Uomini e lavoro alla Olivetti
A cura di Francesco Novara
Renato Rozzi, Roberta Garruccio
Con una postfazione di Giulio Sapelli
Bruno Mondadori
La ricerca che ha portato all’edizione
di questo volume è stata realizzata
grazie al coordinamento scientifico
del Centro per la Cultura d’Impresa
e grazie a un finanziamento
della Fondazione Adriano Olivetti.
© 2005, Paravia Bruno Mondadori Editori
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interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata.
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potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore
al 15% del presente volume, solo a seguito di una specifica
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Progetto grafico: Massa & Marti, Milano.
Realizzazione editoriale: Sandra Holt (ForPublishers).
La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.
La foto di copertina è stata gentilmente concessa dall’Archivio Storico Olivetti.
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Indice
9
Prefazione
di Roberta Garruccio
19
Una guida ai temi e agli argomenti del volume
di Francesco Novara e Renato Rozzi
63
Nota al testo
65
Profili biografici dei testimoni
Testimonianze
71
73
103
125
1.
1.1
1.2
1.3
Le relazioni aziendali
Alberto Gobbi
Giannorio Neri
Sandro Sartor
147
149
165
183
209
2.
2.1
2.2
2.3
2.4
Le relazioni sindacali
Giovanni Avonto
Umberto Chapperon
Cleto Cossavella
Fiorenzo Grijuela
225
227
239
265
287
307
329
345
3.
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
3.6
3.7
La produzione
Dionisio Albertin
Alberto Berghino
Pier Carlo Bottino
Giuliano Bracco
Gianfranco Ferlito
Umberto Gribaudo
Massimo Levi
357
381
395
3.8 Ettore Morezzi
3.9 Luigi Pescarmona
3.10 Giovanni Truant
419
421
455
4. La Ricerca & Sviluppo
4.1 Gastone Garziera
4.2 Alessandro Graciotti
477
479
499
525
5.
5.1
5.2
5.3
551
553
6. L’Alta Direzione
6.1 Ottorino Beltrami
579
581
591
7. I servizi culturali e sociali
7.1 Adriano Bellotto
7.2 Cornelia Lombardo
607
Postfazione. Lo “scandalo” della memoria olivettiana
di Giulio Sapelli
615
Cronologia
I servizi commerciali
Nicola Colangelo
Giovanni Maggio
Mario Torta
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
1.3 Sandro Sartor *
Garruccio—Partiamo dalla sua storia. Quando e come arriva in Olivetti?
Sartor—Verso la fine dei miei studi universitari, avevo incominciato a
lavorare alla Moto Guzzi, a Mandello del Lario. Quindi, allorché mi laureai in scienze politiche a Firenze, avevo già un impiego in un’azienda.
Era un periodo straordinario, di pieno boom, e c’era una caccia disperata ai giovani, soprattutto ai laureati. Mi sono capitate diverse opzioni. Tra
le varie alternative aperte, non ho avuto nessun dubbio a scegliere l’Olivetti. Ero ammalato già da allora di “olivettite”: alcuni dei miei docenti
universitari avevano lavorato a loro volta all’Olivetti, o comunque nell’orbita Olivetti, e ci avevano trasmesso l’idea di un’azienda affascinante
proprio perché non era solo un’entità economica, perché aveva qualcosa d’ideale.
Fu così che nel 1 9 6 1 passai all’Olivetti: dipendevo da Ivrea, ma nei
primi tempi lavorai essenzialmente per la Divisione Elettronica, che aveva sede vicino a Milano. 1 Mi occupavo di selezione del personale. Erano
anni da Far West: era aperta, da parte di tutte le aziende, una caccia disperata soprattutto al personale tecnico; e io mi occupavo proprio di
personale tecnico. Credo di aver passato a Ivrea solo le prime due settimane dal mio arrivo, durante le quali mi hanno fatto parlare con alcune
persone, tanto per capire com’era fatta l’azienda. Ricordo che nel presentarmi a Nicola Tufarelli, che allora era il Direttore del Personale, e in
quanto tale colui che doveva avviarmi al lavoro, mi chiedevo che indirizzo, che istruzioni, mi avrebbe dato. Io venivo da una vecchia azienda tradizionale, in cui prima di assumere qualcuno si facevano tutte le proiezioni di carriera possibili e immaginabili, si andava a guardare chi sarebbe andato in pensione e chi no... Invece Tufarelli mi disse: «Lei giri, e se
trova uno intelligente lo prenda». E partii. Mi sono fermato tre anni dopo. Proprio perché venivo da un’azienda tradizionale, sono rimasto così
affascinato dall’Olivetti per il tipo di filosofia che aveva, perché era un’azienda estremamente avanzata, con idee nuove. Mi aveva colpito soprat129
Uomini e lavoro all’Olivetti
tutto la qualità delle persone: persone interessanti, tutte giovani, pochissimi gli stupidi: anzi, devo dire che, nei vent’anni che ci sono rimasto, gli
stupidi potrei contarli sulle dita di una mano; un mondo estremamente
colorato, fatto di persone che venivano dalle regioni più disparate, e dalle ideologie e dalle storie più disparate. La mia esperienza alla selezione
del personale tecnico finì dopo tre o quattro anni, quando l’Olivetti entrò in un periodo di crisi.
Adriano Olivetti non l’ho conosciuto, perché quando arrivai era morto da quasi un anno. Però nel 19 6 1 la sua impostazione c’era ancora, e
c’erano gli uomini che lui aveva scelto. Devo puntualizzare che l’Olivetti industriale è l’unica Olivetti che io abbia conosciuto: non mi sono mai
occupato di urbanistica, di editoria o di cose del genere. Mi considero un
uomo di fabbrica, e sostanzialmente lo sono sempre stato. Quindi posso
giudicare l’Olivetti da questa angolatura, e non da altre.
Ora, una persona che mi ha particolarmente colpito quando arrivai a
Ivrea – perché credo che rappresentasse l’incarnazione vera dell’Olivetti – è stata Gino Martinoli, che aveva lasciato l’azienda molti anni prima
che io vi entrassi. Nel 19 6 1 era andato in pensione, e poi aveva fondato il censis. 2 Lo conoscevo di fama perché avevo letto le sue pubblicazioni, ma lo conobbi personalmente allora perché era mio vicino di casa
e avevamo fatto amicizia; passavo parecchie ore a parlare con questo signore, un personaggio di un fascino veramente straordinario, che viveva
in una splendida casa piena di libri. Martinoli era un “ingegnere-ingegnere” e nello stesso tempo aveva un rapporto molto positivo con la fabbrica. Credo che Martinoli sia stato un personaggio a cavallo tra Camillo e Adriano; e credo che proprio per questo abbia dato un’impostazione estremamente avanzata alle politiche industriali e ai rapporti di fabbrica: ricordava Camillo per i suoi interessi di tipo tecnico, mentre ricordava molto Adriano per i suoi interessi sul piano organizzativo e sul piano del rapporto con le persone.
Fu verso il 1 9 6 4 che la marcia trionfale dell’azienda si bloccò di colpo, perché la spinta propulsiva, cioè l’isteresi dell’azione di Adriano, si
era venuta esaurendo. Adriano aveva impegnato moltissime delle sue sostanze sul piano della politica. Il figlio Roberto 3 (con il quale ho lavorato per un po’ di tempo, un personaggio egualmente fuori del comune)
aveva le idee del padre in termini di sviluppo e d’indirizzo strategico dell’azienda, però non aveva le risorse finanziarie per farle prevalere sul resto della famiglia, e forse neppure una preparazione sufficiente. Contemporaneamente, quella che era sembrata una grandissima iniziativa,
l’acquisizione dell’Underwood in America, 4 si era rivelata invece (come
aveva fiutato, ma in ritardo, Adriano Olivetti), almeno in parte, una fregatura.
Fu un periodo di crisi severa, perché da un lato c’era la famiglia e, de130
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
vo dire, anche una parte consistente dell’alto management – tradizionalmente legato alla meccanica – che insistevano per restare nel comparto
tradizionale dell’azienda. Dall’altro c’era solo Roberto, che invece credeva nell’elettronica. L’elettronica Olivetti era nata – pare dietro suggerimento di Enrico Fermi 5 ad Adriano – con un piccolo laboratorio vicino
a New York; dopo di che si era sviluppata a Barbaricina, in collegamento con l’università di Pisa, soprattutto grazie all’ingegner Mario Tchou. 6
Questo ingegnere, una delle persone più intelligenti che io abbia conosciuto, ha saputo consolidare e compattare il gruppo dei pittoreschi personaggi del laboratorio di ricerca elettronica, molti dei quali erano stranieri, per la maggior parte tipi bizzarri. Lo ripeto: in quegli anni c’era veramente lo spirito della conquista del West; non c’era ancora il predominio dell’ibm; e questi ricercatori avevano sviluppato una tecnologia assai avanzata.
La morte di Adriano prima, e quella di Tchou in un incidente stradale
subito dopo, oltre a creare probabilmente qualche problema di mercato, hanno fatto sì che l’Olivetti entrasse in crisi, e l’elettronica con lei. Come anticipavo, la famiglia non era più in grado di sostenere finanziariamente lo sviluppo dell’azienda ed era restata inoltre molto legata alla
meccanica, anche perché in quei tempi la meccanica generava ancora
una redditività spaventosa. Ricordo che, quando sono entrato in Olivetti, l’m c 2 4, la macchina da calcolo che ha fatto la fortuna dell’Olivetti,
costava esattamente come una Cinquecento Fiat. E si trattava di pezzi di
ferro, tre chili di ferro che venivano lavorati in azienda. Macchine come
questa davano dei margini di profitto che l’elettronica non avrebbe mai
dato neanche successivamente e che certamente non dava allora. Ci fu,
insomma, mancanza di visione – una visione che forse era allora difficile
avere – della famiglia e anche di una parte consistente del management,
abituate entrambe alla redditività e stabilità dei prodotti, mentre quelli
dell’elettronica appartenevano culturalmente a una tecnologia che già allora si capiva destinata a evolvere rapidamente e continuamente.
Morale: l’azienda entrò in un periodo di stagnazione, se non di recessione. Arrivò il cosiddetto Gruppo d’Intervento, pare raccolto da Enrico Cuccia, che già allora imperversava, il quale Cuccia sembra aver posto come condizione per far intervenire gli altri finanziatori la cessione
della Divisione Elettronica. Sembra che Roberto Olivetti abbia fatto di
tutto per evitarlo: prima sul piano politico, sollecitando l’intervento dell’iri e della finanza pubblica, poi facendo un pellegrinaggio in Europa
per convincere varie imprese a mettersi insieme con l’Olivetti nell’elettronica. Non ci riuscì. E così la Divisione Elettronica fu ceduta alla General Electric.
La cosa importante, in questa cessione, è che Roberto Olivetti ha insistito perché un gruppo di persone che lavoravano in Divisione Elettro131
Uomini e lavoro all’Olivetti
nica restassero all’Olivetti. 7 Era il gruppo di lavoro dell’ingegner Pier
Giorgio Perotto, che stava già lavorando alla cosiddetta Programma
1 0 1 (un caso studiato in molte business schools degli Stati Uniti: 8 ancora quando ci andai io, nel 1 9 7 7, mi hanno fatto discutere il caso mascherato della Programma 1 0 1, considerato un esempio clamoroso di
miopia aziendale). La Programma 1 0 1 è stata il primo personal computer, però l’avevano concepito e pubblicizzato come un calcolatore scientifico. Ho parlato di miopia aziendale, che qui tuttavia rasenta la stupidità aziendale. È stata una delle caratteristiche della Olivetti l’aver perso
delle grandi occasioni. Uscì qualche anno fa un articolo molto bello di
Mario Pirani sulle grandi occasioni perse dall’Italia; una di queste è proprio l’elettronica dell’Olivetti. 9 Uno degli errori clamorosi che sono stati fatti proprio per mancanza di visione, e che, se evitati, avrebbero potuto indirizzare il Paese in un altro modo.
Insomma, arrivò il Gruppo d’Intervento. Credo che la crisi dell’Olivetti del 1 9 6 3 - 6 4 sia stata motivo di grande compiacimento per l’establishment politico, sindacale e industriale del Paese. Perché l’Olivetti era qualcosa di diverso, che dava un po’ fastidio. Ritengo quindi che
l’interventosia stato fatto anche nell’intento di normalizzare un’azienda
diversa, nei confronti della quale c’era stata addirittura una presa di posizione di Angelo Costa, allora presidente della Confindustria, che invitava a boicottare i prodotti Olivetti... 10
La crisi riguardava l’elettronica, che fu ceduta, ma riguardava anche la
meccanica: perché cominciavano a saltar fuori le macchinette da calcolo
elettroniche, giapponesi o americane, che magari non erano scriventi,
però costavano un decimo delle Olivetti, che tra l’altro erano assai più
lente e rumorose.
Per me personalmente, quel triennio 1 9 61- 6 4 è stato un periodo
interessante; chiusa nel 1 9 6 4 la prima fase dell’attività di selezione del
personale tecnico (alla selezione sono poi tornato, ciclicamente) passai a
fare l’addetto al personale del Gruppo Ricerca & Sviluppo, che allora si
chiamava Ufficio Progetti.
Da questa “terrazza panoramica” ho assistito al primo grande cambiamento: dalla meccanica all’elettronica. I meccanici erano tutti straordinari: la meccanica dell’Olivetti non era una meccanica ingegneristica, ma
una meccanica da inventori di marchingegni; dentro questo ammasso di
ferraglia (quale appariva dall’interno la macchina, una volta sollevata la
carrozzeria: un intrico di leve, di canne, di cremagliere...) c’erano tutte le
informazioni; erano il frutto di una genialità creativa, un lavoro da orologiaio intelligente. Consulente speciale dell’Ufficio Progetti era Natale
Capellaro, che in quello stesso Ufficio Progetti aveva lavorato come operaio. 11 Su Capellaro in azienda si raccontava questa storia: durante la seconda guerra mondiale, un ingegnere di origine israelita aveva inventato
132
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
la prima macchina da calcolo scrivente (che poi ebbe molto successo); se
nonché la macchina sbagliava, in maniera assolutamente casuale, e non
si riusciva a capire perché. Quell’ingegnere, per effetto delle leggi razziali, aveva dovuto andarsene. Tutti i progettisti Olivetti furono coinvolti
nel cercare l’errore, fin quando si presentò questo Capellaro, che era un
montatore di prototipi, un operaio che montava macchine prototipali.
Capellaro analizzò la macchina e disse: «Ho capito», e in effetti trovò la
soluzione di un problema che stava mettendo in crisi l’azienda. Così fu
messa a capo dell’Ufficio Progetti un persona che divenne sì ingegnere,
ma anni dopo, e honoris causa, 12 e che era un vero genio della meccanica, perché dopo questa macchina ne vennero fuori molte altre. Eppure
lui stesso, nella seconda metà degli anni sessanta, si era reso conto che
ormai la meccanica era finita. Per cercare di resistere all’elettronica che
avanzava, si fecero cose straordinarie: come l’m c 2 7, che tuttavia non
poteva competere con la velocità dell’elettronica. Io ricordo una delle
tante riunioni sulla crisi di questa macchina, perché la produzione non
riusciva a produrla garantendo un minimo di affidabilità, e questo proprio perché tutto era tirato al limite della velocità consentita. A un certo
punto, quando tutti sembravano essere d’accordo sul da farsi, Capellaro
disse: «Sì, sì, facciamo così. Però date retta a me, poi fatene un bel pacchetto e infiocchettatelo per bene... così avrete finito».
Un altro gruppo di progetto aveva cercato di competere con le macchine da calcolo elettroniche sul piano delle dimensioni; aveva messo a punto una macchina da calcolo utilizzando macchine utensili per l’industria
orologiaia: era un miracolo dal punto di vista della meccanica, però anche ormai era fuori del mondo.
Una delle cose più interessanti della storia di quest’azienda è come ha
gestito il passaggio dalla meccanica all’elettronica. I progettisti non erano un problema: assumendo ex dipendenti della Divisione Elettronica,
si è ricostituito il gruppo di progetto. E le persone della produzione, che
avevano sempre lavorato sulla meccanica, sono state tutte convertite a lavorare sull’elettronica. Questo è stato un miracolo. Miracolo che, a mio
avviso, ha due spiegazioni: in primo luogo, l’esubero delle potenzialità:
in Olivetti si sono sempre cercate persone più grandi, più capaci del ruolo che dovevano immediatamente ricoprire, quindi le potenzialità c’erano: si trattava di svilupparle; in secondo luogo, lo sforzo – veramente
mastodontico – che l’azienda ha dispiegato per cercare di formare la forza-lavoro esistente.
Tutti i competitori – per lo più americani – che hanno conosciuto le
stesse vicende, e che da una tradizione meccanica sono passati all’elettronica, hanno licenziato per riassumere poi persone diverse. L’Olivetti
ha fatto questo passaggio in maniera assolutamente non traumatica.
Però allora si è cominciato a intravedere un problema diverso: quello
133
Uomini e lavoro all’Olivetti
della ridondanza del personale. Infatti il prodotto elettronico, richiedeva molta meno manodopera del prodotto meccanico. Non vorrei riportare un dato sbagliato, ma mi sembra di ricordare che “il teorico”, cioè
la somma delle ore-uomo necessarie per produrre una telescrivente, fosse di 2 7 ore. La prima telescrivente elettronica, pur incorporando un’elettronica ancora molto rudimentale (rudimentale perché non era ancora sviluppata in termini di componentistica) ne richiedeva un terzo; il
che significa che, per produrre lo stesso numero di telescriventi, due terzi delle persone non servivano più. All’Olivetti anche questa constatazione è stata affrontata cercando di evitare, come sempre, delle soluzioni
traumatiche. Per esempio, a Ivrea c’erano delle enormi officine meccaniche, quasi degli stadi pieni di macchine utensili, macchine che furono
messe in un capannone, perché – con la drastica riduzione delle parti
meccaniche – non servivano più. Quando noi [del Personale] tentammo
di alleggerire l’organico, cercando di trattare le persone che potevano lasciare l’azienda in modo più morbido, abbiamo cominciato a offrire a
qualcuno delle macchine utensili, invece che soldi. In questo modo, con
le macchine che noi davamo come incentivo all’uscita, operai bravissimi
sul piano professionale, hanno messo su delle officine per conto proprio, anziché tornare a coltivare la vigna.
Questi sono gli anni in cui è arrivato Ottorino Beltrami, 13 il personaggio che ha reso possibile questo passaggio dalla meccanica all’elettronica;
mentre l’ingegner Pier Giorgio Perotto a quel punto è diventato direttore della Ricerca & Sviluppo. Beltrami ha riportato in Olivetti Marisa Bellisario; anche lei era passata alle aziende americane. La Bellisario aveva
una conoscenza straordinaria dei prodotti e dei mercati, e ha impostato
la sua autorevolezza su questa conoscenza. Così l’elettronica ha preso piede, è partita, e l’azienda è completamente cambiata.
Garruccio—Mi piacerebbe tornare al suo percorso personale, al periodo dei primi tre anni in Olivetti, da lei trascorsi occupandosi di selezione del personale tecnico.
Sartor—Devo precisare che c’erano due strutture: una per la selezione
dei diplomati e laureati e una per la selezione degli operai e del personale amministrativo, il personale operativo in sede. Io mi occupavo della selezione di diplomati e laureati tecnici.
Garruccio— Quale tipo d’indicazioni seguivate – se ne avevate – in
questo processo di selezione?
Sartor—Purtroppo è mancato due anni fa un uomo eccezionale, che è
stato il mio primo capo: Riccardo Felicioli. 14 Aveva lavorato parecchio
alla selezione, dandole un’impronta estremamente personale, ma che derivava dalla tradizione Olivetti. Mentre la Fiat andava cercando quelli
134
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
con la chiave inglese nel taschino, in Olivetti entravano quegli ingegneri
che per prima cosa dichiaravano: «Sa, io ho fatto ingegneria, ma per sbaglio...». Per di più, non abbiamo mai chiesto il certificato di laurea a nessuno. Tra l’altro, dopo parecchi anni mi accorsi di aver assunto un tale
che diceva di essere ingegnere ma non lo era, però nel frattempo aveva
vinto alcuni tra i premi più importanti per il mestiere che stava facendo.
Per cui ci si disse «Pazienza se non è ingegnere». Molto spesso facevamo riferimento agli elenchi delle università. In Olivetti si entrava come
primo lavoro (io sono stato un po’ un’eccezione: il mio era un secondo
lavoro, ma in realtà l’Olivetti mi ha cercato perché mi ero laureato) e l’assunzione era un vero e proprio processo di cooptazione. Quello che si
cercava erano ampiezza di orizzonti, curiosità, senso critico, si cercavano ragazzi capaci di porsi la domanda: “Si fa così? Bene. Ma perché non
si può fare anche cosà?”, persone in grado di porsi in termini critici (non
ipercritici), che non accettassero supinamente le istruzioni ricevute. L’Olivetti era un’azienda in cui chiunque, anche chi vi era entrato per ultimo,
poteva dare suggerimenti: e questi suggerimenti venivano sempre valutati, se non accettati.
Una cosa che in quegli anni ha differenziato molto l’Olivetti dalle altre
aziende che conoscevo allora e che ho conosciuto dopo, è stata la qualità
dei capi: capi che non tenevano la carta assorbente davanti al compito,
per non far copiare il vicino, come invece succede molto spesso altrove.
In molti ambienti, uno che conosce a fondo qualcosa, una problematica,
una tecnologia, è restio a insegnarla agli altri, perché pensa, non facendolo, di mantenere un potere. In Olivetti, ripeto, in quegli anni non c’era assolutamente niente di simile. Anche perché c’era una fortissima mobilità delle persone: mediamente, ogni due o tre anni uno cambiava lavoro, in certi casi cambiava completamente il tipo di attività. Questo la
gente lo sapeva e si diceva, per esempio: “Ho cominciato da poco a lavorare al Personale, poi andrò al Commerciale, poi al...”. In verità, io sono
sempre rimasto nell’area del Personale, però ogni tre anni circa cambiavo collocazione: sono passato dalla Selezione del Personale dei progetti
a gestire il Personale delle produzioni, poi a occuparmi di formazione e
sviluppo... In questa mobilità generale, uno aveva tutto l’interesse ad allevare persone valide, ad avere al fianco persone di buon potenziale e trasmettere loro tutte le informazioni, proprio per essere libero, il giorno
dopo, di passare a far altro.
Garruccio— Come si svolgeva, in pratica, la selezione del personale
tecnico?
Sartor—Erano previsti due colloqui. C’era un primo colloquio, diciamo “passa o non passa”, generale, fatto con i responsabili della Selezione: era un primo filtro per vedere se la persona aveva le caratteristiche
135
Uomini e lavoro all’Olivetti
che interessavano all’azienda, caratteristiche più relative alla personalità
che non alle competenze professionali: insomma, si dava per scontato che
se uno usciva da ingegneria con centodieci conoscesse la scienza delle
costruzioni. Il secondo colloquio, anche se si chiamava colloquio tecnico, di tecnico non aveva proprio niente: di fatto, era la presentazione del
candidato al responsabile della funzione in cui la persona avrebbe dovuto operare.
Garruccio— Quanto poteva durare un colloquio?
Sartor—Mediamente, se ricordo bene, facevamo una convocazione all’ora; però in selezione è molto difficile riuscire a fare una programmazione dei tempi. C’erano colloqui che si sbrigavano molto velocemente.
In Olivetti c’era un tipo di persone che io, che allora avevo il pallino degli Aztechi, definivo: i “figli del sole”. Quando in un giudizio di selezione si trovava scritto: “Questo è un figlio del sole”, s’individuava una di
quelle (pochissime) persone che in futuro avrebbero avuto strepitosi successi: persone su cui si poteva giurare. Di converso, c’era una percentuale – ahimè, assai più elevata – su cui uno poteva giurare in senso negativo. E infine una percentuale, il 7 0 - 80 % dei candidati, che si collocava, diciamo così, in un’area dal grigio chiaro al grigio scuro: e quelle richiedevano più tempo, perché il colloquio è sostanzialmente una serie di
segnali deboli, che uno deve cercare di percepire, vagliare e collegare.
Devo dire, giudicandolo a posteriori che, tutto sommato, questo approccio olivettiano alla selezione mi sembra abbia dato risultati positivi.
Infatti, ricordo che a un certo punto – eravamo, credo, negli anni settanta – non so per quale ragione, qualcuno nell’ambito della Direzione del
Personale pensò, d’introdurre i test nella selezione del personale diplomato e laureato. Ci fu una riunione piuttosto animata, a cui partecipava
anche il professor Cesare Musatti, che ha sempre avuto dei rapporti con
l’Olivetti, o meglio con il Centro di Psicologia diretto da Francesco Novara: 15 iniziò una discussione tra i fautori dei test e quelli che erano contrari, che durò due ore, fin quando Musatti chiese: «Ma scusate, finora
come avete fatto?». «Abbiamo fatto i colloqui.» «E ne siete scontenti?»
A questa domanda, tutti quanti – anche quelli che volevano sperimentare – risposero: «No, per la verità, no». «E allora che cosa cercate?» E il
discorso finì lì.
Garruccio—Il Centro di Psicologia era coinvolto nella selezione del
personale tecnico?
Sartor—Il Centro di Psicologia era coinvolto intensamente nelle selezioni del personale operaio, dove si applicavano test attitudinali. Nel nostro caso, il Centro di Psicologia era coinvolto solo quando c’erano un
forte interesse e insieme dei forti dubbi su qualcuno, cioè quando noi
136
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
non riuscivamo a capire la persona; il che succedeva molto raramente.
C’era invece una stretta interazione tra noi del Personale e il Centro di
Psicologia, riguardo a persone che già lavoravano in azienda: per problemi di tipo individuale, o per problemi con i gruppi di lavoro. Il Centro di
Psicologia è stato un promotore ed è stato fortemente coinvolto in tutto
il discorso dell’organizzazione del lavoro e nel cambiamento dell’organizzazione del lavoro, un capitolo molto importante.
Però la selezione del personale laureato e diplomato era – non saprei
come definirla – meno scientifica, essendo appunto un processo di cooptazione. Devo dire che, fra i tanti selezionatori che ho visto lavorare, non
ci sono mai stati clamorosi insuccessi; anche perché, facendo molti colloqui, e soprattutto vedendo fare molti colloqui, e da più persone, si finiva
con l’acquisire una taratura: nella selezione, l’importante è riuscire a capire qali siano i valori dell’azienda; a individuare “l’archetipo” di persona che l’azienda cerca.
Purtroppo, nell’attività che ho svolto dopo l’Olivetti, persone che non
avrei avuto dubbi ad assumere in Olivetti non le assumevo più, perché in
altri contesti aziendali, all’interno di un diverso quadro culturale, non
avrebbero avuto la possibilità d’inserirsi.
Ricordo che, quando facevo selezione all’Olivetti, dicevo sempre a Nicola Tufarelli: 16 «Se ci si mettesse e d’accordo con la Fiat e con l’ibm, voi
potreste pagarmi un terzo dello stipendio; oppure, se foste generosi, io
potrei avere tre stipendi invece di uno; perché le persone che assumiamo
noi la Fiat non le assumerà mai (parlo della Fiat di allora) e l’ibm neppure, e viceversa. Per cui, se contemporaneamente facessi anche le selezioni per la Fiat, la mia prestazione nei confronti dell’Olivetti non verrebbe a perderci nulla: infatti si scelgono persone con caratteristiche assolutamente diverse».
Garruccio—Da chi ritiene di aver imparato a selezionare il personale
tecnico?
Sartor—Devo moltissimo a Riccardo Felicioli. Esiste una tecnica per il
colloquio di selezione che consiste nello stare assolutamente zitti di fronte al candidato; il quale, per vincere l’imbarazzo creato dal silenzio, tende a dire qualsiasi cosa possa venirgli in mente. Io non l’ho mai applicata, perché mette troppo a disagio l’interlocutore... Magari come strumento di selezione è efficace, però secondo me non è corretto.
Credo piuttosto nella tecnica che applicava Felicioli: mettere a proprio
agio la persona, farla parlare di qualunque cosa; se la persona ha senso
critico, se ha un approccio originale verso le cose, poco importa che parli dell’ultimo libro che ha letto o di una partita di calcio che ha visto; l’importante è che non si esprima per frasi fatte, ma dimostri una capacità di
percepire ed elaborare. A tanti devo qualche contributo al modo di fare
137
Uomini e lavoro all’Olivetti
il lavoro di selezione, ma a Felicioli più di tutti. La selezione, in sintesi,
sembra molto più difficile di quanto non sia; se uno conosce a sufficienza i diversi ruoli e le persone che li ricoprono, deve intravedere se chi gli
sta di fronte ha o non ha le caratteristiche per fare il lavoro che dovrebbe
fare; di conseguenza, la valutazione gli viene naturale.
Garruccio—So che Adriano Olivetti interveniva personalmente nella
selezione dei laureati. Che lei sappia, Felicioli e Tufarelli avevano collaborato direttamente con lui in questo?
Sartor—Penso proprio di sì. Però credo che probabilmente Adriano
Olivetti intendesse – più che selezionare – incontrare, conoscere i neolaureati e i neoassunti. Tenga presente la resa della selezione Olivetti. Come dicevo, partivamo dagli elenchi delle scuole superiori e delle università (certe facoltà di certe università erano privilegiate rispetto ad altre).
Poi s’incrociava la votazione con l’età in cui il candidato si era laureato.
Mediamente, su 1 0 0 contatti entravano erano 4 o 5 persone. Intendo
dire che la selezione dell’Olivetti era molto severa; e giustamente severa,
anche perché era un’azienda che dava molto spazio, lasciava molta autonomia. Purtroppo, chi fa selezione è anche molto condizionato dall’utente: se c’è un grandissimo bisogno, chi reclama le persone continua a soffiarti sul collo e, in quella fascia dal grigio più chiaro al grigio più scuro a
cui mi riferivo prima, l’attenzione si sposta verso la zona del grigio chiaro: in altre parole, entrano persone su cui esistono dubbi. È un grave errore mettere fretta a chi fa selezione, perché capita il giorno in cui su otto persone se ne prendono quattro come, al contrario, capita la settimana in cui, vedendone quaranta, se ne prende una. Insomma, non è che ci
sia una misura costante.
Garruccio—Riprendendo il filo della sua carriera, prima lei diceva che
dopo tre anni passati a fare selezione del personale tecnico è arrivato a
occuparsi del personale di progetto.
Sartor—Sono arrivato a fare quella che in Olivetti si chiamava “la gestione”. Che cosa significa fare la gestione del personale? Significa fare il
capo del personale in una piccola unità. Se avevo bisogno di qualcuno,
era il Servizio di Selezione a fare la selezione di base; dopo di che – insieme al responsabile tecnico – io vedevo e valutavo la persona indicata.
Invece, quando facevo formazione mi rivolgevo ai Servizi di Formazione, però dando loro degli input precisi e specifici. Per problemi di carattere sindacale c’erano le Relazioni Sindacali, a livello di Direzione del Personale, però il rapporto con il delegato, con il rappresentante dei lavoratori locali, lo teneva il gestore. Il gestore interveniva anche quando c’erano grosse rivendicazioni in un settore. È vero che tutta la politica retributiva era definita a livello centrale, però con il concorso di tutti i capi
138
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
del personale di settore; in ogni caso, le scelte concrete, come esporre un
commento a questo piuttosto che a quell’altro, spettavano al responsabile del personale del settore con i capi di linea. Ecco, fare gestione significava fare un po’ tutto questo; cioè amministrare le risorse umane di un
settore d’interesse, come uno stabilimento, un gruppo di stabilimenti,
un settore di progettazione o un’area commerciale.
Garruccio— Cosa significa esattamente “Personale di Progetto”?
Sartor—Identifica coloro che facevano parte di quella che allora si chiamava Direzione Progetti. L’azienda (fino all’epoca della Bellisario) aveva
un’organizzazione funzionale: c’era una Direzione Progetti che progettava, c’era una Direzione Produzione, c’erano vari stabilimenti. Non c’era
una connessione univoca prodotto-stabilimento, anche se alcune macchine tradizionali avevano un insediamento produttivo stabile. Si sono dovuti fare nel tempo grossi sforzi per avere un maggior overlap tra la funzione progetto e la funzione produzione, al fine di diminuire i tempi di
avviamento dei nuovi prodotti... e diminuire le incomprensioni. Fra tutte le direzioni funzionali si praticava uno sport, quello di dire sempre all’altro che non sapeva fare il suo mestiere. Per la Produzione, i progettisti erano dei sognatori; per i progettisti, alla Produzione erano dei “baluba” che non sapevano fare se non cose astruse; per i commerciali, tutti e
due li costringevano a vendere in condizioni impossibili. Ma questo capita ovunque, anche adesso: io non ho ancora trovato un’azienda dove
non ci siano questi rapporti.
Garruccio— Come è avvenuto questo suo passaggio dalla Selezione alla
Gestione del Personale?
Sartor—Fu un’iniziativa dell’azienda. Nel frattempo, l’attività di selezione era molto calata. Del resto, sono convinto che la selezione non sia
una cosa che uno può fare per tutta la vita (a meno che non la si pratichi,
come faceva Francesco Novara, da un punto di vista scientifico, con strumenti e con interessi scientifici): dopo un po’, si arriva alla saturazione. In
quei primi due anni, inoltre, l’attività era stata spaventosa per intensità:
non so per quanti mesi ho visto quindici persone al giorno, tutti i giorni,
estate e inverno, compresa la domenica. Se non ricordo male, nel 1 9 6 2
assumemmo qualcosa come 4 0 0 periti e 1 0 0 ingegneri. Tenga presente che la resa, come le ho detto, era del 5 % , e quindi provi a immaginare il numero di persone che devo aver visto e ascoltato in giro per i diversi istituti tecnici valutati tra i migliori d’Italia. Con ritmi come questi,
il rischio – a lungo andare – è quello di perdere interesse per ciò che si
sta facendo. Per questo dico – e anche altre persone la pensano come me
– non puoi fare selezione per molto tempo.
Garruccio—M’interesserebbe particolarmente mettere a fuoco il rap139
Uomini e lavoro all’Olivetti
porto che c’era tra il Personale – i servizi e la gestione del personale in
Olivetti – e gli ingegneri che ne fruivano; forse lei è la persona giusta per
descrivere il primo versante.
Sartor—Sì, anche perché sono convinto che la peculiarità dell’Olivetti
non sia stata tanto rappresentata dagli uomini di lettere, dagli umanisti
del Palazzo Uffici, ma piuttosto dagli ingegneri delle fabbriche, che sono una razza da conoscere: questi “ingegneri-poco-ingegneri”, con visione, curiosità, ampiezza di vedute... tutte caratteristiche che non si trovavano altrove. 17 Difatti, devo dire che per noi era più facile, in certe occasioni andare d’accordo con questi capi di linea – che pure non potevamo condizionare – piuttosto che con qualche struttura della stessa Direzione del Personale. Io mi considero, e sono sempre stato considerato,
come uno che stava dall’altra parte, dalla parte della linea. Con la “linea”
credo di aver avuto un rapporto estremamente aperto, a volte anche dialettico, se non proprio conflittuale, ma il discutere su cose concrete, su
problemi specifici piuttosto che su filosofie aziendali è un metodo valido.
Mi sono sempre trovato meglio.
Garruccio— Come è proseguito il suo percorso di carriera?
Sartor—Dopo aver trascorso un breve periodo a occuparmi ancora di
selezione, ma come coordinatore di tutta l’attività di selezione tecnicocommerciale, sono passato a fare il responsabile del personale di produzione. E questo fu un incarico delicato, anche perché, casualmente, ci sono capitato nel 1 9 6 8: dopo dieci giorni che ero lì, sono cominciati i
cortei interni, e si sono aperti anni difficili.
Nel 1 9 6 8 sono andato a fare il responsabile del personale della Divisione Macchine da Calcolo, che aveva due stabilimenti: quello principale a Ivrea e l’altro a Scarmagno. Dopo di che, sono tornato nell’area del
Progetto – che nel frattempo si era elettronificato ed era molto più articolato di prima – come responsabile del personale. Poi ancora in Produzione, come responsabile del personale delle produzioni. Tutto questo
nella logica di mobilità interna a cui accennavo. Comunque, fino agli ultimi tre anni, ho sempre gravitato tra Selezione, Progetto e Produzione;
a circoli concentrici.
La prima volta che sono entrato in Produzione, appunto nel 1 9 6 8,
come responsabile del personale della Divisione Macchine da Calcolo,
mi sono trovato in un’officina meccanica che indirettamente conoscevo
già, perché parecchi anni prima, quando lavoravo alla tesi di laurea –
una tesi sperimentale sugli infortuni sul lavoro – mi ero rivolto a una serie di aziende per richiedere del materiale sull’argomento. Uno dei pochissimi che mi risposero fu Francesco Novara, già allora responsabile
del Centro di Psicologia Olivetti, che mi mandò uno studio sulle donne
delle presse di seconda operazione, 18 che era era uno dei reparti di quel140
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
l’officina. Per ironia del destino, dopo circa quindici anni mi hanno
mandato a fare il direttore del personale nella Divisione in cui c’era la famosa officina studiata da Novara e dove c’erano ancora gli stessi problemi che Novara aveva messo in luce. In quel periodo, un tecnico aveva
studiato un braccio meccanico per l’alimentazione di queste presse. Il reparto era costituito da questi macchinoni in cui le donne dovevano mettere i pezzi, e teoricamente tenere premuti due pulsanti: la pressa scendeva e faceva le operazioni di piegatura o foratura eccetera. Novara aveva studiato il problema del lavoro alle presse dal punto di vista del ricercatore sociale. Un tecnico, invece, nel frattempo aveva inventato un marchingegno che posizionava automaticamente i pezzi sotto la pressa;
quindi la donna lavorava senza pericolo. Sembrava la soluzione a tutti i
problemi. Se non che, in tutte le aziende ogni investimento richiede certe procedure di valorizzazione economica: si deve calcolare il roi. 19 Fatti questi calcoli, si era deciso che non valeva la pena d’investire nel braccio meccanico, prevedendo grosse perdite secondo il normale controllo
di gestione. Un giorno stavamo commentando con molta delusione questo fatto, e c’era con noi anche questo giovane cronometrista, Gianfranco Righi. Mi è venuto in mente lo studio di Novara, e ho detto: «Senti,
tu che sai fare questi conti, prova un po’ a valorizzare i fenomeni che ha
evidenziato Novara, e vediamo se il roi non cambia». E questo ragazzo
si è messo a valutare tutta una serie di fenomeni, che andavano dai maggiori indici dell’infortunistica a indici più elevati di malattia (a parità di
popolazione, tra le lavoratrici alle presse c’era persino una maggiore assenza per maternità). Valorizzando questi dati, il roi cambiò e infine
questo marchingegno fu adottato. È un esempio che cito sempre, perché
– secondo me – è emblematico dell’approccio Olivetti alla gestione del
personale. Righi passò al Personale ed ebbe molto successo; lo ha ancora oggi, eppure ha una formazione tecnica.
Ricapitolando: sono entrato occupandomi di selezione; poi mi sono
occupato del personale dei Progetti; in seguito del personale della Divisione Macchine da Calcolo e ancora del personale dei Progetti, ma questa volta come responsabile, e del Gruppo Produzione, ancora come responsabile del personale.
A cavallo tra gli anni settanta e ottanta, in Olivetti 20 maturò una rivoluzione organizzativa: la struttura funzionale non poteva più tener conto delle peculiarità dei diversi mercati, e nel frattempo l’elettronica si era
molto sviluppata. L’azienda fu suddivisa in due aree, due fondamentali
business lines: i prodotti per l’ufficio da un lato e l’informatica distribuita dall’altro. L’informatica distribuita fu affidata a Marisa Bellisario, e io
passai a occuparmi del personale di questa divisione. 21
Con la nascita di questi due gruppi, si divisero anche gli Uffici Progetto e gli stabilimenti: la trasformazione della struttura produsse una divi141
Uomini e lavoro all’Olivetti
sione che ha segato verticalmente l’azienda, salvo o un po’ meno, l’area
commerciale.
Garruccio—1978. Che cosa ha significato l’ingresso di De Benedetti? Perlomeno, lei come l’ha visto?
Sartor—Mah... inizialmente l’uomo piaceva, anche se era preceduto da
una fama truce, perché gli uomini Fiat ne parlavano in maniera terribile:
lo chiamavano anche “il dajacco” perché era noto come tagliatore di teste. Lui si presentò in Olivetti in un’altra maniera, sostanzialmente positiva. Vero è che l’ingresso di De Benedetti, è coinciso con, o ha preceduto di poco, l’uscita di Beltrami, cioè l’uscita del personaggio in cui un po’
tutti, e particolarmente gli elettronici, si riconoscevano. Beltrami e Bellisario, insieme a Elserino Piol, sono gli artefici dell’Olivetti moderna. 22
Anche Piol era un personaggio singolare, enormemente creativo, eclettico, un uomo da cento idee al giorno. Finché a fargli da contrappeso ci sono stati Beltrami e Bellisario, che gli creavano le condizioni per sviluppare le idee valide, è andata bene; quando facevano decidere a lui quali fossero le buone idee... non andava sempre così bene. Comunque, questo
trio era una forza della natura che, come dicevo, ha impostato, in termini di nuovi prodotti, l’Olivetti moderna, ossia i nuovi prodotti sui quali
De Benedetti è campato per tutti gli anni ottanta.
Carlo De Benedetti è un uomo simpatico, anche perché estremamente trasparente nei rapporti, per cui non riserva sorprese; insomma, non è
difficile da capire. Ma, dopo che l’ho conosciuto un po’ meglio, ho scelto di andare da un’altra parte. Sa, per me, l’imprenditore è uno che ama
l’azienda, che ama il prodotto, che si realizza nel successo del suo prodotto. L’altro imprenditore che ho conosciuto, Pietro Barilla, non riusciva mai a passare davanti a un supermercato senza fermarsi, andare dentro, chiedere alla signora con il carrello: «Come mai ha comprato quello? Perché ha comprato quell’altro?». Andava a vedere com’erano collocati i suoi prodotti e faceva dei cazziatoni che non finivano più ai commerciali, al punto che – quando riuscivano a sapere dove andava – mandavano prima un venditore a mettere a posto tutto, per fargli trovare gli
scaffali pieni!
De Benedetti è del tutto diverso: è uno che può gestire un’azienda
informatica come qualsiasi altra. Ha una ferrea logica gestionale, fa impressione per la capacità di leggere i fenomeni che stanno dietro i numeri, e correlarli tra di loro, e prendere decisioni immediate; però è intollerante verso tutti i vincoli, compresi quelli tecnici.
A Ivrea c’imponevamo un tetto: per un progetto ci davano tre mesi. Il
lavoro del progetto è spesso frustrante; perché molte volte più il progetto è avanzato più è aleatorio; magari uno lavora per due o tre anni su una
certa cosa, che poi non viene realizzata. La grande giornata del progetti142
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
sta, una volta che ha escogitato un buon prodotto, è quella della presentazione al management. Beltrami, che ne capiva, riconosceva il lavoro, faceva i complimenti: insomma era realmente interessato. A De Benedetti
del progetto non gliene fregava niente... De Benedetti troncava subito e
chiedeva: «Come possiamo venderlo? Con quale margine?». Eravamo
rimasti malissimo per questo tipo d’approccio.
Se una convivenza De Benedetti-Bellisario poteva anche funzionare,
molto meno facile era la convivenza tra Carlo e il fratello maggiore, Franco De Benedetti. Veramente, credo di aver passato le ore più imbarazzanti della mia vita insieme a questi due, durante riunioni che si tenevano sedendo attorno a una specie di tavolino da bar (non so dove l’avesse preso, l’ingegner De Benedetti, un tavolino da bar francese, che usava
come tavolo per le riunioni ristrette): vedevo quest’uomo che si attorcigliava... Forse con l’altro De Benedetti il rapporto sarebbe stato diverso.
Garruccio—Lei ha detto che era un uomo simpatico, che non si nascondeva, che non era difficile da capire... Allora, perché decise di andare altrove?
Sartor— Ci fu un fatto traumatico. A un certo punto, poco dopo l’arrivo di De Benedetti, saltò fuori il problema dell’“eccedenza strutturale”.
Ma come? – mi dicevo – già da dieci, quindici anni, dopo l’avvento dell’elettronica, ogni generazione di macchine aveva richiesto sempre meno
personale; era da parecchio tempo che continuavamo ad alleggerire gli
organici, cercando di farlo nel modo più morbido, ossia cercando di trovare degli escamotages che aiutassero le persone ad adeguarsi alle nuove condizioni. Era faticoso, però c’eravamo sempre riusciti. Ed ecco che
invece salta fuori la storia dell’eccedenza strutturale, improvvisamente
salta fuori che abbiamo 3.000 persone di troppo. Inizia un bailamme
sulla stampa, viene coinvolto il governo, cominciano gli scioperi eccetera; fino a quando, per farla breve, la cosa si conclude con una cassa integrazione straordinaria per settecento persone e non so quanti miliardi di
ordini e di contributi alla ricerca da parte del governo. Chi viveva nelle
fabbriche questo passaggio lo ha vissuto in maniera molto traumatica
(anche se lo si è capito dopo). Ricordo il giorno che abbiamo lasciato a
casa queste persone: è stato uno choc. Abbiamo avuto la sensazione che
si fosse giocato sulla pelle della gente, coinvolgendo in questo gioco anche il sindacato. Tutti quelli che hanno provato questa sensazione ne sono rimasti turbati. Ricordo che la sera... me la ricordo molto bene, la sera in cui consegnammo a tutte queste persone le lettere in cui gli si diceva di stare a casa. Io avevo un ufficio abbastanza grande, e alla fine della giornata avevamo l’abitudine di ritrovarci lì con tutti i responsabili del
personale di stabilimento: vedevamo cosa si era fatto in quel giorno, che
problemi c’erano, ci mettevamo d’accordo su che cosa fare il giorno do143
Uomini e lavoro all’Olivetti
po; poi magari andavamo a bere un aperitivo. Quella sera, invece, sembrava la sera di un funerale: perché tutti avevano fatto – anche gli uomini della linea – questo loro dovere con enorme correttezza e lealtà,
però...
Garruccio— Che cosa ritiene di aver portato dell’esperienza Olivetti
nelle successive esperienze lavorative?
Sartor—Uno dei motivi per cui Pietro Barilla 23 mi assunse era proprio
la mia provenienza dall’Olivetti. Lui provava ammirazione per Adriano,
senza averlo conosciuto, e soprattutto ammirava la cultura dell’azienda,
il clima dei rapporti tra le persone. Io non ebbi alcuna difficoltà nell’inserirmi; direi che c’erano anche le condizioni giuste per “olivettizzare” in
parte la stessa Barilla, che allora aveva una cultura piuttosto conservatrice: per esempio, lì difficilmente si sarebbe assunto un giovane neo-laureato; si assumevano sempre persone che già avevano (e potevano portare) dell’esperienza. I capi, soprattutto, erano di vecchio stampo: erano
proprio quelli che mettevano il foglio davanti al compito per non far copiare il vicino, come accennavo all’inizio; per cui tutte le volte che uno
mandava un giovane ingegnere da un direttore di stabilimento, questo lo
metteva a scrutare tabulati, cioè lo tagliava fuori immediatamente. Però
Pietro Barilla era diverso, il suo modo di pensare era completamente diverso, e – avendo il suo sostegno – è stato possibile cambiare. Oltretutto, era un periodo di grandi successi, erano i primi anni ottanta (se non
sbaglio, sono entrato in Barilla nel 1 9 8 1 e ci sono rimasto per tredici
anni, fino al 1 9 9 4); erano gli anni dell’esplosione del fenomeno “Mulino Bianco”. Inoltre, Barilla era un uomo di coraggio. Era esattamente
complementare a (o dovrei forse dire l’opposto di) Carlo De Benedetti,
perché non capiva niente di finanza e ci teneva a dirlo: «Io di finanza
non capisco niente, e anche gli uomini della finanza non mi piacciono;
invece mi sento soddisfatto quando vedo dei begli stabilimenti, dei begli
impianti, dei prodotti collocati bene nella distribuzione, e quando vedo
una bella pubblicità». Era veramente un imprenditore-imprenditore. Diceva: «É vero, se volessi investire i miei soldi in bot, guadagnerei di più,
e allora?». A me questo piaceva.
144
Testimonianze. Le Relazioni Aziendali
Note
1
Presso il servizio del Personale della Divisone Elettronica, la quale ha avuto sede prima a Milano, nelle sede di via Clerici, poi a Borgo Lombardo e poi ancora
a Pregnana; cfr. la testimonianza di Gastone Garziera in questo stesso volume.
2
Su Gino Martinoli, cfr. F. Lavista, Funzione e formazione dei dirigenti: l’importanza delle “scienze dell’uomo”. Biografia di Gino Martinoli 1901-1996, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Milano, a.a.
1998-99; Idem, Innovazione e persistenze nelle pratiche e nella cultura manageriale italiana tra Ricostruzione e miracolo economico, tesi di dottorato in storia
economica e sociale, Università Bocconi di Milano, a.a. 2002-03, ora pubblicata come Cultura manageriale e industria italiana. Gino Martinoli fra organizzazione d’impresa e politiche di sviluppo (1945 -1970), Guerini e Associati, Milano 2005; oltre alla testimonianza di Umberto Chapperon in questo stesso volume.
3
Questa fu la scansione temporale riguardo al vertice dell’azienda: con la morte improvvisa di Adriano Olivetti, nel 1960, l’incarico di presidente della società viene affidato a Giuseppe Pero, Arrigo Olivetti (cognato non consanguineo di Adriano) è nominato vicepresidente e amministratore delegato, Carlo Lizier e Dino Olivetti vicepresidenti. Nel 1963 entra nel capitale Olivetti un
Gruppo d’Intervento (Fiat, Pirelli, Mediobanca, imi, Centrale) e Bruno Visentini va alla Presidenza, mentre viene costituito un Comitato Esecutivo composto
dallo stesso Visentini e da Silvio Borri, Roberto Olivetti, Aurelio Peccei; Aurelio
Peccei viene nominato amministratore delegato. Nel 1967, un nuovo consiglio
di amministrazione: Bruno Visentini resta presidente, Aurelio Peccei è vicepresidente, Bruno Jarach e Roberto Olivetti amministratori delegati.
4
L’Underwood Corporation era stata acquisita nel 195 9: si trattava di una
delle più grandi fabbriche americane di macchine per scrivere, con 11.000 dipendenti; cfr. Olivetti 1908 -2000, Associazione Archivio Storico Olivetti,
Ivrea 2001; cfr. anche G. Gabetti, La Underwood: miracolo italiano o passo falso?, in S. Semplice (a c. di), Una Azienda e un’utopia. Adriano Olivetti 1945 1960, il Mulino, Bologna 2001, pp. 97 -108.
5
«Si dice che il primo a indirizzare Adriano sulla via dell’elettronica sia stato
Enrico Fermi. [... Circa il] “salto” all’elettronica, anche i dubbiosi all’interno della fabbrica si convincono: è finita l’epoca dell’invenzione geniale, che ha fatto la
fortuna dell’azienda, è iniziato il tempo della ricerca in équipe. Dei vari tentativi,
qualcuno si ferma per strada, qualcuno va a buon fine. Ha cominciato il fratello
di Adriano, Dino, in un laboratorio di New Canaan, nel Connecticut, dove – con
145
Michele Canepa – un gruppo d’ingegneri mette a punto un calcolatore di media
grandezza, che però non entra in produzione. La ricerca vincente è quella coordinata poco dopo dal figlio di Adriano, Roberto», V. Ochetto, Adriano Olivetti,
Cossavella, Ivrea 2000 (1 a ed., Mondadori, Milano 1985), pp. 234-235.
6
Nell’estate del 1954, Enrico Fermi, in Italia per una serie di conferenze, indirizza una comunicazione al rettore dell’Università di Pisa, consigliandogli d’investire risorse nella ricerca sui calcolatori elettronici e nel progetto di una macchina da costruire in Italia. Nel febbraio del 1956 viene firmata una convenzione tra l’Università di Pisa e l’Olivetti e si costituisce un comune centro di ricerca a Barbaricina. Il progetto viene denominato cep (Calcolatrice Elettronica Pisana) e verrà completato nel 1961. L’Olivetti aveva deciso, già dal 1 955, di entrare nella produzione di calcolatori elettronici. A dirigere la ricerca viene chiamato Mario Tchou, figlio di un ambasciatore cinese in Vaticano, docente alla Columbia University, allora uno dei pochi esperti nel campo. Tchou, a sua volta, coagula intorno a sé altri ricercatori italiani e stranieri, e nel 1958 nasce il primo
calcolatore elettronico Olivetti, l’Elea 9003, una macchina a transistor con nastri magnetici come memoria di massa e nuclei magnetici come ram. Dal prototipo si passa poi alla produzione nello stabilimento di Borgo Lombardo. Alla figura di Mario Tchou, che morirà in un incidente stradale nel 1961, a soli 3 7
anni, è stato dedicato l’incontro “Il laboratorio di ricerche elettroniche Olivetti.
Mario Tchou e l’Elea 9003”, organizzato dall’aica (Associazione Italiana per
l’Informatica e il Calcolo Automatico), Museo della Scienza e della Tecnica, Milano 2 3 novembre 2001; cfr. in particolare l’intervento di G. Rao, Il mistero del
computer mai nato (ora sul sito: www.aicanet.it; per la successione degli eventi,
cfr. http://cidoc. iuav.it/informatica/cronologia).
7
Roberto Olivetti diresse il Laboratorio di Ricerche Elettroniche dal 1962;
cfr. R. Squazzoni, G. Gemelli, Informatica ed elettronica negli anni sessanta. Il
ruolo di Roberto Olivetti attraverso l’archivio storico della società Olivetti, in
“Mélanges de l’Ecole française de Rome”, 115 /2, 2003, e D. Olivetti (a c.
di), Roberto Olivetti, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2003.
8
Si occupò del caso Olivetti la Graduate School of Business Administration
della Harvard University; cfr. E. P. Learned et al., Business Policy. Texts and
cases, R.D. Irwin, Homewood (Ill.) 1965 ed edizioni successive.
9
M. Pirani, Tre appuntamenti mancati dell’industria italiana, in “Il Mulino”, n.
6, 1991, pp. 1045-1051, a cui si possono aggiungere il precedente saggio
di L. Soria, Informatica: un’occasione perduta, Einaudi, Torino 1979; e M. Bolognani, Bit Generation. La fine della Olivetti e il declino dell’informatica italiana, introduzione di M. Vitale, Editori Riuniti, Roma 2004.
10
Valerio Ochetto ricostruisce la vicenda a partire da due interventi di Adriano Olivetti, apparsi nel 1954 sulla rivista “Comunità”, che attaccavano l’uso
dei fondi erp da parte italiana, interventi cui Costa aveva replicato; Ochetto riporta anche, a partire da alcune testimonianze e dalla corrispondenza privata di
Adriano, che alla polemica sarebbe seguita una circolare di Confindustria, firmata da Costa e riservata alle diverse unioni industriali: «Di certo la Montecatini [...] blocca una grossa ordinazione della Olivetti». Alle rimostranze di Piero
Rollino, direttore dell’Olivetti Synthesis di Massa, Costa risponde dicendo che si
tratterà di «un caso isolato» ed esclude un intervento discriminatorio della Con-
findustria verso l’azienda Olivetti, pur ribadendo che la polemica l’ha coinvolto
non come singolo ma come «presidente della Confederazione in rappresentanza
della categoria degli industriali che dall’articolo dell’ing. Olivetti si è sentita offesa». La discriminazione non codificata continuerà, se Galassi ricorda di aver letto una circolare di Giorgio Valerio alle dipendenze Edison per un embargo degli acquisti Olivetti, e se ancora nel 1958 lo stesso Galassi apprenderà da due
funzionari del servizio approvvigionamento della Montecatini di un nuovo embargo, che Adriano cercherà di revocare con un incontro diretto con il conte
Carlo Faina. Faina e Valerio non sono solo alla testa di due grandi industrie, ma
influenti membri degli organi dirigenti di Confindustria», V. Ochetto, Adriano
Olivetti, cit., pp. 222-223.
11
Cfr. P.A. Salvetti, E. Pacchioli, Le macchine intelligenti di Natale Capellaro.
Cento anni dalla nascita del grande progettista Olivetti, Associazione Archivio
Storico Olivetti, Ivrea 2002.
12
Cfr. Ingegnere ad honorem, discorso pronunciato da Natale Capellaro il 2 0
dicembre 1962, in occasione della laurea ad honorem assegnatagli dall’università di Bari, ivi, p. 18.
13
Cfr. la testimonianza di Ottorino Beltrami in questo stesso volume.
14
Sulla figura di Riccardo Felicioli, cfr. anche la testimonianza di Nicola Colangelo in questo stesso volume.
15
Fu lo stesso Cesare Musatti a creare, nel 1943, su incarico di Adriano Olivetti, il Centro di Psicologia dell’azienda d’Ivrea, Centro di cui fu responsabile
fino al 1945. Cfr. R. Rozzi, Musatti e l’Olivetti, in D. Romano, R. Sicurtà (a c.
di), Cesare Musatti e la psicologia italiana, Franco Angeli, Milano 2000, pp.
29-32.
16
Dal 1957 al 1967, Nicola Tufarelli fu responsabile della Direzione Centrale dell’Organizzazione e Servizi per il Personale (dagli anni sessanta, denominata Direzione Relazioni Aziendali); cfr. la testimonianza di Umberto Gribaudo
in questo stesso volume, in particolare la nota 8.
17
Per diversi ritratti di personaggi olivettiani, cfr. il volume di memorie che
Sandro Sartor ha pubblicato dopo questa intervista (ma basandosi su un suo testo precedente, un dattiloscritto intitolato Gli scavalcati): Via Jervis 11. Alla ricerca della Olivetti perduta, Manni, Lecce 2003.
18
La ricerca a cui si riferisce Sartor risale in effetti al 1956; fu poi ripresa nel
1965 dal Centro di Psicologia, insieme alla Direzione Metodi e Organizzazione
e ai Servizi Sanitari; ora è pubblicata in C. Musatti et al., Psicologi in fabbrica. La
psicologia del lavoro negli stabilimenti Olivetti, Einadi, Torino 1980; cfr. anche
la testimonianza di Massimo Levi in questo stesso volume.
19
Return on Investment.
20
Cfr. C. Ciborra, Le affinità asimmetriche. Il caso Olivetti-at& t, prefazione
di S. Garavini e presentazione di L. Gallino, Franco Angeli, Milano 1986, pp.
190 ss., oltre a diverse testimonianze in questo volume.
21
Sull’esperienza di Marisa Bellisario in Olivetti, si rimanda alla testimonianza
di Ottorino Beltrami in questo stesso volume, oltre che all’autobiografia della stessa M. Bellisario, Donna & Top Manager. La mia storia, Rizzoli, Milano 1987.
22
Cfr. E. Piol, Il sogno di un’impresa. Dall’Olivetti al venture capital: una vita
nell’information technology, prefazione di L. Gallino, Il Sole-24 Ore, Milano
2004.
23
Cfr. il profilo di Pietro Barilla in P. Gennaro, G. Scifo (a c. di), Imprenditori nonostante, prefazione di P. Sylos Labini, Guerini, Milano 1999, pp. 798 5.
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