The Lab’s Quarterly
Il Trimestrale del Laboratorio
2010 / n. 4 / settembre-dicembre
Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Università di Pisa
Direttore:
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Comitato scientifico:
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Comitato di Redazione:
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Segretario di Redazione:
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ISSN 2035-5548
© Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Università di Pisa
The Lab’s Quarterly
Il Trimestrale del Laboratorio
2010 / n. 4 / settembre-dicembre
SOCIOLOGIA DELLA CULTURA
Fiorenza Ratti
Itinerari della ricerca di sé
Anton Reiser di Karl Philipp Moritz
3
SOCIOBIOLOGIA
Andrea Tommei
L’evoluzionismo morale di Frans De Waal.
Un nuovo modello della sociogiologia
27
SOCIOLOGIA POLITICA
Dalia Galeotti
Governance.
Una prospettiva critica
58
CONFRONTI
Aleksandra Binaj
La condizione femminile in Albania.
Storia, istituzioni e società
100
Odile Hourcade
El accionar de los gobiernos subestatales en escenario
internacional y la cooperación descentralizada como
producto del mismo
148
Lo spirito sociologico di Calvino.
Nota su Italo Calvino. La realtà dell’immaginazione e le
ambivalenze del moderno di Elena Gremigni
166
RECENSIONI
Marco Trainito
Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Università di Pisa
SOCIOLOGIA POLITICA
LA GOVERNANCE.
UNA PROSPETTIVA CRITICA
Dalia Galeotti
Indice
Abstract
Premessa
1. Etimologia e sviluppi
2. Stato-Nazione e governabilità
3. Global governance
4. Good governance
5. Perché la global governance
6. Cos’è o cosa dovrebbe essere la global governance?
7. Un mondo perfetto
8. Governance: il problematico connubio tra economia e politica
9. Democrazia e ruolo dello Stato-Nazione
10. Deficit di accountability
11. Nuove prospettive critiche
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
59
60
61
65
70
71
72
74
78
81
82
86
91
95
97
Dalia Galeotti
59
ABSTRACT
La governance, nella sua declinazione politica, viene ormai presentata quale
strumento irrinunciabile di guida della complessità. Tuttavia, nonostante sia entrata
nell’uso comune, risulta di ambigua significazione, in quanto polimorfa e
molteplice nelle sue differenti applicazioni. Inoltre sembra aver goduto a lungo di
uno statuto di assoluta intangibilità sotto la prospettiva della legittimità politica:
affrancata da una riflessione critica, è stata presentata come strumento di
regolamentazione capace di coniugare efficienza e democrazia in modo
assolutamente assiomatico, postulandone la valenza imprescindibile sotto il profilo
dell’auto-disciplinamento e della cooperazione, nella sistematica e antitetica
giustapposizione al governing dello Stato-nazione.
L’approccio del nostro contributo, partendo da una breve storia evolutiva del
termine e delle sue manifestazioni empiriche, intende mostrare, attraverso la
riflessione che una vasta letteratura offre in materia, la problematicità che la
governance in quanto processo presenta sotto il profilo dell’esercizio e della
organizzazione del potere, nonché quanto sia necessario dotarsi di cautela qualora
la si voglia coniugare alle categorie politiche di democrazia, responsabilità e
legittimità nel progressivo venir meno della sovranità statuale e nella subalternità
della politica all’economia.
The governance, in its political declination, is showed by now as inalienable
instrument of complexity’s guide. Yet it turns out, as expression, despite it is come
into common use, of ambiguous specification, as polymorphous in its varied
applicatory forms. Moreover the governance seems to have enjoyed for a long
time of an absolute intangibility’s status under the political legitimacy’s view: it
was showed, freed by a critical reflection, as regulation’s instrument able to
combine efficiency and democracy in absolutely axiomatic way, postulating its
indispensable valence under the auto-regulation’ and cooperation’s point of view,
in the systematic and antithetical juxtaposition of State-nation to governing.
The here assumed approach, starting with a short evolutionary story of the
term and of its empirical manifestations, intends to show, through the contribution
that a wide literature offers on the subject, the complexity that the governance as
process presents under the point of view of the exercise’ and distribution’s power,
as well as how necessary it is to endow with prudence in case one wants to
combine governance with democracy’, responsibility’ and legitimacy’s political
categories in the progressive fail of the state’s sovereignty and in the subalternity
of politics to economy
60
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
PREMESSA
Governance è un termine che viene usato ormai da almeno una ventina di anni con sempre maggiore frequenza, ma il cui significato, spesso, risulta ambiguo e concettualmente non univoco: come esordisce
Rhodes “the term ‘governance’ is popular but imprecise”1.
Eppure dal campo politico a quello amministrativo, passando per
l’ambito economico, è un continuo risuonare di espressioni come global governance, good governance, corporate governance, urban governance, governance europea, governance della pubblica amministrazione, nell’ “agitarsi” e rincorrersi di piani spaziali e dimensioni
categoriali, dall’analitica alla normativa.
Quella che è stata indicata come una buzzword, “[…] un mot passe-partout à la mode qui peut signifier tout et n’import quoi”2, soffre
della difficoltà a ricongiungere significante e significato; difficoltà generata dalla problematicità nell’afferrare compiutamente processi nel
corso della loro stessa evoluzione, ma che non ha scoraggiato
l’assidua frequentazione con l’espressione in oggetto, proprio in quanto carica di “[…]potenzialità descrittive in relazione a dinamiche che
sfuggono all’univocità definitoria[…]”3.
Una volta assuntane una generale definizione, che rimanda ad un
complesso di processi attraverso i quali attori eterogenei, pubblici e
privati, strutturati gerarchicamente, ma solo entro il proprio ambito
operativo, spesso portatori di interessi confliggenti, attivano relazioni
cooperativistiche, auto-regolative, coordinate per la risoluzione di
problemi comuni o settoriali e comunque solitamente cogenti, disponendosi come nodi di reti autogenerantisi, risulta basilare, per poterne
afferrare più chiaramente il senso in tutte le declinazioni rinvenute nei
singoli ambiti disciplinari, ripercorrere rapidamente la storia evolutiva
del termine e dei suoi contenuti, a partire dalle radici etimologiche,
sino ad arrivare all’uso attuale, che nella nostra lingua non sembra
trovare una corretta traduzione in governanza4.
1
R.A.W. Rhodes, The new governance: governing without government, in «Political Studies», 1996, XLIV, p. 652.
2
B. Jessop, L’essor de la gouvernance et ses risques d’échec : le cas du developpement
économique, in «Revue internationale des sciences sociales», n. 155, 1998, p. 32.
3
S. Chignola, In the shadow of the state. Governance, governamentalità, governo, in G.
Fiaschi (a cura di), Governance: oltre lo stato?, Rubbettino Editore, S. Mannelli, 2008, p.
125.
4
Se infatti nella sua prefazione al testo di A. Palumbo-S. Vaccaro, Governance. Teorie,
principi, modelli, pratiche nell’era globale (Mimesis, Milano, 2007), S. Maffettone sembra
Dalia Galeotti
61
Questa operazione consente infatti di poterne apprezzare le sfumature, quei dettagli che risultano rilevanti per padroneggiare un concetto altrimenti scivoloso, giungendo ad afferrarne con maggiore puntualità la dimensione politica, osservarne poi i legami connessi ai temi di
complessità del reale e governabilità, le applicazioni concrete, in particolar modo sul piano globale, e gli aspetti critici, in termini di equità
sociale, responsabilità politica e democrazia. Tutto questo mantenendo
contestualmente fermo sullo sfondo il rapporto dialettico tra i processi
che la contraddistinguono e la specificità dello Stato-nazione, poiché
sembra appartenere a questo rapporto lo sviluppo delle dinamiche e
delle strategie di potere ad essa sottese e da essa discendenti. Un potere sottile e tendenzialmente occulto, dunque ingannevole che, come
suggerito da quegli studi che interpretano i processi di governance con
gli strumenti proposti dalle analisi foucoltiane sulla governamentalità,
sembra sublimarsi sempre più nello spazio dell’auto-disciplinamento
soggettivo, grazie alle strategie collusive tra politica e teoria economica neo-liberista.
1. ETIMOLOGIA E SVILUPPI
Se invero nella letteratura specialistica ormai consolidata risultano riferimenti essenziali per circoscrivere lo spazio semantico di governance, fra gli altri, i contributi di Rhodes, per il quale il termine viene
utilizzato con almeno sei significati diversi5 e le cinque proposizioni
che Stoker ritiene i fuochi intorno ai quali ruotano gli studi sulla governance6, esistono altresì, come anticipato, sviluppi recenti di studio,
intendere il concetto di governanza come corrispondente all’espressione in lingua inglese di
governance, in tutte le sue possibili sfaccettature, A. Arienzo asserisce che il termine governanza viene utilizzato in quelle accezioni di governance sinonimiche di governing operando
una separazione semantica netta tra questa significazione e governance quale “[…]paradigma
politico radicalmente differente dal governo inteso in senso moderno” (cfr. A. Arienzo, Dalla
corporate governance alla categoria politica di governance, in G. Borrelli (a cura di), Governance, Dante & Descartes, Napoli, 2004, p. 129).
5
“[…] As the minimal state, as corporate governance, as the new public management, as
good governance, as a socio-cybernetic system, as self-organizing networks” (R.A.W.
Rhodes, op. cit., p. 653).
6
“1. La gouvernance fait intervenir un ensemble d’institutions et d’acteurs qui
n’appartiennent pas tous à la sphère du gouvernement; 2. En situation de gouvernance, les
frontières et les responsabilités sont moins nettes dans le domaine de l’action sociale et économique; 3. La gouvernance traduit une interdépendance entre les pouvoirs des institutions
associées à l’action collective; 4. La gouvernance fait intervenir des réseaux d’acteurs autonomes; 5. La gouvernance part du principe qu’il est possible d’agir sans s’en remettre au
62
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
che, in termini analitici, piuttosto che descrittivi, la risolvono quale
flessione contestualizzata di razionalità governamentale, affrontando
una critica del potere attraverso le categorie introdotte da Foucault
nelle sue riflessioni sulla biopolitica.
Ma il viaggio che ha portato a questi approdi è iniziato da una funzione, quella della navigazione, che permane ancora, potremmo dire
saldamente ancorata, nel lessico delle metafore politiche. Il radicale
‘gov’ lo si ritrova già nel sanscrito kubara, cioè timone, nel greco antico kǔbernáō, guidare le navi, e nel guberno latino, in cui si è ormai
consolidato il passaggio all’ambito politico tramite il contributo di
Platone, che utilizza l’espressione governare con il significato di guidare gli uomini. E se Foucalt, proprio nel richiamare il traslato stabilito da Platone, propone un’analogia tra l’arte di governare, come insieme di pratiche istituzioni e saperi per la guida degli uomini, e il governo della nave, che include la salute dei marinai la rotta da seguire e
i rischi della navigazione7, in Jessop leggiamo, con specifico riferimento al termine inglese di governance, che questo origina dalle espressioni relative al “pilotage” delle navi8.
Tuttavia dalla classicità all’epoca contemporanea, la metafora della navigazione applicata allo spazio politico subisce uno sviluppo
connesso alla modalità della condotta, poiché si evolve in una progressiva disgiunzione tra modello gerarchico, autoritativo e verticistico e modello compartecipativo, orizzontale e auto-regolativo: l’uno
associato al governo propriamente detto, l’altro appunto alla governance. E se la lingua italiana non ha prodotto un neologismo ritenuto
perfettamente adeguato, come già detto sopra9, la lingua inglese presenta maggiore ricchezza lessicale e precisione semantica, laddove
con government si intende un’istituzione, con governing l’azione del
governare e con governance i suoi risultati10.
I prodromi di questa polarizzazione lungo il continuum del governare si possono rintracciare nell’uso che dell’espressione gouvernance/governance veniva fatto nella Francia del XIII secolo e
pouvoir ou à l’autorité de l’Etat. Celui-ci a pour rôle d’utiliser des techniques et des outils
nouveaux pour orienter et guider l’action collective” (G. Stoker, Cinq propositions pour une
théorie de la gouvernance, in «Revue internationale des sciences sociales», n. 155, 1998, pp.
20-21).
7
M. Foucault, La Governamentalità, in P. Dalla Vigna (a cura di), Poteri e strategie, Mimesis, 1994, pp. 52-53.
8
B. Jessop, op. cit., p. 32.
9
Cfr. nota 4, p.2.
10
A. Arienzo, op. cit., p. 127.
Dalia Galeotti
63
nell’Inghilterra del XV: nel primo caso si connetteva sia a modalità di
guida della politica e dell’amministrazione sia all’auto-governo di Artoise e Fiandre, nel secondo voleva includere nell’atto di governo sia il
comando del principe che l’interconnessione di consuetudini, norme e
statuti11, osservando già in questa specificazione dal government
l’esistenza in nuce dei futuri caratteri di una partecipazione ai processi
di formulazione, attuazione e implementazione delle politiche da parte
di una pluralità di attori pubblici e privati, che si sarebbe distinta per
legami di partenariato e per l’affievolirsi della posizione autoritativa
dei pubblici poteri.
Assistiamo però ad una più netta emancipazione del termine, per
giungere all’uso ed alle fortune contemporanee, a partire dagli studi
che, in ambito economico, vengono elaborati sui costi di transazione a
partire dall’articolo di Coase del 1937, ambito nel quale l’attenzione
verte sulle peculiarità di una corporate governance orientata alla massimizzazione dei profitti grazie a strategie orientate all’ efficienza e
all’efficacia, entro una cornice definita dal componimento fra gli interessi spesso contrastanti dei vari stakeholders.
Il passaggio dallo spazio economico a quelli amministrativo e politico si afferma con sempre maggiore evidenza a partire dal secondo
dopoguerra, quando la complessificazione della realtà sociale e
l’accelerazione dei processi di mutamento politico, economico e culturale agenti su più livelli spaziali, sostenute da dinamiche sempre più
stringenti di globalizzazione, vedono contestualmente i pubblici poteri
subire erosioni di autorità di tipo orizzontale e verticale, dal basso e
dall’alto.
Dagli anni ’60 si sviluppano studi su nuove modalità di gestione
delle amministrazioni locali centrate “[…]su un sistema di attori molteplici, in concorrenza tra loro nel proporsi come fornitori di servizi
pubblici in un contesto policentrico e pluralistico”12, per migliorare in
termini di efficienza ed efficacia i servizi offerti all’utenza, attraverso
l’interconnessione in rapporti di co-decisione di attori pubblici e privati, che, posizionandosi in un sistema reticolare, sviluppano la tendenza ad abbandonare metodi gerarchici, ritenuti eccessivamente rigidi ed onerosi, a fronte dell’esigenza di aumentare flessibilità e capacità
di adattamento e ottimizzare il rapporto costi/qualità, entro un sistema
sociale che vede accrescersi sempre più la propria differenziazione
interna.
11
12
Ibidem.
Ivi, p. 134.
64
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
Da questi studi, avviati in ambito statunitense, finalizzati a “[…]
definire i tratti di una gestione delle risorse pubbliche capace di far
fronte ai tradizionali dilemmi dell’azione collettiva attraverso il sapiente utilizzo delle potenzialità offerte dal mercato e da
un’organizzazione non gerarchica dei poteri e degli attori”,13 si è sviluppata una tematizzazione intorno alla progettazione di una urban
governance che ha prodotto, negli anni ’90, la New metropolitan governance, intesa quale azione di policy formulation e policy making
operata da attori eterogenei, pubblici, privati e terzo settore, strutturati
in relazioni orizzontali, e poggiante sul modello teorico del policy
network approach e sugli assunti di legittimità, di effettività e di
un’efficienza dell’azione, che per essere tale, necessita altresì di un
certo grado di chiusura nei confronti del pubblico.
Questo processo, che vede gradatamente evolversi una polarizzazione semantica tra governance e government, si arricchisce, nelle analisi di Mayntz, di una definizione per la quale, prima del consolidarsi di un’opposizione tra i due termini, la governance si connette alla
modellizzazione delle strutture e dei processi socioeconomici da parte
delle autorità politiche (Steuerungstheorie o teoria della direzione), in
una accezione vicina al concetto di governing, mentre “attualmente si
ricorre a governance soprattutto per indicare un nuovo stile di governo, distinto dal modello del controllo gerarchico e caratterizzato da un
maggior grado di cooperazione e dall’interazione tra lo stato e attori
non-statuali all’interno di reti decisionali miste pubblico/private”14.
Ma la letteratura offre anche posizioni più sfumate riguardo
all’opposizione di significati tanto densi e complessi. Pur salvando
l’innovazione contenuta in processi flessibili, che vede accrescersi il
peso dell’auto-coordinamento e di relazioni cooperativistiche, Bevir
sostiene, in riferimento alla sua teoria decentrata della governance,
che questa, non producendo esiti e politiche omogenei, basandosi su
pratiche e interpretazioni contestualizzate poiché “[…]lotta politica
che si fonda su reticoli di credenze in competizione fra loro[…]”15,
non descrive uniformità, risultando così necessario munirsi di una certa cautela nell’affermare una dicotomia strutturale tra governance e
government . D’altra parte Peters, interpretando le società contempo-
13
Ibidem.
R. Mayntz, La teoria della governance: sfide e prospettive, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», n. 1, 1999, p. 3.
15
M. Bevir, Una teoria decentrata della governance, in «Stato e Mercato», n. 66, 2002, p.
481.
14
Dalia Galeotti
65
ranee con il modello delle anarchie organizzate, affida alle autorità
pubbliche, abituate a pensare in modo appropriato in termini di policy
e capaci, detenendone istituzionalmente gli strumenti più adeguati,
della gestione dell’agenda politica, il ruolo di guida nell’attività di coordinamento di una pluralità di attori che, dislocati entro un sistema
policentrico rispetto al potere, risultano ancora più sensibili ad un orientamento operativo occulto, nell’assenza di una formalizzazione
normativa dei processi e delle pratiche di governance, proprio in ragione di quella richiesta di flessibilità e de-istituzionalizzazione operazionale che ad essa viene fatta a fronte di un ambiente in costante
mutamento. Le burocrazie pubbliche finiscono così, non per perdere il
ruolo-guida delle politiche, ma per riformularlo, nella ricerca di nuovi
assetti negli equilibri di potere16. Infine Jessop, negli studi che si occupano non solo di descrivere ed analizzare i processi di governance,
ma anche di individuare quelle pratiche che possano limitarne i fallimenti, affida allo Stato il ruolo di primus inter pares, per un’azione di
meta-governance17, cioè governance di governance, a sostegno
dell’auto-coordinamento e della finalizzazione al bene collettivo; i governi infatti “[…]rappresentano ‘corti d’appello’ chiamate a decidere
le controversie che emergono dentro e fuori la governance; operano il
bilanciamento tra differenziali di potere in modi da favorire le forze o
i sistemi più deboli e rafforzare l’integrazione sistemica e la coesione
sociale[…]”18.
2. STATO-NAZIONE E GOVERNABILITÀ
Rimane fondamentale ricordare la derivazione economica del concetto
politico contemporaneo di governance, che in ambito di gestione societaria ne consente l’interpretazione nei termini di “[…] quei processi
16
Cfr. G. Peters, Governance e anarchie organizzate, in A. Palumbo-S. Vaccaro (a cura
di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, Mimesis, Milano, 2007 ,
pp. 35-54.
17
Nelle parole di Jessop, riguardo alle duplici dimensioni, istituzionale e strategica, della
meta-governance,“L’État a ici un rôle capital à jouer à la fois comme organisateur au premier
chef du dialogue entre communautés d’action publique, comme corps institutionnel chargé
d’assurer une certaine cohérence à tous les sous-systèmes, comme source d’un ordre régulateur dans et par lequel ces derniers peuvent poursuivre leurs buts, et comme pouvoir souverain dont relève «en dernier ressort» l’action à mener pour compenser les défaillances des
autres sous-systèmes[…]” (B. Jessop, op. cit., p. 46).
18
B. Jessop, Governance e meta-governance: riflessività, varietà e ironia, in A. PalumboS. Vaccaro (a cura di), op. cit., p. 87.
66
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
di autoregolazione -e quindi di attribuzione autonoma di norme così
come di procedure di controllo e verifica- attraverso cui si rende più
efficiente, più trasparente e più sicuro l’operato della corporazione a
beneficio degli attori coinvolti”19, poiché, nel momento in cui viene
associata la conduzione d’impresa alla governabilità politica, emerge
un identico nodo problematico, cioè “[…] la discrasia tra necessità
dell’efficienza ed esigenze di partecipazione e legittimità […]”20.
Lo Stato-nazione, realizzazione politica della modernità, basato sul
monopolio legittimo della violenza, del prelievo fiscale, sulla piena
sovranità interna, che consente il controllo di popolo e risorse entro
confini territoriali determinati e protetti, in cui la triade costituita da
Stato-mercato-società vede una ripartizione delle competenze entro gli
spazi strettamente determinati dall’autorità pubblica, in quanto ad essa
si riconosce pieno potere legittimante, che una completa sovranità esterna, a partire dalla pace di Westfalia, pone formalmente sullo stesso
piano di altri Stati sovrani, contiene già in sé, al suo primo apparire,
quei caratteri che ne attaccheranno i pilastri di accentramento dei poteri e sovranità: entro il processo di differenziazione dei sottosistemi sociali, che caratterizza la modernità, la progressiva frammentazione interna unita alla graduale virtualizzazione dei confini territoriali, che
vede debordare e sfuggire al controllo statale attività economica e finanziaria e l’accentuarsi della contaminazione interculturale, intervengono nell’emancipazione di mercato e società e colpiscono
quell’equilibrio di una triade sul quale si era andato definendo lo Stato
moderno.
Le dinamiche, che agiscono in questo processo e che costringono
lo Stato a ridefinire il proprio ruolo ed a ripensare forme e modalità di
esercizio del potere, sono molteplici e possono condensarsi nei movimenti di globalizzazione e decentramento e sottendono un incremento
esponenziale della complessità21. Queste si connettono alla nascita di
19
A. Arienzo, op. cit., p. 130.
Ivi, p. 134.
21
La complessità rappresenta un concetto-chiave nell’interpretazione dei fenomeni politici
contemporanei, poiché interviene sostanzialmente nei dibattiti relativi alla crisi di governabilità dello stato-nazione, in cui tra l’altro, rinveniamo che “[…] dans un monde de complexité
accrue et de différenciation de sous-systèmes, l’Etat a perdu ses capacités d’action”( F.X.
Merrien, De la gouvernance et des Etats-providence contemporains, in «Revue internationale
des sciences sociales», n. 155, 1998, p. 61), e si rivela come fattore necessitante di governance
se questa “ […]favorise donc les interactions Etat-société, en offrant un mode de coordination
entre des acteurs sociaux caractérisés par la multiplicité et la fragmentation[…]”( A. Kazancigil, Gouvernance et sciences: modes de gestion da la société et de production de savoir empruntés au marché, in «Revue internationale des sciences sociales», n. 155, 1998, p. 75). En20
Dalia Galeotti
67
un numero sempre più ampio di organizzazioni intergovernative, a
partire soprattutto dal secondo dopoguerra, per la gestione di questioni
economiche, finanziarie e commerciali, come il FMI, la BM, il WTO,
o gli equilibri politici e militari, come ONU e NATO; equilibri sempre
più instabili a causa della crisi di un ordine internazionale, che per circa tre secoli si è incardinato sul sistema westfaliano, e che hanno finito per collassare definitivamente con la fine della guerra fredda e del
bipolarismo e l’emergere di quello che è stato definito come un nuovo
disordine mondiale, in concomitanza all’intensificarsi dell’offensiva
del terrorismo internazionale.
D’altra parte la delocalizzazione della produzione e le crisi economiche e fiscali verificatesi a partire dagli anni ’70, con il successivo
ricorso da parte dei governi Thatcher e Reagan a politiche economiche
neo-liberiste aggressive ed allegata deregolamentazione dei mercati
economici e finanziari, supportate dal progredire delle tecnologie dei
trasporti il cui impatto ha potuto incrementarsi grazie all’evoluzione
dell’ingegneria informatica applicata alle telecomunicazioni, hanno
provocato in Occidente contrazione dello Stato-sociale e crisi di legittimazione e nel Sud del mondo quei processi di aggiustamento strutturale, che si sono rivelati spesso fatali nei percorsi di sviluppo, andando
a colpire servizi essenziali come sanità e istruzione. In entrambi i casi
dinamiche di portata sovranazionale hanno attraversato i confini degli
Stati e costretto i governi a confrontarsi con eventi in gran parte fuori
dal proprio controllo.
Su questo sfondo interpretativo è possibile comprendere la valenza
assunta entro i processi di governance da quella vasta pluralità di attori eterogenei chiamata a supplire ai vuoti formatisi negli spazi abbandonati dallo Stato, sia nella devoluzione di poteri ad organizzazioni
sovra e sub-nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti, sia con l’intervento sussidiario di attori del settore privato e del
volontariato, compreso un numero in costante aumento di ONG.
Il ritrarsi dello Stato-sociale, entrato in crisi per l’emergere di
nuovi bisogni post-materiali, per le difficoltà economiche e per
l’affermarsi dell’ideologia liberista, per cui “[…] una società ‘troppo
tro il dibattito italiano il tema trova ulteriore ambito di riflessione nell’attribuire al termine
governance una corrispondenza concettuale con governabilità, intesa come “[…] capacità di
attuazione delle politiche e delle decisioni di governo”(p.4), nel momento in cui la politica
risponde alla complessità con “ […] procedure di mediazione, di concertazione, di consultazione, ed oggi - sempre più - di comunicazione” (p. 8)( Cfr. F. Archibugi, Complessità e governabilità politica, da «Lettera Internazionale», n. 75, 2003, pp. 1-14, su
www.francoarchibugi.it).
68
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
assistita’ favorisca il parassitismo sociale e mini i meccanismi di riproduzione della ricchezza”22, sta portando da amministrazioni pubbliche che svolgano tutte le funzioni del welfare system “ a una diversa distribuzione dei ruoli, che vede il settore pubblico pianificare, cofinanziare e controllare le prestazioni sociali e il terzo settore e/o il
mercato, progettare e gestire più flessibilmente le risposte ai bisogni
diversificati della popolazione”23.
Ma quando la formulazione, l’attuazione, l’implementazione e la
verifica delle politiche, in nome dell’ efficienza e dell’efficacia, tendono a sfuggire al controllo pubblico, perché sempre più nella disponibilità di organi non rappresentativi, ed essenzialmente sottoposte a
autorità tecnocratiche caratterizzate da responsabilità diffusa, le istanze di democrazia, legittimità, equità sociale appaiono essere imprescindibili dalla presenza di uno Stato-nazione, cui poter chiedere di
integrare tali questioni con quelle relative alla governabilità politica ed
alla complessità sociale.
La prospettiva assunta permette di abbracciare temi legati ai rischi
in deficit democratico, come nel caso della governance europea24, nel
momento in cui le politiche non siano affidate ad organi rappresentativi25, ma ai tecnicismi dei saperi esperti, senza che siano altresì chiaramente espressi i livelli di effettiva partecipazione dei cittadini, bersagli delle politiche; una partecipazione relegata nell’ambito di vaghe
operazioni consultive, quel tanto da servire ad una legittimazione di
facciata, ma che nel contempo renda attuale e pertinente l’avvertenza
di Bevir in relazione a quella che lui definisce governance sistemica:
solo una cittadinanza attiva, esplicata attraverso non solo gli organi
elettivi, nella fase decisionale, ma anche tramite un confronto continuo, dialogico e pluralistico, aperto al pubblico, di apparati amministrativi e agenzie di controllo, nelle fasi di implementazione e verifica
22
R. Segatori, Politica,Stato e cittadinanza, in A. Costabile P. Fantozzi P. Turi (a cura di),
Manuale di sociologia politica, Carocci Editore, Roma, 2006, p. 86.
23
Ivi, pp. 86-87.
24
Cfr. L. Nicolia, La questione dell’accontability nel modello comunitario di governance,
In «Amministrazione in cammino», p. 1-39, su www.amministraioneincammino.luiss.it.
25
Da quanto emerge infatti dal Libro Bianco sulla governance europea, i cittadini
dell’Unione vedono attribuirsi un grado di partecipazione alla formulazione e verifica delle
politiche, molto basso, poiché in nome dell’efficienza queste rientrano ampiamente nella disponibilità di organi non rappresentativi, come la Commissione, e di gruppi di pressione, che
non portano interessi generali, a svantaggio di organi elettivi come il Parlamento europeo (
Cfr. Commissione delle Comunità Europee, La Governance Europea – un Libro Bianco,
Bruxelles, 2001, p. 1-37)
Dalia Galeotti
69
delle policies, può rendere democratico il modello della governance26.
Se nell’individuare nella governance una struttura triadica costituita da soggetti pubblici, soggetti privati e destinatari dell’azione, i cui
movimenti interni possano andare dallo Stato al mercato o viceversa,
dallo Stato imprenditore allo Stato regolatore o minimo per integrare
nelle diverse fasi storiche quei mondi vitali indivisibili per l’individuo,
che la modernità ha reso sempre più distanti attraverso i processi di
differenziazione dei sottosistemi sociali27, allora quello Stato, che in
nome della governabilità ha dovuto ricorrere a modalità relazionali
compartecipative, richiedendo un ingresso sempre maggiore in via
sussidiaria al mercato e alla società civile, non può arretrare in quella
funzione in cui non sembra sostituibile, né della quale sia auspicabile
l’alienabilità, cosicché attori meglio posizionati possano esercitare
pressioni tali da svilire il bene comune; in altre parole è necessario che
la negoziazione avvenga all’ombra della gerarchia, entro i confini
posti da un attore che sostanzialmente differisce dagli altri perché,
come ribadito a più riprese da Jessop, seppure parte di una società più
vasta e complessa, “[…] chargée normativament (notamment en dernier ressort) d’assurer l’intégration institutionelle et la cohésion sociale”28; un attore che, catalizzando su di sé “capitale simbolico di autorità riconosciuta”29, si caratterizza per la capacità di trasformarsi
nell’esercizio del potere di controllo, poiché, come ricorda Mayntz,
“[…] l’autoregolazione sociale, dopo tutto, ha luogo entro un quadro
istituzionale riconosciuto dallo stato”30.
La rete entro la quale la governance si dispiega, capace di connettere livelli organizzativi e spaziali differenziati31, nella prospettiva di
una cornice definita da coordinate di derivazione statuale, finisce per
presentare direttrici che consentono di integrare gerarchia e autoregolazione in composizione variabile a seconda del contesto. Ma
questa teoria della governance risulta inapplicabile, quando si abbia
uno spostamento sul piano macroregionale o globale, poiché, come
26
Cfr. M. Bevir, Governance e democrazia: approcci sistemici e prospettive radicali, in A.
Palumbo-S. Vaccaro (a cura di), op. cit., p. 95-117.
27
Cfr. R. Segatori, Letture sociologiche del concetto di governance, Relazione presentata
al Convegno "I giochi dei poteri nelle trasformazioni della democrazia", Roma, 21-22 maggio 2009, p. 1-22, su www.unipg.it.
28
B. Jessop, L’essor de la gouvernance et ses risques d’échec : le cas du développement
économique, in «Revue internationale des sciences sociales», n. 155, 1998, p. 47.
29
P. Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 103.
30
R. Mayntz , op. cit., p. 9.
31
Cfr. L. Hooghe/G. Marks, Come disfarsi del governo centrale: tipi di governance multilivello, in A. Palumbo-S. Vaccaro, (a cura di), op. cit, pp. 55-75.
70
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
già detto, oggettivamente lo Stato perde il controllo oltrepassati i confini nazionali, soprattutto sulle politiche fiscali ed economiche: la parziale devoluzione dei poteri e l’assenza di un “soggetto dotato di potestà direttiva”32 costringono, come suggerito da Mayntz, ad un salto
paradigmatico per una teoria che altrimenti incorre nel limite di interpretare la governance quale mera “modalità di coordinamento”33 tra
attori eterogenei, compresi in un mercato politico, nel quale alla prerogativa dialogica del pluralismo si sostituisce una pluralità informe,
facile preda di chi meglio equipaggiato entro un sistema che descrive
una allocazione diseguale di potere.
3. GLOBAL GOVERNANCE
Se dunque da un lato si attribuisce alla governance tout court
l’aggettivazione di multilevel, dall’altro notazioni come quelle di
Mayntz suggeriscono che giunti al piano spaziale più ampio, il difetto
nell’individuare un attore che dia coerenza e unità d’azione a prescindere da interessi particolari, non solo determina una sofferenza nella
teoria, ma chiarisce perché la stessa applicazione empirica stenti a trovare una propria dimensione.
Infatti se riportando a livello globale quanto detto sinora sulla governance è possibile rintracciare una sintesi esaustiva nella definizione
per la quale essa è “una attività internazionale, intergovernativa e
transnazionale che comprende non solo i governi o i loro apparati e i
tradizionali organismi internazionali, bensì anche le organizzazioni
non governative e altri attori non statali”34, la domanda cui è necessario trovare una risposta rimane quella relativa a chi sia da attribuirsi la
responsabilità di svolgere quelle funzioni regolative, che ad altri livelli
permangono prerogativa dello Stato, in una fase in cui il globalismo
consegna centralità alla funzione economica e sudditanza a quella politica.
Così in una prospettiva top-down sulla global governance le ipotesi suggerite in letteratura rimandano ad un governo mondiale individuabile alternativamente nella ‘potenza imperiale’ degli USA,
nell’egemonia di entità sovranazionali come l’UE, nel rafforzamento
politico dell’ONU. Ma in tutti e tre i casi la superiorità della politica
32
R. Mayntz , op. cit., p. 14.
Ibidem.
34
G. Sørensen, The Transformation of the State, Palgrave, 2004, cit. in A. Palumbo- S.
Vaccaro (a cura di), op. cit., p. 123.
33
Dalia Galeotti
71
per l’affermazione e la difesa a livello planetario dei diritti civili, politici e sociali, rimane attualmente una mera aspirazione, se nel primo
caso il limite è facilmente individuabile nelle forti pressioni che lobbies economiche esercitano sui governi federali, nel secondo, come
già osservato, gli organi comunitari difettino in fatto di democrazia,
legittimità e responsabilità politica, mentre nel terzo il pluralismo assuma una dimensione puramente formale finché non si provvederà a
“[…] riformare radicalmente lo statuto dell’ONU in relazione al ruolo
dell’Assemblea, alla composizione dello stesso Consiglio e ai poteri e
alle risorse reali attribuiti all’Organizzazione”35.
4. GOOD GOVERNANCE
È possibile comprendere la sofferenza della dimensione politica nel
momento in cui è la BM a prescrivere normativamente quei precetti
che permetterebbero al continente africano di affrontare una “crisis in
governance”36. Attribuendosi il compito di stabilire i prerequisiti politici per un’economia efficiente, nel venir meno a quanto affermato dai
propri statuti di astenersi dal perseguimento di qualsiasi ideologia, ma
in realtà sostenendo la superiorità di un percorso di sviluppo che fa
perno sugli assunti dell’Occidente, il ricorso alla good governance
come strumento di indirizzo economico, piuttosto che all’espressione
riforma dello stato, permette ad organizzazioni monetarie non rappresentative, prive di legittimazione politica, quali la BM o il FMI, di evitare “[…] d’être soupçonnés d’outrepasser leurs compétences statutaires en intervenant dans les affairs politiques internes d’Etats souverains”37e di servirsi del concetto di governance come “un outil idéologique pour une politique de l’Etat minimum”.38
Così, se nelle riflessioni di Kant “[…]le seul moyen possible de
régler le comportement des Etats sur la scène internationale serait de
35
R. Segatori, Politica,Stato e cittadinanza, in A. Costabile, P. Fantozzi, P. Turi (a cura di),
op. cit., p. 90.
36
Banque Mondiale, L’Afrique subsaharienne: de la crise ad une croissance durable.
Etude de prospective à long terme, Washington DC, 1989, cit. in A. Pagden, La genèse de la
« gouvernance » et l’ordre mondiale « cosmopolitique » selon les Lumières, in «Revue internationale des sciences sociales», n.155, 1998, p. 9.
37
C. Hewitt de Alcántara, Du bon usage du concept de gouvernance, in «Revue Internationale des sciences sociales», 1998, n. 155, p. 112.
38
M. C. Smouts, Du bon usage de la gouvernance en relation internationales, In «Revue
Internationale des sciences sociales», 1998, n. 155, p. 88.
72
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
créer un ordre politique international”39, fondato su “un ensamble de
valeurs partagées”40, che produca una comunità cosmopolitica, vista
come il grado più elevato della strutturazione sociale, attraverso un
unico percorso di sviluppo, come unica sarà l’organizzazione politica
che ne consentirà l’accesso, vale a dire la forma repubblicana, in quanto la sola a permettere la mediazione tra interessi contrapposti, anche
gli odierni organismi internazionali interpretano la good governance
come espressione della naturalizzazione dei valori occidentali:
“[…]l’appartenance à la communauté planétaire exige l’acceptation
d’un ensamble des valeurs que leurs défenseurs […] posent non pas
comme le produit d’une culture particulière, mais comme l’espression
d’une conditione humaine universelle”41. In tale prospettiva allora appare chiaro che per la BM “[…]the notion of good governance was
there, referring to the way in which cities, provinces, or whole countries were being governed, or should be governed”42, con l’intento di
“[…]importing to developing countries of state-market relationships
thet are characteristic of Western liberal-capitalist systems”43, per
mezzo di un assetto politico e sociale ben preciso che “[…] pour les
Nations Unies et dans les discours (sinon la politique) des institutions
monétaires internationales, c’est manifestement la démocratie libéraleou néolibérale”44, e non certo quello di conseguire finalità redistributive.
5. PERCHÉ LA GLOBAL GOVERNANCE
Dalla pace di Westfalia del 1648 le relazioni internazionali hanno fondato i propri mobili equilibri su uno dei pilastri basilari dello Stato
moderno, la sovranità, andando a costruire uno spazio costitutivamente anarchico entro il quale derive egoistiche e egemonizzanti trovassero un congruo bilanciamento in accordi pattizi ad adesione volontaristica per la composizione di questioni perlopiù militari e commerciali.
Da quell’ordine, in cui un’umanità politicamente frammentata doveva ricalibrare continuativamente le proprie posizioni per ristabilire
39
A. Pagden, op. cit., p. 11.
Ivi, p. 12.
41
Ivi, p. 17.
42
M. Doornobos, “Good Governance”: the Metamorphosis of a Policy Metaphor, in
«Journal of International Affairs», 2003, vol. 57, n. 1, p. 4.
43
Ivi, p. 6.
44
A. Pagden, op. cit., p. 16.
40
Dalia Galeotti
73
oscillanti equilibri di potere, si è snodato un percorso che ha fatto emergere quanto quell’ordine fosse difficile da mantenere senza dotarsi
di ulteriori autorevoli entità di coesione.
Dopo i fallimenti di un sistema internazionale, che ha visto deflagrare le ostilità a partire dal primo evento bellico ad estensione planetaria, l’evidente inefficacia della Società delle Nazioni e la costituzione di nuovi organi intergovernativi a partire dall’ONU, e parallelamente all’era del bipolarismo, si è andato evolvendo un sistema di anarchie organizzate, ambito delle relazioni internazionali, costituito
da soggetti statuali e non statuali. In esso la sovranità appare deterritorializzata, realizzandosi il passaggio da un mondo statocentrico
ad uno multicentrico, complesso, instabile, costruito su interconnessioni a rete. Questo, nell’attualizzazione della tradizione politica e filosofica occidentale, condensata nel motto e pluribus unum45, sembra
allora reclamare una ricomposizione in un tutto organico attraverso
una global governance, che, se formalmente risulta avvalersi di parametrazioni fortemente decentrate ad Ovest, non mostra ancora una
chiara definizione empirica, poiché, come già rilevato in precedenza, “
[…] la chiusura della logica normativa di un ordinamento nazionale
non può essere né traslata né mimata a livello globale, in assenza di
uno stato mondiale che costituzionalizzi la propria presenza […]”46.
In uno spazio in cui lo Stato-nazione vede diminuire la propria
presa sulla sfera politica e socio-economica, “transnazionali e stati ricchi-e-potenti stritolano in simbiosi convergente tanto le leggi di mercato, quanto le norme statali, inaugurando una politica di governance
delle risorse globali alla mercé del più forte […]”47, richiamando ancora una volta di più i dubbi in termini di legittimità e democrazia su
processi che sfuggono al controllo degli organi costituzionali degli
Stati nazionali e alla verifica della società civile. Tanto che, ritornando
al tema della good governance, appare chiaro come un organismo economico controllato da stati attitudinalmente egemonizzanti48sia in
grado di direzionare le scelte politiche interne di un Paese povero o in
via di sviluppo attraverso la scelta dei criteri in base ai quali erogare
45
Cfr. S. Vaccaro, Il dispositivo della Governance, in Palumbo-S. Vaccaro (a cura di) op.
cit., p. 144.
46
S. Vaccaro, op. cit., pp. 134-135.
47
Ivi, p. 137.
48
Il FMI e la BM furono istituiti in seguito alla depressione degli anni Trenta, i loro regolamenti previdero che l’Europa nominasse il direttore del FMI e il Presidente USA il direttore
della BM (Cfr. Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino, 2007, p.
18).
74
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
aiuti finanziari e operando attivamente nelle relazioni donor-recipient,
sia nell’approccio della conditionality che della selectivity49.
Tuttavia la questione della good governance, seppure tangente a
quella di una governance globale, rientra in un’altra categoria analitica
entro gli studi sulle relazioni internazionali, vale a dire nel multilateralismo, in cui l’ambito di indagine è circoscritto alle dinamiche agenti entro organizzazioni intergovernative, come nel caso degli incontri
dei vari G7, G8 o G20. Cosicché quanto più si sale di livello, tanto
meno risulta manifestarsi fattualmente un’applicazione per la quale si
possa parlare correttamente di global governance: “Governance
quickly became a household word, but as is often true of buzzword,
there has hardly been a consensus as to what it means, and even less
of an idea as how it could be applied more concretely”50.
6. COS’È O COSA DOVREBBE ESSERE LA GLOBAL GOVERNANCE?
Il dibattito internazionale dunque, al contrario di quanto accade per i
livelli locale e nazionale, in cui è possibile affrontare la governance
tramite la descrizione di processi in atto, è impegnato sul fronte della
formulazione di modelli che integrino una realtà politica economica e
sociale composita, differenziata e sfuggente, con modalità relazionali
fra attori diversi e plurali, che sviluppano capacità di autocoordinamento e di resistenza alla coartazione governativa, tanto da
interpretare le relazioni internazionali non come rapporti interstatali,
ma “[…] comme un processus de négociation/interaction entre intervenants hétérogènes”51.
E’ questo il caso del rapporto presentato nel 1995 dalla Commissione sulla Global Governance, nata per impulso di Willy Brandt
all’indomani della caduta del muro di Berlino, che definisce la governance come “la somme des différentes façons dont les individus et les
institutions, publics et privés, gèrent leurs affaires communes. C’est
un processus continu de coopération et d’accommodement entre des
intérêts divers et conflictuels. Elle inclut les institutions officielles et
les régimes dotés des pouvoirs exécutoires tout aussi bien que les arrangements informels sur lesquels les peuples et les institutions sont
tombés d’accord ou qu’ils perçoivent être leur intérêt”52.
49
Cfr. M. Doornobos, op. cit., pp. 3-17.
Ivi, p. 3.
51
M.C. Smouts, op. cit., p. 89.
52
The Commission on Global Governance, Our Global Neighbourhood, Oxford Universi50
Dalia Galeotti
75
Le Conferenze delle Nazioni Unite come quelle di Rio
sull’ambiente o di Pechino sui diritti delle donne, che hanno mobilitato migliaia di persone di diverse ideologie, culture e aspirazioni, sono
così da leggersi quali veicoli per un feedback continuo, capace di stilare un’agenda dei problemi da affrontare e dibattere in un’arena globale
ed in cui far confluire istanze convergenti o in contrapposizione, stabilendone priorità e proponendo risoluzioni condivise. La governance
presenta così la necessità di un’azione pubblica intersoggettiva e di
uno spazio pubblico ampio e sottende strumenti per la mobilitazione
internazionale ad opera di soggetti privati, terzo settore, mass-media e
organismi governativi che strutturino, nel rapporto con il pubblico, i
temi attorno ai quali attivare i processi di politica internazionale. Le
intese a livello globale sul clima o sui protocolli finalizzati a minimizzare la diffusione di specifiche malattie, chiama in causa una governance quale strumento flessibile e proteiforme di cooperazione e coordinamento, in cui non si rintracciano regole operative prefissate,
poiché rinegoziate da soggetti collocati in sottosistemi sociali frammentati in vista di una loro integrazione per la soluzione di questioni
cogenti.
La teoria della global governance, appare dibattersi ancor più dei
suoi omologhi operativi a livello inferiore, nelle maglie di una difficile
compenetrazione tra richiesta di flessibilità e strutture di regolazione,
che, in analogia alla funzione dello Stato entro la governance nazionale, fa evocare la creazione o il rafforzamento di organizzazioni intergovernative, quali ad esempio l’ ONU e l’insieme delle sue strutture
minori, ma sulla quale, d’altro canto, risulti arduo fare previsioni in
merito a concrete modalità di gestione poiché “costruita in modo diverso, contingente e continuo”53. Se a questo si aggiunge che ancor
più dell’ambiente interno il contesto internazionale risulta disomogeneo, fluido ed instabile, è inevitabile dunque che attendere la creazione di un nuovo ordine mondiale sia vano dato che le dinamiche attuali
puntano alla flessibilità e alla ridefinizione continua piuttosto che alla
cristallizzazione di modelli stabili.
L’esercizio creativo per la costruzione di un’organizzazione politica a livello planetario, che consideri le continue mutazioni di un ambiente attraversato da dinamiche con ricadute globali, non può prescindere dai contenuti espressi con il termine di globalizzazione e dalla distinzione che ne fa altro rispetto alla globalità. Se infatti
ty Press, 1995, pp. 2-3, cit. in M. C. Smouts, op. cit., p. 88.
53
M. Bevir , op. cit., p. 487.
76
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
quest’ultima non è che “[…] uno stato del mondo che sviluppa reti di
interdipendenza su distanze multicontinentali”54, rintracciabile frequentemente nella storia di un passato che racconta le imprese militari
di Alessandro Magno o l’espansione dell’Islamismo, la prima risulta
essere “quel processo attraverso cui la condizione globale diviene
sempre più densa”55, un fenomeno contemporaneo che conosce
l’intensificarsi e l’accelerarsi di rapporti fra soggetti, vecchi e nuovi, e
che hanno modificato i canoni consueti del proprio rapportarsi reciproco.
Dagli accordi di Bretton Woods nel 1944, non solo si è registrato
un fiorire di organizzazioni intergovernative, all’interno delle quali si
sono andate consolidando gerarchie tra attori statali, specchio delle
reali posizioni di potere militare ed economico, a detrimento di un uguale statuto di sovranità riconosciuto solo formalmente, e la cui partecipazione resta soggetta a condizioni di inclusione tali da farlo definire un sistema a clubs, ma anche la costituzione sempre più numerosa
di società transnazionali e organizzazioni non governative a carattere
globale, che conoscono propri processi di gerarchizzazione interna e
che entrano spesso in relazioni dirette e privilegiate reciproche o con
le IGO, estromettendo i governi nazionali o costringendoli ad accettare i propri codici, un regime di soft low che elude il controllo di organi
costituzionali ed espone le politiche nazionali all’azione di apparati
non rappresentativi.
Perché risulti possibile integrare l’azione, ma soprattutto gli interessi, spesso divergenti, di tutti gli attori in campo, poiché nella dimensione globale le ricadute di interventi agiti in campi diversi seguono l’ effetto dei processi causali a cascata, Keohane e Nye propongono “[…] pratiche di governance che migliorino il coordinamento e
creino valvole di sicurezza alle pressioni politiche e sociali, in coerenza con il mantenimento degli stati-nazione quali forme fondamentali
dell’organizzazione politica”56, in quanto strumenti irrinunciabili di
democrazia e legittimità, calando tali pratiche in strutture di governance definite come un “[…] minimalismo reticolare: reticolare perché la globalità si coglie meglio nella sua reticolarità e non nella sua
gerarchia; minimale perché la governance a livello globale sarà accettabile se non sostituirà la governance nazionale e se l’interferenza
54
R. O. Keohane/J. S. Nye Jr., Globalizzazione e Governance, in A. Palumbo- S. Vaccaro
(a cura di ), op. cit., p. 147.
55
Ivi, p. 152.
56
Ivi, p. 159.
Dalia Galeotti
77
nell’autonomia degli stati e delle comunità sarà chiaramente giustificata in termini di esiti cooperativi”57.
Proseguendo in un percorso propositivo su una governance globale, che spesso sembra delinearsi più per cosa non è, piuttosto che per
cosa potrebbe essere, è possibile rinvenire riflessioni che, focalizzandosi sui concetti di complessità e mutamento, la interpretano “[…]
come processo distinto da quel che fanno i governi”58, poiché “[…]
vista come un sistema di regole, come le attività finalizzate di una collettività che sorreggono i dispositivi preposti a garantirne sicurezza,
prosperità, coerenza, stabilità e continuità”59.
In queste analisi rintracciamo la necessità di quel salto paradigmatico auspicato da Mayntz nell’assunzione di non poter desumere un
governo mondiale per analogia domestica con lo Stato-nazione;
l’instabilità che caratterizza la dimensione globale si quantifica ad un
livello tanto superiore rispetto al piano nazionale, da costringere ad
accettare quei gradienti qualitativi, che sempre si associano a mutamenti quantitativi; seguendo Rosenau dunque, essendo l’autorità su
scala globale diffusa e disgregata in comunità transnazionali interagenti con un mondo statual-centrato, si realizza il costituirsi di “[…]
nuovo ordine mondiale, tanto decentrato da non lasciarsi ricondurre né
a gerarchie, né alla coordinazione sotto una leadership egemonica”60,
rispetto al quale lo Stato-nazione non riesca a ricoprire lo stesso ruolo
attribuitogli su scala interna, poiché inserito in un contesto altamente
instabile e fluido, terminale di continui feedback provenienti da attori
statuali e non, che richiamano continuativi processi di adattamento.
La parola-chiave è fragmegration, crasi di frammentazione e integrazione, evocativa di irrinunciabili processi di composizione tra locale e globale. Ma gli stretti legami di interdipendenza determinano equilibri così precari, soggetti al cosiddetto effetto farfalla, tanto da far
risultare le risposte codificate, non solo inefficaci, ma addirittura dannose.
In questa lettura la global governance non solo si presenta minima,
ma altresì carica di vaghezza in termini di concreti modelli applicativi,
ciononostante per come esposta può essere strumento di ulteriore ricerca nell’indicare “[…] se la dinamica di mutamento e complessità
57
Ibidem
J.N. Rosenau, Mutamento, complessità e governance nello spazio globale, in A. Palumbo-S. Vaccaro,(a cura di), op. cit., p. 187.
59
Ibidem.
60
Ivi, p. 188.
58
78
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
condurrà il mondo in traiettorie culminanti in livelli più alti di ordine,
oppure se alimenterà sacche di disordine ancor più grandi”61.
7. UN MONDO PERFETTO
Il sistema della governance internazionale, che si produce da parte di
attori sovrani e che si accresce negli ultimi 150 anni, sino
all’intensificazione del secondo dopoguerra, mostra, come già osservato, tutta la propria inadeguatezza nell’affrontare le sfide presentatesi
negli ultimi decenni, tanto da prodursi “una spinta verso una governance globale”62, per migliorare l’ordine mondiale e rispondere
all’impatto della rivoluzione tecnologica e l’uso di internet, alla globalizzazione e alla fine della guerra fredda.
Questa infatti non si sarebbe mostrata strumento appropriato rispetto alle sue funzioni di difesa, di garante della certezza giuridica, di
accesso da parte dei cittadini alla piena partecipazione politica, di redistribuzione della ricchezza, presentando deficit di carattere giurisdizionale, operativo, motivazionale e partecipativo, a causa di un sistema che pone al centro dell’attività interstatale attori che nei fatti non
possiedono più un ruolo prioritario entro i processi di governance, ovvero gli Stati-nazione.
A questo proposito Brühl e Rittberger63, dopo aver esemplificato
quelli che potrebbero essere plausibili assetti di governance globale,
vale a dire il coordinamento autoritario dall’alto di uno stato mondiale, il coordinamento gerarchico ma non autoritario (governance sotto
un ombrello egemonico) e l’auto-coordinamento orizzontale (governance senza governo mondiale), finiscono per sostenere la causa di
quest’ultimo modello, poiché ritenuto il più desiderabile in virtù di
una supposta maggiore capacità di dare risposta ai deficit visti sopra in
ragione dell’auspicata effettiva efficacia di istituzioni internazionali
come l’ONU.
Tale efficacia non deriverebbe dall’ “accentramento degli strumenti di forza fisica su scala globale”64, ma dalla consapevolezza che
un’accentuata interdipendenza, fonte di vulnerabilità reciproca, non
potrebbe che sfociare in un coordinamento orizzontale tra eguali. In-
61
Ivi, p. 210.
T. Brühl/V. Rittberger, Governance internazionale e governance globale, in A. Palumbo- S. Vaccaro (a cura di ), op. cit., p. 212.
63
Ivi, pp.211-244.
64
Ivi, p.236.
62
Dalia Galeotti
79
fatti, nel presupposto che attori razionali siano consapevoli che rompere un accordo produrrà un deficit di fiducia tale da danneggiare chi
sarà considerato quale partner inaffidabile, “[…] il coordinamento di
attività internazionali è compiuto da stati che convergono, per reciproco beneficio, intorno a norme e regole che guidano la loro condotta
futura creando dispositivi che rendano possibile la conformità verso
tali norme e regole[…]”65.
Per stessa ammissione degli autori però, non solo nessuno di questi
assetti è attualmente operativo, ma non esistono segnali che ad oggi
possano far presagire una loro futura realizzazione; rimanendo sul piano più aleatorio di un semplice auspicio, si prospetta una migliore
capacità politica delle Nazioni Unite in modo da contribuire ad una
governance globale che possa evolvere come “[…] una trama mista di
elementi eterogenei provenienti sia da una governance sotto l’ombrello
di uno stato egemone (per le questioni sicuritarie), sia da una governance senza governo mondiale (nei regimi internazionali)”66.
Risulta del tutto evidente che, nell’attesa di un nuovo ordine mondiale, sia irrinunciabile la posizione centrale assunta dallo Stato
nell’integrare la politica nazionale con il piano internazionale. Tuttavia, nonostante le difficoltà che la letteratura incontra nella modellizzazione di un dispositivo di governance globale da tradursi concretamente nella realtà, appare necessario trovare un’alternativa alla governance internazionale. Lo richiede il costituirsi di relazioni tra i nuovi
blocchi regionali, come Stati Uniti, Unione Europea, Cina o gli stati
del Mercosur, non più attraverso i canali convenzionali delle relazioni
internazionali, ma includendo la partecipazione degli attori non statali;
lo richiede un’ appropriata risposta di politica economica, se a partire
dagli anni settanta “[…] le FMI et la Banque mondiale n’ont pas été
utiles dans la prévention des crises monétaire et financières […]”67e se
la crisi, che da circa due anni sta coinvolgendo e travolgendo le dimensioni finanziaria e economica globali, sembra essere l’empirica
dimostrazione che i fallimenti del neoliberalismo necessitino di una
coordinazione strategica a livello globale, che veda il coinvolgimento
di tutti gli attori interessati; lo richiedono infine i problemi legati alla
sicurezza, alla diffusione di networks illegali globalizzati come le mafie e il terrorismo internazionale, la mancanza in molte aree del piane-
65
Ibidem.
Ivi, p. 237.
67
P. de Senarclens, Gouvernance et crise des mécanismes de régulation internationale, in
« Revue internationale des sciences sociales », n. 155, 1998, p.106.
66
80
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
ta del rispetto dei diritti umani, o l’impossibilità della loro fruizione a
causa dell’estrema povertà di molti paesi del sud del mondo, ed i massicci fenomeni migratori legati ad un deficit redistributivo che reclama
progetti di cooperazione interstatale e solidarietà.
La fine della guerra fredda aveva fatto sorgere la speranza che le
Nazioni Unite avrebbero potuto giocare un ruolo centrale nella sfera
economica e sociopolitica mondiale, ma le gerarchie di potere operanti
in esse, una volta disintegrato l’impero sovietico, hanno fatto prevalere gli interessi strategici dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza68. D’altra parte una teoria della governance globale intesa come
l’interazione funzionale coordinata e cooperativa di attori eterogenei
in una cornice di autoregolazione orizzontale, ha decretato una“valorisation naïve des acteurs non étatiques”69, poiché imprese
multinazionali, ONG ed organizzazioni internazionali, nel perseguire i
rispettivi obiettivi, non sfuggono all’influenza degli Stati che maggiormente contano in ambito internazionale, cosicchè “il convient aussi de souligner que les principes qu’elles défendent, les normes
qu’elles propagent, les projects qu’elles poursuivent ne peuvent pas
être appréhendés en faisant astraction des intérêts des grandes puissances”70.
Il villaggio globale non si presenta allora come la realizzazione di
un’utopia in cui “[…] les habitants seraient tous voisins grâce aux réseaux d’échanges et à la convergence des modes de vie ”71, se i centri
finanziari rimangono città come New York o Tokyo e le aree di povertà divengono sempre più vaste e le fratture sempre più profonde. La
governance globale sembra così soffrire sia per l’esistenza di Stati deboli, sia per le mancanze di meccanismi di regolazione a livello regionale o internazionale, nella misura in cui l’ONU, le organizzazioni di
Bretton Woods e le istituzioni per la cooperazione regionale non riescono a dare luogo ai propri mandati in materia di sicurezza, mantenimento della pace e sviluppo economico e sociale.
68
Ne sono esempi la guerra del Golfo, la guerra nell’ex Yugoslavia ed il mancato rispetto
della Carta in concomitanza della politica verso Israele ( Cfr. P. de Senarclens, op. cit., pp. 95108).
69
P. de Senarclens, op. cit. p. 102.
70
Ivi, p. 103.
71
Ivi, p. 105.
Dalia Galeotti
81
8. GOVERNANCE: IL PROBLEMATICO CONNUBIO TRA ECONOMIA E POLITICA
Nel corso di un’esposizione necessariamente incompleta vista la vastità della letteratura in materia, sono emersi tuttavia i nodi problematici
a fondamento delle forti perplessità che i sistemi di governance politica generano, poiché si è costretti ad affrontare l’improbabile integrazione di concetti più aderenti alla dimensione economica, come efficacia, efficienza, tecnocrazia e anarchia (del libero scambio), con le categorie politiche di legittimità, responsabilità, sovranità e democrazia.
Se, come già rilevato, “chronologiquement la gouvernance
d’entreprise apparaît la première, dès la fin des années 1930”72, esiste
una difficoltà nel conciliare i contenuti di un’espressione ri-nata concettualmente come economica con la regolazione di rapporti di natura
politica, tanto che, a fronte di domande, come “quel modèle politique
est sous-jacent au concept apolitique de Gouvernance?”73, dalla formalizzazione di una good governance elaborata dalla BM, emerge una
visione dello Stato al servizio dell’economia neoliberale. Questi, alienando da sé le funzioni di riproduzione e coesione sociale e redistributiva, si trova a ricoprire il ruolo di gestire i beni comuni in modo tale
che l’impresa privata possa trasformare i cittadini, soggetti di diritto,
in consumatori/utenti, tanto che, rappresentandosi “avant tout comme
lieu de gestion des ressources […] et non pas comme lieu d’accès au
pouvoir et aux processus de décision collective en vu d’élaborer un
projet de société[…]”74, la dimensione politica finisce per subire un
restringimento75 vissuto con inquietudine, quando ciò produca dubbi
in materia di tutela dei diritti civili, politici e sociali.
72
G. Hermet, Un Régime a pluralisme limité ? À propos de la gouvernance démocratique,
in «Revue française de science politique», vol. 54, n. 1, février 2004, p. 163.
73
B. Campbell, Gouvernance : un concept apolitique ? , in www.ieim.uqam.ca, 2000, p. 1.
74
Ivi, p. 33.
75
In letteratura è possibile rinvenire frequentemente il riferimento al fatto che il concetto di
governance sia transitato dall’ambito economico a quello politico, mantenendo le proprie
caratteristiche costituzionali, ed anzi in virtù proprio di queste, come A. Kazancigil sostiene
quando afferma che la sua genealogia “ […]relie sa renaissance contemporaine à la gouvernance d’entreprise (corporate governance) sous l’influence des traveaux sur la théorie des
coûts de transactions de Ronald Coase[…]” così da essere “[…]génétiquement programmée
en tant que mode de gestion reflétant la logique de l’économie capitaliste”. L’autore dunque
prosegue affermando che, partecipando non della logica politica, ma di quella economica,
esso possieda una nature apolitica. ( A. Kazancigil, La Gouvernance et la Souveraineté de
l’État, contribution au sèminaire des 12/13 juin 2003 sur la gouvernance, MexicoUNESCO/CERI/Colegio de México, su www.ceri-sciences-po.org, pp. 4-5).
82
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
9. DEMOCRAZIA E RUOLO DELLO STATO-NAZIONE
Secondo Hermet, in fatto di pluralismo, la governance appare ammantarsi fraudolentemente di una nobile quanto superficiale attribuzione
di democraticità in virtù del coinvolgimento entro i suoi processi di
un’ampia pluralità di soggetti, appartenenti ad un eterogeneo complesso di settori. Questo fraintendimento di un termine in cui si richiama il
potere del demos agito attraverso un atto sovrano in cui il popolo delega, nelle democrazie liberali, ad un’assemblea rappresentativa la
propria sovranità, attraverso elezioni basate su pluripartitismo e voto
uguale, ma sempre nel diritto di richiamarla qualora il mandato non
venga correttamente atteso, porta, in un approccio critico ai sistemi di
governance, ad osservare come sempre più il nome di democrazia diventi strumento di conservazione del potere76.
Così se l’introduzione del suffragio universale maschile non ha necessariamente scardinato precedenti posizioni di dominio, potendosi
manipolare ed indirizzare il favore dell’elettorato, se lo StatoProvvidenza di genesi bismarckiana ha rafforzato la legittimazione
dell’azione pubblica grazie al welfare-system, l’attuale contrazione
dello Stato-sociale supplisce alla crisi di legittimazione attraverso
l’attribuzione di un’intrinseca democraticità ad una modalità di esercizio del potere, che contrariamente a quanto propagandato, tende a restringere la sovranità popolare, rendendola sempre più un’ ascrizione
simbolica attraverso “[…] un procédé en vertu duquel des acteurs dominants ou en passe de le devenir ont constamment esquivé de diverses manières le risque d’une participation durable à l’exercice de
l’autorité de ceux des acteurs concurrents qu’ils n’étaient pas disposés
à coopter, par exemple, ceux qui envisageaient une expression moins
strictement symbolique de la souveraineté populaire”77.
La governance democratica, nella possibilità di venire associata
alla democrazia rappresentativa, non sarebbe altro che strumento per il
mantenimento delle proprie rendite da parte di interessi forti e meglio
organizzati. Conseguentemente in un contesto entro il quale la gestione del potere pubblico perde sacralità e forza simbolica, sottomettendosi alla rapida risoluzione del contingente e sottraendosi al ruolo di
progettare il futuro, essa “[…] a pour fonction de conserver ce qui existe, non d’assurer l’avènement des nouveautés capables de combler les
76
77
Cfr. G. Hermet, op. cit, pp.159-178.
Ivi, p. 160.
Dalia Galeotti
83
aspirations ou les rêves des masses”78, mentre la supposta prerogativa
di attivazione della società civile, si mostra piuttosto come “un mècanisme d’accaparement des sites de l’autoritè par des minorités cooptées”79. In questa analisi quindi la governance, nel tentativo di rinforzare un pluralismo che migliori qualitativamente le procedure di
un’azione politica post-étatique, tuttavia lo alleggerisce sbarazzandosi
degli elementi considerati nocivi all’efficacia.
Infine Hermet, nell’accostare la governance ai regimi di democrazia organica di Franco e Pinochet in quanto sistema a pluralismo limitato, ne riconosce le analogie anche entro i canali di legittimazione,
che non passano dall’input democratico del mandato elettorale, ma
dall’output dei risultati economici, cosicché “[…] pour les dirigeants
autoritaires des années 1960-1980, le rejet réputé plus ou moins provisoire de la démocratie se justifiait au nom de la bonne cause du développement, tandis que les procédures actuelle de négociation sans témoins entre partenaires cooptés se font maintenant sous le couvert de
la «bonne gouvernance»”80.
Allora, in un dibattito che vede i sistemi di governance scivolare
pericolosamente verso derive oligarchiche a beneficio degli attori economici, anche e soprattutto nella prospettiva di una governance globale ancora lontana, l’attenzione non può che ricondursi alla figura dello
Stato-nazione e alla sua centralità nel rafforzamento dei processi democratici, la sofferenza dei quali è da collegarsi sovente a quelle attività che ne minano la sovranità e quindi la legittimità dell’operato
pubblico. Procedono in questa direzione le parole di Stiglitz, il quale,
affrontando il tema del contributo che l’Occidente può dare ai paesi in
via di sviluppo nel sostenerne la governance democratica, asserisce
quanto sia contraddittorio comprometterne la democrazia, quando “in
ogni paese, si spiega ai cittadini l’importanza della democrazia, ma
non appena hanno afferrato il concetto, viene detto loro che la cosa a
cui tengono di più, vale a dire i risultati globali dell’economia che determinano la crescita dell’occupazione e dell’inflazione, è troppo importante per poterla lasciare nelle mani di processi politici democratici”81.
Ma gli attentati alla sovranità statuale non provengono solo dagli
organismi di Bretton-Woods e dalle loro politiche economiche neo-
78
Ivi, p. 170.
Ivi, pp. 172-173.
80
Ivi, p. 176.
81
J. E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino, 2006, p. 59.
79
84
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
liberiste, emanazione dei governi statunitense e britannico a partire
dagli anni ’80, poiché, anche in conseguenza di tali politiche, che hanno determinato la difficoltà degli stati nazionali ad assicurare servizi
essenziali come sanità e istruzione, si è verificata un’attivazione pervasiva di organizzazioni non governative, che, decidendo di intrattenere rapporti privilegiati con la società civile in nome di un suo empowerment che contrastasse corruzione e riduzione dello Stato-sociale,
di fatto hanno rinforzato l’idea che Stato e società siano entità in antitesi e che alla forza della seconda corrisponda necessariamente la debolezza del primo82. Contrapporre governance e stato democratico non
solo svilisce i processi di democratizzazione in quei paesi in cui l’ autoritarismo si è alternato a democrazie populiste, ma anche il concetto
di democrazia tout court83. Il pericolo è quello di un disincantamento
nei confronti di un sistema di partecipazione politica che non può dirsi
aver trovato ancora adeguato sostituto in processi in cui i bersagli delle politiche non siano anche agenti di governance, cosìcché “[…] il a
peu de chance de démocratiser cette gouvernance en la rapprochant de
population ainsi faussement représentés par des porte-parole autoproclamés[…]”84. Infatti, quantunque guidato da buone intenzioni, un intervento che prescinde dallo Stato e da quell’unità e coerenza d’azione
che lo qualificano, appoggiandosi a reti che rappresentino interessi
particolari, accresce il frazionamento della società civile, tanto da aggravare spesso i problemi che vorrebbe sanare. Ma non solo, una nozione di governance che enfatizzi relazioni di cooperazione e fiducia
presenta sotto una prospettiva ingannevole la nozione di democrazia,
poiché privata di un aspetto che le è implicito, cioè “le caractère inévitable et même salubre des situations de conflit”85, che diviene “tissu
82
Su questa linea procede il filo delle riflessioni di C. Hewitt de Alcantára quando, a proposito delle teorie dello sviluppo più vicine all’ortodossia liberale, sottolinea che la società
civile sia stata utilizzata come un concetto che tende ad indebolire, piuttosto che irrobustire, i
processi di democratizzazione, in quei casi in cui “[…] on oppose indûment, dans une dichotomie fausse, le « peuple » à l’ « Etat »”, come se una società civile forte necessitasse di uno
Stato debole, rischiando di offuscare un concetto di responsabilità civica fondato sul dominio
pubblico e il bene comune. Se in condizioni di particolare urgenza ed emergenza umanitaria,
la società civile si attiva in via sussidiaria allo Stato, prosegue l’autrice, questo risponde a necessità e non a virtù, mentre d’altra parte, laddove conflitti particolarmente cruenti abbiano
destrutturato la società civile, questa ha potuto essere ricostruita a partire dalla ricostruzione
dello Stato ( C. Hewitt de Alcantára, op. cit., p. 114).
83
Cfr. G. Hermet, Gouvernance sans doute, mais pas contre l’État démocratique, Unesco
seminar «democracy and world governance in the 21st century », Porto Alegre (Brazil), January 2001, su www.unesco.org, pp. 1-12.
84
G. Hermet, op. cit., p. 6.
85
Ivi, p. 9.
Dalia Galeotti
85
conjonctif de la démocratie”86, poiché il cambiamento inevitabilmente
finisce per confrontarsi con posizioni contrapposte. Allora, siano nazionali o globale i livelli di governance, è con lo Stato e non contro o
senza lo Stato che possono compiersi i processi democratici, in quanto
sembra questo, ad oggi, essere l’unico attore in grado di conciliare posizioni contrapposte: ricorrendo alla nozione di sovranità delegata,
l’esercizio della democrazia legittima l’azione statale in quanto perseguimento del bene pubblico e consente l’integrazione, entro il tessuto
sociale, di tutte le forze in campo.
Ma allora, riprendendo la relazione antitetica tra dispositivi di natura economica e rapporti agenti entro la dimensione politica, la domanda è se e in quale misura risulti coerente con la liberal-democrazia
gestire una realtà socioeconomica complessa, che richiede processi
duttili e continuamente rimodellabili, attraverso uno strumento nondemocratico, attivato anche da attori non sovrani e che trova legittimazione negli outputs, vale a dire in risultati valutati efficaci ed efficienti non da una verifica aperta al pubblico, ma collocata nella disponibilità di contesti chiusi, non rappresentativi, settoriali e tecnocratici.
Democrazia e tecnocrazia non sono concetti mutualmente scambiabili, tanto che i programmi di aggiustamento strutturale e di liberalizzazione dei mercati in funzione della riduzione della spesa pubblica
e del contestuale ampliamento del settore privato nella fornitura di beni e servizi per ottimizzarne il rapporto costi/benefici, hanno prodotto
peggioramento nelle condizioni di vita di tutti coloro che, perso il lavoro o depauperate le proprie rendite, non hanno potuto acquistare
quei beni pubblici che nel frattempo erano stati immessi sul mercato
privato, con un aggravio dei costi sociali che non riguarda solo il sud
del mondo, ma anche le fasce sociali deboli dei paesi industrializzati,
poiché “quando la rapidità della liberalizzazione del commercio fa
aumentare la disoccupazione, difficilmente si possono concretizzare i
vantaggi promessi dalla liberalizzazione stessa […]. Chi non perde il
lavoro, spesso è costretto ad accettare una riduzione del salario. I datori di lavoro convincono gli operai non qualificati spiegando loro che la
riduzione delle indennità e l’indebolimento delle tutele sono necessari
per contrastare la concorrenza; il rischio, altrimenti è quello di dover
de localizzare la produzione”.87
Ciò nonostante “[…] des vessies de la gouvernance technocratique
86
87
Ivi, p. 10.
J. E. Stiglitz, op. cit., p. 72.
86
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
sont-elles prises pour des lanternes de la démocratie avancée”88, trascurando che le pubbliche amministrazioni debbono rappresentare e
perseguire gli interessi della collettività nel suo insieme e che in un
contesto democratico non è ammissibile che alcuni attori siano più
uguali di altri.
Da quanto esposto sembra derivare che l’integrazione tra una governance tecnocratica, irrinunciabile per un ambiente altamente instabile e diversificato, possa collocarsi entro la dimensione politica solo
conciliandosi con una democrazia rappresentativa poggiata sulla sovranità di un governo pubblico. Ma sovradimensionandosi al livello
globale tale conciliazione risulta nei fatti più problematica, esistendo
dei rapporti di forza tali da costituire gerarchizzazioni de facto che vedono da un lato attori che godono di una piena sovranità solo dal punto di vista formale e dall’altro potenze economiche e militari esercitare
un potere egemone che si traduce in tentativi di governance globale
fortemente deficitari in fatto di democrazia, legittimazione, responsabilità politica e trasparenza.
10. DEFICIT DI ACCOUNTABILITY
Il punto nodale in tal senso risiede ancora una volta nella summenzionata esigenza di rendere complementari, per sopperire ad esigenze di governabilità, sfera economica e sfera politica, attraverso un difficile compendio tra il dispositivo della governance e percorsi di democrazia.
Infatti, se entro uno Stato democratico sono vigenti norme che, ripartendo ruoli e funzioni, attribuiscono contestualmente responsabilità
politiche e operative, garantendo altresì il controllo reciproco dei pubblici poteri e la formale trasparenza dell’iter procedurale, trasparenza
che legittima l’atto sovrano a sostegno della supposta impersonalità di
un’azione agita a beneficio della collettività89, la fissità e la saldezza
monolitica del sistema statale entrano in una sorta di cortocircuito
funzionale, quando la complessità richiede mobilità e capacità di adattamento, cui appaia dare risposte adeguate soltanto una modalità di
governo basata sulla contingenza e sulla continua riformulazione strategica, ad opera di apparati autoreferenziali e ad elevato livello di
chiusura, che rischiano tuttavia un pericoloso slittamento nella dimen88
A. Kazancigil, op. cit., p. 5.
De Senarclens denota questo quando sostiene che, nonostante i governi siano inseriti in
reti di cooperazione esterne ad essi, il fatto non intacca “[…] la perception que leurs citoyens
ont de leur souveraineté, ou de leur légitimité”( P. de Senarclens, op. cit., p. 106).
89
Dalia Galeotti
87
sione a-democratica dell’arbitrio90.
A supporto di questa prospettiva si possono citare, fra gli altri, gli
studi di Zürn 91. Questi sostiene che le crisi economiche, generatesi a
partire dal 1870, hanno prodotto politiche protezionistiche rivelatesi
tragicamente fallimentari in quanto sfociate nei conflitti bellici del
primo ‘900. L’alternativa è stata così rinvenuta in quello che l’autore
definisce liberalismo contenuto: un’apertura dei mercati che trova
compensazione ai fallimenti del liberalismo nel welfare-system e che
si concretizza in accordi multilaterali, entro organizzazioni intergovernative, sempre più numerosi, tanto da necessitare, a causa di un approccio settorializzato sempre più intenso all’agenda internazionale, la
nascita di elementi sovranazionali, come “1. corpi quasi-giudiziari di
risoluzione dei conflitti; 2. corpi indipendenti di monitoraggio; 3. agenzie internazionali di raccolta e diffusione di conoscenze”92. Questi
hanno centrato quali bersagli dei rispettivi mandati istituzionali, non
solo i governi, di cui sono emanazione, ma inevitabilmente anche la
società civile, che in nome dell’efficace perseguimento degli obiettivi,
ha vissuto come un’ingerenza non legittimata entro il proprio tessuto
connettivo le scelte assunte dai governi in contesti chiusi al controllo
parlamentare. Ne sono esemplificazioni casi come quello della green
room del WTO, che hanno portato “[…] a riflettere sugli elementi di
legittimità e di efficacia di un ordine politico al di là dei confini statuali”93e ai conseguenti “problemi di accettazione e di opposizione alla
governance globale”94.
A conclusione delle proprie analisi Zürn dunque sostiene che la
de-nazionalizzazione della politica, una volta divenuta riflessiva
nell’assunzione da parte della società civile della piena consapevolezza di tale processo, si ripoliticizza quando un’accentuata resistenza
verso questo stesso processo di de-nazionalizzazione denunci la richiesta di nuova legittimazione delle istituzioni internazionali. Di fatto
rintraccia crisi di consenso e di efficacia verso il sistema del multilate90
In tal senso l’opacità degli accordi presi tra partners coinvolti in prospettive di good governance è sottolineata dalle parole di C. Hewitt de Alcántara, che in materia di decisioni di
politica economica verso i paesi beneficiari, scrive che queste “continuaient souvent d’être
prises en secret, hors de tout débat public, par des responsables du ministère de l’Economie,
en consultation avec la communauté financière International”, grazie a procedure sostanzialmente autoritarie ( C. Hewitt de Alcántara, op. cit., p. 112).
91
Cfr. M. Zürn, Governance globale e problemi di legittimità, in A. Palumbo-S. Vaccaro
(a cura di), op. cit., pp. 245-265.
92
Ivi, p. 255
93
Ivi, p. 256.
94
Ivi, p. 245.
88
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
ralismo in eventi come le proteste di Seattle 1999 o Genova 2001, o
nei referendum con esito negativo sulla politica statale pro-europea di
Norvegia, Danimarca e Irlanda, che richiamano le istanze populiste e
localiste di schieramenti di destra, come quelli di Le Pen o di Haider;
crisi che potrebbero risolversi solo tramite una copertura mediatica
tale da consentire il superamento dei dubbi in ordine a trasparenza e
responsabilità politica. Pur tuttavia il consenso sociale troverebbe realizzazione “[…] solo in presenza di condizioni socio-culturali giuste,
cioè in presenza di un senso di comunità politica e di una base comune
di comunicazione, che sono ancora assenti ad ogni livello al di fuori
dei confini statali”95.
Allora, come si rinviene anche nelle riflessioni di Kazancigil96, “il
dispositivo della governance […] disgiunge il meccanismo di autorizzazione che innesca la catena, non solo di trasmissione legale, ma anche di significazione legittima, del potere nei confronti del demos sovrano”97, poiché la delega agita da attori non rappresentativi “fa implodere la trasparenza dei canali di legittimazione”98 e consente
l’arbitrio a chi meglio posizionato entro i circuiti di governance. Invero, se per analogia domestica con i dispositivi di governo, si volesse
individuare in quelli presenza di accountability e dunque legittimità,
dovrebbero richiamarsi cinque fonti di responsabilità afferenti a trasparenza e controllo pubblico, vale a dire “[…]la procedura elettorale,
la linea gerarchica, il procedimento giudiziario o quasi-giudiziario, il
credito fiduciario, il controllo di mercato”99. Ma in ambito di governance globale tale analogia non risulta applicabile poiché, considerando anche le sole prime due fonti citate, è evidente che, a questo livello,
per quel che concerne il primo caso, si incorre in un deficit da territorializzazione limitata, mentre la linea gerarchica presenta discontinuità
nella sequenza piramidale per gli stessi motivi.
Perché dunque sia raggiungibile un consenso che permetta
l’effettività degli assetti di governance la letteratura in materia prospetta ipotesi quali una loro costituzionalizzazione che obblighi al rispetto di un patto globale, o perchè si riconoscerebbe una comunità
95
Ivi, p. 265.
L’autore auspica infatti, perché la governance possa includere la nozione di legittimità,
una maggiore trasparenza e la comparsa al suo interno di un concetto, che le è ancora costituzionalmente estraneo, ma che è sostanziale nell’evitare l’arbitrarietà, l’accountability. ( Cfr. A.
Kazancigil, op. cit., pp. 1-11).
97
S. Vaccaro, op. cit., p. 137.
98
Ibidem.
99
Ivi, p. 138.
96
Dalia Galeotti
89
politica globale minima e sussidiaria allo Stato-nazione in quegli ambiti da questi inarrivabili, o perché tale patto sarebbe integrato in una
democrazia cosmopolitica, resa possibile dal “[…]presupposto, peraltro opinabile de facto e de iure, di legami societari esistenti dai quali
ricavare la trama della ragion pubblica che offra sia consenso, sia fonte di autorità legittima agli organi di governance[…]”100. Oppure si
dovrebbe prevedere una proceduralizzazione del pluralismo de facto
grazie ad una regolamentazione formale delle “[…] condotte degli attori secondo un equilibrio di pesi e contrappesi che lasci impregiudicata la scelta virtuale delle politiche di governance”101. Infine una democrazia pluralistica deliberativa trans-nazionale potrebbe servirsi dei
dispositivi di governance nell’assenza di un governo mondiale. Ma in
tal caso il probabile sotteso conflitto tra le forze sociali per accedere al
tavolo delle trattative, finirebbe per sfociare nel compromesso più favorevole ai soli presenti. Infine potrebbero porsi in essere strategie di
input legitimacy, con l’individuazione di attori legittimati, e di output
legitimacy, collegate ai risultati dell’azione. Ma, nel primo caso, assumere la rappresentatività di attori non statali, individuabili anche in
una cattiva società civile, “significa inquadrare la questione della legittimità sotto una visuale post-politica”102, mentre nel secondo, una
legittimazione legata alle performances, potrebbe offuscare le effettive
dinamiche tra le forze coinvolte ricorrendo alle best practices e ai better arguments e riproponendo su scala globale la spoliticizzazione delle società nazionali.
Appare evidente che, ogniqualvolta venga proposta una soluzione
politica ai rischi associati in particolar modo alla governance globale,
non sia possibile sottrarsi agevolmente alle questioni connesse ad una
delega di potere effettivamente democratica. Cosicché, anche in prospettiva planetaria, ritorna quale figura irrinunciabile quella dello Stato-nazione, che pur privato di alcune sue prerogative, grazie a capacità
autoconservative derivanti da abilità nel modificarsi adattandosi ad un
ambiente mutevole, risulta possedere l’attitudine ad assumerne di
nuove, mutando gli strumenti della propria sovranità. La complessità
degli argomenti fin qui analizzati infatti chiede di rilevare quanto una
stratificazione istituzionale, che vada dal locale al globale, non possa
prescindergli e consente di convergere sull’affermazione per cui “[…]
there is a pressing need to create and organize institutions capable of
100
Ivi, pp. 139-140.
Ivi, p. 140.
102
Ivi, p. 141.
101
90
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
coping with newly-born and urgent problems of increasing complexity, but only on the condition that any supra-national institution could
not leave aside the national organisms that gave birth to it”103.
Ebbene, nelle analisi di Peters104, già precedentemente menzionate,
si chiarisce quali siano quegli schemi operativi che, pur mantenendosi
fermo il deficit di rappresentanza, consentono proprio alle burocrazie
pubbliche, a scapito del privato sociale, di proporsi come saldi timonieri nell’azione di guida delle politiche attraverso inquietanti meccanismi di regia occulta, nell’affrontare crisi di governabilità con intenzionali manovre legate a incentivi fiscali ed a processi di decentramento.
Associando alla governance politica i contesti complessi e poco
definiti delle anarchie organizzate, constata rinvenirsi nella prima la
presenza degli aspetti caratterizzanti le seconde, vale a dire preferenze
problematiche, tecnologia incerta e partecipazione fluida. Ma il disordine di sistemi, solo apparentemente irrazionali, cela il fatto che
“[…]sotto tale modello decisionale non strutturato e caotico esiste una
capacità decisionale alquanto determinata”105, tanto da “[…]oscurare
in modo effettivo il modo in cui il potere viene esercitato e l’abilità
che hanno un numero limitato di attori di spingere in una determinata
direzione”106. Peters sostiene dunque che nei fatti sono le burocrazie,
abituate a pensare in termini di policies e capaci di formulare priorità
in modo appropriato, ad influenzare l’orientamento dell’agenda politica, in virtù di un potere che, svincolato da procedure rigide, in contesti destrutturati e non gerarchici, declina le procedure di negoziazione
tipiche della governance, in meccanismi che, lungi dall’essere neutrali, finiscono per favorire chi abbia più potere e chi detenga il controllo
delle informazioni, e conclude che “se i processi di governo sono in
grado di imporre alla società civile un insieme coerente di priorità,
questo si deve al fatto che la governance non ha affatto ridotto il ruolo
del potere e dell’autorità ma li ha semplicemente ridefiniti”107.
103
A. Borghini, Governance and Nation-State, in A. Gobbicchi, (a cura di), Globalization,
Armed Conflicts and Security, Rubbettino Editore, S. Mannelli, 2004, p. 54.
104
Cfr. G. Peters, op. cit., pp.35-54.
105
Ivi, p. 51.
106
Ibidem
107
Ivi, p. 54.
Dalia Galeotti
91
11. NUOVE PROSPETTIVE CRITICHE
Recenti percorsi di indagine sulla governance, che si allontanano da
prospettive puramente descrittive o normative, ma le cui analisi si attestano fondamentalmente su posizioni critiche in termini di potere e
di autorità, propongono elaborazioni teoriche, per le quali, introdotto il
concetto foucaultiano di governamentalità, la governance risulta interpretata come una forma storicamente data di governamentalizzazione dello Stato, all'interno dell'ideologia liberale, quale strumento di
gestione del potere strategicamente orientata108.
Se con il concetto di governamentalità Foucault indica l'evoluzione di quelle dinamiche entro i poteri della dimensione politica moderna, che, evolvendo nelle diverse fasi storiche, assumono una trama
"[…]mutevole perché storicamente determinata, non omogenea, discontinua che incrocia elementi multipli, poiché ciò che qualifica una
determinata governamentalità è la dominante, il sistema di correlazione tra i diversi meccanismi"109, allora la governance può venir letta
come ultima tappa di un discorso sull'arte del governo, iniziato dalla
ragion di Stato, con cui quest’ultimo “[…] si dota di principi razionali
e di un bagaglio di saperi orientati a garantirne la conservazione, sia in
rapporto ai mutevoli equilibri internazionali, sia favorendo lo scambio
tra governanti e governati”110; una conservazione possibile perché i
saperi governamentali, sviluppando gli elementi costitutivi della vita
degli individui, sviluppano la potenza dello Stato stesso.
Inoltre l’analogia, che consente di associare la governance ad una
particolare forma di arte governamentale, ne evidenzia l’emergere in
un quadro neo-liberale, entro processi di rispazializzazione politica
economica e sociale e nell'ambito di un'accentuata proliferazione di
centri di potere, basati sempre più sull'affermazione di competenze
settoriali, anche in virtù del fatto che Foucault pone la comparsa della
governamentalità in funzione dell'esigenza di guidare e coordinare un
potere sempre più diffuso entro la società civile, allorquando la stabilizzazione dei confini territoriali e la disgiunzione dell'azione politica
da quella economica, nel quadro di forti rivendicazioni delle soggettività individuali, richiedeva la rimodulazione del nesso sovrano, costi108
Cfr. S. Vaccaro, Governance e governamentalità, maggio 2007, pp. 1-9, su
www.universitaetica.net.
109
A. Arienzo, Governo, governamentalità, governance: riflessioni sul neo-liberalismo
contemporaneo, in A. Vinale (a cura di), Biopolitica e Democrazia, Milano, Mimesis, 2007,
p. 257.
110
Ivi, p. 258.
92
The Lab’s Quarterly, 4, 2010
tuito da popolo e risorse entro uno spazio delimitato, tramite l’utilizzo
di saperi informati, nell’alba della modernità, alla logica economica
del mercantilismo.
Allora la governance potrebbe interpretarsi come quell’abilità che
il potere statuale avrebbe acquisito per consolidare una posizione
preminente nella gestione della complessità, ma “[…]se la rete governamentale dei poteri assume un assetto pieno e auto-sufficiente, essa
non necessita più dello Stato come strumento di conferma, sostenimento e moltiplicazione del governo. Il governo, allora, potrebbe fare
a meno dello Stato e trasformarsi in governance” 111, avvalorando
quegli assunti teorici che pongono governance e government quali
concetti antitetici e disgiuntivi.
In ogni caso il dibattito sulla governance conosce una nuova rimodulazione quando reintroduce e contamina questioni legate a governabilità, potere, legittimità o tecnocrazia con categorie come quella di
biopolitica. Infatti ciò consente di ripensare i dubbi in fatto di governance democratica sotto una luce che permetta di rileggerne i processi
come forme contestualizzate di un’arte governamentale, o biopolitica
appunto, in quanto “[…]sforzo teorico per racchiudere una strategia
concettuale, in cui la vita singolare e la vita come specie,[…], si ricongiungono in un dispositivo intelligibile che trova nella popolazione
[...] il punto di convergenza che diviene oggetto di governo”112 e che
sottende “[…] numerosi e poliedrici dispositivi di sicurezza che intendono preservare la vita dal rischio della propria finitudine, ma con ciò
stesso incanalandola in un'operosità coatta a servizio delle forze sovrane”113.
Così, se l’espressione di governamentalità definisce un “insieme di
istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell'economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo
strumento tecnico essenziale”114, e se rimanda, così come la governance, a “[…]processi ampi di guida (steering) delle condotte tanto
individuali, quanto collettive[…]”115, emergendo entrambe in simbiosi
con il liberalismo, con l’emancipazione sempre più aggressiva delle
111
Ivi, p. 262.
S. Vaccaro, op. cit., p. 1.
113
Ibidem
114
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-78),
Feltrinelli, Milano, 2005, p. 88, cit. in S. Vaccaro, op. cit., p. 3.
115
S. Vaccaro, op. cit., p. 3.
112
Dalia Galeotti
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forze non sovrane del mercato dal potere statuale, allora è ammissibile
trattare la governance come una pratica storicamente data di governamentalità, operante, entro la logica economica neo-liberale, attraverso
i saperi governamentali di consulenti ed esperti, e capace di dissimulare rapporti di potere egemonizzanti nel presentarsi in una veste naturalizzata.
Nel momento in cui Foucault inserisce la biopolitica in una dimensione dispersa e destatualizzata “quando schematizza una strategia di
controllo sociale non solo verticale [...], ma soprattutto orizzontale e
persino bottom-up, ossia quando evoca soggetti capaci di attivarsi in
modo autonomo e pertanto capaci di autogovernarsi”116, ne rende possibile l’allineamento con una governance che, se da un lato stimola
l'individuo ad attivarsi in campo solidaristico, nel depotenziarsi del
welfare-state, dall’altro sottrae il benessere ad organizzazioni pubbliche legittimate delegandolo a strutture non-responsabili. Di conseguenza il contraltare di un liberalismo che moltiplica le libertà, affermando una individuazione forte dell’uomo come soggetto-impresa,
diviene il moltiplicarsi del rischio connesso ai pericoli cui tali libertà
sono soggette, con la conseguenza che la politica non solo non si ritira, ma entra in ogni spazio che le consenta di attivare quei dispositivi
di sicurezza atti a compensare il rischio, tanto che l'azione governamentale finisce per essere letta “come una funzione imprescindibile
della statualità contemporanea”117, una metamorfosi delle funzioni
governative, che fa riconciliare le scelte degli individui con gli obiettivi dei governi, e che paradossalmente mostra l'aleatorietà di libertà e
soggettività sottoposte ai vincoli dell'ordine politico-sociale. Il conflitto politico recede lasciando spazio ad una permanente rinegoziazione
entro l’ambito amministrativo, con un collegato deficit di responsabilità che attualizza “l'avvertimento inquietante di Adorno, che ribaltava
la speranza marxiana di una umanità semplicemente amministrata perché priva di centri di potere[…]”118.
All’interno di questo quadro interpretativo, la governance si profila quale strumento che consenta, ad uno stato snellito, di riposizionarsi
in rapporti di forza che permettano, da un lato, alle élites politiche di
orientare l'agenda dei problemi da affrontare, e dall’altro, sul piano
globale, di attualizzare un’anarchia in termini duali noi-loro tramite la
trascrizione di un continuo stato di emergenza e conseguenti interventi
116
Ivi, p. 5.
Ivi, p. 6
118
Ibidem.
117
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coattivi, che, sostanzializzati in pratiche militari di stati sovrani o in
azioni di security governance da parte anche di organizzazioni non
statuali, trovano giustificazione nell’affermazione della democrazia.
D’altro canto l’attivazione di attori in virtù di supposte dotazioni
tecniche e cognitive, che in una logica neo-liberale risponda sia
all’esigenza di uno Stato minimo che alla contestuale liberazione delle
potenzialità individuali, nella promozione della concorrenza e del capitale umano, necessita di un ambiente sicuro per la realizzazione di
quelle stesse libertà, che questa va creando e sostenendo, e rafforza
così il nesso tra sviluppo, sicurezza e democrazia.
Pertanto, in un modello di sicurezza internazionale, che prevede la
progressiva democratizzazione del pianeta, configurata sulla traccia
dello Stato democratico liberale, le relazioni tra Stato-nazione e security governance, si veicolano attraverso meccanismi di sicurezza che,
preservando equilibri interstatali esistenti e promuovendo lo sviluppo
economico e sociale, mantengano lo Stato in una posizione di rilievo,
poiché essendo la propria sicurezza, sicurezza per le popolazioni, “
[…]funziona sia come promotore di libertà democratiche, sia come
dispositivo di limitazione dei conflitti”119. Tuttavia questi non è più
inteso come fine, nel sostenere l’accrescimento e la difesa del bene
collettivo, entro la logica governamentale della ragion di Stato, ma
come mezzo per la globale e definitiva affermazione di un’economia
di mercato, solo e unico strumento di disciplinamento delle popolazioni.
Se lo Stato allora, per mezzo dei propri apparati rappresentativi costituzionali, non riesce a preservarsi nel ruolo essenziale di guida e
mediazione di tutte le forze in campo, non potrà evitare che l’intera
popolazione mondiale sia sopraffatta dalla razionalità economica neoliberista; in altre parole, si vuole “comprendere se l’opposizione a
questa verità economica e alla corrispondente ragione di governo debba passare attraverso la difesa di un qualche welfare State redistributivo […] e per la conservazione di una dimensione giuridico-politica e
territoriale di esercizio del government. Oppure non si tratti di promuovere quella eccedenza di vita e quella aleatorietà che appartengono ad una dimensione singolare che è insita in ognuno. Valorizzandone, tuttavia, la componente relazionale e cooperativa per porre un freno ai processi di individualizzazione competitiva che compone la trama del tessuto oggi ‘dominante’ nei percorsi drammatici della civiliz-
119
A. Arienzo, op. cit., p. 273.
Dalia Galeotti
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zazione occidentale”.120
CONCLUSIONI
La letteratura sulla governance, seppure ricca di spunti teorici e di analisi empiriche, non pare allo stato attuale consentire previsioni su
realizzazioni future; gli scenari si mantengono aperti su prospettive
molteplici e inclusive di sviluppi non ancora prefigurabili.
Tuttavia è possibile individuare un vettore sotteso alle dinamiche
proprie di una modalità di governo, che, nonostante una retorica ampiamente diffusa tenda a definire intrinsecamente democratica, conduce all’affermazione di una forma di regolazione e controllo sociali sottilmente ingannevoli. Infatti un mondo post-ideologico, che ha visto
crollare insieme alle macerie del muro di Berlino, anche le grandi ideologie politiche, nasconde, dietro guerre per la democrazia e
l’affermazione su scala planetaria dei diritti umani, il perseguimento
non del pluralismo delle idee, ma l’inquietante consolidamento del
pensiero unico.
Allora la governance come pratica di autoregolazione, non solo
entro organizzazioni di varia natura, ma a partire dal singolo, richiama
quella richiesta di auto-disciplinamento dell’uomo-impresa entro una
logica economica che smantella il welfare-state, che esalta ed esaspera
la competizione, che rinnega la diversità e bolla la fragilità sociale
come disvalore e non come possibilità oggettiva di rappresentazione
della realtà. La razionalità liberista, fonte di una normazione ritenuta
intrinsecamente dotata di leggi capaci di assicurare un appropriato
funzionamento ad una modalità di governo necessitata dalla complessità del reale, non solo nega l’evidenza delle esternalità di mercati che
non sono mai perfetti, ma ne assolve, passando dal piano economico a
quello politico, quei rischi che richiedono l’accettazione del fallimento
degli uomini, in analogia con le imprese, in quanto singoli o comunità,
se non conformi alla ratio del mercato.
D’altra parte l’integrazione tra governance e democrazia risulta
difficile quando, assumere la necessità di una governance della governance all’ombra della gerarchia121, fa emergere forti perplessità sul
piano globale. Infatti, seppure lo Stato-nazione, mostruoso apparato
burocratico, sembri coartare entro le sue spire libertà di singoli o col120
Ivi, p. 279.
Cfr. B. Jessop, Governance e meta-governance: riflessività, varietà e ironia, in A. Palumbo-S. Vaccaro (a cura di), op. cit., pp. 77-94.
121
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lettività, è ancora a questa figura che si connette un potere legittimo,
frutto di un’autorità delegata attraverso i mezzi della partecipazione e
rappresentanza politica; mentre quelle stesse libertà, che la governance promette, risultano altrettanti espedienti per applicare dispositivi
securitari, che nel salvaguardarle, quantificano contestualmente la misura del controllo, occultando qualità sotterranee di indirizzo della società con opacità operative ed assenza di codificazione, che assegnano
posizioni egemoni a chi meglio situato.
Allora le analisi foucaultiane, in virtù di “[…] un potenziale critico
che finora manca al dibattito sulla governance, non sempre privo di
tendenze apologetiche”122, nell’assumere la governamentalità come
forma di potere tesa a reagire alle crisi di governabilità, permettono,
“[…] approssimandosi [Foucault] alla distinzione weberiana fra potere
(Macth) come coercizione e dominazione (Herrschaft) come volontario assenso da parte dei governati”123, di considerare la governance
una tecnica morbida del governare, che ricomprenda al proprio interno
la cooperazione e l’esercizio della libera volontà; mentalità di governo, che coniuga la capacità di disciplinare gli altri e quella di dominare se stessi124, e che costruisce la realtà e gli strumenti per governarla,
rendendo naturale un sistema umano prodotto e riprodotto incessantemente.
Affidarsi alla governance perchè strumento irrinunciabile per la
connessione di pratiche ed attori in un tessuto coerente d’azione, non
dovrebbe tuttavia renderne accettabile una visione acritica, tesa a
celare i limiti di una razionalità che attribuisce centralità al mercato e
non all’uomo. Così come non appare lecito, in nome dell’efficienza,
oscurare e tradire quel concetto di democrazia, che “[…] richiede di
essere collocata non in accordi informali fra attori di vario genere, ma
in ambiti pubblici di discussione che garantiscano trasparenza,
legittimità e un processo di deliberazione”125.
122
D. Nagl/U. Höppner, Governance e governamentalità nelle aree di statualità limitata,
in G. Fiaschi (a cura di), op. cit., p. 144.
123
P. Sarasin, Michel Foucault. Zur Einführung, Hamburg, 2005, p. 175, cit. in D. Nagl/U.
Höppner, op. cit., p. 145.
124
Cfr. D. Nagl/U. Höppner, op. cit.
125
B. Lösch, Governance globale e democrazia, in G. Fiaschi (a cura di), op. cit., p. 295.
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