Screening cardiologico negli atleti (Journal of the American College of Cardiology) La morte improvvisa di giovani atleti costituisce sempre un avvenimento di forte impatto emotivo, e le sue cause generalmente risiedono in anomalie cardiache misconosciute, quali una cardiomiopatia ipertrofica o una displasia ventricolare aritmogena. Nel 1997 in Israele è stato varato un programma di screening per gli atleti comprendente l’esecuzione annuale di un ECG e un test da sforzo secondo il protocollo di Bruce ogni 4 anni, da eseguirsi a tutti i giovani praticanti discipline sportive a livello agonistico. Adesso sono stati confrontati i risultati riguardanti i casi di morte improvvisa verificatisi nei 12 anni precedenti l’inizio di questo programma e nei 12 anni successivi. Non sono state registrate differenze di alcun tipo: 2.54 morti improvvise ogni 100.000 atleti all’anno prima dello screening e 2.66 dopo la sua attuazione. Il commento a questo articolo: La pratica di eseguire un ECG agli atleti è consolidata in quasi tutta l’Europa, anche dopo uno studio retrospettivo italiano del 2006. Purtroppo questa pratica non pare comportare una diminuzione delle morti improvvise, almeno secondo l’ampio studio israeliano, con il rischio eventuale di falsi positivi (anomalie benigne classificate come patologiche). Ovviamente queste considerazioni non tengono conto dell’aspetto legale della questione. Bibliografia: • Steinvil A et al. Mandatory electrocardiographic screening of athletes to reduce their risk for sudden death: Proven fact or wishful thinking? Journal of the American College of Cardiology 2011 Mar 15; 57:1291 Paratiroidectomia minimamente invasiva (Annals of Surgery) L’intervento di paratiroidectomia può essere effettuato in anestesia cervicale senza necessità di ricoverare il paziente, mediante una procedura minimamente invasiva. Con questo report della Yale University, un chirurgo ha presentato la sua esperienza in 613 paratiroidectomie eseguite prima del 1998 e 1.037 interventi eseguiti con questa nuova tecnica dopo quella data. Circa il 10% degli interventi minimamente invasivi ha richiesto l’anestesia generale per sopraggiunte difficoltà chirurgiche e per vari altri motivi. Il tasso di guarigione a breve termine è stato nettamente migliore con il nuovo intervento (99.4% contro 97.1%), così come sono state minori le complicanze (1.5% contro 3.1%). Mancano i dati sul lungo termine, ma non sussistono motivi che inducano a ritenere che l’intervento mini-invasivo possa comportare aspetti negativi nel lungo periodo. Il commento a questo articolo: L’intervento minimamente invasivo costituisce ovviamente una valida alternativa all’intervento tradizionale; l’unica difficoltà è reperire chirurghi e anestesisti che abbiano una buona esperienza con questa nuova tecnica operatoria. Bibliografia: • Udelsman R et al. The superiority of minimally invasive parathyroidectomy based on 1650 consecutive patients with primary hyperparathyroidism. Annals of Surgery 2011 Mar; 253:585 Diete ed esercizi fisici negli obesi (New England Journal of Medicine ) Il trattamento dell’obesità prevede tradizionalmente il ricorso a diete ipocaloriche e ad esercizi fisici. Per valutare l’importanza relativa di questi due tipi di intervento sono stati randomizzati 107 adulti obesi (età ≥ 65 anni; BMI > 30 kg/m2) ad uno di questi quattro tipi di intervento: dieta, esercizi fisici, entrambi gli interventi, nessun intervento. Lo scopo della dieta era quello di perdere il 10% del peso corporeo anche mediante l’ausilio di sedute settimanali con un dietista. Gli esercizi fisici consistevano in sessioni tre volte alla settimana di 90 minuti di aerobica e di allenamento alla resistenza fisica. Dopo un anno la perdita media di peso è stata di 9 kg nel gruppo della sola dieta e nel gruppo della dieta più esercizi fisici, mentre è stata trascurabile con i soli esercizi e nel gruppo di controllo. Per quanto riguarda le performance fisiche, valutate attraverso una scala a 9 item per 36 punti totali, il risultato migliore è stato ottenuto nel gruppo trattato con dieta ed esercizi (5.4 punti di miglioramento dal baseline), seguito dalla dieta da sola e dagli esercizi da soli (3.1 punti e 4.0 punti, rispettivamente), mentre non si è avuto miglioramento nel gruppo di controllo. Il commento a questo articolo: Lo studio ribadisce l'importanza della dieta associata ad esercizi fisici, al fine della perdita di peso corporeo nell’obesità. Da notare che, se i soli esercizi fisici non ottengono perdita di peso, riescono comunque a migliorare sensibilmente le performance dei soggetti; per tale motivo nelle persone che da anni sono affette dal problema dell’obesità e non riescono a risolverlo, il ricorso ad un programma intensivo di esercizi può costituire un valido metodo per migliorare le proprie funzioni fisiche, indipendentemente dalla perdita di peso. Bibliografia: • Villareal DT et al. Weight loss, exercise, or both and physical function in obese older adults. NEJM 2011 Mar 31; 364:1218 Prevenzione delle cadute negli anziani (Archives of Internal Medicine) Gli studi che esaminano i metodi per prevenire le cadute spontanee degli anziani sono numerosi, così come i vari metodi utilizzati. In uno studio realizzato in Svizzera sono stati arruolati 134 anziani (età media 76 anni) ad elevato rischio di cadute, per valutare l’efficacia di un programma basato sull’ascolto di musica associata ad esercizi fisici di difficoltà sempre maggiore. Per 6 mesi i partecipanti hanno effettuato una seduta settimanale di un’ora, mentre il gruppo di controllo ha continuato la sua normale attività. Nei 6 mesi successivi, i gruppi si sono scambiati. Nel complesso, l’adesione al programma è stata del 78% in entrambi i gruppi. Nei primi 6 mesi, il gruppo di intervento attivo ha presentato una diminuzione del 51% di cadute rispetto al gruppo di controllo; tale beneficio è persistito anche nei 6 mesi successivi. In Australia sono stati arruolati 1.206 ricoverati in ospedale (età media 75 anni) ed assegnati ad uno dei seguenti tre programmi di prevenzione: counselling personale di 25 minuti da parte di un fisioterapista, utilizzando materiale audiovisivo; utilizzo del solo materiale informativo; nessun intervento particolare. Le cadute durante il ricovero (mediamente di 11-14 giorni) si sono ridotte del 50% nel gruppo del counselling rispetto agli altri due gruppi, ma il vantaggio è stato ottenuto solamente dai pazienti senza deficit cognitivi. Da notare che tra i soggetti con deficit cognitivi si sono verificate più cadute nel gruppo del fisioterapista che negli altri due (7.5 cadute/1000 giorni-paziente contro 2.9 nel gruppo del non intervento). Il commento a questo articolo: Le conclusioni sono due: da un lato i programmi per evitare le cadute negli anziani sono di attuazione impegnativa, dall’altro si possono ottenere effetti negativi su persone cognitivamente deficitarie (forse in conseguenza della spinta a camminare maggiormente). Bibliografia: • • Trombetti A et al. Effect of music-based multitask training on gait, balance, and fall risk in elderly people: A randomized controlled trial. Archives of Internal Medicine 2011 Mar 28; 171:525 Haines TP et al. Patient education to prevent falls among older hospital inpatients: A randomized controlled trial. Archives of Internal Medicine 2011 Mar 28; 171:516 Cellulite degli arti inferiori (British Journal of Dermatology) Il problema della cellulite agli arti inferiori è duplice: da un lato spesso la diagnosi non viene posta o viene posta erroneamente; dall’altro la terapia non è codificata chiaramente: è opportuno un ricovero? Il paziente può essere trattato a domicilio? Per chiarire le questioni è stato condotto uno studio inglese con lo scopo di formulare correttamente la diagnosi, instaurare la corretta terapia ed evitare il ricovero nei limiti del possibile. Lo studio, realizzato con la collaborazione di infermieri e dermatologi, ha esaminato 635 pazienti presentatisi in ospedale con la sospetta diagnosi di cellulite grave degli arti inferiori: di questi, il 67% era effettivamente affetto da questa patologia, mentre il 33% era colpito da altre patologie (principalmente eczema, linfedema e lipodermosclerosi). Dei 425 soggetti affetti da cellulite, il 28% presentava una patologia dermatologica predisponente (eczema e tinea pedis, prevalentemente). Il ricovero ospedaliero è stato evitato nel 96% dei casi di cellulite. Il commento a questo articolo: Il ricorso allo specialista dermatologo è fondamentale, nella gestione dei casi presunti o reali di cellulite degli arti inferiori. Importante notare che la maggior parte dei pazienti con cellulite non ha necessità di ricovero, e che spesso la condizione è favorita da patologie dermatologiche preesistenti. Il cardine della terapia rimane l’antibiosi, sia effettuata per via parenterale che per via orale. Bibliografia: • Levell NJ et al. Severe lower limb cellulitis is best diagnosed by dermatologists and managed with shared care between primary and secondary care. British Journal of Dermatology 2011 May 13 Pioglitazone in prevenzione del diabete (New England Journal of Medicine ) La condizione di diminuita tolleranza glicidica costituisce un fattore predisponente all’insorgenza successiva di un diabete mellito vero e proprio. Tale avanzamento è rallentabile o addirittura eliminabile mediante l’assunzione di pioglitazone? Per verificare questa ipotesi è stato realizzato uno studio in Texas su 602 soggetti con ridotta tolleranza glicidica, trattati con pioglitazone (iniziando con 30 mg ed aumentando fino a 45 mg/die) o con placebo. Lo studio è stato sponsorizzato dall'industria farmaceutica ed è durato 2.4 anni. La progressione in diabete conclamato è stata registrata più spesso nel gruppo trattato con placebo (17% contro 5%). I valori medi dell’HbA1c sono aumentati dello 0.2% con il placebo e sono invece rimasti invariati con il pioglitazone, e sempre con questo farmaco lo spessore dell’intima e media carotidea è aumentato più lentamente. Come effetti negativi, con il pioglitazone si sono registrati più casi di edema (13% contro 6%) e di maggior aumento di peso corporeo (3.9 kg contro 0.8 kg). La percentuale di scompensi cardiaci è stata identica nei due gruppi dello studio. Il commento a questo articolo: Innanzitutto occorre notare che lo studio è stato sponsorizzato. A parte questo, utilizzando il pioglitazone si è ottenuto un rallentamento della progressione verso il diabete, a scapito di un aumento di edemi. Se andiamo a vedere l’NNT, si ha che occorre trattare 18 soggetti per un anno per prevenire 1 caso di diabete. Rimane poi un grosso punto interrogativo: il pioglitazone come agisce (ammesso che agisca) sulle complicanze del diabete? Il cambiamento dello stile di vita e l’azzeramento dei rischi modificabili rimane comunque il cardine della prevenzione: in uno studio del 2002 (NEJM 2002 Feb 7; 346:393-403) questi interventi sul modo di vivere hanno rallentato la progressione da ridotta tolleranza glicidica a diabete di circa il 58%, con un risultato ben superiore al pioglitazone. Bibliografia: • DeFronzo RA et al. Pioglitazone for diabetes prevention in impaired glucose tolerance. NEJM 2011 Mar 24; 364:1104 PSA velocity (Journal of National Cancer Institute) Quali sono i criteri in base ai quali si invia un paziente a biopsia prostatica? Tradizionalmente in base a fattori di valutazione multipli, quali età, razza, valore del PSA, situazione clinica. Adesso un altro criterio viene citato nelle linee-guida del National Comprehensive Cancer Network e dell'American Urological Association, la PSA velocity, cioè la velocità di cambiamento del PSA nel tempo. Tale valore avrebbe importanza prognostica anche nei soggetti con valori di PSA compresi nella normalità e con esplorazione rettale negativa. Alcuni ricercatori hanno pertanto valutato 5.642 maschi sani (età ≥ 55 anni, valore di PSA < 3.0 e nessuna storia di cancro prostatico) partecipanti al braccio di controllo dello studio PROSTATE CANCER PREVENTION TRIAL realizzato nel 2004. I soggetti reclutati sono stati trattati in modo random con finasteride o con placebo per 7 anni e seguiti mediante determinazione annuale del PSA. La biopsia è stata raccomandata per coloro che presentavano valori di PSA > 4.0 ng/ml, mentre a tutti i partecipanti è stata consigliata una biopsia al termine dello studio. In base ad analisi matematiche si è visto che adottando il cutoff di 4.0 per il PSA si sottopone a biopsia 1 soggetto su 20. Usando invece una velocità di crescita del PSA > 0.35 ng/ml/anno si sottopone a biopsia 1 soggetto su 7. In ogni caso, il ricorso alla PSA velocity non ha comportato una prognosi migliore per quanto riguarda la scoperta di cancri aggressivi. Il commento a questo articolo: Lo screening mediante il PSA è ancora tutto da stabilire: anche l’aggiunta di un ulteriore parametro, quale la velocità di aumento del PSA, se da un lato produce un maggior numero di biopsie, dall’altro non comporta una diminuzione della mortalità globale dei pazienti, dal momento che non è correlato con l’aggressività tumorale. Le discussioni pro e contro il PSA continuano... Bibliografia: • • Vickers AJ et al. An empirical evaluation of guidelines on prostate-specific antigen velocity in prostate cancer detection. Journal of National Cancer Institute 2011 Mar 16; 103:462. Yao SL and Lu-Yao GL. The science and art of prostate cancer screening. Journal of National Cancer Institute 2011 Mar 16; 103:450 GFR e albuminuria in campo cardiovascolare (Annals of Internal Medicine) In base a studi numerosi è accertato che il valore della filtrazione glomerulare (GRF) e dell’albuminuria costituiscono dei predittori di danno cardiovascolare. Utilizzando i dati di due di questi studi, ad ampia campionatura - lo studio ONTARGET del 2008 e lo studio TRANSCEND dello stesso anno - sono stati esaminati oltre 27.000 pazienti di età superiore a 55 anni, affetti da malattie vascolari o diabete mellito con danno d’organo. I ricercatori hanno cercato di stabilire se il valore della GRF e dell’albuminuria possano costituire elementi ulteriori prognostici in queste condizioni. Il follow-up medio è durato 4.6 anni e si è visto che un valore basso di GRF associato a livelli elevati di albuminuria si associa ad un aumento di rischio di decessi da causa cardiovascolare, infarti, stroke e scompensi cardiaci. Da notare però che, dopo il controllo dei tradizionali fattori di rischio (età, sesso, diabete, malattie cardiovascolari, abitudine al fumo, glicemia e livelli di LDLcolesterolo) l’aggiunta della determinazione del GRF e dell’albuminuria non ha comportato alcun miglioramento della stratificazione dei pazienti. Il commento a questo articolo: Lo studio non ha portato nessuna novità rispetto alla classificazione abituale dei rischi cardiovascolari, dal momento che GRF ed albuminuria, pur essendo collegati alla prognosi cardiovascolare, non aggiungono nulla ai già noti fattori di rischio. L’unica avvertenza è che lo studio è stato realizzato su una popolazione ad alto rischio e non sappiamo pertanto quale sia il comportamento di questi due fattori in una popolazione normale. Bibliografia: • Clase CM et al. Estimated glomerular filtration rate and albuminuria as predictors of outcomes in patients with high cardiovascular risk: A cohort study. Annals of Internal Medicine 2011 Mar 1; 154:310 Fentermina e topiramato per dimagrire (The Lancet) Nel tentativo di aiutare farmacologicamente i soggetti che desiderano perdere peso sono stati introdotti in commercio numerosi farmaci, ma quasi tutti sono stati abbandonati a causa degli effetti collaterali. Un nuovo tentativo è stato adesso realizzato negli USA randomizzando 2.487 obesi (BMI 27-45 kg/m2, con 2 o più comorbilità) a ricevere dosi elevate o basse di una combinazione di fentermina (un farmaco approvato dalla FDA per il dimagrimento) e topiramato (un anticonvulsivante che provoca anoressia e perdita di peso) oppure placebo, per un periodo di due mesi. Tutti i partecipanti hanno anche ricevuto informazioni riguardo dieta e stile di vita. Il 17% dei soggetti aveva avuto una storia precedente di depressione lieve o di uso di antidepressivi. Il 43% dei soggetti trattati con placebo e il 34% di quelli trattati con i farmaci ha interrotto precocemente lo studio. Con un’analisi intent-to-treat i pazienti trattati con i farmaci, sia a basse che ad alte dosi, hanno perduto peso in modo significativamente maggiore rispetto ai partecipanti trattati con placebo (10.2 kg con le dosi elevate; 8.1 kg con le basse dosi; 1.4 kg con il placebo) e quelli trattati con i farmaci hanno raggiunto più facilmente l’obiettivo di perdere il 10% del proprio peso corporeo (48% con le alte dosi; 37% con le basse dosi; 7% con il placebo). Rispetto ai soggetti trattati con placebo, quelli che hanno assunto i due farmaci hanno presentato una maggiore riduzione della circonferenza addominale, una maggior diminuzione della pressione sistolica, del colesterolo totale, dei trigliceridi, della glicemia e dell’HbA1c. L'uso dei due farmaci si è associato con secchezza delle fauci, parestesie, stipsi, disgeusia, vertigini e irritabilità; non con depressione o idee di autolesionismo. Il commento a questo articolo: Lo studio è stato sponsorizzato dall’industria farmaceutica, ma i risultati non aggiungono nulla di nuovo se non l’invito ad una estrema cautela nell’utilizzare farmaci per dimagrire, dal momento che la loro sicurezza è ancora tutta da dimostrare, soprattutto nel lungo periodo. Bibliografia: • Gadde KM et al. Effects of low-dose, controlled-release, phentermine plus topiramate combination on weight and associated comorbidities in overweight and obese adults (CONQUER): A randomised, placebo-controlled, phase 3 trial. Lancet 2011 Apr 16; 377:1341 Lavorare troppo fa male al cuore (Annals of Internal Medicine) Vi sono parecchi fattori che sono associati all’insorgenza di una malattia coronarica, non ultimo lo stress lavorativo. Con questo studio è stato esaminato il problema legato alle eccessive ore lavorative, con lo scopo di verificare se un lavoro particolarmente prolungato possa costituire un fattore di rischio coronarico aggiuntivo, rispetto a quelli tradizionali. Il campione è stato costituito da oltre 7.000 lavoratori inglesi privi di malattia coronarica, esaminati a partire dal 1991 fino al 2004. L’endpoint primario è stato stabilito nell’insorgenza di coronaropatia grave (decesso o infarto non mortale). Dopo aggiustamenti in base ai fattori di rischio stabiliti con lo studio Framingham, i soggetti con giornate lavorative di 10 o più ore hanno presentato un rischio cardiaco superiore a quelli con giornate di 7-8 ore (Hazard Ratio per 10 ore = 1.45; per 11 o più ore = 1.67). Tenendo conto di questo fattore, i partecipanti allo studio Framingham sono stati riclassificati, ottenendo uno spostamento dalla fascia di basso rischio ad una fascia superiore per il 5% di tutti loro. Il commento a questo articolo: Lo studio è interessante: più si lavora, più si rischia. Non sappiamo se il rapporto tra ore lavorative e coronaropatia sia semplicemente casuale o causale, ma in ogni caso i risultati dello studio evidenziano l’importanza anche dei fattori psicosociali nella genesi delle cardiopatie acquisite. Bibliografia: • Kivimaki M et al. Using additional information on working hours to predict coronary heart disease: A cohort study. Annals of Internal Medicine 2011 Apr 5; 154:457 Obesità e disfunzione diastolica (Journal of the American College of Cardiology) Sappiamo che l’obesità costituisce un fattore di rischio per l’insufficienza cardiaca, ma non sappiamo se tale rischio si manifesti attraverso una disfunzione diastolica, per cui alcuni ricercatori in USA hanno studiato una coorte di 950 pazienti (età media 72 anni) mediante ecocardiografia. L’incidenza della disfunzione diastolica è risultata del 51% nei soggetti normopeso, del 54% nei soggetti sovrappeso e del 57% nei soggetti francamente obesi (definendo il sovrappeso come BMI compreso tra 25 e 29.9 kg/m2 e l’obesità come BMI ≥ 30 kg/m2): queste differenze non raggiungono la significatività statistica. Dopo aggiustamenti per età e per vari fattori clinici, però, l’obesità e il sovrappeso sono risultati predittori indipendenti di disfunzione diastolica (OR = 1.6 per l’obesità e OR = 1.5 per il sovrappeso). All’opposto, la frazione di eiezione del ventricolo sinistro è stata leggermente più alta nel gruppo degli obesi che in quello normopeso (64.5% contro 62.2%). Il commento a questo articolo: In questo studio il sovrappeso e l’obesità si associano più frequentemente a disfunzione diastolica, indipendentemente da pressione, diabete o altri fattori di rischio cardiaco. E' probabile che la causa di questo risieda nelle modificazioni metaboliche che si associano al sovrappeso e che si ripercuotono sulla funzionalità cardiaca mediante meccanismi neuro-ormonali. Bibliografia: • Russo C et al. Effect of obesity and overweight on left ventricular diastolic function: A community-based study in an elderly cohort. Journal of the American College of Cardiology 2011 Mar 22; 57:1368 Screening del cancro prostatico (British Medical Journal - BMJ) E' stata realizzata una metanalisi di 6 studi randomizzati sullo screening del cancro prostatico, e ne è risultata una netta sovradiagnosi che non ha abbassato né la mortalità globale né quella specifica. Adesso un nuovo studio si aggiunge a quelli già pubblicati, con la valutazione dell’influenza dello screening sulla mortalità specifica a lungo termine (20 anni). I partecipanti sono stati 9.026 maschi svedesi, che al momento dell’arruolamento nello studio avevano un’età compresa tra 50 e 69 anni: 1.494 sono stati randomizzati ad effettuare lo screening ogni 3 anni; per i rimanenti 7.532 sono stati considerati controlli. Lo screening dal 1987 al 1990 è stato effettuato mediante esplorazione rettale; nel 1993 e nel 1996 è stata aggiunta la determinazione del PSA. I dati sono stati raccolti fino alla fine del 2008. I soggetti con esplorazione rettale non normale e con valori di PSA ≥ 4 µg/l sono stati sottoposti a biopsia. Sono stati diagnosticati cancri prostatici nel 5.7% dei soggetti sottoposti a screening e nel 3.9% dei controlli, ma la mortalità specifica è stata del 2.0% nei primi e dell’1.7% nei secondi: la differenza non è statisticamente significativa. Il commento a questo articolo: L’importanza di questo studio sta nella sua lunga durata, e i risultati confermano quelli di studi precedenti: lo screening prostatico non diminuisce la mortalità specifica da cancro. Non si capisce perché la maggior parte degli urologi continui, in Italia, a richiedere il PSA di routine. Bibliografia: • Sandblom G et al. Randomised prostate cancer screening trial: 20 year follow-up. BMJ 2011 Mar 31; 342:d1539 Statine e rischio di decesso dopo polmoniti (British Medical Journal - BMJ) Sappiamo che le statine, oltre a diminuire l’assetto lipidico, possiedono proprietà antiflogistiche e immunomodulatrici, per cui è stato realizzato uno studio in Inghilterra per verificare se l’uso delle statine sia in grado di proteggere contro la mortalità conseguente ad una diagnosi di polmonite. Circa 130.000 pazienti trattati con statine tra il 1995 e il 2006 sono stati parificati con un campione di soggetti non assumenti statine. Oltre 9.000 soggetti hanno contratto una forma di polmonite, ma di questi sono stati considerati solamente 942 utilizzatori di statine e 3.615 controlli dal momento che sono stati esclusi dallo studio quelli che non presentavano caratteristiche cliniche simili. Entro 6 mesi dalla diagnosi sono deceduti il 13% di quelli che assumevano statine e il 20% dei controlli, con un Hazard Ratio di 0.7: la differenza possiede significatività statistica. Il commento a questo articolo: In base a questo studio, le statine possiedono anche un capacità preventiva sui decessi dopo polmonite. Da notare che una metanalisi recente attribuisce alle statine poteri anti-infettivi (Archives of Internal Medicine 2009; 169:1658), ma né lo studio né la metanalisi forniscono una spiegazione causale. Sono in corso studio randomizzati placebo-controllo che dovrebbero chiarire la questione. Bibliografia: • Douglas I et al. Effect of statin treatment on short term mortality after pneumonia episode: Cohort study. BMJ 2011 Apr 6; 342:d1642 Ipotensione ortostatica (Journal of American Geriatric Society) L’ipotensione ortostatica è una condizione relativamente frequente tra gli anziani, soprattutto in chi assume farmaci per l’ipertensione oppure presenta patologie che coinvolgano il sistema autonomico (diabete, Parkinson). In questo studio realizzato in Irlanda è stato utilizzato un monitoraggio continuo non invasivo della pressione arteriosa per verificare l’insorgenza di ipotensione in una singola occasione, il passaggio dalla posizione sdraiata a quella in piedi. Il campione è stato costituito da 442 anziani (età media 72 anni), la cui pressione sistolica media all’inizio della prova era di 160 mmHg. Facendo mettere supini i soggetti e poi facendoli alzare si sono realizzati tre modelli di comportamento: • piccola caduta, veloce ripresa eccessiva: il 25% dei soggetti ha presentato una caduta pressoria media di 16 mmHg, entro i primi 30 secondi. Entro i successivi 30 secondi si è verificata una veloce ripresa che ha innalzato la pressione a valori superiori al baseline; • media caduta, lenta ripresa: il 54% dei soggetti ha presentato una caduta pressoria media di 35 mmHg, entro i primi 30 secondi, con ritorno ai valori di partenza entro 2 minuti; • importante caduta, nessuna ripresa: il 21% dei soggetti ha presentato una caduta pressoria media di 62 mmHg, entro i primi 30 secondi, con una lenta ripresa entro i 2 minuti successivi ma senza riuscire a raggiungere i valori del baseline. In base ad una definizione di ipotensione ortostatica pubblicata su Clinical Science (Clinical Science (Lond) 2007; 112:157) che prevede una caduta pressoria di almeno 40 mmHg nei primi 15 secondi, 85 partecipanti allo studio sono stati inquadrati in questa patologia. Questi 83 soggetti, rispetto agli altri, hanno presentato una maggiore frequenza di cadute recenti (25% contro 10%), una maggiore assunzione di farmaci (54% contro 39% assumeva oltre 4 farmaci al giorno) ed una maggiore debolezza fisica (71% contro 52%). Il commento a questo articolo: L’ipotensione ortostatica è una situazione comune tra gli anziani, e spesso misconosciuta. Occorre indagare tra i pazienti anziani la presenza di vertigini ed effettuare misurazioni pressorie sia in clino - sia in ortostatismo, cercando di non sovraccaricarli di farmaci potenzialmente dannosi. Bibliografia: • Romero-Ortuno R et al. Continuous noninvasive orthostatic blood pressure measurements and their relationship with orthostatic intolerance, falls, and frailty in older people. Journal of American Geriatric Society 2011 Apr; 59:655 La sindrome dello svuotamento dei capillari (Annals of Internal Medicine) Nel 1960 venne descritta per la prima volta questa rara sindrome - SCLS: Systemic Capillary Leak Syndrome - di cui sono stati riportati attualmente 130 casi a livello mondiale. Gli attacchi acuti si sviluppano in poche ore con grave ipotensione, edemi, emoconcentrazione e iponchia. Alcuni ricercatori di Parigi hanno recentemente presentato 28 casi di SCLS osservati dal 1997 al 2010: l’età media dei pazienti era di 49 anni e il ritardo diagnostico medio di 7 mesi. La frequenza media degli attacchi è stata di 1.2 crisi all’anno, e la causa scatenante più frequente è stata di origine infettiva (74% dei casi). I pazienti sono stati trattati con vari preventivi, comprese immunoglobuline endovenose e β2-agonisti. Otto pazienti (29%) sono deceduti durante il followup di 55 mesi. La sopravvivenza stimata a 5 anni è stata del 73%, che è salita all’85% nei 23 soggetti trattati in via preventiva, è scesa al 20% nei 5 pazienti che non hanno ricevuto trattamenti profilattici. Il commento a questo articolo: La sindrome è decisamente rara, ma non rarissima. Dal momento che i β2-agonisti hanno ottenuto risultati in termine di sopravvivenza, il loro uso profilattico è da consigliare sicuramente. Probabilmente il meccanismo di azione si esplicita attraverso la diminuzione dell’istamina e della bradichinina, che a loro volta causano una aumentata permeabilità capillare con conseguente rischio di “trasudazione”. Bibliografia: • Gousseff M et al. The systemic capillary leak syndrome: A case series of 28 patients from a European registry. Annals of Internal Medicine 2011 Apr 5; 154:464 Nuovi contraccettivi orali e ipermenorrea (Obstetrics and Gynecology) Normalmente, per controllare le mestruazioni troppo abbondanti, vengono prescritti contraccettivi orali, anche se l’evidenza di efficacia è scarsa. Con uno studio sponsorizzato dall’industria farmaceutica, randomizzato in doppio cieco, realizzato in USA e Canada, è stata confrontata l’efficacia di una nuova pillola contraccettiva a base di estradiolo valeranato e dienogest con il placebo nel tentativo di contenere l’ipermenorrea in donne prive di patologie organiche: l’ipermenorrea è stata definita come flussi mestruali particolarmente abbondanti o prolungati. Lo studio è durato 7 mesi. Mediante un’analisi intent-to-treat (in cui le donne di cui non si avevano i dati sono state definite come "nonresponder") si è visto che la proporzione di successo è stata nettamente maggiore tra le donne che avevano assunto il contraccettivo orale (35 su 120 donne contro 2 su 70 nel gruppo del placebo: 29% contro 3%). Analizzando solo i dati noti, le percentuali sono rimaste all’incirca le stesse (35 donne su 80 con la pillola e 2 su 48 con il placebo: 44% contro 4%). La riduzione media dell’ipermenorrea è stata significativamente maggiore con la pillola e l’uso di pannolini è stato di conseguenza ridotto in modo significativo. L'uso della pillola ha comportato un miglioramento anche dell’emoglobina, dell’ematocrito e della ferritina, cosa che non è stata vista con il placebo. Il commento a questo articolo: L’uso di un contraccettivo orale riduce sicuramente l’ipermenorrea, anche se non esiste nessuna ragione per pensare che solamente questa composizione chimica ottenga il risultato: anche con i contraccettivi di vecchia generazione il flusso mestruale si riduce in quantità e durata, come ben sanno tutti i medici. Bibliografia: • Jensen JT et al. Effective treatment of heavy menstrual bleeding with estradiol valerate and dienogest: A randomized controlled trial. Obstetrics & Gynecology 2011 Apr; 117:777 Bifosfonati e necrosi mandibolare (Journal of Dental Research ) Le denunce di fratture della mandibola in seguito all'uso di bifosfonati sono state parzialmente oscurate dalle segnalazioni, più recenti, dell'associazione tra uso di questi farmaci e fratture femorali atipiche. Adesso due nuovi studi, sponsorizzati dal National Institute of Health, riportano all'attenzione il problema nella necrosi mandibolare da bifosfonati (BRONJ: Bisphosphonate Related Osteonecrosis of Jaw). Con uno studio caso-controllo che ha coinvolto 119 studi dentistici in 4 aree metropolitane degli USA sono stati esaminati 191 pazienti con BRONJ, confrontandoli con 573 controlli. Circa la metà dei soggetti aveva fatto uso di bifosfonati, che mediante analisi multivariate hanno dimostrato una forte associazione con la BRONJ (Odds Ratio 12.2). Con un altro studio retrospettivo sono stati identificati 23 casi di BRONJ durante un periodo di circa 10 anni in due organizzazioni sanitarie che forniscono cure odontoiatriche: sei pazienti con BRONJ (26%) utilizzavano bifosfonati ottenendo, rispetto ai non utilizzatori, un OR di 15.5 (valore decisamente elevato: l'uso di bifosfonati comporterebbe un rischio di frattura della mandibola 15 volte superiore al non uso). L'incidenza globale di BRONJ è stata di 0.63 casi per 100.000 persone all'anno, ma tra gli utilizzatori di bifosfonati l'incidenza sale a 4.1 casi per 100.000 persone per anno. Il commento a questo articolo: E' noto che la BRONJ è associata all'uso di bifosfonati per via endovenosa, ma la sua associazione con i bifosfonati orali è ancora controversa. E' vero che questi studi hanno limitazioni (campionatura, metodologia del secondo), ma indubbiamente tra le cause di frattura della mandibola dobbiamo annoverare anche l'uso di bifosfonati orali. Bibliografia: • • Barasch A et al. Risk factors for osteonecrosis of the jaws: A case-control study from the CONDOR Dental PBRN. Journal of Dental Research 2011 Apr; 90:439 Fellows JL et al. ONJ in two dental practice-based research network regions. Journal of Dental Research 2011 Apr; 90:433 Neuropatia diabetica dolorosa (Diabetes Care, Neurology) L'American Academy of Neurology ha rilasciato delle nuove linee-guida sul trattamento della neuropatia diabetica dolorosa, basate sulla revisione della letteratura disponibile, concludendo che un unico farmaco - il pregabalin - può essere definito di classe “A”, anche se gli studi su questo prodotto hanno dimostrato solamente un modesto vantaggio rispetto al placebo, con un'entità di efficacia del 10%-15%. Sono stati esaminati anche numerosi altri farmaci (antidepressivi, altri anticonvulsivanti oltre al pregabalin, oppioidi), classificati tutti a livello “B”. Gli effetti collaterali sono stati maggiori con alcuni di questi farmaci, rispetto al pregabalin, ma in studi di metodologia inferiore. Sono anche stati effettuati dei confronti diretti tra farmaci: l'ultimo studio in doppio cieco randomizzato, di tipo crossover, ha paragonato una terapia di 6 settimane a base di amitriptilina con la duloxetina, in 58 adulti diabetici con neuropatia dolorosa. L'amitriptilina è stata gradatamente aumentata da 10 fino a 50 mg e la duloxetina da 20 a 60 mg. La diminuzione del dolore è stata simile: ad esempio, utilizzando una scala analogica il 60% dei pazienti ha registrato un miglioramento del dolore di oltre il 30% con entrambi i farmaci. La secchezza delle fauci è stato l'effetto collaterale più comune con l'amitriptilina, mentre la stipsi quello con la duloxetina; entrambi i farmaci hanno causato sonnolenza. Il commento a questo articolo: Siamo ancora lontani dal farmaco ideale per il controllo della neuropatia diabetica dolorosa. In base alla FDA, solamente il pregabalin e la duloxetina possono essere utilizzati in questa indicazione; gli altri prodotti sono tutti off-label. All'interno di quelli utilizzati, probabilmente la apparente migliore azione del pregabalin deriva dal fatto che esistono per questa molecola numerosi studi sponsorizzati dall'industria farmaceutica, mentre per altri prodotti - specie se più datati - non esiste interesse a sponsorizzare studi. Bibliografia: • • Bril V et al. Evidence-based guideline: Treatment of painful diabetic neuropathy. Report of the American Academy of Neurology, the American Association of Neuromuscular and Electrodiagnostic Medicine, and the American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation. Neurology 2011 Apr 11. Kaur H et al. A comparative evaluation of amitriptyline and duloxetine in painful diabetic neuropathy: A randomized, double-blind, cross-over clinical trial. Diabetes Care 2011 Apr; 34:818 Alterazioni aspecifiche della funzionalità respiratoria (Chest) Da parte di ricercatori della Mayo Clinic è stata riscontrata, nel 10% dei soggetti che si sottopongono alla spirometria, una risposta alterata in modo non specifico: il rapporto tra FEV1 e capacità vitale forzata (CVF) è normale, così come la capacità vitale, ma con un valore ridotto del FEV1 o della CVF, presi come dati singoli. Questo comportamento, molto frequente, della spirometria non è di tipo ostruttivo (a causa del rapporto normale FEV1/CVF) e neppure restrittivo (la CV totale è normale). Per studiare l'evoluzione di questa situazione sono stati seguiti 1.284 pazienti: l'età media era di 60 anni; la metà di loro erano fumatori o lo erano stati. Mediamente sono stati effettuati 3 test respiratori durante il follow-up durato tre anni. Al termine, la situazione respiratoria rimaneva inalterata per il 64%, si era trasformata in forme ostruttive per il 15% di loro, in forme restrittive per il 16%, in forme miste per il 2% e si era normalizzata per il 3% dei soggetti esaminati. Con analisi multivariate si è visto che i valori di partenza più fortemente alterati erano più facilmente destinati a trasformarsi in forme ostruttive con il passare del tempo. Non si è vista alcuna relazione con età, sesso, abitudine al fumo e BMI. Il commento a questo articolo: La situazione riportata (FEV1 o CVF alterati singolarmente) è relativamente frequente, viene definita come risultato “aspecifico” e secondo gli autori dello studio deve essere interpretata come una situazione a sé stante e non necessariamente come prologo ad una ostruzione o restrizione vere. Occorre però prestare attenzione ad alcune cose: non sappiamo l'evoluzione nel lungo periodo, dato che il follow-up è stato limitato a 3 anni, non sappiamo perché questi soggetti esaminati siano stati sottoposti a spirometria e non sappiamo se siano stati effettuati trattamenti. In presenza, pertanto, di un reperto “aspecifico” spirometrico, occorre monitorare attentamente nel tempo il soggetto per individuare una tendenza eventuale all'evoluzione in senso peggiorativo. Bibliografia: • Iyer VN et al. The nonspecific pulmonary function test: Longitudinal follow-up and outcomes. Chest 2011 Apr; 139:878 BPCO non solo nei fumatori (Chest) Sovente si fa lo sbaglio di attribuire la responsabilità della BPCO quasi esclusivamente al fumo. Per valutare la prevalenza di BPCO in chi non ha mai fumato è stata effettuata un’indagine spirometrica in un campione di adulti (età ≥ 40 anni) residenti in 14 nazioni di 4 continenti. Hanno partecipato 10.000 soggetti: di questi, il 34% dei maschi e il 66% delle femmine non aveva mai fumato. Tra i non fumatori, la prevalenza globale di BPCO (definita dal FEV1 e dalla FVC inferiori al 70%) è stata del 12% (6% lieve; 6% moderata-grave). Tra i soggetti fumatori la prevalenza è risultata del 24% (10% lieve; 14% moderata-grave). Per i non fumatori, la prevalenza è andata aumentando con l’età. Analizzando l’anamnesi, si è visto che tra i non fumatori la BPCO più grave è stata maggiormente presente tra i soggetti esposti a polveri ambientali oppure tra chi soffriva di asma. Da notare che tra i non fumatori con BPCO moderata-grave solamente il 19% aveva ricevuto la corretta diagnosi dal medico curante. Il commento a questo articolo: Occorre tenere sempre presenta la possibilità di una broncopatia ostruttiva anche in chi non ha mai fumato, e non ci si deve far trarre in inganno dalla apparente piccola differenza tra fumatori e non fumatori risultante dallo studio: i fumatori dello studio non erano fumatori accaniti: solo il 44% di chi aveva sempre fumato era un fumatore attuale al momento dell’arruolamento (il 56% aveva cessato l’abitudine al fumo) e meno della metà dei fumatori era definito un “grosso” fumatore. Bibliografia: • Lamprecht B et al. COPD in never smokers: Results from the population-based Burden of Obstructive Lung Disease Study. Chest 2011 Apr; 139:752