Alberto Maria Gaffuri*
Sede di direzione e la sede
dell’amministrazione: i presupposti della
stabile organizzazione e della residenza
Sommario: 1. – Premessa. La sede di direzione nelle norme civilistiche; 2. – Segue. I rapporti tra sede di direzione e sede operativa; 3. – La sede di direzione nelle norme tributarie.
La sua natura di stabile organizzazione; 4. – Segue. La sede di direzione nell’art. 4 delle
convenzioni contro la doppia imposizione; 5. – Relazioni tra sede direttiva e sede amministrativa; 6. – Se può essere considerata stabile organizzazione una società che esercita il
potere di direzione e coordinamento sugli altri membri di un gruppo. Esame della norma
su stabile organizzazione e controllo di un’impresa; 7. – Segue. Conclusioni.
1. Premessa. La sede di direzione nelle norme civilistiche
Scopo del presente studio è di approfondire la differenza tra la sede di direzione – che integra i presupposti di una stabile organizzazione ai sensi dell’art.
162 del d.p.r. n. 917/1986 e dei precetti convenzionali – e la sede di amministrazione – che invece comporta il possesso della residenza secondo le norme
fiscali.
Le due attività di direzione e di amministrazione, in via generale, sono trattate separatamente non solo dalla legge fiscale ma anche da quella civile. Talvolta
però i tratti differenziali dell’una e dell’altra, chiari e netti in teoria, sfumano
talora sensibilmente non solo nella prassi operativa ma anche, apparentemente,
in alcune disposizioni normative. Le due funzioni, infatti, pur essendo in via di
principio autonome, sono comunque fortemente intrecciate e non di rado sono
svolte dagli stessi soggetti.
Il codice civile dedica alcune norme specifiche alla disciplina della direzione
e coordinamento delle società.
A mente dell’art. 2497, le società e gli enti che, esercitando il potere direttivo
nei riguardi di altri soggetti collettivi, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi della corretta gestione, sono direttamente
responsabili verso i soci di tali altri soggetti collettivi per il pregiudizio arrecato
alla redditività o al valore delle partecipazioni e verso i creditori dei medesimi
soggetti per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio sociale1.
Per quanto concerne gli obblighi informativi, l’art. 2497 bis stabilisce che
negli atti e nella corrispondenza di una società, nonché nella nota integrativa
al suo bilancio, bisogna indicare, rispettivamente, i dati identificativi dell’ente
* Università degli Studi di Milano – Bicocca
1 L’art. 2497 sexies introduce una presunzione semplice relativa all’esercizio dell’attività di direzione coordinamento a carico di società ed enti tenuti al consolidamento dei bilanci o che comunque si
trovano in una posizione di supremazia ai sensi dell’art. 2359 c.c. (sul punto: PROVASOLI, Il bilancio
d’esercizio, anche con riferimento alle operazioni straordinarie, nel progetto di riforma, in AA.VV., La
riforma del diritto societario, Quaderno della Riv. dei dott. comm., Milano, 2003, 211.
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titolare della funzione direttiva e un prospetto riepilogativo delle voci salienti
del suo stato patrimoniale e del suo conto economico2.
È poi istituita presso il registro delle imprese un’apposita sezione nella quale
sono iscritte le società e gli enti che esercitano l’attività di cui si discorre.
Ancora, ai sensi dell’art. 2497 bis, quinto comma, gli amministratori di ciascuna società del gruppo devono illustrare nella relazione sulla gestione i rapporti
intercorrenti con l’ente che svolge i compiti di direzione e coordinamento e con
le altre società soggette all’influenza di tale ente, nonché gli effetti che l’attività
di indirizzo di quest’ultimo ha avuto sull’andamento degli affari sociali. Inoltre,
le decisioni delle società sottoposte alla funzione in esame, quando risentono significativamente delle direttive impartite, debbono essere motivate in modo analitico, con la puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi che hanno influito
sulla formazione della volontà sociale. Tanto dispone l’art. 2497 ter c.c..
Infine, l’art. 2497 quater consente in alcuni casi la facoltà di recesso ai soci
delle società sottoposte all’altrui direzione. Ciò è possibile, ad esempio, quando la
società detentrice del potere di indirizzo generale ha deliberato una trasformazione del suo oggetto sociale che comporta ripercussioni sfavorevoli sulla situazione
economica e patrimoniale della società che soggiace a tale potere3.
Dalle disposizioni codicistiche si evince che l’attività direttiva precede, di consueto, da un punto di vista logico e temporale, quella propriamente operativa.
L’organo investito della potestà di direzione si occupa infatti di indirizzare e pianificare l’iniziativa imprenditoriale adottando le decisioni fondamentali
riguardo al suo oggetto4; l’attività in esame si estrinseca, in altre parole, nella
definizione del programma d’azione generale cui ci si deve attenere nell’esercizio
di un’impresa.
I compiti di direzione sono di norma svolti nell’ambito di un gruppo societario e, quindi, contemporaneamente nei confronti di una pluralità di soggetti
collegati tra loro da rapporti partecipativi e sottoposti all’egemonia di un vertice
unitario5; l’attività di ciascun membro del gruppo viene opportunamente indiriz2 Secondo la dottrina civilistica (PROVASOLI, Il bilancio d’esercizio, anche con riferimento alle
operazioni straordinarie, nel progetto di riforma, cit., 211), il riferimento ai dati essenziali dell’ultimo
bilancio dell’ente che esercita l’attività di direzione si presta a interpretazioni divergenti con il rischio
dell’affermarsi di differenti prassi applicative. A ciò si aggiungono i problemi relativi all’individuazione
dei soggetti i cui bilanci devono essere riportati in nota integrativa, tra i quali, a rigore, dovrebbero
essere comprese sia le società holding sia le società sub-holding.
3 Su questa norma, si veda: SAVORANA, Il recesso del socio nelle società di capitali, in AA.VV.,
La riforma del diritto societario, cit. 82, per il quale la disposizione impone alla società dotata del
potere direttivo di informare i soci della società che vi è soggetta circa le mutazioni riguardanti il
suo oggetto sociale.
4 GALGANO, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico
dell’economia, vol. XXIX, Padova, 2003, 172, parla, a proposito dell’attività di direzione e coordinamento, di “direzione suprema” della struttura imprenditoriale. Tale funzione si attua, secondo l’Autore, fornendo alle controllate le istruzioni comportamentali da seguire; il mezzo di trasmissione della
volontà tipicamente usato dalla controllante, ad avviso dell’Autore, è, nei gruppi di società, l’esercizio
del voto nelle assemblee delle controllate.
Nel senso che l’attività in esame si estrinseca nell’adozione delle decisioni più importanti, si veda
nella dottrina tributaristica: DELLA VALLE, La stabile organizzazione, in AA.VV., Imposta sul reddito
delle società (IRES), a cura di TESAURO, Bologna, 2007, 932.
5 Non per nulla la norma civile si riferisce non solo all’attività di direzione ma, contemporaneamente, anche a quella di coordinamento, la quale presuppone l’esistenza di un insieme di soggetti
i cui atti devono essere convenientemente armonizzati in conformità ad un progetto imprenditoriale
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zata e coordinata con quella degli altri da una struttura specificamente deputata
all’esercizio di questa funzione (che spesso, ma non sempre, è quella di grado
più elevato), la quale elabora le linee strategiche comuni al fine, da un lato, di
evitare inutili sovrapposizioni di competenze e, dall’altro, di sfruttare efficacemente le sinergie e le specializzazioni di ciascun aderente al raggruppamento.
La definizione del concreto assetto operativo del gruppo, con la determinazione dell’ambito d’azione riservato a ciascuno dei suoi membri, per quanto indiscutibilmente necessaria, è una fase prodromica rispetto all’esercizio dell’attività
imprenditoriale vera e propria, demandato alle articolazioni dell’aggregato societario soggette all’influenza del responsabile della funzione direttiva. Quest’ultima,
infatti, si esaurisce nell’individuazione degli obiettivi essenziali che devono essere
perseguiti dalle società operative e, in modo generico, dei mezzi per raggiungerli;
stabilite le mansioni fondamentali e le linee giuda essenziali per l’espletamento
dell’attività pratica degli enti consociati, cessa la funzione dell’organo direttivo
e interviene l’organo amministrativo che provvede alla concreta attuazione delle
indicazioni generali fornite dal titolare dell’ufficio direttivo.
Sotto questo aspetto, l’inclusione della sede di direzione tra le fattispecie che
costituiscono, come si è detto, stabile organizzazione rappresenta, in un certo
senso, un’eccezione rispetto alla regola fissata dal quarto comma dell’art. 162 del
d.p.r. n. 917/1986, per il quale un’unità operativa non assume mai i connotati
della stabile organizzazione quando viene utilizzata solo per svolgere attività
aventi caratteristiche preparatorie o ausiliarie. Tuttavia, evidentemente, l’importanza della funzione in esame e il suo profondo legame con l’attività degli enti
o delle strutture che costituiscono la propaggine operativa dell’organizzazione
imprenditoriale, i quali non potrebbero agire senza la precisa definizione dei
confini entro i quali possono dar corso alle loro iniziative, è tale da aver indotto, da una parte, il legislatore civilistico ad introdurre, come si è visto, una
specifica disciplina riguardo alla responsabilità del titolare della funzione direttiva, dall’altra, il legislatore fiscale ad inquadrare il compito in esame tra quelli
determinanti ai fini della configurazione di una sede fissa di affari.
Alla regolamentazione dei compiti degli amministratori provvede invece l’art.
n. 2380 bis c.c. e ss..
L’attività amministrativa – al contrario di quella direttiva esaminata in precedenza - non precede quella propriamente operativa, ma si intreccia inscindibilmente con essa; le due attività procedono di pari passo.
Semplificando in modo considerevole le relazioni intercorrenti tra le varie
mansioni di governo, in senso lato, di un’impresa, il detentore del potere direttivo stabilisce che cosa bisogna fare e i titolari della funzione amministrativa
si adoperano per consentire alla struttura cui sono preposti di raggiungere gli
obiettivi pratici assegnati. Gli amministratori traducono in iniziative concrete il
programma strategico elaborato dalla sede di direzione, ponendo in essere gli
atti e i negozi che permettono all’impresa o all’ente di conseguire concretamente
lo scopo prefissato, consistente nel produrre e/o offrire beni o servizi a terzi.
L’attività dell’amministratore (in una realtà concretamente operativa) ha caunitario; il contesto giuridico nel quale il diritto civile ipotizza l’uso del potere direttivo è quindi tipicamente quello dei gruppi di società (DAL SOGLIO, Commento all’art. 2497 c.c., in AA.VV., Il nuovo
diritto delle società, a cura di MAFFERI ALBERTI, vol. III, Padova, 2005, 2302 e ss.).
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rattere assiduo e quotidiano, essendo diretta, da una parte, a risolvere giornalmente i problemi pratici interni all’impresa, connessi con la gestione del ciclo
produttivo, dall’altra, a rappresentare la stessa nei rapporti con i terzi e ad
esprimere all’esterno la sua volontà. Insomma, l’amministratore è colui che sta
a capo della struttura imprenditoriale, ne amalgama e governa le componenti e
consente all’impresa di intrecciare relazioni giuridiche e concludere affari con
altri soggetti.
È fondamentale che l’organo amministrativo conservi un margine di autonomia decisionale. Qualora le istruzioni fornite dal centro di direzione siano
talmente minuziose e particolareggiate da non lasciare alcuna facoltà di scelta
e di valutazione indipendente agli amministratori, che diventano meri esecutori
di una volontà già perfettamente formata, la reale sede dell’attività gestionale va
individuata nel luogo dove è collocata l’unità direttiva, la quale ha evidentemente
assunto pure le funzioni manageriali.
2. Segue. I rapporti tra sede di direzione e sede operativa
Nonostante sia normalmente esercitata da una struttura posta in posizione
dominante, l’attività di direzione e coordinamento riveste un ruolo servente rispetto alla funzione operativa, tanto è vero che il titolare di tale mansione è
qualificato, dal punto di vista tributario, come stabile organizzazione, ai sensi
dell’art. 162 del d.p.r. n. 917/1986.
L’attività di direzione e coordinamento, infatti, vista nel contesto dell’intero
iter di sviluppo di un’impresa, costituisce una fase preliminare, poiché definisce,
mediante l’individuazione degli obiettivi pratici fondamentali, la cornice entro cui
si può esplicare l’azione delle unità operative. La direzione e il coordinamento
sono solo un primo passo per arrivare alla concreta commercializzazione di
beni o servizi, che è la fase culminante e l’essenza dell’attività imprenditoriale,
verso cui sono finalisticamente indirizzati tutti gli sforzi preparativi compiuti in
precedenza6.
Si potrebbe sostenere, peraltro, che il rapporto di dipendenza tra l’attività
produttiva e quella direttiva non sia univoco ma bilaterale. In effetti, se è vero che l’attività direttiva ha carattere strumentale rispetto a quella produttiva,
è altrettanto vero che la seconda potrebbe apparire come una fase succedanea
ed attuativa dell’altra, in cui si pongono in esecuzione le strategie generali elaborate.
6 L’attività di direzione coordinamento può riguardare l’intera organizzazione di un’impresa o di
un gruppo, oppure una loro parte; in altre parole, vi può essere un solo centro di direzione che si
occupa di tutte le attività di un’impresa o di un gruppo, o la funzione in esame può essere affidata
a più strutture, ciascuna delle quali si occupa di pianificare l’attività di un particolare spicchio o
porzione (geografica, economica, ecc.) dell’apparato imprenditoriale complessivo, come ammette la
dottrina di diritto commerciale (DAL SOGLIO, Commento all’art. 2497 c.c., cit., 2307, il quale afferma
che “direzione unitaria non significa necessariamente direzione proveniente da un unico soggetto”).
In ogni caso l’esercizio dell’attività di cui si discorre, per la sua natura prodromica, può determinare
la nascita di una stabile organizzazione.
Diversa opinione, tuttavia, manifesta GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale2, Milano,
2008, 312, per il quale configura una stabile organizzazione soltanto la sede di direzione posta a capo
di un settore geografico ristretto.
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A ben considerare, tuttavia, affermare l’esistenza di una relazione interdipendente tra le due attività è frutto di un’equivoca valutazione delle stesse.
Certamente senza gli ordini provenienti dall’unità depositaria del potere direttivo quella produttiva non potrebbe agire, non sapendo che cosa fare. Il comportamento dell’unità agente è orientato dagli impulsi volitivi del centro di direzione
e coordinamento, che ne circoscrive le finalità pratiche.
Il fatto che lo svolgimento dell’attività produttiva risenta degli ordini ricevuti
dalla sede direttiva non deve però trarre in inganno sul rapporto di preminenza
tra le due funzioni. È l’attività produttiva che si avvale del contributo dell’altra
ed è la ragione e l’obiettivo fondamentale per cui la funzione direttiva è svolta;
insomma, l’attività produttiva sta a quella direttiva come il fine sta al mezzo.
Invece, all’opposto di quanto potrebbe apparire ad un primo, sommario esame, la piena esplicazione del potere direttivo non dipende dal successivo esercizio dell’attività produttiva. La funzione di indirizzo si estrinseca e si esaurisce
nel coordinamento delle strutture che vi sono soggette, attraverso l’elaborazione
di un piano d’azione generale. Una volta fornite le indicazioni necessarie alle
unità operative, l’attività direttiva ha raggiunto il suo scopo; ciò che accade
dopo e persino il destino riservato agli ordini impartiti sono eventi estranei ad
essa. L’attività esecutiva inizia solo quando, precisati gli obiettivi essenziali da
raggiungere, il potere di coordinamento si è consumato. Anche nell’ipotesi in
cui le direttive formulate dal responsabile della funzione direttiva non fossero
rispettate, ciò non avrebbe alcuna ripercussione sull’attuazione dei compiti di
indirizzo, che sono già stati integralmente svolti; invero, se la struttura operativa non si comporta nel modo suggerito, vuol dire che le indicazioni strategiche
sono state emanate ma non sono state rispettate.
L’adozione di misure atte a contrastare la possibile violazione delle direttive fornite dalla struttura di coordinamento – oltre ad essere una risposta ad
una situazione patologica e non normale - costituisce estrinsecazione di poteri
di intervento e “sanzionatori” diversi da quello precipuamente direttivo; altro
è pianificare l’attività altrui, altro è assicurare che gli obiettivi assegnati siano
raggiunti. Ad esempio, l’eventuale rimozione degli amministratori delle società
operative inadempienti rientra nell’esercizio della facoltà di ingerenza negli affari sociali spettante al socio, attuata primariamente mediante l’uso del diritto
di voto in assemblea, non del potere direttivo.
Dunque, poiché la funzione operativa non è un completamento di quella direttiva – che si esaurisce prima - e non incide sulla sua piena attuazione, come
invece accade nel caso della seconda rispetto prima, il titolare della suddetta
funzione operativa non integra i presupposti della stabile organizzazione che
agisce a supporto della struttura con compiti di direzione.
3. La sede di direzione nelle norme tributarie. La sua natura di stabile organizzazione
Anche l’ordinamento tributario tiene distinte l’attività direttiva e quella di amministrazione, nonostante in talune disposizioni, contenute specie nella disciplina
convenzionale, si evidenzino alcune attenuazioni alla rigida differenziazione dei
due compiti.
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Dispone invero l’art. 73 del Testo unico che il possesso della sede amministrativa nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta
comporta l’assunzione della residenza in Italia.
Viceversa, l’esercizio entro i confini nazionali dell’attività di direzione e coordinamento implica per la struttura deputata a tale attività, ai sensi dell’art.
162 del d.p.r. n. 917/1986 e, usualmente, dell’art. 5 delle varie convenzioni stipulate dall’Italia, conformi al modello Ocse, la qualificazione, al più, di stabile
organizzazione.
La struttura che svolge i compiti direttivi non ha dunque, per ciò stesso,
caratteristiche tali da essere annoverata tra i residenti, a meno che, per ragioni
estranee all’esercizio della mansione da ultimo citata, soddisfi i requisiti da cui
discende, in forza dell’art. 73, l’attribuzione di tale status. Ciò potrebbe accadere, ad esempio, quando essa si occupi non solo della definizione delle strategie
generali ma anche dell’effettiva gestione dell’unità operativa.
Faccio presente che la funzione direttiva conferisce generalmente la natura
di stabile organizzazione se è svolta da una sede secondaria esistente in uno
stato estero.
Per sede secondaria si intende una struttura costituita fuori dai confini nazionali in locali acquistati o locati dalla casa madre, munita di personale assunto
da quest’ultima e che agisce in suo nome.
Occorre chiedersi se la sede periferica con attribuzioni direttive debba essere
considerata stabile organizzazione non solo della casa madre ma anche delle altre eventuali sedi secondarie con funzioni operative che rientrano nella sua sfera
d’influenza. Ci si domanda, in altre parole, se anche gli stati in cui si trovano
tali sedi secondarie operative possano ritenere l’unità con compiti direttivi stabile
organizzazione delle strutture presenti nel loro territorio.
La risposta non può che essere negativa, nonostante quanto detto a proposito della natura strumentale dell’attività di direzione coordinamento rispetto a
quella produttiva.
Invero, le unità produttive locali fanno parte integrante, al pari di quella
con funzioni direttive, dell’organizzazione della casa madre. Quindi l’attività di
indirizzo delle strutture operative decentrate si risolve in un servizio reso, in
sostanza, per il tramite di queste, sempre alla casa madre. Quest’ultima è la
beneficiaria effettiva delle prestazioni rese dall’unità direttiva, essendo sue parti
interne quelle che ricevono le istruzioni generali.
Nel caso in cui, poi, alla funzione in esame attenda direttamente la stessa
casa madre, che avoca a sé il compito di indirizzare l’attività della diverse unità
operative in cui si articola la sua organizzazione multinazionale, ci si chiede se
gli stati dove le suddette unità operative sono dislocate possono sostenere che la
sede centrale funga, a sua volta, per via dell’espletamento dei compiti direttivi,
da stabile organizzazione delle strutture produttive presenti nel loro territorio.
La casa madre è il nucleo primigenio e fondamentale dell’impresa; le installazioni periferiche sono sue mere proiezioni, che ne ampliano la sfera d’attività, sempre e soltanto riconducibile alla sede centrale. Ciò conferisce alla casa
madre una supremazia ontologica sulle sedi periferiche, che, in linea generale,
non viene scalfita nemmeno se la casa madre medesima svolge compiti serventi
rispetto alle attività espletate dalle sedi decentrate.
Ciò è vero, tuttavia, a patto che la sede centrale mantenga una preminenza
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sulle sedi periferiche riguardo all’attività esecutiva, che deve essere quantitativamente superiore a quella delle unità periferiche.
La struttura dell’impresa multinazionale ruota intorno ad su un centro; questo
centro, all’origine, si colloca nel luogo dove sorge la casa madre, da cui promanano le sedi locali. Ma il centro gravitazionale dell’impresa può anche spostarsi
altrove. Se una sede locale svolge un’attività di produzione e vendita di beni del
tutto indipendente da quella della casa madre e questa attività sorpassa in valore
quella riferibile alla casa madre, la situazione iniziale si inverte e l’impresa si
trova ad avere l’oggetto principale nello stato della sede locale e una struttura
produttiva secondaria nello stato della casa madre.
In conclusione, la sede centrale può svolgere funzioni di tipo direttivo senza
perdere la sua natura di perno principale dell’impresa multinazionale e senza trasformarsi in stabile organizzazione delle unità periferiche che beneficiano
della sua opera di coordinamento, a patto che svolga compiti anche operativi
e che questi conservino un’importanza preminente rispetto all’attività delle sedi
secondarie7.
4. Segue. La sede di direzione nell’art. 4 delle convenzioni contro la doppia imposizione
Tornando al rapporto tra attività direttiva e attività amministrativa, come si
è già rammentato, la rigida distinzione tra tali attività scema talvolta in modo
sensibile non solo dal punto di vista pratico ma talora, apparentemente, persino
sul piano della valutazione normativa.
A quest’ultimo riguardo, viene subito da pensare, in particolare, all’art. 4,
terzo paragrafo, del modello di convenzione contro le doppie imposizioni elaborato dall’Ocse, che è recepito pressoché integralmente dalla maggioranza dei
trattati conclusi dall’Italia.
Per dirimere i casi di doppia attribuzione della residenza alle società e agli
enti collettivi, tale norma dispone che occorre fare riferimento alla collocazione
della sede di direzione effettiva (place of effective management nel testo inglese)8;
in sostanza, tra due Stati che avanzano contemporaneamente la pretesa di tassare una società in qualità di soggetto residente, l’esercizio del potestà impositiva
dovrà essere accordato a quello nel quale si colloca la predetta sede.
7 Se una stabile organizzazione estera produce e vende un numero di beni superiore a quello
della casa madre italiana, nello stato ospitante (della sede fissa di affari) l’impresa possiederà il suo
(nuovo) oggetto principale, con la conseguente attribuzione della residenza, ai sensi dell’art. 73 del
Tuir, anche (o solo, a seconda dei casi) in tale stato.
8 Si veda MAISTO (traduzione a cura di), Modello di Convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio, Milano, 2004, 94.
Si tratta di un criterio caldeggiato soprattutto dai paesi anglosassoni. Una delle prime e più
rilevanti applicazioni di questo criterio si è avuta in Gran Bretagna, nella sentenza “De Beers Consolidated Mines V. Howe”, House of Lords, 1906, 5, TC 358, concernente la nota impresa mineraria
De Beers. Questa aveva costituito una società in Sud Africa che era ivi amministrata. Tuttavia, le
decisioni fondamentali riguardo all’attività dell’ente collettivo erano assunte in Gran Bretagna. Pertanto la House of Lords decise che la società fosse da considerare residente, ai fini fiscali, in Gran
Bretagna (DRAGONETTI-PIACENTINI-SFONDRINI (a cura di), Manuale di fiscalità internazionale, Milano, 2007, 10).
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Questa coincide, secondo il commentario della stessa Ocse al modello convenzionale, con il luogo dove vengono assunte le decisioni fondamentali riguardanti
l’impresa9. Per stabilire, quindi, quale stato può trattare fiscalmente l’ente collettivo alla stregua dei soggetti muniti di legami personali con il territorio domestico, è decisivo accertare dove si trova la fonte di propagazione delle direttive
strategiche. In tale luogo, come si è visto, le norme del Testo unico scorgono la
presenza della sede di direzione.
Parrebbe quindi che il luogo di residenza si collochi per la disciplina convenzionale dove è ubicato il centro di direzione, con uno stravolgimento degli
ordinari criteri di attribuzione della qualifica di residente.
Tuttavia, a ben considerare, le cose non stanno esattamente così.
Innanzitutto, è estranea alle finalità dell’art. 4 la previsione di fattispecie di
collegamento territoriale atte a radicare la residenza di una persona fisica o di un
soggetto collettivo; lo status di residente è regolato da norme del diritto interno
diverse ed autonome dal medesimo art. 4. I legami che consentono di acquisire
la condizione di residente sono rinvenibili, per quanto concerne l’ordinamento
italiano, nell’art. 73 del Testo unico e sono affatto differenti da quello al quale
si richiama la disposizione convenzionale.
L’art. 4 non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della residenza.
La sede di direzione, nell’ambito della disciplina della norma in esame, rileva
soltanto per stabilire quale, tra due Stati - che hanno già classificato, in forza
delle loro norme interne, un ente tra i soggetti muniti di un legame di carattere
personale con l’ordinamento domestico - ha il diritto di continuare ad applicare
all’ente medesimo il regime fiscale stabilito per i residenti.
L’art. 4, lungi dal dettare le condizioni per l’inclusione nella platea dei soggetti
aventi la residenza, si occupa, invece, come si diceva, di risolvere un conflitto
positivo tra stati riguardante l’attribuzione della potestà impositiva.
Inoltre, coerentemente con i precetti recati dalle sue norme interne, l’Italia
ha presentato un’osservazione alle note esplicative dedicate dal Commentario
all’art. 410, facendo presente, in sostanza, di non concordare con l’opinione ivi
9 In questo senso, in dottrina: GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, cit., 295 ss..
L’Autore sostiene che il Commentario Ocse fa riferimento al luogo in cui le decisioni strategiche più
rilevanti sono sostanzialmente adottate, prescindendo da una valutazione meramente formale.
Il medesimo Autore rammenta che, in un documento pubblicato nel 2003, l’Ocse ha proposto,
al fine di porre un rimedio più efficace ai casi di doppia residenza, l’adozione di criteri dirimenti
alternativi a quello in esame, laddove quest’ultimo non sia utilizzabile in concreto.
Fra le alternative proposte vi è il riferimento al luogo in cui le relazioni economiche sono più
forti o a quello dove si svolge prevalentemente l’attività dell’ente. Se nessuna delle regole ulteriori
indicate dall’Ocse è in grado di risolvere il conflitto attributivo della residenza, nel documento di cui
si discorre si raccomanda alle autorità competenti degli stati interessati di addivenire ad un accordo
che comunque garantisca l’eliminazione del doppia prelievo fiscale.
10 Interpretazione che comunque non ha valore giuridico vincolante, come riconosce il paragrafo
29 dell’introduzione al Modello Ocse, per il quale il Commentario non deve essere considerato un
elemento annesso implicitamente alle convenzioni concluse dagli Stati (in tal senso: GARBARINO,
Manuale di tassazione internazionale, cit., 202, il quale afferma che “il Commentario Ocse non rientra tra gli ‘strumenti disposti in occasione delle conclusione del trattato’ di cui all’art. 31 comma 2
della Convenzione di Vienna… perché – sebbene il Commentario sia approvato (con talune riserve)
dagli Stati aderenti all’Ocse – esso non è approvato in relazione alle specifica Convenzione bilaterale
contro le doppie imposizioni”).
Il carattere non vincolante del Commentario è stato più volte ribadito anche nella recente giurisprudenza della Cassazione (17 ottobre 2008, n. 25374, in banca dati Fisconline; 15 febbraio 2008,
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accolta, secondo cui il circostanza determinante per stabilire quale Stato conservi la capacità di tassare in conformità alle norme dettate per i residenti sia
il collocamento della sede dove sono assunte le decisioni strategiche riguardanti
l’ente. Il nostro Paese ritiene che occorra fare riferimento invece al luogo dove
è svolta concretamente l’attività produttiva e dove, quindi, tale attività è gestita
in modo assiduo e minuzioso, occupandosi di tutti i suoi aspetti pratici e giuridici. È alla localizzazione della sede amministrativa, ovvero il luogo dove sono
compiuti quotidianamente gli atti gestionali, che bisogna guardare per l’individuazione dello Stato cui spetta il diritto di tassare, non all’ubicazione della sede
di direzione, che designa il luogo da dove provengono le indicazioni di massima
sugli obiettivi imprenditoriali da raggiungere.
5. Relazioni tra sede direttiva e sede amministrativa
Non di rado, comunque, come si è già accennato, nella prassi accade che
l’attività direttiva e quella amministrativa si mescolino e rischino di confondersi,
essendo svolte dallo stesso organo.
Capita, in particolare, che durante le riunioni collegiali gli amministratori si
limitino a definire le scelte strategiche e l’indirizzo generale da conferire all’attività d’impresa e che poi la pratica attuazione delle scelte adottate dal consiglio
di amministrazione sia affidata ad un comitato esecutivo o ad un amministratore delegato o, persino talora, ad un direttore generale, laddove quest’ultimo
sia investito di attribuzioni di alta gestione (con tale formula si suole indicare
un’attività gestoria particolarmente qualificata, che si sostanzia nel potere di assumere decisioni in via autonoma).
In questo caso, la sede di direzione si colloca nel luogo dove si riunisce il
consiglio di amministrazione e la sede amministrativa nel luogo dove opera
l’organo cui è affidato il compimento degli atti pratici e giuridici che mettono
in condizioni l’ente di funzionare e di conseguire concretamente il suo oggetto,
purché tale organo conservi un certo margine di autonomia decisionale nell’espletamento delle sue funzioni.
Ancora, se la capogruppo o l’ente che si occupa della direzione e del coordinamento di un gruppo di società non si limita a definire l’assetto generale
delle competenze operative dei membri del gruppo, ma i suoi amministratori o
uno o più dei suoi dipendenti provvedono alla vera e propria gestione di una o
più società subalterne, è plausibile ritenere che l’ente dotato delle attribuzioni
direttive abbia avocato a sé anche l’amministrazione in concreto di tali società
n. 3889, ivi, dove si sostiene appunto “il valore non normativo del Commentario - che costituisce, al
più, una raccomandazione diretta ai Paesi aderenti all’OCSE”; 25 ottobre 2006, n. 22853, ivi).
Va detto, tuttavia, che, secondo una parte consistente della dottrina (SACCHETTO, L’Italia verso
una riforma fiscale radicale: gli aspetti internazionali, in Dir. prat. trib. intern., 2002, 359; PERRONE,
La stabile organizzazione, in Rass. trib., 2004, 803; MARONGIU, Il concetto di stabile organizzazione
nel nuovo Testo Unico, in A.N.T.I., L’IRES due anni dopo: considerazioni critiche e proposte, Milano,
2005, 229; DELLA VALLE, La stabile organizzazione, cit., 908-909;), a causa della derivazione dalle
disposizioni convenzionali (contenute nell’art. 5 dei trattati contro la doppia imposizione) della norma
definitoria interna relativa alla stabile organizzazione (l’art. 162 del Tuir), il rinvio ai criteri desumibili
dai trattati debba intendersi implicitamente esteso anche al principale strumento interpretativo degli
stessi, ovvero il commentario.
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subalterne11. Di conseguenza queste si considereranno residenti nello Stato dove
già risiede la società che dispone del potere di indirizzo (e di amministrazione)
in quanto si riterrà ivi è ubicata la loro sede gestoria.
6. Se può essere considerata stabile organizzazione una società che esercita il potere di direzione e coordinamento sugli altri membri di un gruppo. Esame della
norma su stabile organizzazione e controllo di un’impresa
Si è detto che la funzione direttiva e quella operativa possono essere svolte
da società diverse ma appartenenti al medesimo gruppo.
Ci si chiede se, in tal caso, la società detentrice del potere di direzione possa
fungere da stabile organizzazione di quelle operative.
Per rispondere a questo quesito, occorre innanzitutto verificare se e in presenza di quali condizioni la legge fiscale consenta di trattare un ente come stabile
organizzazione di un altro.
A questo riguardo, il nono e ultimo comma dell’art. 162 stabilisce che, allorché un’impresa estera controlla una residente o sia controllata da quest’ultima
o entrambe subiscano il dominio di un terzo soggetto, anche non imprenditore,
il rapporto connettivo non è bastevole, di per sé, a trasformare una di esse in
stabile organizzazione dell’altra.
Il dettato normativo è volutamente generico e, pertanto, non essendo specificato altrimenti, si addice ad essere esteso a qualunque relazione di supremazia
intercorrente tra soggetti aventi indifferentemente natura individuale o collettiva
e a prescindere dalla caratteristiche del dominio esercitato dall’uno sull’altro, che
può essere tanto di diritto quanto di fatto12.
Nella nozione di controllo rientrano senz’altro le fattispecie delineate nell’art.
2359 c.c., anche se queste non sono le uniche comprese nella sfera applicativa del precetto di legge in esame. Invero, considerata la sua vaghezza, appare
compatibile con il dato letterale del precetto qualunque forma di predominio in
forza della quale si è in grado di influenzare e di indirizzare nel modo desiderato l’attività altrui.
La disposizione – desunta, parimenti ad altre contenute nell’art. 162, dal testo
del modello di convenzione Ocse e dai trattati conclusi dell’Italia13 – si rivolge
alle imprese giuridicamente distinte. L’autonoma soggettività, anche se è mitigata
da un vincolo di controllo, è normalmente una caratteristica incompatibile con
l’esistenza di una stabile organizzazione. Invero, quest’ultima è per definizione
una struttura interna dell’impresa madre.
11 L’influenza esercitata dalla maggioranza dei soci di una società sugli amministratori della
società medesima o di altre società collegate è irrilevante ai fini dell’esistenza di una stabile organizzazione, come ha giustamente stabilito una decisione della Corte Suprema olandese, Hoge Raad, in
BNB (18987/306), citata da SKAAR, Permanent Establishment, Deventer-Boston, 1991, 118.
12 Sulla possibilità che una stabile organizzazione si annidi nella struttura di una società residente, si veda: R. LUPI, D. STEVANATO, M. GIORGI, Una società controllata può “nascondere” una
stabile organizzazione? Ci sono differenze tra profili iva e imposte sui redditi?, in Dialoghi di diritto
tributario, 2003, 35 ss..
13 Sull’origine della corrispondente previsione convenzionale, si veda: CERRATO, La stabile organizzazione nelle imprese dirette e nell’Iva tra irrilevanza del controllo societario e coincidenza con il
concetto di centro di attività stabile, in Riv. dir. trib., 1999, IV, 193 ss..
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Tuttavia, in ossequio al principio che fa prevalere la sostanza sulla forma, in
certi casi, pur in presenza di entità giuridicamente autonome, è possibile ritenere
esistente una sede fissa di affari.
Una prima ipotesi – definibile come minore - in cui è configurabile l’esistenza
di una stabile organizzazione, si ha quando una società mette a disposizione di
un’altra (ovviamente straniera) attrezzature e, magari, personale, che l’ente beneficiario impiega per esercitare la sua attività nel territorio della società concedente.
Qui la sede fissa di affari si annida all’interno dell’organizzazione di un terzo.
La società che offre il sostegno materiale non assume, nella sua interezza, la
consistenza di una stabile organizzazione; l’ente collettivo si limita ad ospitare,
in una parte della sua struttura concessa in uso ad altri, una stabile organizzazione.
Vi è poi un’altra situazione, assai più complessa e radicale (che si potrebbe
definire come ipotesi maggiore), nella quale è congetturabile la presenza di una
stabile organizzazione: essa si perfeziona allorché un’impresa, esteriormente indipendente, agisce in realtà, nel suo complesso, come pura estensione operativa
del soggetto con il quale intercorrono rapporti di colleganza.
Affinché un’impresa si tramuti, nella sua interezza, in stabile organizzazione,
occorre – si tratta di un elemento necessario ma non sufficiente, come si vedrà
- che le sue prestazioni siano sfruttate strumentalmente da un’unità correlata per
lo svolgimento della sua attività14. Due o più membri dello stesso agglomerato di
imprese devono cooperare per il raggiungimento dell’obiettivo pratico perseguito
da uno di essi. Un soggetto deve porsi al servizio dell’altro, curando una fase del
ciclo produttivo dell’altro. In tal modo, per effetto del suo apporto strumentale,
il soggetto servente viene inglobato nell’apparato organizzativo dell’impresa a beneficio della quale opera, diventando un elemento interno della sua struttura.
Per chiarire con alcuni esempi concreti quanto si è detto, può accadere che
una società compia prestazioni utili per realizzare il prodotto finale commercializzato da una società imparentata (si ipotizzi il caso di una società che riceve
dalla controllante dei semilavorati, li modifica opportunamente e li restituisce per
l’assemblaggio finale) oppure stipuli in nome o per contro della società collegata
contratti di vendita dei beni o dei servizi da essa prodotti.
La complementarietà delle funzioni economiche (da verificare caso per caso)
e il nesso di collegamento intersoggettivo possono determinare la metamorfosi
in stabile organizzazione. Ma da soli questi elementi non bastano a provocare
quel mutamento.
14 In senso conforme: DELLA VALLE, La stabile organizzazione, cit., 952, ad avviso del quale si
può configurare una stabile organizzazione tutte le volte in cui un’impresa “venga asservita allo svolgimento di un’attività economica riferibile ad altra impresa dello stesso gruppo”; PISTONE, Stabile
organizzazione ed esistenza di società figlia residente, in Dir. prat. trib., II, 1998, 388.
Rammento, tuttavia, che tra le modifiche apportate nel 2005 al commentario al Modello Ocse vi è
stata l’aggiunta del paragrafo 42, relativo ai servizi di direzione forniti da una società facente parte di
un gruppo ad altre società del medesimo gruppo. Secondo i nuovi chiarimenti dell’Ocse, quando una
società presta servizi di tal genere nell’ambito della sua attività, svolta in locali propri e con proprio
personale, il soggetto erogatore della prestazione non può essere considerato stabile organizzazione
di quelli beneficiari. Sul punto, si vedano: GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, cit.,
341-342; SFONDRINI, La stabile organizzazione, in AA.VV., Manuale di fiscalità internazionale, a cura
di DRAGONETTI-PIACENTINI-SFONDRINI, Milano, 2007, 789.
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Alberto Maria Gaffuri
Potrebbe succedere che le prestazioni rese in favore dell’impresa consociata
siano solo una frazione dell’attività globalmente svolta dal soggetto agente, che
magari è primariamente rivolta ai terzi15. In questa ipotesi, si potrebbe ritenere
esistente una sede fissa di affari in riferimento alla quota parte di operazioni
compiute nell’interesse e a vantaggio della società estera imparentata, attribuendo
a quest’ultima la porzione di reddito corrispondente a quelle operazioni. Se così
fosse, sarebbe configurabile una sorta di stabile organizzazione “parziale”.
Questa soluzione non può tuttavia essere accolta, benché non vi siano norme
che espressamente ne escludono l’ammissibilità. Contro di essa ostano, infatti,
due ordini di ragioni.
Innanzitutto, occorre ricordare che si sta parlando di entità giuridicamente
distinte. Il fatto che un’impresa residente e una non residente siano centri di
imputazione di situazioni giuridiche indipendenti impedisce in linea di principio
di considerare l’una stabile organizzazione dell’altra, pur in presenza di relazioni
di controllo intercorrenti tra le stesse. Per giungere ad affermare che una società fa sostanzialmente parte integrante dell’organizzazione di un’altra occorre
evidentemente un legame di intensità del tutto peculiare, diverso dai normali
rapporti tra distinti soggetti giuridici ed economici.
Ora, annoverare tra i propri clienti una società collegata è un fatto ordinariamente riscontrabile nella prassi. Avere tale società come unico cliente è invece
una circostanza di carattere eccezionale, che può giustificare il superamento della
formale alterità soggettiva. Di conseguenza, allorché una società del gruppo fornisce beni o servizi a due o più membri di tale gruppo e/o a terzi, quand’anche
la maggior parte delle transazioni siano concluse con una società correlata, si
deve escludere l’esistenza di una sede fissa di affari.
Un ulteriore ostacolo alla configurabilità di una stabile organizzazione nel
caso in esame, in cui i beni e dei servizi offerti da un ente sono acquistati da
una pluralità di soggetti, deriva dalle norme sul consolidato mondiale, disciplinato dall’art. 130 e ss. del Tuir16.
Quando un ente italiano controlla uno o più soggetti collettivi ubicati al di
fuori dei confini nazionali, la legge fiscale consente di optare per il consolidato
mondiale, regime che comporta l’inclusione, nella base imponibile della capogruppo residente, degli esiti reddituali conseguiti dai membri esteri dell’unione
di imprese. L’opzione in favore del consolidato è facoltativa. I risultati economici
ottenuti dalle controllate straniere concorrono a formare il reddito imponibile
15 Si veda a questo riguardo il caso citato da A. SKAAR, Permanent Establishment, cit., 543.
16 Su questo regime, si vedano, senza pretesa di esaustività: ZIZZO, Prime considerazioni in tema
di consolidato mondiale, in Fisc. int., 2003, 309; GAFFURI G., Il consolidato fiscale mondiale, in A.N.T.I.,
L’IRES due anni dopo: considerazioni critiche e proposte, cit., 212; CARPENTIERI-LUPI-STEVANATO,
Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 242; BEGHIN, Note minime a proposito
dell’interpello <<obbligatorio>> nella disciplina del cosiddetto <<consolidato mondiale>>, in Boll. trib.,
2003, 1288; ID., La revisione del bilancio nella disciplina del consolidato mondiale: profili funzionali e
aspetti problematici della bozza del t.u.i.r. predisposta dal Ministero dell’economia e delle finanze, in I
profili internazionali e comunitari della nuova imposta sui redditi delle società, a cura di Marino, Milano, 2004, 18; GAFFURI A.M., La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero. Principi generali,
Milano, 2008, 251 ss.; Id., Redditi prodotti all’estero, voce del Dig. della disc. priv., Sez. comm., Agg.,
vol. III, Torino, 2007, 726; STANCATI, Il consolidato mondiale, in AA.VV., Imposta sul reddito delle
società (IRES), cit., 886; ALOISI, Il consolidato mondiale, in Aspetti internazionali della riforma fiscale,
a cura di GARBARINO, Milano, 2004, 179-180; DRAGONETTI, Il consolidato mondiale, in Manuale
di fiscalità internazionale, cit., 867.
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della controllante in misura proporzionale alla quota di partecipazione agli utili
spettante alla controllante medesima.
Per effetto della riforma del 2003, il consolidato mondiale è divenuto il regime
ordinario applicabile ai gruppi di società con membri stranieri, che intendono
procedere alla liquidazione unitaria dell’imposta riferibile al reddito complessivamente conseguito dall’agglomerato plurisocietario. Se l’operatore estero è un
soggetto giuridicamente distinto da quello residente, l’utile o la perdita fiscale
che questo consegue non vengono in considerazione ai fini dell’imposizione in
Italia, a meno che si opti per il consolidato. La situazione normale è dunque
l’irrilevanza dei redditi conseguiti dalle imprese collocate all’estero, anche se controllate, salvo che si decida di includere volontariamente tali redditi nella base
di calcolo del prelievo domestico.
In questo quadro, le conseguenze dell’assimilazione di un ente all’estero ad
una stabile organizzazione produce effetti diversi e derogatori. Nella disciplina del consolidato l’inclusione del reddito estero nel computo della ricchezza
tassabile in Italia avviene su base volontaria e proporzionale alla partecipazione all’utile generato dalla società straniera e, quindi, può essere parziale se la
quota partecipativa non è totalitaria; se la società estera invece viene parificata
ad una stabile organizzazione, il suo reddito concorre automaticamente e in
misura integrale alla formazione della base imponibile colpita da tributo nel
nostro Paese.
Ora, la società straniera che, su opzione della controllante, viene inclusa nel
perimetro del consolidato può certamente essere un fornitore di beni o servizi
della controllante medesima. Ciò nonostante, trovandosi in posizione di terzietà
dal punto di vista soggettivo, il suo reddito non può essere attratto nell’imponibile della capogruppo residente, salvo che sia operata una scelta esplicita in
questo senso.
Per poter superare l’ostacolo all’aggregazione meccanica dei risultati della controllante con quelli della controllata posto dalla loro distinta soggettività giuridica17, occorre dunque qualcosa in più del rapporto di controllo e dell’erogazione
di beni o servizi alla controllante.
Questo qualcosa in più non può che essere la totale (o quasi totale) destinazione dei beni o dei servizi prodotti dalla controllata alla controllante. Quest’ultima deve essere l’unico soggetto (o pressoché l’unico soggetto, quando l’attività
svolta a vantaggio di altri soggetti è di consistenza trascurabile) che si avvale
delle prestazioni della controllata. Non solo. Tali prestazioni devono fornire un
contributo essenziale al perfezionamento del ciclo produttivo e alla realizzazione dell’oggetto sociale della controllante18. Solo in presenza di una totale subordinazione giuridica e funzionale della partecipata alla partecipante e della
17 Il reddito di un ente estero viene imputato automaticamente al soggetto controllante residente anche per effetto del regime delle CFC, disciplinato dagli artt. 167 del d.p.r. n. 917/1986 e ss.. A
tale regime soggiacciono gli enti collettivi ubicati in stati o territori a bassa fiscalità, di cui è socio
di riferimento un residente. Il reddito prodotto da questi enti è imputato pro quota e indipendentemente dalla distribuzione al partecipante italiano. Le disposizioni sulle CFC sono state introdotte
per contrastare le manovre elusive miranti a spostare reddito imponibile verso paesi in cui il livello
di tassazione è assai inferiore a quello italiano, attraverso l’attribuzione di tale reddito a società ed
enti ivi appositamente costituiti.
18 Per chiarire con un esempio pratico, si pensi ad una società la cui unica occupazione consista
nel fabbricare le montature degli occhiali venduti dalla controllante.
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connessione strumentale tra le attività dell’una e dell’altra, si può sostenere che
la controllata, pur essendo un’entità soggettivamente autonoma, sia posta interamente al servizio della controllante e, di fatto, sia pertanto assorbita nella sua
organizzazione.
Solo è soddisfatto il predetto triplice ordine di condizioni (l’esistenza di un
legame di controllo, la strumentalità delle prestazioni e la totale integrazione
economica tra le distinte entità), è dunque possibile considerare la controllata
una stabile organizzazione della controllante, con l’imputazione automatica del
reddito della prima alla seconda.
Si tenga presente, come è già capitato di accennare, che l’impresa operante a
beneficio dell’altra e che configura una stabile organizzazione può essere indifferentemente, secondo la disciplina del Testo unico, la controllante o la controllata,
la residente o la non residente.
Qualora invece i componenti del raggruppamento si dedichino ad attività,
magari anche identiche, ma completamente indipendenti e prive di ogni connessione funzionale, si deve escludere in radice il perfezionamento dei presupposti della stabile organizzazione. In questa ipotesi, invero, il solco che separa le
imprese, non solo sotto il profilo giuridico ma anche fattuale-operativo, assume
consistenza tale da divenire una barriera insuperabile, anche facendo leva sui
legami esistenti tra di esse.
Si pensi – tanto per prospettare un caso pratico - ad una società italiana che
produca e venda autonomamente beni nel mercato interno. In un caso simile,
è ragionevole concludere che in Italia non vi sia una stabile organizzazione
dell’impresa straniera controllante – benché questa produca e venda gli stessi
beni commercializzati dall’ente italiano – ma un’entità fiscalmente autonoma,
assoggettata nel nostro ordinamento al regime tributario previsto per i soggetti
residenti.
La situazione cambierebbe radicalmente se la società italiana vendesse beni in
none e per conto della controllante estera. In tale ipotesi, verrebbe ad esistenza
una stabile organizzazione di tipo personale19.
A questo proposito, occorre dire che quello in cui una società conclude affari
in nome e per conto altrui è l’unico caso prospettabile nel quale tale società può
assumere il ruolo di stabile organizzazione pur svolgendo attività a vantaggio di
una pluralità di soggetti.
Invero, la capacità di spendere il nome di altri crea un legame talmente intenso tra il rappresentante e il rappresentato che il secondo può essere annoverato
tra le strutture interne all’organizzazione del primo, nonostante esso agisca in
rappresentanza anche di terzi20.
19 In senso conforme: TESAURO, Istituzioni di diritto tributario8, vol. 2, Par. spec., Torino, 2008,
192-193; DELLA VALLE, La stabile organizzazione, cit., 953.
La sede della società rappresentante diventa sede fissa di affari per l’impresa estera rappresentata, elemento materiale che non manca nemmeno nelle ipotesi di stabile organizzazione personale
(così: FRANSONI, La nozione di stabile organizzazione personale nel diritto interno e la rilevanza della
<<stabilità>> dell’organizzazione, in Riv. dir. trib., 2002, II, 366).
20 È quindi corretta l’opinione di quella dottrina (DELLA VALLE, La stabile organizzazione, cit.,
953; LOVISOLO, La stabile organizzazione, in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, Padova,
2001, 322) secondo la quale non si può escludere a priori che un’impresa di un gruppo funga contemporaneamente da stabile organizzazione di più imprese appartenenti allo stesso gruppo.
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7. Segue. Conclusioni
A questo punto, è possibile rispondere al quesito posto all’inizio del paragrafo precedente, riguardante l’eventuale natura di stabile organizzazione dell’ente
con funzioni direttive.
Dalle argomentazioni svolte in precedenza, risulta che è assai difficile, per
non dire impossibile, attribuire il ruolo di stabile organizzazione alla società
che esercita il potere direttivo sugli altri membri di un gruppo, in quanto, essendo la sua attività svolta nei confronti di tutte le società consociate, non si
ravvisa con nessuna di esse quel rapporto esclusivo che, come si è detto sopra,
è condizione imprescindibile per ricondurre l’ente investito del potere in esame
all’organizzazione di una delle consociate medesime.
La società con competenze direttive può tuttavia configurare una stabile organizzazione quando ha la capacità di concludere contratti in nome e per conto
delle società operative.
Parimenti, sempre per quello che si è detto in precedenza, l’ente impegnato
nell’attività esecutiva non è annoverabile tra le stabili organizzazioni della società munita del potere direttivo, ad eccezione del caso in cui quest’ultima non
si limiti a svolgere compiti di mero coordinamento, ma si dedichi anche alla
produzione di beni o servizi.
In tal caso, se l’attività demandata all’ente assoggettato al potere di indirizzo
ha carattere servente rispetto all’iniziativa commerciale cui si dedica la società
con funzioni (anche) direttive, è possibile intravedere nell’ente (meramente) operativo i connotati della stabile organizzazione.
Occorre quindi che lo scopo sociale della società da cui promanano gli ordini e le indicazioni strategiche non abbracci solo la detenzione di partecipazioni
sociali e l’attività di direzione e coordinamento altrui, ma comprenda anche
l’esercizio di un’attività produttiva; che questa attività sia concretamente esercitata dall’ente munito di poteri di indirizzo; che, infine, gli atti compiuti dalla società sottoposta al coordinamento siano strumentali per l’espletamento o
il completamento del ciclo produttivo dell’organismo collettivo che formula le
direttive strategiche e che quest’ultimo sia l’unico beneficiario delle prestazioni
rese dalla società operativa.
In questo caso – e solo in questo caso – poiché gli atti posti in essere dall’ente
governato sono strumentali per la realizzazione dell’oggetto sociale dell’ente cui
sono demandate le funzioni di governo generale del gruppo, il primo può essere
trattato come una stabile organizzazione dell’altro21.
21 Esemplificando, si supponga che l’oggetto sociale dell’ente con funzioni direttive comprenda
anche la produzione di automobili – oltre alla gestione di partecipazioni – e che l’ente sottoposto al
suo coordinamento si dedichi appunto ad una attività strumentale rispetto a quella dell’ente dominante, come la produzione di motori.
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Sede di direzione e la sede dell`amministrazione: i presupposti della