni l’apprendimento dell’alfabeto emotivo deve esser assunto come
tratto distintivo ed identificativo dell’offerta formativa.
B) Va affermata in qualche modo la priorità della dimensione relazionale
rispetto alla didattica. Non basta più concentrare tutte le proprie energie ed attenzioni esclusivamente sull’insegnamento, ma è indispensabile
porre le premesse e dirottare le gli sforzi affinchè le bambine e i bambini apprendano ad apprendere nel corso dell’intera vita. Ma per ottenere
questo ambizioso risultato occorre motivare ed entusiasmare gli studenti verso il sapere e si apprende con efficacia solo se si sta bene in classe.
Si apprende, infatti, sempre e solo a partire da una buona relazione con
l’altro e con gli altri. Vi è ormai una generale condivisione sul fatto che la
conoscenza debba essere considerata non tanto una costruzione individuale, quanto una vera e propria attività sociale. Ne deriva, pertanto, che
il nuovo paradigma dell’insegnamento debba trovare una sua validazione
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concependo l’apprendimento come una modalità attiva ed interattiva di
elaborare le informazioni e come un originale e personale punto di vista
sul mondo. Va da sé, quindi, che per apprendere bene dagli altri ed insieme agli altri occorre disporre di versatili abilità sociali tra cui non possiamo escludere: l’interesse per l’altro, l’ascolto, l’accoglienza, la valorizzazione (la venerazione per l’altro direbbe il filosofo S. Natoli ), la fiducia
reciproca, l’empatia, la tolleranza, l’apprezzamento delle diversità, la
capacità di saper mediare nelle situazioni di conflitto, il prendersi cura
degli altri. In conclusione possiamo affermare che l’apprendimento non
si verifica mai a prescindere dai sentimenti e dalla vita relazionale dei
singoli soggetti e che per innescare buoni apprendimenti a partire occorre sempre partire da una buona e positiva relazione.
C) È un errore sottostimare i costi personali e sociali attribuibili all’analfabetismo emozionale. Gli esiti di alcune statistiche concernenti il diffuso e
sempre più pervasivo disagio vissuto dai giovani e dai giovanissimi ci
lasciano piuttosto allarmati. Tutti i più aggiornati indici statistici segnalano una competenza sempre più scarsa in campo emozionale e, cosa ancora più sconfortante, appaiono in costante peggioramento. In particolare si
sottolineano i seguenti tratti di sofferenza: chiusura in se stessi, ansia e
depressione, difficoltà nella riflessione e nell’attenzione, delinquenza ed
aggressività. Inoltre Paolo Crepet, nel suo ultimo volume afferma che solo
in Italia ogni anno ricorrano agli antidepressivi ben 30.000 tra bambini ed
adolescenti, oltre a quelli che utilizzano ansiolitici, ipnotici ed antipsicotici. Le conseguenze di tali pratiche e terapie di sostegno farmacologico si
evidenziano sia sul piano strettamente cognitivo come alterazione dei
livelli di attenzione, dell’espressione creativa e della percezione corporea,
sia sul livello della considerazione di sé. Sempre secondo il suddetto autore un uso precoce di psicofarmaci può condurre ad una vera e propria
“Carriera di malato”. Tale preoccupante fenomeno sembra non risparmiare nessun gruppo a diversa valenza e composizione socioculturale. Negli
ultimi anni, inoltre, si è notevolmente amplificato il numero di ragazzi che
hanno dovuto ricorrere ad un aiuto di tipo psicologico. Le nuove generazioni sembrano conoscere un rischio maggiore, rispetto a quello dei propri genitori, di soffrire nel corso della vita di una seria depressione ed i
primi episodi di natura depressiva si presentano risultano essere anticipati in età sempre più giovane. A fronte di tale preoccupante scenario la
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scuola non può permettersi di rimanere indifferente, estranea ed arroccarsi in uno specifico professionale del tutto inadeguato. Prendersi cura
del benessere psicologico e relazionale dei nostri alunni e delle nostre
alunne rappresenta non soltanto una scelta di civiltà pedagogica, ma
anche una drammatica ed urgente necessità a cui non possiamo sottrarci.
Nonostante questa desolante e preoccupante quadro di disagio e di sofferenza, manca una massiccia, congrua e lungimirante strategia di intervento in campo educativo. In proposito si ha la sensazione che tutto sia lasciato all’improvvisazione e all’occasionalità. In mancanza di interventi organici
e strutturati ci si affida volentieri al “Fai da te” e le pur meritevoli esperienze pilota risultano isolate, rischiano di apparire scollegate tra loro e connotate da discontinuità.
Sulla spinta delle considerazioni sopra esposte, nel nostro gruppo di formazione è stata sottolineata più volte l’esigenza di avviare, a cominciare dalle
proprie realtà, l’elaborazione graduale di curricoli in grado di garantire i
minimi formativi sul versante della relazione e della gestione del conflitto.
Sulla base delle suddette valutazioni e riflessioni di carattere generale
nel II Circolo didattico di Senato, durante l’anno scolastico 2002/2003, è
stata svolta un’ampia indagine per conoscere il clima socioaffettivo della
classe, il livello e la natura dello star bene a scuola, nonchè il gradiente di
partecipazione nel gruppo dei coetanei.
L’indagine ha coinvolto tutte le classi delle due scuole elementari dipendenti.
I questionari, indirizzati direttamente ai bambini, sono stati formulati
per cicli ed erano finalizzati a perlustrare, oltre al già citato clima di classe,
le abilità sociali individuali, la motivazione allo studio, l’empatia, l’autostima
e le abilità sociali del gruppo.
La comparazione finale dei risultati si è tradotta in un utile strumento
diagnostico in grado di suggerire processi di autoregolamentazione interna
e possibili piste di lavoro.
In particolare ha fornito i seguenti esiti:
Nel primo ciclo gli item con i punteggi più bassi (convenzionalmente
quelli con le risposte affermative inferiori al 50% del campione consultato)
sono stati:
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• in classe ci aiutiamo reciprocamente;
• gli insegnanti pensano bene di noi;
• a scuola mi sento tranquillo e sereno.
Nel secondo ciclo i punteggi più scarsi sono stati i seguenti:
• in classe ci aiutiamo reciprocamente;
• a scuola mi sento tranquillo e sereno;
• mi piace studiare;
• mi è facile intervenire per chiedere spiegazioni;
• gli altri ascoltano con attenzione le mie proposte;
• i miei compagni mi aiutano quando sono in difficoltà;
• in classe sappiamo collaborare in un lavoro di gruppo;
• sono capace di rispettare le regole della classe;
• eseguo con piacere ciò che mi viene proposto;
• sono stimato ed apprezzato dai miei compagni e dalle mie compagne.
Nel primo ciclo i punteggi più elevati (convenzionalmente quelli con le
risposte affermative superiori al 70%) sono stati:
• mi trovo bene con i miei insegnanti;
• nella mia classe si svolgono delle attività in cui mi sento bravo,
• gli insegnanti ci aiutano quando siamo in difficoltà;
• mi piace lavorare in gruppo.
Nel secondo ciclo i punteggi più elevati si sono concentrati sui seguenti
aspetti:
• mi trovo bene con i miei compagni;
• nella mia classe si svolgono delle attività in cui mi sento bravo;
• mi trovo bene con i miei compagni;
• gli insegnanti ci aiutano quando siamo in difficoltà;
• mi piace lavorare in gruppo;
• so riconoscere quando un compagno od una compagna ha bisogno di
aiuto.
La Commissione Pof, incaricata di promuovere e coordinare l’autovalutazione d’Istituto, ha ritenuto di dover così sintetizzare gli esiti delle
indagini:
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PRIMO CICLO
La relazione con gli insegnanti sembra appena sufficiente, così come la
relazione tra i compagni.
Appare opportuno migliorare il clima di classe rinforzando l’autostima e
rispondendo alle richieste di aiuto dei bambini, nonché incrementando in
loro la consapevolezza dei bisogni reciproci.
SECONDO CICLO
La relazione con gli insegnanti risulta appena sufficiente perché gli alunni apprezzano l’aiuto che viene fornito in caso di difficoltà, mentre i rimanenti dati segnalano un vissuto scolastico carente in merito all’autostima ed
alla motivazione allo studio. Il rapporto con i compagni si rivela soddisfacente per quanto riguarda il lavoro di gruppo e la disponibilità ad aiutare chi ne
ha bisogno, ma emergono incapacità di ascolto e di aiuto reciproco.
Le prime conseguenti decisioni assunte dal Collegio docenti sulla scorta
delle riflessioni e del dibattito scaturito dalla restituzione dei dati, hanno
riguardato le azioni di seguito elencate:
• Avviare un piano di aggiornamento e di formazione in servizio sull’apprendimento cooperativo, intendendo tale strategia di lavoro come uno dei
principali veicoli di cambiamento e di valorizzazione del gruppo classe,
che dà sostegno alla crescita e alla formazione di ciascuno.
• Incoraggiare la nascita di esperienze sperimentali di apprendimento cooperativo, coinvolgendo inizialmente le classi più interessate e disponibili;
• Stimolare il resto del Collegio docenti ad una estensione delle buone pratiche in campo di apprendimento cooperativo mediante la comune analisi
periodica delle osservazioni e dei risultati ottenuti dai gruppi di progetto;
Affinare e potenziare tutte le differenti ed articolate modalità di accoglienza previste nel POF.
A conclusione del mio breve contributo, mi auguro che possa avviarsi
una fase virtuosa in cui le istituzioni scolastiche al proprio interno od in
sinergia con altre scuole possano collocare a pieno titolo la relazione educativa, l’intelligenza emotiva e la comunicazione empatica ed efficace nella
propria specifica ed originale Mission d’Istituto.
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Carla Ruffini
Dirigente scolastico Istituto comprensivo “Giuseppe Giusti” di Milano
A RELAZIONARSI SI IMPARA
Nonostante la mia trentennale esperienza nella gestione della direzione
della Scuola ho aderito con particolare interesse al corso di aggiornamento
per Dirigenti scolastici intitolato “L’intelligenza emotiva: dalla mediazione del conflitto alla relazione costruttiva”.
Ero stata attratta dalla novità dell’argomento e vi ho partecipato in modo
assiduo, spinta dalla mia curiosità che si rivolgeva con interesse alla scoperta soprattutto dell’Intelligenza Emotiva.
Oggi mi è stato affidato il compito di spiegare a voi ciò chi mi ha affascinato… e cioè che “A RELAZIONARSI SI IMPARA”.
Alla base di questo insegnamento c’è l’attenzione per L’INTELLIGENZA
EMOTIVA, quella capacità che tutti abbiamo, e che pochi sanno usare per
averla per tempo riconosciuta, apprezzata e soprattutto educata. Facoltà
che dovrebbe essere coltivata sino dai primi anni di scuola!
Con la mia intelligenza emotiva mi sono confrontata all’improvviso l’estate scorsa quando meno me l’aspettavo.
Era la fine di agosto e mi preparavo al rientro a Milano.
I miei progetti e in particolare il mio desiderio di vivere l’estate “alla
grande” si erano vanificati. Mi ritrovavo scontenta con decisioni difficili da
prendere.
Per questo ho pensato “perché non provare?” e l’ho ascoltata.
Mi sono subito resa conto che le soluzioni che mi venivano suggerite
erano, importanti e non avevano nulla a che spartire con la “rassegnazione”
che mi ero prefigurata.
Di più… forse erano proprio quelle le “modalità” che da tempo, senza
saperlo, volevo concedermi!
Avevo cambiato stile e modi nella relazione… mi ero messa in ascolto…
avevo smesso di recriminare… cercavo di capire e sentire in modo empatico…
Avevo creduto nella mia “intelligenza emotiva” mi ero affidata a lei e
stavo ottenendo ciò che da anni inseguivo invano!
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Ma non l’avevo ascoltata, prima, altre volte? Certamente sì, ma tempi e
modi erano lontani dalla memoria, quasi rimossi, anche se ora so riconoscerli tutti e devo ammettere che ho seguito la mia intelligenza emotiva nei
momenti delle decisioni più importanti o particolarmente difficili.
E ormai ne sono convinta, con l’intelligenza razionale ci sentiamo logici,
pragmatici ed efficienti, ma è con le emozioni, il sentimento che riusciamo
a dare spazio e armonia alla nostra vita; che riusciamo a sentire e percepire
desideri, paure, necessità di chi è in “relazione con noi” e soprattutto di chi
ci sta a cuore!
È “l’intelligenza emotiva” che ci permette di avere “relazioni costruttive”.
Ricordate? Segui il tuo istinto… Ascolta il tuo intuito… Va dove ti porta
il cuore…
Erano le pillole di saggezza delle nostre nonne! Ma così tutto è lasciato
al caso o al sesto senso quando c’è.
La relazione è un’esigenza fondamentale per ciascuno di noi, senza l’altro siamo destinati a sentirci irrimediabilmente soli… ma proprio la relazione può essere fonte di litigi, di dispiaceri, ansie, disagio, conflitti, tragiche
incomprensioni.
Tutti voi sapete che già alla scuola materna i bimbi bisticciano, alla scuola primaria i problemi relazionali sono quelli che impegnano di più i docenti, nell’età adolescenziale gli atteggiamenti di rifiuto e il fascino della trasgressione spiazzano docenti e genitori.
In questa situazione la scuola è perdente e sempre più viene contestata
per l’incapacità di assolvere a tutti i compiti che i vari ambiti sociali, culturali, e familiari le delegano!
Di fatto “A RELAZIONARSI SI IMPARA” ma purtroppo bisogna aggiungere “TROPPO TARDIVAMENTE E SOLO OCCASIONALMENTE” con
l’esperienza e col solito metodo del fai da te: PER TENTATIVI ED ERRORI!
Ma quando si procede per tentativi ed errori che cosa succede alla relazione, al nostro animo, e quale è la percezione che l’altro ha di noi?
Lo dico con un aneddoto che ritengo emblematico.
Un giovane, particolarmente rissoso provoca conflitti a ripetizione.
Il ragazzo vorrebbe cambiare e, non sapendo come fare, chiede aiuto al
proprio genitore.
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Il padre gli consegna una tavoletta di legno: “sulla tavoletta pianterai un
chiodo per ogni rissa, discussione o conflitto provocato”.
Dopo un mese la tavoletta è piena di chiodi… ma il ragazzo fa presente
che alcune volte, anche se poche, si è trattenuto!
Allora il padre gli da una seconda indicazione: ogni volta che eviterai una
rissa o risolverai un conflitto potrai togliere un chiodo dalla tavoletta!
Con l’esercizio e la buona volontà il ragazzo riesce ad evitare conflitti e
discussioni e dopo un mese porta al padre una tavoletta dove i chiodi sono
pochi.
Il padre lo invita ad osservare la tavoletta … purtroppo è piena di buchi!
“Vedi, figlio mio - commenta - tu sei riuscito, controllando la tua irruenza a risolvere qualche conflitto ma, le tue azioni, i tuoi comportamenti, le tue
parole hanno lasciato un segno … che ora non puoi cancellare”.
L’aneddoto ci dimostra che le nostre azioni non sono mai neutre; che le
relazioni sono sempre o costruttive o negative.
E qui va sottolineato il fatto che nella relazione sbagliando non si impara, ci si blocca.
Per questo nella scuola dell’autonomia è importante che “L’INTELLIGENZA EMOTIVA” che ci permette di avere “RELAZIONI COSTRUTTIVE”
abbia il suo spazio. Educativo e di apprendimento.
PERCHÈ?
• Perché la capacità di relazionarsi in modo corretto si impara proprio come
si impara la grammatica, la matematica, la storia o la geografia.
• Perché è compito della scuola educare e sviluppare in modo organico, non
solo “l’intelligenza razionale” ma anche “l’intelligenza emotiva.”
• Perché come dice Eraclito “l’armonia nasce dai contrari”e a scuola ci si
deve confrontare col compagno imparando a capire, sentire ed accettare
la sua diversità.
• Perché, come dice Gandi, si deve precocemente capire che vi sono diversi modi di vedere la stessa realtà.
• Perché l’altro non sempre è il nemico da travolgere e demonizzare!
Dobbiamo ricordare che vediamo l’altro in modo marginale e superficia-
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le ed anche, sotto molti aspetti in modo non reale.
Come dice Fromm, per effetto delle nostre proiezioni: “Facciamo dell’altro l’attaccapanni per i molti indumenti che ci dà fastidio indossare, convinti tuttavia che questo attaccapanni sia proprio lui senza renderci conto che si tratta soltanto dei panni che gli mettiamo addosso.”
Perchè saper incontrare il dolore dell’altro, saper ascoltare le sue ragioni, ed imparare a considerare le sue emozioni, significa essere in empatia
con lui.
Perché l’intelligenza emotiva è una risorsa quando conosciamo e sappiamo interpretare e vivere correttamente le nostre emozioni, quando siamo in
empatia con noi stessi: senza ansie e paure.
Perché non si può più causare “in buona fede”, sconquassi emotivi con
le bocciature.
Perché è necessario sottrarsi all’impotenza generata dagli insuccessi
scolastici e dai risultati deludenti di qualsiasi iniziativa intrapresa per contrastare il disagio giovanile.
Perché i bambini imparano ciò che vivono (R. Kipling).
Perché quando si sa… non si può più tacere e perché siamo in forte in
ritardo!
Tutto ciò che ho elencato sono compiti della scuola che, per sua natura,
si presenta come “luogo emblematico di relazioni di lavoro” e “lavoro prioritario di relazioni”.
Che cosa proporre nella scuola di nuovo dopo i ben noti progetti di: educazione alla salute, educazione sessuale, educazione all’intercultura ed alla
valorizzazione di ciò che è diverso?
1. Introdurre nuove modalità e dare spazio “all’Intelligenza Emotiva” per
educarla sino dai primi anni scolastici.
2. Insegnare da subito come “essere empatici con noi stessi e con gli altri”.
3. Favorire relazioni costruttive ed educare i bambini ad evitare i conflitti!
COME?
• Promuovendo iniziative culturali che permettano di sperimentare “relazio-
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ni costruttive” a tutte le componenti della scuola: docenti, genitori, non
docenti.
• Istituendo per docenti corsi di formazione alla gestione della relazione
secondo i principi empatici dell’Intelligenza Emotiva e delle relazioni non
conflittuali.
• Attuando corsi di educazione emotivo-relazionale per gli allievi con percorsi differenziati secondo le fasce d’età.
Così dopo aver imparato a considerare la nostra personale Intelligenza
Emotiva ed esserci attivati per educare precocemente nella scuola i bambini alla capacità di RELAZIONARSI IN MODO COSTRUTTIVO, senza lasciare alla casualità questo importante insegnamento e sentendoci IN EMPATIA
con gli altri, potremo finalmente guardare alla nostra personale tavoletta di
legno!
E contare… Quanti chiodi?... Quanti buchi?
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Daniela Giorgetti
Dirigente scolastico Istituto comprensivo di Carugate (Mi)
DAL CONFLITTO
ALLA RELAZIONE COSTRUTTIVA
Il conflitto è sempre intorno a noi, fa parte del nostro quotidiano.Possiamo esserne consapevoli oppure no, ma c’è.
Certamente dobbiamo accettarlo perché:
• “è solo un contrasto che nasce tra modi diversi di vedere la stessa realtà”
(Gandhi)
• “l’armonia nasce dai contrari” (Eraclito).
Non va soffocato o negato, ma va riconosciuto, accettato con consapevolezza, gestito correttamente.
Una cattiva gestione del conflitto lascia sempre una traccia indelebile
nella vita di ciascun individuo, ma soprattutto segna la sconfitta nelle relazioni tra le persone.
Possono esserci certamente rapporti di predominanza, di gerarchia, di
vincitori e vinti, ma la relazione è compromessa.
È necessario quindi imparare a costruire con pazienza un nuovo “tessuto e la scuola è un sistema complesso dove “molto” e “tanto” si gioca sulle
relazioni umane, sull’incontro-scontro tra persone:
• persone con un ruolo da “pari”, ovvero adulti-educatori
• genitori-docenti
• persone con ruoli diversi, non da “pari”
• adulto-bambino/ragazzo
• genitore-figlio
• docente-alunno
Tra questi soggetti si sviluppa una relazione significativa, “forte”, che
coinvolge sempre la sfera emotiva.
Proprio per questo motivo, prima o poi, in modo palese o latente, essi
incontrano il conflitto.
Conflitto che va riconosciuto ed affrontato costruttivamente, compren-
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dendone le sue componenti più profonde, “intime”, spesso “non dette”, altrimenti si moltiplica, a volte in maniera sotterranea e “disapparente”, producendo quel disagio social-scolastico con il quale tanto spesso ci misuriamo.
I fenomeni più eclatanti, le punte dell’iceberg, sono:
• il bullismo
• l’insuccesso scolastico conclamato
• l’aggressività psicologica, verbale, fisica
• la microcriminalità.
La tensione emotiva quotidiana, ovvero il malessere/disagio, spesso
nasce anche dal conflitto con se stessi, perché il soggetto avverte la propria
fragilità, la propria inadeguatezza, “sente” il senso della sconfitta.
Perché? Cosa c’è dietro? C’è un aiuto negato? Un’aspettativa disattesa?
Il disconoscimento dell’altro?
Che rapporto c’è, quindi, tra il disagio interiore del bambino/ragazzo e il
soccorso, lo stimolo e il sostegno che deve venire dall’adulto?
Le incomprensioni, il non dialogo tra il docente e gli alunni, il ricorso alle
note, le urlate, le punizioni, la delega della soluzione a parte terza, non direttamente coinvolta (la famiglia, il dirigente, il consiglio di classe, il collega)
sono segno di sofferenza pedagogica.
E allora?
Ecco la necessità di costruire competenze sulle problematiche relazionali “devastate” dalle situazioni conflittuali, palesi o latenti, che entrano nel
circuito del processo educativo, create da tensioni assorbite, ma non elaborate, né trasformate in un processo di crescita.
La nuova didattica chiede agli insegnanti di leggere i bisogni dei destinatari dell’azione educativa per ipotizzare risposte efficaci aggregando risorse
utili. Come?
Attraverso:
• l’analisi del contesto
• l’elaborazione del sé e dell’altro
• la creatività personale
• lo sviluppo di competenze.
Occorre stabilire un contatto profondo tra le parti perché giungano ad
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una maggiore consapevolezza delle emozioni che verranno messe in campo
da ciascuno nel momento del conflitto.
Occorre acquisire la disponibilità a tenerne conto, a comprenderle e rielaborarle.
Qual è invece la gestione usuale del conflitto?
- LA DENUNCIA (ovvero il riferimento all’evento)
- LA SANZIONE (di qualsiasi tipo, etica/concreta)
- LA VALUTAZIONE (dal voto al giudizio).
Vale la pena di riflettere su questi passaggi per capire che il centro nodale è l’autorevolezza, che non è una competenza innata, ma si costruisce ed
ha come presupposto proprio la volontà e la capacità di mediare.
L’esperienza dimostra che la gestione errata di un conflitto crea un
campo di energie, senza che vi siano gli strumenti tecnici per regolarle; esse
non si convogliano quindi nei poli giusti e, prima o poi, esplodono in maniera rovinosa.
L’autorevolezza ha invece tra le sue prerogative la capacità di sostenere
le proprie opinioni con onesta disposizione interiore, con fermezza ma senza
aggressività.
La società ha urgenza di modelli che non implichino ruoli dicotomizzati
(vittima-carnefice, arroganza verbale-parola biascicata).
Sono necessari rapporti corretti, leali, gratificanti. Perché ciò si verifichi,
occorrono persone non egocentriche, ma capaci di:
• governare l’ansia
• non esagerare o esasperare i problemi
• calibrare le proprie energie
• agire in modo diretto
• chiedere chiarimenti ed arretrare serenamente dalle personali convinzioni
• avere consapevolezza della propria positività, del proprio valore.
Non bisogna avere timore di affidare gli alunni a persone che, se non
possiedono tali competenze nello standard ottimale, tuttavia mostrano una
tensione continua ad un percorso evolutivo.
Ciò che stimola soprattutto gli alunni è la percezione dell’insegnante
“crisalide”, sempre disposto al cambiamento, al miglioramento di sé in ogni
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UNA RISORSA PER IL PROGETTO FORMATIVO DELLA SCUOLA
campo, che non fa mistero del coeducarsi con loro.
Va creata perciò una nuova e diversa sensibilità, che sappia vivere il conflitto e rendere utili, senza traumi, gli eventuali contrasti nascenti.
È utile precisare che tutto ciò è “educazione alla Mediazione”.
È un “modo di essere” nel quotidiano, nelle relazioni di ogni tipo.
È un mezzo per trovare il proprio posto nella società.
La mediazione si configura come relazione d’aiuto per arrivare a definire accordi. Ha come presupposto la riattivazione di una comunicazione
interrotta. Porta all’assunzione di responsabilità personali tra le parti.
Richiede lo sviluppo delle capacità empatiche, dell’intelligenza emotiva da
usare sia nelle situazioni di conflitto sia, soprattutto, nelle relazioni interpersonali.
La qualità di queste ultime incide infatti tanto nel clima di classe quanto nell’apprendimento.
Da ultimo occorre fondare e accrescere la consapevolezza di sé, la capacità di automotivarsi, di possedere perseveranza.
Serve “curare” il “subbuglio emotivo” che spesso appartiene a chi opera
in una sovraesposizione relazionale, come accade all’insegnante, vuoi in
classe vuoi in collegio docenti.
In conclusione si può ipotizzare un percorso da sviluppare attraverso
una formazione specifica per approfondire nel proprio ambito:
• Il contesto e le sue violenze (la manifestazione del disagio)
• Le radici del conflitto (le ragioni sono sempre più estese dei fatti)
• La dinamica dell’ascolto (non posso comprendere se non mi fermo ad
ascoltare)
• I rapporti di fiducia (io esisto se non nella misura in cui esisto per gli altri)
• L’accettazione della mediazione (il rispecchiamento dell’altro, la dignità
del suo pensiero, qualsiasi esso sia).
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Daniele Giardina
Dirigente scolastico Istituto comprensivo Trilussa di Milano
Sono grato per l’incontro con la Formatrice, Prof.ssa Maria Martello, e
con i colleghi che sono stati un’occasione per realizzare un’esperienza formativa nella quale ho maturato la consapevolezza che responsabile è colui
che sa prendere l’altro a misura della propria azione e del proprio limite,
aprendo la strada alla vicendevole disponibilità; che l’agire umano è temporale, finito e limitato.
È un limite che avvertiamo come peso. Ma se prendiamo realisticamente coscienza della nostra finitezza, allora saremo in grado di avvertire gratitudine e senso del debito che ci porterà a operare con maggior cura verso
noi stessi, oltre che verso gli altri.
Il modello teorico di riferimento è quello umanistico francese di Jacqueline Morineau, che ha pubblicato Lo spirito della mediazione, edizioni
Franco Angeli. Il percorso di formazione comprende, oltre all’educazione
all’intelligenza emotiva, l’approfondimento della funzione della Mediazione e
una conoscenza non epidermica dei meccanismi che governano la dinamica
relazionale.
Il percorso di formazione, come la lettura degli scritti di Martello, crea
silenzio rispetto ai rumori che contraddistinguono le nostre necessità quotidiane, introduce ad uno stupore, che diviene occasione di nutrimento del
“Saper essere”, presupposto indispensabile per “Saper fare”.
Si propone come un’occasione per prendersi cura di sé suggerendo una
costante riflessione sulle modalità di risposta emotiva ai propri vissuti; proprio l’abitudine a tale riflessione contribuisce a mantenere e difendere un
equilibrio interiore mai dato una volta per tutte.
È un’occasione per scoprire l’importanza di una formazione che avvenga attraverso la costituzione di un gruppo, sostenuto dalla consapevolezza
che questo può effettivamente contagiare chi gli sta accanto, nella vita privata come in quella lavorativa.
Lavorare insieme consente l’appropriazione di significati profondi. Di
esprimere in libertà bisogni e timori e soprattutto di ricevere messaggi di
vera comprensione ed amicizia, pur nella fatica di raggiungere la capacità di
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esprimere conferme a-valutative.
La vicinanza agli altri consente di indagare ciò che caratterizza ognuno,
costituendosi come individuo (col proprio profilo umano, culturale e professionale) ed interrompe la propria solitudine.
L’inserimento di racconti di esperienze concrete diviene un’occasione
per capire i fatti, che non sono unicamente una successione d’azioni, ma che
esprimono emozioni e dove il codice del conflitto è una ricchezza.
Una ricchezza anche quando scopri che non ti piaci, ma anche per
ammettere che puoi e che devi essere occasione di “compassione”.
Non esistono soluzioni predefinite, ma un procedere lentamente verso la
percezione del problema dove l’altro, e non solo lui, cambia continuamente.
Come raggiungerlo? Attraverso l’ascolto, anche di noi stessi.
A fine giornata, quindi, diventa utile fermasi e prendere atto, a ritroso,
di chi si è stati e senza giudizio prendere consapevolezza di qualunque
segnale, anche quelli del corpo: è meglio sapere piuttosto che ignorare!
L’attenzione al saper essere è comunque un’occasione per scegliere nuovamente ciò che si vuole essere, quale occasione di vita ci si vuole dare.
Le necessità del saper fare il più delle volte ci assordano e a volte progressivamente ci rendono dei sconosciuti a noi stessi.
“Solo gli spiriti tranquilli e sereni possono ripercorrere ogni istante della
propria vita, mentre quelli sempre carichi di impegni, come fossero sotto un
giogo, non possono voltarsi a guardare indietro…La loro vita si perde negli
abissi del tempo… non ha alcuna importanza la quantità di tempo concesso
se non ha un luogo per raccogliersi, ma passa attraverso delle vite sconnesse e incapaci di trattenerlo” ricorda Seneca.
Il percorso di formazione è quindi un’opportunità per riappropriarsi dei
propri vissuti più profondi e delle dinamiche personali e lavorative che tali
vissuti mettono in campo.
Via via che si progredisce si prende realisticamente coscienza della
nostra finitezza, ed è a questo punto che avvertiamo gratitudine per “il
senso del debito”, sentendo il desiderio di operare con maggior cura verso
noi stessi, oltre che verso gli altri.
Emerge una suggestione personale caratterizzata dalla decisione di
incontrarsi mettendo in gioco le proprie aspettative, i propri desideri e le
proprie relazioni.
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La difficoltà reale è quella di attuare una ricerca continua di senso, contestualizzata in uno scambio fondato sulla nostra e sull’altrui finitezza dove
comunque ciascuno per non essere sopraffatto dalla propria sofferenza ha
bisogno dell’altro.
Questa proposta di formazione nel suo percorso induce sempre più il lettore ad aver cura di se stesso oltre che a recuperare positivamente la presenza dell’altro.
Nasce così la fiducia verso le persone che si decidono di incontrare
accettando di mettere in gioco i propri vissuti.
“… non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, perché mortale, di limitarsi a pensare a cose umane e mortali; al contrario, per quanto
possibile, bisogna comportarsi da immortali, e fare di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi?” Aristotele.
Si è così all’interno di un viaggio, per nulla scontato, su “la relazione” e
la “relazione costruttiva” tra persone assolutamente diverse, passando
anche attraverso le distonie, i contrasti, la gestione intelligente dei conflitti.
È un’esperienza che propone inquietudine e incertezza, ricerca e ascolto, accettazione del limite e valore dello sforzo del suo superamento, individuazione del proprio e originale stare al mondo insieme agli altri, con loro e
per loro.
Stimola la ricerca delle ragioni profonde che sottendono i fatti, che indaga ciò che sta dietro al conflitto e che è alla base dei sentimenti che caratterizzano chi contende.
Viene così enucleata la Mediazione nel conflitto: essa implica una posizione di ascolto, la scoperta e l’uso dell’intelligenza emotiva.
Il mediatore competente sa restituire all’altro la sua vita, la sua capacità
di “prendersi in mano”, la sua autonomia, evitando di sovrapporsi o sostituirsi al proprio interlocutore.
Il mediatore agisce sui problemi profondi delle persone che gli si affidano, fa sperimentare loro l’importanza della condivisione e del valore dell’accoglimento del proprio dolore come afferma Jacques Maritain: “L’uomo è
un frammento di una specie, una parte di questo universo, un punto
singolare dell’immensa rete di forza e di influenze cosmiche, etiche,
storiche, di cui subisce le leggi. Il valore del sentirsi insieme e di scoprire (in fondo se ne ha davvero poca consapevolezza!) quanto prezioso possa essere l’uno (pur con i suoi limiti e problemi, e forse solo in
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nome di questi) per l’altro. Per tutti rappresenta la scoperta della
vacuità del credersi gli unici ed esclusivi portatori di problemi, chiusi nella conoscenza esclusiva del proprio mondo”.
È un’occasione per aprirsi e così svelare la complessità della vita e darsi
la forza di considerare le difficoltà come prove da superare per scoprire e
realizzare in pienezza il proprio senso.
Il ruolo del mediatore/narratore è di sostenere, guidare, stimolare all’autonomia: la Mediazione può dirsi un inno alla diversità in quanto consente a
ciascuno di manifestare le proprie esigenze e pulsioni, di non tendere a
omologare gli altri,.ma di accoglierne l’unicità.
È un’arte, non solo una tecnica: un’arte perché crea ogni volta, e in modo
differente, la strada per giungere al profondo dell’altro.
La Mediazione riuscita è convincere, che vuol dire vincere insieme, poiché ciascuna parte viene riconosciuta nella sua dignità e può riconquistare
stima e amore di sé, prima di tutto.
La formatrice sottolinea relativamente al problema della formazione,
l’importanza della durata, del tipo, del metodo e del modello, come condizione necessaria per rendere efficace la Mediazione.
Questo corso di formazione ha fatto sperimentare come il limite possa
divenire risorsa.
L’individuo non si appartiene se non organizza la propria potenza, se non
si dà forma: questa è la filosofia di fondo della mediazione.
Parole chiave della mediazione, emerse durante il corso, sono state:
• dato di realtà, superare e riconoscere la paura della complessità del conflitto e del dolore
• vuoto, pulizia del proprio stato emotivo
• la dignità offesa, riconoscere le piccole cicatrici
• disponibilità, accogliere il nuovo e consapevolezza delle novità che connotano ogni conflitto senza applicare schemi precostituiti
• responsabilità, rispetto al raggiungimento personale degli obiettivi della
formazione, alla relazione con i confliggenti, alla promozione del senso di
responsabilità civile e sociale; è l’indice manifesto dell’accettazione della
propria adultità, del diritto di ricercare le proprie soluzioni e di mantenere gli impegni assunti
• limite, sua trasformazione in risorsa per riconoscere meglio gli altri e se
stessi.
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È difficile con le parole presentare un’esperienza di formazione caratterizzata:
- dal rispetto reciproco e non giudizio;
- dall’essere stati liberi di tacere o comunicare;
- da situazioni dove le parole degli altri sono state possibilità per la comprensione di se stessi, delle dinamiche relazionali del proprio contesto;
- dalla scoperta della propria e altrui umanità.
Il presupposto per modificare i propri comportamenti è stata la consapevolezza:
- dei propri sentimenti, positivi e negativi, al di là dei mistificatori buonismi,
delle proprie paure, dei propri bisogni
- della misurazione rigorosa e continua di quanto i propri comportamenti
siano congruenti con il proprio ideale di vita e funzionali alla sua realizzazione o almeno a una accettabile approssimazione.
Il Mezzo è stato il corso di formazione guidato, operativo, in gruppo,
dove i lavori si sono snodati in un clima piacevole di messa in gioco delle
proprie emozioni, di reale scambio relazionale.
Obiettivo è stato quello di cogliere l’esperienza reale di ognuno suscitando emozioni, sensazioni, intuizioni, non utilizzando l’intelligenza razionale,
ma dando voce a ciò che abita in ciascuno di noi, per conoscerlo e dargli un
nome, trasformarlo.
È stato un camminare insieme, tra questi appuntamenti di formazione,
alla ricerca del significato autentico della “relazione” che lega inesorabilmente noi esseri umani, imbrigliandoci in una fitta e intricata rete emozionale.
Un “assaggio” può trovarsi nella lettura del testo: “Mediazione del conflitto e counselling umanistico” pubblicato dalla formatrice presso la casa
editrice Giuffrè. È strutturato in brevi unità monografiche che costituiscono
una mappa completa del percorso di formazione alla:
• relazione costruttiva
• gestione del conflitto
• mediazione
• con
• - lo spazio dell’ascolto,
• - lo spazio del sé, dell’altro, della relazione
• attraverso
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• - riflessione sull’ascolto delle emozioni, sul benessere emotivo, sul silenzio, sull’uso del tempo, sul non giudizio, la cura di sé
Offre un quadro completo delle capacità del mediatore e che possono
essere messe in atto:
• da un mediatore professionale
• da un professionista in qualsiasi campo, che si gioca sempre e comunque
in relazione con gli altri
• da ogni persona che a livello privato incontra il conflitto e che quotidianamente si misura nelle relazioni interpersonali.
Lo Stile ricorre ad un doppio punto di vista:
QUELLO DEI
CORSISTI
Serve a introdurre il racconto, a far immedesimare i lettori
nella situazione concreta.
Permette di esprimere e suscitare con immediatezza quei
dubbi e perplessità che hanno reso fecondi i momenti di
riflessione
QUELLO DELLA
FORMATRICE
E CONDUTTRICE
Non è condotta in prima persona, ma sta in un impersonale
narratore esterno (la Formatrice invita, propone…). A volte
la voce del narratore e del formatore si fondano dando vita ad
una sorta di discorso indiretto libero.
Usa, a supporto, varie poesie, utili in quanto lasciano la libertà a ciascuno di coglierne in modo personalizzato le suggestioni.
Come “Alta musica, che pari al silenzio riconduce a una quiete più
vasta”, una citazione d’autore apre e chiude ogni unità: chiarisce quanto da
sempre la tematica abbia interpellato gli intellettuali.
Penso possa essere essere:
• una lettura piacevole per chi si interessa della propria crescita personale
e professionale, convinti che quando si rimandano i problemi, essi non
cessano di crescere
• una traccia per ricercare connessioni con il proprio stile di vita e interrogarsi per ricercarne di nuovi più funzionali e gratificanti, ma anche più
rispondenti ai propri obiettivi di vita profondi, astrattamente scelti
• un programma di sensibilizzazione per migliorare la propria professione
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acquisendo i principi della relazione costruttiva e della Mediazione ma
anche per porre le basi alla preparazione per diventare professionista
delle tecniche di risoluzione alternativa dei conflitti
• ma anche una risorsa per chi da formatore vuole ritrovare stimoli operativi e uno schema metodologico.
Un libro che riconferma la fiducia che ogni persona è pienamente in
grado di trovare in sé le risorse per superare il problema per il quale cerca
aiuto esterno, che sottolinea come la maschera sociale e personale di ognuno debba essere connotata da maggior consapevolezza per evitare che essa
si sovrapponga alla realtà e impedisca la presa di contatto con sé e l’altro,
dove le certezze lascino il posto alla complessità e al dubbio.
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Annamaria FALCO
Dirigente scolastico Istituto comprensivo “Martiri della Libertà”
Sesto San Giovanni (Mi)
L’ESPERIENZA DELLA FORMAZIONE
Parlare con voi dell’esperienza di formazione vissuta per un intero anno
con Maria Martello ed un gruppo di colleghi Dirigenti scolastici, mi è molto
difficile. Ma ho accolto questo invito con piacere e con un pizzico di orgoglio.
Uno dei ricordi più vivi di questo percorso di formazione fu, oltre al fascino culturale e allo stile comunicativo ineguagliabile, una bella “strigliata”
che mi diede la formatrice. Dovevamo apprendere l’arte del silenzio, anche
nel senso di riservatezza su quanto avveniva nel setting, una volta tornati a
casa. Fu un momento piuttosto duro per me, sentirmi criticare nel gruppo
in questo senso, perché fino a quel momento avevo reputato la mia estroversione (anche relativamente ai sentimenti) unicamente come una qualità.
In quell’occasione provai su di me, esperienzialmente, due concetti teorici:
il primo relativo all’importanza di decentrarsi (ovvero di “mettersi nei
panni” dell’altro). Da quanto tempo non vivevo il ruolo di chi deve apprendere? Di come tale esperienza (che si fissa nella nostra memoria emotiva in
maniera più forte della gratificazione) sia una grande responsabilità per chi
la agisce perché non deve mai incrinare la dignità dell’altro, né tantomeno
la sua autostima. L’altra, che mi sconvolse ancora di più, che era un mio
diritto, anche nel mio lavoro, quello di essere amata.
Quanto sono lontani questi due concetti dalla cultura dirigenziale dominante? Dalla concezione della scuola-azienda, dal preside-manager, dall’idea
di donna emancipata del terzo millennio?
Per la prima volta dopo dieci anni di dirigenza scolastica, ho sentito parlare di stress e solitudine professionale e del bisogno che anch’io ho (e non
solo gli alunni) di essere accolta. E tutto ciò non in forma un po’ pietistica,
unidirezionale, ma quale condizione per poter restituire al meglio, proprio
nel mio lavoro, quanto ricevuto.
Vorrei tornare al tema del silenzio. Martello ha come legittimato quei
momenti che prima mi parevano una privazione, una diminuzione, un limi-
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te, un vuoto. Lei ci h parlato, anzi ci ha fatto vivere quanto il silenzio sia
importante, soprattutto per chi svolge attività fortemente centrate sulla
cura degli altri. Silenzio per ritrovarsi, per riordinare i pensieri e le emozioni, per ricaricarsi. Silenzio e capacità di ascolto. Per un’attività nella quale
tutti aspettano discorsi e risposte, secondo ritmi e contesti dai quali si viene
poi, a volte, stritolati e annullati nella propria individualità e originalità. E
quando questo accade, c’è sofferenza.
E poi: oggi so che la fatica che sto facendo ora nello stendere questa
relazione, è proprio l’inizio di un percorso nuovo, di una diversa consapevolezza professionale che è faticosa proprio perché implica il tener conto della
mia umanità, dei miei sentimenti, anche quelli di fragilità, dubbio, insicurezza. Se avessi dovuto parlarVi di un viaggio (una delle cose che mi piace fare
nel mio tempo lavorativo e non), mi sarei fatta aiutare da fotografie, letture,
pagine di diario; se dovessi trattare un tema pedagogico, avrei tirato fuori
dalla libreria, studi e autori che ho studiato, che mi avrebbero supportata…Per l’esattezza: è certo che in questo momento Vi sto parlando di psicopedagogia, ma la differenza, per me, è che il counselling questa volta non è
quello che io utilizzo per docenti e alunni, ma è quello che io ho vissuto su
di me, per me.
Ecco, ho utilizzato un altro mezzo che la prof.ssa Martello ci ha indicato
come importante per l’autoanalisi: ho cominciato a scrivere, ho superato
l’“horror vacui” della pagina bianca e soprattutto ho fissato su carta lo stato
interiore che finora (e forse tuttora) mi rende difficile trattare l’argomento.
Qualcuno che mi conosce professionalmente, si stupirà. Non è certo il
coraggio della parola o gli argomenti che mi mancano!
Paradossalmente più vado avanti nel mio lavoro (e anche nella vita, che
per me è quasi lo stesso) e più taccio e più rifuggo i formalismi del parlare
in pubblico o scrivere per la stampa. Ho un grande timore della ripetitività,
dei luoghi comuni pedagogici e sociologici, di teorizzazioni avulse dall’agito,
dalla realtà. E agito, in pedagogia, per me, è stare con i bambini, con gli adolescenti, con i loro genitori, con i docenti.
Ho incontrato il lavoro di Maria Martello proprio quando quella della
comunicazione autentica era un’impellenza improcrastinabile. Questo per
dirVi che, secondo me, il cambiamento avviene quando dentro di noi c’è già
la richiesta.
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Vi racconto, quindi, come ho incontrato l’intelligenza emotiva applicata
alla mediazione del conflitto.
Mi arrivò la proposta di partecipare ad un corso di formazione da una
collega che conoscevo, nemmeno poi così tanto da destare in me un’attenzione speciale. In realtà, Giovanna era continuamente citata da una mia
amica, nonché docente dell’istituto che dirigo, e confesso che un misto di
curiosità e gelosia, mi afferrò. Avevo chiaro solo che non volevo un
corso sui presidi-manager, la qualità e l’azienda.
Quando arrivò però il momento di confermare l’adesione avevo tre o
quattro validissimi motivi per tirarmi indietro. Ve li potete immaginare: ho
troppo da fare a scuola, c’è la Riforma in piena attuazione, la famiglia non
può fare a meno di me, la segreteria è in alto mare, sono stanca e ho bisogno di riposo… Se ci penso, erano poi gli stessi argomenti che ho ritrovato
in me ogni volta che dovevo partire per Triuggio, il luogo dello stage residenziale. E, ad eccezione del secondo motivo (la Riforma), tutti gli altri si ripresentano puntualmente per ogni cosa nuova che si prospetta.
Perché ho continuato, anche se ogni volta che tornavo a casa ci mettevo due o tre giorni a riprendermi? Forse proprio per questo. Ho capito da
subito che se dopo quasi trent’anni di vita scolastica, l’esperienza che vivevo con Maria Martello ed i colleghi riusciva a farmi sentire così, dopo…voleva dire che in essa stavo investendo energie profonde, alcune delle quali non
sapevo neppure di avere.
Penso che l’effetto di questo percorso, che definirei di progressiva acquisizione di consapevolezza di me, in relazione al mio lavoro professionale e di
me come soggetto-oggetto di relazioni, proiezioni, aspettative, sentimenti,
frustrazioni, amore e risentimenti, sia via via arrivato anche a chi con me
vive ogni giorno, dentro e fuori la scuola. E quindi non mi resta che proporlo a chi non l’ha ancora provato e a chi gestisce o si trova coinvolto in conflitti: grandi, piccoli, quotidiani, epocali, di crescita, previsti o accidentali.
Dicevo che il lavoro della prof.ssa Martello è arrivato, per me, in un
momento di vita professionale e personale che necessitava di accadimento,
di attenzione, di pensieri nuovi. Di un po’ di stupore. Il corso con le sue provocazioni, con i suoi “strattonamenti” emotivi, con la totale dedizione alla
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persona e alla sua unicità, è stato un dono inaspettato. Dopo dieci, ma forse
trenta anni di responsabilità educativa, dentro e fuori la mia famiglia naturale, per la prima volta qualcuno mi ha detto che “è un diritto quello di essere amati nel nostro ruolo dirigenziale. Avete mai visto una regina che oltre a
governare, rassetta la cucina? No, perchè non si possono rivestire tutti i
ruoli. Il Dirigente scolastico deve gestire l’educativo… la vostra è una dirigenza atipica, perché richiede, oltre alle competenze della dirigenza, anche
quelle del “saper essere”. Bisogna quindi ristrutturare i compiti e i tempi.
Non potete perdervi in mille rivoli. È necessario creare le condizioni oggettive perché il vostro specifico si esplichi…”.
Spero sia chiaro che non è che il giorno dopo io sono entrata a scuola
chiedendo la riverenza o l’alza bandiera, ma, piano piano, giorno dopo giorno, mi sono ricordata che l’amore e la dedizione che io ho per la scuola, non
deve essere a senso unico e che devo imparare e devo consentire agli altri
di amarmi, oltre che continuare ad amare. E poi: amare, giustifica tutto?
Vi sembrerà piccola e scontata cosa: io ero talmente centrata e contratta nel voler eseguire bene il compito che spesso non concedevo a me stessa
la possibilità di errore, di fasi di calo o minor resa e quindi, in ultima istanza, vivevo nella presunzione di dover essere la migliore sempre. Non ero
consapevole che l’ottica doveva invertire rotta. L’apporto degli studi di Martello sono quindi giunti al momento giusto.
Un momento nel quale io ero alla ricerca del cambiamento, anche in altri
ambiti: spirituale, religioso, culturale, umano. Ed ho quindi fatto la fatica e
ho corso il rischio di accogliere le Sue proposte, in un percorso che non è
stato unidirezionale.
Sentivo e sento anche adesso, che Maria Martello, ogni volta si metteva
in gioco con noi, davvero. Glielo leggevo nell’espressione di quel bel viso che
al termine di ogni stage, nello sfinimento dopo tre giorni di convivenza nei
quali non si era mai sottratta al contatto empatico con noi, con il nostro fardello di tensioni e preoccupazioni. Arrivava ed era carica di energia; tornava a casa tirata: da noi, dalle nostre storie, dagli entusiasmi condivisi e dalle
difficoltà che qualcuno di noi, prima o poi, tirava fuori.
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Nel suo metodo e nel suo impianto culturale ho ritrovato tanti richiami:
dal personalismo, alla non direttività di Rogers, ai richiami buddisti, allo zen,
al mondo latino e greco, agli scrittori e alla cultura del Mediterraneo, alla
filosofia antica e contemporanea.
Insomma, ad un’incessante ricerca sull’essere.
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Conclusioni
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Maria MARTELLO
Docente di Psicologia dei rapporti interpersonale
Durante l’incontro odierno abbiamo affrontato solo alcuni aspetti del
conflitto e solo alcune significative implicazione per il mondo della scuola.
Credo sia impossibile ritenere conclusa l’argomentazione: da anni lavoriamo attorno al tema rendendoci sempre più conto della sua complessità.
Siamo lontani dal pensare che “mediazione” sia una parola magica, ma
siamo sicuri che può diventare tragica se viene utilizzata, e ancor più applicata, in modo approssimativo. Tragica per chi la fruisce, ma anche per chi la
offre: aspetto molto intrigante su cui dibattere, però non entriamo ora nel
merito.
Noi pensiamo si debba, nella scuola italiana di ogni ordine e grado, arrivare alla creazione di curricula impliciti ed espliciti di educazione alla relazione e alla gestione del conflitto, incominciando dalla scuola dell’infanzia
fino all’ultimo anno universitario di qualsiasi tipo di facoltà, in quanto i temi
trattati non riguardano una professione in particolare, ma tutte le professioni a cui gli studi aprono; senza queste competenze la realizzazione professionale è resa molto più difficile.
Desidero ringraziare ciascuno di voi per l’attenzione e per aver voluto
condividere con noi l’avventura odierna.
Spero con l’odierna giornata di studio di aver suscitato la voglia di arricchirsi dei nuovi strumenti che la ricerca più aggiornata sta offrendo, e di
mettersi a disposizione per contribuire al superamento degli effetti devastanti della gestione improvvisata delle relazioni o anche dei conflitti stessi.
Nell’interesse di tutti, spero che ciascuno nel suo piccolo, sia come la
farfalla. Sembra infatti, così affermano gli scienziati, che il batter d’ali di una
farfalla a Tokyo possa cambiare il clima nel golfo del Messico. Così un’esperienza positiva nella direzione dello sviluppo dell’individuo e del miglioramento delle sue relazioni può non essere un impegno di scarso esito e avere
effetti benefici che si propagano nella piccola “nebulosa” di “altri” con cui
ognuno è in contatto. Mi auguro che ciascuno di noi abbia il privilegio e la
fortuna di poter lavorare per migliorare il ben-essere di chi ci sta accanto.
Grazie ancora.
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Sul Convegno
Pareri dei partecipanti
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Maria Giaele Infantino
docente di lettere
scuola media dell’ISC “Bruno Munari”, Milano
e docente di psicologia dei processi di apprendimento
presso l’Università Cattolica di Brescia
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Sì, in modo esauriente e interessante.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Magari mettere in scena un “botta e risposta” tra le controparti. Mi spiego: nella parte finale i vari presidi ecc. parlavano della loro esperienza nella
gestione di situazioni conflittuali, facendoci sentire, ovviamente, la loro
“campana”. Sarebbe interessante poter ascoltare anche l’altra “campana”,
ossia quella di coloro con cui i suddetti erano entrati in conflitto e con cui
hanno dovuto gestire la mediazione.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Io credo molto nella mediazione, dentro e fuori la scuola. Vorrei citare
una frase tratta dal film “The interpreter” (2005): “Il frastuono della armi da
fuoco attorno a noi rende difficile udirla. Ma la voce umana è diversa dagli
altri suoni. Persino quando non grida; persino quando è soltanto un bisbiglio. Persino il più flebile bisbiglio può essere udito al di sopra degli eserciti… Quando dice la verità.”
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Prima di tutto aprendo la mente a nuove prospettive ed evitando di rinchiudersi nella propria torre d’avorio. Il che è fondamentale per un insegnante, il cui motto dovrebbe essere il socratico “io so di non sapere”. Essere umili nel senso etimologico del termine (“humus”): essere terreno fertile
su cui poter coltivare nuove prospettive e aprirsi agli altri.
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Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Mi sembra interessante e sempre attuale la discussione in merito alle
relazioni di potere dentro la scuola, ossia il rapporto tra dirigente e insegnanti, così come tra insegnanti e alunni.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Se ci fossero, compatibilmente con altri impegni cercherei di non mancare.
Altro
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Itala PIZZOLATO
Docente di Scuola Elementare, esonerata dall’insegnamento,
per attività di collaborazione col Dirigente scolastico
dall’anno scolastico 2001/02
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Vista la complessità dell’argomento e delle varie tematiche correlate, la
trattazione è stata ottima, dato anche il poco tempo a disposizione. Personalmente avrei dato meno spazio ad un paio di interventi “ufficiali”.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Secondo me il vero scoglio da superare è quello della consapevolezza
personale, dell’esistenza del conflitto e, in seguito, della volontà di superarlo attraversandolo, con l’obiettivo di stare e di far star meglio, con una progettualità costruttiva.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Sicuramente hanno una importanza fondamentale, viste le problematiche, spesso nascoste e quindi più pericolose, nella vita di relazione di tutti
noi, in questa società che vuole indirizzare a valori spesso inesistenti o
comunque di tipo consumistico.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
La scuola è una istituzione complessa dove ormai passano tutte le problematiche della vita di chi ci lavora o ne è utente (alunni e soprattutto genitori). La ritengo il luogo principe dove tale cultura può e deve essere utilizzata.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Riproposti direi di no, approfonditi sicuramente sì. Potrebbero essere:
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Le A.D.R.
come si riconosce un conflitto? Come lo si affronta vista la persona o le persone coinvolte? Come riuscire ad evitare che gli stessi conflitti si ripetano?
Che ruolo hanno le problematiche tipiche della scuola nell’insorgenza dei
conflitti? Come educare gli alunni ad accettare e a superare il conflitto?
(come prevenzione ed educazione del futuro adulto).
È interessato ad altri eventuali incontri?
Compatibilmente con gli impegni di lavoro e di studio, sicuramente sì.
Naturalmente dovrò tener conto del mio training pregresso di A.T. e all’indirizzo di scuola di pensiero e di pratica da me scelto per la specializzazione in counseling.
Altro
Ben vengano altre iniziative che svelano, trattano ed approfondiscano
queste problematiche che peggiorano in modo nascosto, subdolo e spesso in
modo irrimediabile, la qualità della nostra vita di relazione o meglio, tout
court, della nostra vita.
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Gabriella AFFATATI
Docente e coord. FAES
Centro Scolastico FAES Monforte
Via Zanoia ang. Via Ponzio – Milano
Ricevo con interesse questa richiesta esplicita di parere sul convegno
dello scorso 16 marzo. Personalmente sono rimasta soddisfatta della giornata per lo spessore degli interventi nella loro specificità ed anche nel loro
insieme. Mi ha colpito sicuramente il significativo numero di partecipanti
che conferma l’estendersi del fenomeno e fa riflettere sulle cause che lo
determinano: tra queste soprattutto la fragilità della famiglia e lo scarso
aiuto che le società le fornisce.
Lavoro presso il Centro scolastico Monforte dell’Associazione Faes da
ormai trent’anni come docente e Coordinatrice dell’attività di Orientamento
e tutoria. Per noi del Faes il sistema tutoriale è istituzionale sin dalle origini, cioè dal 1974 e ne sperimentiamo tutti i vantaggi a livello di progetto educativo ed, evidentemente, di prevenzione e possibile soluzione del conflitto.
Intervenire per sostenere la famiglia nel suo lavoro educativo ci sembra
essenziale per la solidità della struttura familiare prima ancora che per i
risultati educativi che, peraltro, hanno tutta la loro importanza.
Confermo, quindi, il mio interesse per la tematica affrontata e per gli
eventuali ed auspicabili sviluppi per me e per il Centro scolastico in cui
opero.
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Le A.D.R.
Cristina ACCORDI
Dirigente scolastico
I.C. MARMIROLO
Via Parini 1 - Marmirolo (MN)
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
L’argomento è stato secondo me sviluppato con eccessiva fretta dovuta
anche alla disattesa dei tempi prestabiliti; per cui soprattutto l’intervento
della Dott.ssa Martello poteva essere più articolato, arricchito dalla presa in
esame delle tematiche più propriamente scolastiche relative al conflitto.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Avrei approfondito le competenze richieste al Dirigente scolastico sia
per la lettura delle situazioni conflittuali che per le strategie di intevento.
Consapevole che le situazioni più gravi richiedano l’intervento di un mediatore esterno, è pur vero che la normale conflittualità va risolta con le risorse interne alla scuola. Inoltre avrei gradito che venisse maggiormente approfondito il contenzioso scolastico sia dal punto di vista normativo che dal
punto di vista dell’agito, fornendo ai dirigenti suggerimenti e riferimenti a
cui rivolgersi in relazione ai vari contenziosi.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Le A.D.R. nella scuola giocano un ruolo sempre più significativo; con
l’aumento della complessità dell’organizzazione scolastica sono anche in
crescita i conflitti: solo in un’ottica di mediazione e gestione è pensabile di
recuperare energie e risorse.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
La cultura della mediazione deve entrare in maniera preponderante sia
nell’attività didattica (attenzione alle dissonanze emotive e affettive, a quel-
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
le cognitive, nonché ai veri e propri conflitti tra individui)come scelta metodologica e modo di interagire dei docenti, sia nelle relazioni tra le varie componenti della scuola e altri soggetti esterni....Ma ci vuole formazione e prima
ancora sensibilità...
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Temi da riproporre: le competenze e gli atteggiamenti del dirigente per
favorire la soluzione dei conflitti (con esame delle diverse tipologie di conflitto)- Tematiche di carattere normativo.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì sono disponibile a partecipare ad altri incontri e mi interessava avere
informazioni sui corsi permediatore.
Altro
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Le A.D.R.
Albalisa AZZARITI
Dirigente scolastico
I.C. “Monte Grappa”
Via Di Vittorio, 1 – 20060 Bussero (MI)
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Sì.
Come le A.D.R. potrebbero attenuare le conflittualità tra genitori di una
classe.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla mediazione?
La ritengo una strategia importante, una risorsa ed in qualche caso la
prima strategia da mettere in atto.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Da subito, come mezzo per attenuare conflitti tra docenti, perseguendo
sinergie e empatie.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? Può elencarne qualcuno?
Tutti.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì.
Altro
Desidero informarvi che ho consegnato la traccia del convegno ai genitori dell’A.Ge. (il presidente dell’A.Ge. di Bussero è anche referente provinciale) nell’auspicio che si possa avviare una prima collaborazione con Voi
(compatibilmente con i nostri scarsissimi fondi - uguale: pochi soldi ma
tanta buona volontà! -).
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Fausto Caielli
Dirigente scolastico
I.C.S. Val Lagarina - Milano
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Si.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Relazione tra Docenti / Relazione tra Docenti-Genitori.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Positiva, deve diventare metodo di lavoro.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Nella pratica quotidiana.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Vedi risposta 2.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Compatibilmente con gli impegni, sì.
Altro
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Le A.D.R.
Massimo COLCIAGO
Coordinatore didattico
Scuola Secondaria 1° Grado Paritaria
Via Vismara 2 - Garbagnate Milanese (MI)
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
I relatori hanno fornito un quadro generale molto chiaro dell’argomento,
ciascuno dal punto di vista delle proprie esperienze professionali. Certamente gli interventi della Dott. Martello sono stati particolarmente apprezzati per competenza e precisione documentativa, anche se il tema richiede,
a mio avviso, i necessari approfondimenti, magari con letture consigliate
(Intelligenza emotiva e mediazione).
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
L’aspetto dell’intelligenza emotiva mi sembra un elemento da indagare
ed esemplificare in modo più approfondito.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Credo che nell’ambito scolastico A.D.R. e Mediazione assumano un’importanza fondamentale nella gestione positiva dei conflitti, sempre presenti
e complessi.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Con la presenza e l’azione di una professionalità specifica del “MEDIATORE”, resa attiva e operativa dall’esercizio della professionalità “FORMATA” dello psicologo scolastico, preposto al monitoraggio e alla gestione complessiva del conflitto.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Penso che l’azione informativa sul tema complessivo di Mediazione e
A.D.R. debba essere potenziata per portare a conoscenza di tutti gli ope-
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
ratori della scuola finalità, obiettivi e modalità di tali pratiche.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì.
Altro
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Le A.D.R.
Maria FUDULI
Preside Incaricata
DDS 2° Circ. - Trezzano S/N - Milano
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Sì molto.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Un po’ tutti, ma in particolare gli effetti del conflitto sull’efficacia del
progetto formativo.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Credo che imparare a mediare sia determinante per il clima della scuola e per ridare ad ogni soggetto la dignità che gli deriva dal ruolo che rappresenta.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Nella scuola attualmente si vive di conflitti: genitori conto gli insegnanti, insegnati tra di loro, ecc. quindi credo che vadano utilizzate attraverso la
formazione- informazione di tutti gli “attori” del conflitto stesso.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
La filosofia e la tecnica della mediazione per gestire il contenzioso scolastico. Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva e delle competenze relazionali
nel progetto formativo.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì compatibilmente con il mio orario di lavoro.
Altro
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Elena INZAGHI
Docente
Scuola media di Casarile - Istituto comprensivo Binasco (MI)
Sono una insegnante di ruolo della scuola secondaria di primo grado. Ho
partecipato al Convegno inviata dal Dirigente scolastico in quanto nella mia
scuola svolgo la funzione di “vigilatrice di plesso”. Ho trovato estremamente interessante ciò che è stato detto, anche perchè non avevo mai sentito
parlare di Mediazione di conflitti in questi termini. L’argomento è stato
affrontato con chiarezza, certamente meriterebbe approfondimenti (devo
dire però che sono stata presente solo nella mattinata, non nel pomeriggio).
Avremmo molto bisogno a scuola di affrontare la tematica, e faccio mio l’appello mosso da qualcuno al termine della mattinata affinchè l’Ufficio scolastico offra a docenti e dirigenti corsi di aggiornamento in materia. Desidero essere informata se vi fossero altre iniziative interessanti a riguardo. Se
queste mie poche righe potessero essere utili inseritele ovviamente negli
atti.
Grazie buon lavoro.
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Le A.D.R.
Maria Rosita ISOARDI
Dirigente scolastico
1° Circolo di Fossano (CN)
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Si, tenuto conto del tempo a disposizione di ciascun relatore.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
I fattori che scatenano i conflitti e le tecniche di intervento da parte del
mediatore. Presentazione di casi.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Molto positiva, in quanto fornisce strumenti efficaci per affrontare le
situazioni conflittuali e migliorare le relazioni interpersonali sia nella vita
che nel lavoro.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Innanzitutto si dovrebbe formare il personale docente su questa tematica per fornire strumenti di comprensione e di gestione dei conflitti che si
possono scatenare in classe, tra colleghi e con i genitori. Altrettanto importante ritengo sia la formazione del dirigente per una migliore gestione delle
relazioni tra le varie componenti dell’Istituzione Scolastica.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
È interessato ad altri eventuali incontri?
Si, in particolare sulla mediazione nei conflitti tra docenti e genitori.
Altro
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Nunzio LA MANTIA
Docente IC De Pisis (MI)
Molto molto interessante.
Con l’introduzione dell’autonomia scolastica aumentata a dismisura la
conflittualità tra dirigente, docenti, RSU e componente genitori. Pertanto
ben vengano i convegni “chiavistelli” per aprire le menti e dare poi seguito
a corsi di aggiornamento a livello scolastico sulla mediazione. Già l’ho proposto alla nostra dirigente per il prossimo anno scolastico. Complimenti
all’organizzazione e alla Dott. ssa Martello
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Le A.D.R.
Mariagrazia MENEGHETTI
Dirigente scolastico
Liceo Classico Beccaria - Milano
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Sì.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
La trattazione di carattere prettamente giuridico sarebbe forse da
approfondire.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Notevole.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Ritengo che il Dirigente scolastico debba tentare di porsi sempre nell’ottica di un facilitatore di processi; pertanto penso che l’utilizzo di pratiche
come quelle suggerite sia molto utile ed in buona misura praticabile.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Come ho detto sopra.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì.
Altro
Sarebbe auspicabile un lavoro riservato a gruppi più piccoli e più omogenei (scuola secondaria superiore).
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Erminia PUDDU
Mediatrice Familiare
Soc. Coop. In Lak’ech e Baby School
Quartu Sant’Elena (CG)
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Sì.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Si promuovendo maggiormente la progettazione nelle scuole con la presenza dell’educazione alle relazioni.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Buona.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Facendo dei percorsi educativo pratico in primis ai docenti e dirigenti
“poi agli allievi che indirettamente devono acquisire la pratica di mediazione attraverso l’esempio vissuto dai docenti.”
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Indubbiamente l’educazione alla pace, le tecniche relazionali, il leader, la
motivazione positiva e... la creatività.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì.
Altro
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Le A.D.R.
Milena SOZZI
Docente Scuola Primaria
ICS T. Grossi - Milano
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
Si.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Gli aspetti relativi alle tecniche di mediazione.
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Potenzialmente utile.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Nel quotidiano per la soluzione di problematiche contingenti (contrasti
/divergenze DS. - INSS. -GENITORI).
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Le modalità di intervento, non solo in ambito scolastico, per la risoluzione dei conflitti.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì.
Altro
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
Francesco VALENTE
Dirigente scolastico Preside incaricato
IIS Einaudi (MI)
Ritiene che l’argomento relativo alle A.D.R. sia stato illustrato con sufficiente chiarezza?
L’argomento in oggetto è stato solo, molto chiaramente, accennato. Non
disdegnando il resto sarebbe stato utile uno spazio maggiore alle A.D.R.
Vi sono aspetti delle A.D.R. che secondo lei si potrebbero meglio approfondire?
Che valutazione assegna alle A.D.R. e in particolare alla Mediazione?
Alta in quanto la mediazione è necessaria.
Come ritiene utilizzabile la cultura e la pratica della Mediazione nell’ambito della scuola?
Per prevenire, evitare o attenuare i ricorrenti conflitti.
Vi sono temi che pensa debbano essere riproposti al pubblico? - Può elencarne qualcuno?
Non so.
È interessato ad altri eventuali incontri?
Sì.
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Appendice
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Note a margine
del convegno
A RELAZIONARSI SI IMPARA
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A RELAZIONARSI SI IMPARA
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Maria MARTELLO
Cronaca del convegno
21 settembre 2004, Villa Ghirlanda, prestigiosa sede comunale di Cinisello Balsamo. Due rampe di imponenti scale ed ecco apparire la splendida
Sala dei Paesaggi.
È ancora vuota. Vi si assapora la benefica quiete che ancora accompagna l’atmosfera degli ultimi preparativi, mentre giungono i passi ovattati di
qualche addetto ai lavori, che si muove nella penombra.
Pochi istanti e la gente comincia ad affluire a piccoli gruppi.
Si intersecano saluti calorosi tra gli intervenuti, quasi tutti del settore
scolastico, ma non mancano autorevoli presenze dell’Ente Locale e di altri
enti extraterritoriali, dell’ASL 3 di Monza, del Servizio di Neuropsichiatria
Infantile e per gli Adolescenti, del Lions Club, delle parrocchie cittadine
ecc., nonché un folto pubblico di genitori, insegnanti e dirigenti in pensione, che non hanno smesso di amare la scuola, e ancora operatori dei servizi
socio sanitari e assistenziali, psicologi, arrivati anche da lontano…
Ecco giungere anche quei personaggi illustri che, fino a quel momento
avevano arricchito il volantino di invito al Seminario.
Intanto nella sala affrescata gli ospiti prendono posto.
Ci si accorge in breve che i cento posti a sedere non potranno soddisfare tutti i partecipanti.
Molti, infatti, restano in piedi: si parla di circa ottanta persone e più!
Scorre in sottofondo una musica d’atmosfera, calda e avvolgente, capace di far vibrare le corde più profonde dell’animo.
Poi il brusio della sala si attenua alle parole della Dott.ssa Giovanna Granito, dirigente del comprensivo scolastico Paganelli, che apre l’incontro,
porgendo i saluti a tutti gli intervenuti; quindi dà la parola all’Ispettore Tecnico U.Sgubbi intervenuto in rappresentanza del Direttore Scolastico Regionale M.G. Dutto e successivamente all’Assessore alla Cultura e Istruzione di
Cinisello Balsamo, R. Anselmino.
Entrambi plaudono alle iniziative culturali di tale spessore e sottolineano quanto importante sia, per il futuro delle nuove generazioni e della socie-
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
tà tutta, il ben operare nell’ambito dell’istruzione e dell’educazione, e non
solo.
Ritengono che, con l’autonomia scolastica, si offrano alle scuole inestimabili opportunità per consorziarsi e per realizzare progetti innovativi.
L’Assessore R. Anselmino, trasmettendo il saluto del Sindaco A. Zaninello, sottolinea la portata dell’iniziativa presentata dai tre istituti in rete,
oggetto del convegno, e considera che questo è un modo qualificato e qualificante di promuovere cultura nel territorio, utilizzando gli strumenti dell’autonomia con i quali la scuola si pone costruttivamente in dialogo col territorio.
Preistoria del convegno
In Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo, comune nell’interland di Milano
mi era stato chiesto di presentare il mio libro “Oltre il conflitto Dalla Mediazione alla relazione costruttiva”.
Avevo sostenuto che superare il conflitto non significa negarlo o fuggirlo, ma saperlo affrontare e risolvere; che in questo campo occorre raggiungere una solida e profonda formazione personale che va ben oltre la conoscenza e l’utilizzo di tecniche pur necessarie, ma non sufficienti.
I partecipanti erano molto numerosi e particolarmente interessati si
sono mostrati gli educatori, gli insegnanti e i dirigenti. Al di là di ogni previsione non si sono fermati a questa considerazione, che nella sua apparente
ovvietà nasconde l’insidia di una troppo facile accondiscendenza. Ma, convinti che il successo scolastico richieda la capacità di prevenire o gestire il
conflitto e sia realizzabile se vi è una competenza relazionale adeguata,
hanno voluto sperimentare questo tipo di formazione.
La Dott.ssa Giovanna Granito, dirigente dell’Istituto Paganelli, mi ha
chiesto di ideare per tre istituti, consorziati in rete, un progetto. Quando gli
aspetti formali e organizzativi sono stati completati abbiamo iniziato l’avventura.
Vi è stata una fase preparatoria. Infatti il primo passo che abbiamo deciso di fare per fondare con serietà l’intervento è stato di creare cultura sul
territorio intorno al problema delle competenze relazionali e far maturare
un contesto adeguato ad accogliere le successive iniziative.
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Le A.D.R.
Con il contributo del Comune, sono stati poi proposti diversi incontri
seminariali, negli istituti cittadini, indirizzati a docenti, non docenti e genitori, per una necessaria sensibilizzazione alla conoscenza dei problemi connessi al vissuto relazionale.
Solo al termine della fase di sensibilizzazione, come un primo risultato di
quel fare cultura sul territorio che è stata l’iniziale nostra preoccupazione, si
è attuata la formazione mediante stage residenziali ai quali hanno partecipato insieme ai Dirigenti scolastici, unità di personale scolastico scelte fra le
figure con incarichi di collaborazione e rappresentative di ciascun settore
(infanzia, primaria, secondaria di primo grado).
Tenuto conto delle risorse finanziarie fornite dall’U.S.R., l’organizzazione ha richiesto attenzione massima agli aspetti logistici che ben si conciliassero con il benessere dei corsisti e di chi li guidava. È stato individuato un
contesto residenziale valido, innanzitutto, e sufficientemente vicino alla
nostra città per facilitarne il raggiungimento, che avesse uno stile essenziale e cordiale di accoglienza, di riservatezza e di flessibilità degli spazi per
consentire lo svolgimento delle diverse tipologie di esercitazione.
Il lavoro, concordato all’inizio nel contratto formativo, si è articolato in
cinque incontri residenziali di due giornate l’uno dislocati fra settembre e
maggio. In questi incontri abbiamo affrontato gli aspetti salienti della relazione quali: l’ascolto empatico; il non giudizio; il cambiamento; la giusta
distanza; la diversità, i nodi del conflitto e così via, sperimentandone direttamente le difficoltà a farli propri e ad agirli.
La scelta di questi temi è dipesa dalla necessità primaria di scoprire, per
educarla, la propria intelligenza emotiva. Nel contratto formativo erano previsti anche “compiti a casa”. Si è trattato di relazioni, di riflessioni scritte per
riordinare, riorganizzando secondo la propria individuale condizione, quanto appreso. Si è, inoltre, richiesto un impegno personale di risistemazione
dei concetti rivisitati, anche attraverso letture suggerite da una ricca bibliografia da me fornita.
Un impegno ampio certamente per i corsisti ma assolutamente necessario, altrimenti non può essere raggiunta, infatti, la necessaria consapevolezza che dà efficacia alla formazione.
La proposta ha fatto parte della formazione continua, in servizio
(dovrebbe essere significatamene presente anche nella formazione iniziale).
Èstato un segmento di un percorso più complesso intitolato: L’INTELLI-
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UNA RISPOSTA AL CONTENZIOSO SCOLASTICO
GENZA EMOTIVA:Dalla mediazione del conflitto alla relazione costruttiva.
Una formazione che si ispira alla tradizione del prendersi cura di sé di
quel prendersi che nello stesso tempo significa prendersi cura di se stessi e
prendersi cura degli altri, dove quest’ultimo discende da precedente.
Le parole delle quali siamo soliti servirci ci dicono chi siamo, che cosa
abbiamo visto e imparato:quelle che sono state emerse durante il percorso
rappresentano un passo decisivo lungo la strada che guida alla rivelazione di
se stessi per poter essere poi capaci di mettersi in relazione con l’altro da
sé, apprezzandone l’indiscutibile unicità, evitando etichette e giudizi limitanti.
C’è chi ha detto: “La cosa più umana che possiamo fare nella vita è imparare ad esprimere le nostre sincere convinzioni, i nostri più veri sentimenti
e a viverne le conseguenze”.
È ambizioso auspicare, quale conseguenza di questo progetto, una sfida
ad un domani migliore… nella relazione?
La relazione, la buona relazione con l’altro, non è mai compitamente
acquisita, stabilizzata ma è sempre da costruire. Non è occasionale o circostanza fortunata ma frutto di competenze. Richiede attenzione, cura e
tempo. Ma anche strumenti che vanno appresi.
Ci siamo sforzati di affermare l’imprescindibilità della formazione umana
nella scuola che è terreno di confronto sociale e, insieme alla famiglia, conserva importanti responsabilità educative.
Senso del convegno
Timothy Leary ha detto: “Le parole congelano la realtà”. È proprio così:
qualunque avvenimento filtrato attraverso il mondo della parola, rimane
immobilizzato, cristallizzato e ne perde immancabilmente la meravigliosa
portata emozionale ed intellettuale che lo ha accompagnato.
Bello sarebbe poter riferire dettagliatamente il percorso di formazione,
ma scegliamo di proporne “briciole” significative attraverso la cronaca del
convegno promosso per restituire al committente e agli operatori del territorio i primi risultati di una sperimentazione.
Durante la formazione l’idea di docente che è stata tenuta presente è
stata quella del “magister artis”, ma anche del ricercatore, del promotore di
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cultura. Con lo stesso intendimento nel convegno la parola passa presto ai
corsisti, sì ai corsisti del progetto che hanno voluto provarsi ad organizzare
un’iniziativa che riproducesse le stesse modalità di conduzione degli stage:
un laboratorio per sentire emozioni e poi rielaborarle. Una occasione per
“restituire” al territorio:
• la storia del cammino di formazione seguita da ogni partecipante
• la narrazione ragionata di un cambiamento possibile
• i risultati di una ricerca sul tema della relazione svolta negli istituti coinvolti
• la ricerca sui presupposti filosofici della relazione umana
Perché nasce l’idea del convegno?
Così lo motivano i corsisti stessi:
“Come dice Duccio Demetrio in L’autobiografia come cura di sé c’è un
momento nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in
modo diverso dal solito, c’è un valore terapeutico nel ripercorrere le tappe
importanti della nostra vita, nel guardarla dal di fuori, nel prenderci in carico (in cura) ed è lo sguardo alla pluralità dell’essere stati e diventati che dà
luogo al proprio libro di immagini.
Ci è piaciuta l’idea di raccontare questa esperienza attraverso un nostro
libro di immagini pur rendendoci conto, anche strada facendo, che non era
per niente facile socializzare un percorso così personale, spesso intimo, che
ha fatto vibrare in ognuno di noi corde diverse anche molto profonde.
Non abbiamo volutamente puntato l’attenzione sui riferimenti teorici o
sui contenuti, non abbiamo fatto una relazione puntuale, più o meno precisa, abbiamo invece cercato modalità significative per dire di noi.
Probabilmente le difficoltà così come la ricerca di un modo diverso dal
solito sono state parte integrante della formazione.
Il risultato è un po’ l’autobiografia del gruppo che ha utilizzato diversi
linguaggi, metafore e immagini per lasciare la propria traccia.
Ci piacerebbe che alcune parole eccitassero il pensiero, «risuonassero»,
fossero uno stimolo, un’occasione per fermarsi a «perdere» tempo e a riflettere, un modo per evocare altre parole… altre immagini”.
- Istintivamente ho associato la relazione ad una ragnatela, ad un’enorme
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ragnatela tessuta fin dalla nascita, con pazienza, gioia, allegria, soddisfazione, cautela, sforzo, difficoltà, dolore. I suoi fili sono esili, al sole sembrano
seta, è perfetta e sembra tracciata da mani esperte, ma è fragile, molto fragile proprio come le cose più belle e preziose. Nel nostro mondo non è
sempre facile tessere relazioni. La fretta, la presunzione, il non ascolto, la
mancanza di silenzio, la non accoglienza, sono i maggiori ostacoli.
- Sciogliere i nodi del conflitto prima che la matassa divenga inestricabile;
fare pulizia sistematica in noi per evitare la confusione vociante degli stati
emotivi che si affastellano disordinatamente, incontrollati.
- Ho anche compreso la differenza tra agire e reagire dinanzi alle situazioni
dove l’agire sta per pensare, sentire, ascoltare, vedere l’altro. Reagire,
invece, è una sorta di aggressione verso l’altro che usiamo per non far trasparire le nostre insicurezze alzare la voce per non volere ascoltare, pensare in modo egoistico secondo la propria personale concezione, unica
detentrice della verità.
- È una questione di equilibrio: è giusto e salutare far affiorare e comunicare gli stati d’animo in un conflitto. Mai reprimerli! Controllare il fiume in
piena delle proprie emozioni, soprattutto quando ti senti assalito da sentimenti come la rabbia, quando ti senti tradito, offeso, imbrogliato da chi ti
sta di fronte.
- Un filo teso in bilico tra il frastuono e il silenzio, gonfio di parole o muto.
- Quanto fa bene tacere!... La gioia che si diffonde dal silenzio è straordinaria. Che bene sarebbe se ognuno di noi ogni giorno tacesse un po’”. (Ghandi).
- Ci sono silenzi pieni di parole e parole piene di silenzio.
- Questo riemergere di emozioni e sentimenti lontani nel tempo, a volte piacevole a volte no, mi ha dato la consapevolezza di avere dietro e dentro di
me una storia alla quale riconosco valore.
- Riconoscere e accettare i propri limiti è un lavoro lungo e doloroso, perché
infine ti vedi come sei realmente senza maschere che ti proteggono e non
sempre quello che vedi ti piace.
- Il coinvolgimento è stato significativo. Ha richiamato alla mia mente i colori cui associo le emozioni vissute: il grigio anonimo dei ricordi malinconici,
i colori solari del gioco, il rosso dei legami forti e ricchi, l’azzurro dei nostri
sogni, il blu del mistero e del silenzio.
- Dare non solo a chi lo merita … e chi ha meritato di bere al mare della vita,
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merita di riempire il suo bicchiere al vostro ruscello… (Il Profeta Kahlil
Gibran).
- Ricevere senza che la gratitudine ci opprima, … e non gettare un giogo tra
voi e chi vi ha dato. I suoi doni siano piuttosto le ali su cui volare insieme…
(Il Profeta Kahlil Gibran)”.
A sottolineare il motivo di fondo sottostante all’impegno di formarsi, e
cioè di non danneggiare e danneggiarsi lasciando che altri possano conservare di noi ricordi a volte gravemente negativi, la prof. Giovanna Di Chio ha
letto poi il ritratto autentico di una docente di materie scientifiche tracciato, a distanza di anni, da una ex allieva, ora mia studentessa all’Università.
Di una insegnante, estremamente competente nella sua disciplina, ma gravemente carente nel rapporto con i suoi allievi, colpevoli di non corrispondere alle sue… troppo alte aspettative!
Momento forte del convegno è certamente stato quando la prof.ssa Claudia Racchetti, Dirigente scolastico del comprensivo Buscaglia, ha riferito i
risultati di una ricerca fatta all’interno del percorso di formazione con tutto
il gruppo dei partecipanti, sul tema della relazione nell’ambito lavorativo,
svolto negli istituti coinvolti ed estesa a tutte le figure che vi operano: dirigente, docenti, collaboratori scolastici.
I dati veicolati col computer e visualizzati sullo schermo hanno posto in
luce fra l’altro non solo l’importanza dell’ascolto reciproco fra le varie figure
professionali, ma anche la necessità di miglior precisazione e valorizzazione
dei rispettivi ruoli.
LA MOSTRA:
QUASI UN TOCCAR CON MANO…
Si chiude la prima parte del seminario perché, l’intensità e la durata
della concentrazione finora richiesta agli intervenuti, consigliava un’interruzione o meglio la prosecuzione dei lavori con modalità diversa: la visita della
mostra. I corsisti, coordinati da Tatiana Milan, componente del gruppo, avevano riportato in appositi pannelli tracce dei momenti operativi durante il
corso e li presentavano insieme ad una proposta interattiva per chi, tra i visi-
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tatori, si volesse cimentare. Questa idea è nata dal desiderio di rappresentare, seppur in modo non esaustivo, le problematiche legate alla relazionalità interpersonale, richiamandole con delle metafore, quali i “fili” che si
sovrappongono in un’inevitabile ragnatela di relazioni, le “maschere” che
criptano il vero volto dell’Io profondo, o caratterizzano dei ruoli; i “porcospini”, che consentono una trasposizione metaforica di “avvicinamento, allontanamento e giusta distanza dall’altro da me”; un invito a riflettere sull’immagine (cosa vedi quando guardi, cosa senti quando ascolti, cosa dici quando parli). Da vedere, da vivere, poco da mortificare con le parole, sempre
riduttive e fredde.
Venti minuti dopo, circa, riprendono i lavori.
La sala è ancora piena.
I posti a sedere sono tutti occupati e lo rimarranno fino alla chiusura del
convegno.
LA PAROLA AI DISCUSSANT
Ora i Discussant siedono al tavolo centrale.A loro la parola.
Uno ad uno danno il loro prezioso e atteso contributo, offrendo brevi
lezioni di psicologia, di vita vissuta, di esperienze lavorative, non mancando
di manifestare il loro consenso ad un’iniziativa così innovativa nel suo genere e restando nello stile di laboratorio fin qui proposto.
Finalmente una ventata di aria fresca, rinnovata nella scuola, che riporta l’attenzione all’essenza dell’educazione della persona e al benessere di
tutti nella scuola. “Emozioni a scuola, a scuola di emozioni” (Don S. Marazzini, responsabile delle scuole cattoliche).
Un rimando alle “Good Vibrations”, con riferimento all’impegno di ricerca di nuovi percorsi formativi da parte del gruppo per vibrare bene insieme,
ma anche per far vibrare bene insieme la mente e il corpo, avere comportamenti “incarnati”, superando l’errore di Cartesio (P. Moderato docente di
Psicologia- Università di Parma).
L’abbandono del lavoro come docente, perché poco gratificante per la
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scarsa comunicazione fra colleghi e l’approdo al mondo della giustizia; la
gratificazione per la miglior qualità relazionale che stimola il suo impegno,
anche se si deve occupare di casi drammatici. L’intervento sottolinea che il
benessere personale non è necessariamente legato al tipo di lavoro, quanto
piuttosto alla qualità della relazione (A. Fiorillo, Sostituto Procuratore presso la Procura del Tribunale per i Minorenni).
L’importanza di una buona relazionalità fondata sull’educazione dell’intelligenza emotiva viene pure ripresa da M. Chessa che dal suo punto di vista,
quale Giudice presso il Tribunale dei Minorenni, sottolinea quanto sia importante che la scuola si occupi di sensibilizzare su questo aspetto fondamentale della civile convivenza e si complimenta con i corsisti per il lavoro svolto.
Il tema del legame fra mente e corpo viene autorevolmente ripreso e
approfondito da A. Zatti (Docente di Psicologia presso l’Università di Bergamo).
Ancora un’interessante analisi sul significato di emozione, affetto, sentimento, in cui ogni termine rappresenta una minore o maggiore tensione alla
costruzione di senso, di valore da parte di A.Giasanti (Docente di Sociologia
presso l’Università Bicocca di Milano).
L’importanza di sinergia della scuola col territorio e le realtà istituzionali presenti, nonché la generalizzazione delle attività in rete fra istituti scolastici è quanto sottolineato da R.Rossi (Responsabile ANDIS) che considera
irrinunciabile l’attenzione alla qualità della relazione.
A questi interventi vanno aggiunte le osservazioni di S. Ciavattini, Direttrice dell’I.P.M. Beccarla di Milano e di A. Romito, Direttrice dell’U.S.S.M.,
Dipartimento della Giustizia Minorile di Milano, le quali sottolineano l’importanza di un collegamento fattivo fra i loro settori e il mondo della scuola.
È stato gratificante per tutti i corsisti, che tante energie hanno profuso
per la buona riuscita di questo progetto nel suo complesso, ascoltare gli
Accademici rivolgersi a loro chiamandoli “colleghi” e parlando col cuore.
Non capita tutti i giorni!
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IL DIBATTITO COL PUBBLICO
Il dibattito finale col pubblico si conclude ancora con testimonianza sul
cambiamento possibile fatta da una corsista, Antonia Famoso che riporta la
sua esperienza di insegnante di scuola elementare con trentennale esperienza. Si tratta di una narrazione, espressione di tutto il gruppo e precedentemente condivisa, per raccontare quali sottili e benefici cambiamenti
avvengono nel tempo quando si aprono i canali dell’intelligenza emotiva, a
conferma della positiva ricaduta in ambito scolastico, tutta a vantaggio dell’utenza.
Segue e conclude un breve ringraziamento a tutti gli intervenuti da parte
della dott.ssa Granito per l’interesse mostrato.
Traspare evidente la soddisfazione sia di chi era coinvolto in prima persona, sia di chi ne era spettatore compartecipe, siglata da un piacevole rinfresco a chiusura di una giornata veramente eccezionale.
La fatica della progettazione, della realizzazione e dell’organizzazione è
ormai alle spalle.
Siamo ben consapevoli di quanto sia stata impegnativa e complessa per
vari motivi. i corsisti infatti mai prima d’ora si erano provati in tali responsabilità organizzative. L’impegno concreto di progettazione dell’iniziativa ha
fatto toccare loro concretamente lo sforzo per la ricerca delle modalità specifiche della relazione interpersonale efficace, li ha fatti misurare con la difficoltà del rispetto del punto di vista dell’altro, dell’ascolto profondo, del
ruolo responsabile e costruttivo di ognuno, della gestione dell’ansia, dell’assunzione di responsabilità, ecc, tutti elementi oggetto degli incontri.
Così si sono messi profondamente in gioco per guardare le dinamiche
relazionali ricorrenti e presenteranno loro stessi dei cenni sui risultati. Il
gruppo ha sentito il dovere di impegnarsi, ed è stato faticoso, in una restituzione dell’esperienza fatta sia come dovuto riconoscimento a chi l’ha promossa, sia a chi si occupa di processi di formazione e a chi li fruisce. Ma
anche per il piacere del gruppo stesso di condividere in modo più ampio
un’esperienza di formazione che hanno intensamente vissuto e amato tanto
da dedicarvi molte energie e tempo libero da impegni professionali.
A sottolineare che innesta un circuito virtuoso che diventa promotore di
ulteriori e continue modificazioni.
Pur non potendo coinvolgere i grandi numeri, in quanto richiede che si
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lavori a piccoli gruppi, è nella sua stessa logica che abbia effetti che interessano le relazioni più ad ampio raggio, i colleghi e i genitori del proprio consiglio, la scuola il territorio, con un effetto onda.
Si è anche voluto tentare la reciprocità tra teoria e prassi.
Ben teniamo presente la divisione cartesiana tra teoria e prassi ma
anche il limite che ne consegue: la prassi non ha valore di un sapere! Noi con
il convegno abbiamo proposto una concreta interazione.
Abbiamo presentato tracce di un percorso e restituito agli addetti della
ricerca perché potessero estrapolare il valore epistemologico, i limiti e i correttivi, gli elementi da rivedere e da confermare.
Ai docenti e ai genitori presenti abbiamo chiesto di confermarci o
disconfermarci che il bisogno di relazioni costruttive è molto sentito, che le
capacità di realizzarle sembrano una prerogativa di sempre meno persone,
che c’è la necessità di privilegiare l’educazione alla gestione non conflittuale della diversità.
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Lorita PUCCETTI
Intervento al convegno
“A relazionarsi si impara”
“Si dice che una storia sia la distanza più breve tra un essere umano e la
verità, per questo vi racconto l’aneddoto sufico del Mullah che stava carponi per la via e cercava per terra.
Arriva un amico e gli domanda: “Mullah, che cosa stai facendo?”.
E lui: “Sto cercando la chiave di casa. L’ho persa.”
L’amico premuroso: “Mostrami dove l’hai persa così mi metterò carponi
anch’io e ti aiuterò a cercarla.”
E il Mullah: “Oh, l’ho persa in casa.”
L’amico stupito domanda: “E allora perché diavolo la stai cercando qui
fuori?.”
Il Mullah risponde: “Qui c’è più luce!”
Spesso ci comportiamo proprio come il Mullah, ci impegniamo nella
ricerca dove c’è luce, ma così facendo non è possibile trovare ciò che cerchiamo!
Forse provando a metterci carponi dentro, dove qualche volta c’è un
buio spaventoso, potremo avere il dono di scoprire cose meravigliose su noi
stessi.
Realizzeremo probabilmente che siamo più in potenza che in atto.
Ho letto che, in punto di morte, Einstein lamentò che si fosse realizzato
molto poco di lui.
Questo vale per ciascuno di noi, non è necessario essere Einstein.
Questo corso ha il grande pregio, secondo me, di non agire alla luce… di
quanto è da noi padroneggiato, parlo delle conoscenze teoriche, disciplinari o didattiche, confezionando per gli educatori suggerimenti in pillole da
somministrare, da propinare all’occorrenza nelle fatiche del quotidiano, ma
ha il pregio di perseguire un grande sfida che conduce nel profondo buio
della nostra parte emotiva.
Quasi eroicamente, ha stravolto il modo di intendere l’aggiornamento, mettendo in crisi percorsi di formazione consolidati nel
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tempo, che, in realtà, poco smuovono nell’animo di chi li frequenta,
con il risultato di lasciare che tutto sia com’é.
Ha profuso invece le sue migliori energie sugli aspetti emotivi del conflitto, andando ad indagare con una lente d’ingrandimento l’influenza che
ha, in senso lato, nell’esistenza umana e, in senso stretto, sull’apprendimento.
E così ci si sorprende a riflettere sui cambiamenti che le emozioni operano sia nel cervello, sia nel corpo, in seguito a particolari stimoli mentali.
Avventurarsi in questo percorso, prevede inevitabilmente l’incontro col
“disagio”, in particolare quel disagio che il bambino porta con sé a scuola e
che urla a gran voce di essere riconosciuto, di essere preso in carica.
È il grido che giunge da un mondo fatto di fragilissimi cristalli. non ci è
dato di osservar quel mondo da lontano, preoccupati o disorientati per la
sua impenetrabilità.
Il nostro obiettivo è quello di riuscire ad entrarvi con felina grazia per
non mandarlo in mille pezzi e per raggiungere il suo cuore.
Spesso invece ci si addentra maldestramente, con la delicatezza di un
elefante!
Il disastro è allora inevitabile, anche perché nelle mille sfaccettature dei
cristalli o dei cocci sui quali ci troviamo a barcollare, vediamo riflessi noi
stessi, gravati dai nostri fardelli di disagio.
Restiamo allora intrappolati in un’inevitabile quanto intollerabile identificazione con quel mondo di cristallo che ci fa da specchio.
Ed ecco allora riaffiorare in noi sopiti strappi, che hanno lacerato e a
volte continuano a lacerare la nostra esistenza di adulti, insegnanti e/o genitori, e che sono stati nascosti in quel buio dove non siamo tentati di entrare.
E così si brancola in due nello scuro labirinto delle paure, bambino e
adulto insieme, stretti nella morsa del disagio, ognuno a invocare a suo
modo aiuto, in una sorta di malessere allargato, disarmato e disarmante.
Il mondo adulto in genere, e in modo particolare quello della scuola, oggi
più che mai sensibile al problema, si interpella e si interroga fortemente sul
dilemma del disagio, approdando solo alla sua identificazione, alla sua codificazione, alla sua generalizzazione, registrandone, come un sensibile sismografo, la serpeggiante e spiacevole sensazione d’impotenza, che lascia dietro
di sé.
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Ne scaturisce un’opprimente sensazione di responsabilità, che poco si
alleggerisce all’idea di non esserne colpevole e che a volte si tenta di negare con una sorta di meccanismo di autoassoluzione
In verità questo esame di coscienza, che lascia in noi un retrogusto
amaro, ci dice che è ora di dare una virata al modo di procedere, nella rotta
fin qui seguita, che scarsi risultati ha ottemperato, visto l’allargarsi a macchia d’olio del disagio giovanile e non solo.
Leonard Silberman in “Crisis in the classroom” giunge alla conclusione
che, essendo l’educazione per tutti, facciamo un ottimo lavoro per quanto
riguarda il leggere, lo scrivere, il far di conto. In questo siamo bravissimi.
Ma non sappiamo assolutamente insegnare agli individui a diventare
esseri umani.
Un disagio vissuto a scuola e… un’adolescente si toglie la vita… è cronaca dello scorso mese di giugno!, e ancora… un disagio non compreso e
vissuto in totale solitudine e… un ragazzo di diciotto anni cerca nel suicidio
una possibile soluzione alla sua sofferenza, lasciando genitori e insegnanti e
noi tutti sbigottiti… è purtroppo cronaca del 21 luglio 2004…
E allora penso tra me… “A che serve imbottire di nozioni gli altri, se
dimentichiamo che sono esseri umani? Se tanto poco riusciamo ad incidere
nella loro fragile esistenza?”.
Carl Roger ha fatto un’affermazione importante, che sono solita proporre, come spunto di riflessione collettiva, nella prima assemblea di classe ai
genitori dei primini.
“Io non credo che qualcuno abbia mai insegnato qualcosa a qualcun altro. Contesto l’efficacia dell’insegnamento. L’unica cosa che so è
che chi vuole imparare impara. Un insegnante, al massimo, è uno che
facilita le cose, imbandisce la mensa e mostra agli altri che è eccitante
e meravigliosa e li invita a mangiare”.
È il massimo che possiamo fare… rendere appetibile la mensa imbandita. Non possiamo costringere nessuno a mangiare!
Direi addirittura che non è possibile cambiare nessuno.
Possiamo solo cambiare noi stessi. Ma siamo noi ad influenzare l’altro, a
seconda del nostro modo di essere!
Il disagio dei nostri alunni, dei nostri figli, dei giovani in genere è il frutto acerbo del disagio che il mondo adulto non ha saputo risolvere e ha affogato nel mare oscuro dell’anima.
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Non ci è dato di rimanere indifferenti né inermi nella critica, nel fastidio,
imprigionati in rimbrotti e lamentele o in reazioni sulla difensiva o sull’offensiva: questo è ciò che già sta facendo il ragazzo, il ribelle, il disagiato. Dall’adulto, soprattutto se educatore, ci si aspetta dell’altro!
Ben venga allora il benefico lavoro di speleologia interiore, che la
dott.ssa Martello ci guida a fare. Esso ci consente di migliorarci, di conoscerci meglio, di risanare i nostri anfratti dolorosi, di curarci amorevolmente, di
prenderci per mano, per trovare in noi la strada maestra che conduce al
ben-essere personale.
Ci consente di crescere fino a diventare “genitori di noi stessi”.
Solo allora potremo prendere per mano chi vive un mal-essere, far da
luce calda e accogliente per guidarlo fuori dalle secche.
È una forte sfida al “fai da te”, all’arrabattarsi con le proprie forze: ci
evita, nel momento della difficoltà, di pescare nel bagaglio esperienziale atavico, dove ritroviamo principi, regole e comportamenti intrapresi, a suo
tempo, dai nostri genitori e dai nostri insegnanti. Ci preserva dal precipitare in un baratro a ritroso a ripetizione esponenziale (i nostri genitori e i
nostri insegnanti hanno agito nello stesso modo, in una sequenza ritmica a
catena)!
E siccome noi possiamo dare solo ciò che abbiamo, solo ciò che veramente possediamo, è indispensabile rendersi immensi, pieni di conoscenza,
pieni d’amore, pieni di comprensione, pieni d’esperienza, perché si possa
poi donare, tutto ciò che abbiamo in noi, a piene mani.
Pieni di conoscenza a livello razionale: qui interviene la “ragione” con la sua capacità di pensare, di compiere inferenze in modo
logico e ordinato, interviene la “razionalità”, cioè la qualità del
pensiero e del comportamento che deriva dall’adattare la ragione
ad un contesto personale e sociale.
Pieni di “emozioni” positive, intese non come una facoltà mentale eccedente, una non richiesta compagna del nostro pensiero razionale, che la
natura ci ha imposto, bensì una serie di cambiamenti stimolati da un particolare contenuto mentale, che avvengono sia nel cervello, sia nel corpo.
Ragione ed emozione: non più separate tra loro come l’olio e l’acqua,
incapaci di mescolarsi assieme, ma intese in un rapporto sinergico, in un’armonica sintonia, in una piena interazione, che prevede, come campo d’azione, il corpo.
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BANDO
UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI DI VENEZIA
SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE INTERATENEO
PER LA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI
DELLA SCUOLA SECONDARIA DEL VENETO
CENTRO DI ECCELLENZA INTERATENEO
PER LA RICERCA DIDATTICA
E LA FORMAZIONE AVANZATA
CORSO DI PERFEZIONAMENTO UNIVERSITARIO
in MEDIAZIONE DEI CONFLITTI
ANNO ACCADEMICO 2006/2007
Data la trasversalità delle tematiche e del metodo di lavoro,
il corso è valido per tutte le classi di abilitazione
Art.1 - Profilo del Corso di Perfezionamento Universitario
È attivato, nell’A.A.2006/2007, dal Centro di Eccellenza Interateneo per la
Ricerca Didattica e la Formazione Avanzata un Corso di Perfezionamento
Universitario annuale dal titolo “MEDIAZIONE DEI CONFLITTI”.
Il corso di perfezionamento è destinato ai quanti aspirano a diventare
mediatori professionali e a quanti vogliono essere professionisti “mediatori”,
cioè capaci di migliorare le proprie prestazioni con il ricorso alle Alternative Dispute Resolution (A.D.R.).
Costituisce, inoltre, un’occasione di formazione continua per quanti hanno
già iniziato la formazione in un ambito specifico di applicazione della Mediazione e sono interessati alle applicazioni plurali.
Possono accedervi i laureati in giurisprudenza, sociologia, psicologia, scienze della comunicazione, scienze dell'educazione, pedagogia, scienze politiche con indirizzo sociologico, servizio sociale e equipollenti. Verranno prese
in considerazione anche le domande di possessori di altre lauree.
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Il corso avrà carattere interprofessionale, in particolare si rivolgerà ad
educatori, volontari, docenti e dirigenti scolastici, giudici di pace, avvocati
della famiglia e penalisti, commercialisti, psicologi, operatori del volontariato, assistenti sociali, quadri aziendali.
Art. 2 - Obiettivi del Corso
L’obiettivo principale del corso è la formazione di esperti in Mediazione e in
risoluzione pacifica dei conflitti nei vari ambiti di applicazione, e in Formazione alla relazione.
A tale scopo il Corso si propone di far conoscere i metodi alternativi per la
gestione delle controversie, sensibilizzare alla cultura della Mediazione,
offrire strumenti per migliorare la propria professione (professionistamediatore), preparare alla gestione di interventi di promozione e diffusione
della Mediazione, avviare alla applicazione professionale delle tecniche di
gestione dei conflitti (mediatore professionale) in ambito lavorativo, scolastico, familiare, sociale, commerciale e penale.
Il Corso fornirà anche competenze professionali di tipo "trasversale", grazie
all’approfondimento delle conoscenze sulla natura dei conflitti e sui temi
della educazione alla relazione, della intelligenza emotiva, della comunicazione interpersonale.
I settori in cui impiegare le competenze acquisite nel Corso sono molteplici
in quanto il bisogno di luoghi per la composizione dei conflitti e di interventi di educazione alla relazione è inversamente proporzionale alla carenza
dell’offerta di servizi, privati e pubblici.
Art. 3 - Caratteristica specifica del Corso
La peculiarità del corso si esprimerà in modo particolare nei seguenti presupposti:
- La presenza prevalente dello stesso formatore per tutta la durata delle attività
professionalizzanti. Altri docenti ruoteranno attorno a questa figura centrale
che garantirà l’unitarietà del percorso e la coerenza del processo di formazione.
- Il numero degli ammessi verrà suddiviso in sottoclassi così da permettere
un vero intervento di formazione individualizzata.
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- La centralità delle attività esperienziali (esercitazioni, simulate e workshop), in grado di fornire una migliore comprensione delle dinamiche
sottese agli scambi di relazione, alla genesi dei conflitti, e alle modalità di
intervento mediativo. Tali attività faranno riferimento a un modello elaborato da Maria Martello, coordinatrice didattica del Corso, e prevedranno
l’utilizzo di metodi e tecniche provenienti dalla metodologia della Mediazione per la risoluzione pacifica del conflitto e da altre aree attinenti la
consapevolezza di sé e la sensibilità comunicativo-relazionale.
AVVERTENZA IMPORTANTE
Il carattere del corso si fonda su situazioni individuali e di gruppo emotivamente intense che costituiscono una parte significativa e non eludibile dell’itinerario di formazione.
Lavorare sul conflitto altrui, infatti, richiede: il confronto con i propri vissuti e le modalità attraverso cui il proprio stile di relazione si esprime; una
acquisizione di consapevolezza dell’aggressività, implicitamente o esplicitamente veicolata nella relazione tra gli individui, e delle paure a questa sottostanti.
Chi invece, pur preparato tecnicamente alla nuova modalità di risoluzione
alternativa delle dispute, ne resta invischiato, si spaventa o contrattacca alla
prima difficoltà relazionale, ben difficilmente potrà aiutare altre persone a
trasformare in modo costruttivo e non violento i loro conflitti.
Pertanto conditio sine qua non dell’iscrizione è la specifica e profonda
motivazione così come anche la disponibilità:
- a “mettersi in gioco”, lavorando, anche, sulla consapevolezza dei propri
problemi comunicativi e conflitti relazionali, quale base di partenza per
affrontare quelli altrui;
- all’individuazione dei conflitti più diffusi e percepiti come più gravi;
- all’analisi delle modalità abitualmente utilizzate per la loro gestione;
- al confronto dell’efficacia degli organismi formali o informali normalmente
interpellati per affrontare tali dispute.
Art. 4 - Struttura e durata del Corso
Il Corso si sviluppa su 1500 ore di cui 600 di formazione assistita e 900 di
studio individuale per un totale di 60 crediti.
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CURRICULUM
Le lezioni si svolgeranno secondo le modalità blended della formazione integrata on line e in presenza. La metodologia didattica dei seminari didattici
in presenza sarà prevalentemente esperienziale e operativa quindi professionalizzante.
La formazione professionalizzante sarà completata dalle attività di informazione teorica, di formazione e tutoraggio a distanza con la modalità on line,
dallo studio individuale (studio di testi, elaborazione di progetti, preparazione esame intermedio e finale), dalle attività di laboratorio e dagli esami
intermedi e finali. Il monte ore complessivo risulterà quindi pari a 1500 ore
di cui 600 ore di didattica assistita (lezioni frontali, on line, seminari, laboratori, tirocinio) e 900 di studio individuale.
Il percorso formativo sarà così articolato:
SEMINARI DIDATTICI
I seminari didattici, consistenti in lezioni frontali, gruppi di lavoro, simulazioni e casi di studio, role-playing, daranno ampio spazio alle osservazioni
e alle valutazioni dei partecipanti, e saranno progettati e gestiti in modo tale
da favorire gli apprendimenti relativi ai saperi di base della formazione
(insegnamenti caratterizzanti), nonché per favorire lo sviluppo di apprendimenti relativi ai “saperi professionalizzanti della formazione” (insegnamenti professionali), attraverso l’acquisizione di metodi e strumenti di intervento necessari alla pratica professionale.
Si articoleranno in 12 stage di una giornata intera e in 3 incontri di
mezza giornata per un monte ore complessivo di 130, con cadenza
mensile.
LEZIONI on line
Le lezioni on line forniranno la preparazione culturale relativamente ai
moduli tematici, saranno corredate da attività che verranno proposte al corsista e costituiranno valutazione in itinere.
Si articoleranno in 80 ore con cadenza settimanale.
TUTORING on line, che seguirà gli studenti nell’arco dell’intero corso, con
l’avvio di focus-group, forum, attività di elaborazione, riflessione e confron-
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to connesse con l’intera attività di formazione (seminari, laboratori, lezioni
on line), e con l’invio di messaggi compensativi.
Si articolerà in 200 ore con cadenza costante per l’intero svolgimento del corso.
LABORATORI ACTION LEARNING
Oltre ai momenti di formazione in aula e on line, il percorso formativo del
Corso offre dei momenti laboratoriali centrati sulle tematiche professionali
emergenti dagli insegnamenti.
Si articolerà in 125 ore distribuite in 25 incontri di 5 ore o in 14
incontri di un’intera giornata. con cadenza quindicinale.
ATTIVITÀ DI TIROCINIO E AUTOFORMAZIONE ASSISTITA
Le attività di tirocinio, trasversali al percorso e facilitate dal tutor, si svolgeranno presso enti e organizzazioni (enti di provenienza o altri enti identificati ad hoc) e saranno finalizzati a offrire l’ancoraggio esperienziale necessario per esercitare le abilità acquisite.
Si articolerà in 50 ore.
Inoltre, gli studenti saranno impegnati in alcuni incontri di autoformazione
assistita con il tutor, al fine di supportare la personalizzazione dei percorsi
di apprendimento, la formulazione degli obiettivi di carriera, e l’analisi delle
esperienze (didattiche, in aula, on line e di stage) per facilitarne l’elaborazione e verificarne il contributo e il significato in relazione alla definizione,
al completamento e alla personalizzazione del profilo professionale.
Si articolerà in 25 ore.
CONTENUTI
Il Corso si articolerà in moduli che si svilupperanno in tre aree: insegnamenti caratterizzanti, insegnamenti professionali, attività extra-aula (tirocinio,
project work, verifiche dell’apprendimento, valutazione e tesi finale). A
queste si aggiungerà lo studio personale. Tra le attività extra-aula particolarmente importante sarà il project work, in cui gli iscritti dovranno affrontare problemi di ordine professionale e pratico, connessi e finalizzati al tirocino e alla tesi finale.
Le attività del Corso saranno articolate secondo un calendario fissato dal
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Le A.D.R.
Collegio dei Docenti ed inizieranno nel mese di OTTOBRE 2006.
Il calendario dettagliato delle lezioni e ogni altra informazione sui corsi verranno forniti al momento dell’iscrizione.
Le attività formative si articoleranno nei seguenti moduli tematici:
- i principi della relazione interpersonale non conflittuale: il benessere emotivo, l’ascolto, l’alterità, la cura di sé, la fiducia, il silenzio, il tempo;
- il significato del conflitto alla luce dei principi della Mediazione: burn-out,
mobbing e malessere, il non giudizio, l’empatia, l’intelligenza emotiva;
- le A.D.R.: la conciliazione, l’arbitrato, la negoziazione, la mediazione;
- fondamenti di diritto civile, penale, minorile, commerciale;
- filosofia, teoria e pratica della Mediazione dei conflitti: senso della Mediazione, le procedure e le abilità, le qualità del mediatore professionale, le
qualità del professionista mediatore, l’impegno della formazione continua;
- le procedure da mettere in atto e le abilità richieste nella Mediazione;
- gli ambiti di applicazione: la Mediazione scolastica, penale, commerciale,
familiare, sociale;
- normativa nazionale e internazionale in merito alla Mediazione;
- normativa per la certificazione delle competenze-accreditamento.
Il corpo docente sarà costituito da docenti universitari e da professionisti
accreditati ed esperti nei campi specifici previsti dai moduli.
Art. 5 - Calendario didattico
Il calendario didattico del Corso prevede che le attività in presenza si svolgeranno nelle sedi di Venezia o di Milano, prevalentemente dal venerdì alla
domenica, in modalità intensiva.
Piano delle attività:
FASI TIPOLOGIA DI INTERVENTO
1a FASE
Accoglienza: presentazione del Corso, selezione delle domande, analisi dei
bisogni dei partecipanti, questionario di valutazione iniziale, strutturazione
dei crediti formativi e professionali, inquadramento culturale e professionale del Corso, inquadramento organizzativo, presentazione dei tutor e del
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lavoro di tutoring, costruzione della partecipazione degli studenti del
Corso: motivazione, ruolo dell’esperienza personale e costruzione del programma personale all’interno del percorso formativo, presentazione del
materiale di studio e di formazione in presenza e on line.
2a FASE
Area degli insegnamenti teorici fondamentali: presentazione del calendario
degli insegnamenti e dei laboratori, coordinamento formativo tra gli insegnamenti e i laboratori, insegnamenti in presenza con tutor, partecipazione
a stage, autoapprendimento on line con tutor, studio personale, ipotesi di
indirizzo o progetto di tirocinio, questionario di valutazione intermedia.
3a FASE
Area degli insegnamenti professionali e dei laboratori: calendario degli insegnamenti e dei laboratori, completamento area informativa, laboratorio di
apprendimento, partecipazione a stages, personalizzazione degli apprendimenti anche attraverso approfondimenti specialistici, insegnamenti in presenza con il tutor, autoapprendimento, studio personale, progetto personalizzato di tirocinio, colloquio di valutazione intermedia.
4a FASE
Tirocinio e stage: completamento laboratori, tirocinio diretto, partecipazione a stage, incontri in presenza con tutor, autoapprendimento on line, studio personale, scelta dell’indirizzo di tesi, tesina di tirocinio, valutazione del
tirocinio, monitoraggio formativo, riformulazione personalizzata della formazione
5a FASE
Esami conclusivi e tesi finale: valutazione del sistema del percorso, autovalutazione e valutazione personale: verifica della partecipazione e della formazione in presenza e on line, verifica del tirocinio, verifica dello studio
personale, verifica del processo di tesi, lavoro di tesi, studio personale, tutoraggio, valutazione della tesi.
Durata del Corso
Il Corso ha durata non inferiore ai 12 mesi.
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Il Corso è a frequenza obbligatoria; saranno ammesse assenze per un massimo corrispondente al 25% delle ore di formazione assistita.
Anche le lezioni attivate con modalità on line prevedranno un sistema di
verifica della presenza, basata sull’invio periodico tramite posta elettronica
di test e produzione di elaborati. Pertanto, anche le lezioni on line saranno
sottoposte al vincolo della frequenza obbligatoria. Il 25% delle assenze massime consentite dovrà quindi essere calcolato tenendo conto sia delle lezioni in presenza che on line.
Il Corso si concluderà con l’elaborazione ad opera dei corsisti di un lavoro
finale, che potrà valorizzare l’esperienza di tirocinio effettuata. Questo verrà
svolto sotto la direzione dei docenti-tutor, e sarà discusso e valutato da una
commissione nominata dal Collegio dei Docenti. L’esame finale consisterà
nella produzione e nella discussione di un elaborato relativo ad uno studio
di caso o a un intervento di formazione nell'ambito della professionalità di
area, a scelta dal candidato. Gli studenti potranno completare il lavoro di
tesi non oltre i sei mesi dalla conclusione delle attività didattiche del Corso,
solo in caso di comprovata necessità.
Le tesi che si riterranno di particolare interesse verranno proposte per la
pubblicazione in riviste specializzate.
Art. 6 - Piano degli studi
Di norma, salvo adeguamenti o aggiornamenti atti a qualificare l’offerta formativa, gli insegnamenti previsti dal piano degli studi sono i seguenti:
- insegnamenti caratterizzanti (15 crediti, corrispondenti a 375 ore, con
almeno 2 crediti per le lezioni in presenza, 3 crediti di studio assistito on
line e 10 crediti di studio personale).
Il Corso si articolerà in moduli che si svilupperanno in tre aree: insegnamenti caratterizzanti, insegnamenti professionali, attività extra-aula (tirocinio,
project work, verifiche dell’apprendimento, valutazione e tesi finale). A
queste si aggiungerà lo studio personale. Tra le attività extra-aula particolarmente importante sarà il project work, in cui gli iscritti dovranno affrontare problemi di ordine professionale e pratico, connessi e finalizzati al tirocino e alla tesi finale.
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Le attività del Corso saranno articolate secondo un calendario fissato dal
Collegio dei Docenti ed inizieranno nel mese di OTTOBRE 2006.
Il calendario dettagliato delle lezioni e ogni altra informazione sui corsi verranno forniti al momento dell’iscrizione.
Le attività formative si articoleranno nei seguenti moduli tematici:
Modulo 1: Psicologia dei rapporti interpersonali
(I principi della relazione interpersonale non conflittuale: il benessere emotivo, l’ascolto, l’alterità, la cura di sé, la fiducia, il silenzio, il tempo)
Modulo 2: Psicologia Sociale
(Il significato e la genesi dei conflitti; burn-out, mobbing e malessere, il
non giudizio, l’empatia, l’intelligenza emotiva)
Modulo 3: Alternative Dispute Resolution
(Le A.D.R.: la conciliazione, l’arbitrato, la negoziazione, la mediazione)
Modulo 4: fondamenti di diritto civile, penale, minorile
Modulo 5: Negoziazione, conflitto e norma in ambito economico
Modulo 6: Pedagogia Sociale 1
(Senso educativo della mediazione; le qualità del mediatore professionale;
l’impegno della formazione continua)
Modulo 7: Gli ambiti di applicazione
(La Mediazione in ambito scolastico, penale, commerciale, familiare,
sociale)
Modulo 8: Normativa nazionale e internazionale in merito alla
Mediazione
Modulo 9: Normativa per la certificazione delle competenze
Laboratori
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ATTIVITA EXTRAULA
(15 crediti corrispondenti a 375 ore, con almeno 1 credito in presenza, 4
crediti di studio assistito on line e 10 crediti di azione e studio personale).
Verifiche apprendimento
Tirocinio
Project work
Valutazione e tesi finale (5 crediti pari a 125 ore, di cui almeno 1 credito in
presenza, 2 crediti on line e 2 crediti di studio personale).
VALORE DEL CORSO IN CREDITI
1 credito = 25 ore
Totale crediti 60 = 1500 ore
Formazione in presenza: minimo 8 crediti
Studio personale: 34 crediti
Formazione assistita: 18 crediti
VALORE DELLE ATTIVITÀ FORMATIVE IN CREDITI
ATTIVITÀ
CREDITI
MONTE ORE
Insegnamenti caratterizzanti
Insegnamenti professionali
Laboratori
Attività extra-aula
15
20
5
375
500
125
(verifiche apprendimento, tirocinio, project work, tesina finale)
15
5
60
375
125
1500
Valutazione e tesi finale
Totale
L’attribuzione dei C.F.U., utilizzabili presso la SSIS del Veneto e altre strutture didattiche previa valutazione della Commissione Didattica, è subordinata al superamento delle verifiche in itinere e di quelle dell’esame finale.
Art. 7 - Articolazione didattica
Sarà possibile attivare classi parallele al Corso. In questo caso, e fermi
restando gli insegnamenti caratterizzanti previsti dal Piano degli studi, gli
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insegnamenti professionali e i laboratori, potranno variare in dipendenza
dalle particolari caratteristiche organizzative.
In particolare le giornate di formazione in presenza potranno essere raggruppate in modalità intensiva.
Art. 7 - Organizzazione didattica, scientifica e amministrativa del
Corso
Coordinatore del corso e responsabile scientifico: Prof.ssa Francesca
Pazzaglia, professore associato presso l’Università di Padova e docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia - SSIS del Veneto.
Referente didattico - organizzativo: Prof.ssa Maria Martello, docente
presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia - SSIS del Veneto, mediatrice e
giudice onorario presso la Corte d’Appello di Milano.
Consiglio del corso: sarà composto dal Coordinatore del Corso e dai
docenti: Prof.ssa Ivana Padoan, Ricercatrice universitaria Università Cà
Foscari, Prof. Massimiliano Costa, Ricercatore Università Cà Foscari; Prof.
Lino Vianello, professore a contratto presso l’Università Cà Foscari SSIS del
Veneto.
Collegio Docente: sarà costituito oltre che dai docenti che compongono il
Consiglio del corso, dai docenti che coopereranno alla realizzazione del
corso che si avvarranno di conduttori e tutor esperti di progettazione, metodologie e didattiche applicate, in contesto scolastico e della formazione
adulta, per la gestione dei laboratori.
Segreteria amministrativa del corso: la segreteria amministrativa del
corso sarà curata dal Centro di Eccellenza Interateneo per la Ricerca Didattica e la Formazione Avanzata c/o Vega – Parco Scientifico Tecnologico – Via
delle Industrie, 17/a – Edificio Lybra Venezia-Marghera, Tel. 041-5094363,
Fax 041-5094410, e-mail: [email protected].
Sede del Corso: le lezioni si svolgeranno secondo le modalità blended della
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formazione integrata on line oltre che in presenza. La sede del corso è a
Venezia. Le lezioni si svolgeranno presso il Centro di Eccellenza Interateneo per la Ricerca Didattica e la Formazione Avanzata c/o Vega – Parco
Scientifico Tecnologico – Via delle Industrie, 17/a – Edificio Lybra VeneziaMarghera, Venezia.
Si potrà attivare il corso presso sedi decentrate in altre Regioni, una volta
raggiunto il numero minimo di 30 iscritti.
La convenzione verrà attivata dal Centro di Eccellenza Interateneo per la
Ricerca Didattica e la Formazione Avanzata su proposta del Coordinatore
del Corso prima dell’avvio del Corso di Perfezionamento Universitario.
Modalità di accesso: il numero dei posti complessivamente disponibili è
fissato in 120. Il numero minimo dei posti è fissato in 30. Qualora non venisse raggiunto il numero minimo programmato il Corso non verrà attivato.
Nel caso le domande pervenute fossero superiori al numero massimo previsto, la Commissione di valutazione, costituita dal Coordinatore del Corso e
dai membri del Consiglio del Corso, effettuerà la selezione tenendo conto
dei curriculum presentati e dell’andamento di un workshop preliminare a
cui gli iscritti saranno invitati a partecipare.
Art. 8 - Requisiti di ammissione e Modalità di iscrizione
Al Corso di perfezionamento possono accedere coloro che sono in possesso
di diploma di laurea del previgente ordinamento, della laurea triennale
ovvero della laurea specialistica.
Per informazioni ed iscrizioni rivolgersi a:
Centro di Eccellenza Interateneo per la Ricerca Didattica e la Formazione
Avanzata c/o Vega – Parco Scientifico Tecnologico – Via delle Industrie, 17/a
– Edificio Lybra Venezia-Marghera, Tel. 041.5094363 – Fax 041.5094410 –
e-mail: [email protected]
Sito Internet del Centro: http://www.cenec.org/index.htm
Il Direttore della SSIS Veneto
Prof. Umberto Margiotta
Il Coordinatore del Corso
Prof.ssa Francesca Pazzaglia
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Il Presidente del Centro di Eccellenza
Prof. Carmelo Majorana
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Curato e realizzato da:
Graphic Team, Monticello B.za (LC)
Finito di stampare, settembre 2006
Tutti i diritti sono riservati
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