TESTI TOTI
a. a. 2014-15
1
1. L‟IMPERATIVO CONTRARIO
(CINOUE REGOLE IRREGOLARI)
5
regola prima
non prendere
la malinconica abitudine del successo
appena l‟hai ottenuto buttalo via
e ricomincia da capo
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seconda
quando sei tutto mondano
tutto su questa faccia della medaglia
tutto sull‟orlo esterno della moneta
gettala in alto e ricomincia da capo
terza
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20
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battiti sempre non stancarti della stanchezza
contro gli ultimi draghi del potere
sia tuo che degli altri: ricorda
che tutto ciò che innalza un uomo ne umilia un altro
e ricomincia da capo
quarta
la realtà è più misteriosa
del mistero
occorre molta fantasia per trovarla
ti dicono: questo è reale – e tu buttalo
e ricomincia da capo a cercare
quinta
nulla ha più insuccesso
del successo (iterazione utile)…
L‟UOMO SCRITTO, 1965
È il componimento che chiude la prima raccolta dell‟autore, con valore di dichiarazione di poetica.
Titolo: compare già la l‟ossimoro, la dialettica della contraddizione.
Verso libero. Endecasillabi vv. 13, 22.
Cinque strofe che corrispondono alle cinque “regole”, esplicitamente numerate.
Interventi visivi: la spaziatura dopo il numero della regola (poi anche tra v. 19 e 20).
Il ritmo è dato dalla ripetizione della intestazione della regola, che imita un programma politico per punti (o
un manifesto futurista); e poi, al termine di ogni strofa, dall‟imperativo a rivoluzionare tutto e a
“ricominciare da capo”.
In pratica ogni regola va contro l‟abitudine del senso comune: il successo, la mondanità, la stanchezza, il
realismo; tuttavia, va anche contro il possibile anchilosarsi dell‟alternativa che, volendo combattere il potere,
rischia a sua volta di diventarne uno. Occorre ogni volta rivoluzionare la rivoluzione stessa. Lo stesso
avviene rispetto all‟enunciazione: le regole si vogliono “irregolari”, nel senso che contraddicono la loro
dizione imperativa. Dunque, l‟inversione non è soltanto una modalità della creazione neologistica
(soprattutto attraverso il prefisso in-) ma è anche la caratteristica dialettica di Toti, dialettica della
contraddizione e del chiasmo, come vedremo.
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Operazioni sul significato: nella prima strofa, l‟abitudine è detta “malinconica” (v. 3), un attributo che viene
assegnato dall‟esterno (più che essere malinconica di per sé, genera malinconia, tristezza, in chi la osserva e
giudica). Nella seconda strofa abbiamo la ripetizione di “tutto” (nei vv. 8 e 9 con posizione di anafora):
l‟aspirazione alla mondanità è paragonata ad oggetti a due facce, come la medaglia e la “moneta”. Questi
metaforizzanti indicano infatti che non c‟è via di mezzo o si sta da una parte o dall‟altra: tuttavia sono anche
il corrispettivo della mondanità, quello che si ottiene con essa: la valorizzazione e il valore-denaro. Il
ragionamento prosegue nella terza strofa, in quanto il sistema è visto come un equilibrio compensativo e
quindi il vantaggio di uno significa lo svantaggio di un altro; qui si tratta appunto del potere, paragonato a un
“drago” (v. 13), anche perché non risparmia nessuno, e infatti nessuno può presumersene esente, come
mostra l‟autocritica precisazione “sia tuo che di altri” (v. 14). La quarta strofa riguarda la realtà; la realtà non
è data, non è scontata, ma va cercata, realismo e fantastico – apparentemente opposti – si toccano. L‟ultima
regola ha un carattere particolare: riprende la prima, come una sorta di chiusura ciclica; ma è anche
consapevole (lo precisa la parentesi) del suo carattere di ripetizione: come dire che su queste conformazioni
tanto radicate le ripetizioni non guastano, ironicamente repetita juvant.
Il testo presenta una struttura allocutiva, rivolta a un “tu”. Naturalmente il “tu” siamo noi lettori, ma – per
tutto quello che si è detto – non è escluso che l‟io si rivolga a se stesso; sicché il brano si può leggere come
auto-esortazione e dichiarazione di poetica: la poetica della modificazione continua.
PERCHÉ FACCIAMO CIÒ CHE NON FACCIAMO
perché la parola libertà scompaia
finalmente dai dizionari
dove imperversa perché non c‟è
5
perché non si debba pagare lo sguardo
spalancato sui cadaveri dei teatri
o sulle orbite cieche degli schermi
perché abbiamo la scelta di scegliere o di non
perché non ci siano uscieri alle porte
perché non ci siano porte
10
perché siano vinolentati i violenti
perché gli atti di santità non siano necessari
a chi santo non è né vuole essere
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perché il momento venga
e non sia mai più il momento
che il momento venga
perché non si paghi nessuno
salvo i pagatori
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perché siano umiliati e offesi
a scopo terapeutico
umiliatori e offensori
3
perché i contraddetti si contraddicano
da soli e in solitudine
perché i perché non abbiano mai più
il punto finale che interroga
25
perché le domande rispondano
e le risposte domandino
perché non siano censurati
i censuratori
30
perché i poeti non siano mai più chiamati
poeti ma siano lasciati spoetare
senza marxcherarsi da poeti
perché questi esempi non siano esemplari
per esempio
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Una simile sfilata di “perché” era già nella seconda parte de L’altra caccia ormai aperta (in Chiamiamola
poemètanoia), che iniziava: “perché il divieto sia vietato”, ecc.
Titolo: ricorda la frase evangelica, ripresa anche da Marx, “perché non sanno quello che fanno”. Come nel
testo precedente, la lotta per l‟utopia ha come scopo di annullare se stessa, cioè di condurre a una condizione
in cui non ci sarebbe più bisogno di lottare. Si tratta insomma, non di sostituire una struttura di potere con
un‟altra, ma di rendere impossibile il potere.
La poesia risponde a una domanda implicita (del tipo: perché scrivete?) con una serie di 16 “perché” che
danno inizio (in posizione di anafora) ad altrettante strofe, tutte molto brevi (variano da 4 verso a 1 solo).
Scarsi endecasillabi (vv. 6, 23), andamento prosaico.
Interventi sul significante: parole-valigia “vinolentati” (v. 10) e “marxcherarsi” (v. 31).
Per la maggior parte si tratta – come dicevo – di far sì che l‟opposizione non sia più necessaria. Quindi va
abolita la parola “libertà” (vv. 1-3) che viene pronunciata tanto spesso proprio perché manca nella realtà. E
poi ancora molto significative sono: arrivare a non aver più bisogno dei santi (vv.11-12; Brecht diceva:
“beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”) e di non dover più vivere nel tempo dell‟attesa (vv. 13-15);
rovesciamenti (dei “pagatori”, degli “umiliatori”) che procedono fino all‟abolizione finale di tutto l‟impianto
esortativo-morale del testo stesso, con un gesto di auto-negazione dadaista (vv. 32-33). La contraddizione –
come già accennato e vedremo in seguito caratteristica della dialettica totiana – compare esplicitamente (vv.
21-22). Oltre ai rovesciamenti, troviamo l‟uso dell‟inversione a chiasma (vv. 25-26), anch‟esso caratteristico
di molti altri testi.
È interessante notare che, nell‟elenco delle cose positive che vogliono arrivare a non esserci più troviamo
anche la poesia (vv. 29-31), per altro in una posizione praticamente finale: al penultimo posto, dopo c‟è solo
l‟abolizione dell‟intero testo. C‟è in Toti un apprezzamento della poesia come momento inventivo, che lo
distingue dalla negazione della neoavanguardia. Purtuttavia, qui, i poeti sono chiamati a rinunciare alla loro
propria identità, al “nome” che diventa una sorta di “maschera”, un ruolo convenuto e un ritratto previsto in
cui rischiano di rimanere ingabbiati. La liberazione della poesia da se stessa è indicata da Toti con il prefisso
s- (“spoetare”, v. 30) che non ha soltanto valore sottrattivo, ma anche peggiorativo (una poesia che a
qualcuno può apparire troppo ribelle) e forse intensivo. Non significa infatti distruggere o abbandonare la
poesia, ma usarla in modo derogante, diverso, irriverente (“spoetare” somiglia anche a “sputare”).
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2. L‟ALIENAZIONE QUOTIDIANA
(IL VESTITO NUDO)
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10
15
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si veste continuamente: appena
comincia il tempo la mattina presto
indossa nome cognome cravatta
orari impegni parole da dire-ripetere
maglie camicie giacche cappotti – poi
sulla strada di tutti, nudo della casa,
indossa l‟automobile si abbottona
con le maniglie strette ai fianchi di scatto
e forse anche le strade le piazze la città
si stringe addosso tanti altri vestiti...
vive da sempre in tempi netti, il presente
dopo il passato prima del futuro
e solo quando – guasto o incidente – si sveste
del cappotto di lamiera avverte inquieto
un tempo misto di ieri e di domani aggredirlo
ai fianchi nudi senza portiere d‟acciaio...
ma in generale resta sempre vestito
del suo bel paletot ronzante
anche salendo le scale di casa è chiuso
nella sua tenera blindatura poi frena
sulla porta – clackson campanello semaforo
familiare – e allora protesta per il mondo nudo e fermo
– cioè si rassegna comincia a rassegnarsi
alla nudità necessaria per l‟eternità di una notte...
L‟UOMO SCRITTO, 1965
Titolo paradossale (il vestito è ciò che copre la nudità). Il vestito nudo: significa che ormai il vestito vale più
del corpo e allora bisogna “metterlo a nudo”, scoprire con attenzione la sua natura simbolica e ideologica.
Del resto, il titolo dell‟intera raccolta, L’uomo scritto, già alludeva a questa costituzione dell‟essere umano,
al suo essere un luogo di significazione da parte del mondo esterno.
Metrica libera, versi tendenzialmente lunghi, sparsi endecasillabi (vv. 2,3,10,12). Tre strofe di diversa
lunghezza (10/6/8).
Il testo parla di un personaggio in terza persona, che non viene mai nominato, ma siamo tutti noi, compreso
l‟io dell‟autore.
Tutto il testo è giocato sulla costituzione sociale del soggetto, a partire dall‟indicazione del v. 1: “si veste
continuamente”. Non si tratta quindi soltanto degli abiti veri e propri, che pure vengono abbondantemente
nominati, soprattutto quelli socialmente distintivi, come la “cravatta” (v. 3), ma anche i consueti “maglie
camicie giacche cappotti” (v. 5). Insieme ad essi, vanno a far parte del vestiario anche i contrassegni
dell‟identità, “nome cognome” (v. 3), indossati subito di primo mattino, anche le parole già previste nel
gioco e quindi ripetitive (“parole da dire-ripetere”, v. 4): un intero guardaroba che viene esteso a tutto
l‟essere sociale, tanto da prolungarsi probabilmente (“forse”) nella comunità nel suo complesso e nel suo
assetto urbano (“anche le strade le piazze la città”, v. 9).
In particolare è significativa, perché produce numerose interferenze semantiche, l‟interpretazione
dell‟automobile come vestito dell‟uomo contemporaneo: “indossa l‟automobile si abbottona / con le
maniglie strette ai fianchi di scatto” (vv. 7-8), dove la chiusura delle portiere equivale alla chiusura dei
bottoni. Più che di metafora, si tratta qui di vera e propria “incorporazione” della macchina, tesa a
sottolineare l‟alienazione tecnologica. Tanto che nella terza strofa il “paletot ronzante” non viene dismesso
5
nemmeno quando, materialmente l‟uomo è sceso dall‟automobile: e il suono del campanello è visto come un
“semaforo / familiare” (vv. 21-22).
Da alcuni segnali, il testo indica la funzione di rassicurazione di siffatto abbigliamento: quando il
personaggio esce lo dice “nudo della casa” (v. 6) e poi dice “si stringe addosso” (v.10), e poi ancora la “sua
tenera blindatura” (v. 20), quindi una funzione difensiva, la cui mancanza diventa pericolosa. Nella seconda
strofa, è solo la possibilità di un “guasto o incidente” (v. 13) a poter mettere in questione la corazza di
lamiera (che diventa, nel v. 1, un più cogente “acciaio”). Non a caso questa strofa più breve si inserisce tra le
altre due come una parentesi, una ipotesi da esorcizzare: dove l‟interruzione della funzione protettiva
consentirebbe anche una diversa visione del tempo, non più regolarmente scandito.
La terza strofa ristabilisce la situazione. Senonché poi, al termine della giornata, ricompare la nudità, nella
fattispecie della pausa notturna. È certamente una fase in cui, anche a non essere del tutto svestito, il soggetto
giace come mero corpo (e deve “rassegnarsi” a un tale intervallo, necessario alla ricarica delle energie).
L‟espressione finale, “per l‟eternità di una notte” (v. 24), esprime il fatto che questo tempo, sottratto alla
produzione e alla riproduzione sociale, è in realtà un non-tempo, un tempo azzerato.
(LA COSCIENZA INFELICE)
l‟indifferenza è scesa per le strade:
non la vedeste che vi entrò negli occhi
era nuda una lama – si appannò
anche la vista delle finestre, così lucida –
5
10
15
i colori gridarono poi tacquero
e un vestito grigio camminò
sui marciapiedi, una impoderabile
divisa
rotolarono
fra le chiaviche topi voci nomi
poi sulle labbra parole sorelle
cominciarono a dirsi: – come stai?
buon giorno buona sera a casa bene
mica male stasera lo spettacolo…
e tutti videro la stessa cosa,
basta all‟indifferenza un occhio solo...
L‟UOMO SCRITTO, 1965
Il titolo sarà utilizzato anche nella successiva raccolta Penultime dall’al di qua. Deriva da una “figura” della
Fenomenologia dello spirito di Hegel (IV, B: “la coscienza infelice è la coscienza di sé come dell‟essenza
duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione”).
Versi prevalentemente endecasillabi: derogano il v. 4 e i due versi a scalare 8 e 9. Tre strofe (4/10/2); la
seconda è divisa da una verso “a scalare”.
Rime forse non volute sono la coincidenza di tempo verbale “appannò/camminò” (vv. 3-6) e la rima per
l‟occhio “spettacolo/solo” (vv. 14-16).
“Impoderabile” (v. 7) è così nella prima edizione, potrebbe essere un refuso tipografico (nel caso di Toti è
impossibile stabilirlo).
Il testo si apre e si chiude sull‟“indifferenza”. La “coscienza infelice” e il “senso comune” si basano quindi
su questa virtù, tipica di soggetti isolati e alienati. “Indifferenza”, infatti, vuol dire insieme, mancanza di
solidarietà verso gli altri (indifferenza egoistica verso quello che non capita a noi) e mancanza del senso
critico nei confronti della situazione (l‟indifferenza del non voler sapere e del “tutto va bene”, basta tirare
avanti). L‟indifferenza sarà, più tardi (negli anni Ottanta) uno degli aspetti principali del postmoderno e della
riscrittura senza problema: Toti dunque aveva visto giusto…
6
E il problema della vista è implicato, nel testo, dall‟inizio alla fine: all‟inizio l‟indifferenza si distingue
precisamente per l‟effetto di offuscare la vista, per altro con l‟inserimento davvero crudele di una “lama” (v.
3); alla fine concentra tutti gli occhi in uno solo. (Anche Saramago, in uno dei suoi principali romanzi,
rappresenterà l‟indifferenza nell‟allegoria della Cecità). Quello che non si vede è il degrado della realtà,
indicato nell‟apparizione dei “topi” e delle “chiaviche” (v. 10).
La poesia si fonda su procedimenti di personificazione: la stessa indifferenza compie l‟atto umano di
“scendere per le strade” (v. 1), poi ci sono i colori che “gridano” (v. 5) e il vestito che “cammina” (v. 6). Il
grido dei colori per l‟appunto si spegne per lasciar passare un vestito significativamente “grigio”, cioè senza
colore. La personificazione cessa di essere un mero artificio retorico per assumere un senso polemico
preciso: serve a mostrare l‟“astrazione determinata” del mondo capitalistico, nonché le cose che prendono il
sopravvento, per cui un vestito può andare in giro da solo. A meno che non si tratti di metonimia (sta per “un
uomo col vestito grigio”); però le “parole sorelle” del v. 11 pare proprio che si esprimano da per loro – e
dicono tutte le banalità convenute della conversazione stereotipata quotidiana.
Dal testo si evince che il lavoro dell‟indifferenza e la sua diffusione come modalità di comportamento
conduce all‟omologazione. Già il “vestito grigio” diventa una “divisa” (v. 8), fa pensare a tanti omini
magrittiani tutti vestiti uguali; nel finale, quell‟occhio unico corrisponde allo sguardo collettivo ormai
standardizzato. E basta sommare quella “stessa cosa” che tutti vedono alla fine con l‟appannamento del v. 3,
per avere il risultato dell‟ideologia contemporanea, così abile da non farsi nemmeno scorgere – e infatti è
comune pensare che non ci sia più ideologia…
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3. LA QUESTIONE DELL‟IDENTITA‟
(IL MINIMO RESISTENTE)
5
10
15
aveva la schiena di ferro gliela segarono
si fece la schiena di gomma e non seppero
che cosa fare per piegarla fino alla crepa,
cercarono irrobustirgliela raddrizzarla sperando
di riuscire poi, un colpo secco, a spezzarla
tentarono infine di tenderlo da qui a laggiù
perché se non la corda, la gomma figuriamoci
così tirata da un orizzonte all‟altro
lo schiocco sarebbe stato una fucilata
ma resistette, la gomma della sua schiena
era speciale tessuta dentro col ferro
della schiena spezzata e camminava diritto
e curvo – nessuno sapeva dire con certezza
se era un uomo intatto con quella sua flessibile
spina dorsale elastica fionda umana
L‟UOMO SCRITTO, 1965
Due strofe di diversa lunghezza (9/6). Versi lunghi superiori alle 11 sillabe (molti di 12). Non ci sono rime,
né invenzioni verbali.
Tutto si gioca sull‟allegoria della schiena e dei materiali che la costituiscono. La “schiena dritta” è sinonimo
di correttezza morale, il “piegarsi” di asservimento. Ecco allora che il sistema punta a sottomettere il
soggetto (anche qui) anonimo che appare troppo indipendente e rigoroso, con la sua schiena di “ferro”. La
durezza non ce la fa, perché può essere tagliata e quindi viene sostituita da un materiale più elastico, la
gomma, che non si può spezzare. A questo punto, i tentativi di rottura falliscono, anche perché la materia
flessibile (termine che compare al v. 14), quando è troppo tesa, può dare colpi imprevisti. Per giunta, non si
può più riconoscere da fuori se il personaggio abbia la schiena integra oppure no (“se era un uomo intatto”,
vv. 12-14), in quanto è capace di simulare diverse posture.
Naturalmente, qui è ancora presto per la “flessibilità” del lavoro dei tempi odierni. La “flessibilità” di cui
parla Toti e che vede come arma di resistenza, non è nemmeno una forma di adeguamento e di
opportunismo. Non si tratta di adattarsi alla situazione e fare buon viso a cattivo gioco. Cosa faccia questa
gomma lo mostra la metafora della fionda; prima il pericolo dello “schiocco” (v. 9; addirittura una “fucilata”)
e poi proprio in conclusione la “fionda umana”. Non per nulla il materiale proviene da una strana fusione tra
gomma e ferro (v. 11), a significare che la “flessibilità” è soltanto apparente, ma contiene una strategia di
resistenza (non si dimentichi che Toti aveva partecipato alla Resistenza e rimase interessato ai fenomeni di
guerriglia). Il minimo resistente è infatti il titolo di questo componimento. L‟ho inserito in questo gruppo,
sulla “Questione dell‟identità”, perché vi si esprime chiaramente il rifiuto della identità ricevuta-imposta.
L‟autentica identità nasce dalla resistenza, appunto, alle conformazioni dominanti. Non per niente il testo è
tutto giocato sulla contrapposizione lui/loro: occorre quindi – al di là delle affiliazioni di partito o di gruppo
– conquistarsela singolarmente, nello scontro di individuo vs. maggioranza, eccentricità vs. omologazione.
IOISMO
va bene non c‟è dio va male non c‟è io
solo tu ci sei e troppo ma vale perché io
mi ti dico indìco indicibil‟anch‟io
il feudo dell‟io si chiama lo chiamano fio
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5
lo paghi tu però non lo pagherò io
perché tu sei ciò che mi muore che non sono io
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Due strofe di 3 versi ciascuna. Tendente al doppio settenario, ma non obbligatoriamente: sono 7+7 i vv.
dispari 1, 3, 5; il 2 è 8+7; il 4 è 6+3+6; il 6 è 9+6. In posizione di rima ritorna sempre la parola “io”, tranne
che al v. 4 leggermente alterata in “fio”.
Nel suo ritorno ed eco, il pronome di prima persona, chiamato a definire la nostra identità, diventa un suono
vuoto, sembra perdere qualsiasi contenuto. In realtà ci troviamo già di fronte a una dialettica complessa e
irrisolta. L‟io non riesce a definirsi, né nei confronti di dio (malgrado la somiglianza fonica: la caduta di una
sola lettera), ma neppure nei confronti del tu, cui si rivolge il componimento. Come ho detto, la metrica
suggerisce la presenza di versi doppi e infatti i versi (in particolare i vv. 2 e 3, 4 e 5) sembrano dividersi e
quasi rimbalzare tra il tu e l‟io, che non riescono mai a coincidere e a rafforzarsi reciprocamente. L‟esistenza
del tu è anche “troppo” ingombrante, né vale che l‟io lo nomini, perché lo stesso io andrebbe
preventivamente definito, mentre invece sono “indicibil‟anch‟io” (v. 3); poi il tu risulta una mancanza e un
limite negativo (“non sono io” che chiude il testo della poesia). Da notare l‟uso del riflessivo in “mi ti dico”
(v. 3) e in “che mi muore” (v. 6), indicante il “per me”, cioè l‟impossibilità di rapportarsi e di comunicare
davvero con l‟esterno.
Notevoli inoltre i parallelismi iniziali con assonanza di “va bene”… “va male”… “ma vale”. Nel v. 3
troviamo uno spostamento d‟accento, “indìco”, effettuato non solo per necessità metrica, ma anche per
intensificare il dire (“dico” e “indìco”). Il v. 4 – come accennavo – varia la rima identica di “io” con “fio”,
introdotta dalla ripetizione che passa dall‟impersonale “si chiama” al plurale “chiamano”: segno che la
nominazione non è così generale come sembra, ma appartiene a un gruppo preciso di persone. Il “fio”,
dunque: antico patto o tributo feudale, rimasto nella frase fatta “pagare il fio”, cioè ricevere una giusta
punizione. Il pagamento rimanda al valore dell‟identità in termini economici; ma soprattutto la metafora del
feudo (richiamato esplicitamente nel v. 4) rivela il carattere finto-aristocratico dell‟identità fissa, nonché la
sua difesa corazzata del proprio (e della proprietà privata).
CHI È CHI
chi nella emme crede
non è
è già morto
5
chi finito si vede
non finirà
è finito
chi parte del tutto si sente
è parte
e partito
10
15
chi sempre io dice
è lui solo
e neppure
chi ruota si sente
non sarà carro
solo raggio
chi è frazione
9
sarà frazionabile
e ancora
20
chi crede esser uno
non è uno
è mezzo
chi identico si pensa
non è lui
è un altro
25
30
chi non infinisce
finisce
sfinisce
chi allo specchio vede
se stesso
non vede
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Il testo si compone di 10 strofe di 3 versi ciascuna, varianti dello stesso schema: “chi… è (non è)… non è (è).
I versi sono di varia lunghezza: l‟ultimo, sempre a scalare, è molto breve, quadrisillabo o trisillabo.
Il titolo deriva dal Who is who, dizionario delle persone celebri, ma indica le illusioni dell‟identità e i suoi
paradossali ribaltamenti, per cui il sentimento di sé appare o falso o comunque diminutivo.
La prima strofa tocca il tema della morte, caro a Toti (come si vedrà più avanti): la morte non viene
nemmeno nominata, è richiamata soltanto dalla lettera inziale (la “emme”, v. 1), proprio perché non esiste, è
solo un cambiamento; per questo, “chi crede nella morte… è già morto”). La seconda strofa fa pendant con
la penultima e ritornano entrambe sulla questione della “fine”: non c‟è fine se non per chi ritiene di “essere
finito”, oppure in chi perde contatto con l‟infinito (“chi non infinisce”, v. 25). Inoltre, c‟è la visuale parziale
che emerge nella terza strofa e prosegue poi nella quinta e nella sesta: si tratta di non rinserrarsi in una
prospettiva misera e ristretta, ma assumere invece un punto di vista globale. Altrimenti, si diventa ancora
meno di quello che si pensa di essere: chi pensa di essere la “ruota di un carro” (Toti riprende la metafora
usuale di “essere l‟ultima ruota di un carro”) non sarà neanche una ruota ma, ancora peggio, parte di una
parte, soltanto un raggio della ruota; chi si senta una “frazione”, sarà disponibile a essere ulteriormente
frazionato, ecc. Anche l‟io subisce la stessa sorte: chi pensa di avere una solida identità, stagliata nel proprio
ego, non saprà di essere in realtà dimezzato (vv. 19-21); dall‟inconscio (rievocato anche dalla ottava strofa:
l‟identico cela l‟“altro”), ma anche dal fatto di essere separato dalla collettività. Lo stesso era già espresso
nella quarta strofa: dire “io”, significa isolarsi e quindi impoverirsi, non essere nemmeno un io (vv. 10-12).
Su questo limite dell‟io termina il testo nella nona strofa, con una sorta di “stadio dello specchio”, e con la
negazione del riconoscimento – un “non vedere” che si può interpretare in due modi: “non vede se stesso”,
perché l‟immagine non gli corrisponde; oppure, semplicemente “non vede”, perché non ha trovato il modo
giusto di guardare, non deve ritrovarsi nello specchio, ma negli altri. Comunque sia, il senso non cambia di
molto.
Rovesciamenti del senso comune, dialettica disparata e impegno etico, che è ancora una volta un imperativo
alla contrarietà e all‟invenzione. Di oltrepassare i limiti parla il neologismo “infinisce” (v. 25), verbo
derivato da “infinito”, ad indicare la pulsione utopica.
10
4. IL TEMA DELLA MORTE
(ESERCIZI DI)
5
10
tutta la vita si abituò alla morte:
tentò, e credette alla sua lunga abitudine
non pensò mai un pensiero senza pensarla
le dava appuntamenti nelle piazze deserte del sonno
e passeggiava con lei sotto il teschio della luna
salutando scheletri azzurri senza disperazione
tastando i serpentelli effimeri delle vene
consapevole delle innumerevoli piccole morti
che maturano nel sangue in un rosso campo oscuro
dove marciscono le rose, le rose, anche le rose…
tutta la vita, e non la riconobbe
quando sbocciò, e la corolla del nulla
si aprì d‟amore della dolce carne
maturata per semine di spazio
15
20
tutta la vita, tutti quegli esercizi di morte
troppo era morto per morire ancora
poco restava da morire, e non lui ma lei
si era abituata a ucciderlo
quando morì
fu lei a soffrire, la lunga abitudine…
L‟UOMO SCRITTO, 1965
È un tema molto frequentato e capitale; tutta la poesia di Toti si svolge secondo un progetto di contrarietà
alla morte, che ne prevede l‟inversione e l‟annullamento (la morte della morte); emblematico il video La
morte del trionfo della fine (2003). Ricordo anche due testi ampi e molto densi, dedicati a un amico suicida
(La coscienza infelice in Penultime dall’al di qua) e a un‟altra suicida, Merilyn Monroe (Per la morte di
Norma Jean Mortenson Baker in Chiamiamola poemetànoia).
In questo testo, si realizza fino al paradosso l‟heideggeriano “essere-per-la-morte”: Toti vede una curiosa
continuità della morte nel quotidiano delle “piccole morti” (v. 8), un “esercizio” che porta all‟“abitudine” e
quindi all‟annullamento della paura, che ci fa già morti in vita. Con rovesciamento finale, in cui la morte
personificata (allegoria) prova lei stessa dolore.
Il titolo è elusivo, allusivo. Come nel testo precedente, la prima cosa da fare è non nominare la morte,
lasciarla sottintesa; anche se è poi viene reiterata più volte nell‟ultima strofa..
Il testo si compone di tre strofe di diversa lunghezza (10/4/6), l‟ultima divisa da un verso a scalare. Verso
lungo, con particolare presenza di quinari nelle parti iniziali; la seconda strofa tutti endecasillabi; nella terza
endecasillabi al v. 16 e 20.
Ripetizione iniziale in ogni strofa (“tutta la vita”…). Nell‟ultima – come dicevo – rimbalzi contraddittori e
paradossali toccano al termine-chiave: “era troppo morto per morire”, quando muore è la morte che soffre…
Varie metafore interessanti. Metafore del genitivo: le “piazze deserte del sonno” (v. 4: il pensiero della morte
compare in un dormiveglia desolato, somigliante a un quadro di De Chirico); “il teschio della luna” (v. 5: il
disco bianco è paragonato a un teschio, metafora del tipo anthropos-cosmos, ma con esito inquietante); gli
“scheletri azzurri” del v. 6; “i serpentelli delle vene” (v. 7: altra metafora anthropos-cosmos: vitalità del
serpentello, ma non priva di inquietudine). Nella seconda strofa, isotopia vegetale: lo “sbocciare” (v. 12), “la
corolla del nulla” (v. 12), le “semine” (v. 14). Queste metafore conferiscono una vitalità resistente e
incontenibile.
Vegetali sono anche le rose del v. 10, ma con una sfumatura estetica. In quel verso si sente la citazione di
Gertrude Stein (“Rose is a rose is a rose is a rose”), una ripetizione che in questo caso appare virata al
deperimento (infatti le rose “marciscono”).
11
(morir – come?)
5
10
15
20
25
tu muori male non te ne sei accorto
ti trascuri l‟agonia l‟ultimo respiro già
ha perso lucentezza soffialo bene
negligente svissuto – smorto anche?
una morte da confezione come tutti
e ti starebbe male tra l‟altro se ne accorgerebbero
che tu potresti avere una prodigiosa ultima
eternità l‟ironico indugio prima di
inabissarti dentro gli occhi
la morte della ditta
la morte del partito che hai preso la morte
di famiglia la morte assegnata
da tanto tempo che dovresti
cortesemente rifiutarla e non puoi
una morte che ti va stretta o larga non ti prendono
neppure le misure una morte costa un anno e lunga
due minuti uno di andata e uno
di ritorno per dove si riparte nella stazione
immobile tutta treni verticali color di colore scritto
quale che sia il giallo silenzio dell‟attesa
dell‟attesa che non arriva in orario per noi
che dunque non aspettiamo neppure
l‟attesa della morte fattincasa la morte distratta
che cade vaso vecchio da infrangere
deliberatamente – sì
PENULTIME DALL‟AL DI QUA, 1969
Strofa unica di 25 versi, interrotta da un verso a scalare (v. 10).
Versi lunghi (contenenti soprattutto settenari).
Neologismi: “svissuto” (v. 4); “fattincasa” (v. 23).
Ripetizione del termine “morte” in posizione sintatticamente anaforica: vv. , 10, 11, 12, 15, 16, 23.
La poesia è rivolta a un “tu”, che equivale all‟io, ma anche a tutti i lettori.
Il morire è visto come azione quotidiana, normale. Si tratta di discutere sul come, il titolo è infatti (morir –
come?). Di qui l‟invito a soffiare bene l‟ultimo respiro (v. 3), la poca soddisfazione di una “morte di
famiglia” (vv. 11-12), l‟ironico consiglio di un “ironico indugio” (v. 8).
Nel testo si sviluppano uno dopo l‟altro diversi campi semantici, almeno tre principali: la morte come abito
da indossare, per cui ci si interroga sul “come si porta?” e “come mi sta?”, mentre è vista con disprezzo una
morte già confezionata (v. 5), oppure “va stretta o larga” se non è su misura (v. 15). Poi c‟è la scadenza
temporale della morte, che conduce alla metafora ferroviaria: la sua scadenza è come l‟orario del treno, però
la stazione è “immobile” e i treni “verticali” (v. 19), l‟attesa risulta imprevedibile. Infine, parlando di una
morte qualunque, distratta (v. 23) compare la metafora del vaso (“vaso vecchio da infrangere”, v. 19).
Il testo si conclude con un “sì”, staccato anche graficamente. A cosa corrisponde questo assenso finale? È un
sì alla morte? Direi che è più che altro un sì alla metamorfosi della morte che si è sviluppata per tutto il
componimento conferendo alla negazione della vita una inusitata vitalità.
Segue nella tessa raccolta (ri-morte) che inizia: «ascoltate: la morte / chiede di morire»…
IPOTEOSI
sarebbe bello a lungo morire
12
5
e vivere così tutta una morte
indifferente anche all‟indifferenza
e al tintinnìo di questa morte altrui
che ci muore nel furto dei respiri
10
sarebbe bello a lungo non vivere
e morire così tutta una vita
differenziando le altre differenze
la non-morte non-vita pasteggiando
riscrivendo tutto fino all‟ultima pagina
PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977
Titolo: parola mista per contaminazione di “ipotesi” e “apoteosi”.
In questo caso metrica quasi-regolare: due strofe di 5 versi. Versi endecasillabi, alternati a minore e a
maiore, tranne l‟ultimo di 13 sillabe (6+7).
Apertura con “Sarebbe bello”, quindi il testo è svolto come ottativo, speranza e utopia, come ipotesi (vedi il
titolo).
Si ripete in entrambe le strofe, secondo una costruzione speculare che coinvolge i primi due versi delle
strofe: si tratta di una inversione (morire… e vivere la morte/non vivere… e morire la vita), ma
sostanzialmente coincidente: si tratta della durata della morte, cioè di rimetterla nel decorso temporale
togliendo la drammaticità al momento finale. Una strategia di diluizione e di inserimento della morte nella
vita.
Particolari paradossi nel terzo verso di ciascuna strofa, costituiti da una meta-applicazione, l‟indifferenza
applicata all‟indifferenza stessa (v. 3) e la differenziazione applicata alle differenze (v. 8). L‟effetto è ancora
di specularità.
Nei versi finali di ciascuna strofa troviamo usi singolari: la morte “ci muore” (v. 5; è la negazione della
negazione, ma potrebbe essere anche transitivo), e poi (v. 9) i contraddittori, “non-morte non-vita”. Rendere
debitamente dialettica la morte, è questo il versante della apoteosi.
Nel finale, “pasteggiare” (v. 9) inserisce una metafora alimentare che suggerisce il centellinare (ancora
strategia di diluizione) e una sfumatura di vitalità nutriente. Infine la riscrittura del v. 10: è la pratica
emblematica del postmoderno, che però a quell‟altezza non è ancora arrivato in Italia. “Riscrivere” qui
significa negare la drasticità della morte, ricominciare ogni volta da capo, con una riapertura della
temporalità.
13
5. IL FUTURO, L‟UTOPIA
(due sul futuro)
I - in Nessun Posto era non si trovava mai
neppure nel nome nello specchio fra le tempie
accusava la vita svivendola
l‟infettava con la sua assenza
5
10
15
povero futuro sempre essere per essere
la vita così debole non rispondeva all‟immagine
che si era fatto che si poteva fare ancora
e sempre e sempre in atopia svivendo
II - tutto passato tutto quel futuro
montagne di tempo-a-venire
già venuto ammucchiato che uso ne hai fatto
doveva restare futuro lo sapevi
e adesso è passato-passato trapassato tra e non
ce n‟è rimasto poco di futuro lo sai
che uso ne faremo tu io loro altri
lo sapremo quando il quando non più –?
PENULTIME DALL‟AL DI QUA, 1969
La poesia è divisa in due sezioni segnate con i numeri romani laterali. Le sezioni sono equipollenti, anche se
la prima ha due strofe di 4 versi ciascuna, la seconda un‟unica strofa di 8 versi.
I versi sono irregolari, variano da 9 (v. 10) a 16 sillabe (vv. 6 e 13). Si distinguono 3 endecasillabi (vv. 4, 8 e
9: due in posizione terminale e uno iniziale). Frequenti i versi di 14 (vv. 1, 2, 7, 14: ma solo 1 e 14 sono
settenari doppi) e 13 sillabe (vv. 5, 11, 12, 15: il v. 12 con intervallo di 3, come la cadenza pavesiana).
Il titolo: sul futuro, questo tempo che non esiste mai (v. 5), eppure così importante come previsione,
progettazione, profezia, speranza. Subito il v. 1 citazione l‟utopia, il “Nessun Posto” è come Ou-topos di
More, Nowhere di Morris, Neverland di Barrie. In Toti, l‟utopia diventa “atopia” (v. 8), con “a” privativo,
che segnala la mancanza di utopia, la sua carenza.
Il contenuto della prima parte riguarda la critica dell‟esistente, la rivendicazione dell‟immaginazione nei
confronti della realtà della vita, troppo “debole” (v. 6), ovvero troppo inferiore alle potenzialità dell‟essere
umano. Vi compare il neologismo “svivere” (nei versi 3 e 8), che indica sì la mancanza, ma anche la
contestazione e la caparbia resistenza dell‟utopico, sia pure ridotto a un impulso (come dirà Jameson molti
anni dopo: l‟impulso, la pulsione utopica). “L‟infettava con la sua assenza”, dice il v. 4: c‟è quindi un effetto
diffuso dovuto proprio alla perdita dei grandi progetti.
Nella seconda sezione, si assiste a un ribaltamento: il futuro è alle spalle, sia perché le utopie sono scadute
nella società del benessere, dove tutto si gioca nel presente del consumo, e perciò – già a quest‟altezza
cronologica – Toti può parlare del “furto di futuro” (qui: “ce n‟è rimasto poco di futuro”, v. 14), sia perché il
tempo in questo autore si rovescia continuamente a causa della dialettica dell‟inversione e così si parlerà di
“futuro anteriore” o di “futuro fututo”.
Una domanda etica è quella che chiede conto dell‟uso del futuro: “che uso ne hai fatto?” (v. 11) al passato,
ripetuto poi al futuro, “che uso ne faremo?” (v. 15). Con la consapevolezza che il giudizio può essere emesso
solo a posteriori, dopo la fine del “quando” (v. 16). Nell‟ultimo verso l‟omissione del verbo “sarà” rende il
responso più enigmatico, forse bruscamente interrotto. E fa riflettere anche quel punto interrogativo staccato
con un trattino: potrebbe voler dire che il dubbio non riguarda solamente la frase cui è apposto, bensì l‟intero
testo; e che l‟incertezza è l‟unica definizione del futuro, la potenza dell‟incognita produttiva.
Tra le due sezioni si nota un cambio di impostazione: la prima utilizza un soggetto anonimo di terza persona;
la seconda si rivolge al tu con formule colloquiali (“lo sapevi”, v. 12; “lo sai”, v. 14), per terminare con la
costituzione di un soggetto collettivo “noi”, composto da diverse sfaccettature (“tu io loro altri”, v. 15).
14
DISLOGIA SULL‟INAVVENIRE
5
10
15
20
25
non più saremo grandi non domandarmi
che cosa farò quando non lo sa(p)rò mai
l‟adulto è morto è nato il sempregiovane
l‟eterna adolescenza garantita dallo stato
vecchio il giovane mortale la maturità
i vetulardi abitano colonie buone sotterragne
e i bambini gli iniettano dosi feroci d‟infanzia
dalle soglie della morte già tutti tornati
velocemente indietro verso la prima casa
rientrate figli nel mio ventre bambino
l‟adulto è morto il sempregiovane è
neonato il nulla il tuttoquando balbetta
afasia abasia non premete i piedini
sul dolce tamburo della madre allons-vieux
non cresceremo più solo reinfantiliremo
neppure nasceremo viaggeremo a ritroso
per gli scroti nei semi negli amplessi di chi (?)
verso il prima del prima allontanandoci dal dopo
l‟a venire non è a venuto miei bambini d‟assalto
arrembiamo le origini ricambiamo le trans-forme
siamo sempre più vetuli dei nostri ancestri oscuri
già con l‟acqua ai malleoli i fil(m)amenti alti
affondiamo in un grasso silenzio naufraghiamo
dentro il dentro dove non più non ancora
celebriamo soltanto il futuro assassinato
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Il titolo composto da due nuovi termini derivati: “dislogia” e “inavvenire”. Il primo ci fa intuire una
deformazione della logica, una dis-funzione; il secondo usa il prefisso in- in negativo (come Toti fa per
“inenarrazioni” ad esempio), quindi riferito non solo al “furto del futuro” (effettivamente, più avanti, al v. 19,
è scritto staccato, “l‟a venire”), ma anche al vuoto di veri avvenimenti.
Tema del componimento è l‟inversione del tempo, il ringiovanimento e il mito della giovinezza – un
fenomeno che sarebbe poi diventato esasperato all‟epoca del “berlusconismo”.
Il testo si compone di due strofe di diversa lunghezza (10/15). Versi lunghi, tendenzialmente doppi settenari
(lo sono il v. 9, 13, 16, 17, 23, 25; 21 e 22 sono composti da un settenario sdrucciolo e un settenario piani);
ma anche più brevi (il v. 3 è endecasillabo) e più lunghi (fino alle 18 sillabe del v. 6).
Diverse operazioni sul corpo della parola: parole unite: “sempregiovane” (vv. 3 e 11), “tuttoquando” (v. 12,
ricalcato su “tutto quanto”); parole derivate: vetuli (v. 21, latinismo), ancestri (v. 21, francesismo), e poi
“vetulardi” (v. 6, commistione di “vetuli” + “vecchiardi”), “reinfantilire” (v. 15: prefisso re- per la
ripetizione e “infantilire” parallelo a “invecchiare”); varianti: “sotterragne” (v. 6, invece di “sotterranee”:
“terragno” conferisce maggiore selvaticità). Troviamo inoltre: dei termini modificati mediante l‟inserimento
di parentesi, che lasciano sul campo entrambe le varianti, “sa(p)rò” (v. 2), “fil(m)amenti” (v. 22); dei
composti con il trattino, “trans-forme” (v. 20); fenomeni di divisione come il già citato “a venire”, riprodotto
subito dopo in “a venuto” (v. 19). Non mancano inoltre giochi di parole come l‟inversione allons-vieux che
ribalta il famoso attacco della Marsigliese, allons enfants.
Certamente significativa è la frase sloganistica “l‟adulto è morto”, che, comparsa al v. 3, si ripete all‟inizio
della seconda strofa. È il tema della poesia, non solo l‟eterna giovinezza (“il sempregiovane”), ma addirittura
il ritorno indietro e nemmeno all‟infanzia, ma – per assurdo, se fosse possibile – nell‟utero (v. 10); fantasia
15
che, accompagnata dal passo di marcia del tamburo, rivela l‟aspetto regressivo (e, appunto, assurdo e
“dislogico”) della denegazione del tempo e della materiale caducità del corpo.
Interessante l‟inserimento della isotopia medica al v. 7, per cui l‟“infanzia” viene iniettata per mezzo siringa
in “dosi feroci” (è come una droga? certo è il risultato di una chimica crudele). “Afasia” e “abasia” (v. 13)
sono termini medici delle disfunzioni del linguaggio (nel verso precedente c‟è anche il “balbettio”) e del
movimento. Nell‟ultima parte del componimento, proprio la marcia trionfale si va impantanando: Si passa
dall‟“arrembare” (v. 20, che qui non ha il significato piratesco, bensì quello equino della camminata
difficoltosa), all‟“affondare” (v. 23, dopo che già prima si trovava “l‟acqua ai malleoli”), infine al
“naufragare”, leopardiano ma non troppo. Tra l‟altro, nel finale, il soggetto plurale diventa un “noi”, se non
generale, certo più ampio di quello che all‟inizio comprendeva soltanto l‟io e il tu (v. 1: “non più saremo
grandi non domandarmi / che cosa farò”).
Dunque, fine del tempo? Oppure reclusione senza speranza nell‟“inavvenire”? È ancora presto, alla fine
degli anni Settanta, per parlare di postmoderno, ma qui Toti scava già nell‟ambiguità dell‟utopia-distopia
dell‟eterno presente, e nell‟obbligo della giovinezza che avrebbe poi caratterizzato l‟epoca dei beauty center,
del lifting e della incapacità di invecchiare in un mondo in cui i penalizzati e gli esclusi saranno soprattutto i
veri giovani.
L‟ultimo verso parla dell‟“assassinio del futuro”, un termine forte. Che appare per altro come l‟unica
(ultima) forma di “celebrazione” per una società che si appresta a rovesciare i suoi valori.
16
6. DIALETTICA DELLA CONTRADDIZIONE E DEL CHIASMA
PARADÒSSIDE PARADOXISSIMUS
che tipo intrano!
aveva stima di se stesso
perché di se stesso non aveva stima
5
stimatelo dunque perché si disistima
voi che vi stimate perché vi stimate
avrebbe avuto disistima di se stesso
se si fosse stimato uno che si stimava
sapeva che era un ordine altrui
quello di stimarsi
10
e si stimava perché
disobbediva disistimandosi
ma come fare per non stimarsi
a causa della disistima di sé?
15
impossibile forse e disfingeva anche
di disistimarsi e solo così
si disistimava davvero: per la finzione
della funzione della
PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977
Componimento di sette strofe, quasi tutte distici (3/2/2/2/2/2/4). Versi di varia lunghezza, con l‟esito di un
andamento ragionativo. Tuttavia si possono rintracciare un endecasillabo (v. 15) e alcuni versi doppi, doppi
settenari (vv. 7, 14), doppi senari (vv. 3, 5), quinari doppi (vv. 11, 12).
Invenzioni lessicali: “intrano” (v. 1), che inverte l‟“extra” di extraneus in “intra”, uno che viene da dentro,
ma sempre diverso però; “disfingere” (v. 14), con prefisso dis- che in questo caso indica complicazione
(mentre in “disistima” indica negazione).
Il titolo stesso allude, in latino, al paradosso, e il testo è costituito da una serie di ribaltamenti e negazioni di
negazioni, sintomi di una dialettica che non smette. Tale dialettica si applica alla questione dell‟autostima,
dell‟amore di sé, dell‟egoismo e del narcisismo. È evidente, dice insomma Toti, che l‟eccesso di
autocompiacimento non va bene: ecco che l‟etica del contrario impone come imperativo di “disistimarsi”,
vale a dire di compiere su di sé una rigorosa autocritica. Ma allora chi riesce in tale opera, quasi guardandosi
da fuori, compie un atto stimabile: è soddisfatto di sé, l‟auto-disistimatore (vv. 1-3) ed è giusto che anche gli
altri, i “voi” cui si rivolge il testo, gli riconoscano merito (vv. 4-5), proprio perché è stato capace di
rovesciare i valori consueti (vv. 6-7) e di capire che il modello narcisistico è imposto dall‟esterno (vv. 8-9).
Tuttavia, a questo punto, sorge il problema: se la disistima produce una stima non si ricade di nuovo nella
impostazione che era stata criticata, non comporta insomma l‟insubordinazione (vv. 10-11), un atto di
superbia ancora maggiore? È dunque necessario un ulteriore rovesciamento? È quanto ci si appresta a fare
nell‟ultima strofa, attraverso la “disfinzione” o anche la “finzione / della funzione” (vv. 16-17): la messa in
risalto della finzione, ovvero la denuncia della “finta disistima”, consente di “disistimarsi” fino in fondo. Per
altro il testo termina con una interruzione sintattica, segno che la dialettica potrebbe riprendere di nuovo,
all‟infinito.
17
IL DESERTORE
era solo era nel deserto era desertico
la sua colonna stinta era sotterranea
verso il centro della terra rovesciata
il suo capo svuotato dai penseri già altrui
5
ma solo veramente solo non era sentiva
che non è solo chi con se stesso parla
e ha un corpo che si tocca che si specchia e altruìsce
come non essere due io e se stesso?
non sapeva non c‟era nessun altro a cui chiederlo
10
allora uccise gli occhi le mani ma non solo era
con tutti quei pensieri che lo lasciavano sempre
acqua che rifluiva dalle tempie scarnate
15
con tutte quelle immagini interne che vedeva
con altri occhi e con altre mani toccava
come avrebbe potuto solitudinare il mondo?
si proibì memoria e profezia si fece sentinella
del silenzio uccidendo flore e faune desertorie
ma non era mai solo era sempre due e tanti altri anche
quando si uccise erano almeno uomicida e suicida e
20
uomicidato e suicidato e cadavero e cadafalso e E
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Il testo si compone di 8 strofe di diversa lunghezza; però, a differenza del solito, vi si può notare una sorta di
regolarità: l‟andamento, infatti è 4/3/2/1/2/3/4/1, quindi con una progressione a decrescere e poi a crescere,
con un ultimo verso di chiusura. Irregolare invece la metrica “orizzontale”, fatta di versi lunghi, tutti
superiori alle 11 sillabe (l‟ultimo raggiunge le 19 se si accenta l‟ultima congiunzione). Volendo, si possono
individuare alcuni doppi settenari (vv. 4, 7, 12, 13).
Interventi sulla parola: “penseri” (v. 4; è così nel testo a stampa: visto il successivo “pensieri”, v. 11,
potrebbe trattarsi di un refuso – cosa che per Toti rimane sempre incerta); “altruire” (v. 7); “solitudinare” (v.
15) “uomicida” e “uomicidato” (vv. 19 e 20). Nell‟ultimo verso, gioco di parole “cadavero”/“cadafalso”. La
“E” finale risulta scritta con lettera maiuscola; forse a indicare una pronuncia a voce più alta della nonconclusione (la congiunzione alludendo a nuove possibili frasi che si potrebbero aggiungere).
Il titolo è la parola-valigia “desertore” (disertore + deserto): indica l‟elemento deviante e insieme il vuoto (di
codice, ma anche di sostegno da parte della collettività) in cui si trova ad operare nella condizione
dell‟avanguardia. Tema della poesia è infatti la solitudine; la terza persona anonima fin dall‟inizio (“era
solo”) è nella situazione dell‟eremita nel deserto, propriamente dello stilita sulla colonna (che però è
“rovesciata” verso il sotto). Lo spazio vuoto del deserto corrisponde a una pratica di svuotamento mentale, a
partire dalla considerazione che i pensieri sono indotti dall‟esterno (sono “altrui”). Ma, come il testo
dimostra nella sua stessa fattura, il vuoto dei significati consente lo scatenamento dei significanti, la
reinvenzione del linguaggio.
L‟azione negativa su di sé, l‟annientamento dei sensi nel verso centrale (“uccise gli occhi le mani”, v. 10), e
poi il suicidio negli ultimi versi, che è sempre anche “uomicidio”, sia nel senso che l‟io è sempre un altro, sia
18
perché si tratta di uccidere l‟ „“uomo” , cioè di “disantropomorfizzarsi”; bene, il negativo ottiene però la
moltiplicazione dell‟io (che “altruìsce”, v. 7). Dove si dimostra che l‟operazione dell‟avanguardia (e
particolarmente in Toti) non è soltanto negativa, allo svuotamento corrisponde il riempimento, l‟utopia.
In quel finale non finale (v. 20), si compie proprio sul massimo negativo, il “cadavere”, un gioco di parole tra
“vero” e “falso” che sembrerebbe alludere allo statuto misto della letteratura che, strettamente parlando, è
falsa, ma, nel suo sovrasenso, è assolutamente vera; soprattutto quando si mette in gioco e mette in gioco il
suo linguaggio – come qui – con un alto tasso di autocritica.
GRAMSCI-MARIATEGUISMO: PUNTI DI SVISTA
ottimista
: va tutto male
perché tutto potrebbe
andare bene e meglio
5
10
pessimista
: va tutto bene
perché tutto potrebbe
andare male e peggio
e il primo sopramuore
: ancora male io sto
e il secondo sottovive
: io sto bene così
e uccide la morte il primo
e uccide la vita il secondo
15
e uccide tutteddue il terzo
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Il titolo è un omaggio a due autori cari a Toti: Gramsci e Mariategui, che egli univa anche nel composto
“gramsciategui”. Juan Carlos Mariategui è l‟analogo di Gramsci nell‟ambito del marxismo sudamericano. In
questo caso sono accomunati per il particolare “ottimismo rivoluzionario”, che unisce l‟ottimismo della
volontà e il pessimismo della ragione. Ottimismo e pessimismo, secondo Toti, non si danno in assoluto,
perché sono due opposti “punti di svista” (girando al negativo il “punto di vista”). Come si vede da questo
brano, la dialettica spinge alla ricerca del “terzo”, dopo che Toti ha mostrato la debolezza dei due punti
separati: il pessimista finisce per adattarsi al meno peggio (v. 12) mentre l‟ottimista si crogiola in una
insoddisfazione depressiva (v. 10). Il passaggio attraverso la “falsa alternativa” viene trovato attraverso
l‟inversione e il chiasma finali (“pessimo ottimista / pessimista ottimo”).
La forma del testo è funzionale al suo contenuto, infatti le 7 strofe si dispongono in una costruzione parallela:
4/4/2/2/1/1/3, dove i due “punti” si alternano e l‟ultima strofa, dispari, rappresenta il “terzo” dialettico,
costituito non per caso da tre versi. I versi sono prevalentemente settenari; nelle strofe centrali alternati a
ottonari, anche qui a chiasma (vv. 9-10: settenario-ottonario; vv. 11-12: ottonario-settenario).
Gli stessi interventi sul linguaggio sono in linea con la questione dialettica: sono composti a chiasma i
termini “sopramorire” (v. 9), e “sottovivere” (v. 11), modellati su “sopravvivere”. La forma fusa “tutteddue”
(v. 15) mostra l‟identità degli opposti che devono essere superati (qui, addirittura “uccisi”).
19
7. RETORICA IN GIOCO
(NECROLOGIO PER LA METAFORA)
5
10
non paragonava più niente a nessuno
non diceva più alla sua donna
che era come una rosa che era una rosa
non ripeteva neppure più alla sua rosa
che era come la sua donna che era la sua donna
ma quando lei arrivava sei come te ripeteva
e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava
e gli veniva quasi da piangere perché
la sua donna era solo la sua donna
le rose erano le rose
e tutte le donne del mondo tutte le rose
il come era abolito nessuno sapeva più distinguere
tra il volto e lo specchio finalmente...
L‟UOMO SCRITTO, 1965
Unica strofa di 13 versi. La lunghezza dei versi varia da 9 a 19 sillabe, endecasillabo il v.9 e forse il v. 13.
Il titolo manifesta a tutte lettere la lotta alla metafora, addirittura definendola “morta” (in quanto ne scrive il
“necrologio”). Questa lotta è una carattere dell‟avanguardia: in quanto procedimento principe della poesia,
capace di collegare malgrado tutto l‟uomo con la natura (anthropos e cosmos), la metafora in questo caso
viene apertamente respinta.
E viene respinta proprio evocando un apparentamento molto influente nella tradizione, fondato nelle radici
del filone “amoroso” della poesia (si pensi a Rosa fresca aulentissima o al Roman de la rose). I due termini
dell‟analogia sono qui disgiunti attraverso la negazione ripetuta a chiasma, in cui alternamente vengono posti
come comparante e come comparato, sicché è negata la reciprocità della metafora. E si noti il parallelismo
tra i vv. 3-4 e i vv. 4-5.
Più che di metafora, in realtà, nel corpo del testo si tratta di paragone, ed è detto subito all‟inizio, a proposito
del solito soggetto anonimo di terza persona, “non paragonava più niente a nessuno”. Paragonare, per altro, è
un modo per normalizzare, omologare le differenze. Il paragone o similitudine si basa sul tramite del “come”
che viene verso la fine dichiarato “abolito” (v. 12). La questione tornerà ancora in seguito, come vedremo nel
testo seguente. Per quanto riguarda questo testo, si deve inferire che qui non vale l‟incrocio dei termini. Per
sconfiggere pienamente la metafora ci vuole la tautologia, per cui ogni essere o cosa è imparagonabile, è
soltanto sé stesso (vv. 6-7 e 9-10). Invece della somiglianza relativa del paragone e anche di quella solo
virtuale della metafora, qui si vorrebbe l‟identificazione intera, semmai, o metamorfosi, l‟indistinzione tra
rappresentante e rappresentato (“il volto e lo specchio” uniti, v. 13). Una utopia accompagnata da una
insolita e incerta commozione (v. 8).
(COME UN COME)
«chiudi quel rubinetto di sintagmi
hai capito? smettila con quei “come”
a forza di metafore non so più
che cosa sono, sono come un “come”»…
5
risposta:
«tu porterai in tavola
20
tutto quello che hai di migliore...»
e quando il giorno si inchinò alla notte
arrivò portando
10
il dubbio.
L‟UOMO SCRITTO, 1965
Componimento costituito da 3 strofe disuguali (4/5/1), ma si potrebbero considerare due quartine, non
considerando il v. 5 e il v. 10, trisillabi (perciò da considerare frammenti di verso). Buona maggioranza di
endecasillabi: tutta la prima strofa e poi il v. 8.
In entrambe le strofe compaiono delle voci, indicate con le virgolette. Non sembrano voci esterne, quanto
piuttosto interne, le voci della coscienza correttiva e autocritica che presenta obiezioni a un “tu” che viene
trattato nel finale come terza persona anonima (v. 9).
Il titolo presenta una sorta di paragone al quadrato. Ricordo che un testo con lo steso titolo si troverà più tardi
anche in Compoetibilmente infungibile (inizia così: «irreale come un come / che non si risolve in metafora»).
Qui, la prima voce invita di nuovo ad abolire il “come”. Presenta una ingiunzione negativa (“smettila”, v. 2),
in base al fatto che l‟eccesso di metafore, ovvero di interscambi analogici, conduce alla confusione: infatti la
“semiosi infinita” (il fatto che si possa sempre paragonare ad un‟altra cosa ancora) è una “cattiva infinità”
nella quale il soggetto si perde e si ritrova a sua volta usato come semplice ponte di passaggio tra un‟analogia
e l‟altra. “Come un come” è per l‟appunto la paradossale somiglianza con lo stesso tramite della somiglianza.
Nella seconda strofa arriva una risposta: ma la risposta non sembra andare a tono, in quanto è costituita a sua
volta da un imperativo. Questa volta, però, il comando della coscienza è positivo, è una richiesta di “qualità”
(“quello che hai di migliore”, v. 7). L‟esito finale – caratteristico dell‟etica del contrario – è che quanto ha
più valore è “il dubbio”, vale a dire la critica e l‟ironia che mettono in questione ogni valore. Il dubbio,
naturalmente, riguarda anche l‟eccessiva facilità della somiglianza: mentre la somiglianza unisce qualsiasi
cosa, il dubbio disgiunge.
È interessante che la sospensione dell‟analogia avvenga mediante l‟inserimento di campi semantici
metaforici: la liquidità come facilità del linguaggio (il “rubinetto di sintagmi”, v. 1); il cibo come positività
nutritiva del negativo (“porterai in tavola”, v. 6: e quello che viene imbandito è il dubbio…); e infine la
personificazione delle fasi della giornata, dove il giorno compie un gesto di cerimoniale gentilezza (un
“inchino”) verso la notte (che potrebbe essere una semplice variante del “declinare”; ma anche un lasciar
subentrare qualcosa di più importante: la notte, rovescio del giorno e tempo vuoto del sonno, adatta all‟etica
della contrarietà).
(Ossimori)
5
10
sul mio orologio inutile le vostre ombrette sotto le lance
il tempo ha pallide le guance adesso
che i cieli pietrificati hanno deciso di aspettare
che si sgelino gli occhi della medusa industriale
che le radici dell‟arma piantata perché germini
si disfacciano in dolci putredini d‟uomini svissuti
pugnali d‟acqua lame di cera aghi di dolce durezza ossimori?
come puoi ancora? chi ti ascolta più se
con parole così liquide ti lavi lingua e occhi
e non pensi a ciò che non può essere per essere
e non accetti tutto anche il rifiuto
dalle mani ancora calde di seni assenti rubati...
21
15
i giovincelli della rapina con le tempie grige
senza parola da dire solo notizie da comunicare
ferrigne sulle astute papille del malgustai
ti riammazzano quando vogliono è quasi inutile
che tu stia attento ai pugnali-pugnali e trascuri
i pugnali-carezze le invisibili lame delle strette di mano
notizie che hanno paura di dirsi – cancéllale fa presto...
PENULTIME DALL‟AL DI QUA, 1969
Il testo è intitolato all‟ossimoro, figura principe della operazione totiana, che realizza, nell‟accostamento
degli opposti, la dialettica degli estremi.
È composto di 3 strofe, con una certa simmetria (7/5/7). Si tratta di versi lunghi, che arrivano a 21 sillabe; i
più corti sono i 2 endecasillabi (vv. 2 e 11). Molti versi possono essere considerati divisi in due parti, però
non sempre in parti uguali (nel v. 12 possiamo individuare un doppio ottonario). In alcuni casi si può
ipotizzare una divisione in 3 parti: per esempio nel v. 6 (5+6+6), nel v. 18 (un triplo settenario). Il v. 19 può
essere contato come endecasillabo+settenario, oppure (con una pausa dopo “notizie” ) come 3+8+7. In
quattro parti può essere diviso il v. 7 (5+5+8+3).
Si riscontrano anafore (vv. 2-5, 10-11) e anche una rima, sia pure interna: lance/guance (vv. 1-2).
Nella prima strofa, allitterazione di “p”: “Pallide”, “Pietrificati”, “asPettare”, “Piantata”, “Perché”,
“Putredini”, “Pugnali”; e di “s”: “aSpettare”, “Sgelino”, MeduSa”, “diSfacciano”, “SviSSuti”, “oSSimori”.
Nella terza strofa troviamo l‟allitterazione della consonante liquida: “giovinceLLi”, “suLLe”, “papiLLe”,
“maLgustai”, “inutiLe”, “pugnaLi”, “invisibiLi”, “Lame”, “canceLLaLe”.
Invenzioni lessicali: “svissuti” (v. 6: rovesciamento di “smorti”), “malgustai” (v. 15: rovesciamento di
“buongustai”). Le “ombrette” ricalcano le lancette dell‟orologio.
Il testo si apre sulla visione di un tempo bloccato: l‟orologio è “inutile” (v. 1), i cieli sono “pietrificati” (v. 3).
Un tempo di attesa (l‟“aspettare” del v. 3) dell‟utopia di un mondo con una produzione a misura d‟uomo e
l‟avvento della non-violenza. Dinamismo retorico ottenuto in vari modi: la personificazione del tempo, le cui
“guance pallide” denotano cattiva salute o apprensione. L‟ossimoro (cui il testo è dedicato) lo ritroviamo nei
“cieli pietrificati” e poi, nel v. 7, nell‟elenco delle armi spuntate: “pugnali d‟acqua”, “lame di cera”, ecc.
(contrasto tra duro e liquido, duro e molle). La “medusa industriale” è l‟immagine di una economia basata su
leggi tassative, il cui sguardo dovrebbe “sgelarsi” (lo sguardo di Medusa pietrifica; anche qui c‟è un
passaggio al liquido). L‟“arma piantata” (v. 5) non è piantata su di un corpo, ricorre alla metafora vegetale,
però in senso negativo, perché la violenza vorrebbe germinare in escalation: meglio allora che la mala
pianata vada in “putredine” (che per questo è detta “dolce”: altro ossimoro?).
Dall‟io della prima strofa (il “mio” orologio, v. 1) si passa al tu nella seconda: è il rilevamento della
condizione di crisi, in cui l‟intellettuale e l‟artista non ricevono più ascolto, anche perché il linguaggio è
adulterato. Toti utilizza la metafora del liquido, ancora in negativo, “lavarsi la lingua e gli occhi” (v. 9),
estendendo alla parola e all‟immagine il modo di dire “lavarsene le mani”.
Nella terza strofa, ancora un ossimoro sono i giovani “con le tempie grige” (v. 13), giovani che nascono già
vecchi e corrotti dediti alla “rapina” (v. 13) e all‟omicidio (“ti riammazzano quando vogliono”, v. 16), sia
pure nel modo non appariscente di un attacco all‟etica e alla ragione. Strumento di dominio è la
comunicazione di massa incentrata sulle “notizie” e sulle forme accattivanti di ammorbidimento (i “pugnalicarezze” le stesse “strette di mano” che contengono inquietanti “lame”, v. 18). Non resta che reagire, con
l‟imperativo finale che esorta alla cancellazione.
22
8. SULLA (DIS)SCRITTURA
POETESTIMONIANZE
5
10
un collaboratore ascoltatelo uno del poetariato
:
solo a me stesso dice posso ormai parlare
e neppur‟io mi ascolto sempre penso ad altro
che cosa avevi detto chiede al lettore di darti ancora retta
se non ho fatto altro ho le parole in bocca
ancora non spedite le respingono all‟omittente
io stesse le respingo me le mando per non leggermi
è il silenzio che cresce la sua pagina non più mensa
le parole fanno ridere si fa per dire io non rido
PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977
Il titolo è una tipica parola sovrapposta di Toti ottenuta con la giunzione “poeta + testimonianza”.
Testo in un‟unica strofa di 10 versi, interrotta da un verso riempito dai soli due punti (v. 2).
Versi lunghi, nei quali prevale il ritmo del settenario doppio (vv. 3, 4, 6, 8) o che comunque comprendono
almeno per una parte il settenario (vv. 1, 5, 7, 9). Unico leggermente discordante l‟ultimo (contabile 8+8).
Al v. 8, “io stesse” è così nell‟originale, molto probabilmente è un refuso (“io stesso”), tuttavia nel caso di
uno scrittore come Toti – come ho già detto – non si è mai sicuri.
Mescidazioni lessicali: “omittente” (v. 7, composto da mittente + omissione); “mensa” (v. 9) è aggettivo
ottenuto togliendo il prefisso a “immensa”, quindi significa “misurabile”, senonché la negazione restituisce
ampiezza.
In tutta la raccolta si agita la commistione tra arte e politica, manifestata da Toti attraverso i composti con
“proletariato”: nel titolo “paroletariato”, qui “poetariato” (v. 1); del resto, sono gli anni del “proletariato
intellettuale”, del cambiamento di rango sociale che toglie prestigio alla cultura.
Proprio questo è l‟argomento del testo in esame. All‟inizio il rappresentante del “poetariato” è presentato
come se salisse su un palco. La sua voce, quindi, è in qualche modo annunciata e proposta ad un ascolto
protetto. Tuttavia proprio il rapporto con gli uditori sembra essersi interrotto: il soggetto ammette di parlare
solo a se stesso. Anzi, per paradosso, neppure a se stesso (v. 4 e poi v. 8), per cui non ha proprio alcun
destinatario al mondo. La scrittura si avvita allora in un circolo vizioso senza uscita, se non fosse che rimane
la struttura dell‟atto comunicativo, ribadita ancora nel v. 5. Fatto è che il silenzio dell‟avanguardia chiede di
essere ascoltato, perché ha malgrado tutto (e malgrado la sua autofinalità) qualcosa da dire ed esattamente
intende avvertire della crisi del linguaggio come strumento sociale. Per questo la pagina azzerata recupera
un‟ampiezza enorme (il “non più mensa”, vuol dire “di nuovo immensa”).
Il paradosso si moltiplica su stesso: i messaggi vengono respinti prima ancora di essere spediti, anzi vengono
respinti anche se il mittente ha deciso di non spedirli (diventando perciò “omittente”, v. 7).
Alla fine “le parole fanno ridere” (v. 10) è il segno della decadenza culturale, ma è forse anche leggibile in
chiave autocritica (la poesia avendo ormai un peso risibile); ma in entrambi i casi non c‟è niente da ridere:
sia dal lato del degrado linguistico-cultuale, che è disastroso; sia dal lato della poesia giocosa, il cui gioco
rasentando il silenzio è decisamente disperato.
SCRIPTORIUM
la scribanìa salpa quasi ogni notte
si ammutinano penne parole tasti macchinette
23
5
cose con nome e cose senza nomi che non sai
eppure conoscono le tue mani le conducono
fino agli etimi erratici del silenzio scrittorio
una lava di suoni muti che rompe la crosta
dei cassetti i destini immossi nella tana
corrono solo il rischio commotivo di
arroversi prima di arroventarsi poi
10
15
20
25
sulla tolda degli schedari quasi seduto in piedi qualche uno
che ti sembra sul cassero alto fra le carte
comanda a marinai dubbiosi senza gambe
maretta e bonaccia il male del mare verbale
la sera scrittoria è triste quanto un secolo inconcluso
ricupera subito il timone tu e la riga coi centimetri e i corpi
cercati l‟antiporta il vicolo d‟uscita che non
il soffitto ambisce a cielo ma non si sposta
il deserto del pianerottolo spaventa i gradini
nelle tue vene senti scorrere sangue altrui
una lima di minuti feroci sta segando
polsi di cristallo scheggiato introduce
tempoveleno che circola e uccide in
continua azione e ti muore
si ferma senza essere mai stato in moto
la parola veliero non ti dice più niente
la tua nave è la tua banchina
vela-pagina ammainata
IL POESIMISTA, 1978
Il testo si compone di 5 strofe di varia lunghezza (5-4-4-9-4). Versi lunghi, superiori alle 11 sillabe, tranne
gli ultimi 2; si riconoscono alcuni doppi settenari (vv. 5, 7, 12, 19, 25), però in minoranza. Eccedenti
soprattutto i vv. 10 e 15. Drastici enjambement separano i vv. 8-9 e 22-23, mentre il v. 16 sembrerebbe
interrotto sulla negazione.
Manipolazioni lessicali: scribanìa (v. 1, alterazione di “scrivania” riportandola a “scriba”, antica figura
dell‟intellettuale); immossi (v. 7; per “non mossi, fermi”); arroversi (v. 9, forse per “rovesciarsi”, in
parallelismo e ripetizione sonora con “arroventarsi”); tempoveleno (v. 22, semplice parola composta). Al v.
23 la parola “continuazione” compare invece divisa in “continua azione”, indicando allora non la continuità,
ma il movimento. Al verso successivo, troviamo l‟uso transitivo di “morire”. Il v. 13 è costruito sulla
paronomasia e sulla rima interna: “maretta… il male del mare verbale”. Varie assonanze: “CONosCONO…
CONduCONO” (v. 4); “ETImi ErraTIci” (v. 5); “COrrOnO… COmmOtivO” (v. 8); “CAssERo… CARtE”
(v. 11), ecc.
Il testo è rivolto a un tu che corrisponde all‟io. Si fonda sulla continuazione della metafora navale applicata
alla scrittura, che determina lo spostamento del piccolo (lo scrittorio, la casa) nel grande (lo spazio marino, il
viaggio). Nella prima strofa compare la rivolta degli strumenti, nel modo di un ammutinamento che arriva
fino al silenzio (i “suoni muti” del v. 6). Il linguaggio si ribella all‟autore, non vuole più servire, ma con
questo spezza il rapporto comunicativo. Non per niente troviamo, più avanti, un equipaggio piuttosto
sgangherato (“comanda a marinai dubbiosi senza gambe”, v. 12). Si tratta di tutto e niente, immaginazione
per la tangente e effetto imponderabile: l‟aprirsi della casa (vv. 17-18) sembra bloccarsi, mentre la
collettività passa nelle vene culturali del soggetto (“nelle tue vene senti scorrere sangue altrui”, v. 19). I
campi semantici della metafora indicano sia l‟esplosione tellurica (la “lava”, v. 6) che il lavoro di fino (la
24
“lima”, v. 20). La scrittura è coinvolta in una missione avventurosa che termina però in una impasse;
precisamente nella contraddizione, nell‟ossimoro (“si ferma senza essere mai stato in moto”, v. 24; ma già al
v. 10: “quasi seduto in piedi”, insomma come sta messo?). Una coincidentia oppositorum tra movimento e
stasi (“nave” e “banchina”, che conduce anche la metafora alla condensazione del trattino tra “vela” e
“pagina” (v. 27), proprio nel momento, però, in cui l‟elemento entusiasmante della creatività risulta
depotenziato (“ammainato”).
L’AGRAFÌA
scrivere ciò che non scrivi
per dire ciò che non dici
e tacere ciò che non taci
5
tu non hai scritto ciò che non
si legge oltre la tua scrittura
fuoripagina fuoriparola
e fuorisilenzio anche perché
il silenzio non basta devi assediarlo
10
contro le mura del linguaggio
avvèntati ancora e sempre:
è quello il carcere assoluto
il mondo è significato significattivo
segnofacente fuorisegno
l‟espressione è l‟inesprimibile
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Il testo è formato da 7 strofe molto brevi, denotanti una certa periodicità (3-2-1-2-3-2-1). Versi vari, ma
prevalentemente novenari e varianti (in meno, ottonari; in più, decasillabi); eccedenti il v. 8 e il 12.
Troviamo vari composti: “fuoripagina”, “fuoriparola” (v. 6); “fuorisilenzio” (v. 7); “fuorisegno” (v. 13).
Neologismi: “segnofacente” (v. 13, modellato su “stupefacente”). Parole valigia: “significattivo”
(significativo + cattivo).
Il testo è rivolto anche questa volta al “tu”, con una esortazione piuttosto imperativa attorno ai 2/3 e una
definizione finale. La prima strofa procede in stretto parallelismo (isocolo) contenente però la dialettica del
negativo tipica di Toti, a sostenere il sostanziale azzeramento del messaggio (“dire ciò che non dici / e tacere
ciò che non taci”). La seconda strofa suggerisce l‟oltrepassamento dell‟intenzione dell‟autore; poi, dall‟oltre,
si procede al “fuori” e al gioco dei suoi composti. Uscire dal codice, anche da quello delle stesse
avanguardie: nemmeno il silenzio basta, perché può a sua volta ossificarsi in una manovra scontata e
prevista; il testo stesso dimostra che bisogna sempre aggiungere, togliere e levare instancabilmente, non
smettere. Poiché il significato stabilito dal mondo è “cattivo”, non resta che affidarsi ai significanti, liberarsi
e portarli “fuorisegno” – dice la sesta strofa. Ma già la precedente quinta aveva enunciato il perentorio
imperativo della sfida al linguaggio: niente di meno, perché il linguaggio è una prigione (“la prigione del
linguaggio”, è detto negli stessi anni del titolo di Jameson). A partire dalla metafora del muro e del carcere,
l‟invenzione poetica si presenta non come semplice evasione ma come assalto: per la verità prima il testo
dice “assediare” (v. 8, contro il silenzio), poi “avventarsi” (v. 10, contro il linguaggio-prigione), che
sarebbero due movimenti opposti, tuttavia convergenti nell‟essere del pari conflittuali e polemici, tutt‟altro
che pacifici.
Infine, la definizione dell‟ultimo verso (“l‟espressione è l‟inesprimibile”, v. 14) è un ossimoro e di quelli di
vasta portata, che collima con le mosse dialettiche dell‟inizio.
25
9. POETICA E POLEMICA IN VERSI
DICHIARAZIONE D’AMICIZIA D’UN ILLETTERATURO
CHE NON FA SALVI I PREVISTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
a «Salvo imprevisti» (riciclostilevista)
A «SALVO IMPREVISTI» (RICICLOSTILEVISTA)
5
10
…con i previsti invece imprevedibili
futuri che rilenti si riavventano
sulle pagine antiche dubitanti
(omilitali oggi forse mai se
chi «in gruppo» cammina o si riassembla
non imprevisto si rivuole adesso
all‟epoca che è stanca ma lo porta)
«sotterranea minimazione» no –
però no: consigliamo overground
perchè vivibondi semmai sottocielanei
20
le «minima muralia» altrui lasciamo
(parenetici endecasillabando)
e poesia parietale o da tempia
vendichiamo per noi oggi sapevoli
che nessuna cautela ci assicura
e in costruzione assoluta introduce
opposta condizione per lo più
e espressa sottintesa o contraria
ineventualità o rimoriscenza
(qzertyuiop qzertyuiop)
25
«poesia-documento»? documenta
chiedono a tutti i politiciziotti
– anche alla poesia li richiediamo?
:
«dai documenti umani tragga spunto
e ragione...»
15
«e sia mezzo politico e civile
di azione che coinvolga...»
«non emolliente il filtro: che sia crudo...»
30
35
facili endecasillabi autoironici
lo so: per questo non li meritiamo
né io né voi né loro
(ma)
parvifiche
e regressive sorti dei teopi
che fanno seopìe sempre comeunque
26
40
45
imp-revisori e re-visionari
sempre «in piccolo gruppo» settatori
di se stessi vocati a (v)vocare
invocazioni missionarie
o
pure
messianistiche ancora:
ho storia
oh fretta!!!
e tutta via tuttavia
via tutta
con voi ((in))naturalmente
totibante totibile tot‟io . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
(((non salvo e non post-visto)
CHIAMIAMOLA POEMETÀNOIA, 1974
Nove strofe di varia lunghezza (7/3/19/3/2/2/1/16/5). È scritta prevalentemente in endecasillabi, e questo
fatto viene sottolineato in due passi (v. 12 e 29), dove l‟autore indica una doppia valenza dell‟endecasillabo:
da un lato la spinta a un discorso programmatico, esortativo (“parenetico”); dall‟altro la riproduzione ironica
della misura più canonica che ci sia. Per la verità ci sono alcune eccezioni, versi eccedenti o per difetto o per
eccesso (non sono endecasillabi i vv. 9, 10, 20, 25, 27, 47, 49); ma si può notare che i versi scalati che si
trovano nella ottava e nona strofa sono in realtà degli endecasillabi spezzati (vv. 31-33, 39-41, 42-44, 45-46).
Numerosissimi interventi lessicali: a partire dal titolo, l‟“illetteraturo”, gioca sul ruolo del letterato con due
interventi che lo mettono al negativo e al futuro. Nel testo, andando passo passo: v. 4, “omilitali”, dal greco
“omilia”, società, indica il gruppo dei “militanti”; V. 10: “vivibondi” (il contrario di “moribondi”) e
“sottocielanei” (modellato su “sottocutanei”). V. 14: “vendichiamo” e “sapevoli” sono acefali del prefisso
(da “rivendichiamo” e “consapevoli”). V. 19: “ineventualità” (prefisso negativo) e “rimoriscenza” (modellato
su “resipiscenza”). V. 22: “politiciziotti”, parola valigia che sovrappone “politici” e “poliziotti”. VV. 34-35:
“teopi” (coloro che vedono il divino, ma ricorda anche “topi”), “seopìe” (forse viste del “se”, quindi incerte;
o del sé, riflessive), “comeunque” (latinismo?). V. 36: “imp-revisori e re-visionari” (composti il primo con la
sovrapposizione di “imprevisto” a “revisori”, quindi con guadagno di sorpresa; il secondo con l‟apposizione
del prefisso “re” a “visionari”, quindi con guadagno di replicabilità).
Da notare inoltre: l‟uso delle parentesi al v. 38 e poi doppie al v. 47 (con negazione) e infine triple nel verso
finale. Al penultimo verso, Toti gioca sul proprio cognome: “totibante totibile tot‟io”. Curioso il v. 20 con la
parentesi “(qzertyuiop qzertyuiop)”: non si tratta di antiche lingue degli indiani d‟America, ma
semplicemente della prima riga in alto della tastiera.
Il testo è inviato alla rivista “Salvo imprevisti”, storico periodico fiorentino aperto alle sperimentazioni,
diretto da Mariella Bettarini. Sul nome della rivista Toti gioca fin dal titolo, sia sulla “salvezza” che sulla
“prevedibilità”, che sono poi temi sviluppati nel testo e trattati ancora nell‟ultimo verso (dove “post-visto” è
il contrario di “pre-visto”). Il testo rappresenta l‟intervento al dibattito sollevato dalla rivista, di cui si
trovano citazioni sparse nelle strofe centrali. Un dibattito sull‟impegno, che evidentemente aveva posto
l‟accento sulla scrittura del “documento”, che qui Toti irride rifacendo la parlata dell‟agente meridionale (vv.
21-22). Impegno sì, ma non nel modo “previsto”; “salvare l‟imprevisto” della poesia, significa per Toti
proiettarsi piuttosto verso il futuro con una visuale profetica per certi versi ineludibile, ma d‟altra parte anche
sempre consapevole dei propri inevitabili limiti. Sicché non si capisce bene se il “missionario” e il
“messianico” siano da “vocare” o da “avvocare”. Da considerare il passaggio dei vv. 11-13, dove sono messe
a distanzia le “minima muralia” (con polemica non tanto con Adorno e i suoi Minima moralia, quanto con la
squillante invadenza del manifesto murale) e si propone invece una “poesia parietale”, che non riguarda però
una parete, ma un osso, è cioè una poesia da “tempia”, una sorta di appendice corporea. La visione si
accompagna a “parvifiche e regressive sorti” (vv. 33-34; inversione della formula leopardiana sulle
“magnifiche sorti e progressive”) e analogamente non c‟è impegno senza la controreplica del gioco del
dubbio: il “dubitanti” del v. 3 si rifrange nel “totibante” (“titubante” rivisto attraverso il proprio cognome)
del v. 48.
27
In tutto ciò c‟è il problema del gruppo (v. 5, poi il “piccolo gruppo”, v. 37): a quest‟altezza, il Gruppo 63 è
ancora vicino, sebbene in fase di smobilitazione. La questione dell‟avanguardia è ancora viva, con la sua
provocazione del collettivo. Toti sente la suggestione del collettivo, ma nello stesso tempo è consapevole che
il compito, alla fine, è per ciascuno singolare. Per questo dichiara amicizia “omilitale”, ma come compagno
di strada, su un percorso parallelo dove ognuno è “settatore [termine raro, burocratico, per “sostenitore”] di
se stesso” (vv. 37-38), proprio per evitare le false rassicurazioni del settarismo.
PER IL TRATTAMENTO SINTOMATICO DELLE MALATTIE DA RAFFREDDAMENTO
INTERIORE
5
10
consigliamo qualcosa come confetti fluttuanti
finindamina mortamina ideanina uranina utopina etc.
decongestionano infatti il traffico dei sentimenti
costringono i vasi delle affettività dilatate
sopprimono gli oppressori ideologici privati
le poemalée le colorìti i musicolàri (dolori)
e fagocitano i tristociti le influenze dell‟ostile
alterità
insomma si affrettino i disponibili
alle poesìti alle allucescenze alle reinvisioni
la congestione reattiva è medicamentosa come
si dice con pochi concetti potrete fluttuanti
disintossicarvi dalle poetossine le liricitiche
smetterla con le algìe artisticolari
COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979
Strofa unica di 14 versi interrotta da un verso scalare al centro. Versi lunghi, vari di 16 sillabe, ma senza
regolarità.
Sottolineo i versi elencativi (vv. 2, 6, 10).
Contaminazione tra il lessico medico delle malattie e delle medicine con quello della cultura e della poesia.
In particolare “poemalée” (v. 6, modellato su “cefalee”), “poesìti” (v. 10, modellato su “otiti”); “poetossine”
(v. 13, parola valigia composta da “poeta + tossine”). Da notare inoltre “musicolari” (v. 6, deformazione di
“muscolari” con l‟apporto di “musica”) e “artisticolari” (v. 14, deformazione di articolari con l‟apporto di
“artistici”).
Toti è per solito un fautore della poesia come invenzione e reinvenzione della lingua, cosa che fa anche in
questo testo. Però qui in polemica con la cattiva poesia, quella che si presenta come semplice sfogo della
tristezza (per cui i nefasti “tristociti” del v. 7). Molto azzeccato è non solo l‟interpretazione della poesia
come malattia, ma la sua assimilazione alle “malattie del raffreddamento”. La cattiva poesia non è scaldata
dal troppo sentimento, come si potrebbe pensare, ma è “raffreddata” in quanto l‟emissione del dolore finisce
per essere anche un abbassamento della carica formale-linguistica, una sua banalizzazione. Si consigliano
confetti-concetti “fluttuanti”: movimentare il linguaggio, abbandonare le norme e gli stereotipi, passare dal
dolorismo all‟utopia.
28
10. ECONOMIA POLITICA
PROFETALPA
10
la Vecchia Talpa parla alla giovane talpa
: io sono la rivelazione della rivoluzione
quando affiorerò vedranno l‟affiorescenza i dentini
lungopazienti degli occhiusi che vedevano il buio
quando gli aperti credevano lucevedere
poi toccherà a te nel sottocielo
dovrai scavare cunicoli azzurri
diranno che sei una talpa bambina ingenua
non sanno che sarai più antica di me
con più eoni alle spalle
15
come ti chiameranno io non so
non ti chiameranno neppure – fors sit!
non si accorgeranno di te
solo di quel limìo subtelile
di quei minimi strappi nella gran tela assurra
5
poi capiranno ti daranno un nome
«giovane talpa» dirà un junge Karlchen
allora saprai che anche tu dovrai figliare
PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977
Tre strofe di varia lunghezza, decrescente (10/5/3). Versi più lunghi e più brevi dell‟endecasillabo: in
particolare di 14 (doppi settenari vv. 1, 15; altre composizioni, vv. 5 e 18), e di 16 sillabe (vv. 2 e 4 sono
9+7, solo il v. 3 8+8); endecasillabi i vv. 7, 11, 16, 17, forse anche 12).
Nel lessico: termini derivati (“affiorescenza”, v. 3; “limìo”, v. 14); termini composti (“lungopazioneti”, v. 4;
“lucevedere”, v. 5; “sottocielo”, v. 6); contratti (“occhiusi”, v. 4, per “occhi chiusi”). Inoltre “assurra” (v. 15)
per “azzurra”, se non è un refuso; “subtelile” (v. 14) dovrebbe significare “che ha uno scopo sotterraneo”.
Una paronomasia è “la rivelazione della rivoluzione” (v. 2). Il plurilinguismo trova uscite in latino (v. 12) e
in tedesco (v. 17).
Il titolo, Profetalpa, parola composta da profeta + talpa, indica bene la prospettiva del testo. Si tratta di un
dialogo tra talpe o meglio di un discorso della “vecchia” rivolta alla “giovane”. Che è anche un dialogo con
Marx e con la sua immagine della “vecchia talpa” posta, ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, a
rappresentare la rivoluzione che lavora sotterraneamente per poi emergere a tempo debito (e quella era, a sua
volta, una citazione dall‟Amleto di Shakespeare). Qui la talpa è profetica perché si rivolge al futuro, a un suo
ipotetico successore, immaginando quindi una sorta di ciclicità e eredità della rivoluzione. Toti ragiona sulla
storia rifacendosi a un “tempo grande” e non a caso parla di “eoni” (v. 10), una lunghezza ancora superiore
alle ere. Nella prima strofa (soprattutto ai vv. 4-5) si contrappongono i ciechi e i vedenti: allo sguardo di
superficie sembra che la rivoluzione sia completamente svanita (e se ne dichiara l‟impossibilità definitiva),
mentre gli occhi apparentemente ciechi, “che vedono il buio” (v. 4) sanno cogliere il paziente e minuto
lavoro di preparazione, gli inavvertibili mutamenti (il “limìo”, i “minimi strappi”, vv. 14-15).
Questo processo sotterraneo crea il problema del nome e del riconoscimento affrontato nella seconda strofa:
non si sa ancora come emergeranno le forze rivoluzionarie e quindi non se ne conosce il nome, la
conformazione e la definizione. Per nominarla correttamente ci vorrà un «junge Karlchen», un “giovane
Carletto”, vale a dire un nuovo Marx: non però lo stesso Marx, ma una lettura rinnovata della società e della
stessa prospettiva rivoluzionaria. In questo senso la “talpa” di Toti è “profetica” e affidata al futuro, secondo
un‟antitesi vecchia/giovane che prevede l‟evento inedito e la sorpresa del nuovo. La storia si collega
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all‟utopia, rappresentata dal colore azzurro, per altro, al v. 7, associato ai “cunicoli”, con un ossimoro che
rovescia il buio sotterraneo in una esteriorità celeste, quindi volatile.
FATTICIO FITTICIO FETICCIO
lavoro morto e morta poesia
poetico lavoro (non è forse
tautologia? lo è non è cos‟è?)
10
quand‟è morto pensiero il pensiero?
quand‟è morto lavoro il lavoro
(non è morto sempre?)? quand‟è
morta poesia la poesia (può morire
la poesia? può e non può
nella tomba di carta nella gola muta)?
15
fetischpoetisch form dinglichste
la più cosale forma di poesia
la più fittizia che
si sfa se non fittizia la rifai
più viva meno cosa più causa
5
PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977
Tre strofe distribuite irregolarmente (3/6/5). Inizia con una sequenza di endecasillabi (vv. 1-6); poi versi più
brevi o più lunghi, endecasillabi i vv. 8, 12, 14.
Andamento dubitativo e correttivo: punti interrogativi e parentesi nelle prime due strofe. Parallelismo e
ripetizioni: nella seconda strofa il “quand‟è morto” che si ripete tre volte; nella terza, “più” si ripete quattro
volte. Strutture binarie: ad esempio nella prima strofa il chiasma “lavoro morto e morta poesia”; nella
seconda “nella tomba di carta nella gola muta”. Però anche ternarie: “lo è non è cos‟è?” (v. 3); “più viva
meno cosa più causa”, alla fine (v. 15).
Il titolo è una paronomasia tripla che rimanda a tre dimensioni a confronto: il “fatticio” è l‟esercizio del fare;
il “fitticio” è il fittizio della finzione, anche poetico-letteraria; il “feticcio”, infine, è il feticismo della merci
segnalato da Marx – il che giustifica il tedesco del v. 11 – in un celebre brano de Il capitale (in cui dice che
«appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta
coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di
legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare»). Le tre strofe si possono
leggere come una riflessione in versi sul rapporto della poesia con questi tre aspetti, che è anche un
ragionamento sul nesso tra poesia e capitalismo (con l‟alienazione, la reificazione, oppure semplicemente
con il lavoro e la produzione).
Nella prima strofa, confrontata con il lavoro ci si chiede se anche in poesia non ci sia un equivalente del
“lavoro morto” (cioè quello concrezionato nel capitale e nei mezzi di produzione). E soprattutto, se la poesia
possa considerarsi un lavoro: l‟etimo della poesia (da poiein, fare) direbbe che sono la stessa cosa (una
“tautologia”, v. 3), senonché l‟uguaglianza è subito solcata dal dubbio.
Nella seconda strofa, continua la discussione sul carattere “morto” del pensiero e del lavoro (“morto” nel
senso di inerte, in attesa di una forza umana che si applichi a risvegliarlo e ad attuarlo). La poesia stessa – si
veda la parentesi dei vv. 8-10 – può considerarsi morta quando non è innovativa e inventiva, quando nulla
sulla pagina si muove o desta sorpresa (allora la carta è una “tomba” e la gola è “muta”, v. 10).
Nella terza strofa si ragiona attorno alla “forma cosale” della poesia. La poesia è una cosa tra le cose e
certamente una cosa “fittizia”, finzionale (ossia una rappresentazione senza referente), però ha la proprietà di
potersi “rifare”, cioè rilanciare ogni volta da capo, diventando da “cosa” “causa” (forza attiva).
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In questo testo la poetica creativa di Toti si confronta fino in fondo con l‟alienazione linguistica, chiamando
in campo tutto l‟apparato filosofico-scientifico del marxismo. Ne spunta sempre il guizzo della genialità
“vivace”, ma nello stesso tempo vi si affronta il dilemma della poesia: la poesia in sé non basta, perché c‟è
pur sempre la possibilità che la poesia sia “morta”, inattiva e inaffidabile, stantia e regressiva. Dice ai vv. 89: “può morire / la poesia? può e non può”; il che vuol dire che c‟è poesia e poesia e che occorre cercare
l‟alternativa.
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