La questione europea
fra Est e Ovest: alterità culturali
e flussi migratori
di Roberto Morozzo della Rocca
All’indomani della caduta del muro di Berlino numerosi analisti
di questioni migratorie prospettavano lo scenario di un’invasione
da Est dell’Europa occidentale. Questo non si è poi verificato 1.
Non si sono avuti i pronosticati milioni di russi riversarsi a Occidente. L’abbaglio va interpretato alla luce dell’euforia ottantanovista, durata almeno fino agli inizi della crisi jugoslava nell’estate
1991. Si possono avanzare giustificazioni «tecniche» del non lieve
errore di previsione, come i precedenti della Jugoslavia titina e dei
suoi consistenti flussi migratori; dell’Albania con le fughe in massa del 1990 e 1991; della DDR dove i cittadini sognavano l’altra
Germania (e mezzo milione di Ostdeutscher passarono ad Ovest
fra il novembre ’89 e il febbraio ’90, nel breve intermezzo prima
dell’unità tedesca). Ma forse c’è stata una sopravvalutazione dell’attrattiva costituita dall’Occidente, inteso come il vincitore della
guerra fredda grazie alla sua superiorità sistemica, organizzativa,
ideologica, e grazie alla sua opulenza.
I popoli dell’Est sono rimasti dov’erano. Dalla Federazione
russa il flusso è stato minimo: una media di appena 100.000 emigrati l’anno. Peraltro neppure tanto russi: in gran parte si è trattato di tedeschi tornati nella madrepatria, dopo un paio di secoli di
diaspora, o di ebrei trasferitisi in Israele. Di emigrazione russa si
può parlare per poche migliaia di persone provviste di alta cultura scientifica, volentieri accolte dagli Stati Uniti, ed altre poche
migliaia andate a lavorare in Finlandia o in Polonia, in genere co-
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me stagionali. Fra l’altro va notato l’inatteso fenomeno di gruppi
di tedeschi del Volga che non sono riusciti ad adattarsi alla Germania e hanno preferito fare ritorno in Russia, sentendo di avere
più radici nella terra di nascita che in quella di origine.
La Russia, con i Paesi della CSI, è stata coinvolta negli anni Novanta in grandi spostamenti di popolazioni, ma gli ex cittadini sovietici non si sono messi in movimento verso l’Europa occidentale. A seguito dei sommovimenti interni al defunto impero sovietico e delle varie crisi afghane, tagike, georgiane, armene, azere,
moldave, cecene, nella CSI si sono avuti, tra il 1990 e il 1995, 4, 2
milioni di russi rimpatriati dal cosiddetto «estero vicino» ex sovietico; oltre un milione di persone ritornate ai luoghi da cui Stalin le aveva fatte deportare (tedeschi, mesketi, tatari di Crimea);
due milioni tra rifugiati e sfollati interni nei paesi della CSI per vicende belliche e tensioni etniche 2. Inoltre dal 1990 ogni anno una
media di mezzo milione di migranti di transito, di origine asiatica,
mediorientale, africana, varca clandestinamente le frontiere russe
per tentare di raggiungere l’Occidente, su itinerari che un tempo
passavano per la Spagna o i Balcani, e oggi passano per Russia,
Ucraina e Bulgaria. Spesso i migranti di transito concludono la loro odissea in uno qualsiasi dei Paesi che attraversano, non riuscendo a proseguire.
Mentre l’Europa occidentale paventava l’invasione da Est, era
invece l’Est a vivere grandi migrazioni e mutamenti demografici,
compresi quelli del crollo della natalità e dell’abbassamento della
durata media della vita, per cui si è calcolato che senza la fine dell’URSS vi sarebbero oggi in Russia, Ucraina e Bielorussia 15 milioni di persone in più. In Russia la durata della vita media è scesa
di otto anni, dal 1989 a oggi.
Al di fuori della CSI è accaduto che alcuni Stati con presunte
quote di popolazione potenzialmente migranti si trasformassero
in pochi anni, dopo avere eluso le previsioni migratorie, in Stati
con saldo positivo dei flussi migratori. Penso in particolare alla
Repubblica Ceca, che non esporta manodopera ma la importa, e
anche di alto livello. A Praga lavorano con impieghi qualificati
40.000 europei occidentali e nordamericani. Nella stessa Cecoslovacchia ci sono 20.000 immigrati cinesi. Nella meno dinamica Ungheria i cinesi sono 10.000, indice comunque di un Paese che sta
diventando attraente per una immigrazione dalle scarse pretese,
come quella dalla Romania e dall’Ucraina. Anche la Slovenia si
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appresta a divenire Paese di immigrazione, mentre la Polonia appare come l’Italia tra gli anni Settanta e Ottanta, quando coesistevano emigrazione e immigrazione. Ci sono 200.000 clandestini in
Polonia, provenienti da paesi del vicino Est.
Un qualche flusso migratorio di genti dell’Est verso Occidente
c’è stato da parte soprattutto degli «orientali vicini»: balcanici
verso l’Italia, la Germania e l’Austria; polacchi soprattutto verso
la Germania (ma come stagionali, come le centinaia di migliaia di
polacchi che ogni anno vengono a lavorare nella disertata agricoltura tedesca). Un fenomeno recente è l’aumento dell’emigrazione
dall’Ucraina, soprattutto verso la Germania e l’Italia. Gli albanesi
costituiscono il popolo dell’Est più propenso all’emigrazione. Sono gli albanesi uno dei più piccoli popoli dell’Est, ma di gran lunga il più prolifico dei ventuno Paesi dell’Europa orientale, che
nell’insieme conoscono una netta crisi demografica (quattordici
Paesi su ventuno vedono diminuire la popolazione, e anche baluardi dell’alta natalità come la Polonia e la Slovacchia, rurali e
cattoliche, si avvicinano alla crescita zero).
I flussi migratori dell’Europa occidentale vedono un saldo positivo, negli ultimi anni, oscillante fra 400.000 e 700.000 unità. I
principali Paesi di approdo sono stati, nel 1999, la Germania
(27%), la Gran Bretagna (24%), l’Italia (18%), la Francia (6%).
Non più di un quarto degli immigrati in Europa occidentale proviene dall’altra parte del continente 3.
In Italia gli europei dell’Est costituiscono il 23% degli immigrati. Sarebbero una percentuale notevolmente inferiore senza la
corposa presenza degli albanesi (spesso equivocamente indicati
come slavi, forse perché una parte di essi proviene da regioni ex
jugoslave). Peraltro, gli albanesi sostengono di essere occidentali e
rifiutano la classificazione di europei dell’Est.
In Germania l’immigrazione dall’Est ha varie componenti, ma
la maggiore rimane quella storica jugoslava, avviata dalle aperture
di Tito nei primi anni Sessanta, che alla fine degli anni Ottanta
contava oltre 700.000 persone stabilmente residenti nel Paese. Alcune migliaia di rumeni e bulgari sono oggi il residuo di una più
consistente immigrazione che, attraverso il sistema della richiesta
d’asilo, aveva invano tentato di stabilirsi in Germania agli inizi degli anni Novanta. Delle decine di migliaia di rom giunti in Germania dall’Est, dopo il 1989, non vi è più traccia, essendo stati rinviati ai luoghi d’origine (soprattutto la Romania) attraverso accor-
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di intergovernativi. Pressoché ultimato è il rimpatrio dei quasi
200.000 albanesi kosovari. Restano ancora 130.000 bosniaci su
320.000 che erano nel 1995. Negli ultimi cinque anni sono entrati
in Germania 60.000 russi nel quadro di facilitazioni concesse agli
ebrei dell’Unione Sovietica (non tutti i 60.000 però sono ebrei, in
quanto spesso nelle famiglie si trovano anche cristiani ortodossi).
Verso questa categoria di persone la Germania, per intenti riparatori, è liberale nell’accoglienza. Ci sono poi molti Aussiedler, tedeschi «del Volga» tornati all’antica patria, che sono considerati
cittadini a parte intera e non immigrati.
In Gran Bretagna, Francia e Spagna, grandi Paesi dell’UE che
beneficiano di forti flussi migratori, ma sono lontani geograficamente dall’Est, l’immigrazione dall’Oriente europeo è molto scarsa, oscillando fra il 2 e il 4% del totale degli extracomunitari. La
Grecia, l’Austria, la Finlandia hanno quote considerevoli di europei dell’Est (attorno al 50%) nella loro immigrazione, ma alle
percentuali non corrispondono grosse realtà quantitative (con
l’eccezione degli albanesi in Grecia).
Una grossa quota della presenza di europei dell’Est nei Paesi
citati era data fino a poco tempo fa da profughi delle guerre jugoslave. Dei 4, 3 milioni di profughi della lunga crisi jugoslava del
1991-1995, poco più di 800.000 è stata accolta in Paesi dell’Europa occidentale, gli altri essendo sfollati o ridislocati nei diversi
Paesi dell’ex Jugoslavia. A questa massa di persone, ormai ridotta,
veniva generalmente accordato uno status di asilo provvisorio. La
Germania è stata particolarmente generosa, accogliendo quasi il
40% dei profughi jugoslavi. Francia, Italia e Gran Bretagna ne
hanno accolti ciascuna soltanto l’1%, meno della Norvegia o dell’Olanda.
Il rimpatrio dei profughi jugoslavi è all’origine del saldo negativo nei flussi migratori della Germania con l’Europa dell’Est, verificatosi a partire dal 1997, anno in cui il numero degli europei
orientali in Germania è calato di 80.000 unità. Le vicende belliche
in Kosovo, nel 1998 e 1999, hanno pure provocato una grande
massa di profughi (900.000 albanesi e 200.000 serbi). In questo
caso i Paesi occidentali non hanno spalancato le porte: gli albanesi si sono fermati quasi tutti in Albania e Macedonia, rientrando
precipitosamente non appena finita la guerra; i serbi del Kosovo
invece si sono aggiunti ai profughi delle precedenti guerre balcaniche già dislocati in Serbia e Montenegro.
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Gli europei dell’Est che lavoravano stabilmente e regolarmente in paesi della UE erano, nel 1997, 1.042.000, molti dei quali di
immigrazione anteriore al 1989, come gli jugoslavi nei Paesi nordeuropei. Le percentuali ci dicono che il 68% di questi lavoratori
era in Germania, il 6% in Francia, il 5% in Gran Bretagna, il 3%
in Italia. Sono cifre che non comprendono i familiari, i rifugiati, i
disoccupati, i clandestini e categorie particolari come i nomadi,
pur sfuggiti numerosi alle tensioni etniche che dopo il 1989 hanno avvelenato parecchie società dell’Europa orientale.
I rom in Est Europa sono stimati in circa tre milioni (tuttavia
altre valutazioni danno entità numeriche maggiori). Molti di loro
hanno abbandonato la Jugoslavia, dove sono stati fra le prime vittime del conflitto in Bosnia, altri la Romania e l’Ungheria, dove è
venuto meno il sistema di obblighi e garanzie creato per loro dai
regimi comunisti. Senza lavoro, tra l’ostilità della popolazione circostante, mentre la sedentarietà diveniva un pericolo più che un
vantaggio, gli zingari hanno scelto l’emigrazione, tanto più difficile per individui senza identità giuridica e senza quelle professionalità ricercate nei Paesi occidentali d’approdo 4. Altre popolazioni minoritarie costituiscono gruppi a forte tendenza all’emigrazione, talora forzata da discriminazioni e violenze. Si pensi ai turchi
in Bulgaria, agli armeni in Azerbajan e Georgia, agli ex jugoslavi
che nell’insieme stanno affrontando, con l’eccezione della Slovenia, anni di difficile transizione. Nei Paesi dell’ex Jugoslavia sono
in diminuzione le turbolenze etniche, tuttavia la questione del Kosovo non è affatto risolta, la convivenza tra slavi e albanesi in Macedonia è a rischio, la pace in Bosnia regge, ma la coesistenza fra i
tre gruppi costitutivi della piccola repubblica una e trina non è acquisita 5.
Molteplici sono i motivi della mancata marea migratoria dall’Est verso Occidente. Alcuni Paesi dell’Est sono in via di sviluppo abbastanza rapido e la disoccupazione è limitata. Sono la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia, la Slovenia, quasi a dire il
vecchio insieme asburgico-danubiano. Altri Paesi dell’Est vivono
una difficile transizione economica e politica che si accompagna
a una crisi demografica: sono i casi di Russia, Ucraina, Bielorussia.
Ma l’Occidente è lontano da questi Paesi, raggiungerlo è costoso.
Inoltre, se popoli come l’albanese vivono nel mito dell’Occidente,
e soprattutto dell’America, i popoli slavi o comunque di tradizione ortodossa non provano soverchia soggezione dinanzi alla ci-
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viltà e alle realizzazioni dell’Occidente. Russi, serbi, ucraini, bulgari, romeni sono persuasi di non appartenere a una civiltà inferiore. Soprattutto i russi e i serbi, per motivi inerenti a una certa
loro storia «imperiale», trovano umiliante l’emigrazione (i serbi in
realtà emigrano dal loro Paese precipitato negli anni del regime di
Milosevic a livelli di bassa civiltà materiale, ma non scelgono né gli
USA né l’Europa occidentale, preferendo se possibile l’Australia
e la Nuova Zelanda).
C’è un tratto della civiltà slava che, se conosciuto, avrebbe evitato le errate previsioni circa le invasioni dall’Est. I popoli slavi
sono particolarmente legati alla loro terra. Sono popoli stanziali.
Nel lungo periodo della storia sono popoli sedentari, non nomadi, radicati sul territorio, poco abili nella creazione di entità sovralocali e statuali, dotati di senso della tradizione e della storia
in misura maggiore dei popoli occidentali 6. Singoli individui e
comunità possono sentire l’attrazione di emigrare, ma non i popoli slavi nel loro insieme, a differenza di quanto accade invece
agli albanesi, i quali, malgrado al fondo mantengano sempre un
viscerale sostrato etnico, sentono maggiormente il fascino del
consumismo, dell’occidentalismo e dell’americanismo, e dunque
dell’emigrazione.
Cosa accadrà con l’ingresso progressivo nella UE dei Paesi dell’Est? Probabilmente ben poco sotto il profilo dei flussi migratori. Piuttosto nell’Europa orientale i confini tra Paesi nella UE e
fuori della UE saranno più rigidi. La circolazione diverrà più difficile. Questo sarà forse un problema per certe minoranze nazionali. Si pensi agli ungheresi di Transilvania che vivono in osmosi
con la madrepatria. Se l’Ungheria entrerà nella UE e la Romania
ne resterà fuori, potrebbero crearsi difficoltà per i milioni di ungheresi di Romania 7.
Dato il quadro finora descritto, si capisce che l’Europa si presenta come un continente assai complesso anche sotto il profilo
delle migrazioni. Gli europei dell’Est emigrano limitatamente in
Occidente e, con l’eccezione degli albanesi, non ritengono di andarvi come ad un Eldorado. D’altra parte dei flussi migratori esistono e comprendono anche un limitato numero di occidentali
che vanno all’Est. Oltre che di flussi si dovrebbe parlare di scambi, che dopo il 1989, con la riacquistata libertà di movimento e di
comunicazione, sono enormemente cresciuti fra Est e Ovest, a livello culturale, economico, politico, linguistico, religioso. Per
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questo vale la pena accennare ad alcuni temi di fondo della questione europea tra Est e Ovest.
Finora ho ragionato di Europa occidentale ed Europa orientale, secondo la ripartizione geopolitica tradizionale fino ai rivolgimenti del 1989. Oggi tuttavia molti popoli che anni fa si classificavano come appartenenti all’Europa orientale affermano di essere occidentali. Così sostengono polacchi, cechi, ungheresi, sloveni, croati, albanesi, bosniaci musulmani, romeni, lituani, lettoni,
estoni, i quali intendono la qualificazione di orientali come spregiativa. Solo i russi sembrano veramente convinti di non essere occidentali (ma neanche orientali: sono russi). Per un neoslavofilo
come Solgenitsin, la Russia non è Ovest e non è Est: è semplicemente la Russia, quasi fosse un «impero di mezzo» come la Cina.
Sempre più il linguaggio comune occidentale colloca i popoli un
tempo attribuiti all’Est Europa in una risorta Europa centrale, o
del Sud Est, o del Nord come avviene per i Paesi baltici. In questo linguaggio solo i popoli ex sovietici sembrano ancora saldamente ancorati al concetto di Europa orientale. In ogni caso a Est
dei tedeschi e degli italiani c’è una pluralità di popoli diversi e un
intreccio di sottoinsiemi etnici e culturali: slavi occidentali, slavi
orientali, magiari e romeni, balcanici.
Non solo l’Est e l’Ovest, ma la stessa estensione geografica
dell’Europa non è un concetto stabile. Nella cultura italiana e
francese l’Europa giunge fino agli Urali. Ma per i tedeschi l’Europa finisce alla Vistola, a Varsavia (secondo frontiere rigide definite geopoliticamente, non geostoricamente, essendo l’Est europeo definito proprio dall’inesistenza di barriere naturali, dalla
continuità di grandi pianure, dalla sovrapposizione e coabitazione di popoli differenti). Anche per i polacchi la Russia è Asia.
Giocando sul paradosso, si potrebbe dire che per i polacchi l’Europa orientale non esiste, dal momento che ritengono che la Polonia non ne faccia parte, e che il loro Stato confini direttamente
con l’Asia del barbaro mondo russo. Accenno a queste differenti
prospettive per notare come molto sia relativo nel concetto di
Europa orientale. Chabod mostrava bene, nei suoi magistrali lavori, come si può giocare col concetto di Europa, estendendone
o restringendone le frontiere secondo le epoche e le visuali geopolitiche 8.
Sono convinto che l’Europa sia un continente al plurale e come tale sia occidentale e orientale ad un tempo. Spesso in Europa
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occidentale citiamo l’Europa senza aggettivi, intendendo la sola
Europa occidentale (che tende, fra resistenze e contraddizioni, all’uniformità). Ma l’Europa orientale non è un prolungamento del
continente da ricordare unicamente per il processo di allargamento della UE verso Est, quasi i caratteri di civiltà della UE connotassero per se stessi l’Europa intera e il destino dell’Europa fosse
quello di divenire una grande UE. L’Europa è per l’appunto un
continente al plurale.
Scriveva dell’Europa il grande Lucien Febvre nel 1944, nel
momento di una delle crisi più violente della sua gestazione: «Vediamo subito che unità europea non è uniformità. Nella storia
d’Europa il capitolo delle diversità resta importante quanto quello delle somiglianze» 9.
Febvre non dubitava dell’appartenenza della Russia all’Europa, anzi vedeva nell’espansione russa in Asia un’espansione dell’Europa. Nella sua visione di lungo periodo il fondatore delle
«Annales» notava il ruolo dei russi nel contenimento, col proprio
sangue, dei popoli asiatici. Non avendo sopportato il tremendo
urto dei tartari e solo in parte quello dei turchi, gli europei d’Occidente non riconoscevano i meriti dei russi. «È la Russia ad alzare il muro, il bastione dell’Europa verso l’Est, contro l’Asia. Solo
che gli occidentali questa storia che si svolge laggiù, così lontano,
oltre la Polonia, sulle rive del Dnepr e oltre, non la conoscono più.
La conoscono male». Quando le nazioni europee occidentali scoprono le Americhe, si espandono al di là dei mari, colonizzano i
continenti,
«la Russia dei Romanov veglia su di esse a Est. È lei la fedele guardiana della pianura orientale, alle porte della steppa; è lei a [...] scagliarsi contro il nemico implacabile e detestato, contro il tartaro e il turco;
è lei che non solo ferma sulla sua strada gli orientali sempre tentati
dalle ricchezze e dalle facilità dell’Occidente, ma che spinge ancora
verso Est, sempre più avanti, una civiltà che dopotutto, nella misura
in cui è greca e nordica al tempo stesso, è a pieno titolo una civiltà
d’Europa, è la civiltà europea» 10.
Esistono più Europe. Se non è più la «cortina di ferro», dall’Elba
a Trieste, a dividere, sono piuttosto le differenze culturali e religiose tra l’Europa occidentale, da una parte, e l’Europa slava, ortodossa, russa e balcanica, dall’altra. In questo senso una effettiva
partizione dell’Europa passa nel mondo slavo, tra slavi cattolici e
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slavi ortodossi, quasi a riprodurre le frontiere dell’impero asburgico 11. Inoltre c’è un’altra linea di separazione, data dal differente approccio alla politica nell’Ovest e nell’Est, intendendo qui per
Est parecchi Paesi un tempo al di là della «cortina di ferro», e non
solo Paesi slavi.
La multiformità e la multiculturalità dell’Europa urtano indirettamente il pensiero corrente nei nostri Paesi, che intravede
sicurezza e benessere solo nell’estensione del sistema occidentale. Ma il pluralismo dell’Europa può anche costituire un benefico correttivo di aspetti mitici quanto discutibili della civiltà occidentale. Non è detto che l’umanità debba essere connotata solo
da tecnicismo ed empirismo, o almeno che lo debba essere in
maniera così marcata. Gli stessi valori dell’Occidente sono costantemente assediati dai ritmi della modernità, dalla riduzione
di tutto a merce di mercato, dal conformismo dell’opulenza, dal
livellamento televisivo delle coscienze. L’unità dell’Europa, possibilmente fino agli Urali (e forse inclusiva della Russia transuralica), è un bene. Ma l’unità e l’integrità dell’Europa si fanno nella diversità delle tradizioni, delle politiche, delle fedi, degli stili
di vita.
Istintivamente, gli occidentali si augurano che l’Est europeo
si stabilizzi nella democrazia, nell’economia, nella libertà, nei diritti umani. Si leggono spesso statistiche che mostrano il maggiore o minore allineamento dei Paesi europei centro-orientali ai
modelli politici economici sociali occidentali 12. Una classifica di
Paesi, stilata in questo senso, è presto fatta. Prima la Repubblica
Ceca e l’Ungheria, poi la Polonia e la Slovenia; quindi i Paesi baltici e la Croazia, malgrado le riserve sui diritti delle minoranze; la
Romania, la Bulgaria, l’Ucraina, la Russia, la Bielorussia, prigioniere di un destino geografico periferico; fino a poco tempo fa
veniva per ultima la Serbia, ostaggio di Milosevic. A Belgrado i
giovani parlano inglese meglio che in Italia, e l’esistenza di una
certa disciplina sociale potrebbe aiutare i nuovi governanti serbi.
Spesso la sorte di questi Paesi dipende dalla distanza che li separa dall’Occidente e dall’opulenza di Paesi come la Germania e
l’Italia. L’Albania è un caso particolare. Un Paese senza senso
dello Stato, a tratti più vicino al modello somalo che a quello di
un Paese europeo, graziato dalla vicinanza all’Italia, che funge da
ammortizzatore di ogni vicenda albanese per evitarne ricadute
indesiderate 13.
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Ma, al di là dell’istinto dell’occidentale che vorrebbe ordine e
stabilità per trovarsi a suo agio, come entrare in relazione con
l’Europa dell’Est? Cosa ne va apprezzato e cosa rifiutato? La via
della democrazia anglosassone e della economia di mercato rappresenta l’unica modalità di rapporto con l’Est europeo? Quando
si vive all’Est, si percepisce che esiste un’Europa al plurale, o almeno dualista. Gli europei orientali non hanno la stessa mentalità
degli occidentali.
Qualche esemplificazione.
Stupisce spesso la sottovalutazione che all’Est si fa della produzione. Si pensa che possedere un computer sia sinonimo di
produrre, o che aprire un chiosco-bar sia un’attività imprenditoriale produttiva di beni. È un’economia virtuale, ma non quella
delle borse che hanno alle spalle industrie e imprese. L’economia
virtuale dell’Est, senza produzione, funziona semmai come truffa. Queste erano le finanziarie a piramide romene o macedoni o
russe, e soprattutto albanesi. Ma ecco cosa pensa un orientale,
l’intellettuale ebreo romeno Nicu Steinhardt, perseguitato sotto
Gheorghiu Dej e Ceaucescu, del concetto di produzione. La citazione è su un piano più nobile dei manuali di economia di mercato, e potrebbe far riflettere sulle riserve di pensiero delle genti
dell’Est:
«La morale del produttore – essenzialmente contabile – non conosce
né generosità, né servizio. Si rifà alla legge del taglione, affatto diversa in quanto a meschinità e genericità. Il mondo non è stato creato
[da Dio] a base della morale del produttore, ma, al contrario, a sostegno della donazione e per il bene esclusivo del consumatore» 14.
Altro esempio: la democratizzazione. Democrazia suona diversamente ad Ovest e ad Est. In Occidente, democrazia è sistema politico fondato su dottrina, ragione, opinione comune, libero pensiero. Ad Est è sistema fondato sulle persone. Per un inglese, la
democrazia funziona a prescindere dalle persone. Per uno slavo,
significa rapporto viscerale con gli esponenti politici 15. Perché
Eltsin o Milosevic sono rimasti così a lungo al potere? C’è un particolare rapporto tra le popolazioni slave e i loro leader. In Occidente Eltsin e Milosevic sarebbero durati poco.
Accade in politica quello che si può osservare nelle due Chiese, la latina e l’ortodossa, a proposito della guida spirituale. In Oc-
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cidente, il fedele cattolico si confessa, e non importa chi sia il confessore, perché importa la dottrina morale che ogni confessore conosce e applica. La teologia morale è il riferimento. Nella Chiesa
ortodossa c’è il rapporto personale con lo staretz, il padre spirituale. Il riferimento a una dottrina è scarso, perché lo staretz interpreta i sentimenti, il cuore, ed è tutto. Qui i principi, là il rapporto personale.
Si capisce poi che la democrazia, ad Oriente, funziona male, o
almeno la democrazia come noi occidentali la intendiamo. Tutto è
personalizzato, le regole sono secondarie. Ma prima di dire che
questo è negativo, dovremmo capire che è un tratto della mentalità slava, orientale. Del resto a livello di piccole unità umane, di
villaggio, di distretto, sebbene l’antico mir sia scomparso, la democrazia è più compiuta di quanto si immagini, per la solidarietà
e l’unità nella popolazione. Il livello statuale dell’Est slavo, invece,
agli occidentali appare spesso catastrofico.
Democrazia ha significati diversi ad Ovest e ad Est. Gli occidentali applicano all’Oriente europeo parametri propri su democrazia, diritti umani, valore della legge, ma non conoscono le società europee orientali, che hanno un altro rapporto fra individuo
e collettività e un altro tipo di pensiero (la filosofia, la logica, la
dottrina politica sistematica sono creazioni dell’Occidente, della
Francia cartesiana e della Germania hegeliana e prima ancora di
Machiavelli).
Chabod insegnava che i fondamenti dell’Europa, al di là delle
radici greche e poi cristiane, si possono rinvenire dal Cinquecento in poi in un discorso politico. Ossia, gli occidentali da mezzo
millennio tendono a definire se stessi sulla base di una vita politica considerata ragionevole, misurata, regolata, equilibrata, soprattutto libera dal dispotismo 16. Il termine di confronto tradizionale
per gli europei occidentali (l’identità nasce sempre e si rafforza
nel confronto col diverso) è l’Asia, ma anche quanto viene classificato come asiatico all’interno dell’Europa. I Paesi europei non
occidentali sono oggi fortemente sospetti di dispotismo, per l’eredità dei regimi comunisti, per l’asprezza della lotta politica, per il
disprezzo di compromessi e sfumature, per la scarsa attenzione alle regole, per l’accentuata personalizzazione.
In realtà, proprio la radicalità nella lotta politica che vede contrapposti vincitori e perdenti, che è radicalità nell’affermazione delle proprie ragioni, è connaturata con lo spirito slavo e orientale. È
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un gusto, è un valore positivo. Tomáš Špidlík lo spiega ricorrendo a
una metafora artistica:
«La grande arte di un politico democratico è di saper trovare un compromesso fra le diverse opinioni opposte, pacificare i contrari, trovare una soluzione accettabile, almeno parzialmente, da tutti. Gli slavi
per lo più non possiedono questa arte. Se sono di carattere conciliante, cedono agli altri, ma con tristezza e con la coscienza di aver perduto la causa. Mi pare di poter illustrare questa affermazione con
espressioni artistiche. Guardiamo per esempio un quadro del Rinascimento italiano, quante e di quale finezza sono le sfumature dei colori. E nei quadri olandesi, quanti diversi riflessi di luce! Del tutto diversi sono i ricami e gli ornamenti popolari slavi. Qui il rosso è rosso,
il blu è blu, il verde è verde. Non vi sono le minime sfumature. E
quando il rosso è denso, senza la minima sfumatura, nel russo la parola è divenuta sinonimo di ‘bello’ (krasnyj-krasivyj)» 17.
Due tratti ancora sull’esistenza di due Europe, o almeno di un’Europa al plurale.
Gli europei dell’Est sono genti degli imperi. Sono marcati dall’aver vissuto millenni nel quadro di Stati imperiali: il bizantino,
l’ottomano, lo zarista, l’asburgico, il sovietico, lo jugoslavo. L’impero bizantino più che millenario è il maggiore impero della storia europea. Negli imperi si ragiona in altro modo che negli Statinazione, che nelle società democratiche, che nel mondo delle autonomie urbane e borghesi. Negli imperi si vive un forte rapporto
con le identità locali (Heimat è termine fondamentale, tanto impregnato di sentimento quanto poco razionale). Lo Stato centrale
è lontano. La politica è largamente delegata. Nel lungo periodo gli
imperi sono strutture più tolleranti degli Stati-nazione e favoriscono la mescolanza e convivenza di popoli diversi. Ma le genti
degli imperi sono impreparate, sprovvedute, dinanzi al nazionalismo e ai problemi degli Stati-nazione. Quando gli imperi crollano,
i popoli vissuti insieme pacificamente per secoli passano a combattersi furiosamente. Il virus nazionalista dilaga tra le genti degli
imperi, come in organismi mai abituati a combatterlo, senza alcun
anticorpo. Così è stato nell’Ottocento nei Balcani, poi dopo il
1918, e poi ancora dopo il 1989, per i successivi crolli degli imperi ottomano, zarista e asburgico, sovietico e jugoslavo. Dalle spropositate dimensioni degli imperi si è passati, all’opposto, alla frantumazione degli staterelli. Sono nati 15 nuovi Stati in Europa
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orientale dopo il 1989. Autodeterminazione: è una parola risolutrice. Ma all’Est la si mette in pratica con precipitazione, senza rispetto per le minoranze, in una cultura della contrapposizione ai
vicini. Occorrerebbero criteri per definire chi ha diritto all’indipendenza. L’essere mezzo milione, un milione, due milioni? Lo
Stato-nazione creato dagli occidentali nel lungo periodo di secoli,
attraverso la complessa gestazione dell’età moderna, e finalmente
divulgato ovunque, col formidabile apparato della cultura francese dell’epoca, dalla Rivoluzione del 1789 e da Napoleone, è stato
recepito dagli europei orientali con il consueto radicalismo politico, se non come mito assoluto. Così lo Stato-nazione ha indotto
ad Est crisi devastanti e barbare applicazioni.
Infine, la storia all’Est occupa spazi esorbitanti, senza pervenire a una serena e risolta ricostruzione storica. In Europa orientale la storia ha un peso maggiore che in Occidente. Non è una
storia conosciuta scientificamente. Sono i miti delle epoche auree
dei popoli, come esistono per gli imperi medioevali dei serbi e dei
bulgari. È l’accento su fatti storici trasfusi in leggenda, come la rinascita russa esemplificata nel credo di Mosca Terza Roma; o il
1389, la battaglia di Kosovo Polje, per i serbi; o Skanderbeg, personaggio quattrocentesco realmente esistito ma conosciuto più attraverso la sottolineatura nazionalista albanese che attraverso la
documentazione storica. Ogni popolo orientale è, nell’insieme,
sommo specialista della sua storia, ma assai poco di quella dei popoli confinanti, malgrado gli inevitabili aspetti di storia comune.
Particolarità dell’Est non è solo la quantità di storia, o la sua settorialità geografica e politica. È la sua manipolazione, usata come
supporto di politiche e di ideologie, ciò di cui peraltro anche gli
occidentali hanno dimostrato di essere capaci.
La storia per gli europei orientali è storia di lungo periodo. I
fatti antichi si connettono a quelli recenti senza perdere smalto e
forza interpretativa. Daniel Ciobotea, vescovo ortodosso romeno,
ironizzava sulla scoperta della relatività del tempo da parte degli
orientali, «prima di Einstein». «Mille anni un giorno, un giorno
mille anni»: questa espressione della Bibbia, del resto così orientale, si applica bene all’Europa dell’Est.
La storia, all’Est, si trasforma facilmente in patologia della
memoria, che implica una larga vis polemica, il ricordo morboso
dei torti e delle offese, l’esistenza di odiati Erzfeinde. Anche in
questo gli europei orientali sono diversi dagli occidentali, sempre
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Roberto Morozzo della Rocca
più attratti da un sapere specialistico, funzionale, che non sottolinea i crediti e i debiti della storia, dimentica, ma guarda anche positivamente all’avvenire. Per gli occidentali, la storia va fatta, va
plasmata. Gli orientali la ritrovano, la ruminano, la subiscono. Per
Alexander Solgenitsin o per Mircea Eliade, la storia, col suo lungo periodo, significa ideologia dei fatali destini dei popoli, attaccamento religioso ai luoghi e alla terra, senso esasperato della tradizione, approccio irrazionale alle questioni del giorno, ipoteca
sul futuro. Il comunismo all’Est rappresentava, almeno inizialmente con la sua pretesa di perfettibilità terrena, una forma di
speranza nella storia avvenire, una proposta di razionalità, un rifiuto delle derive nell’etnia e nel sangue, un elemento di ottimismo. Gli esiti sono stati deludenti.
Dinanzi alle macerie dell’ex Jugoslavia ci si è spesso chiesti se
non fosse stato meglio dimenticare la storia, o almeno quella che
nei Balcani viene creduta storia. «La storia – scriveva Nietzsche –
è un incubo dal quale vorremmo risvegliarci»: si può dissentire
dal filosofo, osservando che non di storia si tratta, ma di memoria
patologica che diventa ossessione e infelicità.
Rimane, tuttavia, all’Est un senso storico smarrito dall’Occidente, i cui orologi inesorabilmente veloci sono costruiti per contare, non per contemplare. Notava Sante Bagnoli durante la guerra in Kosovo:
«Quando i serbi, per spiegare ciò che sta accadendo, partono dalla battaglia medievale del Kosovo, infastidiscono spesso il lettore dell’Europa occidentale che non ha nessun legame con eventi tanto passati. [...]
C’è un senso storico di grandi tappe o di grandi radici che probabilmente il mondo ortodosso mantiene. Se si pensa alla continuità stilistica dell’arte ortodossa rispetto a quella latina o sassone, che ogni secolo
cambiano la sintassi artistica, possiamo avvicinarci un poco alla comprensione di un mondo che, pur vicinissimo, ci è un po’ distante nel
suo sentire i legami storici. Ma proprio questo mondo ha dato i natali a
città come Belgrado e Sarajevo in cui, in questo secolo, hanno vissuto
una pluralità di popoli e culture non paragonabile a quanto noi europei
occidentali abbiamo vissuto nelle nostre metropoli» 18.
Flussi e scambi tra le due Europe si sono moltiplicati nell’ultimo
decennio, ma il fenomeno non si è accompagnato sempre a una
migliore comprensione, in vista di una unità europea nel pluralismo. In particolare, vorrei ricordare che le guerre nell’ex Jugosla-
Alterità culturali e flussi migratori
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via, e da ultima quella del Kosovo, sono state interpretate in maniera diametralmente opposta nelle due parti del continente. Non
solo i Paesi slavi e ortodossi, irriducibili nella diversità dall’Occidente, hanno interpretato le guerre balcaniche in maniera antitetica all’Occidente. Anche i romeni, i cechi e in certa misura i polacchi hanno dubitato delle ragioni dell’Occidente, che individuava nei serbi i colpevoli e poi i nemici. Praga è la patria di Madeleine Albright, ma il 75% dei cechi, così occidentali nelle aspirazioni e nello stile di vita, ha giudicato la guerra del Kosovo un’arbitraria prepotenza dell’Occidente.
Le delusioni politiche ed economiche della transizione postcomunista, ma anche eventi impensabili prima del 1989 come le guerre balcaniche, hanno amareggiato e inasprito gli europei orientali.
Se prima del 1989 si guardava all’Occidente con speranza e se ne attendeva il soccorso, come da una prigione si guarda oltre le sbarre,
oggi all’Est i tradizionali, secolari pregiudizi antioccidentali sono
riemersi. Gli occidentali sarebbero imperialisti, vorrebbero imporre i loro modelli di organizzazione sociale e la loro supremazia tecnica, sarebbero dei contabili, dei razionalisti senz’anima, degli utilitaristi, dei maniaci della logica senza sentimento.
La storia dimostra d’altra parte che il lirismo dei russi, il sentimentalismo dei serbi, l’etnicismo degli albanesi, come altri tratti
di passionalità orientale, non hanno preservato questi popoli dell’Est dall’essere, se del caso, popoli che opprimevano altri popoli,
usando violenza non meno degli occidentali. Inoltre il rapporto
degli orientali, o almeno di una parte di loro, con gli occidentali è
stato spesso contraddittorio: tanto disprezzo per la tecnica e la
modernità ha convissuto con il desiderio di fruire dei vantaggi indubbi della stessa tecnica e modernità 19. Forse la globalizzazione
è davvero irresistibile, ma certo gli europei dell’Est non la vivono
con serenità.
Per concludere, posso solo augurare che in avvenire le due
Europe si incontrino e si scambino ciò che di buono rispettivamente possiedono. E che la conoscenza reciproca porti ciascuna
Europa a relativizzare se stessa. L’Ovest potrebbe essere meno sicuro della sua logica e razionalità (diceva Chesterton che lo sviluppo estremo della logica è la follia, e lo abbiamo visto nella seconda guerra mondiale). L’Est potrebbe essere meno atavicamente convinto dei suoi dogmi culturali e meno diffidente della modernità occidentale.
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Roberto Morozzo della Rocca
L’Europa orientale è stata lungamente governata da regimi
che accentuavano iperbolicamente l’importanza dei fattori economici e materiali. Michail Bulgakov ironizzava sul fornello a gas, assurto a simbolo assoluto della società sovietica, in quanto patetico
e surrogatorio emblema dell’aspirazione al benessere materiale
delle famiglie russe. La rivoluzione bolscevica, con le sue ambizioni di palingenesi dell’uomo e del mondo, avrebbe solo generato una disperata corsa al fornello a gas, durata settant’anni. I paesi dell’Europa orientale potrebbero essere governati, nel prossimo
avvenire, ad inconsapevole imitazione dei regimi comunisti, nella
persuasione che l’economia abbia la facoltà di risolvere tutti i problemi e di sanare ogni male. Quasi che i miti dell’economia socialista cedano il posto ai miti dell’economia di mercato.
Nel 1991-1992, per un intero anno, gli uomini albanesi smisero di lavorare nella convinzione, in buona fede, che l’avvento del
capitalismo li avrebbe d’incanto trasferiti nel paese delle meraviglie che vedevano nei caroselli pubblicitari delle televisioni occidentali. Il passaggio dal lavoro forzato all’ozio assoluto condusse
l’intera Albania alla fame, cui pose rimedio il soccorso internazionale e particolarmente italiano. È giusto che il lavoro sia un valore, ad Est come lo è ad Ovest. D’altra parte le genti dell’Est, dopo
tanto economicismo, avrebbero bisogno di essere meno dipendenti dagli imperativi dell’economia, per arricchirsi di cultura, di
umanesimo e di idee, e non solo di organizzazione produttiva e di
meccanicismo contabile. Necessario è il lavoro, non il culto del
PIL, dei valori macroeconomici, dell’ipersviluppo secondo irraggiungibili modelli di altre società.
La fine della guerra fredda ha consentito ai popoli delle due
parti del continente – grosso modo 350 milioni di persone da una
parte e 350 milioni dall’altra – di incontrarsi di nuovo. Ma si è
aperto un periodo di difficile transizione. Ad Est non si cancella
facilmente l’eredità del comunismo, mentre risorgono i demoni
dei nazionalismi. Nel difficile dialogo tra le due parti del continente, meglio sarebbe dire tra la parte occidentale e la parte slavoortodossa, è forte la tentazione di anatemizzare. Gli occidentali
condannano l’asserita barbarie serba o russa, gli slavi ortodossi
condannano l’aggressività occidentale, esemplificata anzitutto
nella NATO. Per questa Europa che stenta a trovare unità – una
unità nel pluralismo, nel rispetto, nella conoscenza reciproca, nella riscoperta delle comuni radici greche e cristiane, aliena da for-
Alterità culturali e flussi migratori
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zate uniformità – abbiamo bisogno ancora di molto lavoro e molta speranza.
Una positiva unità europea potrà realizzarsi solo nel pluralismo. Le migrazioni in corso, per quanto di ridotte dimensioni, potranno grandemente aiutare la reciproca comprensione fra le varie
tessere del mosaico europeo. Stefano, primo re d’Ungheria, poi
canonizzato dalla Chiesa cattolica, affermava mille anni fa che
«soltanto i paesi deboli e arretrati hanno una sola lingua comune
ed un insieme di usi e costumi uniformi» 20. Sono parole che valgono anche per l’Europa, se vuole trovare vera unità.
Roberto Morozzo della Rocca
NOTE
Questo saggio è il frutto conclusivo di una ricerca commissionata dall’«Agenzia
Romana per la preparazione del Giubileo», i cui primi risultati sono stati presentati al
Convegno Migrazioni. Scenari per il XXI secolo, Roma, 12-14 luglio 2000.
1 Si veda ad esempio De l’Oural vers l’Atlantique, a cura del Consiglio d’Europa,
Strasburgo 1992.
2 Cfr. J. Salt, Evolution actuelle des migrations internationales en Europe, novembre 1997 (studio commissionato dal Council of Europe/Conseil de l’Europe).
3 Per i dati sull’immigrazione citati nel presente studio sono state utilizzate soprattutto le pubblicazioni di EUROSTAT, tra cui in particolare Statistiques démografiques. Données
1960-1999, Thème 3 Population et conditions sociales, Edition 1999 (a cura della Commissione Europea). Per i dati di EUROSTAT cfr. anche http://europa.eu.int/eurostat.html.
4 Cfr. il dossier su Les Roms. Migrations et accueil, in Migrations Société, 63, maijuin 1999.
5 Cfr. Guida ai paesi dell’Europa centrale orientale e balcanica. Annuario politicoeconomico 1999, a cura di S. Bianchini e M. Dassù, Bologna 1999.
6 Cfr. F. Conte, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986.
7
Sugli effetti dell’allargamento a Est della UE si veda il Final Report of the Reflection Group on the Long-Term Implications of EU Enlargement: the Nature of the New
Border (Chairman Giuliano Amato, Rapporteur Jedy Batt, committenti European University Institute e European Commission, November 1999).
8
Cfr. F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Bari 1961.
9 L. Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, Corso tenuto al Collège de France nell’anno accademico 1944-1945, Roma 1999, p. 4.
10 Ibid., p. 279.
11 Cfr. R. Morozzo della Rocca, L’ortodossia balcanica e l’Europa, in Il fattore religioso nell’integrazione europea, a cura di A. Canavero e J.-D. Durand, Milano 1999, pp.
81-97, e M. Zinovieff, L’Europe orthodoxe, Paris 1994.
12 Si veda ad esempio European Bank for Reconstruction and Development, Transition report 1999. Ten years of transition. Economic transition in central and eastern Europe, the Baltic states and the CIS, London 1999.
13 Cfr. R. Morozzo della Rocca, Albania. Le radici della crisi, Milano 1997.
14
N. Steinhardt, Diario della felicità, Bologna 1995 (I ed. Cluj-Napoca, 1991), p. 265.
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Roberto Morozzo della Rocca
15
Cfr. T. Špidlík, Le difficoltà della democrazia nei Paesi slavi, in Politica nell’Est, a
cura del Centro Aletti, Roma 1995, pp. 17-24.
16
Cfr. F. Chabod, op. cit.
17 T. Špidlík, op. cit., pp. 22-23.
18 S. Bagnoli, Le non ragioni di una guerra, in La Serbia, la guerra e l’Europa, a cura di N. Stipcevic, Milano 1999, pp. 13-31, qui p. 21.
19 Cfr. O. Clément, L’Orthodoxie et l’histoire, in Service Orthodoxe de Presse, 153,
dicembre 1990, pp. 16-27.
20 Così le «ammonizioni» di Stefano I, citate in A. J. May, La monarchia asburgica,
Bologna 1973 (I ed. Harvard University Press, 1968), p. 114.
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La questione europea fra Est e Ovest: alterità