TESTI TOTI a. a. 2014-15 1 1. L‟IMPERATIVO CONTRARIO (CINOUE REGOLE IRREGOLARI) 5 regola prima non prendere la malinconica abitudine del successo appena l‟hai ottenuto buttalo via e ricomincia da capo 10 seconda quando sei tutto mondano tutto su questa faccia della medaglia tutto sull‟orlo esterno della moneta gettala in alto e ricomincia da capo terza 15 20 25 battiti sempre non stancarti della stanchezza contro gli ultimi draghi del potere sia tuo che degli altri: ricorda che tutto ciò che innalza un uomo ne umilia un altro e ricomincia da capo quarta la realtà è più misteriosa del mistero occorre molta fantasia per trovarla ti dicono: questo è reale – e tu buttalo e ricomincia da capo a cercare quinta nulla ha più insuccesso del successo (iterazione utile)… L‟UOMO SCRITTO, 1965 È il componimento che chiude la prima raccolta dell‟autore, con valore di dichiarazione di poetica. Titolo: compare già la l‟ossimoro, la dialettica della contraddizione. Verso libero. Endecasillabi vv. 13, 22. Cinque strofe che corrispondono alle cinque “regole”, esplicitamente numerate. Interventi visivi: la spaziatura dopo il numero della regola (poi anche tra v. 19 e 20). Il ritmo è dato dalla ripetizione della intestazione della regola, che imita un programma politico per punti (o un manifesto futurista); e poi, al termine di ogni strofa, dall‟imperativo a rivoluzionare tutto e a “ricominciare da capo”. In pratica ogni regola va contro l‟abitudine del senso comune: il successo, la mondanità, la stanchezza, il realismo; tuttavia, va anche contro il possibile anchilosarsi dell‟alternativa che, volendo combattere il potere, rischia a sua volta di diventarne uno. Occorre ogni volta rivoluzionare la rivoluzione stessa. Lo stesso avviene rispetto all‟enunciazione: le regole si vogliono “irregolari”, nel senso che contraddicono la loro dizione imperativa. Dunque, l‟inversione non è soltanto una modalità della creazione neologistica (soprattutto attraverso il prefisso in-) ma è anche la caratteristica dialettica di Toti, dialettica della contraddizione e del chiasmo, come vedremo. 2 Operazioni sul significato: nella prima strofa, l‟abitudine è detta “malinconica” (v. 3), un attributo che viene assegnato dall‟esterno (più che essere malinconica di per sé, genera malinconia, tristezza, in chi la osserva e giudica). Nella seconda strofa abbiamo la ripetizione di “tutto” (nei vv. 8 e 9 con posizione di anafora): l‟aspirazione alla mondanità è paragonata ad oggetti a due facce, come la medaglia e la “moneta”. Questi metaforizzanti indicano infatti che non c‟è via di mezzo o si sta da una parte o dall‟altra: tuttavia sono anche il corrispettivo della mondanità, quello che si ottiene con essa: la valorizzazione e il valore-denaro. Il ragionamento prosegue nella terza strofa, in quanto il sistema è visto come un equilibrio compensativo e quindi il vantaggio di uno significa lo svantaggio di un altro; qui si tratta appunto del potere, paragonato a un “drago” (v. 13), anche perché non risparmia nessuno, e infatti nessuno può presumersene esente, come mostra l‟autocritica precisazione “sia tuo che di altri” (v. 14). La quarta strofa riguarda la realtà; la realtà non è data, non è scontata, ma va cercata, realismo e fantastico – apparentemente opposti – si toccano. L‟ultima regola ha un carattere particolare: riprende la prima, come una sorta di chiusura ciclica; ma è anche consapevole (lo precisa la parentesi) del suo carattere di ripetizione: come dire che su queste conformazioni tanto radicate le ripetizioni non guastano, ironicamente repetita juvant. Il testo presenta una struttura allocutiva, rivolta a un “tu”. Naturalmente il “tu” siamo noi lettori, ma – per tutto quello che si è detto – non è escluso che l‟io si rivolga a se stesso; sicché il brano si può leggere come auto-esortazione e dichiarazione di poetica: la poetica della modificazione continua. PERCHÉ FACCIAMO CIÒ CHE NON FACCIAMO perché la parola libertà scompaia finalmente dai dizionari dove imperversa perché non c‟è 5 perché non si debba pagare lo sguardo spalancato sui cadaveri dei teatri o sulle orbite cieche degli schermi perché abbiamo la scelta di scegliere o di non perché non ci siano uscieri alle porte perché non ci siano porte 10 perché siano vinolentati i violenti perché gli atti di santità non siano necessari a chi santo non è né vuole essere 15 perché il momento venga e non sia mai più il momento che il momento venga perché non si paghi nessuno salvo i pagatori 20 perché siano umiliati e offesi a scopo terapeutico umiliatori e offensori 3 perché i contraddetti si contraddicano da soli e in solitudine perché i perché non abbiano mai più il punto finale che interroga 25 perché le domande rispondano e le risposte domandino perché non siano censurati i censuratori 30 perché i poeti non siano mai più chiamati poeti ma siano lasciati spoetare senza marxcherarsi da poeti perché questi esempi non siano esemplari per esempio COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Una simile sfilata di “perché” era già nella seconda parte de L’altra caccia ormai aperta (in Chiamiamola poemètanoia), che iniziava: “perché il divieto sia vietato”, ecc. Titolo: ricorda la frase evangelica, ripresa anche da Marx, “perché non sanno quello che fanno”. Come nel testo precedente, la lotta per l‟utopia ha come scopo di annullare se stessa, cioè di condurre a una condizione in cui non ci sarebbe più bisogno di lottare. Si tratta insomma, non di sostituire una struttura di potere con un‟altra, ma di rendere impossibile il potere. La poesia risponde a una domanda implicita (del tipo: perché scrivete?) con una serie di 16 “perché” che danno inizio (in posizione di anafora) ad altrettante strofe, tutte molto brevi (variano da 4 verso a 1 solo). Scarsi endecasillabi (vv. 6, 23), andamento prosaico. Interventi sul significante: parole-valigia “vinolentati” (v. 10) e “marxcherarsi” (v. 31). Per la maggior parte si tratta – come dicevo – di far sì che l‟opposizione non sia più necessaria. Quindi va abolita la parola “libertà” (vv. 1-3) che viene pronunciata tanto spesso proprio perché manca nella realtà. E poi ancora molto significative sono: arrivare a non aver più bisogno dei santi (vv.11-12; Brecht diceva: “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”) e di non dover più vivere nel tempo dell‟attesa (vv. 13-15); rovesciamenti (dei “pagatori”, degli “umiliatori”) che procedono fino all‟abolizione finale di tutto l‟impianto esortativo-morale del testo stesso, con un gesto di auto-negazione dadaista (vv. 32-33). La contraddizione – come già accennato e vedremo in seguito caratteristica della dialettica totiana – compare esplicitamente (vv. 21-22). Oltre ai rovesciamenti, troviamo l‟uso dell‟inversione a chiasma (vv. 25-26), anch‟esso caratteristico di molti altri testi. È interessante notare che, nell‟elenco delle cose positive che vogliono arrivare a non esserci più troviamo anche la poesia (vv. 29-31), per altro in una posizione praticamente finale: al penultimo posto, dopo c‟è solo l‟abolizione dell‟intero testo. C‟è in Toti un apprezzamento della poesia come momento inventivo, che lo distingue dalla negazione della neoavanguardia. Purtuttavia, qui, i poeti sono chiamati a rinunciare alla loro propria identità, al “nome” che diventa una sorta di “maschera”, un ruolo convenuto e un ritratto previsto in cui rischiano di rimanere ingabbiati. La liberazione della poesia da se stessa è indicata da Toti con il prefisso s- (“spoetare”, v. 30) che non ha soltanto valore sottrattivo, ma anche peggiorativo (una poesia che a qualcuno può apparire troppo ribelle) e forse intensivo. Non significa infatti distruggere o abbandonare la poesia, ma usarla in modo derogante, diverso, irriverente (“spoetare” somiglia anche a “sputare”). 4 2. L‟ALIENAZIONE QUOTIDIANA (IL VESTITO NUDO) 5 10 15 20 si veste continuamente: appena comincia il tempo la mattina presto indossa nome cognome cravatta orari impegni parole da dire-ripetere maglie camicie giacche cappotti – poi sulla strada di tutti, nudo della casa, indossa l‟automobile si abbottona con le maniglie strette ai fianchi di scatto e forse anche le strade le piazze la città si stringe addosso tanti altri vestiti... vive da sempre in tempi netti, il presente dopo il passato prima del futuro e solo quando – guasto o incidente – si sveste del cappotto di lamiera avverte inquieto un tempo misto di ieri e di domani aggredirlo ai fianchi nudi senza portiere d‟acciaio... ma in generale resta sempre vestito del suo bel paletot ronzante anche salendo le scale di casa è chiuso nella sua tenera blindatura poi frena sulla porta – clackson campanello semaforo familiare – e allora protesta per il mondo nudo e fermo – cioè si rassegna comincia a rassegnarsi alla nudità necessaria per l‟eternità di una notte... L‟UOMO SCRITTO, 1965 Titolo paradossale (il vestito è ciò che copre la nudità). Il vestito nudo: significa che ormai il vestito vale più del corpo e allora bisogna “metterlo a nudo”, scoprire con attenzione la sua natura simbolica e ideologica. Del resto, il titolo dell‟intera raccolta, L’uomo scritto, già alludeva a questa costituzione dell‟essere umano, al suo essere un luogo di significazione da parte del mondo esterno. Metrica libera, versi tendenzialmente lunghi, sparsi endecasillabi (vv. 2,3,10,12). Tre strofe di diversa lunghezza (10/6/8). Il testo parla di un personaggio in terza persona, che non viene mai nominato, ma siamo tutti noi, compreso l‟io dell‟autore. Tutto il testo è giocato sulla costituzione sociale del soggetto, a partire dall‟indicazione del v. 1: “si veste continuamente”. Non si tratta quindi soltanto degli abiti veri e propri, che pure vengono abbondantemente nominati, soprattutto quelli socialmente distintivi, come la “cravatta” (v. 3), ma anche i consueti “maglie camicie giacche cappotti” (v. 5). Insieme ad essi, vanno a far parte del vestiario anche i contrassegni dell‟identità, “nome cognome” (v. 3), indossati subito di primo mattino, anche le parole già previste nel gioco e quindi ripetitive (“parole da dire-ripetere”, v. 4): un intero guardaroba che viene esteso a tutto l‟essere sociale, tanto da prolungarsi probabilmente (“forse”) nella comunità nel suo complesso e nel suo assetto urbano (“anche le strade le piazze la città”, v. 9). In particolare è significativa, perché produce numerose interferenze semantiche, l‟interpretazione dell‟automobile come vestito dell‟uomo contemporaneo: “indossa l‟automobile si abbottona / con le maniglie strette ai fianchi di scatto” (vv. 7-8), dove la chiusura delle portiere equivale alla chiusura dei bottoni. Più che di metafora, si tratta qui di vera e propria “incorporazione” della macchina, tesa a sottolineare l‟alienazione tecnologica. Tanto che nella terza strofa il “paletot ronzante” non viene dismesso 5 nemmeno quando, materialmente l‟uomo è sceso dall‟automobile: e il suono del campanello è visto come un “semaforo / familiare” (vv. 21-22). Da alcuni segnali, il testo indica la funzione di rassicurazione di siffatto abbigliamento: quando il personaggio esce lo dice “nudo della casa” (v. 6) e poi dice “si stringe addosso” (v.10), e poi ancora la “sua tenera blindatura” (v. 20), quindi una funzione difensiva, la cui mancanza diventa pericolosa. Nella seconda strofa, è solo la possibilità di un “guasto o incidente” (v. 13) a poter mettere in questione la corazza di lamiera (che diventa, nel v. 1, un più cogente “acciaio”). Non a caso questa strofa più breve si inserisce tra le altre due come una parentesi, una ipotesi da esorcizzare: dove l‟interruzione della funzione protettiva consentirebbe anche una diversa visione del tempo, non più regolarmente scandito. La terza strofa ristabilisce la situazione. Senonché poi, al termine della giornata, ricompare la nudità, nella fattispecie della pausa notturna. È certamente una fase in cui, anche a non essere del tutto svestito, il soggetto giace come mero corpo (e deve “rassegnarsi” a un tale intervallo, necessario alla ricarica delle energie). L‟espressione finale, “per l‟eternità di una notte” (v. 24), esprime il fatto che questo tempo, sottratto alla produzione e alla riproduzione sociale, è in realtà un non-tempo, un tempo azzerato. (LA COSCIENZA INFELICE) l‟indifferenza è scesa per le strade: non la vedeste che vi entrò negli occhi era nuda una lama – si appannò anche la vista delle finestre, così lucida – 5 10 15 i colori gridarono poi tacquero e un vestito grigio camminò sui marciapiedi, una impoderabile divisa rotolarono fra le chiaviche topi voci nomi poi sulle labbra parole sorelle cominciarono a dirsi: – come stai? buon giorno buona sera a casa bene mica male stasera lo spettacolo… e tutti videro la stessa cosa, basta all‟indifferenza un occhio solo... L‟UOMO SCRITTO, 1965 Il titolo sarà utilizzato anche nella successiva raccolta Penultime dall’al di qua. Deriva da una “figura” della Fenomenologia dello spirito di Hegel (IV, B: “la coscienza infelice è la coscienza di sé come dell‟essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione”). Versi prevalentemente endecasillabi: derogano il v. 4 e i due versi a scalare 8 e 9. Tre strofe (4/10/2); la seconda è divisa da una verso “a scalare”. Rime forse non volute sono la coincidenza di tempo verbale “appannò/camminò” (vv. 3-6) e la rima per l‟occhio “spettacolo/solo” (vv. 14-16). “Impoderabile” (v. 7) è così nella prima edizione, potrebbe essere un refuso tipografico (nel caso di Toti è impossibile stabilirlo). Il testo si apre e si chiude sull‟“indifferenza”. La “coscienza infelice” e il “senso comune” si basano quindi su questa virtù, tipica di soggetti isolati e alienati. “Indifferenza”, infatti, vuol dire insieme, mancanza di solidarietà verso gli altri (indifferenza egoistica verso quello che non capita a noi) e mancanza del senso critico nei confronti della situazione (l‟indifferenza del non voler sapere e del “tutto va bene”, basta tirare avanti). L‟indifferenza sarà, più tardi (negli anni Ottanta) uno degli aspetti principali del postmoderno e della riscrittura senza problema: Toti dunque aveva visto giusto… 6 E il problema della vista è implicato, nel testo, dall‟inizio alla fine: all‟inizio l‟indifferenza si distingue precisamente per l‟effetto di offuscare la vista, per altro con l‟inserimento davvero crudele di una “lama” (v. 3); alla fine concentra tutti gli occhi in uno solo. (Anche Saramago, in uno dei suoi principali romanzi, rappresenterà l‟indifferenza nell‟allegoria della Cecità). Quello che non si vede è il degrado della realtà, indicato nell‟apparizione dei “topi” e delle “chiaviche” (v. 10). La poesia si fonda su procedimenti di personificazione: la stessa indifferenza compie l‟atto umano di “scendere per le strade” (v. 1), poi ci sono i colori che “gridano” (v. 5) e il vestito che “cammina” (v. 6). Il grido dei colori per l‟appunto si spegne per lasciar passare un vestito significativamente “grigio”, cioè senza colore. La personificazione cessa di essere un mero artificio retorico per assumere un senso polemico preciso: serve a mostrare l‟“astrazione determinata” del mondo capitalistico, nonché le cose che prendono il sopravvento, per cui un vestito può andare in giro da solo. A meno che non si tratti di metonimia (sta per “un uomo col vestito grigio”); però le “parole sorelle” del v. 11 pare proprio che si esprimano da per loro – e dicono tutte le banalità convenute della conversazione stereotipata quotidiana. Dal testo si evince che il lavoro dell‟indifferenza e la sua diffusione come modalità di comportamento conduce all‟omologazione. Già il “vestito grigio” diventa una “divisa” (v. 8), fa pensare a tanti omini magrittiani tutti vestiti uguali; nel finale, quell‟occhio unico corrisponde allo sguardo collettivo ormai standardizzato. E basta sommare quella “stessa cosa” che tutti vedono alla fine con l‟appannamento del v. 3, per avere il risultato dell‟ideologia contemporanea, così abile da non farsi nemmeno scorgere – e infatti è comune pensare che non ci sia più ideologia… 7 3. LA QUESTIONE DELL‟IDENTITA‟ (IL MINIMO RESISTENTE) 5 10 15 aveva la schiena di ferro gliela segarono si fece la schiena di gomma e non seppero che cosa fare per piegarla fino alla crepa, cercarono irrobustirgliela raddrizzarla sperando di riuscire poi, un colpo secco, a spezzarla tentarono infine di tenderlo da qui a laggiù perché se non la corda, la gomma figuriamoci così tirata da un orizzonte all‟altro lo schiocco sarebbe stato una fucilata ma resistette, la gomma della sua schiena era speciale tessuta dentro col ferro della schiena spezzata e camminava diritto e curvo – nessuno sapeva dire con certezza se era un uomo intatto con quella sua flessibile spina dorsale elastica fionda umana L‟UOMO SCRITTO, 1965 Due strofe di diversa lunghezza (9/6). Versi lunghi superiori alle 11 sillabe (molti di 12). Non ci sono rime, né invenzioni verbali. Tutto si gioca sull‟allegoria della schiena e dei materiali che la costituiscono. La “schiena dritta” è sinonimo di correttezza morale, il “piegarsi” di asservimento. Ecco allora che il sistema punta a sottomettere il soggetto (anche qui) anonimo che appare troppo indipendente e rigoroso, con la sua schiena di “ferro”. La durezza non ce la fa, perché può essere tagliata e quindi viene sostituita da un materiale più elastico, la gomma, che non si può spezzare. A questo punto, i tentativi di rottura falliscono, anche perché la materia flessibile (termine che compare al v. 14), quando è troppo tesa, può dare colpi imprevisti. Per giunta, non si può più riconoscere da fuori se il personaggio abbia la schiena integra oppure no (“se era un uomo intatto”, vv. 12-14), in quanto è capace di simulare diverse posture. Naturalmente, qui è ancora presto per la “flessibilità” del lavoro dei tempi odierni. La “flessibilità” di cui parla Toti e che vede come arma di resistenza, non è nemmeno una forma di adeguamento e di opportunismo. Non si tratta di adattarsi alla situazione e fare buon viso a cattivo gioco. Cosa faccia questa gomma lo mostra la metafora della fionda; prima il pericolo dello “schiocco” (v. 9; addirittura una “fucilata”) e poi proprio in conclusione la “fionda umana”. Non per nulla il materiale proviene da una strana fusione tra gomma e ferro (v. 11), a significare che la “flessibilità” è soltanto apparente, ma contiene una strategia di resistenza (non si dimentichi che Toti aveva partecipato alla Resistenza e rimase interessato ai fenomeni di guerriglia). Il minimo resistente è infatti il titolo di questo componimento. L‟ho inserito in questo gruppo, sulla “Questione dell‟identità”, perché vi si esprime chiaramente il rifiuto della identità ricevuta-imposta. L‟autentica identità nasce dalla resistenza, appunto, alle conformazioni dominanti. Non per niente il testo è tutto giocato sulla contrapposizione lui/loro: occorre quindi – al di là delle affiliazioni di partito o di gruppo – conquistarsela singolarmente, nello scontro di individuo vs. maggioranza, eccentricità vs. omologazione. IOISMO va bene non c‟è dio va male non c‟è io solo tu ci sei e troppo ma vale perché io mi ti dico indìco indicibil‟anch‟io il feudo dell‟io si chiama lo chiamano fio 8 5 lo paghi tu però non lo pagherò io perché tu sei ciò che mi muore che non sono io COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Due strofe di 3 versi ciascuna. Tendente al doppio settenario, ma non obbligatoriamente: sono 7+7 i vv. dispari 1, 3, 5; il 2 è 8+7; il 4 è 6+3+6; il 6 è 9+6. In posizione di rima ritorna sempre la parola “io”, tranne che al v. 4 leggermente alterata in “fio”. Nel suo ritorno ed eco, il pronome di prima persona, chiamato a definire la nostra identità, diventa un suono vuoto, sembra perdere qualsiasi contenuto. In realtà ci troviamo già di fronte a una dialettica complessa e irrisolta. L‟io non riesce a definirsi, né nei confronti di dio (malgrado la somiglianza fonica: la caduta di una sola lettera), ma neppure nei confronti del tu, cui si rivolge il componimento. Come ho detto, la metrica suggerisce la presenza di versi doppi e infatti i versi (in particolare i vv. 2 e 3, 4 e 5) sembrano dividersi e quasi rimbalzare tra il tu e l‟io, che non riescono mai a coincidere e a rafforzarsi reciprocamente. L‟esistenza del tu è anche “troppo” ingombrante, né vale che l‟io lo nomini, perché lo stesso io andrebbe preventivamente definito, mentre invece sono “indicibil‟anch‟io” (v. 3); poi il tu risulta una mancanza e un limite negativo (“non sono io” che chiude il testo della poesia). Da notare l‟uso del riflessivo in “mi ti dico” (v. 3) e in “che mi muore” (v. 6), indicante il “per me”, cioè l‟impossibilità di rapportarsi e di comunicare davvero con l‟esterno. Notevoli inoltre i parallelismi iniziali con assonanza di “va bene”… “va male”… “ma vale”. Nel v. 3 troviamo uno spostamento d‟accento, “indìco”, effettuato non solo per necessità metrica, ma anche per intensificare il dire (“dico” e “indìco”). Il v. 4 – come accennavo – varia la rima identica di “io” con “fio”, introdotta dalla ripetizione che passa dall‟impersonale “si chiama” al plurale “chiamano”: segno che la nominazione non è così generale come sembra, ma appartiene a un gruppo preciso di persone. Il “fio”, dunque: antico patto o tributo feudale, rimasto nella frase fatta “pagare il fio”, cioè ricevere una giusta punizione. Il pagamento rimanda al valore dell‟identità in termini economici; ma soprattutto la metafora del feudo (richiamato esplicitamente nel v. 4) rivela il carattere finto-aristocratico dell‟identità fissa, nonché la sua difesa corazzata del proprio (e della proprietà privata). CHI È CHI chi nella emme crede non è è già morto 5 chi finito si vede non finirà è finito chi parte del tutto si sente è parte e partito 10 15 chi sempre io dice è lui solo e neppure chi ruota si sente non sarà carro solo raggio chi è frazione 9 sarà frazionabile e ancora 20 chi crede esser uno non è uno è mezzo chi identico si pensa non è lui è un altro 25 30 chi non infinisce finisce sfinisce chi allo specchio vede se stesso non vede COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Il testo si compone di 10 strofe di 3 versi ciascuna, varianti dello stesso schema: “chi… è (non è)… non è (è). I versi sono di varia lunghezza: l‟ultimo, sempre a scalare, è molto breve, quadrisillabo o trisillabo. Il titolo deriva dal Who is who, dizionario delle persone celebri, ma indica le illusioni dell‟identità e i suoi paradossali ribaltamenti, per cui il sentimento di sé appare o falso o comunque diminutivo. La prima strofa tocca il tema della morte, caro a Toti (come si vedrà più avanti): la morte non viene nemmeno nominata, è richiamata soltanto dalla lettera inziale (la “emme”, v. 1), proprio perché non esiste, è solo un cambiamento; per questo, “chi crede nella morte… è già morto”). La seconda strofa fa pendant con la penultima e ritornano entrambe sulla questione della “fine”: non c‟è fine se non per chi ritiene di “essere finito”, oppure in chi perde contatto con l‟infinito (“chi non infinisce”, v. 25). Inoltre, c‟è la visuale parziale che emerge nella terza strofa e prosegue poi nella quinta e nella sesta: si tratta di non rinserrarsi in una prospettiva misera e ristretta, ma assumere invece un punto di vista globale. Altrimenti, si diventa ancora meno di quello che si pensa di essere: chi pensa di essere la “ruota di un carro” (Toti riprende la metafora usuale di “essere l‟ultima ruota di un carro”) non sarà neanche una ruota ma, ancora peggio, parte di una parte, soltanto un raggio della ruota; chi si senta una “frazione”, sarà disponibile a essere ulteriormente frazionato, ecc. Anche l‟io subisce la stessa sorte: chi pensa di avere una solida identità, stagliata nel proprio ego, non saprà di essere in realtà dimezzato (vv. 19-21); dall‟inconscio (rievocato anche dalla ottava strofa: l‟identico cela l‟“altro”), ma anche dal fatto di essere separato dalla collettività. Lo stesso era già espresso nella quarta strofa: dire “io”, significa isolarsi e quindi impoverirsi, non essere nemmeno un io (vv. 10-12). Su questo limite dell‟io termina il testo nella nona strofa, con una sorta di “stadio dello specchio”, e con la negazione del riconoscimento – un “non vedere” che si può interpretare in due modi: “non vede se stesso”, perché l‟immagine non gli corrisponde; oppure, semplicemente “non vede”, perché non ha trovato il modo giusto di guardare, non deve ritrovarsi nello specchio, ma negli altri. Comunque sia, il senso non cambia di molto. Rovesciamenti del senso comune, dialettica disparata e impegno etico, che è ancora una volta un imperativo alla contrarietà e all‟invenzione. Di oltrepassare i limiti parla il neologismo “infinisce” (v. 25), verbo derivato da “infinito”, ad indicare la pulsione utopica. 10 4. IL TEMA DELLA MORTE (ESERCIZI DI) 5 10 tutta la vita si abituò alla morte: tentò, e credette alla sua lunga abitudine non pensò mai un pensiero senza pensarla le dava appuntamenti nelle piazze deserte del sonno e passeggiava con lei sotto il teschio della luna salutando scheletri azzurri senza disperazione tastando i serpentelli effimeri delle vene consapevole delle innumerevoli piccole morti che maturano nel sangue in un rosso campo oscuro dove marciscono le rose, le rose, anche le rose… tutta la vita, e non la riconobbe quando sbocciò, e la corolla del nulla si aprì d‟amore della dolce carne maturata per semine di spazio 15 20 tutta la vita, tutti quegli esercizi di morte troppo era morto per morire ancora poco restava da morire, e non lui ma lei si era abituata a ucciderlo quando morì fu lei a soffrire, la lunga abitudine… L‟UOMO SCRITTO, 1965 È un tema molto frequentato e capitale; tutta la poesia di Toti si svolge secondo un progetto di contrarietà alla morte, che ne prevede l‟inversione e l‟annullamento (la morte della morte); emblematico il video La morte del trionfo della fine (2003). Ricordo anche due testi ampi e molto densi, dedicati a un amico suicida (La coscienza infelice in Penultime dall’al di qua) e a un‟altra suicida, Merilyn Monroe (Per la morte di Norma Jean Mortenson Baker in Chiamiamola poemetànoia). In questo testo, si realizza fino al paradosso l‟heideggeriano “essere-per-la-morte”: Toti vede una curiosa continuità della morte nel quotidiano delle “piccole morti” (v. 8), un “esercizio” che porta all‟“abitudine” e quindi all‟annullamento della paura, che ci fa già morti in vita. Con rovesciamento finale, in cui la morte personificata (allegoria) prova lei stessa dolore. Il titolo è elusivo, allusivo. Come nel testo precedente, la prima cosa da fare è non nominare la morte, lasciarla sottintesa; anche se è poi viene reiterata più volte nell‟ultima strofa.. Il testo si compone di tre strofe di diversa lunghezza (10/4/6), l‟ultima divisa da un verso a scalare. Verso lungo, con particolare presenza di quinari nelle parti iniziali; la seconda strofa tutti endecasillabi; nella terza endecasillabi al v. 16 e 20. Ripetizione iniziale in ogni strofa (“tutta la vita”…). Nell‟ultima – come dicevo – rimbalzi contraddittori e paradossali toccano al termine-chiave: “era troppo morto per morire”, quando muore è la morte che soffre… Varie metafore interessanti. Metafore del genitivo: le “piazze deserte del sonno” (v. 4: il pensiero della morte compare in un dormiveglia desolato, somigliante a un quadro di De Chirico); “il teschio della luna” (v. 5: il disco bianco è paragonato a un teschio, metafora del tipo anthropos-cosmos, ma con esito inquietante); gli “scheletri azzurri” del v. 6; “i serpentelli delle vene” (v. 7: altra metafora anthropos-cosmos: vitalità del serpentello, ma non priva di inquietudine). Nella seconda strofa, isotopia vegetale: lo “sbocciare” (v. 12), “la corolla del nulla” (v. 12), le “semine” (v. 14). Queste metafore conferiscono una vitalità resistente e incontenibile. Vegetali sono anche le rose del v. 10, ma con una sfumatura estetica. In quel verso si sente la citazione di Gertrude Stein (“Rose is a rose is a rose is a rose”), una ripetizione che in questo caso appare virata al deperimento (infatti le rose “marciscono”). 11 (morir – come?) 5 10 15 20 25 tu muori male non te ne sei accorto ti trascuri l‟agonia l‟ultimo respiro già ha perso lucentezza soffialo bene negligente svissuto – smorto anche? una morte da confezione come tutti e ti starebbe male tra l‟altro se ne accorgerebbero che tu potresti avere una prodigiosa ultima eternità l‟ironico indugio prima di inabissarti dentro gli occhi la morte della ditta la morte del partito che hai preso la morte di famiglia la morte assegnata da tanto tempo che dovresti cortesemente rifiutarla e non puoi una morte che ti va stretta o larga non ti prendono neppure le misure una morte costa un anno e lunga due minuti uno di andata e uno di ritorno per dove si riparte nella stazione immobile tutta treni verticali color di colore scritto quale che sia il giallo silenzio dell‟attesa dell‟attesa che non arriva in orario per noi che dunque non aspettiamo neppure l‟attesa della morte fattincasa la morte distratta che cade vaso vecchio da infrangere deliberatamente – sì PENULTIME DALL‟AL DI QUA, 1969 Strofa unica di 25 versi, interrotta da un verso a scalare (v. 10). Versi lunghi (contenenti soprattutto settenari). Neologismi: “svissuto” (v. 4); “fattincasa” (v. 23). Ripetizione del termine “morte” in posizione sintatticamente anaforica: vv. , 10, 11, 12, 15, 16, 23. La poesia è rivolta a un “tu”, che equivale all‟io, ma anche a tutti i lettori. Il morire è visto come azione quotidiana, normale. Si tratta di discutere sul come, il titolo è infatti (morir – come?). Di qui l‟invito a soffiare bene l‟ultimo respiro (v. 3), la poca soddisfazione di una “morte di famiglia” (vv. 11-12), l‟ironico consiglio di un “ironico indugio” (v. 8). Nel testo si sviluppano uno dopo l‟altro diversi campi semantici, almeno tre principali: la morte come abito da indossare, per cui ci si interroga sul “come si porta?” e “come mi sta?”, mentre è vista con disprezzo una morte già confezionata (v. 5), oppure “va stretta o larga” se non è su misura (v. 15). Poi c‟è la scadenza temporale della morte, che conduce alla metafora ferroviaria: la sua scadenza è come l‟orario del treno, però la stazione è “immobile” e i treni “verticali” (v. 19), l‟attesa risulta imprevedibile. Infine, parlando di una morte qualunque, distratta (v. 23) compare la metafora del vaso (“vaso vecchio da infrangere”, v. 19). Il testo si conclude con un “sì”, staccato anche graficamente. A cosa corrisponde questo assenso finale? È un sì alla morte? Direi che è più che altro un sì alla metamorfosi della morte che si è sviluppata per tutto il componimento conferendo alla negazione della vita una inusitata vitalità. Segue nella tessa raccolta (ri-morte) che inizia: «ascoltate: la morte / chiede di morire»… IPOTEOSI sarebbe bello a lungo morire 12 5 e vivere così tutta una morte indifferente anche all‟indifferenza e al tintinnìo di questa morte altrui che ci muore nel furto dei respiri 10 sarebbe bello a lungo non vivere e morire così tutta una vita differenziando le altre differenze la non-morte non-vita pasteggiando riscrivendo tutto fino all‟ultima pagina PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977 Titolo: parola mista per contaminazione di “ipotesi” e “apoteosi”. In questo caso metrica quasi-regolare: due strofe di 5 versi. Versi endecasillabi, alternati a minore e a maiore, tranne l‟ultimo di 13 sillabe (6+7). Apertura con “Sarebbe bello”, quindi il testo è svolto come ottativo, speranza e utopia, come ipotesi (vedi il titolo). Si ripete in entrambe le strofe, secondo una costruzione speculare che coinvolge i primi due versi delle strofe: si tratta di una inversione (morire… e vivere la morte/non vivere… e morire la vita), ma sostanzialmente coincidente: si tratta della durata della morte, cioè di rimetterla nel decorso temporale togliendo la drammaticità al momento finale. Una strategia di diluizione e di inserimento della morte nella vita. Particolari paradossi nel terzo verso di ciascuna strofa, costituiti da una meta-applicazione, l‟indifferenza applicata all‟indifferenza stessa (v. 3) e la differenziazione applicata alle differenze (v. 8). L‟effetto è ancora di specularità. Nei versi finali di ciascuna strofa troviamo usi singolari: la morte “ci muore” (v. 5; è la negazione della negazione, ma potrebbe essere anche transitivo), e poi (v. 9) i contraddittori, “non-morte non-vita”. Rendere debitamente dialettica la morte, è questo il versante della apoteosi. Nel finale, “pasteggiare” (v. 9) inserisce una metafora alimentare che suggerisce il centellinare (ancora strategia di diluizione) e una sfumatura di vitalità nutriente. Infine la riscrittura del v. 10: è la pratica emblematica del postmoderno, che però a quell‟altezza non è ancora arrivato in Italia. “Riscrivere” qui significa negare la drasticità della morte, ricominciare ogni volta da capo, con una riapertura della temporalità. 13 5. IL FUTURO, L‟UTOPIA (due sul futuro) I - in Nessun Posto era non si trovava mai neppure nel nome nello specchio fra le tempie accusava la vita svivendola l‟infettava con la sua assenza 5 10 15 povero futuro sempre essere per essere la vita così debole non rispondeva all‟immagine che si era fatto che si poteva fare ancora e sempre e sempre in atopia svivendo II - tutto passato tutto quel futuro montagne di tempo-a-venire già venuto ammucchiato che uso ne hai fatto doveva restare futuro lo sapevi e adesso è passato-passato trapassato tra e non ce n‟è rimasto poco di futuro lo sai che uso ne faremo tu io loro altri lo sapremo quando il quando non più –? PENULTIME DALL‟AL DI QUA, 1969 La poesia è divisa in due sezioni segnate con i numeri romani laterali. Le sezioni sono equipollenti, anche se la prima ha due strofe di 4 versi ciascuna, la seconda un‟unica strofa di 8 versi. I versi sono irregolari, variano da 9 (v. 10) a 16 sillabe (vv. 6 e 13). Si distinguono 3 endecasillabi (vv. 4, 8 e 9: due in posizione terminale e uno iniziale). Frequenti i versi di 14 (vv. 1, 2, 7, 14: ma solo 1 e 14 sono settenari doppi) e 13 sillabe (vv. 5, 11, 12, 15: il v. 12 con intervallo di 3, come la cadenza pavesiana). Il titolo: sul futuro, questo tempo che non esiste mai (v. 5), eppure così importante come previsione, progettazione, profezia, speranza. Subito il v. 1 citazione l‟utopia, il “Nessun Posto” è come Ou-topos di More, Nowhere di Morris, Neverland di Barrie. In Toti, l‟utopia diventa “atopia” (v. 8), con “a” privativo, che segnala la mancanza di utopia, la sua carenza. Il contenuto della prima parte riguarda la critica dell‟esistente, la rivendicazione dell‟immaginazione nei confronti della realtà della vita, troppo “debole” (v. 6), ovvero troppo inferiore alle potenzialità dell‟essere umano. Vi compare il neologismo “svivere” (nei versi 3 e 8), che indica sì la mancanza, ma anche la contestazione e la caparbia resistenza dell‟utopico, sia pure ridotto a un impulso (come dirà Jameson molti anni dopo: l‟impulso, la pulsione utopica). “L‟infettava con la sua assenza”, dice il v. 4: c‟è quindi un effetto diffuso dovuto proprio alla perdita dei grandi progetti. Nella seconda sezione, si assiste a un ribaltamento: il futuro è alle spalle, sia perché le utopie sono scadute nella società del benessere, dove tutto si gioca nel presente del consumo, e perciò – già a quest‟altezza cronologica – Toti può parlare del “furto di futuro” (qui: “ce n‟è rimasto poco di futuro”, v. 14), sia perché il tempo in questo autore si rovescia continuamente a causa della dialettica dell‟inversione e così si parlerà di “futuro anteriore” o di “futuro fututo”. Una domanda etica è quella che chiede conto dell‟uso del futuro: “che uso ne hai fatto?” (v. 11) al passato, ripetuto poi al futuro, “che uso ne faremo?” (v. 15). Con la consapevolezza che il giudizio può essere emesso solo a posteriori, dopo la fine del “quando” (v. 16). Nell‟ultimo verso l‟omissione del verbo “sarà” rende il responso più enigmatico, forse bruscamente interrotto. E fa riflettere anche quel punto interrogativo staccato con un trattino: potrebbe voler dire che il dubbio non riguarda solamente la frase cui è apposto, bensì l‟intero testo; e che l‟incertezza è l‟unica definizione del futuro, la potenza dell‟incognita produttiva. Tra le due sezioni si nota un cambio di impostazione: la prima utilizza un soggetto anonimo di terza persona; la seconda si rivolge al tu con formule colloquiali (“lo sapevi”, v. 12; “lo sai”, v. 14), per terminare con la costituzione di un soggetto collettivo “noi”, composto da diverse sfaccettature (“tu io loro altri”, v. 15). 14 DISLOGIA SULL‟INAVVENIRE 5 10 15 20 25 non più saremo grandi non domandarmi che cosa farò quando non lo sa(p)rò mai l‟adulto è morto è nato il sempregiovane l‟eterna adolescenza garantita dallo stato vecchio il giovane mortale la maturità i vetulardi abitano colonie buone sotterragne e i bambini gli iniettano dosi feroci d‟infanzia dalle soglie della morte già tutti tornati velocemente indietro verso la prima casa rientrate figli nel mio ventre bambino l‟adulto è morto il sempregiovane è neonato il nulla il tuttoquando balbetta afasia abasia non premete i piedini sul dolce tamburo della madre allons-vieux non cresceremo più solo reinfantiliremo neppure nasceremo viaggeremo a ritroso per gli scroti nei semi negli amplessi di chi (?) verso il prima del prima allontanandoci dal dopo l‟a venire non è a venuto miei bambini d‟assalto arrembiamo le origini ricambiamo le trans-forme siamo sempre più vetuli dei nostri ancestri oscuri già con l‟acqua ai malleoli i fil(m)amenti alti affondiamo in un grasso silenzio naufraghiamo dentro il dentro dove non più non ancora celebriamo soltanto il futuro assassinato COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Il titolo composto da due nuovi termini derivati: “dislogia” e “inavvenire”. Il primo ci fa intuire una deformazione della logica, una dis-funzione; il secondo usa il prefisso in- in negativo (come Toti fa per “inenarrazioni” ad esempio), quindi riferito non solo al “furto del futuro” (effettivamente, più avanti, al v. 19, è scritto staccato, “l‟a venire”), ma anche al vuoto di veri avvenimenti. Tema del componimento è l‟inversione del tempo, il ringiovanimento e il mito della giovinezza – un fenomeno che sarebbe poi diventato esasperato all‟epoca del “berlusconismo”. Il testo si compone di due strofe di diversa lunghezza (10/15). Versi lunghi, tendenzialmente doppi settenari (lo sono il v. 9, 13, 16, 17, 23, 25; 21 e 22 sono composti da un settenario sdrucciolo e un settenario piani); ma anche più brevi (il v. 3 è endecasillabo) e più lunghi (fino alle 18 sillabe del v. 6). Diverse operazioni sul corpo della parola: parole unite: “sempregiovane” (vv. 3 e 11), “tuttoquando” (v. 12, ricalcato su “tutto quanto”); parole derivate: vetuli (v. 21, latinismo), ancestri (v. 21, francesismo), e poi “vetulardi” (v. 6, commistione di “vetuli” + “vecchiardi”), “reinfantilire” (v. 15: prefisso re- per la ripetizione e “infantilire” parallelo a “invecchiare”); varianti: “sotterragne” (v. 6, invece di “sotterranee”: “terragno” conferisce maggiore selvaticità). Troviamo inoltre: dei termini modificati mediante l‟inserimento di parentesi, che lasciano sul campo entrambe le varianti, “sa(p)rò” (v. 2), “fil(m)amenti” (v. 22); dei composti con il trattino, “trans-forme” (v. 20); fenomeni di divisione come il già citato “a venire”, riprodotto subito dopo in “a venuto” (v. 19). Non mancano inoltre giochi di parole come l‟inversione allons-vieux che ribalta il famoso attacco della Marsigliese, allons enfants. Certamente significativa è la frase sloganistica “l‟adulto è morto”, che, comparsa al v. 3, si ripete all‟inizio della seconda strofa. È il tema della poesia, non solo l‟eterna giovinezza (“il sempregiovane”), ma addirittura il ritorno indietro e nemmeno all‟infanzia, ma – per assurdo, se fosse possibile – nell‟utero (v. 10); fantasia 15 che, accompagnata dal passo di marcia del tamburo, rivela l‟aspetto regressivo (e, appunto, assurdo e “dislogico”) della denegazione del tempo e della materiale caducità del corpo. Interessante l‟inserimento della isotopia medica al v. 7, per cui l‟“infanzia” viene iniettata per mezzo siringa in “dosi feroci” (è come una droga? certo è il risultato di una chimica crudele). “Afasia” e “abasia” (v. 13) sono termini medici delle disfunzioni del linguaggio (nel verso precedente c‟è anche il “balbettio”) e del movimento. Nell‟ultima parte del componimento, proprio la marcia trionfale si va impantanando: Si passa dall‟“arrembare” (v. 20, che qui non ha il significato piratesco, bensì quello equino della camminata difficoltosa), all‟“affondare” (v. 23, dopo che già prima si trovava “l‟acqua ai malleoli”), infine al “naufragare”, leopardiano ma non troppo. Tra l‟altro, nel finale, il soggetto plurale diventa un “noi”, se non generale, certo più ampio di quello che all‟inizio comprendeva soltanto l‟io e il tu (v. 1: “non più saremo grandi non domandarmi / che cosa farò”). Dunque, fine del tempo? Oppure reclusione senza speranza nell‟“inavvenire”? È ancora presto, alla fine degli anni Settanta, per parlare di postmoderno, ma qui Toti scava già nell‟ambiguità dell‟utopia-distopia dell‟eterno presente, e nell‟obbligo della giovinezza che avrebbe poi caratterizzato l‟epoca dei beauty center, del lifting e della incapacità di invecchiare in un mondo in cui i penalizzati e gli esclusi saranno soprattutto i veri giovani. L‟ultimo verso parla dell‟“assassinio del futuro”, un termine forte. Che appare per altro come l‟unica (ultima) forma di “celebrazione” per una società che si appresta a rovesciare i suoi valori. 16 6. DIALETTICA DELLA CONTRADDIZIONE E DEL CHIASMA PARADÒSSIDE PARADOXISSIMUS che tipo intrano! aveva stima di se stesso perché di se stesso non aveva stima 5 stimatelo dunque perché si disistima voi che vi stimate perché vi stimate avrebbe avuto disistima di se stesso se si fosse stimato uno che si stimava sapeva che era un ordine altrui quello di stimarsi 10 e si stimava perché disobbediva disistimandosi ma come fare per non stimarsi a causa della disistima di sé? 15 impossibile forse e disfingeva anche di disistimarsi e solo così si disistimava davvero: per la finzione della funzione della PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977 Componimento di sette strofe, quasi tutte distici (3/2/2/2/2/2/4). Versi di varia lunghezza, con l‟esito di un andamento ragionativo. Tuttavia si possono rintracciare un endecasillabo (v. 15) e alcuni versi doppi, doppi settenari (vv. 7, 14), doppi senari (vv. 3, 5), quinari doppi (vv. 11, 12). Invenzioni lessicali: “intrano” (v. 1), che inverte l‟“extra” di extraneus in “intra”, uno che viene da dentro, ma sempre diverso però; “disfingere” (v. 14), con prefisso dis- che in questo caso indica complicazione (mentre in “disistima” indica negazione). Il titolo stesso allude, in latino, al paradosso, e il testo è costituito da una serie di ribaltamenti e negazioni di negazioni, sintomi di una dialettica che non smette. Tale dialettica si applica alla questione dell‟autostima, dell‟amore di sé, dell‟egoismo e del narcisismo. È evidente, dice insomma Toti, che l‟eccesso di autocompiacimento non va bene: ecco che l‟etica del contrario impone come imperativo di “disistimarsi”, vale a dire di compiere su di sé una rigorosa autocritica. Ma allora chi riesce in tale opera, quasi guardandosi da fuori, compie un atto stimabile: è soddisfatto di sé, l‟auto-disistimatore (vv. 1-3) ed è giusto che anche gli altri, i “voi” cui si rivolge il testo, gli riconoscano merito (vv. 4-5), proprio perché è stato capace di rovesciare i valori consueti (vv. 6-7) e di capire che il modello narcisistico è imposto dall‟esterno (vv. 8-9). Tuttavia, a questo punto, sorge il problema: se la disistima produce una stima non si ricade di nuovo nella impostazione che era stata criticata, non comporta insomma l‟insubordinazione (vv. 10-11), un atto di superbia ancora maggiore? È dunque necessario un ulteriore rovesciamento? È quanto ci si appresta a fare nell‟ultima strofa, attraverso la “disfinzione” o anche la “finzione / della funzione” (vv. 16-17): la messa in risalto della finzione, ovvero la denuncia della “finta disistima”, consente di “disistimarsi” fino in fondo. Per altro il testo termina con una interruzione sintattica, segno che la dialettica potrebbe riprendere di nuovo, all‟infinito. 17 IL DESERTORE era solo era nel deserto era desertico la sua colonna stinta era sotterranea verso il centro della terra rovesciata il suo capo svuotato dai penseri già altrui 5 ma solo veramente solo non era sentiva che non è solo chi con se stesso parla e ha un corpo che si tocca che si specchia e altruìsce come non essere due io e se stesso? non sapeva non c‟era nessun altro a cui chiederlo 10 allora uccise gli occhi le mani ma non solo era con tutti quei pensieri che lo lasciavano sempre acqua che rifluiva dalle tempie scarnate 15 con tutte quelle immagini interne che vedeva con altri occhi e con altre mani toccava come avrebbe potuto solitudinare il mondo? si proibì memoria e profezia si fece sentinella del silenzio uccidendo flore e faune desertorie ma non era mai solo era sempre due e tanti altri anche quando si uccise erano almeno uomicida e suicida e 20 uomicidato e suicidato e cadavero e cadafalso e E COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Il testo si compone di 8 strofe di diversa lunghezza; però, a differenza del solito, vi si può notare una sorta di regolarità: l‟andamento, infatti è 4/3/2/1/2/3/4/1, quindi con una progressione a decrescere e poi a crescere, con un ultimo verso di chiusura. Irregolare invece la metrica “orizzontale”, fatta di versi lunghi, tutti superiori alle 11 sillabe (l‟ultimo raggiunge le 19 se si accenta l‟ultima congiunzione). Volendo, si possono individuare alcuni doppi settenari (vv. 4, 7, 12, 13). Interventi sulla parola: “penseri” (v. 4; è così nel testo a stampa: visto il successivo “pensieri”, v. 11, potrebbe trattarsi di un refuso – cosa che per Toti rimane sempre incerta); “altruire” (v. 7); “solitudinare” (v. 15) “uomicida” e “uomicidato” (vv. 19 e 20). Nell‟ultimo verso, gioco di parole “cadavero”/“cadafalso”. La “E” finale risulta scritta con lettera maiuscola; forse a indicare una pronuncia a voce più alta della nonconclusione (la congiunzione alludendo a nuove possibili frasi che si potrebbero aggiungere). Il titolo è la parola-valigia “desertore” (disertore + deserto): indica l‟elemento deviante e insieme il vuoto (di codice, ma anche di sostegno da parte della collettività) in cui si trova ad operare nella condizione dell‟avanguardia. Tema della poesia è infatti la solitudine; la terza persona anonima fin dall‟inizio (“era solo”) è nella situazione dell‟eremita nel deserto, propriamente dello stilita sulla colonna (che però è “rovesciata” verso il sotto). Lo spazio vuoto del deserto corrisponde a una pratica di svuotamento mentale, a partire dalla considerazione che i pensieri sono indotti dall‟esterno (sono “altrui”). Ma, come il testo dimostra nella sua stessa fattura, il vuoto dei significati consente lo scatenamento dei significanti, la reinvenzione del linguaggio. L‟azione negativa su di sé, l‟annientamento dei sensi nel verso centrale (“uccise gli occhi le mani”, v. 10), e poi il suicidio negli ultimi versi, che è sempre anche “uomicidio”, sia nel senso che l‟io è sempre un altro, sia 18 perché si tratta di uccidere l‟ „“uomo” , cioè di “disantropomorfizzarsi”; bene, il negativo ottiene però la moltiplicazione dell‟io (che “altruìsce”, v. 7). Dove si dimostra che l‟operazione dell‟avanguardia (e particolarmente in Toti) non è soltanto negativa, allo svuotamento corrisponde il riempimento, l‟utopia. In quel finale non finale (v. 20), si compie proprio sul massimo negativo, il “cadavere”, un gioco di parole tra “vero” e “falso” che sembrerebbe alludere allo statuto misto della letteratura che, strettamente parlando, è falsa, ma, nel suo sovrasenso, è assolutamente vera; soprattutto quando si mette in gioco e mette in gioco il suo linguaggio – come qui – con un alto tasso di autocritica. GRAMSCI-MARIATEGUISMO: PUNTI DI SVISTA ottimista : va tutto male perché tutto potrebbe andare bene e meglio 5 10 pessimista : va tutto bene perché tutto potrebbe andare male e peggio e il primo sopramuore : ancora male io sto e il secondo sottovive : io sto bene così e uccide la morte il primo e uccide la vita il secondo 15 e uccide tutteddue il terzo COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Il titolo è un omaggio a due autori cari a Toti: Gramsci e Mariategui, che egli univa anche nel composto “gramsciategui”. Juan Carlos Mariategui è l‟analogo di Gramsci nell‟ambito del marxismo sudamericano. In questo caso sono accomunati per il particolare “ottimismo rivoluzionario”, che unisce l‟ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Ottimismo e pessimismo, secondo Toti, non si danno in assoluto, perché sono due opposti “punti di svista” (girando al negativo il “punto di vista”). Come si vede da questo brano, la dialettica spinge alla ricerca del “terzo”, dopo che Toti ha mostrato la debolezza dei due punti separati: il pessimista finisce per adattarsi al meno peggio (v. 12) mentre l‟ottimista si crogiola in una insoddisfazione depressiva (v. 10). Il passaggio attraverso la “falsa alternativa” viene trovato attraverso l‟inversione e il chiasma finali (“pessimo ottimista / pessimista ottimo”). La forma del testo è funzionale al suo contenuto, infatti le 7 strofe si dispongono in una costruzione parallela: 4/4/2/2/1/1/3, dove i due “punti” si alternano e l‟ultima strofa, dispari, rappresenta il “terzo” dialettico, costituito non per caso da tre versi. I versi sono prevalentemente settenari; nelle strofe centrali alternati a ottonari, anche qui a chiasma (vv. 9-10: settenario-ottonario; vv. 11-12: ottonario-settenario). Gli stessi interventi sul linguaggio sono in linea con la questione dialettica: sono composti a chiasma i termini “sopramorire” (v. 9), e “sottovivere” (v. 11), modellati su “sopravvivere”. La forma fusa “tutteddue” (v. 15) mostra l‟identità degli opposti che devono essere superati (qui, addirittura “uccisi”). 19 7. RETORICA IN GIOCO (NECROLOGIO PER LA METAFORA) 5 10 non paragonava più niente a nessuno non diceva più alla sua donna che era come una rosa che era una rosa non ripeteva neppure più alla sua rosa che era come la sua donna che era la sua donna ma quando lei arrivava sei come te ripeteva e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava e gli veniva quasi da piangere perché la sua donna era solo la sua donna le rose erano le rose e tutte le donne del mondo tutte le rose il come era abolito nessuno sapeva più distinguere tra il volto e lo specchio finalmente... L‟UOMO SCRITTO, 1965 Unica strofa di 13 versi. La lunghezza dei versi varia da 9 a 19 sillabe, endecasillabo il v.9 e forse il v. 13. Il titolo manifesta a tutte lettere la lotta alla metafora, addirittura definendola “morta” (in quanto ne scrive il “necrologio”). Questa lotta è una carattere dell‟avanguardia: in quanto procedimento principe della poesia, capace di collegare malgrado tutto l‟uomo con la natura (anthropos e cosmos), la metafora in questo caso viene apertamente respinta. E viene respinta proprio evocando un apparentamento molto influente nella tradizione, fondato nelle radici del filone “amoroso” della poesia (si pensi a Rosa fresca aulentissima o al Roman de la rose). I due termini dell‟analogia sono qui disgiunti attraverso la negazione ripetuta a chiasma, in cui alternamente vengono posti come comparante e come comparato, sicché è negata la reciprocità della metafora. E si noti il parallelismo tra i vv. 3-4 e i vv. 4-5. Più che di metafora, in realtà, nel corpo del testo si tratta di paragone, ed è detto subito all‟inizio, a proposito del solito soggetto anonimo di terza persona, “non paragonava più niente a nessuno”. Paragonare, per altro, è un modo per normalizzare, omologare le differenze. Il paragone o similitudine si basa sul tramite del “come” che viene verso la fine dichiarato “abolito” (v. 12). La questione tornerà ancora in seguito, come vedremo nel testo seguente. Per quanto riguarda questo testo, si deve inferire che qui non vale l‟incrocio dei termini. Per sconfiggere pienamente la metafora ci vuole la tautologia, per cui ogni essere o cosa è imparagonabile, è soltanto sé stesso (vv. 6-7 e 9-10). Invece della somiglianza relativa del paragone e anche di quella solo virtuale della metafora, qui si vorrebbe l‟identificazione intera, semmai, o metamorfosi, l‟indistinzione tra rappresentante e rappresentato (“il volto e lo specchio” uniti, v. 13). Una utopia accompagnata da una insolita e incerta commozione (v. 8). (COME UN COME) «chiudi quel rubinetto di sintagmi hai capito? smettila con quei “come” a forza di metafore non so più che cosa sono, sono come un “come”»… 5 risposta: «tu porterai in tavola 20 tutto quello che hai di migliore...» e quando il giorno si inchinò alla notte arrivò portando 10 il dubbio. L‟UOMO SCRITTO, 1965 Componimento costituito da 3 strofe disuguali (4/5/1), ma si potrebbero considerare due quartine, non considerando il v. 5 e il v. 10, trisillabi (perciò da considerare frammenti di verso). Buona maggioranza di endecasillabi: tutta la prima strofa e poi il v. 8. In entrambe le strofe compaiono delle voci, indicate con le virgolette. Non sembrano voci esterne, quanto piuttosto interne, le voci della coscienza correttiva e autocritica che presenta obiezioni a un “tu” che viene trattato nel finale come terza persona anonima (v. 9). Il titolo presenta una sorta di paragone al quadrato. Ricordo che un testo con lo steso titolo si troverà più tardi anche in Compoetibilmente infungibile (inizia così: «irreale come un come / che non si risolve in metafora»). Qui, la prima voce invita di nuovo ad abolire il “come”. Presenta una ingiunzione negativa (“smettila”, v. 2), in base al fatto che l‟eccesso di metafore, ovvero di interscambi analogici, conduce alla confusione: infatti la “semiosi infinita” (il fatto che si possa sempre paragonare ad un‟altra cosa ancora) è una “cattiva infinità” nella quale il soggetto si perde e si ritrova a sua volta usato come semplice ponte di passaggio tra un‟analogia e l‟altra. “Come un come” è per l‟appunto la paradossale somiglianza con lo stesso tramite della somiglianza. Nella seconda strofa arriva una risposta: ma la risposta non sembra andare a tono, in quanto è costituita a sua volta da un imperativo. Questa volta, però, il comando della coscienza è positivo, è una richiesta di “qualità” (“quello che hai di migliore”, v. 7). L‟esito finale – caratteristico dell‟etica del contrario – è che quanto ha più valore è “il dubbio”, vale a dire la critica e l‟ironia che mettono in questione ogni valore. Il dubbio, naturalmente, riguarda anche l‟eccessiva facilità della somiglianza: mentre la somiglianza unisce qualsiasi cosa, il dubbio disgiunge. È interessante che la sospensione dell‟analogia avvenga mediante l‟inserimento di campi semantici metaforici: la liquidità come facilità del linguaggio (il “rubinetto di sintagmi”, v. 1); il cibo come positività nutritiva del negativo (“porterai in tavola”, v. 6: e quello che viene imbandito è il dubbio…); e infine la personificazione delle fasi della giornata, dove il giorno compie un gesto di cerimoniale gentilezza (un “inchino”) verso la notte (che potrebbe essere una semplice variante del “declinare”; ma anche un lasciar subentrare qualcosa di più importante: la notte, rovescio del giorno e tempo vuoto del sonno, adatta all‟etica della contrarietà). (Ossimori) 5 10 sul mio orologio inutile le vostre ombrette sotto le lance il tempo ha pallide le guance adesso che i cieli pietrificati hanno deciso di aspettare che si sgelino gli occhi della medusa industriale che le radici dell‟arma piantata perché germini si disfacciano in dolci putredini d‟uomini svissuti pugnali d‟acqua lame di cera aghi di dolce durezza ossimori? come puoi ancora? chi ti ascolta più se con parole così liquide ti lavi lingua e occhi e non pensi a ciò che non può essere per essere e non accetti tutto anche il rifiuto dalle mani ancora calde di seni assenti rubati... 21 15 i giovincelli della rapina con le tempie grige senza parola da dire solo notizie da comunicare ferrigne sulle astute papille del malgustai ti riammazzano quando vogliono è quasi inutile che tu stia attento ai pugnali-pugnali e trascuri i pugnali-carezze le invisibili lame delle strette di mano notizie che hanno paura di dirsi – cancéllale fa presto... PENULTIME DALL‟AL DI QUA, 1969 Il testo è intitolato all‟ossimoro, figura principe della operazione totiana, che realizza, nell‟accostamento degli opposti, la dialettica degli estremi. È composto di 3 strofe, con una certa simmetria (7/5/7). Si tratta di versi lunghi, che arrivano a 21 sillabe; i più corti sono i 2 endecasillabi (vv. 2 e 11). Molti versi possono essere considerati divisi in due parti, però non sempre in parti uguali (nel v. 12 possiamo individuare un doppio ottonario). In alcuni casi si può ipotizzare una divisione in 3 parti: per esempio nel v. 6 (5+6+6), nel v. 18 (un triplo settenario). Il v. 19 può essere contato come endecasillabo+settenario, oppure (con una pausa dopo “notizie” ) come 3+8+7. In quattro parti può essere diviso il v. 7 (5+5+8+3). Si riscontrano anafore (vv. 2-5, 10-11) e anche una rima, sia pure interna: lance/guance (vv. 1-2). Nella prima strofa, allitterazione di “p”: “Pallide”, “Pietrificati”, “asPettare”, “Piantata”, “Perché”, “Putredini”, “Pugnali”; e di “s”: “aSpettare”, “Sgelino”, MeduSa”, “diSfacciano”, “SviSSuti”, “oSSimori”. Nella terza strofa troviamo l‟allitterazione della consonante liquida: “giovinceLLi”, “suLLe”, “papiLLe”, “maLgustai”, “inutiLe”, “pugnaLi”, “invisibiLi”, “Lame”, “canceLLaLe”. Invenzioni lessicali: “svissuti” (v. 6: rovesciamento di “smorti”), “malgustai” (v. 15: rovesciamento di “buongustai”). Le “ombrette” ricalcano le lancette dell‟orologio. Il testo si apre sulla visione di un tempo bloccato: l‟orologio è “inutile” (v. 1), i cieli sono “pietrificati” (v. 3). Un tempo di attesa (l‟“aspettare” del v. 3) dell‟utopia di un mondo con una produzione a misura d‟uomo e l‟avvento della non-violenza. Dinamismo retorico ottenuto in vari modi: la personificazione del tempo, le cui “guance pallide” denotano cattiva salute o apprensione. L‟ossimoro (cui il testo è dedicato) lo ritroviamo nei “cieli pietrificati” e poi, nel v. 7, nell‟elenco delle armi spuntate: “pugnali d‟acqua”, “lame di cera”, ecc. (contrasto tra duro e liquido, duro e molle). La “medusa industriale” è l‟immagine di una economia basata su leggi tassative, il cui sguardo dovrebbe “sgelarsi” (lo sguardo di Medusa pietrifica; anche qui c‟è un passaggio al liquido). L‟“arma piantata” (v. 5) non è piantata su di un corpo, ricorre alla metafora vegetale, però in senso negativo, perché la violenza vorrebbe germinare in escalation: meglio allora che la mala pianata vada in “putredine” (che per questo è detta “dolce”: altro ossimoro?). Dall‟io della prima strofa (il “mio” orologio, v. 1) si passa al tu nella seconda: è il rilevamento della condizione di crisi, in cui l‟intellettuale e l‟artista non ricevono più ascolto, anche perché il linguaggio è adulterato. Toti utilizza la metafora del liquido, ancora in negativo, “lavarsi la lingua e gli occhi” (v. 9), estendendo alla parola e all‟immagine il modo di dire “lavarsene le mani”. Nella terza strofa, ancora un ossimoro sono i giovani “con le tempie grige” (v. 13), giovani che nascono già vecchi e corrotti dediti alla “rapina” (v. 13) e all‟omicidio (“ti riammazzano quando vogliono”, v. 16), sia pure nel modo non appariscente di un attacco all‟etica e alla ragione. Strumento di dominio è la comunicazione di massa incentrata sulle “notizie” e sulle forme accattivanti di ammorbidimento (i “pugnalicarezze” le stesse “strette di mano” che contengono inquietanti “lame”, v. 18). Non resta che reagire, con l‟imperativo finale che esorta alla cancellazione. 22 8. SULLA (DIS)SCRITTURA POETESTIMONIANZE 5 10 un collaboratore ascoltatelo uno del poetariato : solo a me stesso dice posso ormai parlare e neppur‟io mi ascolto sempre penso ad altro che cosa avevi detto chiede al lettore di darti ancora retta se non ho fatto altro ho le parole in bocca ancora non spedite le respingono all‟omittente io stesse le respingo me le mando per non leggermi è il silenzio che cresce la sua pagina non più mensa le parole fanno ridere si fa per dire io non rido PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977 Il titolo è una tipica parola sovrapposta di Toti ottenuta con la giunzione “poeta + testimonianza”. Testo in un‟unica strofa di 10 versi, interrotta da un verso riempito dai soli due punti (v. 2). Versi lunghi, nei quali prevale il ritmo del settenario doppio (vv. 3, 4, 6, 8) o che comunque comprendono almeno per una parte il settenario (vv. 1, 5, 7, 9). Unico leggermente discordante l‟ultimo (contabile 8+8). Al v. 8, “io stesse” è così nell‟originale, molto probabilmente è un refuso (“io stesso”), tuttavia nel caso di uno scrittore come Toti – come ho già detto – non si è mai sicuri. Mescidazioni lessicali: “omittente” (v. 7, composto da mittente + omissione); “mensa” (v. 9) è aggettivo ottenuto togliendo il prefisso a “immensa”, quindi significa “misurabile”, senonché la negazione restituisce ampiezza. In tutta la raccolta si agita la commistione tra arte e politica, manifestata da Toti attraverso i composti con “proletariato”: nel titolo “paroletariato”, qui “poetariato” (v. 1); del resto, sono gli anni del “proletariato intellettuale”, del cambiamento di rango sociale che toglie prestigio alla cultura. Proprio questo è l‟argomento del testo in esame. All‟inizio il rappresentante del “poetariato” è presentato come se salisse su un palco. La sua voce, quindi, è in qualche modo annunciata e proposta ad un ascolto protetto. Tuttavia proprio il rapporto con gli uditori sembra essersi interrotto: il soggetto ammette di parlare solo a se stesso. Anzi, per paradosso, neppure a se stesso (v. 4 e poi v. 8), per cui non ha proprio alcun destinatario al mondo. La scrittura si avvita allora in un circolo vizioso senza uscita, se non fosse che rimane la struttura dell‟atto comunicativo, ribadita ancora nel v. 5. Fatto è che il silenzio dell‟avanguardia chiede di essere ascoltato, perché ha malgrado tutto (e malgrado la sua autofinalità) qualcosa da dire ed esattamente intende avvertire della crisi del linguaggio come strumento sociale. Per questo la pagina azzerata recupera un‟ampiezza enorme (il “non più mensa”, vuol dire “di nuovo immensa”). Il paradosso si moltiplica su stesso: i messaggi vengono respinti prima ancora di essere spediti, anzi vengono respinti anche se il mittente ha deciso di non spedirli (diventando perciò “omittente”, v. 7). Alla fine “le parole fanno ridere” (v. 10) è il segno della decadenza culturale, ma è forse anche leggibile in chiave autocritica (la poesia avendo ormai un peso risibile); ma in entrambi i casi non c‟è niente da ridere: sia dal lato del degrado linguistico-cultuale, che è disastroso; sia dal lato della poesia giocosa, il cui gioco rasentando il silenzio è decisamente disperato. SCRIPTORIUM la scribanìa salpa quasi ogni notte si ammutinano penne parole tasti macchinette 23 5 cose con nome e cose senza nomi che non sai eppure conoscono le tue mani le conducono fino agli etimi erratici del silenzio scrittorio una lava di suoni muti che rompe la crosta dei cassetti i destini immossi nella tana corrono solo il rischio commotivo di arroversi prima di arroventarsi poi 10 15 20 25 sulla tolda degli schedari quasi seduto in piedi qualche uno che ti sembra sul cassero alto fra le carte comanda a marinai dubbiosi senza gambe maretta e bonaccia il male del mare verbale la sera scrittoria è triste quanto un secolo inconcluso ricupera subito il timone tu e la riga coi centimetri e i corpi cercati l‟antiporta il vicolo d‟uscita che non il soffitto ambisce a cielo ma non si sposta il deserto del pianerottolo spaventa i gradini nelle tue vene senti scorrere sangue altrui una lima di minuti feroci sta segando polsi di cristallo scheggiato introduce tempoveleno che circola e uccide in continua azione e ti muore si ferma senza essere mai stato in moto la parola veliero non ti dice più niente la tua nave è la tua banchina vela-pagina ammainata IL POESIMISTA, 1978 Il testo si compone di 5 strofe di varia lunghezza (5-4-4-9-4). Versi lunghi, superiori alle 11 sillabe, tranne gli ultimi 2; si riconoscono alcuni doppi settenari (vv. 5, 7, 12, 19, 25), però in minoranza. Eccedenti soprattutto i vv. 10 e 15. Drastici enjambement separano i vv. 8-9 e 22-23, mentre il v. 16 sembrerebbe interrotto sulla negazione. Manipolazioni lessicali: scribanìa (v. 1, alterazione di “scrivania” riportandola a “scriba”, antica figura dell‟intellettuale); immossi (v. 7; per “non mossi, fermi”); arroversi (v. 9, forse per “rovesciarsi”, in parallelismo e ripetizione sonora con “arroventarsi”); tempoveleno (v. 22, semplice parola composta). Al v. 23 la parola “continuazione” compare invece divisa in “continua azione”, indicando allora non la continuità, ma il movimento. Al verso successivo, troviamo l‟uso transitivo di “morire”. Il v. 13 è costruito sulla paronomasia e sulla rima interna: “maretta… il male del mare verbale”. Varie assonanze: “CONosCONO… CONduCONO” (v. 4); “ETImi ErraTIci” (v. 5); “COrrOnO… COmmOtivO” (v. 8); “CAssERo… CARtE” (v. 11), ecc. Il testo è rivolto a un tu che corrisponde all‟io. Si fonda sulla continuazione della metafora navale applicata alla scrittura, che determina lo spostamento del piccolo (lo scrittorio, la casa) nel grande (lo spazio marino, il viaggio). Nella prima strofa compare la rivolta degli strumenti, nel modo di un ammutinamento che arriva fino al silenzio (i “suoni muti” del v. 6). Il linguaggio si ribella all‟autore, non vuole più servire, ma con questo spezza il rapporto comunicativo. Non per niente troviamo, più avanti, un equipaggio piuttosto sgangherato (“comanda a marinai dubbiosi senza gambe”, v. 12). Si tratta di tutto e niente, immaginazione per la tangente e effetto imponderabile: l‟aprirsi della casa (vv. 17-18) sembra bloccarsi, mentre la collettività passa nelle vene culturali del soggetto (“nelle tue vene senti scorrere sangue altrui”, v. 19). I campi semantici della metafora indicano sia l‟esplosione tellurica (la “lava”, v. 6) che il lavoro di fino (la 24 “lima”, v. 20). La scrittura è coinvolta in una missione avventurosa che termina però in una impasse; precisamente nella contraddizione, nell‟ossimoro (“si ferma senza essere mai stato in moto”, v. 24; ma già al v. 10: “quasi seduto in piedi”, insomma come sta messo?). Una coincidentia oppositorum tra movimento e stasi (“nave” e “banchina”, che conduce anche la metafora alla condensazione del trattino tra “vela” e “pagina” (v. 27), proprio nel momento, però, in cui l‟elemento entusiasmante della creatività risulta depotenziato (“ammainato”). L’AGRAFÌA scrivere ciò che non scrivi per dire ciò che non dici e tacere ciò che non taci 5 tu non hai scritto ciò che non si legge oltre la tua scrittura fuoripagina fuoriparola e fuorisilenzio anche perché il silenzio non basta devi assediarlo 10 contro le mura del linguaggio avvèntati ancora e sempre: è quello il carcere assoluto il mondo è significato significattivo segnofacente fuorisegno l‟espressione è l‟inesprimibile COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Il testo è formato da 7 strofe molto brevi, denotanti una certa periodicità (3-2-1-2-3-2-1). Versi vari, ma prevalentemente novenari e varianti (in meno, ottonari; in più, decasillabi); eccedenti il v. 8 e il 12. Troviamo vari composti: “fuoripagina”, “fuoriparola” (v. 6); “fuorisilenzio” (v. 7); “fuorisegno” (v. 13). Neologismi: “segnofacente” (v. 13, modellato su “stupefacente”). Parole valigia: “significattivo” (significativo + cattivo). Il testo è rivolto anche questa volta al “tu”, con una esortazione piuttosto imperativa attorno ai 2/3 e una definizione finale. La prima strofa procede in stretto parallelismo (isocolo) contenente però la dialettica del negativo tipica di Toti, a sostenere il sostanziale azzeramento del messaggio (“dire ciò che non dici / e tacere ciò che non taci”). La seconda strofa suggerisce l‟oltrepassamento dell‟intenzione dell‟autore; poi, dall‟oltre, si procede al “fuori” e al gioco dei suoi composti. Uscire dal codice, anche da quello delle stesse avanguardie: nemmeno il silenzio basta, perché può a sua volta ossificarsi in una manovra scontata e prevista; il testo stesso dimostra che bisogna sempre aggiungere, togliere e levare instancabilmente, non smettere. Poiché il significato stabilito dal mondo è “cattivo”, non resta che affidarsi ai significanti, liberarsi e portarli “fuorisegno” – dice la sesta strofa. Ma già la precedente quinta aveva enunciato il perentorio imperativo della sfida al linguaggio: niente di meno, perché il linguaggio è una prigione (“la prigione del linguaggio”, è detto negli stessi anni del titolo di Jameson). A partire dalla metafora del muro e del carcere, l‟invenzione poetica si presenta non come semplice evasione ma come assalto: per la verità prima il testo dice “assediare” (v. 8, contro il silenzio), poi “avventarsi” (v. 10, contro il linguaggio-prigione), che sarebbero due movimenti opposti, tuttavia convergenti nell‟essere del pari conflittuali e polemici, tutt‟altro che pacifici. Infine, la definizione dell‟ultimo verso (“l‟espressione è l‟inesprimibile”, v. 14) è un ossimoro e di quelli di vasta portata, che collima con le mosse dialettiche dell‟inizio. 25 9. POETICA E POLEMICA IN VERSI DICHIARAZIONE D’AMICIZIA D’UN ILLETTERATURO CHE NON FA SALVI I PREVISTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . a «Salvo imprevisti» (riciclostilevista) A «SALVO IMPREVISTI» (RICICLOSTILEVISTA) 5 10 …con i previsti invece imprevedibili futuri che rilenti si riavventano sulle pagine antiche dubitanti (omilitali oggi forse mai se chi «in gruppo» cammina o si riassembla non imprevisto si rivuole adesso all‟epoca che è stanca ma lo porta) «sotterranea minimazione» no – però no: consigliamo overground perchè vivibondi semmai sottocielanei 20 le «minima muralia» altrui lasciamo (parenetici endecasillabando) e poesia parietale o da tempia vendichiamo per noi oggi sapevoli che nessuna cautela ci assicura e in costruzione assoluta introduce opposta condizione per lo più e espressa sottintesa o contraria ineventualità o rimoriscenza (qzertyuiop qzertyuiop) 25 «poesia-documento»? documenta chiedono a tutti i politiciziotti – anche alla poesia li richiediamo? : «dai documenti umani tragga spunto e ragione...» 15 «e sia mezzo politico e civile di azione che coinvolga...» «non emolliente il filtro: che sia crudo...» 30 35 facili endecasillabi autoironici lo so: per questo non li meritiamo né io né voi né loro (ma) parvifiche e regressive sorti dei teopi che fanno seopìe sempre comeunque 26 40 45 imp-revisori e re-visionari sempre «in piccolo gruppo» settatori di se stessi vocati a (v)vocare invocazioni missionarie o pure messianistiche ancora: ho storia oh fretta!!! e tutta via tuttavia via tutta con voi ((in))naturalmente totibante totibile tot‟io . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (((non salvo e non post-visto) CHIAMIAMOLA POEMETÀNOIA, 1974 Nove strofe di varia lunghezza (7/3/19/3/2/2/1/16/5). È scritta prevalentemente in endecasillabi, e questo fatto viene sottolineato in due passi (v. 12 e 29), dove l‟autore indica una doppia valenza dell‟endecasillabo: da un lato la spinta a un discorso programmatico, esortativo (“parenetico”); dall‟altro la riproduzione ironica della misura più canonica che ci sia. Per la verità ci sono alcune eccezioni, versi eccedenti o per difetto o per eccesso (non sono endecasillabi i vv. 9, 10, 20, 25, 27, 47, 49); ma si può notare che i versi scalati che si trovano nella ottava e nona strofa sono in realtà degli endecasillabi spezzati (vv. 31-33, 39-41, 42-44, 45-46). Numerosissimi interventi lessicali: a partire dal titolo, l‟“illetteraturo”, gioca sul ruolo del letterato con due interventi che lo mettono al negativo e al futuro. Nel testo, andando passo passo: v. 4, “omilitali”, dal greco “omilia”, società, indica il gruppo dei “militanti”; V. 10: “vivibondi” (il contrario di “moribondi”) e “sottocielanei” (modellato su “sottocutanei”). V. 14: “vendichiamo” e “sapevoli” sono acefali del prefisso (da “rivendichiamo” e “consapevoli”). V. 19: “ineventualità” (prefisso negativo) e “rimoriscenza” (modellato su “resipiscenza”). V. 22: “politiciziotti”, parola valigia che sovrappone “politici” e “poliziotti”. VV. 34-35: “teopi” (coloro che vedono il divino, ma ricorda anche “topi”), “seopìe” (forse viste del “se”, quindi incerte; o del sé, riflessive), “comeunque” (latinismo?). V. 36: “imp-revisori e re-visionari” (composti il primo con la sovrapposizione di “imprevisto” a “revisori”, quindi con guadagno di sorpresa; il secondo con l‟apposizione del prefisso “re” a “visionari”, quindi con guadagno di replicabilità). Da notare inoltre: l‟uso delle parentesi al v. 38 e poi doppie al v. 47 (con negazione) e infine triple nel verso finale. Al penultimo verso, Toti gioca sul proprio cognome: “totibante totibile tot‟io”. Curioso il v. 20 con la parentesi “(qzertyuiop qzertyuiop)”: non si tratta di antiche lingue degli indiani d‟America, ma semplicemente della prima riga in alto della tastiera. Il testo è inviato alla rivista “Salvo imprevisti”, storico periodico fiorentino aperto alle sperimentazioni, diretto da Mariella Bettarini. Sul nome della rivista Toti gioca fin dal titolo, sia sulla “salvezza” che sulla “prevedibilità”, che sono poi temi sviluppati nel testo e trattati ancora nell‟ultimo verso (dove “post-visto” è il contrario di “pre-visto”). Il testo rappresenta l‟intervento al dibattito sollevato dalla rivista, di cui si trovano citazioni sparse nelle strofe centrali. Un dibattito sull‟impegno, che evidentemente aveva posto l‟accento sulla scrittura del “documento”, che qui Toti irride rifacendo la parlata dell‟agente meridionale (vv. 21-22). Impegno sì, ma non nel modo “previsto”; “salvare l‟imprevisto” della poesia, significa per Toti proiettarsi piuttosto verso il futuro con una visuale profetica per certi versi ineludibile, ma d‟altra parte anche sempre consapevole dei propri inevitabili limiti. Sicché non si capisce bene se il “missionario” e il “messianico” siano da “vocare” o da “avvocare”. Da considerare il passaggio dei vv. 11-13, dove sono messe a distanzia le “minima muralia” (con polemica non tanto con Adorno e i suoi Minima moralia, quanto con la squillante invadenza del manifesto murale) e si propone invece una “poesia parietale”, che non riguarda però una parete, ma un osso, è cioè una poesia da “tempia”, una sorta di appendice corporea. La visione si accompagna a “parvifiche e regressive sorti” (vv. 33-34; inversione della formula leopardiana sulle “magnifiche sorti e progressive”) e analogamente non c‟è impegno senza la controreplica del gioco del dubbio: il “dubitanti” del v. 3 si rifrange nel “totibante” (“titubante” rivisto attraverso il proprio cognome) del v. 48. 27 In tutto ciò c‟è il problema del gruppo (v. 5, poi il “piccolo gruppo”, v. 37): a quest‟altezza, il Gruppo 63 è ancora vicino, sebbene in fase di smobilitazione. La questione dell‟avanguardia è ancora viva, con la sua provocazione del collettivo. Toti sente la suggestione del collettivo, ma nello stesso tempo è consapevole che il compito, alla fine, è per ciascuno singolare. Per questo dichiara amicizia “omilitale”, ma come compagno di strada, su un percorso parallelo dove ognuno è “settatore [termine raro, burocratico, per “sostenitore”] di se stesso” (vv. 37-38), proprio per evitare le false rassicurazioni del settarismo. PER IL TRATTAMENTO SINTOMATICO DELLE MALATTIE DA RAFFREDDAMENTO INTERIORE 5 10 consigliamo qualcosa come confetti fluttuanti finindamina mortamina ideanina uranina utopina etc. decongestionano infatti il traffico dei sentimenti costringono i vasi delle affettività dilatate sopprimono gli oppressori ideologici privati le poemalée le colorìti i musicolàri (dolori) e fagocitano i tristociti le influenze dell‟ostile alterità insomma si affrettino i disponibili alle poesìti alle allucescenze alle reinvisioni la congestione reattiva è medicamentosa come si dice con pochi concetti potrete fluttuanti disintossicarvi dalle poetossine le liricitiche smetterla con le algìe artisticolari COMPOETIBILMENTE INFUNGIBILE, 1979 Strofa unica di 14 versi interrotta da un verso scalare al centro. Versi lunghi, vari di 16 sillabe, ma senza regolarità. Sottolineo i versi elencativi (vv. 2, 6, 10). Contaminazione tra il lessico medico delle malattie e delle medicine con quello della cultura e della poesia. In particolare “poemalée” (v. 6, modellato su “cefalee”), “poesìti” (v. 10, modellato su “otiti”); “poetossine” (v. 13, parola valigia composta da “poeta + tossine”). Da notare inoltre “musicolari” (v. 6, deformazione di “muscolari” con l‟apporto di “musica”) e “artisticolari” (v. 14, deformazione di articolari con l‟apporto di “artistici”). Toti è per solito un fautore della poesia come invenzione e reinvenzione della lingua, cosa che fa anche in questo testo. Però qui in polemica con la cattiva poesia, quella che si presenta come semplice sfogo della tristezza (per cui i nefasti “tristociti” del v. 7). Molto azzeccato è non solo l‟interpretazione della poesia come malattia, ma la sua assimilazione alle “malattie del raffreddamento”. La cattiva poesia non è scaldata dal troppo sentimento, come si potrebbe pensare, ma è “raffreddata” in quanto l‟emissione del dolore finisce per essere anche un abbassamento della carica formale-linguistica, una sua banalizzazione. Si consigliano confetti-concetti “fluttuanti”: movimentare il linguaggio, abbandonare le norme e gli stereotipi, passare dal dolorismo all‟utopia. 28 10. ECONOMIA POLITICA PROFETALPA 10 la Vecchia Talpa parla alla giovane talpa : io sono la rivelazione della rivoluzione quando affiorerò vedranno l‟affiorescenza i dentini lungopazienti degli occhiusi che vedevano il buio quando gli aperti credevano lucevedere poi toccherà a te nel sottocielo dovrai scavare cunicoli azzurri diranno che sei una talpa bambina ingenua non sanno che sarai più antica di me con più eoni alle spalle 15 come ti chiameranno io non so non ti chiameranno neppure – fors sit! non si accorgeranno di te solo di quel limìo subtelile di quei minimi strappi nella gran tela assurra 5 poi capiranno ti daranno un nome «giovane talpa» dirà un junge Karlchen allora saprai che anche tu dovrai figliare PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977 Tre strofe di varia lunghezza, decrescente (10/5/3). Versi più lunghi e più brevi dell‟endecasillabo: in particolare di 14 (doppi settenari vv. 1, 15; altre composizioni, vv. 5 e 18), e di 16 sillabe (vv. 2 e 4 sono 9+7, solo il v. 3 8+8); endecasillabi i vv. 7, 11, 16, 17, forse anche 12). Nel lessico: termini derivati (“affiorescenza”, v. 3; “limìo”, v. 14); termini composti (“lungopazioneti”, v. 4; “lucevedere”, v. 5; “sottocielo”, v. 6); contratti (“occhiusi”, v. 4, per “occhi chiusi”). Inoltre “assurra” (v. 15) per “azzurra”, se non è un refuso; “subtelile” (v. 14) dovrebbe significare “che ha uno scopo sotterraneo”. Una paronomasia è “la rivelazione della rivoluzione” (v. 2). Il plurilinguismo trova uscite in latino (v. 12) e in tedesco (v. 17). Il titolo, Profetalpa, parola composta da profeta + talpa, indica bene la prospettiva del testo. Si tratta di un dialogo tra talpe o meglio di un discorso della “vecchia” rivolta alla “giovane”. Che è anche un dialogo con Marx e con la sua immagine della “vecchia talpa” posta, ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, a rappresentare la rivoluzione che lavora sotterraneamente per poi emergere a tempo debito (e quella era, a sua volta, una citazione dall‟Amleto di Shakespeare). Qui la talpa è profetica perché si rivolge al futuro, a un suo ipotetico successore, immaginando quindi una sorta di ciclicità e eredità della rivoluzione. Toti ragiona sulla storia rifacendosi a un “tempo grande” e non a caso parla di “eoni” (v. 10), una lunghezza ancora superiore alle ere. Nella prima strofa (soprattutto ai vv. 4-5) si contrappongono i ciechi e i vedenti: allo sguardo di superficie sembra che la rivoluzione sia completamente svanita (e se ne dichiara l‟impossibilità definitiva), mentre gli occhi apparentemente ciechi, “che vedono il buio” (v. 4) sanno cogliere il paziente e minuto lavoro di preparazione, gli inavvertibili mutamenti (il “limìo”, i “minimi strappi”, vv. 14-15). Questo processo sotterraneo crea il problema del nome e del riconoscimento affrontato nella seconda strofa: non si sa ancora come emergeranno le forze rivoluzionarie e quindi non se ne conosce il nome, la conformazione e la definizione. Per nominarla correttamente ci vorrà un «junge Karlchen», un “giovane Carletto”, vale a dire un nuovo Marx: non però lo stesso Marx, ma una lettura rinnovata della società e della stessa prospettiva rivoluzionaria. In questo senso la “talpa” di Toti è “profetica” e affidata al futuro, secondo un‟antitesi vecchia/giovane che prevede l‟evento inedito e la sorpresa del nuovo. La storia si collega 29 all‟utopia, rappresentata dal colore azzurro, per altro, al v. 7, associato ai “cunicoli”, con un ossimoro che rovescia il buio sotterraneo in una esteriorità celeste, quindi volatile. FATTICIO FITTICIO FETICCIO lavoro morto e morta poesia poetico lavoro (non è forse tautologia? lo è non è cos‟è?) 10 quand‟è morto pensiero il pensiero? quand‟è morto lavoro il lavoro (non è morto sempre?)? quand‟è morta poesia la poesia (può morire la poesia? può e non può nella tomba di carta nella gola muta)? 15 fetischpoetisch form dinglichste la più cosale forma di poesia la più fittizia che si sfa se non fittizia la rifai più viva meno cosa più causa 5 PER IL PAROLETARIATO O DELLA POESICIPAZIONE, 1977 Tre strofe distribuite irregolarmente (3/6/5). Inizia con una sequenza di endecasillabi (vv. 1-6); poi versi più brevi o più lunghi, endecasillabi i vv. 8, 12, 14. Andamento dubitativo e correttivo: punti interrogativi e parentesi nelle prime due strofe. Parallelismo e ripetizioni: nella seconda strofa il “quand‟è morto” che si ripete tre volte; nella terza, “più” si ripete quattro volte. Strutture binarie: ad esempio nella prima strofa il chiasma “lavoro morto e morta poesia”; nella seconda “nella tomba di carta nella gola muta”. Però anche ternarie: “lo è non è cos‟è?” (v. 3); “più viva meno cosa più causa”, alla fine (v. 15). Il titolo è una paronomasia tripla che rimanda a tre dimensioni a confronto: il “fatticio” è l‟esercizio del fare; il “fitticio” è il fittizio della finzione, anche poetico-letteraria; il “feticcio”, infine, è il feticismo della merci segnalato da Marx – il che giustifica il tedesco del v. 11 – in un celebre brano de Il capitale (in cui dice che «appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare»). Le tre strofe si possono leggere come una riflessione in versi sul rapporto della poesia con questi tre aspetti, che è anche un ragionamento sul nesso tra poesia e capitalismo (con l‟alienazione, la reificazione, oppure semplicemente con il lavoro e la produzione). Nella prima strofa, confrontata con il lavoro ci si chiede se anche in poesia non ci sia un equivalente del “lavoro morto” (cioè quello concrezionato nel capitale e nei mezzi di produzione). E soprattutto, se la poesia possa considerarsi un lavoro: l‟etimo della poesia (da poiein, fare) direbbe che sono la stessa cosa (una “tautologia”, v. 3), senonché l‟uguaglianza è subito solcata dal dubbio. Nella seconda strofa, continua la discussione sul carattere “morto” del pensiero e del lavoro (“morto” nel senso di inerte, in attesa di una forza umana che si applichi a risvegliarlo e ad attuarlo). La poesia stessa – si veda la parentesi dei vv. 8-10 – può considerarsi morta quando non è innovativa e inventiva, quando nulla sulla pagina si muove o desta sorpresa (allora la carta è una “tomba” e la gola è “muta”, v. 10). Nella terza strofa si ragiona attorno alla “forma cosale” della poesia. La poesia è una cosa tra le cose e certamente una cosa “fittizia”, finzionale (ossia una rappresentazione senza referente), però ha la proprietà di potersi “rifare”, cioè rilanciare ogni volta da capo, diventando da “cosa” “causa” (forza attiva). 30 In questo testo la poetica creativa di Toti si confronta fino in fondo con l‟alienazione linguistica, chiamando in campo tutto l‟apparato filosofico-scientifico del marxismo. Ne spunta sempre il guizzo della genialità “vivace”, ma nello stesso tempo vi si affronta il dilemma della poesia: la poesia in sé non basta, perché c‟è pur sempre la possibilità che la poesia sia “morta”, inattiva e inaffidabile, stantia e regressiva. Dice ai vv. 89: “può morire / la poesia? può e non può”; il che vuol dire che c‟è poesia e poesia e che occorre cercare l‟alternativa. 31