Danno ambientale NUOVI ORIENTAMENTI IN MATERIA DI RESPONSABILITA’ PER DANNO AMBIENTALE di Stefano Maglia e Monica Taina* 1. L’ambiente come bene giuridico ed il concetto di danno ambientale. È stato giustamente osservato che molti studi in materia di diritto ambientale partono dalla ricerca della definizione di “ambiente”, ma tale tentativo è destinato a rimanere vano a causa della pluralità di nozioni eterogenee evocate da tale termine. È tuttavia innegabile che nel nostro secolo: “…vivere in un ambiente pulito e sano è essenziale per mantenere il benessere e la prosperità della società..”1, perciò l’ambiente è divenuto oggetto di tutela giuridica, penale, civile e amministrativa. La protezione delle risorse naturali è ormai una costante degli ordinamenti giuridici contemporanei, ma non è affatto scontato che esse vengano prese in considerazione quali beni giuridici autonomi, ovvero non sempre le risorse naturali sono tutelate in sé e per sé, a prescindere dal rapporto con i beni tradizionalmente tutelati dall’ordinamento, in primo luogo la salute e la proprietà. Un facile riscontro è possibile attraverso l’analisi della nostra carta costituzionale. Si rileva che, fino alle modifiche introdotte dall’art 3 della Legge Costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, che ha espressamente citato tra le materie a potestà esclusiva dello Stato la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” (art. 117 cost. lett. s), gli unici riferimenti indiretti all’ambiente erano l’articolo 9, avuto riguardo alla “… tutela del paesaggio..” e l’art. 32 avuto riguardo alla tutela di un diritto ad un “ambiente salubre”. Il problema della mancanza di una definizione giuridica di “ambiente” è stato arginato, nell’intenzione del legislatore (!) attraverso la promulgazione della legge 8 luglio 1986, n. 349, che per la prima volta ha configurato l’ambiente come bene giuridico autonomo, oggetto di tutela in sé e per sé, tramite gli istituti della responsabilità civile per danno ambientale e dell’azione giurisdizionale amministrativa per l’annullamento dei provvedimenti lesivi dell’ambiente. Un esempio paradigmatico è offerto proprio dall’art. 18 della legge 349/1986, la norma fondamentale in materia dì danno ambientale. A norma del primo comma, infatti, “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Non meno significativo è poi il quinto comma: “Le associazioni individuate in base all’art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”. 2. Analisi sistematica dell’art. 18. Il motivo di maggiore interesse dell’articolo 18 della legge n. 349/86 sta nel fatto che la norma riconosce l’ambiente come oggetto di tutela in quanto tale, meritevole di risarcimento ed ove possibile di ripristino, indipendentemente dal verificarsi di danni a persone o cose, in conseguenza dell’evento dannoso considerato. Il riconoscimento di una tutela piena ed autonoma trova riscontro in poche legislazioni nazionali di altri Paesi e rappresenta un elemento di sicuro interesse. Tuttavia, al di là delle affermazioni di principio, i limiti e le procedure alle quali la normativa subordina l’effettivo risarcimento del danno all’ambiente riducono di molto, come l’esperienza di questi anni ha dimostrato, la possibilità che al verificarsi di un episodio di danno possa conseguire una piena ed effettiva tutela sulla base del disposto dell’art. 18. La struttura dell’art. 18 della legge n. 349/86 può essere così schematizzata: - sistema di responsabilità per colpa e il raffronto con la tutela posta dall’art. 2043; - competenza del giudice ordinario anziché del giudice amministrativo o contabile a conoscere le azioni di responsabilità civile per danno ambientale; - ampio potere discrezionale del giudice nella determinazione dell’ammontare del danno in via equitativa, laddove una precisa quantificazione non sia possibile; - priorità, ove possibile, al ripristino dei luoghi; responsabilità individuale, e non solidale, nel caso di concorso di più persone al verificarsi del danno; - legittimazione ad agire dello Stato e degli enti territoriali minori sui quali incidono i beni oggetto del (*) Avvocato. Studio Maglia 1 Primo “Considerando” della Decisione n. 1600/2002/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002, che ha istituito il VI Programma comunitario di azione in materia ambientale. 10/2004 5 fatto lesivo (azione pubblica); - ruolo delle le associazioni ambientaliste.2 Di seguito si esamineranno alcune delle fondamentali caratteristiche dell’articolo 18, in particolare la responsabilità per colpa ed il nesso causale. 2.1 La responsabilità per colpa. La responsabilità civile per danno ambientale é subordinata alla prova della colpa o del dolo dell’autore dell’evento dannoso da parte del danneggiato, ed anche alla condizione che la condotta lesiva dell’ambiente sia stata posta in essere contra legem, ossia in violazione alle vigenti disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge. Con l’introduzione dell’ art. 16 si è verificato il passaggio da una tutela ambientale di tipo privatistico, garantita dagli artt. 844 e 2043 cod. civ., ad una tutela più marcatamente pubblicistica. Analizziamo il primo comma: “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Interpretando letteralmente tale norma, potremmo affermare che l’organo giudicante non potrà dichiarare l’esistenza di alcuna responsabilità per danno ambientale affermando la contrarietà del comportamento generatore con i principi dell’ordinamento, ma suo unico elemento di riferimento dovrà essere l’esistenza di una disposizione di legge o di un provvedimento in base a legge la cui violazione soltanto possa comportare l’obbligo del risarcimento. Ancorare l’esistenza della responsabilità alla semplice compromissione avrebbe comportato, secondo alcuni commentatori,3 la possibilità di un eccesso di soggettività nell’individuazione dello scadimento e deturpamento di quel bene che è l’ambiente. Dall’esame comparato dell’ art. 18 e dell’art. 2043 cod. civ., sembrerebbe che essi presentino forti analogie sul piano della tecnica legislativa. Infatti, hanno un avvio del tutto identico: “Qualunque fatto (rectius atto) doloso o colposo”. La similitudine si riscontra, ancora, in ordine alla loro conclusione, considerato che il 1° comma dell’art.18 “obbliga l’autore del fatto al risarcimento del danno”, modellando la norma sull’inciso finale dell’art.2043 che “obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” . L’evidente affinità tra le due disposizioni ha suscitato la convinzione che la fattispecie del danno ambientale si collocasse nel solco della responsabilità civile4. Infatti, è stato osservato che l’art. 18 assume un valore di lex specialis, rispetto al contenuto dell’art. 2043 per una serie di ragioni: in primis, per la tipicità dell’illecito ambientale contro l’atipicità della norma generale; secondariamente, per la specificità della tutela prevista in relazione ai procedimenti processuali e ai soggetti legittimati all’azione; ed infine, ed è la differenza più rilevante, in relazione all’oggetto della tutela, riguardante diritti di per se collettivi o comunque superindividuali, contro l’art. 2043 che accorda tutela precipuamente ai diritti individuali.5 L’art. 18, pur sè risulta strutturato sul piano lessicale similmente all’ art. 2043, si discosta da quest’ultimo per alcune peculiarità di derivazione pubblicistica quali, come già evidenziato, la tipicità dell’evento, l’accentuazione della finalità punitiva, il ricorso primario al risarcimento in forma specifica, che successivamente analizzeremo nel dettaglio. Può allora dirsi che siamo in presenza, con l’art.18 della legge n.349/86, di una nuova fattispecie di responsabilità, quella per danno ambientale, di una norma però speciale, perché applicativa, specificativa o modificativa dei principi generali già in via di massima affermatisi proprio nella materia della lesione dell’ambiente e dei danni da inquinamenti.6 Il ricondurre, pertanto, la responsabilità ambientale nell’illecito di cui all’art.2043 cod. civ. determina un cambiamento di disciplina per i pubblici amministratori che nell’ipotesi in cui cagionino un danno ambientale, nell’esercizio delle loro funzioni, non ne risponderanno a titolo di responsabilità contrattualeamministrativa-patrimoniale ma a titolo di responsabilità extracontrattuale con tutte le differenti applicazioni che l’istituto richiede, prima fra tutte, quella relativa al termine prescrizionale, l’azione ex art. 2043 si prescrive in 5 anni. 2.2. Il nesso causale. Le normali regole che disciplinano il nesso di causalità tra condotta, dolosa o colposa, ed evento, presentano aspetti problematici per l’applicazione alla fattispecie del danno ambientale. I problemi pratici inerenti alla fenomenologia ambientale paiono alquanto peculiari. È sufficiente pensare al dato per cui il danno in quanto tale o le sue conseguenze possono venire alla luce anche molti anni dopo il verificarsi delle azioni dannose, con con- 2 Tali caratteristiche sono così individuate in: Progetto Genova, La responsabilità ambientale di impresa: aspetti giuridici e giurisprudenziali a livello nazionale ed internazionale, a cura DI G. LANDI e M. MONTINI, Fondazione ENI Enrico Mattei, AIB-WEB, http://www.feem.it/resun/activ/ge3d.html. Quanto alle associazioni ambientaliste si veda il paragrafo precedente. 3 Si veda A. Amato, in Danno Ambientale, quantificazione e aspetti procedurali, in Lexambiente, Rivista giuridica on line curata da Luca Ramacci. 4 Greco, Danno ambientale e tutela giurisdizionale, Riv. Giur. Amb, 1987, 525, che riconduce espressamente il danno ex art. 18 all’illecito contrattuale. 5 La Cassazione ha ritenuto l’appartenenza dell’illecito ambientale al genus della responsabilità aquiliana avendo considerato che il torto ecologico abbia una sua peculiarità nell’ambito della responsabilità civile “con la conseguenza che anche, la prova di siffatto torto non può non risentirne, ispirata, come deve essere, non a parametri puramente patrimoniali, ma alla compromissione dell’ambiente”. Cass. Civ., 1 settembre 1995, n. 9211, in Giust. Civ. 1996, I, 780. 6 Comporti, La responsabilità per danno ambientale, Foro It., 1987, III, 273. 6 10/2004 seguenti difficoltà a dimostrare la relazione esistente tra azione dannosa ed evento lesivo.7 È inoltre tipico in questo ambito il verificarsi di ipotesi ove il danno non sia la conseguenza di una singola azione dannosa: nei casi delle c.d. immissioni cumulate, ci si trova di fronte alla problematica di determinare quale sia la percentuale di ogni inquinatore all’attività inquinatrice.8 La scelta di una regola causale piuttosto che di un’altra non è tema che può essere trattato disgiuntamente da quello degli scopi che ci si ripromette di raggiungere con lo strumento della responsabilità civile in questo settore. Ciò, infatti, incide direttamente sulle modalità e sui livelli di svolgimento di una determinata attività, ampliando o restringendo l’area dei rischi che possono essere imputati ad un operatore, non diversamente da quanto avviene con la scelta di un determinato tipo o regime di responsabilità.9 Il sistema previsto dall’art. 18 non prevede forme semplificate di prova da nesso causale, non esistono né presunzioni di colpa, né forme di responsabilità aggravata per certi tipi di imprese o di attività di impresa. L’attore (lo Stato o gli enti territoriali minori) dovrà fornire piena prova della colpa o del dolo del convenuto (il soggetto che si assume responsabile del danno). La Corte di Cassazione è intervenuta sui temi inerenti alla prova del danno ambientale nella pronuncia n. 9211 del 199510: “Se è vero che l’onere probatorio grava sul soggetto danneggiato, non è meno vero che la prova del danno ambientale non può non consistere nella compromissione dell’ambiente stesso, accertata attraverso rilevazioni ed esami pubblici”. In quella stessa sede i giudici della Suprema Corte ritennero provato il danno ambientale mediante l’allegazione di elementi gravi precisi e concordanti sul dedotto pregiudizio ambientale, sottolineando l’importanza nel conseguimento della prova della possibilità di esperire una consulenza tecnica, strumento funzionale ed efficace di indagine al fine di accertare fatti essenziali per la decisione. 3 La quantificazione del danno. La questione della definizione e quantificazione del danno ambientale risulta un altro dei punti critici della normativa in questione. Il problema della valutazione del bene leso assume carattere generale al di fuori dell’area dei contratti, ed è maggiormente percepibile laddove manchi, per una intera classe di beni, un parametro costituito dai prezzi di mercato, mediante il quale le tecniche estimatorie possono operare con un accettabile grado di approssimazione. Tale difficoltà rende ardua la ricerca di criteri che possano essere utilizzati in sede giurisdizionale per addivenire alla quantificazione del danno ambientale. I criteri di quantificazione devono permettere di raggiungere la formulazione di un incentivo adeguato per il danneggiante a non tenere più nel futuro una determinata condotta lesiva per il bene-ambiente. Ove la quantificazione fosse troppo bassa rispetto al risparmio o al guadagno ricavato dal polluter con una determinata attività inquinante, tale da non costituire un valido incentivo per il danneggiante ad evitare il medesimo danno in futuro, si vanificherebbe anche ogni discorso sulla scelta del criterio di imputazione della responsabilità. In questo senso infatti la scelta a favore di un regime di responsabilità più severo, come quello che presume la colpa, non porterebbe comunque a risultati soddisfacenti ove tale opzione non fosse coadiuvata da criteri di quantificazione che perseguissero il medesimo scopo. I criteri di quantificazione incidono dunque direttamente sulla funzione preventiva della responsabilità civile, a ciò si aggiunge l’esigenza di sviluppare criteri univoci per raggiungere decisioni omologhe in tutte le corti. Sarebbe infatti auspicabile che i giudici avessero delle direttive prestabilite da seguire, onde evitare che la quantificazione del danno possa portare a risultati difformi, quindi sostanzialmente iniqui, a seconda della giurisdizione che si trova a decidere su di una determinata causa ambientale. Infine l’esistenza di tali criteri esplica un’ulteriore funzione: rendere in qualche modo prevedibile la quantificazione del danno. Fatto è non di poco conto anche per gli assicuratori che devono rendere disponibili polizze adeguate. La Corte Costituzionale11 soffermandosi sulla problematica aperta dalla legge del 1986, ha definito il danno ambientale come danno di natura certamente patrimoniale conferendogli, in sostanza, una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che “la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicchè si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo. Consentono di misurare l’ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali. E per tutto questo 7 Sul tema del nesso di causalità in materia ambientale cfr.: A. GAMBARO, Danno ambientale e tutela degli interessi diffusi, rivisitazione critica del tema delle class actions e studio comparativo delle esperienze occidentali degli anni ‘90, in Per una riforma della responsabilità civile per danno ambientale, a cura di P. TRIMARCHI, Milano, Giuffrè editore, 1994, pag. 43-90; e ancora: G. VILLA, Nesso di causalità e responsabilità civile per danni all’ambiente, in Id., pag. 93-147. 8 Su questa problematica vedi: B. POZZO, Danno ambientale e imputazione della responsabilità. Esperienze giuridiche a confronto, Milano, Giuffrè editore, 1996, pag. 315. 9 Cfr.: R. SIMONE, Nesso di causalità e danno “esistenziale”, in Foro Italiano, I, 1991, pag. 459-463. 10 Cass., 1 settembre 1995, n. 9211, in Giustizia Civile, 1996, I, pag. 779. 11 Corte Cost., 30 dicembre 1987, n. 641, in Foro Italiano, 1998, I, pag. 694-706, con nota di F. GIAMPIETRO. La Corte di Cassazione è pure intervenuta ad avvalorare la qualificazione del danno all’ambiente come danno patrimoniale nella sentenza n. 4362, del 9 aprile 1992, in Massimario della giustizia civile, 1992, pag. 588. 10/2004 7 l’impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all’ambiente e quindi al danno ambientale un valore patrimoniale”. Il legislatore italiano ha rimesso infine il delicato compito di attribuire un valore ambientale al giudice, stabilendo al sesto comma dell’art. 18 che ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno questi debba procedere in via equitativa. Tale norma conferisce al giudice un notevole potere discrezionale, da parte della dottrina ritenuto eccessivo in ragione dell’assenza di precisi criteri di stima che possano guidare la quantificazione. La portata di tale disposizione è tuttavia parzialmente temprata dall’art. 18, ottavo comma: “il giudice nella sentenza di condanna dispone, ove sia possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile”. La legge non dice nulla circa il rapporto intercorrente tra il risarcimento del danno per equivalente ed il ripristino dello stato dei luoghi, tuttavia sembra essersi ormai affermata concordemente sia in dottrina12 che in giurisprudenza13 l’opinione che il ripristino debba essere ordinato con preferenza rispetto al risarcimento per equivalente, malgrado la menzione di tale rimedio sia collocata in un comma successivo dell’art. 18 rispetto a quello in cui si tratta del risarcimento per equivalente. In questo senso la norma posta dall’ottavo comma dell’art. 18 costituirebbe una netta contrapposizione con quanto dispone l’art. 2058 del cod. civ. in tema di responsabilità extracontrattuale, ai sensi del quale il risarcimento in forma specifica può essere disposto dal giudice solo ove la parte interessata ne faccia esplicita richiesta e questa non risulti essere eccessivamente onerosa. La prevalenza del rimedio del ripristino dello stato dei luoghi rispetto a quello del risarcimento per equivalente nel sistema delineato dall’art. 18 dovrebbe limitare i casi in cui la quantificazione del danno viene effettuata dal giudice in via equitativa alle sole situazioni in cui non sia materialmente possibile il ripristino e non sia altresì possibile una esatta quantificazione del danno. Quest’ultima ipotesi dovrebbe interpretarsi nel senso che in alcuni casi il bene ambiente, o meglio parti di esso, possono essere suscettibili di una valutazione di mercato alquanto precisa. Per i casi in cui né il ripristino né una precisa quantificazione siano possibili il giudice dovrà determinare l’ammontare del danno in via equitativa secondo i cri- teri stabiliti al sesto comma dell’art. 18 L. 349/86. L’art 18 della L. 349/86 nulla dice nemmeno circa la condanna al ripristino dello stato dei luoghi emessa nei confronti della P.A.. Una parte autorevole della dottrina ha sostenuto che al risarcimento in forma specifica possa essere condannato anche l’ente pubblico autore del danno ecologico. Tale interpretazione troverebbe un adeguato sostegno nell’art. 113 Cost, secondo cui “i rimedi contro i fatti comunque antigiuridici imputabili alla pubblica amministrazione debbono, in ciascuna sfera giurisdizionale, essere gli stessi che la legge appresta per i fatti ugualmente antigiuridici imputabili ad altri soggetti”.14 Tornando alla quantificazione del danno ambientale la disposizione in esame, come detto, non contiene criteri di stima per la quantificazione da parte del giudice. Il comma 6 tuttavia contiene solamente alcune linee guida delle quali il giudice deve tenere conto per la stima: la gravità della colpa, il costo necessario per il ripristino e il profitto conseguito dal trasgressore. È opportuno inoltre osservare che nella realtà giurisprudenziale di questi anni il ricorso a tali criteri è stato in gran parte disatteso dai giudici. L’unico esempio di quantificazione del danno ambientale basata sulle linee guida dell’art. 18 è la sentenza del Pretore di Rho del 1989, relativa ad una fattispecie di inquinamento doloso di un corso d’acqua da parte di un’impresa.15 4. Le più recenti prospettive europee: la direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004. Sull’impianto della disciplina italiana in materia di danno, ovvero in primis sull’art. 18, ma anche sul 17 del D.Lvo22/97 e sul 58 del D.M. 471/98, si va ad innestare la nuovissima disciplina comunitaria (la direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004) sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,16 cui entro il 30 aprile 2007 gli Stati membri dell’UE dovranno uniformarsi. La nuova direttiva tiene conto di due diverse distinzioni di danno: danno alla biodiversità e danno derivante dalla contaminazione dei siti. Prevenzione e riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale “contribuiscono a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato”, dovrebbero quindi essere attuate applicando sia il principio “chi inquina paga”(stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità Europea,), sia il principio dello sviluppo sostenibile. Secondo la direttiva, l’operatore, la cui attività ha cau- 12 In questo senso: G. MORBIDELLI, Il danno ambientale nell’art. 18 legge 349/86 - Considerazioni introduttive, in Rivista critica di diritto privato, 1987, pag. 599-618; e nella medesima rivista: S. MAZZAMUTO, Osservazioni sulla tutela reintegratoria di cui all’art. 18 legge 349/86, 1987, pag. 699-702; e P. CASTRONOVO, Il danno all’ambiente nel sistema di responsabilità civile, 1987, pag. 511-520; da ultimo: M. COMPORTI, Tutela dell’ambiente e tutela della salute, in Rivista giuridica dell’ambiente, 1990, pag. 207. Cfr. tuttavia: D. CHINDEMI, Il danno ambientale, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 1993, II, pag. 431-440, il quale sostiene che il ripristino dello stato dei luoghi debba essere considerato un’ulteriore sanzione a carico dei trasgressori, in aggiunta al risarcimento danni. 13 Vedi: Cass. pen. 1988, in Rivista penale dell’economia, 1989, pag. 20; e Cass. Sez. Un., 25 gennaio 1989, n. 440, in Rivista giuridica dell’ambiente, 1989, pag. 103, con nota di A. POSTIGLIONE. 14 Cfr.: P. LANDI, La tutela processuale dell’ambiente, Padova, CEDAM, 1991, pag. 129. 15 Si veda: Pretura di Rho (Milano), sentenza 29 giugno 1989, in Foro Italiano, 1990, II, pag. 526. 16 Direttiva 2004/35/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, in GUUE n. 143/56, serie L, del 30 aprile 2004, reperibile alla pagina web www.tuttoambiente.it/euro/danno.pdf 8 10/2004 sato un danno ambientale, o la minaccia imminente di tale danno, sarà considerato finanziariamente responsabile, di modo che egli sia obbligato ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale. Assecondando il sopradetto principio di prevenzione, la direttiva disciplina azioni di prevenzione (art. 5) e azioni di riparazione (art. 6). Quanto alle azioni di prevenzione, novità introdotta dalla direttiva, l’art. 5 prevede che: “Quando un danno ambientale non si è ancora verificato,ma esiste una minaccia imminente che si verifichi, l’operatore adotta, senza indugio, le misure di prevenzione necessarie. Se del caso, e comunque quando la minaccia imminente di danno ambientale persista nonostante le misure di prevenzione adottate dall’operatore, gli Stati membri provvedono affinché gli operatori abbiano l’obbligo di informare il più presto possibile l’autorità competente di tutti gli aspetti pertinenti della situazione. L’autorità competente , in qualsiasi momento, ha facoltà di: a) chiedere all’operatore di fornire informazioni su qualsiasi minaccia imminente di danno ambientale o su casi sospetti di tale minaccia imminente; b) chiedere all’operatore di prendere le misure di prevenzione necessarie; c) dare all’operatore le istruzioni da seguire riguardo alle misure di prevenzione necessarie da adottare; oppure d) adottare essa stessa le misure di prevenzione necessarie. L’autorità competente richiede che l’operatore adotti le misure di prevenzione. Se l’operatore non si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 1 o al paragrafo 3, lettere b) o c), se non può essere individuato, o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della presente direttiva, l’autorità competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure”. Quanto invece alle azioni di riparazione il successivo articolo 6 stabilisce: “Quando si è verificato un danno ambientale, l’operatore comunica senza indugio all’autorità competente tutti gli aspetti pertinenti della situazione e adotta: a) tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato, gli inquinanti in questione e/o qualsiasi altro fattore di danno, allo scopo di limitare o prevenire ulteriori danni ambientali e effetti nocivi per la salute umana o ulteriori deterioramenti ai servizi e b) le necessarie misure di riparazione conformemente all’articolo 7 L’autorità competente, in qualsiasi momento, ha facoltà di: a) chiedere all’operatore di fornire informazioni supplementari su qualsiasi danno verificatosi; b) adottare, chiedere all’operatore di adottare o dare istruzioni all’operatore circa tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato, gli inquinanti in questione e/o qualsiasi altro fattore di danno, allo scopo di limitare o prevenire ulteriori danni ambientali e effetti nocivi per la salute umana o ulteriori deterioramenti ai servizi; c) chiedere all’operatore di prendere le misure di riparazione necessarie; d) dare all’operatore le istruzioni da seguire riguardo alle misure di riparazione necessarie da adottare; oppure e) adottare essa stessa le misure di riparazione necessarie. L’autorità competente richiede che l’operatore adotti le misure di riparazione. Se l’operatore non si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere b), c) o d), se non può essere individuato o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della presente direttiva, l’autorità competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure, qualora non le rimangano altri mezzi”. Premesse molto buone dunque. Senza contare che la direttiva fornisce anche una nozione esplicita di danno ambientale. All’art. 2, co.1, infatti leggiamo:“Danno ambientale”: a) danno alle specie e agli habitat naturali protetti, vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat. L’entità di tali effetti è da valutare in riferimento alle condizioni originarie, tenendo conto dei criteri enunciati nell’allegato I; Il danno alle specie e agli habitat naturali protetti non comprende gli effetti negativi preventivamente identificati derivanti da un atto di un operatore espressamente autorizzato dalle autorità competenti, secondo le norme di attuazione dell’articolo 6, paragrafi 3 e 4 o dell’articolo 16 della direttiva 92/43/CEE o dell’articolo 9 della direttiva 79/409/CEE oppure, in caso di habitat o specie non contemplati dal diritto comunitario, secondo le disposizioni della legislazione nazionale sulla conservazione della natura aventi effetto equivalente. b) danno alle acque, vale a dire qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale 10/2004 9 ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, a eccezione degli effetti negativi cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7 di tale direttiva; c) danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana a seguito dell’introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo”. Altra definizione di interesse, in correlazione alle sopradette azioni di prevenzione, è quella di “minaccia imminente di danno: il rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno ambientale in un futuro prossimo”. Infine di rilevo, negli aspetti più generali, la determinazione dei costi di prevenzione e di riparazione. All’art. 8, commi 1 e 2 infatti leggiamo: “L’operatore sostiene i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione adottate in conformità della presente direttiva. Fatti salvi i paragrafi 3 e 4, l’autorità competente recupera, tra l’altro attraverso garanzie reali o altre adeguate garanzie, dall’operatore che ha causato il danno o l’imminente minaccia di danno i costi da essa sostenuti in relazione alle azioni di prevenzione o di riparazione adottate a norma della presente direttiva. Tuttavia, l’autorità competente ha facoltà di decidere di non recuperare la totalità dei costi qualora la spesa necessaria per farlo sia maggiore dell’importo recuperabile o qualora l’operatore non possa essere individuato.” È però opportuno evidenziare alcune lacune della direttiva, che riflettono peraltro delle difficoltà riscontrate nel nostro ordinamento in sede di applicazione dell’art. 18. La risposta che gli operatori del diritto italiano si aspettavano era relativa alla questione del nesso di causalità, e invece la direttiva, all’art. 4 comma 5, avuto riguardo alle eccezioni, precisa che: “La presente direttiva si applica al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno causati da un 10 10/2004 inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori” e abbiamo già evidenziato quanto sia difficoltoso, se non impossibile per certe tipologie di danno accertare il nesso causale. La direttiva inoltre non propone alcun criterio per la valutazione economica del danno. Quanto poi alla richiesta di azione l’art. 12 attribuisce la qualifica di “interesse sufficiente” all’interesse di organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente e che sono conformi a tutti i requisiti previsti dal diritto nazionale, con ciò ampliando il campo d’azione delle associazioni ambientaliste, che però verranno riconosciute in ogni stato membro con criteri diversi. Inoltre nulla viene detto in merito ai meccanismi di “azione popolare”, lasciando anche in tale ambito grande disparità tra gli stati; basti pensare che negli stati dove l’azione popolare può essere promossa agevolmente, ad esempio i Paesi Bassi, sono state quasi 4000 (negli anni dal 1996 al 2001) le cause avviate da privati e associazioni ambientaliste per risarcimento del danno ambientale, contro le quasi 500, delle sole associazioni ambientaliste, negli altri Paesi. Da ultimo esaminiamo l’applicazione della direttiva nel tempo. L’ art. 17 stabilisce già che le disposizioni contenute nella direttiva non si applicheranno al danno causato da una emissione, un evento o un incidente verificatosi prima del 30/04/07. Quanto invece al danno causato da un’ emissione, un evento o un incidente verificatosi dopo il 30/04/07, se derivante da una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data, le disposizioni della direttiva non si applicheranno al danno in relazione al quale sono passati più di 30 anni dall’emissione, evento o incidente che l’ha causato. Purtroppo dunque, per i disastri ambientali già avvenuti parrebbe non esistere riferimento comunitario, per l’Italia resta applicabile l’art. 18, con tutti i suoi limiti.