Quaderni acp
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bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della
A ssociazione
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C ulturale
P ediatri
ISSN 2039-1374
I bambini e il cibo
settembre-ottobre 2014 vol 21 n°5
Poste Italiane s.p.a. - sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art 1, comma 2, DCB di Forlì - Aut Tribunale di Oristano 308/89
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September-October 2014; 21(5)
Not a drop to drink
Luca De Fiore
193 Editorial
Lifestyle and health: also the National Bioethics
Committee talks about it. What paediatricians do?
Carlo Corchia
The new Code of Ethics: news and considerations
Patrizia Elli
Information for parents:
the journey continues with some changes
Stefania Manetti
A monumental stears at Milan Central Station
Federica Zanetto
Physical abuse: what paediatricians need to know
Carla Berardi
198 Formation at a distance (FAD)
A positive parent
Costantino Panza, Antonella Brunelli,
Stefania Manetti
205 Informing parents
Oral communications of paediatric residents
at the 2014 Tabiano conference
206 Research letters
Mental health problems in childhood
and adolescence: critical issues in practice
and in intervention methods
Roberto Sangermani
210 Mental health
Meta-analysis on PDA ligation:
are the available studies sufficient
for an appropriate clinical choice?
Manuela Condò
214 Telescope
Consanguineous marriages:
yesterday’s pros, today’s cons
Enrico Valletta
218 A window on the world
Trauma in the paediatric patient and venous
thromboembolism prophylaxis. A clinical scenario
Maddalena Marchesi
220 Scenarios
224 Info
226 Book
Reporting any benefit received by drug industry
is mandatory in USA. When in Italy?
Red
228 Community corner
The decision to vaccinate: a view from the bridge
Leonardo Speri, Lara Simeoni, Mara Brunelli,
Paola Campara, Massimo Valsecchi
229 Vaccinacipì
238 Movies
239 ACP Documents
Paediatric resident in the family paediatrician’s
office: the point of view of a Specialty Director
Alfredo Guarino, Michele Fiore, Tommaso Montini
240 The world of postgraduate
Q uaderni
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quadre e numerate seguendo l’ordine di citazione. Negli articoli della FAD la bibliografia va elencata in ordine alfabetico, senza numerazione.
Esempio 1): Corchia C, Scarpelli G. La mortalità infantile nel 1997. Quaderni acp 2000;5:10-4.
Nel caso di un numero di Autori superiore a tre, dopo il terzo va inserita la dicitura et al. Per i libri
vanno citati gli Autori secondo l’indicazione di cui sopra, il titolo, l’editore, l’anno di edizione.
Esempio 2): Bonati M, Impicciatore P, Pandolfini C. La febbre e la tosse nel bambino. Il Pensiero
Scientifico, 1998. Un singolo capitolo di un libro va citato con il nome dell’Autore del capitolo,
inserito nella citazione del testo.
Esempio 3): Tsitoura C. Child abuse and neglect. In: Lingstrom B, Spencer N. Social Pediatrics.
Oxford University Press, 2005.
Per qualsiasi ulteriore dettaglio si invita a fare riferimento a uno degli articoli già pubblicati sulla
rivista.
– Gli articoli vengono sottoposti in maniera anonima alla valutazione di due o più revisori. La
redazione trasmetterà agli autori il risultato della valutazione. In caso di non accettazione del
parere dei revisori, gli autori possono controdedurre.
È obbligatorio dichiarare l’esistenza o meno di un conflitto d’interesse. La sua eventuale esistenza non
comporta necessariamente il rifiuto alla pubblicazione dell’articolo.
Quaderni acp 2014; 21(5): 193
Sott’acqua, ma sempre assetati
Luca De Fiore
Associazione Alessandro Liberati - Network Italiano Cochrane
“Water, water every where / Nor any drop to
drink”. La strofa della Ballata del vecchio
marinaio di Samuel Taylor Coleridge è stata
ripresa nel titolo di un editoriale pubblicato sul
JAMA Internal Medicine a fine marzo 2014
[1]. L’autore, David Carnahan, commentava
una revisione sistematica uscita contemporaneamente sulla stessa rivista e che esamina la
letteratura sugli interrogativi che nascono “al
letto del malato”: in media, ogni due pazienti
visitati, il medico si fa una domanda alla quale
non sa dare risposta [2]. Solo nella metà dei
casi il clinico si cimenta nella ricerca, ma –
quando ci prova – riesce nell’intento in meno
di quattro volte su cinque. Niente di nuovo
sotto il sole, commenta lo stesso editorialista.
Si tratta, infatti, di numeri in linea con la quasi
totalità degli studi classici sull’argomento, a
partire da quelli di Covell e di Ely, ripresi nella
revisione sistematica della Davies e di
Harrison, alla quale fu dato spazio con un’intervista anche sul Bollettino di informazione
sui farmaci dell’Agenzia italiana del farmaco
[3-5].
Ripartiamo dai numeri: due terzi degli interrogativi clinici che si pone il medico durante la
pratica quotidiana restano senza risposta. La
principale barriera è la mancanza di tempo. Ma
l’andar sempre di fretta è solo apparentemente
un problema individuale: la questione riguarda
l’organizzazione nel suo complesso, soprattutto considerando che le stesse difficoltà
sono vissute dalla quasi totalità del personale
delle aziende sanitarie. La mancanza di tempo
è poi direttamente legata alla disponibilità di
una connessione veloce alla rete all’interno
delle strutture o negli ambulatori, alla mancanza di postazioni informatiche efficienti, alla
difficoltà di accedere alle risorse documentali
e alla possibilità di disporre di strumenti di
interrogazione della letteratura scientifica che
offrano risposte sintetiche e più facilmente trasferibili alla pratica clinica.
La risposta alla situazione delineata dai due
interventi pubblicati sul JAMA Internal Medicine non può che essere di sistema. Quello che
colpisce è che, mentre il singolo medico o
infermiere o farmacista sembra soffrire per l’inadeguatezza che si trova spesso a vivere nelle
proprie giornate di lavoro, una paragonabile
situazione di disagio non pare avvertita con la
stessa frequenza dal management delle aziende sanitarie o, a livello più alto, dagli assessorati regionali. Ne consegue che qualsiasi tentativo di risposta agli specifici problemi della
sanità è destinato a essere parziale, episodico,
infine transitorio, perché ignora il punto centrale: rendere il Servizio Sanitario Nazionale
una comunità di pratica capace di crescere elaborando conoscenza e proponendo/discutendo
risposte utili per affrontare le sfide che si pongono a livello sia della cura del singolo malato sia della salute della popolazione.
Senza un pensiero strategico che valorizzi le
tre componenti chiave – apprendimento, innovazione e competitività – qualsiasi spesa per la
formazione è destinata a restare un costo e non
un investimento. È il caso, tra i tanti, delle sottoscrizioni per abbonamenti e banche dati che
le Regioni, le Province autonome, gli Istituti di
Ricovero e Cura a Carattere Scientifico
(IRCCS) e molte altre istituzioni sanitarie
sostengono annualmente per un valore complessivo di alcune decine di milioni di euro:
una sanità frammentata che fonda le proprie
pratiche e le decisioni cliniche e di politica
sanitaria su saperi quantitativamente e qualitativamente disomogenei. E così accade che a
distanza di pochi chilometri (o metri) il clinico
di un IRCCS abbia accesso a oltre 5000 fonti
primarie e che un medico di medicina generale o un pediatra di libera scelta possano consultare solo quell’unica newsletter di dis-informazione gratuita che uno sponsor consente sia
loro recapitata nella casella di email: prevedibili difformità interregionali, ma ancor più
incredibili diversità tra centri universitari e
ospedalieri, tra capitale e Provincia, tra piana e
montagna. È un’iniquità mai considerata, forse
perché il valore della conoscenza è, più che
trascurato, quasi dimenticato.
L’accesso alle informazioni è la condizione per
costruire conoscenze capaci di migliorare la
qualità delle cure. In Italia il solco tracciato
dalla prima esperienza di successo, quella del
Sistema bibliotecario biomedico lombardo, è
stato seguito dalla Biblioteca medica virtuale
inaugurata dalla Provincia autonoma di Bolzano nel 2006 e dalla Biblioteca virtuale per la
salute della Regione Piemonte [6-9]. A queste
si è aggiunta la Biblioteca Alessandro Liberati
del Servizio Sanitario della Regione Lazio, con
obiettivi per diversi aspetti ancora più nuovi.
Primo, stimolare il personale sanitario a consultare prioritariamente la documentazione
gratuitamente accessibile. Ciò vale anche per i
contenuti pubblicati su periodici tradizionali
ma liberamente consultabili: dagli articoli di
ricerca pubblicati su BMJ (aperti per policy
esplicita del settimanale della British Medical
Association) ai commenti di politica sanitaria
del New England Journal of Medicine.
Secondo, suggerire la fruizione dell’insieme
dei contenuti proposti dalle principali riviste di
medicina generale e non soltanto di quanto
solitamente ospitato nel Summary del giornale: quindi, attenzione ai blog dei principali collaboratori, alle interviste video, ai set di diapositive e così via.
Terzo, osservare cautela nella consultazione
delle fonti primarie, preferendo le cosiddette
“secondary publication” (sintesi di più lavori
valutati criticamente, linee-guida che diano
sufficienti garanzie di affidabilità e indipendenza, riassunti di revisioni sistematiche prodotte da équipe di riconosciuta esperienza e
serietà e così via).
Soprattutto, però, trasformare un sito web in
una palestra, uno spazio utile alla “rieducazione” del personale sanitario alla lettura, al confronto, al dialogo. Sulle biblioteche, su quanto
siano preziose, sulla loro funzione essenziale è
stato detto e scritto moltissimo e questa, dello
scrittore Neil Gaiman, è una delle cose più
belle: “Libraries are about freedom. Freedom
to read, freedom of ideas, freedom of communication. They are about education, about
entertainment, about making safe spaces, and
about access to information”.
Ma c’è qualcosa di ancora più diretto che possiamo aggiungere: se è vero che siamo “Nati
per Leggere”, è altrettanto importante convincersi che non siamo cresciuti per smettere di
farlo. u
Bibliografia
[1] Carnahan D. Water, water, everywhere, and not a drop
to drink. JAMA Intern Med 2014;174(5):719-20. doi:
10.1001/jamainternmed.2014.1.
[2] Del Fiol G, Workman T, Gorman PN. Clinical questions raised by clinicians at the point of care: a systematic review. JAMA Intern Med 2014;174(5):710-8. doi:
10.1001/jamainternmed.2014.368.
[3] Covell DG, Uman GC, Manning PR. Information
needs in office practice: are they being met? Ann Intern
Med 1985;103(4):596-9.
[4] Ely JW, Osheroff JA, Ebell MH, et al. Analysis of
questions asked by family doctors regarding patient
care. BMJ 1999;319(7206):358-61.
[5] Davies K, Harrison J. The information-seeking behaviour of doctors: a review of the evidence. Health Info
Libr J 2007;24(2):78-94.
[6] www.sbbl.it/.
[7] Rabensteiner V, Hofer B, Meier H, De Fiore L. Web,
workshops, e-learning for Quality improvement. An Evidence-based Medicine educational programme. Recenti
Prog Med 2007;98(3):169-74.
[8] www.bvspiemonte.it/.
[9] www.bmv.bz.it.
Per corrispondenza:
Luca De Fiore
e-mail: [email protected]
193
4Quaderni acp 2014; 21(5): 194
Stili di vita e tutela della salute:
anche il Comitato Nazionale di Bioetica
ne parla. E i pediatri che fanno?
Carlo Corchia
International Centre on Birth Defects and Prematurity, Roma
Il 20 marzo scorso è stato reso noto il
documento/parere Stili di vita e tutela della salute del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) [http://www.governo.it/ bioetica/pdf/Stili_di_vita_20032014.pdf].
Il documento intende sottolineare, in particolare, il fatto che “il mantenimento di
un efficiente servizio sanitario rivolto al
maggior numero possibile di utenti è
interesse di tutti i cittadini, ma esige
anche l’impegno personale a contribuire,
per quanto possibile, al mantenimento
della propria salute”.
Il principio etico fondamentale richiamato dal CNB è che «sebbene lo Stato non
debba imporre paradigmi di salute a persone che hanno differenti concezioni del
bene salute, rientra nei suoi compiti…
sollecitarli a prendere coscienza che il
diritto alla salute non può prescindere dal
dovere di solidarietà sociale previsto
dalla nostra Costituzione… e che il diritto alla (tutela della) salute viene riconosciuto sia come “diritto fondamentale
dell’individuo” sia come “interesse della
collettività”». Affermato il principio, il
CNB tende, comunque, a precisare che
«un programma di prevenzione primaria
non può essere discriminatorio nei confronti di chi non vi aderisce o di chi pratica “cattive abitudini” di vita. Anzi, la
società dovrebbe rivolgersi proprio a
queste persone a rischio di malattie,
sostenendo e pubblicizzando servizi di
assistenza, per aiutarle a ripristinare stili
di vita più adatti a mantenere un buono
stato di salute».
In che modo muoversi?
1. intervenendo sui produttori di alcol,
tabacco e cibi ad alto valore energetico attraverso una moral suasion o l’adozione di specifiche strategie fiscali;
2. promuovendo un patto pubblico-privato in cui si realizzino gradualmente
i necessari cambiamenti;
3. rendendo determinati comportamenti
appetibili attraverso una strategia che
modifichi il contesto (p.e. informativo) in cui gli individui adottano le
proprie scelte; il riferimento va alle
strategie c.d. di nudging, in cui l’adoPer corrispondenza:
Carlo Corchia
e-mail: [email protected]
194
zione individuale di comportamenti
virtuosi viene incentivata modulando i
caratteri del contesto decisionale;
4. imponendo per legge stili di vita ritenuti adeguati alla salute.
Si accenna poi anche alle attività degli
Ordini dei medici, alla responsabilità dei
media, ai conflitti d’interesse dello Stato,
che da una parte incassa tasse e dall’altra
paga per i danni indotti dai prodotti tassati (vd. fumo e alcol), e si prospetta
anche la possibilità di prendere in considerazione la compensazione dei danni
economici subiti dal Sistema Sanitario
Nazionale (SSN) con gli arricchimenti
ottenuti dalle imprese commerciali.
Nel testo del CNB, oltre alla straordinaria forza di questi messaggi, quasi inconsueti nel contesto italiano, sono tuttavia
ravvisabili alcuni punti di debolezza.
Oltre alla scontata genericità tipica di
questo di tipo di documenti, due aspetti
vanno specificamente ricordati: il primo
riguarda l’assenza di ogni riferimento
all’importanza dei periodi preconcezionale e prenatale, soprattutto il primo, per
la prevenzione primaria degli esiti avversi della riproduzione e per la promozione
della salute nell’infanzia, nell’età adulta
e nelle generazioni future. Ci si limita,
infatti, a ricordare l’importanza delle
prime fasi della vita del bambino per
l’acquisizione di comportamenti corretti,
soprattutto di tipo alimentare e nutrizionale, solo con un breve accenno alle
malattie di origine prenatale. Il secondo
aspetto concerne quello che sembra essere un richiamo alla necessità della prevenzione motivata su base prevalentemente economica. Si afferma infatti che
“poiché le risorse del SSN non sono infinite, ma tendono a diventare insufficienti a causa delle sempre maggiori richieste
di salute sul piano quantitativo e qualitativo, ne risulta che la sostenibilità del
SSN dipende e dipenderà da un forte
impegno nel promuovere il più possibile
la prevenzione primaria al fine di ridurre
il numero, l’incidenza e la gravità delle
malattie”. Qui mi pare non venga fatta la
giusta distinzione tra “richiesta di salute”
e “richiesta di prestazioni sanitarie” e
sembra quasi di intravedere una giustificazione alla necessità della prevenzione
primaria solo in base a un principio economico, lasciando sottintendere che, laddove le risorse ci fossero, la prevenzione
si renderebbe meno necessaria; con ciò
contravvenendo al principio etico che le
risorse non debbono “comunque” essere
sperperate e che la promozione della
salute è “comunque” un obbligo sancito
dalla Carta Costituzionale. Si tratta di un
obbligo che fa riferimento proprio al
principio etico della responsabilità collettiva, che rappresenta appunto l’aspetto
più rilevante di questo documento del
CNB, applicabile per estensione anche
alla salute riproduttiva e preconcezionale.
Purtroppo non sembra che i pediatri,
anche quelli ACP, siano particolarmente
interessati alla prevenzione primaria
degli esiti avversi della riproduzione,
nonostante il loro dichiarato interesse per
la salute dei bambini e la funzione di
advocacy in favore dell’infanzia tante
volte richiamata. Come se per questi
aspetti il piano dell’impegno professionale avesse difficoltà a incontrare quello
dei princìpi.
Anche il pediatra deve farsi promotore
della salute riproduttiva e preconcezionale nel suo agire quotidiano, perché il suo
ambulatorio è frequentato da donne/coppie che potrebbero iniziare una
nuova gravidanza in almeno la metà dei
casi e perché non c’è alcuna donna/coppia
che non presenti nella sua storia almeno
un fattore di rischio per esiti avversi della
riproduzione. Questo impegno dev’essere
visto come inerente all’usuale ruolo professionale del pediatra e non come una
sua estensione. Le competenze professionali vanno acquisite durante il normale
curriculum di studi e mantenute in seguito con programmi di formazione adeguati. Ma soprattutto è necessario che si sviluppi un’attitudine culturale in questa
direzione, come già i pediatri ACP hanno
dimostrato di saper fare per tanti altri
importanti aspetti riguardanti la salute e il
benessere dei bambini. u
Quaderni acp 2014; 21(5): 195
Il nuovo Codice deontologico:
novità e riflessioni
Patrizia Elli
Pediatra di famiglia, Buccinasco (Milano)
Il 18 maggio 2014 il Consiglio Nazionale
della Federazione Nazionale degli Ordini
dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri
(FNOMCEO) ha approvato a Torino il
nuovo Codice deontologico. L’ultima
versione risale al 2006 e il “Codice Torino”, come è stato ribattezzato, si è reso
necessario per il continuo e rapido evolversi della pratica medica.
Alcune novità riguardano aspetti che
spesso vengono ritenuti marginali se non
addirittura dimenticati: la comunicazione
medico-paziente, la comunicazione e il
consenso del minore, la terapia del dolore e le cure palliative.
Il primo è enunciato nell’art. 20 (relazione di cura): “[…] il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo
rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa
considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura”. Viene qui
ripreso l’articolo 5 della Carta di Firenze,
dove si sottolinea che una comunicazione professionale è parte integrante della
cura e, come tale, il tempo dedicato a essa ha la stessa valenza di quello dedicato
alla visita del paziente [1]. Se la comunicazione è tempo di cura ne consegue che
deve far parte del bagaglio professionale
e del curriculum formativo del medico.
Troviamo esplicito accenno al secondo
aspetto – l’attenzione alla comunicazione e al consenso del minore – in tre articoli: nell’art. 33 (informazione e comunicazione con la persona assistita), “[…]
il medico garantisce al minore elementi
di informazione utili perché comprenda
la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico-terapeutici programmati,
al fine di coinvolgerlo nel processo decisionale”; nell’art. 35 (consenso e dissenso informato), “[…] il medico tiene in
adeguata considerazione le opinioni
espresse dal minore in tutti i processi
decisionali che lo riguardano”; nell’art.
38 (sperimentazione umana), “[…] il
medico documenta la volontà del minore
e ne tiene conto”. Come pediatri non possiamo che rallegrarci di questo ripetuto
richiamo nel Codice deontologico a un
aspetto spesso dimenticato: la ricerca dell’alleanza terapeutica del minore. Perché
tuttavia non rimanga lettera morta occorre anche qui aggiungere elementi di conoscenza, collaborando con altre figure professionali dell’ambito giuridico e psicologico. A questo proposito si veda anche
l’articolo del magistrato Augusta Tognoni
già pubblicato su Quaderni acp che
affronta con molta chiarezza gli aspetti
giuridici e attuativi pratici del consenso
del minore [2].
La novità del terzo aspetto, la terapia del
dolore e le cure palliative, è nella terminologia usata: nel nuovo Codice “il sollievo dalla sofferenza” viene sostituito da
“la terapia del dolore”. Questa nuova terminologia non è formale ma sottende un
concetto importante: il dolore deve poter
essere misurato e curato non a discrezione del medico bensì sulla base delle conoscenze e dei protocolli che permettono
di quantificarlo e trattarlo in modo efficace. In questo si inserisce il Progetto
“Niente Male Junior” del Ministero per
una formazione a cascata di tutti i pediatri
del Sistema Sanitario Nazionale (SSN),
l’approvazione da parte del Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) di un master di secondo
livello di “terapia del dolore e cure palliative”, sempre per pediatri, e la nuova legislazione per le cure palliative pediatriche
[3]. Il trattamento del dolore è un dovere
del medico (art. 3) e “[…] il controllo
efficace del dolore si configura in ogni
condizione clinica come intervento appropriato e proporzionato” (art. 16). Infine, “il medico in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del
paziente prosegue nella terapia del dolore e delle cure palliative […]” (art. 3). Al
dolore e alla terapia del dolore Quaderni
acp ha dedicato numerosi articoli [4].
Infine, quattro sono gli articoli inediti
inclusi (quello su medicina potenziativa
ed estetica, quello sulla medicina militare, sull’informatizzazione in sanità e sul
medico nell’organizzazione sanitaria).
Non entriamo nel merito dei singoli arti-
coli citati, per la cui lettura si rimanda al
documento scaricabile dal sito della
FNOMCEO (www.fnomceo.it); tuttavia
è utile riflettere sul significato di quanto
enunciato nell’art. 79 (innovazione e organizzazione sanitaria): “il medico partecipa e collabora con l’organizzazione
sanitaria... opponendosi a ogni condizionamento che lo distolga dai fini primari
della medicina”. Qui trova spazio il
legame “necessario” tra etica ed economia per cui il medico, pur collaborando
al contenimento dei costi e alla razionalizzazione della erogazione delle prestazioni, deve principalmente garantire ai
pazienti un’assistenza caratterizzata da
professionalità, appropriatezza clinica e
indipendenza di giudizio.
Un concetto analogo è espresso nell’art.
70 (qualità ed equità delle prestazioni):
“[…] il medico deve esigere da parte
della struttura in cui opera ogni garanzia affinché le modalità del suo impegno
e i requisiti degli ambienti di lavoro non
incidano negativamente sulla qualità e
la sicurezza del suo lavoro […]”. Entrambi gli articoli restituiscono o, meglio, sottolineano il ruolo del medico
come unico responsabile e detentore
delle caratteristiche che deve avere il suo
rapporto con il paziente in termini di professionalità e tempo, senza dimenticare il
ruolo che ricopre all’interno del sistema
e dell’organizzazione sanitaria.
L’approvazione del nuovo Codice deontologico può e deve essere occasione per
una sua attenta lettura che sarà fonte di
riflessione sugli aspetti etici, umani, filosofici, scientifici della professione medica, inscindibili da tutta la sfera comportamentale del professionista. u
Bibliografia
[1] Gangemi M. La “Carta di Firenze” è un impegno dell’ACP. Quaderni acp 2005;12(5):185.
[2] Tognoni A. Il consenso informato del minore.
Aspetti generali e pratici. Quaderni acp 2013;
20(2):84-7.
[3] Benini F, Gangemi M. Il dolore del bambino:
dove siamo. Quaderni acp 2014;21(2):49.
[4] Benini F. Il dolore nel bambino. Il gruppo terapeutico con i genitori, esperienza di sostegno alla
genitorialità. Quaderni acp 2010;17(2):70-3.
Per corrispondenza:
Patrizia Elli
e-mail: [email protected]
195
Quaderni acp 2014; 21(5): 196
Informazioni per genitori: il percorso
continua con qualche cambiamento
Stefania Manetti
Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (Napoli)
Quaderni acp è un bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili
didattici dell’ACP.
Da sempre, nella nostra rivista, abbiamo
avuto una rubrica rivolta ai genitori, con
l’intento di rispondere, in maniera chiara
ma scientificamente supportata, a problematiche diverse e di dare ai pediatri delle
cure primarie l’opportunità di poter condividere del materiale informativo con i
genitori dei propri pazienti.
Per tante ragioni scrivere per i genitori
non è semplice, anche se come pediatri
siamo abituati a comunicare con le famiglie, chi con maggiore e specifiche competenze, chi con l’esperienza derivante
dalla pratica. Tuttavia risulta spesso difficile tradurre concetti, a volte anche
complessi, in una terminologia semplice
ed efficace e scrivere in modo da poter
dare informazioni comprensibili a tutti i
genitori, di qualsiasi livello culturale e di
istruzione.
Come redazione ci siamo chiesti se questa rubrica di informazioni per genitori
servisse. Spesso abbiamo considerato l’idea di verificare che uso ne facciano i
pediatri lettori di Quaderni acp.
Quello “dietro alle quinte” per la rubrica
di informazioni per genitori è un lavoro
di ricerca di articoli scientifici sui vari
argomenti trattati; persino la scelta degli
argomenti è sempre basata su studi nell’ambito delle cure primarie comparsi su
riviste internazionali (JAMA pediatrics,
The Lancet, BMJ, Archives ecc.); essa
deriva anche dalla consultazione di alcuni siti di associazioni pediatriche come
l’American Academy of Pediatrics
(AAP) o di ospedali (cincinnatichildren.org) che hanno delle sezioni a supporto dei genitori.
La decisione di selezionare alcuni argomenti rispetto ad altri è stata basata, per
il passato, su tematiche che erano in quel
momento discusse a livello internazionale o che avevano suscitato l’interesse
dei media, o su linee guida di recente
aggiornamento riguardo a problemi
importanti.
Per corrispondenza:
Stefania Manetti
e-mail: [email protected]
196
Negli ultimi anni la letteratura scientifica
si è molto soffermata sul trasferimento di
informazioni sostenute da evidenze
scientifiche verso i luoghi di cura in condivisione con i pediatri, i pazienti e le
famiglie.
Lo Shared Decision Making (SDM, Condivisione nelle decisioni) è un processo
che coinvolge gli operatori sanitari nella
comunicazione di opzioni terapeutiche e
diagnostiche con i genitori e i pazienti,
tenendo conto dei valori personali degli
stessi in modo da optare per la migliore
strategia per il paziente stesso.Tale procedura diventa particolarmente critica
quando le decisioni da prendere hanno
alla base opzioni ragionevoli da un punto
di vista medico e che invece differiscono
tra di loro in maniera significativa per la
famiglia e/o il paziente.
L’utilizzo di “ausili per la decisione” è
una delle strategie disponibili per implementare la condivisione nelle decisioni.
Gli ausili sono strumenti che aiutano le
persone a lasciarsi coinvolgere nelle
decisioni da prendere, dando informazioni sulle opzioni disponibili e sugli esiti, e
cercando di fare chiarezza sui valori personali. Non rimpiazzano la comunicazione efficace da parte dell’operatore sanitario ma la completano avendo in comune
lo stesso obiettivo, ossia di trasmettere
un percorso di cura di alta qualità basato
su evidenze scientifiche e centrato sulle
famiglie.
Sullo SDM in pediatria c’è, a oggi, poca
letteratura scientifica ed è in corso una
review sistematica per l’applicazione di
un protocollo su tale processo collaborativo. Negli ultimi anni inoltre molte ricerche hanno messo in evidenza e dimostrato l’importanza di come una modalità
comunicativa corretta con le famiglie sia
alla base di un percorso di diagnosi e
cura efficace. A partire dal considerare la
health literacy del paziente (che in pediatria comprende sempre non solo il bambino ma spesso come “decision maker”
anche il o i genitori) come un elemento
estremamente importante nel trasferi-
mento non solo di informazioni ma anche nel processo di cura, specie nei confronti di bambini con bisogni speciali o
malattie croniche. La health literacy è la
capacità di una persona di ottenere, comprendere e utilizzare informazioni basilari sui servizi sanitari in modo da poter
poi prendere decisioni appropriate. I livelli di health literacy delle persone sono
importanti mediatori nella relazione tra
diseguaglianze di salute e diseguaglianze socio-economiche. Gli adulti con bassi livelli di health literacy ricorrono più
frequentemente alla ospedalizzazione, ai
servizi di emergenza, e non riescono
a gestire bene le malattie croniche. Poco
si conosce sui rapporti tra health literacy
dei genitori o dei bambini e lo stato di
salute. Molte informazioni sanitarie destinate ai genitori e riguardanti la salute
dei loro bambini sono troppo complesse
per il livello di comprensione della popolazione media, e questo può generare un
inappropriato uso dei servizi e un dosaggio sbagliato dei farmaci, con rischi
anche di sovradosaggio. La scarsa health
literacy è definita da alcuni una silente
epidemia capace di influenzare lo stato di
salute dell’individuo e della popolazione.
Rimandiamo a Quaderni acp 2009;16:
151-5 per ulteriori approfondimenti.
In conclusione, i lettori avranno notato
come negli ultimi numeri della rivista la
rubrica di informazioni per i genitori sia
entrata in “sintonia” con la FAD con l’intento, presente già in diverse riviste (e
citiamo una per tutte JAMA, sia nella
versione medica che pediatrica con gli
storici Advices for patients), di fornire ai
pediatri una modalità comunicativa complementare e chiaramente non sostitutiva
alla comunicazione “faccia a faccia” con
il bambino e il genitore.
Anche questo cambiamento, come tutti
quelli che vengono realizzati per Quaderni acp, è stato discusso e approvato
dalla redazione con l’obiettivo di dare ai
lettori un ausilio in più per la pratica clinica quotidiana. Speriamo sia di vostro
gradimento. u
Quaderni acp 2014; 21(5): 197
Lo scalone monumentale
della Stazione Centrale di Milano
Federica Zanetto
Pediatra di famiglia, ASL Monza Brianza
Pubblicato su Ricerca&Pratica
2014;30:147-8
“Nella stazione di Milano profughi della
classe media in attesa dell’ultimo treno.
Gli esperti: fenomeno nuovo, arrivano i
siriani colti”. Così titolava a grandi
caratteri il reportage di N. Zancan su La
Stampa del 22 maggio u.s. in cui si citava anche l’osservazione di V. Polizzi di
“Save the Children”: “È una migrazione
del tutto nuova. Qualcosa che non avevamo mai visto. Arrivano persone che
conoscono l’inglese, colte, di classi
sociali medio-alte. Per prima cosa, chiedono di potersi lavare. Sono tutte molto
informate. Sono sempre grate, rispettose.
Non ho mai assistito al minimo episodio
di violenza”.
Nonostante la crisi in Siria sia iniziata
nel marzo del 2011, è soltanto nel 2013
che i siriani incominciano ad arrivare
numerosi in Italia via mare, a bordo di
imbarcazioni fatiscenti, dopo un lungo e
costoso viaggio attraverso diversi Paesi,
in buona parte in mano ai trafficanti. La
Siria è il secondo principale Paese di provenienza dei migranti, preceduta solo
dall’Eritrea. Ma è il primo Paese di origine se si considerano soltanto i minori
in nucleo familiare: 1542 (su 2124) bambine e bambini arrivati in Italia via mare
sono siriani, tratti in salvo dalla guerra da
uno o entrambi i genitori.
Gli arrivi via mare sono ripresi in modo
consistente a partire dal mese di aprile
2014, con un progressivo aumento del
numero di minori, fenomeno che rappresenta uno degli aspetti più allarmanti di
questa nuova ondata di arrivi. I siriani,
così come eritrei, somali e afgani, non
vogliono restare in Italia, ma intendono
proseguire il loro viaggio verso Paesi del
Nord Europa (in particolare Svezia,
Norvegia, Germania e Svizzera) dove
vivono altri loro familiari o amici, che
hanno trovato condizioni di accoglienza
e integrazione dignitose. Nella maggior
parte dei casi dalla Sicilia raggiungono in
treno Milano, dove vengono temporaneamente accolti nelle strutture messe a loro
disposizione dall’amministrazione comunale, e da lì proseguono in treno o con i
passeur il loro viaggio verso Nord [1].
A distanza di tante settimane, lo scalone
monumentale della Stazione Centrale di
Milano continua dunque a rappresentare
l’ultima fermata italiana dei profughi
siriani in fuga dalla guerra: tra il continuo, frenetico via vai di viaggiatori e
turisti in transito, in una condizione logistica di assoluta precarietà, il lavoro
incessante degli operatori di “Save the
Children” e dei volontari del Comune di
Milano e la presenza preziosa e indispensabile dei mediatori linguistico-culturali
cercano di sopperire alla persistente
assenza di basilari strutture di prima
accoglienza.
I nuclei familiari sono numerosi, con
bambini anche molto piccoli. Magri,
malnutriti, molti di loro, compresi i piccolissimi, hanno scottature solari ed esiti
molto evidenti su volto e parti esposte. I
bimbi di pochi mesi di età sono quelli più
da osservare e più provati.
Non hanno passeggini e dormono solo
saltuariamente in braccio da molti giorni.
Uno si tranquillizza adagiato su un traballante fasciatoio di… terza o quarta
mano (ma meno male che c’è!). Poco più
in là, catturato da bolle di sapone, palloncini e matite colorate, un nugolo di
bambini più grandicelli si raccoglie (sul
pavimento) attorno alle educatrici. Una
piccola, unica, bella nota di spontanea
giocosità.
Nel sacco del pediatra, accanto al paracetamolo, ai sali reidratanti, alla crema
antibiotica, alla crema cortisonica, a
quella disinfettante e a qualche garza, il
ricettario bianco si assottiglia rapidamente: sono tutti partiti con quasi nulla
appresso e c’è chi non riesce, anche gli
adulti, a completare terapie già in corso.
I genitori appaiono molto rassicurati
quando capiscono che possono avere la
ricetta per poter poi andare nella farma-
cia della stazione (quasi tutti vanno ad
acquistarsi quanto occorre).
Dal sacco del pediatra emerge via via
anche la consapevolezza di una emergenza che non ha fine, che ci riguarda tutti e
che obbliga a porci delle domande, al
bisogno di capire, prima di giudicare.
Chi si trova in situazioni di difficoltà e in
una migrazione causata da sofferenze e
drammi spesso inaccettabili può viverne
i momenti più faticosi in maniera positiva e come risorsa solo con dignitose
condizioni di ospitalità e con l’offerta di
servizi essenziali accoglienti. Non sta
succedendo nel mezzanino dello scalone
monumentale della Stazione Centrale, area che continua a essere abusiva anche
per operatori e volontari, oltretutto resa
in parte inagibile dalla presenza di deiezioni e rifiuti di vario genere, anche di
vecchia data.
Le persone e le famiglie straniere che lì
sono costrette ad accamparsi, pur momentaneamente e di passaggio, interpellano assetti consolidati e responsabilità a
ogni livello. Rammentano a noi professionisti che operiamo nei servizi e nell’ambito della cura (medici, pediatri,
ostetriche, assistenti sociali, psicologi,
educatori) che possiamo essere potenti
tutori di resilienza. Sollecitano tutti alla
“scelta di intelligenza profetica” e al
“salto di qualità nella convivenza civile”
auspicati da C.M. Martini: “nel campo
dei diritti umani valgono non soltanto le
parole o le affermazioni solenni, ma pure
le realizzazioni progressive nelle quali,
pur misurando la distanza dalla meta, si
vede come concretamente ci si sta avvicinando a un ideale di maggiore giustizia
sociale e fraternità” [2]. u
Bibliografia
[1] Rapporto di Save the Children. L’ultima spiaggia. Dalla Siria all’Europa, in fuga dalla guerra.
http://images.savethechildren.it/IT/f/img_pubblicazioni/img239_b.pdf.
[2] Martini CM. Non temiamo la storia. Piemme Editore, 1992.
Per corrispondenza:
Federica Zanetto
e-mail: [email protected]
197
Quaderni acp 2014; 21(5): 198-204
Il maltrattamento fisico:
quali conoscenze per il pediatra
Carla Berardi
Pediatra di famiglia, Perugia
Lo scarso contributo dei pediatri alla
individuazione dei casi di maltrattamento deriva in buona parte dalla scarsa diffusione delle conoscenze relative alla
semeiotica delle lesioni esito di abuso e
dalle difficoltà di diagnosi differenziale
con le lesioni accidentali. Pertanto l’articolo si propone di analizzare i segni e i
sintomi specifici o compatibili con il
maltrattamento fisico e i criteri diagnostici utili per sospettare/identificare i casi
di abuso nell’esercizio della pratica professionale, con l’obiettivo di migliorare
la capacità di:
– identificare gli indicatori anamnestici
del maltrattamento;
– riconoscere le caratteristiche di lividi,
ustioni e fratture che fanno sospettare
il maltrattamento;
– identificare i segni classici di trauma
cranico da abuso (già Shaken Baby
Syndrome).
Non vengono date indicazioni su:
– diagnosi (confermare o escludere il
maltrattamento) in quanto non di competenza del pediatra, che comunque è
tenuto a collaborare al percorso diagnostico territorialmente ritenuto corretto;
– segnalazione, in ogni caso doverosa,
oltre che obbligo di legge in caso di
sospetto;
– prevenzione, comunque di competenza del pediatra, specialmente del
pediatra di libera scelta che è in una
posizione chiave per individuare i fattori di rischio e offrire supporto alle
famiglie in difficoltà così da rinforzare la protezione del bambino.
Definizione del maltrattamento
sui minori
Per maltrattamento sui bambini e gli adolescenti s’intendono “tutte le forme di
abuso fisico e/o psico-emozionale, abuso
sessuale, trascuratezza o negligenza o
sfruttamento commerciale o altro che
comportano un danno reale o potenziale
per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza, per il suo sviluppo o per la
sua dignità nell’ambito di una relazione
caratterizzata da responsabilità, fiducia o
potere” (WHO, 2002).
Dati epidemiologici
È noto che, sebbene l’abuso all’infanzia
rappresenti uno dei maggiori problemi di
sanità pubblica nei Paesi ad alto tenore di
vita (WHO, 2006) per l’impatto sul
benessere fisico, mentale e sociale delle
vittime, e sulla società di cui fanno parte,
la sua incidenza e prevalenza rimangono
sottostimate. Una review di The Lancet
sulla prevalenza del maltrattamento
infantile in alcuni Paesi ad alto tenore di
vita evidenzia che i casi di maltrattamento accertato riferiti ogni anno alle agenzie di protezione dell’infanzia riguardano dall’1,5 al 5% dei bambini nella
popolazione generale; gli studi di popolazione condotti con la metodologia del
“self-report retrospettivo” (questionari
somministrati ad adolescenti o giovani
adulti a cui veniva chiesto di riferire
eventuali episodi di violenza subiti
durante la propria infanzia) indicano che
ogni anno circa il 4-16% dei bambini
subisce abuso fisico. Dagli stessi studi
emerge che almeno per un periodo nel
corso dell’infanzia (prevalenza cumulativa), il 5-35% subisce abuso fisico, il
4-l9% abuso psico-emozionale, il 6-12%
è trascurato, l’8-25% è esposto a violenza assistita e infine che il 15-30% delle
femmine e il 5-15% dei maschi sono
state vittime di varie forme di abuso sessuale. Uno studio recente, che valuta la
prevalenza cumulativa dei casi di abuso
accertati, indica che al 2011 negli Stati
Uniti il 12,5% dei minori è stato abusato
nel corso dell’infanzia. Nonostante l’incertezza dei dati, questo sottolinea la sottostima da parte delle statistiche ufficiali.
Dati provenienti dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS), relativi al
maltrattamento dei bambini nella Regione europea, confermano l’estensione del
fenomeno, indicando una prevalenza per
abuso fisico del 22,9%, abuso psicoemozionale del 29,1%, abuso sessuale
del 9,6%, e per trascuratezza del 16,318,4%. Nella Regione europea almeno
850 bambini sotto i 15 anni muoiono
ogni anno a causa di maltrattamenti. In
Italia non esiste ancora un sistema informativo nazionale in grado di fornire dati
epidemiologici aggiornati sul maltrattamento nonostante le raccomandazioni
ONU e OMS. Le stesse statistiche ufficiali sul fenomeno sono estremamente
carenti e le uniche raccolte di dati sono di
fonte giudiziaria, organizzate a fini interni dalle istituzioni giuridiche e quindi
scarsamente utili dal punto di vista epidemiologico. La prima indagine nazionale quali-quantitativa condotta su un campione di 31 Comuni a cura di Terre des
Hommes e CISMAI (settembre 2013)
registra una prevalenza di casi noti ai servizi pari a 0,98% mentre studi di popolazione condotti su un campione di studenti delle scuole superiori con la tecnica del
self-report retrospettivo indicano che il
3% ha subìto nell’infanzia abuso fisico,
l’11% abuso emozionale e l’8% (maschi)
e il 20% (femmine) abuso sessuale.
Questi dati ci dicono che nella pratica
professionale del pediatra la probabilità
di doversi confrontare con il maltrattamento è alta, superiore a quella di altre
patologie rispetto alle quali c’è evidentemente maggiore consapevolezza e
migliore formazione (da Nelson 2013:
sindrome di Down 0,1%, diabete tipo 1
0,2%, cardiopatie congenite 0,8%, tumori 0,016%, autismo 0,2%).
Il maltrattamento fisico
Per maltrattamento fisico s’intende il
ricorso sistematico alla violenza fisica
come aggressioni, punizioni corporali o
gravi attentati all’integrità fisica, alla vita
del bambino/adolescente e alla sua dignità. “Questo include il colpire, percuotere, prendere a calci, scuotere, mordere,
strangolare, scottare, bruciare, avvelenare, soffocare. Gran parte della violenza a danno di minori dentro le mura
domestiche viene inflitta con lo scopo di
punire” (WHO, 2006).
Per corrispondenza:
Carla Berardi
e-mail: [email protected]
a distanza
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formazione a distanza
L’abuso fisico è un fenomeno frequente;
pertanto c’è un’alta probabilità che il
pediatra incontri bambini vittime di maltrattamento nella pratica professionale,
ma nonostante ciò la maggior parte delle
lesioni da abuso fisico rischia di non
essere riconosciuta. Lesioni di modesta
entità che non richiedono l’intervento
medico possono essere tenute nascoste. I
bambini abusati possono presentarsi
nella pratica clinica in vari modi: la
lesione può essere il motivo della consultazione o può essere riscontrata in occasione di una visita per altri motivi; dunque è necessario essere attenti a sospettare il maltrattamento ogni volta che ci si
trovi a valutare un bambino con lesioni
traumatiche. Dai dati della letteratura
emerge che i bambini più piccoli (< 3
anni) hanno la più alta probabilità di
essere maltrattati, con la più alta percentuale al di sotto di un anno; ma tutte le
età, inclusi gli adolescenti, sono a
rischio. Le aggressioni esitano in lesioni
che possono essere a carico di diversi
organi e apparati configurando quadri
clinici diversi (lesioni cutanee, fratture,
trauma cranico ossia Shaken Baby
Syndrome, danni viscerali) e pongono
complesse questioni di diagnostica differenziale. La diagnosi differenziale, come
per le altre patologie, si basa su: anamnesi (valutare se la dinamica riferita è
compatibile con lo sviluppo psicomotorio del bambino e con la lesione), esame
fisico (valutare la condizione generale
del bambino e le caratteristiche delle
lesioni per accertare se siano specifiche o
compatibili con maltrattamento), eventuali esami diagnostici o consulenza da
parte di esperti. Decidere se una lesione
è causata da abuso non è facile, ed è corredata da crescenti aspettative da parte di
forze dell’ordine, avvocati e opinione
pubblica su una certezza basata su
“prove sicure”. È necessario essere formati adeguatamente e in tutti i casi dubbi
è raccomandabile un confronto con
pediatri esperti nella materia (American
Academy of Pediatrics, 2013).
Anamnesi
Per la diagnosi differenziale tra lesione
accidentale o da maltrattamento è indispensabile raccogliere un’anamnesi
mirata sulla dinamica che ha causato la
lesione, sulle condizioni mediche del
bambino (dal momento in cui si è verifi-
Quaderni acp 2014; 21(5)
cato il trauma fino al momento in cui si
presenta all’osservazione/cure mediche),
sulla situazione socio-familiare (che può
rilevare la presenza di eventuali fattori di
rischio). Lesioni da maltrattamento vengono tipicamente giustificate dall’abusante (e in genere anche dal bambino vittima) come accidentali, per cui è essenziale essere critici rispetto alle informazioni fornite, e ottenere una storia dettagliata su come la lesione si è verificata
(come, quando e dove, se qualcuno era
presente).
L’anamnesi va condotta in modo non
accusatorio, ponendo domande aperte,
lasciando raccontare liberamente l’accaduto al genitore, ma ottenendo dettagli
sulle caratteristiche fisiche del luogo
dove è avvenuto il trauma, sulle circostanze che lo hanno preceduto, sul modo
specifico nel quale è accaduto, sulle condizioni del bambino e sulle cure prestategli dal momento in cui si è verificato il
trauma fino a quello in cui si è presentato all’osservazione medica. Alcuni elementi anamnestici possono far sorgere il
sospetto di abuso fisico (tabella 1). È
anche importante porre attenzione al
comportamento sia del bambino che dei
genitori. Alcuni atteggiamenti possono
essere utili indicatori per sospettare l’abuso (tabella 2).
È necessario raccogliere una completa anamnesi medica, soprattutto indagando
su patologie che possono fornire una
spiegazione medica della lesione. Per esempio, in un bambino che presenti lividi multipli, sarà necessario indagare precedenti eventuali episodi di sanguinamento, o facilità a presentare lividi, o
eventuale uso di farmaci, nel sospetto di
una coagulopatia.
Anche una completa anamnesi psicosociale ha grande importanza, perché fornisce informazioni sulla famiglia che possono rivelare la presenza di fattori di
rischio per abuso (tabella 3). È fondamentale però ricordare che la presenza o
assenza di fattori di rischio sono utili per
aiutare a formulare il sospetto di abuso,
ma non devono essere considerate di per
sé sufficienti a formulare il sospetto.
Esame fisico
Nel sospetto di abuso è essenziale valutare lo sviluppo fisico del bambino: peso,
statura, circonferenza cranica (nei lattanti) e condizioni generali (abiti e igiene),
per determinare se il bambino è in buona
salute e ha ricevuto cure adeguate, e il
suo sviluppo psicomotorio, per determinare se la causa accidentale delle lesioni
è compatibile con l’autonomia raggiunta.
L’esame obiettivo deve cominciare con
un esame completo della pelle, dalla
testa ai piedi, per accertare se ci siano
lesioni specifiche o compatibili con maltrattamento. Vanno esaminati: collo, testa, bocca, estremità, inclusi mani e piedi, genitali, ano, natiche, torace e schiena, e in particolare le sedi più nascoste di
lesioni inflitte, quali le orecchie, specie
la superficie posteriore, l’angolo della
mandibola, il collo, il cuoio capelluto, il
frenulo linguale e vestibolare. Vanno
attentamente valutati ogni livido, abrasione, ustione e ogni altra lesione.
Lesioni della cute
Le lesioni della cute, soprattutto di modesta entità, sono estremamente comuni
nei bambini e per la maggior parte sono
dovute a incidenti. L’aspetto di una lesione è raramente patognomonico per abuso
o incidente, per cui per la diagnosi differenziale è essenziale conoscere bene la
semeiotica fisica e valutare attentamente
la relazione tra dinamica causale e lesione. Va anche considerato che in uno stesso bambino possono coesistere lesioni
accidentali e inflitte, e che possono capitare incidenti inusuali, causa di lesioni
con aspetto non comune per cause accidentali, ma è necessario fare attenzione a
non accettare spiegazioni inverosimili
pur di non considerare la possibilità di
maltrattamento.
I lividi
I lividi sono le lesioni più comuni nell’abuso fisico, ma sono anche comunemente provocate dal gioco e dalle normali
attività. Per la diagnosi differenziale è
fondamentale valutare attentamente ogni
lesione (sede, forma, gravità), considerare se la causa accidentale è possibile secondo il livello di sviluppo neuromotorio
del bambino, se la dinamica riferita è
plausibile e se il bambino ha ricevuto cure adeguate. Tre fattori possono aiutare a
distinguere i lividi da causa accidentale
da quelli da abuso: l’età e lo sviluppo
neuromotorio del bambino, l’aspetto del
livido e la sede della lesione.
Età. I bambini piccoli, che non camminano o che non hanno un’autonomia mo199
F
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formazione a distanza
toria, non dovrebbero presentare lesioni
per le quali i genitori non possano fornire una spiegazione chiara e precisa. Uno
studio osservazionale condotto su bambini da 0 a 3 anni di età mostra che solo
il 2,2% dei bambini che non gattonano e
non camminano presenta lividi (in dettaglio: < 6 mesi: 0,5%; 6-8 mesi: 4,0%;
9-12 mesi: 11,5%), vs il 17,8% di quelli
che hanno iniziato a camminare e il
51,9% di quelli che camminano.
Sede. Anche la sede può dare informazioni utili per la diagnosi differenziale. È
ampiamente dimostrato che i lividi provocati accidentalmente nel gioco o nelle
comuni attività quotidiane sono localizzati quasi sempre sulla superficie anteriore del corpo e in corrispondenza delle
prominenze ossee (più frequentemente
fronte, stinchi, ginocchia) (figura 1).
Quelli causati da maltrattamento possono presentarsi in ogni parte del corpo, ma
più spesso sono localizzati su zone lontane da prominenze ossee e con più tessuto adiposo sottostante (natiche, addome,
torace e guance) (figura 2). Al capo, nei
bambini di età < 6 anni, i lividi accidentali si localizzano soprattutto in un’area a
forma di T dalla fronte al naso, al labbro
superiore e al mento, e alla regione posteriore del capo (figura 1). Meno del 6%
dei lividi accidentali della faccia è localizzato alle guance o in regione periorbitaria. Al contrario, quelli da abuso sono
localizzati più spesso a orecchie (figura
3), guance e collo, tutte sedi estremamente rare per lividi accidentali. Sono
particolarmente sospetti lividi localizzati
in aree specifiche come: avambracci, arti
superiori e zone adiacenti del tronco,
superficie laterale delle cosce, che possono indicare “lividi da difesa” se il bambino ha tentato di proteggersi dai colpi.
Forma. L’aspetto è molto importante
perché può presentare l’impronta dell’oggetto che l’ha prodotto (fibbia di cintura, bastone, pugno ecc.), cosa che non
si verifica nei lividi da causa accidentale.
Un colpo inferto a mano aperta, come
uno schiaffo, può provocare lividi lineari
e paralleli che riproducono i contorni
delle dita. L’irregolarità delle distanze tra
un livido e l’altro può indicare la sovrapposizione di più di un’impronta, cioè più
di uno schiaffo (figura 4). Un pugno può
lasciare l’impronta delle nocche. Un calcio può lasciare l’impronta chiara della
Quaderni acp 2014; 21(5)
TABELLA
1: ELEMENTI ANAMNESTICI INDICATORI DI MALTRATTAMENTO FISICO
Storia dell’accaduto vaga, povera di dettagli, che non diventa più precisa nel tempo,
ma, viceversa, cambia versione
Descrizione della dinamica dell’incidente non compatibile con la tipologia, la sede,
l’estensione e la gravità della lesione e con lo sviluppo fisico-psicomotorio del bambino
Spiegazioni nettamente diverse fornite da differenti testimoni
Ritardo nel cercare l’aiuto medico
Ricoveri precedenti in cui è possibile sospettare una dinamica di abuso
Storia di violenza familiare
TABELLA
2: INDICATORI SOSPETTI DI MALTRATTAMENTO FISICO
Atteggiamento del genitore
• Genitori scarsamente preoccupati, che minimizzano il problema, con un comportamento e un coinvolgimento emotivo non adeguati alle circostanze e alle condizioni
del bambino
• Genitori ostili o addirittura aggressivi verso il medico, che rifiutano il ricovero e
ulteriori accertamenti
Atteggiamento del bambino
• Bambino triste, troppo tranquillo, eccessivamente impaurito o, viceversa, iperattivo,
incontenibile, con comportamento di “allarme e ipervigilanza”, oppure di apatia e
distacco
• Bambino che presenta un attaccamento eccessivo e indiscriminato per tutte le
persone con cui viene in contatto
TABELLA
3: ANAMNESI PSICOSOCIALE
Accertare la composizione del nucleo familiare e lo stato lavorativo dei genitori
Documentare se il nucleo familiare è noto ai servizi sociali. Se sì, perché?
Documentare se i genitori hanno precedenti penali, se c’è una storia di violenza familiare o precedente sospetto di abuso sul bambino o su fratelli
Accertare eventuale abuso di droga o alcol nei genitori o altri conviventi, eventuali
malattie mentali
Chiedere se i genitori sono stati vittime di qualche forma di abuso nella loro infanzia
Indagare sui modelli di disciplina impiegati, soprattutto se sono in uso punizioni fisiche
scarpa. Un livido a forma di U o J è di
solito indicativo di trauma non-accidentale, tipicamente da frustata con cintura,
cavo o fil di ferro. È molto importante
esaminare accuratamente se ai lividi
sono associate petecchie, perché recentemente è emerso dalla letteratura che la
contemporanea presenza di petecchie è
fortemente sospetta per lesione da abuso,
con valore predittivo di 80 (IC 95%:
64,1- 90,1), sebbene la loro assenza non
abbia alcun valore per la diagnosi differenziale. Un livido con forma tipica è
quello provocato da morso, lesione particolarmente importante da identificare,
perché un morso da adulto sul corpo di
200
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un bambino, di forza tale da lasciare un
segno, non è mai dovuto a causa accidentale; è sempre espressione di un
abuso e pertanto va documentato dettagliatamente, meglio se fotografato, perché dall’impronta si può risalire all’abusante. Il morso si presenta classicamente
come un livido di forma circolare o ovalare, costituita da due archi concavi in
opposizione, associato o meno a ecchimosi e/o petecchie (figura 5). In alcuni
casi la forma può essere distorta, se il
morso è incompleto, o se è su una superficie curva. Va considerato che i bambini
possono essere morsi da animali, o da
altri bambini, per cui è necessario saper
formazione a distanza
fare la diagnosi differenziale. I morsi da
cane hanno arcata ogivale più stretta, i
denti sono più appuntiti e sottili e di solito provocano lesioni da strappo, con sanguinamento. Il metodo per distinguere il
morso da adulto (e quindi abusivo) da
quello da bambino si basa sulla misurazione della distanza tra l’impronta dei
due canini, che nel morso di un adulto è
di 3-4,5 cm; in quello di un ragazzo o
giovane adulto di 2,5-3 cm, in quello di
un bambino di età inferiore a 8 anni di
< 2,5 cm. L’analisi completa del morso
per risalire all’abusante è di competenza
medico-legale (ricostruzione dell’impronta, analisi del DNA in morsi recenti).
Il pediatra dovrà porre in diagnosi differenziale patologie della cute, come per
esempio le micosi.
Datazione. Per lungo tempo è stata in
uso la pratica di datare i lividi in base al
colore presentato, pratica fortemente
richiesta da team investigativi. In realtà è
stato chiaramente dimostrato che non
esiste una base scientifica per la datazione di lividi in base al colore, per cui questa pratica deve essere abbandonata. Si
stanno sperimentando nuove tecniche, al
momento però non applicabili alla pratica clinica.
Tutti i lividi sospetti devono essere accuratamente documentati (sede, colore e
dimensioni), per iscritto (preferibilmente
su diagramma del corpo), e se possibile
con foto.
Diagnosi differenziale. Va fatta con i disordini della coagulazione, in cui si verifica la comparsa di lividi di cui non è
spiegata la causa o di entità eccessiva
rispetto alla dinamica che viene descritta
(trombocitopenia idiopatica, emofilia,
malattia di von Willebrand, malattia emorragica del neonato, deficit di vitamina K, leucemia, coagulazione intravasale
disseminata, porpora fulminante). Sarà
necessario eseguire: emocromo, conta
piastrine, PTT, PT, tempo di coagulazione ed eventualmente richiedere consulenza ematologica. Altre condizioni da
porre in diagnosi differenziale sono: le
chiazze mongoliche che possono presentarsi su glutei, schiena, ginocchia, capo,
piedi, area lombosacrale, e la porpora di
Schönlein-Henoch.
Le ustioni
Le ustioni sono lesioni da abuso piuttosto frequenti: si stima che rappresentino
Quaderni acp 2014; 21(5)
il 10% delle lesioni da abuso fisico nel
bambino. D’altra parte anche le ustioni
accidentali sono comuni, specialmente
nei bambini di età inferiore a 5 anni. Per
la diagnosi differenziale è fondamentale
valutare attentamente ogni lesione ed
esaminare accuratamente la dinamica
riferita dell’incidente. Le ustioni accidentali sono causate più frequentemente
da liquidi bollenti che il bambino si rovescia addosso (figura 6), interessano di
solito gli arti superiori, la faccia, il collo
e la superficie anteriore del tronco. Sono
di solito asimmetriche e a bordi irregolari. L’ustione è più grave nel punto più
alto, dove il liquido bollente viene a contatto con il corpo, e la gravità si riduce
nelle parti sottostanti, dove la temperatura del liquido si è ridotta. Le zone sottostanti a sporgenze rimangono illese,
come pure le zone protette dagli abiti
(figura 7).
A differenza di quelle accidentali, le ustioni da maltrattamento sono più frequentemente dovute a immersione in liquidi bollenti/caldi (figure 8, 9) (va segnalato che un’ustione grave può essere
provocata dal contatto per solo 5 secondi
con acqua a temperatura di 60 ºC), sono
più frequenti nei bambini più piccoli e
sovente associate a “toileting accidents”,
quando il bambino si sporca e le feci
debordano dal pannolino, interessano più
frequentemente il perineo e/o le natiche,
gli arti inferiori, le mani o, più raramente, l’intera faccia. Fortemente suggestive
per maltrattamento sono ustioni a “guanto” alle mani o “a calzino” ai piedi, specie se bilaterali e simmetriche. Gli elementi che permettono di differenziarle da
ustioni accidentali sono: i margini netti,
la profondità rilevante e uniforme, le pieghe cutanee risparmiate, l’assenza di
lesioni da schizzi. Un aspetto importante
della valutazione di questi casi è l’indagine (da parte delle autorità predisposte)
allo scopo di determinare la temperatura
dell’acqua che esce dal rubinetto e il
tempo necessario perché raggiunga un
livello pericoloso. Al secondo posto per
frequenza nei bambini piccoli sono le
ustioni da contatto con fiamma o superfici arroventate. Quelle da causa accidentale sono più frequenti al palmo delle
mani, mentre quelle da abuso interessano
più spesso la schiena e il collo. Hanno
limiti netti, profondità uniforme e rilevante (ustioni di terzo grado), forma da
cui è possibile riconoscere l’oggetto che
è stato usato. Un’ustione da contatto
spesso segnalata in casi di maltrattamento è quella da sigaretta (figura 10).
Pochi casi documentati nella letteratura
confermano che le ustioni da sigaretta
intenzionali si presentano in parti esposte
del corpo e hanno forma circolare
approssimativamente di 1 cm di diametro. La diagnosi differenziale va fatta in
questo caso anche con l’impetigine, che
però presenta, inconfondibilmente, croste intorno alla lesione. A differenza
delle ustioni da liquidi, quelle da contatto riguardano tutte le fasce di età. Per la
valutazione di un’ustione sospetta per
abuso, oltre alle caratteristiche descritte e
all’analisi della dinamica dell’incidente
riferita dai genitori, è necessario porre la
diagnosi differenziale con altre condizioni che possono presentare un aspetto
simile: impetigine, epidermolisi bollosa,
eruzione fissa da farmaci, fotodermatiti,
rimedi tradizionali come la moxibustione. Va sottolineato che nella valutazione
di bambini con ustioni da sospetto abuso
è importante la ricerca di fratture occulte
(mediante sorveglianza scheletrica). In
uno studio di bambini con ustioni non
accidentali il 18,6% di quelli di età < 2
anni aveva anche fratture (De Graw
2010).
N.B. Le ustioni da abuso, oltre a maltrattamento fisico (inflitte), possono essere
dovute a trascuratezza (da difetto di sorveglianza), con un rapporto tra le due di
1:9 a favore della trascuratezza. In questo caso è molto difficile identificarle
come abusive, in quanto sono di fatto
provocate da incidenti che avrebbero
potuto essere prevenuti, e avrebbero
dovuto ricevere cure immediate e adeguate. La difficoltà sta nel distinguere tra
disattenzione momentanea dei genitori e
inadeguatezza nella sorveglianza.
Lesioni del cavo orale
La valutazione medica per sospetto
abuso fisico deve includere un esame
della cavità orale, ricercando lesioni dentali, della lingua, della parete vestibolare
delle labbra, della mucosa, con particolare attenzione al frenulo labiale e sublinguale. La lacerazione del frenulo linguale per lungo tempo è stata considerata
patognomonica per maltrattamento, soprattutto nei bambini più piccoli, ma allo
stesso tempo è considerata dai dentisti un
201
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formazione a distanza
FIGURA 1: SEDI DI LIVIDI DA CAUSA
ACCIDENTALE
FIGURA
Quaderni acp 2014; 21(5)
FIGURA
3: LIVIDO ALL’ORECCHIO
FIGURA
4: SCHIAFFO
FIGURA
5: MORSO
FIGURA
6: USTIONE ACCIDENTALE
2: SEDI DI LIVIDI DA ABUSO
solo liquido bollente
FIGURA
7: USTIONE ACCIDENTALE
FIGURA
8: USTIONI DA ABUSO
immersione
trauma comune nell’infanzia, provocato da un colpo diretto, o da cadute
(contro un tavolo, o dall’altalena).
Sfortunatamente non ci sono studi comparativi che diano indicazioni sulle caratteristiche utili per differenziare le forme
accidentali da quelle da abuso, ma un
aiuto può venire dall’anamnesi, dal
momento che la rottura del frenulo, per il
copioso sanguinamento che ne deriva, è
un evento che viene ricordato dai genitori che pertanto dovrebbero saperne riferire la dinamica causale. Quando da abuso,
è provocata dalla forzatura con un oggetto (cucchiaio, biberon, ciuccio) e di solito sono presenti altre lesioni inflitte,
spesso occulte e gravi. Pertanto, se si
riscontra una lacerazione del frenulo in
un bambino di età < 2 anni che non abbia
una spiegazione adeguata, è necessario
procedere alla ricerca di fratture occulte
e, nel caso il bambino abbia meno di 1
anno di età, anche a un esame oftalmologico alla ricerca di emorragie retiniche, e
FIGURA
9: USIONE DA IMMERSIONE
202
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FIGURA
10: USIONE DA CONTATTO CON
SIGARETTA
formazione a distanza
a una TAC cerebrale nel sospetto di trauma cranico da abuso.
Le fratture
Le fratture sono molto comuni nel bambino; sono provocate da incidenti stradali, da cadute durante il gioco o l’attività
sportiva, ma ogni frattura può anche
essere esito di maltrattamento; pertanto
va considerata la possibilità di abuso. Gli
elementi per la diagnosi differenziale
sono: anamnesi della dinamica causale e
valutazione della compatibilità con la
frattura, età del bambino (autonomia
motoria), tipo e sede della frattura, e
numero delle fratture.
Età. Questo è un fattore chiave per la
diagnosi differenziale tra fratture accidentali e inflitte. Fratture in bambini che
non camminano, senza una dinamica dell’incidente chiara e compatibile, devono
far sorgere il sospetto di maltrattamento.
Un ampio studio caso-controllo inglese
mostra che l’85% delle fratture accidentali riguarda bambini di età > 5 anni,
mentre l’80% di quelle da abuso si verifica in bambini < 18 mesi. Lo stesso quadro emerge da uno studio americano
da cui si evince che, mentre l’incidenza
delle fratture da abuso nei bambini di
età compresa tra 0 e 3 anni è di
15,3/100.000, in quelli < 12 mesi è di
36,1/100.000, crollando a 5/100.000
nella fascia 12-35 mesi. Dunque le fratture da maltrattamento sono più comuni
al di sotto dei 3 anni di età, soprattutto
nel primo anno, quando si stima che siano presenti in un terzo dei bambini vittime di abuso, spesso non riconosciute.
Tipo e sede. Sebbene nessuna frattura sia
diagnostica, alcune di esse hanno un’alta
specificità per abuso: coste, scapola,
sterno, acromion e fratture metafisarie
delle ossa lunghe.
Lattanti che non camminano hanno una
bassissima probabilità di avere fratture
accidentali delle ossa lunghe. Complessivamente la probabilità che una frattura
di femore in un bambino sia dovuta a
maltrattamento è del 28% (IC 95%: 1544), ma nella maggior parte dei casi si
riferisce a bambini piccoli, di età < 1
anno. La sede più comune è la diafisi, il
tipo più sospetto è la spirale.
Al femore le fratture diafisarie sono le
più comuni, sia da cause accidentali che
da abuso, le metafisarie invece sono
meno frequenti, e sicuramente più spesso
Quaderni acp 2014; 21(5)
dovute a maltrattamento, per torsione,
accelerazione-decelerazione e scuotimento (p<0,001). Per le fratture dell’omero la probabilità della natura abusiva
nei bambini di età < 3 anni è del 48% (IC
95%: 6-94), e in questo caso l’età < 15
mesi ha un forte valore predittivo rispetto ai 15-36 mesi. Anche per l’omero il
tipo di frattura è un elemento chiave per
la diagnosi differenziale: quelle sopracondilari sono più frequentemente, anche
se non esclusivamente, dovute a cause
accidentali, mentre le più comuni da
maltrattamento sono le spirali o oblique
(nei bambini < 5 anni). Le fratture craniche sono comuni nei bambini piccoli:
l’80% di quelle accidentali e l’88% di
quelle da abuso riguardano bambini < 1
anno di età. Sebbene la probabilità della
natura abusiva sia del 30% (IC 95%: 1946), ci sono poche caratteristiche che
permettono di differenziarle. In entrambi
i casi le più comuni sono le fratture lineari, di solito parietali. Il significato di fratture complesse, depresse o multiple è
difficile da definire, perché i dati della
letteratura sono incerti. Rispetto alla
sede, le fratture a più alta specificità per
abuso sono quelle costali, con una probabilità di abuso del 71% (IC 95: 42-91).
Queste sono raramente accidentali, possono essere provocate da trauma da
parto, da grossi traumi o essere la conseguenza di malattie metaboliche del tessuto osseo. Escluse queste cause, fratture
costali multiple sono altamente specifiche per maltrattamento. La sede a più
alta specificità è l’area mediale della
regione posteriore, le fratture costali
anteriori sono più frequentemente da
abuso, le laterali più frequentemente da
causa accidentale. Altre sedi fortemente
sospette sono: fratture dell’estremità
laterale della clavicola e dell’acromion
della scapola, fratture dei processi spinosi vertebrali nel tratto cervico-toracico
(causate da flessione-estensione associate a scuotimento). Un altro dato utile per
la diagnosi differenziale che emerge
chiaramente da molteplici studi è che la
presenza di fratture multiple è fortemente associata ad abuso. Fratture ripetute
vengono di solito interpretate come
espressione di particolare vivacità del
bambino o come sospetta fragilità ossea
da patologie ossee malformative o metaboliche tipiche dell’età: prematurità,
malattie metaboliche, malattie croniche
con associato rachitismo, e in particolare
osteogenesi imperfetta. Questa è una
malattia congenita autosomica dominante, rara, con una prevalenza di 1:30.000
(molto inferiore a quella del maltrattamento), che si manifesta con fragilità
ossea e, sintomi associati, sclere blu, lassità legamentosa, osteopenia, ossa wormiane, dentinogenesi imperfetta, bassa
statura, sordità, storia familiare. Pertanto, in assenza di grandi traumi, la diagnosi differenziale di fratture multiple va
fatta con queste condizioni. Va sottolineato che molte delle fratture causate da
maltrattamento non provocano sintomi
importanti, per cui possono non essere
diagnosticate. Complessivamente si stima che un terzo dei bambini maltrattati
presenti fratture, molte delle quali sono
occulte, soprattutto in bambini che non
camminano; pertanto i bambini di età
inferiore ai 2 anni in cui si sospetti un
maltrattamento fisico devono essere sottoposti a una completa indagine radiologica (sorveglianza scheletrica) per identificare, o escludere, la presenza di fratture occulte in atto o guarite. Questa
indagine va condotta secondo standard
definiti e consta di 19 immagini radiografiche. Dai 2 ai 5 anni la decisione di
effettuare la sorveglianza dev’essere
valutata di volta in volta sulla base dell’anamnesi e dei segni clinici, mentre ha
poco valore nei bambini di età superiore
a 5 anni.
Shaken Baby Syndrome
Il termine corrente per definire questo
quadro clinico è trauma cranico da abuso. È la più frequente causa di morte per
maltrattamento; i bambini più a rischio
sono quelli di età < 1 anno.
Il trauma cranico è causato dal violento
scuotimento del bambino che determina
la dislocazione del cervello rispetto alla
dura madre, esitando in lesioni di entità
variabile al parenchima cerebrale, con
stiramento e lacerazione di assoni e di
vasi, e conseguenti emorragie intracraniche. Anche gli occhi vengono fortemente
sollecitati dallo scuotimento, le ripetute
forze di accelerazione-decelerazione
determinano emorragie retiniche di varia
entità, riscontrabili all’incirca nell’85%
dei casi.
I segni classici della Shaken Baby Syndrome sono: ematoma subdurale ed
emorragie retiniche, spesso associati a
203
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formazione a distanza
tipiche fratture costali e metafisarie delle
ossa lunghe, in assenza di una spiegazione plausibile della dinamica causale. I
sintomi variano in funzione della gravità
delle lesioni cerebrali: sonnolenza, rifiuto del cibo, irritabilità, pianto, vomito,
convulsioni, apnea, alterazioni dello
stato di coscienza, fino al coma e alla
morte. Si stima che dei bambini vittime
un terzo muore, un terzo presenta danni
permanenti, un terzo vive con pochi o
nessun esito (fisico).
Le conseguenze a lungo termine possono
essere varie: paralisi cerebrale, disabilità
fisica, disturbi della vista/cecità, sordità,
difetto cognitivo, disturbi del linguaggio,
dell’apprendimento e del comportamento. La gravità del quadro clinico, inclusi
gli esiti a distanza, sottolineano l’importanza del ruolo del pediatra, sia nel
sospettare che, soprattutto, nel prevenire
il fenomeno (è noto che più del 50% dei
bambini che hanno subito un trauma cranico da abuso erano stati visitati dal
pediatra nel mese precedente senza che
l’abuso fosse sospettato), argomento che
esula dagli obiettivi di questo articolo.
Conclusioni
Il maltrattamento è un fenomeno frequente, che tipicamente tende a essere
mascherato e le sue conseguenze sono
gravi. Recenti ricerche delle neuroscienze evidenziano dannose implicazioni a
livello neurologico e alterazioni sullo
sviluppo cerebrale; evidenze cliniche e
ricerche svolte in tutto il mondo hanno
dimostrato conseguenze a breve, medio e
lungo termine. I bambini vittime di maltrattamento hanno un’alta probabilità di
sviluppare una varietà di problemi mentali e comportamentali (ritardo mentale,
ansia, depressione, disturbi relazionali,
disturbi della condotta, aggressività) e il
danno causato è tanto maggiore quanto
più il fenomeno resta sommerso perché
non riconosciuto, con la conseguenza
che l’abuso viene ripetuto nel tempo e
Quaderni acp 2014; 21(5)
l’intervento di protezione del bambino è
ritardato o eluso. Alla luce dei dati epidemiologici e delle conseguenze a lungo
termine che il maltrattamento determina
sulla salute dei bambini è necessaria una
riflessione relativa al ruolo del pediatra. I
pediatri sono osservatori privilegiati, con
un’alta probabilità di incontrare bambini
maltrattati nella pratica professionale;
nonostante ciò l’attenzione del mondo
pediatrico è carente. Non riconoscere e
non segnalare un caso di sospetto abuso
è una grande responsabilità. Sebbene
nessuna lesione, isolatamente, permetta
di fare diagnosi di abuso, non sospettare
la causa abusiva di una lesione può far
perdere al bambino l’unica possibilità di
essere riconosciuto come vittima e protetto, con il rischio di ulteriori aggressioni, che potrebbero anche essere fatali, e
di conseguenze gravi sullo sviluppo fisico e psicologico. Valutare se una lesione
è spiegabile con un incidente o una condizione organica, o se invece dev’essere
considerato un meccanismo non accidentale, è compito specifico del pediatra.
Accertare il maltrattamento è di competenza della magistratura. Individuare i
bambini vittime di maltrattamento è un
dovere morale e di competenza professionale, prima che obbligo di legge. È il
primo passo indispensabile per la messa
in atto di interventi di protezione e di
recupero del bambino e della famiglia. u
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Quaderni acp 2014; 21(5): 205
Un genitore positivo
Costantino Panza*, Antonella Brunelli**, Stefania Manetti***
*Pediatra di famiglia, Sant’Ilario d’Enza (RE); **Direttore del Distretto ASL, Cesena (FC)
***Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (NA)
La filastrocca di Giampiero, Sofia e Donato racconta una cosa ben conosciuta
dai bambini: gli adulti sono dei giganti!
I piccoli ci guardano dal basso e imparano tutto da noi adulti. Imitano qualsiasi
cosa noi ‘grandi’ facciamo: è il mestiere
del bambino quello di imparare dai più
grandi.
Un bambino o bambina di pochi mesi
hanno la possibilità di imparare a parlare,
ad aver fiducia e a voler bene al proprio
genitore perché le loro capacità, a questa
tenerissima età, permettono questi apprendimenti. A 3 anni invece potranno
iniziare a imparare le regole di casa che
papà e mamma con pazienza ripeteranno
chissà quante volte; a questa età riescono
a dialogare e iniziano a capire quello che
è possibile fare e le azioni che possono
essere rischiose. Un bambino o bambina
di 6 anni inizieranno ad assumersi qualche responsabilità o qualche impegno,
come partecipare a uno sport che richiede disciplina, o regole da condividere
con altri bambini. In questi momenti di
crescita i bambini fanno esperienza e
imparano dai grandi: genitori, educatori,
insegnanti, allenatori.
Cosa possiamo fare noi genitori
per favorire la miglior crescita dei
nostri bimbi e per sostenere il loro
apprendimento?
Quanto ai bambini di pochi mesi, sappiamo che il modo migliore per aiutare il
loro sviluppo è accoglierli, spesso in
braccio, parlare loro, accarezzarli, guardandoli negli occhi; in un mondo di
giganti sconosciuti, questo nostro comportamento crescerà in loro la capacità di
affidarsi con sicurezza al genitore.
Rivolgendosi a lui o lei con le parole e
leggendo libri adatti a partire dai 6 mesi,
tenendolo o tenendola in braccio, oltre
che costruire una buona relazione, stimoliamo le sue competenze di linguaggio.
Quando inizierà a gattonare o a muovere
i primi passi dovremo riconoscere quali
sono i pericoli presenti nella nostra casa
a misura di ‘giganti’ ma non di bimbo
piccolo. Fino a 3 anni i bambini non sono
in grado di capire i rischi o pericoli dell’ambiente domestico, nemmeno se noi
spieghiamo tante e tante volte quello che
non devono o non possono fare. Sta a noi
adulti fare in modo che la casa sia un
ambiente sicuro e privo di pericoli, perché a questa età è naturale e salutare
volere esplorare e toccare tutto.
Tocca a noi genitori attrezzarci di tanta
pazienza, tenere sotto vigile controllo
nostro figlio, nostra figlia, allontanandoli dai pericoli e spiegando sempre a lui o
a lei perché lo facciamo. Un buon genitore riconosce le capacità e le possibilità
che il proprio figlio ha raggiunto e quindi fornisce spiegazioni che il bambino
può comprendere, offre incoraggiamenti
per nuovi modi di fare, mostrando con il
suo comportamento da ‘gigante’ quello
che il bambino o la bambina potrebbero
fare, facendo provare e riprovare infinite
volte, senza mai perdere la pazienza.
Papà e mamma possono riconoscere il
momento in cui è giusto porre dei limiti,
cioè fornire dei “no”, limitando quello
che il bambino o la bambina possono
fare con sicurezza e libertà e quello che
invece non è consentito loro fare. Queste
limitazioni non sono dei divieti motivati
da un volere punitivo, ma sono una prova
di amore e rispetto verso il proprio figlio
o figlia.
Il papà e la mamma, riconoscendo le
capacità e le abilità raggiunte dal bambino, capiscono quello che può fare da solo
o aiutato da un adulto, e quello che non è
in grado di fare autonomamente.
Le punizioni
Qualche volta, raramente, per i bambini
più grandi potrebbero essere necessarie
delle punizioni.
Per punizioni intendiamo una limitazione della libertà del bambino o della bambina, qualcosa che prima questi potevano
fare e che adesso noi abbiamo loro vietato o ridotto, per esempio il tempo da trascorrere davanti alla TV o ai videogiochi.
La punizione, che necessita sempre di
essere discussa e spiegata nelle sue motivazioni, non dev’essere percepita come
umiliante o degradante e, soprattutto,
non riguarda mai l’affetto che noi genitori manifestiamo sempre a nostro figlio o
nostra figlia.
«Oggi al paese di nome Armonia
è nato Giampiero, è nata Sofia
ed è un giorno assai fortunato
perché è nato, con loro, Donato.
… Non sanno parlare, né camminare,
ad occhi attenti sanno osservare
nell’aria sporca, nel fumo nero
sanno capire, con sguardo severo,
chi si ritiene molto importante
perché dal basso
sembra un gigante… ».
B. Tudino, Io Rispetto, Unicef
Cosa non fare
Talvolta un genitore, soprattutto se sotto
stress, può agire in un modo impulsivo
sgridando o urlando, oppure ricorrendo a
una punizione fisica, per esempio in caso
di un comportamento non voluto come
una disobbedienza o quando il bimbo si
mette in una situazione di pericolo,
oppure se piange ininterrottamente. Per
punizione fisica s’intende colpire il bambino con la mano o con un oggetto (un
bastone, una cintura, una frusta, una
scarpa ecc.), dare calci, scossoni, spintoni al bambino, oppure graffiarlo, pizzicarlo, morderlo, tirargli i capelli; obbligare il bambino a restare in posizioni
scomode, provocargli bruciature o sfregiarlo.
La punizione psicologica, la violenza
verbale, oppure denigrare, isolare o ignorare il bambino vengono considerati
punizioni umilianti o degradanti.
Cosa si può fare
Se siamo in un momento di forte stress o
rabbia a causa di un problema economico, una difficoltà finanziaria, la perdita
del posto di lavoro o una frustrazione
lavorativa, un conflitto con il partner di
cui non riusciamo a vedere una soluzione, oppure l’altro genitore utilizza punizioni corporali o se siamo convinti che
l’utilizzo della punizione fisica sia corretto perché così è stata la nostra educazione, è importante parlare di questo con
il pediatra. Insieme valuterete la situazione per comprendere quale comportamento tenere e come sia possibile modificare
il proprio modo di agire per favorire la
miglior crescita del bambino.
Se un bambino viene punito duramente si
sente non amato o non desiderato e noi
genitori perdiamo il nostro obiettivo di
crescere un bambino nel rispetto, nella
non violenza, nella fiducia e nella sicurezza di sé. Parlare con il pediatra del nostro stile educativo è un momento importante del nostro essere genitori. u
Per corrispondenza:
Stefania Manetti
e-mail: [email protected]
205
Quaderni acp 2014; 21(5): 206-209
Comunicazioni orali degli specializzandi
al Convegno di Tabiano 2014
Trial clinico: trattamento con propranololo
di 63 pazienti con emangioma infantile
G. Stringari, G. Barbato, M. Zanzucchi, M. Marchesi, G. Cerasoli,
A. Gritti, N. Carano
AO Universitaria di Parma
Introduzione Gli emangiomi infantili (IH) sono le neoplasie benigne più comuni dell’infanzia, caratterizzate da una fase proliferativa nel primo anno di vita e da una fase di involuzione spontanea
(7-10 anni). L’incidenza varia dal 2,6% al 4,5% [1]. Fattori di
rischio riconosciuti: sesso femminile, prematurità, età materna elevata, gemellarità. Nell’eziologia è riconosciuto un coinvolgimento
della proliferazione delle cellule endoteliali. Generalmente gli IH
compaiono nelle prime settimane di vita come lesioni superficiali,
profonde o miste, più frequentemente localizzate a volto, collo,
testa, tronco, estremità e perineo. La diagnosi è clinica e basata
su anamnesi e caratteristiche della lesione. Nei casi dubbi sono
utili l’osservazione clinica nel tempo o la valutazione ecografica.
La terapia è indicata per prevenire o arrestare le complicanze, prevenire cicatrici o esiti perenni che possono incidere sull’aspetto
estetico.
Scopo dello studio Scopo dello studio è stato quello di verificare la
sicurezza del propranololo nel trattamento degli IH e di istituire un
percorso diagnostico-terapeutico adeguato al trattamento di questi
pazienti.
Materiali e metodi Tra dicembre 2009 e gennaio 2014 sono stati
arruolati 63 bambini, 43 femmine e 20 maschi, con diagnosi di IH,
per i quali è stata posta indicazione al trattamento farmacologico
con propranololo. In 3 pazienti non è stato espresso il consenso
all’inizio della terapia, 4 pazienti sono stati esclusi dal trial (3 per
interruzione precoce del trattamento, 1 per scarsa compliance); 13
pazienti erano prematuri con un’età gestazionale compresa tra 31 e
37 settimane. L’età media di insorgenza degli IH era di 9,7 giorni.
Per tutti è stato ottenuto il consenso informato al trattamento e
all’acquisizione di fotografie; sono state inoltre fornite istruzioni ai
genitori per la gestione della terapia a domicilio. L’indicazione al
trattamento è stata posta sulla base delle Linee Guida dell’AAD [2].
Il protocollo terapeutico prevede un breve ricovero (tre giorni e due
notti); tutti i pazienti sono stati sottoposti a valutazione clinica
generale, elettrocardiogramma (ECG) ed eventuale ecocardiografia. La valutazione ecografica dell’emangioma è stata eseguita solo
per lesioni profonde o miste con significativa componente profonda. I valori di frequenza cardiaca (FC) e di pressione arteriosa (PA)
sono stati registrati prima della somministrazione di ciascuna dose
di propranololo e due ore dopo la stessa. Lo schema posologico
prevede la somministrazione di 1 mg/kg/die in 3 dosi per le prime
24 ore, quindi 2 mg/kg/die in 3 dosi in seconda giornata; a distanza di quattro-sette giorni, in caso di buona tolleranza alla terapia, il
dosaggio viene incrementato a 3 mg/kg/die in 3 somministrazioni.
Il follow-up è stato effettuato mensilmente con misurazione della
FC, PA, acquisizione della documentazione fotografica ed eventuale adeguamento del dosaggio del farmaco al peso del paziente [3].
L’efficacia terapeutica è stata valutata utilizzando una scala analo-
Per corrispondenza:
Maria Francesca Siracusano
e-mail: [email protected]
206
gico-visiva (VAS), già utilizzata in altri studi pubblicati in letteratura (0: assenza di qualsiasi segno di lesione visibile a livello cutaneo o mucosale, 10: peggiore condizione riscontrata) [4].
Risultati Dei 56 pazienti trattati, 51 hanno terminato la terapia.
L’età media di inizio è stata di 6,7 mesi, quella di fine 15,3 mesi; la
durata media della terapia è stata di 8,2 mesi; la mediana dei punteggi VAS è stata di 7,5; 5; 4; 3; 3, rispettivamente al 1°, 2°, 3°,
6° mese e fine terapia. Confrontando i punteggi VAS riscontrati è
stato evidenziato un miglioramento statisticamente significativo
(p < 0,001), soprattutto nei primi due mesi di terapia. Dei 51
pazienti che hanno terminato il trattamento, 2 non hanno risposto
alla terapia, 7 hanno presentato un miglioramento inferiore al 50%,
42 hanno avuto una buona risposta alla terapia con riduzione maggiore del 50%; 8 pazienti hanno presentato recidiva e sono stati sottoposti a secondo ciclo di terapia con risultati sovrapponibili a quelli ottenuti dal primo ciclo terapeutico; 5 sono tuttora in terapia, 1 è
un caso di recidiva, per 4 si tratta del primo ciclo terapeutico (età
media di inizio della terapia 3,3 mesi), tutti stanno rispondendo alla
terapia. Nessuno dei pazienti trattati ha presentato bradicardia, in
11 di loro sono stati riscontrati valori pressori inferiori alla norma
per l’età (riscontro occasionale in pazienti asintomatici), 2 pazienti
hanno presentato ipoglicemia (< 50 mg/dl) in corso di gastroenterite virale intercorrente (somministrati liquidi zuccherati per os e
sospesa temporaneamente terapia) [5]. Quattro pazienti hanno presentato disturbi del sonno (non è stato necessario interrompere la
terapia); 11 hanno interrotto temporaneamente la terapia a scopo
precauzionale in corso di bronchiolite o di flogosi delle alte vie
aeree con componente broncostruttiva; 1 paziente ha presentato
alopecia transitoria.
Discussione L’efficacia del trattamento con propranololo è stata
attestata sul 96% dei pazienti trattati: tale risultato è in linea con
quanto segnalato in letteratura [6]. I dati del nostro studio confermano l’indicazione a trattare gli IH in fase proliferativa nei primi
mesi di vita (< 6 mesi). Risultati minori e incompleti si riscontrano
in IH già in fase involutiva. Il trattamento è necessario per tutta la
durata della fase proliferativa (entro i 18 mesi di età).
Conclusioni I dati raccolti, in accordo con la letteratura, confermano l’efficacia del propranololo nel ridurre le dimensioni degli IH e
confermano la sicurezza di tale trattamento (prima scelta nella terapia degli IH). Il meccanismo d’azione è legato a: vasocostrizione,
effetto anti-angiogenico, ruolo pro-apoptotico sulle cellule endoteliali. La terapia con propranololo è sicura; se il dosaggio viene
incrementato progressivamente non si riscontrano bradicardia o
ipotensione sintomatica. L’ipoglicemia va prevenuta evitando il
digiuno prolungato o sospendendo brevemente la terapia in caso di
patologie intercorrenti che limitino l’alimentazione. In corso di flogosi delle alte vie aeree con componente ostruttiva è da considerare una temporanea sospensione della terapia.
Bibliografia
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healty infants born at term. Pediatr Nephrol 2007;22(10):1743-9.
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10.1111/pde.12089.
Occhio non vede… cuore non duole
A. Giacometti*, A.M. Cangelosi*, F. Viaroli*, C. Madia*, V. Allegri**,
B. Tchana**, N. Carano**, A. Agnetti**
*Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di
Parma; **UO di Cardiologia Pediatrica, Clinica Pediatrica, AO
Universitaria di Parma
Un ragazzo di 20 anni giungeva alla nostra attenzione inviato dal
Collega dell’ambulatorio cardiologico dell’adulto, ove si era recato
su indicazione del medico del lavoro per riscontro di soffio cardiaco. A una prima ecocardiografia venivano descritti una camera ventricolare posta a sinistra senza evidenza della continuità del tratto di
efflusso, una camera ventricolare posta a destra ricevente un vaso
arterioso in posizione anomala e un modesto rigurgito della valvola atrio-ventricolare posta a sinistra. All’elettrocardiogramma
(ECG) eseguito nella medesima occasione si segnalavano blocco
AV di 1° grado, blocco di branca sinistro incompleto, presenza di
onde Q in V1 e V2 e assenza di onde Q in V5 e V6. Veniva pertanto inviato all’attenzione dei cardiologi pediatri per approfondimenti in merito a sospetta cardiopatia congenita. Presso l’ambulatorio
cardiologico pediatrico il ragazzo si presentava asintomatico, in
buone condizioni generali. Non riferiva segni e sintomi suggestivi
di patologia cardiovascolare. Riferiva una normale tolleranza allo
sforzo fisico. Anamnesi patologica remota e anamnesi familiare
riferite mute per patologie degne di nota. All’esame obiettivo si evidenziava soltanto un soffio sistolico 2/VI in parasternale sinistra
medio-bassa. La restante obiettività clinica era nella norma.
All’ECG: “Discordanza atrio-ventricolare e ventricolo-arteriosa. A
destra presenza di valvola AV tipo mitrale a impianto alto, connessa con ventricolo morfologicamente sinistro, a sua volta connesso
con arteria polmonare. A sinistra presenza di valvola AV tipo tricuspide, con insufficienza di grado moderato, connessa con ventricolo morfologicamente destro, connesso a sua volta con aorta, posta
anteriormente e a sinistra rispetto all’arteria polmonare. Atrio sinistro ingrandito. Ventricolo morfologicamente dx (sistemico) ipertrofico e trabecolato”. Veniva quindi posta diagnosi di trasposizione congenitamente corretta dei grossi vasi (L-TGA), associata a
insufficienza di grado moderato della valvola tricuspide posta a
sinistra. È stato inoltre eseguito Rx torace che ha evidenziato un
peduncolo vascolare sottile. A completamento diagnostico si consigliava ECG dinamico delle 24 ore. Il paziente veniva posto in terapia con vasodilatatori sistemici (ACE inibitori).
Discussione La L-TGA rappresenta meno dell’1% di tutte le cardiopatie congenite. Accanto alla discordanza atrio-ventricolare e
ventricolo-arteriosa nella maggior parte dei casi sono evidenziabili
difetti associati: in ordine di frequenza ritroviamo ampi DIV (80%),
stenosi polmonare valvolare e/o subvalvolare (50%), insufficienza
tricuspidale, disturbi della conduzione AV fino al blocco AV completo e tachiaritmie sopraventricolari. I sintomi, i reperti obiettivi,
l’evoluzione naturale e il trattamento dipendono quindi dalla severità e dalla natura dei difetti associati. I pazienti con L-TGA isolata
possono essere asintomatici fino all’età adulta. Tra i soggetti con
difetti associati, circa il 30% sviluppa una progressiva insufficienza
tricuspidale e dal 10% al 55% va incontro a blocco AV completo. La
terapia medica ha lo scopo di prevenire e trattare l’eventuale scompenso cardiaco e le tachiaritmie sopraventricolari. Inoltre viene consigliata la profilassi dell’endocardite batterica. La terapia chirurgica
si rende necessaria quando si sviluppa scompenso cardiaco intrattabile per progressiva disfunzione del ventricolo sinistro (morfologicamente destro). Esistono due possibilità correttive: il double switch, che consiste nell’invertire i ritorni venosi e la posizione dei grossi vasi arteriosi (procedura ad alto rischio) e il trapianto cardiaco
(considerato nella maggioranza dei casi di prima scelta). Nei casi di
blocco AV completo è indicato l’impianto di pacemaker. Il followup prevede controlli clinici e strumentali ogni sei-otto mesi. Il caso
clinico preso in esame pone l’attenzione su come questa cardiopatia
congenita così complessa sia rimasta silente per anni e sia stata diagnosticata occasionalmente solo in età adulta.
Un bernoccolo all’improvviso
S. Lega*, M. Rabusin**
*Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di
Trieste; **SC di Oncoematologia Pediatrica, IRCCS “Burlo
Garofolo”, Trieste
Una bambina di 5 anni viene inviata a visita presso il Servizio di
Oncoematologia Pediatrica per la comparsa improvvisa di una
tumefazione non dolente e a rapida crescita in regione pretibiale
sinistra. Non c’è storia di trauma maggiore. La bambina è per il
resto in buone condizioni generali e non vengono riferiti sintomi di
accompagnamento. All’esame obiettivo è evidente una tumefazione di circa 3 cm di diametro in regione pretibiale, di consistenza
dura, non dolorabile alla palpazione. La cute sovrastante è normale. Emocromo e indici di flogosi sono normali. L’ecografia vede
una lesione ovalare ipoecogena ma non è dirimente nel definire la
natura della massa; viene pertanto eseguita una risonanza magnetica nucleare (RMN) della gamba che descrive una massa sottocutanea, ben delimitata rispetto ai piani circostanti e, a sorpresa, un’area midollare iperintensa riferibile a edema midollare in corrispondenza della lesione. La massa viene asportata chirurgicamente e l’esame istopatologico pone diagnosi di Granuloma Annulare Sottocutaneo (GAS). Il GAS è una lesione infiammatoria benigna e autolimitantesi, con analogie di decorso e istologia con il granuloma annulare superficiale. La localizzazione pretibiale è tipica, così come
è tipica l’insorgenza in età prescolare. L’evoluzione è sempre verso
la risoluzione spontanea, anche se in tempi lunghi, e la ricorrenza è
possibile, anche in sedi diverse da quella primitiva. La comparsa
improvvisa della tumefazione e la rapida crescita possono porre,
come nel nostro caso, il problema della diagnosi differenziale con i
tumori maligni possibili a questa età (rabdomiosarcoma, neuroblastoma) ma l’assenza di segni di malattia sistemica e il riconoscimento delle tipicità del GAS (età e sede) orientano fortemente nella
diagnosi. L’origine del GAS non è nota; tra le possibili ipotesi trova
spazio quella del trauma, lieve e protratto, che funzionerebbe da
innesco per la risposta infiammatoria locale. Nel nostro caso, a posteriori, i genitori ci hanno raccontato che la bimba aveva da poco
ricevuto un triciclo e che spingendosi in avanti e puntando i piedi a
terra sbatteva continuamente le gambe contro i pedali. Questo dato,
anche se non può avere con certezza un nesso con la comparsa del
GAS (e d’altra parte non poteva nemmeno far escludere la malignità), ha potuto spiegare il reperto midollare alla RMN.
Bibliografia di riferimento
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possible mimicker of epithelioid sarcoma. Fetal Pediatr Pathol 2007;26(1):33-9.
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207
research letters
Quaderni acp 2014; 21(5)
Una varicella con finale a sorpresa
S. Mazzoni*, V. Mandese*, C. Cattelani*, P. Paolucci*°, L. Iughetti*°
*Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e
Reggio Emilia; °UO di Pediatria, Azienda Ospedaliera
Universitaria, Policlinico, Modena
XY, 3 anni e mezzo, presentava da due giorni febbre fino a 39 °C,
associata a esantema varicelliforme, trattato con paracetamolo e
antistaminico, e da un giorno tumefazione occipitale dx, iperemica
e dolente, in corrispondenza di una lesione da grattamento. Portato
in Pronto Soccorso (PS), il bambino aveva parametri vitali nella
norma, discrete condizioni generali, febbre. All’esame obiettivo si
evidenziavano croste e vescicole diffuse, tumefazione iperemica e
dolente in sede occipitale dx, associata a edema bilaterale del collo
con intensa iperemia cutanea sovrastante, dolente alla palpazione
lieve, deviazione del capo verso sx con linfadenopatia laterocervicale e retronucale. Gli esami ematici dimostravano neutrofilia relativa, rialzo degli indici di flogosi (PCR 5,71 mg/dl), assetto coagulativo lievemente alterato. Al bambino, ricoverato, veniva somministrata terapia antibiotica (ceftriaxone) e antinfiammatoria (ketorolac) ev, ma in seconda giornata si verificava un importante peggioramento del quadro locale e generale con iperpiressia e indici di
flogosi in marcato aumento (PCR 19,11 mg/dl). Nel sospetto di
fascite necrotizzante, in accordo con i colleghi ORL e l’infettivologo, si modificava la terapia ev con clindamicina, ampicillina + sulbactam e aciclovir e si eseguiva tomografia computerizzata (TC) al
collo con m.d.c., che evidenziava ispessimento e scollamento delle
fasce cervicali superficiale e prevertebrale dal lato di dx nelle logge
posteriori del collo, confermando il sospetto clinico. Si procedeva
quindi a intervento chirurgico immediato di cervicotomia bilaterale e a debridment chirurgico. L’analisi istologica mostrava linfonodi reattivi compatibili con infezione da varicella, mentre quella
microbiologica era negativa.
La terapia antibiotica combinata veniva protratta fino a cinque giorni dopo negativizzazione degli indici di flogosi, per un totale di
diciassette giorni. I controlli ORL seriati riscontravano regolare
evoluzione della ferita chirurgica. Si dimetteva XY dopo diciotto
giorni di degenza in buone condizioni generali. La fascite necrotizzante è una patologia grave e, se non trattata, rapidamente fatale,
caratterizzata da necrosi dei tessuti molli, delle fasce e della cute
sovrastante, che può portare a insufficienza multiorgano con shock
settico (0,4-0,5 casi su 100.000, mortalità del 20-34%). Generalmente si verifica in seguito a inoculo di un batterio attraverso
soluzioni di continuo della cute, determinando infezione profonda,
edema, occlusione vascolare e necrosi. Si distinguono due forme:
TIPO 1, secondaria a infezioni polimicrobiche da aerobi e anaerobi, e TIPO 2, secondaria a un’infezione da SBEGA (10% dei casi).
La sua incidenza in pazienti affetti da varicella è rara. Clinicamente
è caratterizzata da: febbre alta persistente, edema, eritema, dolore
sproporzionato a livello locale, pseudoparalisi e, nelle forme più
gravi, letargia, aspetto settico, ipotensione e tachicardia. La diagnosi è soprattutto clinica ed è generalmente tardiva, in quanto inizialmente i sintomi cutanei sono sfumati. Gli esami di laboratorio
evidenziano leucocitosi, acidosi metabolica, iperglicemia e incremento della creatinina, nelle forme avanzate. L’imaging può essere
di supporto e deve essere eseguito a conferma diagnostica, senza
però comportare un ritardo nell’iter terapeutico. È importante iniziare tempestivamente una terapia antibiotica empirica a largo spettro, associata a debridment chirurgico per impedire la necrosi
muscolare. La terapia deve essere proseguita fino alla scomparsa
dei segni di infiammazione (generalmente quattordici giorni). Nelle
forme di tipo 2, soprattutto nei pazienti più piccoli, può essere utile
208
la somministrazione di immunoglobuline ev. È stata riscontrata
un’associazione tra fascite necrotizzante e assunzione di FANS in
corso di varicella, forse legata al meccanismo di riduzione della
chemiotassi dei granulociti o al ritardo di diagnosi per attenuazione
dei sintomi da parte del farmaco. La fascite dev’essere sempre
sospettata in pazienti con varicella che presentano dolore sproporzionato alla lesione cutanea, febbre persistente e scadimento delle
condizioni generali.
Quando la ferritina è troppa
F. Savina*, T. Fedeli**, G.M. Ferrari***, C. Barboni***, F. Dell’Acqua***, M. Aricò°, P. Confalonieri°°, R.M. Gaini°°°, A. Sala▲,
C. Rizzari▲
*Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di
Parma; **UO di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale
FMBBM, Monza; ***Scuola di Specializzazione in Pediatria,
Università degli Studi di Milano-Bicocca, Monza; °Istituto Toscano
Tumori, Firenze; °°UO di Chirurgia Maxillo-Facciale, AO “San
Gerardo”, Monza; °°°UO di Otorinolaringoiatria, AO “San
Gerardo”, Monza; ▲ UO di Ematologia Pediatrica, Fondazione
MBBM, Ospedale “San Gerardo”, Monza
Case report Riportiamo il caso di N.E. che all’età di 23 giorni veniva ricoverata presso un altro Centro per febbre persistente, difficoltà alla suzione, calo ponderale e distensione addominale.
Nonostante la terapia antibiotica in atto si assisteva a un progressivo peggioramento delle condizioni cliniche e, a 42 giorni, la bambina presentava incremento della distensione addominale, iperpiressia ed epatopatia. Indagini microbiologiche e sierologiche sempre negative. La positività per Klebsiella pneumoniae all’urinocoltura induceva a modificare il trattamento in 45ª giornata con metronidazolo + meropenem. In 50ª giornata compariva pancitopenia
rapidamente progressiva (Hb 8,9 g/dl, GB 6110/mm3, con
N=917/mm3, PLT 10.000/mm3). Contestualmente si assisteva a un
ulteriore rapido peggioramento delle condizioni cliniche, associato
a peggioramento degli indici di funzionalità epatica, ipoalbuminemia (2,2 g/dl), ipertrigliceridemia (300 mg/dl) e a una gravissima
alterazione dell’assetto coagulativo (APTT 95, PT 131 sec, fibrinogeno 0 mg/dl). Nel sospetto di malattia emolinfoproliferativa, la lattante all’età di 51 giorni veniva trasferita presso l’Ospedale di
Monza dove, vista l’età, veniva contestualmente presa in carico dai
medici della TIN e dell’Ematologia Pediatrica. All’ingresso la piccola appariva cachettica, in condizioni generali critiche. Presentava
epatosplenomegalia all’OT e ascite. Necessitava di supporto ventilatorio e nutrizionale. Nel sospetto di sindrome da attivazione
macrofagica veniva effettuato dosaggio della ferritina, risultata
81.602 ng/ml. L’aspirato midollare mostrava assenza di megacariociti ma non ulteriori rilievi patologici. Veniva subito intrapresa terapia con desametasone (10 mg/m2/die) ed etoposide (150 mg/m2/sett).
Veniva effettuata indagine genetica, i cui risultati successivamente
avrebbero permesso di confermare definitivamente la diagnosi di
linfoistiocitosi emofagocitica familiare (HLH), sottotipo 5, da deficit di STXBP2.
Il trattamento risultava efficace, con progressiva riduzione dell’organomegalia, della pancitopenia e della febbre, sospensione del
supporto trasfusionale e riduzione della ferritina. Il quadro si complicava però a 61 giorni per comparsa di lesione necrotica destruente facciale da Aspergillus flavus, associata ad addensamento polmonare, che venivano trattati con amfotericina B liposomiale ev ad
alte dosi e due interventi di courettage chirurgico al volto. A 82
giorni si assisteva a ripresa di febbre e ricomparsa di pancitopenia
in corso di terapia; veniva pertanto intrapreso trattamento con desa-
research letters
Quaderni acp 2014; 21(5)
metasone (20 mg/m2/die) e siero antilinfocitario di coniglio
(rATG,5 mg/kg/die) per cinque giorni, con nuovo miglioramento
delle condizioni cliniche. Dopo due settimane dal termine del trattamento si assisteva a nuova ricomparsa di febbre, opistotono marcato e incremento del fabbisogno trasfusionale. Persistevano la polmonite e la lesione necrotica facciale da Aspergillus flavus, con
schisi palatale e impossibilità all’alimentazione. Nonostante tutti i
provvedimenti attuati si assisteva all’exitus della paziente per progressione della malattia all’età di 4 mesi e mezzo. L’ultimo valore
di ferritina disponibile era 620.486 ng/ml.
Commento La HLH è una sindrome caratterizzata da disregolazione della risposta immunitaria, con iperattivazione costituzionale di
linfociti T e macrofagi. Questa patologia presenta un’incidenza di
1:50.000 nati. Si distingono forme primarie, su base familiare, e
forme secondarie conseguenti a immunodeficienza, eventi infettivi
o neoplasie. Clinicamente possono comparire febbre, pancitopenia,
citolisi epatica, ipertrigliceridemia, coagulopatia, associate ad alterazioni neurologiche. La diagnosi si basa su criteri clinici e laboratoristici, spesso con alterazioni dei meccanismi immunologici che
regolano la risposta alle infezioni. Il trattamento iniziale consiste
essenzialmente nella somministrazione di alte dosi di desametasone e di farmaci immunosoppressivi, da intraprendersi assai precocemente, anche quando non sono completamente disponibili dati di
conferma diagnostica. L’HLH è infatti spesso da considerarsi una
vera e propria emergenza ematologica, vista l’alta mortalità iniziale dovuta alla rapida progressione della malattia. Nel 60% dei casi
si riscontrano figure di emofagocitosi all’aspirato midollare o in
altre sedi (SNC, milza, fegato, linfonodi). La conferma per le forme
familiari è data da una approfondita analisi genetica eseguibile in
centri specializzati, mentre le forme secondarie che rispondono al
trattamento immunosoppressivo, e non presentano alcuna riattivazione a distanza, possono guarire definitivamente nella maggior
parte dei casi. Le forme secondarie che non rispondono al trattamento iniziale (o che si riattivano a distanza di tempo) e le forme
familiari devono essere sottoposte, dopo la fase iniziale di immunosoppressione, a un trapianto di cellule staminali ematopoietiche
con guarigione quantificabile in circa il 50-60% dei casi.
Una bambina di 8 mesi con febbre di lunga
durata e vomito
Elisa Panontin, Massimo Maschio
Clinica Pediatrica, IRCCS “Burlo-Garofolo”, Trieste
Kristina, lattante di 8 mesi, è giunta alla nostra attenzione per una
febbre di lunga durata. La sua storia era iniziata una settimana
prima con la comparsa di febbre elevata, associata a qualche scarica diarroica. A distanza di quattro giorni dall’esordio della febbre è
stata diagnosticata un’infezione delle vie urinarie (con isolamento
all’urinocoltura di Escherichia coli con carica > 106) trattata con
ceftibutene senza però ottenere lo sfebbramento (ma nemmeno la
negativizzazione dell’esame urine) a distanza di 72 ore. È stata
dunque avviata una terapia antibiotica endovenosa con tobramicina, antibiotico al quale il germe isolato risultava sensibile, con
negativizzazione dell’urinocoltura ma persistenza della febbre. Per
escludere la presenza di una complicanza (ascesso renale/nefrite
lobare) è stata eseguita una risonanza magnetica nucleare (RMN)
dell’addome che è risultata completamente negativa. Nel frattempo
la bambina si manteneva in ottime condizioni generali ed era completamente asintomatica. Gli esami ematici mostravano una leucocitosi mista e una marcata elevazione della VES (120 mm/h) con
PCR mossa. A questo punto ci si trovava di fronte a una lattante con
febbre di lunga durata senza segno di localizzazione, per cui anda-
va dimenticata l’infezione delle vie urinarie e di conseguenza veniva avviato l’iter diagnostico della febbre “Senza Altra Indicazione”
(SAI). Nel frattempo però le condizioni generali della bambina
peggioravano: diventava progressivamente sempre più irritabile e
cominciava a vomitare. Non aveva altri segni di ipertensione endocranica e nemmeno una fontanella bombée, ma il quadro clinico era
molto suggestivo di un’infezione endocranica (ascesso cerebrale?).
Prima di eseguire la RMN dell’encefalo però è stata richiesta una
“banale” radiografia del torace che di per sé è risultata essere diagnostica: Kristina ha una tubercolosi miliare, ed essendo entrata nel
secondo settenario di malattia potrebbe avere anche una localizzazione cerebrale che spiegherebbe anche il vomito e lo scadimento
delle condizioni generali. La RMN dell’encefalo lo confermava:
leptomeningite alla base e tubercoli non caseificati sparsi alla giunzione tra sostanza bianca e sostanza grigia. Mentre venivano eseguiti Mantoux e Quantiferon veniva avviata anche la terapia antitubercolare con quattro farmaci (isoniazide, rifampicina, pirazinamide ed etambutolo) e da subito anche la terapia steroidea, come da
linee guida nella tubercolosi miliare con interessamento cerebrale.
Nel frattempo Mantoux e Quantiferon sono risultati entrambi positivi, ripetutamente negativa invece la ricerca diretta del bacillo di
Koch (BK) su aspirato ipofaringeo e gastrico.
La bambina ha origini serbe (entrambi i genitori) e dall’anamnesi è
poi emerso che vive con il nonno paterno che soffre di una tosse
cronica da sei mesi, con una radiografia che risulterà in un secondo
momento positiva per la presenza di caverne multiple, e con un
escreato positivo per BK. A distanza di due giorni dall’avvio della
terapia la bambina non ha presentato più episodi di vomito e dopo
dieci giorni si è completamente sfebbrata.
La tubercolosi non è più una malattia rara né “d’altri tempi” alle
nostre latitudini: con l’aumento in particolare dei flussi migratori
dai Paesi in via di sviluppo e dei livelli di povertà, è una malattia
che va pensata ed esclusa di fronte a una febbre non spiegata. Nella
maggior parte dei casi i bambini vengono infettati da un contatto
familiare. La forma miliare è più frequente nei bambini di età inferiore ai 5 anni e il coinvolgimento del sistema nervoso centrale si
ha nel 20-40% dei casi. Tale localizzazione si complica spesso con
idrocefalo e paralisi dei nervi cranici (dovuta all’organizzazione
dell’essudato che tipicamente si localizza alla base cranica), arterite cerebrale ed epilessia. La forma disseminata dà un’anergia nella
maggior parte di casi quindi una Mantoux o un Quantiferon negativi non devono indurre l’abbandono del sospetto diagnostico. La
terapia delle forme disseminate con coinvolgimento cerebrale prevede quattro farmaci antitubercolari e la durata, maggiore rispetto
alle altre forme, è di almeno nove-dodici mesi. Lo steroide riduce
mortalità e sequele neurologiche a lungo termine; lo schema più
usato prevede l’utilizzo del prednisone a 2 mg/kg diviso in due dosi
giornaliere, a dose piena per quattro-sei settimane, seguito da un
lento scalo. Questo caso è istruttivo perché ci ricorda di fare sempre le cose semplici all’inizio, come la radiografia del torace in una
febbre SAI che dura a lungo, anche con obiettività toracica negativa. È istruttivo anche perché una febbre lunga con un vomito di
sospetta origine centrale in un bambino proveniente da una zona a
rischio deve obbligatoriamente far pensare a una TBC disseminata
con coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
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mentale
Quaderni acp 2014; 21(5): 210-213
Rubrica a cura di Angelo Spataro
Problemi di salute mentale nell’infanzia
e nell’adolescenza: criticità nella pratica
e nella modalità di intervento
Roberto Sangermani
UOC di Pediatria, AO “San Carlo Borromeo”, Milano
Abstract
Mental health problems in childhood and adolescence: critical issues in practice
and in intervention methods
Every day paediatricians encounter in patients signs of discomforts due to mental
health problems. Services appointed to the safeguard of health are at the moment inadequate to address these problems. Paediatric visits during critical moments in childhood and adolescence are important in order to recognize problems, treat them during
the acute phase and facilitate transition to follow up care. The evidence of these current deficiencies in prevention and treatment of health problems should be seen as an
occasion to rethink and organize culturally and structurally the emergency care system
making it able to deal with these type of needs.
Quaderni acp 2014; 21(5): 210-213
Ogni giorno i pediatri incontrano sempre più frequentemente nella storia dei loro
pazienti segnali di malessere legati a problemi di salute mentale. Attualmente i servizi deputati alla salvaguardia della salute dell’infanzia e dell’adolescenza sono inadeguati ad affrontare questi problemi. La visita pediatrica nei momenti di maggiore vulnerabilità del bambino/adolescente è importante per riconoscere i problemi, trattarli
in acuto e favorire la transizione alle cure successive. L’evidenza delle attuali carenze nella prevenzione e nella cura dei problemi di salute mentale dovrebbe essere occasione per riorganizzare il sistema di emergenza e per adeguarlo culturalmente e strutturalmente ad affrontare questo tipo di problemi.
Disagio mentale
Ogni giorno i pediatri incontrano sempre
più frequentemente nella storia dei loro
pazienti i segnali del disagio del vivere
causati da problemi di salute mentale. A
volte clamorosi, più spesso mascherati
con sintomi di malessere fisico, essi sono
un problema globalmente diffuso, in deciso aumento e che non viene affrontato
adeguatamente dai sistemi sociali e sanitari. La Word Health Organization
(WHO) prevede che nel 2020 i problemi
di salute mentale saranno ai primi posti
tra le prime cinque cause di morbilità,
mortalità e disabilità [1-3].
Anche in Italia è esperienza comune di
operatori sanitari ed educatori, particolarmente negli ultimi anni, percepire
l’aumento di frequenza dei problemi di
salute mentale nei bambini e negli adolescenti. A fronte di questi dati che interessano tutto il mondo e che potremmo definire inquietanti non corrisponde un’adeguata capacità di presa in carico da parte
delle agenzie e dei servizi deputati alla
salvaguardia della salute dell’infanzia e
dell’adolescenza. Negli USA risulta che
solo il 36% del totale e il 40-50% dei casi
Per corrispondenza:
Roberto Sangermani
e-mail: [email protected]
210
gravi di bambini e adolescenti con problemi di salute mentale vengono presi in
cura [4].
In un numero sempre maggiore i problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza si presentano come crisi
psichiatrica acuta, spesso cogliendo i dipartimenti di emergenza e i pediatri non
preparati a un adeguato ed efficace intervento [5].
La crisi psichiatrica acuta
È una condizione di malessere che comporta un reale rischio per sé e per gli altri
e che, a seconda della gravità con cui si
presenta, necessita di una presa in carico
con modalità e tempi definiti, interventi
in emergenza o prese in carico in urgenza
(tabella 1) [6].
La situazione di emergenza è una rottura
dell’equilibrio personale e sociale, con
pericolo per l’integrità fisica e psichica
correlato alle capacità della famiglia e
dell’ambiente (società, servizi sanitari)
di gestire l’emergenza causata dal disagio e dalla sofferenza. Sono considerate
condizioni di emergenza quelle in cui il
peggioramento della sintomatologia non
è gestibile al di fuori di un ambiente contenitivo e in cui il paziente mette a
rischio se stesso e gli altri o mostra comportamenti distruttivi: più del 70% delle
crisi psichiatriche si presenta come una
di tali condizioni [5].
Le situazioni di urgenza sono un effettivo rischio per l’incolumità del paziente
tali da rendere necessario un trattamento
sanitario immediato in una struttura
con adeguate competenze neuropsichiatriche.
I problemi di salute mentale e la
situazione attuale nei Dipartimenti
di Emergenza pediatrica (DEp)
L’incremento dei problemi di salute
mentale ha ovviamente investito le competenze del pediatra. Negli ultimi anni, in
tutti i Paesi del mondo, il ricorso al DEp
per problemi di salute mentale è aumentato da 2 a 7 volte [7]. Uno studio multicentrico realizzato in ospedali pediatrici
USA ha stimato che bambini e adolescenti che si presentano per sintomi psichiatrici ai DEp rappresentano dallo 0,9
al 9,3% di tutti gli accessi [8].
Il dato di aumento di accessi ai DEp
legati a problemi di salute mentale è probabilmente sottostimato se si tiene conto
che, in frequenti occasioni, si presentano
bambini o adolescenti con più o meno
vaghi sintomi di sofferenza somatica che
in realtà sono (anche se spesso non riconosciute) manifestazioni psicosomatiche
legate a depressione, stress post-traumatico, ideazione suicida, maltrattamento
fisico e maltrattamento psicologico. In
Italia la maggior parte dei ricoveri psichiatrici in adolescenza avviene per
disturbi della condotta, abuso di sostanze
e alcol, gravi disturbi d’ansia e disturbi
del comportamento alimentare [9].
TABELLA
1: CLASSIFICAZIONE DI ROSEN
(1984) E RIADATTATA DA GAIL (2006)
EMERGENZA
Tentato suicidio
Agiti autolesivi
Stato confusionale acuto
Condizione di violenza acuta
Agitazione psicomotoria acuta
Grave abuso fisico
Trascuratezza estrema
Disturbi alimentari
con grave scadimento fisico
URGENZA
Angoscia intensa – Panico
Vittime di gravi traumi fisici o psichici
salute mentale
I dati 2012 del Gruppo di Approfondimento Tecnico sull’Acuzie Psichiatrica
in Lombardia ribadiscono sia il più che
significativo aumento dei problemi legati alle crisi psichiatriche acute in età evolutiva, sia la sostanziale “inadeguatezza”
del sistema sanitario a fornire adeguate
risposte [5].
In Lombardia, dal 2001 al 2008, i ricoveri ordinari per diagnosi psichiatrica sono
aumentati del 64% e nel 70% dei casi si
sono verificati in un contesto non appropriato. A Milano nello stesso periodo i
ricoveri sono aumenti di ben 3 volte e nel
30% dei casi sono avvenuti in condizioni
di urgenza; solo nel 20% dei casi i pazienti in età evolutiva sono stati ricoverati direttamente in reparti di Neuropsichiatria infantile (NPI) (tabella 2) [5].
Questi dati sottolineano l’inadeguatezza
delle risorse disponibili per affrontare in
modo appropriato i problemi neuropsichiatrici in età evolutiva, in particolare
quando si presentano in condizioni di criticità. La carenza di risorse per ricoveri
in strutture NPI (tabella 3) dimostra una
condizione di particolare insufficienza:
in Italia solo un terzo dei ricoveri avviene in strutture di cura adeguate [5,9].
In Lombardia solo il 2,5% della popolazione fino ai 15 anni di età e solo l’1,7%
degli adolescenti fino a 17 anni richiedono e ottengono accesso ai servizi di NPI.
Il dato di insufficienza nell’intervento è
ancora più “inquietante” se si considera
che tra gli adolescenti tra 15 e 17 anni è
atteso un aumento dei problemi di salute
mentale [5].
L’arrivo al DEp di un bambino/adolescente in crisi psichiatrica acuta è spesso
il primo contatto possibile con i servizi
che si occupano di salute mentale ed è
spesso anche la prima occasione di chiara evidenza del disturbo neuropsichiatrico. Un intervento adeguato in queste
situazioni ha un ruolo chiave nelle prospettive di cura dei problemi di salute
mentale [10].
Il momento della crisi con l’incontro
spesso drammatico tra il bambino, la sua
famiglia, il suo contesto di vita e l’ospedale è una irrinunciabile occasione (a
volte l’unica, a volte l’ultima) per attivare un progetto di cure e per modificare
anche radicalmente una storia clinica altrimenti con prognosi più severa [5].
Tra i numerosissimi accessi nel Pronto
Soccorso pediatrico, ci sono anche i
Quaderni acp 2014; 21(5)
TABELLA
2: ANDAMENTO DEI RICOVERI PER DIAGNOSI PSICHIATRICA A MILANO E IN
LOMBARDIA (2001-2008)
TABELLA
3: DISPONIBILITÀ DI POSTI LETTO PSICHIATRICI 0-18 ANNI
TABELLA
4: BARRIERE PRESENTI NEI SERVIZI DI EMERGENZA
Barriere all’assistenza dei problemi di salute mentale nel Dipartimento di Emergenza:
1) Mancanza di informazioni riguardo alle malattie psichiatriche pediatriche.
2) Limiti del setting DEA (della valutazione in urgenza) che influiscono sui tempi e la
completezza della valutazione.
3) Necessità di educare con training staff DEA nell’identificazione e trattamento dei
disturbi psichiatrici.
4) Mancanza o insufficienza di possibilità di accesso e ad efficace trattamento in
ricovero/outpatient ai servizi di salute mentale
* Pediatric and Adolescent Mental Health in the Emergency Services System. Pediatrics 2011
bambini/adolescenti con segnali di sofferenza neuropsichiatrica non acuta. La
capacità di riconoscere queste condizioni
rappresenta un possibile punto di partenza per un efficace intervento al fine di
evitare il rischio di cronicizzazione o di
possibile successiva crisi acuta.
Crisi psichiatrica acuta:
proposte per adeguare i DEp
L’evidenza delle attuali carenze nella
prevenzione e nella cura dei problemi di
salute mentale dovrebbe essere occasione per riorganizzare il sistema di emergenza e per adeguarlo culturalmente e
strutturalmente ad affrontare questo tipo
di problemi. Nella tabella 4 sono indicate le “barriere” presenti nel sistema dei
servizi medici di emergenza che secondo
il Committee on Pediatric Emergency
Medicine ostacolano un adeguato intervento [11].
1) Mancanza di informazioni riguardo alle malattie psichiatriche pediatriche o verso i problemi di salute
mentale
Numerosi studi di epidemiologia hanno
rilevato l’elevata incidenza di problemi
di salute mentale nei pazienti visitati nei
DEp generali e nei DEp per problemi
non psichiatrici.
211
salute mentale
I risultati di screening effettuati in DEp
in pazienti con sintomi non psichiatrici
indicano che in generale i problemi di
salute mentale emersi con lo screening
non vengono riconosciuti dai medici
curanti e dai medici del DEp: il 23% dei
bambini/adolescenti giunti al DEp con
sintomi non psichiatrici ha in realtà due o
più problemi di salute mentale e il 45%
un problema con limitazione del funzionamento psicosociale. Un livello significativo di stress psichiatrico al momento
della visita è presente nel 10% di essi
[11].
Ansia, depressione, sintomi da stress
post-traumatico, tentati suicidi o atti contro il sé corporeo, suicidi sono le condizioni più rilevanti che spesso non vengono riconosciute. Ansia è presente nel
33% dei pazienti e i sintomi maggiormente correlati risultano asma, cefalea,
assenze scolastiche e frequenti visite
mediche; il 20% presenta una depressione moderata o severa, il 32% alcuni gradi
di ideazione suicidaria. Gli adolescenti
depressi nel 42% dei casi non avvertono
né riconoscono i propri sintomi depressivi e, anche quando se ne rendono conto,
nel 50% dei casi non lo comunicano ai
genitori [11].
La condizione di stress post-traumatico
legata a vissuti drammatici acuti riguardanti la salute con timore per la salute
fisica o di morte (traumi gravi, ricoveri
in rianimazione ecc.) è ampiamente sottovalutata nella pratica corrente in DEp,
pur essendo spesso causa di sintomi psichiatrici persistenti.
I tentativi di suicidio, le autoaggressioni
al sé corporeo e il suicidio sono gli eventi più drammatici che coinvolgono l’adolescente, la famiglia, la società. Negli
USA il suicidio è la quarta causa di morte
nella popolazione tra i 10 e i 14 anni e la
terza causa di morte tra i 13 e 19 anni. Il
50% degli adolescenti tra 13 e 19 anni ha
occasionalmente pensieri di suicidio
[11].
Nonostante la grande preoccupazione
mediatica e sociale, il rischio del comportamento suicida nel maggior numero
dei casi non viene riconosciuto né dalla
famiglia, né dagli educatori, né nelle
occasioni di valutazione della salute da
parte dei medici.
Come noto, il tentato suicidio insieme
agli atti contro il sé corporeo presuppone
l’elevato rischio di agire altri tentativi di
212
Quaderni acp 2014; 21(5)
suicidio e il suicidio. Quindi riconoscere
l’ideazione suicidaria o il tentato suicidio
ha un cruciale valore nella prevenzione
della morte per suicidio.
In realtà risultano insufficienti le “risposte” dei servizi della salute a questo
drammatico problema. Il medico curante
non riconosce/individua il tentato suicidio in oltre l’80% dei casi. Meno del
50% degli adolescenti che sono stati visitati o ricoverati al DEp per riconosciuto
tentato suicidio è stato avviato a un’adeguata presa in carico. E anche quando
viene intrapreso un percorso di cura e
prevenzione l’aderenza da parte dell’adolescente è bassa, tanto che solo un
quinto riesce a ricevere l’intervento
necessario [11].
2) Limiti del setting nel Dipartimento
di Emergenza e Accettazione (DEA)
L’ambiente del DEp, così come è organizzato nella maggior parte delle situazioni, non rappresenta l’ambiente ideale
per accogliere i pazienti con crisi psichiatrica acuta o con altri sintomi di disagio psichico. Il setting è di per sé stressante e non dispone di un’area quieta e
della privacy necessaria in queste situazioni, tutte sensibili alle stimolazioni
negative quali confusione e incertezza
del percorso dell’intervento di assistenza. Inoltre, di solito, i tempi di attesa per
la visita sono prolungati. Nei DEp raramente è possibile avere consulenti NPI e
quindi, una volta definito il problema
come di natura neuropsichiatrica, la consultazione specialistica spesso è possibile solo dopo molte ore. Un’accoglienza
ottimale nei DEp di chi presenta problemi di salute mentale dovrebbe prevedere
uno spazio progettato ad hoc per la stabilizzazione e il trattamento.
3) Training dello staff operatori
del DEA
Per affrontare adeguatamente i problemi
di salute mentale è fondamentale avviare
un percorso di “detensionamento” che
consiste nel creare un clima adeguato e
una cultura assistenziale orientata anche
al problema neuropsichiatrico. Il triage
del DEp dev’essere progettato per riconoscere i disturbi mentali e stabilirne la
priorità di accesso in base alla gravità.
La competenza di medici e infermieri è
fondamentale per riuscire a creare il
clima di “detensionamento” e per la sicurezza del paziente e degli operatori.
La formazione specifica, sapere cosa
fare, nei confronti del disturbo psichiatrico acuto permette di potere dare risposte
adeguate e attente, riducendo l’inevitabile stress che spesso queste condizioni
procurano a tutto il personale di assistenza nel DEp. In particolare le competenze
per un intervento efficace sono necessarie nelle condizioni spesso imprevedibili
di adolescenti con comportamenti distruttivi, quali l’agitazione psicomotoria
e l’abuso di sostanze: in tali casi è necessario avviare un rapido percorso di stabilizzazione medica farmacologica per
alleviare i sintomi e aumentare la sicurezza del paziente e del personale e degli
altri pazienti.
4) Mancanza o insufficienza di possibilità di accesso ai servizi di salute
mentale e di efficace trattamento in
ricovero o come outpatient
La prevenzione e la cura dei problemi di
salute mentale rappresentano una grande
criticità, affrontata con risorse inadeguate, non solo nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). L’insufficiente
possibilità di accedere a un intervento in
Neuropsichiatria infantile (NPI) nel
momento della crisi psichiatrica e al successivo affidamento alle cure nei servizi
territoriali è in gran parte legata alla carenza di risorse di personale, e quelle attuali non permettono una pronta disponibilità, né in ospedale né sul territorio.
Tali difficoltà nell’affrontare questo percorso emergono anche nel 6° Rapporto di
aggiornamento sul monitoraggio della
Convenzione sui diritti dell’infanzia e adolescenza in Italia per l’anno 2012-2013,
con il riscontro di “numerose zone d’ombra” e di un progressivo abbattimento
delle risorse e carenza di attenzione per
gli interventi fondamentali atti a garantire un welfare a misura di bambini [9]. In
particolare viene definita non adeguata
l’assistenza neuropsichiatrica infantile:
“Sono insufficienti le risorse e la presa in
carico territoriale per i disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza. In Italia la patologia psichiatrica rimane quella maggiormente negletta, in particolare in adolescenza, sia nell’ambito della diagnosi
precoce sia in quello della gestione delle
emergenze” [9]. Né si può rinunciare a
salute mentale
denunciare che “nella attuale situazione
di crisi e di riduzione di risorse gli effetti sulla salute dei bambini e degli adolescenti, in particolare quelli stranieri, è
drammatica e necessita di pronti e appropriati interventi” [12].
Numerosi e anche recenti progetti hanno
indicato quali dovrebbero essere gli
interventi necessari per migliorare l’attuale insufficiente risposta delle strutture
sociosanitarie ai problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza. Gli
obiettivi prevedono la “formazione approfondita degli operatori dei servizi di
NPI, dei servizi ASL, delle UO Pediatriche, la strutturazione di gruppi di operatori competenti in tutte le UO di NPI,
la definizione di percorsi diagnosticiterapeutici condivisi, la sensibilizzazione
dei pediatri di libera scelta e degli operatori sanitari, scolastici ed educativi per
l’attivazione di interventi preventivi e
per l’invio precoce” [12].
Anche la Pediatria resta in attesa di risposte istituzionali, della società e dell’organizzazione sanitaria nazionale, regionale e locale alle persistenti criticità
nella pratica e nella modalità di intervento in presenza di problemi di salute mentale e in particolare nelle situazioni di
crisi psichiatrica acuta. u
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www.quotidianosanità.it 03/01/1914.
DNA E PLACENTA
A proposito degli embrioni scambiati
a Roma e di chi sia figlio il bambino,
il prof. Alberto Piazza, dello Human
Genetics Foundation, fa notare che è
ben vero che la genetica è importante nell’assegnare i gemelli ai genitori
biologici, giudicando di fatto la
madre che li partorisce una madre
surrogata o un utero in affitto, ma ci
sono molti però. Piazza afferma che
certamente la formazione dei neuroni
dipende dal DNA ma le loro connessioni sono determinate dall’ambiente
endouterino come poi lo saranno da
quello extrauterino. E non c’è dubbio
che l’ambiente endouterino non è un
fatto riferibile al DNA delle cellule
impiantate ma da ciò che la madre
“suggerisce” al figlio. Il professore
aggiunge che “il DNA è un canovaccio in cui ognuno scrive la sua storia”.
(La Stampa 31 luglio 2014)
DALLA MADRE AL NEONATO
SI TRASMETTONO PAURE E FOBIE
Ancor prima di fare esperienze proprie, i neonati possono acquisire fobie e paure sviluppate dalla madre a
causa di traumi vissuti prima della
loro nascita. Lo rivela una ricerca sui
topi, secondo la quale i segnali olfattivi trasmessi dalla madre, quando è
in presenza dello stimolo che scatena
la paura, attivano così fortemente l’amigdala del neonato da imprimere
una diffidenza permanente nei confronti di quello stimolo.
A dimostrare un fenomeno che ha
lasciato a lungo perplessi gli psicologi – sono due ricercatori della New
York University School of Medicine e
dell’Università del Michigan ad Ann
Arbour, che firmano un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences.
“Le esperienze delle madri sono ricavate dalle espressioni materne di
paura. Questi ricordi materni trasmessi sono di lunga durata, mentre
altri tipi di apprendimento infantile,
se non rinforzati dalla ripetizione,
svaniscono rapidamente”, dice Jacek
Debiec, uno degli Autori dello studio,
che indica nei segnali olfattivi il meccanismo di trasmissione di tali paure.
(Newsletter, Le Scienze 30 luglio
2014)
213
Quaderni acp 2014; 21(5): 214-217
Meta-analisi sulla legatura del PDA: gli studi disponibili
sono sufficienti a guidare la scelta clinica?
Manuela Condò
Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Ospedale Manzoni, Lecco
Recensione dell’articolo: Weisz DE, More K, McNamara PJ, Shah P. PDA ligation and health outcomes: a meta-analysis. Pediatrics
2014;133:e1024-46.
Abstract
Meta-analysis on PDA ligation: are the available studies sufficient for an appropriate clinical choice?
The therapeutic strategy for patent ductus arteriosus (PDA) ligation in premature
infants is still under discussion. Weisz et al. have carried out a systematic review and
meta-analysis on the efficacy of PDA ligation compared to medical therapy. The study
population consisted of premature infants <32 weeks’ gestation with a clinical and/or
cardiovascular ultrasound diagnosis of PDA. The impact of PDA ligation in terms of
mortality, neonatal severe morbidity and neurodevelopmental impairments (NDI) in
early childhood was evaluated. One randomized controlled trial (RCT) and 39 cohort
studies were included, most of which had a moderate risk of bias, because of the failure to adjust for survival and important preligation confounders. The meta-analysis
was performed using the random-effect model, due to the heterogeneity among the studies. The results of the meta-analysis showed that PDA ligation, compared to medical
treatment, was associated with a reduced mortality (aOR: 0.54; 95% CI: 0.38-0.77);
no difference for combined mortality or NDI in early childhood (aOR: 0.95; 95% CI:
0.58-1.57 ) was found; PDA ligation was also associated with increased chronic lung
disease (CLD) (aOR: 2.51; 95% CI: 1.98-3.18), severe retinopathy of prematurity
(ROP) (aOR: 2.23; 95% CI: 1.62-3.08) and NDI (aOR: 1.54; 95% CI: 1.01-2.33). The
meta-analysis is burdened by numerous methodological biases and its results confirm
the difficulty for clinicians to identify the best treatment choice for PDA ligation in
premature infants.
Quaderni acp 2014; 21(5): 214-217
La strategia terapeutica di chiusura del dotto arterioso pervio (PDA) nei neonati prematuri costituisce ancora oggetto di discussione. Weisz e coll. hanno effettuato una
revisione sistematica e meta-analisi sull’efficacia della legatura del PDA rispetto alla
terapia medica. La popolazione studiata comprendeva neonati prematuri <32 settimane di gestazione con diagnosi clinica e/o ecocardiografica di PDA, nei quali è stato
valutato l’impatto della legatura del PDA in termini di mortalità, morbosità neonatale grave e deficit di sviluppo neuroevolutivo (NDI) nella prima infanzia. Sono stati
inclusi un trial randomizzato controllato (RCT) e 39 studi di coorte, la maggior parte
dei quali presentava un rischio moderato di bias, per il mancato aggiustamento per
sopravvivenza e importanti confondenti pre-trattamento chirurgico. La meta-analisi è
stata eseguita con il modello ‘a effetti casuali’, vista l’eterogeneità tra gli studi. I
risultati della meta-analisi hanno evidenziato che la legatura del PDA, rispetto al trattamento medico, si associa a ridotta mortalità (OR: 0,54; IC 95%: 0,38-0,77), senza
però differenza nell’esito combinato mortalità o NDI nella prima infanzia (OR: 0,95;
IC 95%: 0,58-1,57); la legatura del PDA si associa altresì ad aumento della malattia
polmonare cronica (CLD) (OR: 2,51; IC 95%: 1,98-3,18), della retinopatia del pretermine (ROP) di grado elevato (OR: 2,23; IC 95%: 1,62-3,08) e dell’NDI (OR: 1,54;
IC 95%: 1,01-2,33). La meta-analisi è gravata da numerosi bias metodologici e i suoi
risultati confermano la difficoltà per i clinici di individuare la scelta terapeutica più
adatta alla chiusura del PDA nei neonati prematuri.
Per corrispondenza:
Manuela Condò
e-mail: [email protected]
214
Introduzione
Il trattamento del dotto arterioso pervio
(PDA) nei neonati prematuri è ancora
ampiamente oggetto di dibattito. L’interesse dei neonatologi per il PDA è legato
all’elevata mortalità e morbosità a esso
associata, in particolare nei neonati con
peso neonatale molto basso (VLBW
<1500 g di peso alla nascita) o molto pretermine (VPI <32 settimane di età gestazionale); lo shunt sin-dx attraverso il
dotto arterioso è causa sia di ridotto flusso ematico sistemico, con rischio aumentato di emorragia intraventricolare
(IVH), insufficienza renale ed enterocolite necrotizzante (NEC), che di iperafflusso polmonare, con rischio di emorragia polmonare, broncodisplasia (BPD) e
aumento della durata della ventilazione
meccanica [1].
La variabilità nella gestione del PDA dipende innanzitutto dalla definizione diagnostica, in quanto si utilizzano comunemente termini come ‘PDA sintomatico’ e
‘PDA emodinamicamente significativo’,
che prevedono differenti criteri clinici ed
ecocardiografici.
Le difficoltà sulla scelta terapeutica
riguardano in primis l’opportunità o
meno di trattare il dotto, sia perché non
vi è ancora evidenza che il trattamento
migliori gli esiti a lungo termine, sia per
il rischio di esporre inutilmente il paziente agli effetti collaterali della terapia [2].
La profilassi del PDA con indometacina,
cioè la somministrazione di questo farmaco a tutti i neonati grandi pretermine o
di peso molto basso, riduce l’incidenza
di PDA, di IVH di 3° e 4° grado e il
rischio di legatura del PDA, ma non gli
esiti neurosensoriali a 18 mesi di vita [3].
Anche la profilassi con ibuprofene non si
associa a riduzione della mortalità o di
BPD [4]. L’indicazione al trattamento
viene posta più comunemente nei prema-
telescopio
turi con segni clinici di PDA o in fase
pre-sintomatica, utilizzando criteri clinico-ecocardiografici [5].
La variabilità riguarda anche le modalità
di trattamento del PDA, con possibilità
di terapia conservativa (restrizione dei
liquidi, diuretici, strategie ventilatorie),
di utilizzo di FANS (indometacina, ibuprofene) o del più recente paracetamolo e
infine della legatura chirurgica. Le terapie mediche possono prevedere differenti posologie e durate di trattamento.
Per quanto riguarda la legatura del PDA,
è pratica comune utilizzarla come terapia
‘rescue’, in caso di fallimento o inapplicabilità della terapia medica, per la morbosità a essa correlata, tra cui pneumotorace, alterata performance miocardica,
retinopatia del pretermine (ROP), malattia polmonare cronica (CLD), deficit
neuroevolutivo (NDI) [6].
Da tutto ciò deriva la difficoltà per i clinici di orientarsi in merito alla migliore
scelta terapeutica. Vi sono anche dei limiti a eseguire meta-analisi su tale tematica, stante la paucità di studi randomizzati controllati (RCT) e l’eterogeneità
degli studi osservazionali disponibili.
Risultati dello studio
Lo studio di Weisz e coll. è innanzitutto
una revisione sistematica, a cui segue
una meta-analisi, per quanto nel titolo ci
si riferisca solo a quest’ultima [6].
L’oggetto di tale studio era la valutazione dell’impatto della legatura del PDA
nei neonati prematuri, in termini di
rischio di mortalità, patologie neonatali
gravi e NDI nella prima infanzia. La
categoria di prematuri studiati comprendeva neonati <32 settimane di gestazione
almeno per l’80% della popolazione in
esame, con diagnosi clinica e/o ecocardiografica di PDA. Tali criteri d’inclusione sono già indicativi di eterogeneità
tra gli studi.
Gli studi dovevano comprendere tra gli
esiti almeno uno tra i seguenti: mortalità
prima della dimissione, CLD, ROP grave
(stadio 2 plus richiedente trattamento o
≥ 3), NDI nella prima infanzia (a 15-48
mesi di età corretta), esito combinato di
mortalità o NDI nella prima infanzia,
deficit cognitivo e paralisi cerebrale.
Nella revisione sistematica sono stati inclusi 40 studi, di cui 39 di coorte e solo
Quaderni acp 2014; 21(5)
TABELLA
1: RISULTATI DELLA META-ANALISI
Esito
OR
IC 95%
I2
Mortalità
0,54
0,38-0,77
39%
Mortalità o NDI prima infanzia
0,95
0,58-1,57
71%
CLD
2,51
1,98-3,18
44%
ROP severa
2,23
1,62-3,08
37%
NDI prima infanzia
1,54
1,01-2,33
48%
Paralisi cerebrale
1,51
0,86-2,63
00%
Disturbo cognitivo*
1,96
1,14-3,37
-
* Un solo studio
un RCT. Trattandosi per lo più di studi
osservazionali, il rischio di bias è potenzialmente elevato; la valutazione del
rischio di bias è stata effettuata tramite la
Newcastle-Ottawa Scale per gli studi osservazionali e la Cochrane Risk of Bias
tool per l’RCT. I rischi di bias individuati erano dovuti al mancato aggiustamento per la sopravvivenza e per alcuni
confondenti post-natali pre-legatura del
PDA, tra cui l’IVH, la dipendenza ventilatoria e la sepsi.
Gli Autori hanno poi eseguito una metaanalisi, utilizzando un modello ‘a effetti
casuali’, e hanno combinato separatamente i dati corretti e i dati grezzi; le differenze tra i vari gruppi sono state riportate come odds ratio corretti (OR) con
intervalli di confidenza (IC) al 95%.
L’eterogeneità è stata valutata tramite
l’I2 statistico ed è considerata significativa per I2 > 50%.
Nella meta-analisi, dal confronto tra i
gruppi e i sottogruppi di trattamento
(legatura del PDA, terapia medica, terapia conservativa, FANS, FANS + legatura del PDA), i risultati dell’analisi univariata e multivariata hanno evidenziato
una ridotta mortalità per il gruppo sottoposto a legatura del PDA, mentre è emerso un aumentato rischio per i restanti
esiti (CLD, ROP severa, NDI nella prima
infanzia, danno cognitivo); nessuna differenza è stata riscontrata per l’esito
combinato mortalità o NDI nella prima
infanzia, né per la paralisi cerebrale
(tabella 1).
La conclusione degli Autori è che la metaanalisi offre indicazioni a migliorare l’evidenza disponibile per orientare i clinici
rispetto alla legatura del PDA. Allo stesso
tempo mette in evidenza le difficoltà dei
neonatologi quando si tratta di prendere in
considerazione l’intervento chirurgico.
Infatti l’associazione di tale modalità terapeutica con una ridotta mortalità è gravata
da numerosi bias metodologici. Tale esito
emerge principalmente da studi osservazionali, che non tengono conto in modo
adeguato dei bias di sopravvivenza e del
confondimento da indicazione e che utilizzano differenti definizioni di PDA emodinamicamente significativo, come detto in
precedenza. Gli Autori esprimono quindi
la necessità di effettuare RCT, che però
sarebbero caratterizzati da una ridotta
validità esterna a causa della variabilità
nelle procedure nei vari centri, ma soprattutto studi osservazionali che prendano in
considerazione le possibili covariate prelegatura del PDA.
Valutazione metodologica
dello studio
L’obiettivo della revisione sistematica e
della meta-analisi è ben definito; viene
infatti valutato l’impatto della legatura
del PDA nei neonati <32 settimane di
gestazione sul rischio di mortalità, morbosità neonatale grave e NDI nella prima
infanzia.
Tale obiettivo risulta clinicamente rilevante. I neonatologi infatti si trovano di
fronte a un’innumerevole quantità di studi che considerano differenti opzioni
terapeutiche per la chiusura del PDA nei
neonati prematuri e che giungono a risultati talora contrastanti.
La ricerca degli studi sembra essere stata
condotta in modo esaustivo, dato anche il
215
telescopio
ricorso al Cochrane Central Register of
Controlled Trials [7]. I dati sono stati
estratti da due ricercatori indipendenti.
I criteri d’inclusione degli studi appaiono
ragionevoli e coerenti rispetto all’obiettivo prefissato. In particolare è stata presa
in considerazione una categoria ristretta
di neonati prematuri (<32 settimane di
gestazione almeno per l’80% dei neonati
studiati), a differenza di altre revisioni
sistematiche [8]. Per la diagnosi di PDA
sono stati utilizzati criteri clinici e/o ecocardiografici, il che, comunque, conferma la variabilità della gestione clinica
riguardante il PDA ed è anche un primo
elemento di possibile eterogeneità tra gli
studi selezionati.
Per quanto riguarda l’esposizione, gli
studi dovevano confrontare almeno un
gruppo o sottogruppo di trattamento chirurgico con uno di terapia medica; i sottogruppi chirurgici comprendevano quello della ‘terapia medica e legatura’ (terapia medica seguita da intervento chirurgico) e quello della ‘legatura primaria’
(chirurgia senza precedente terapia medica); dei sottogruppi medici facevano
parte quello della ‘sola farmaco-terapia’
(FANS, paracetamolo) e quello della
‘terapia conservativa’ (assenza di terapia
farmacologica o chirurgica). La terapia
chirurgica consisteva in una toracotomia
laterale sinistra, con applicazione di una
clip o legatura del PDA, eseguita al letto
del paziente o in sala operatoria, entro 40
settimane di età gestazionale corretta.
Anche dalla tipologia e numerosità dei
sottogruppi di confronto emerge l’estrema eterogeneità degli studi disponibili in
letteratura sul trattamento del PDA; in
particolare le caratteristiche di base della
popolazione del gruppo della terapia chirurgica e di quello della terapia medica
sono molto diverse (età gestazionale e
peso neonatale più bassi nei trattati chirurgicamente).
Tra gli esiti, gli studi dovevano comprenderne almeno uno tra mortalità prima
della dimissione, CLD, ROP grave, NDI
nella prima infanzia, esito combinato di
mortalità o NDI nella prima infanzia,
deficit cognitivo e paralisi cerebrale. La
completezza del follow-up per gli studi
di coorte è stata ritenuta accettabile se la
percentuale di bambini controllati era
≥ 90% per gli esiti neonatali e ≥ 75% per
216
Quaderni acp 2014; 21(5)
COSA
CI DICONO I RISULTATI DI QUESTO STUDIO
− Non sempre le meta-analisi sono informative e necessarie; dipende dal modo con
cui i vari studi hanno affrontato l’argomento.
− La valutazione se effettuare o meno la legatura del dotto si basa più su considerazioni cliniche, variabili da caso a caso, che su evidenze ricavate da RCT o da
studi osservazionali ben condotti.
CONFONDIMENTO,
CONFONDIMENTO DA INDICAZIONE ED ETEROGENEITÀ
− Si parla di “confondimento” quando una variabile si associa sia ai fattori di esposizione che agli esiti. Ne può risultare un’apparente associazione tra variabili o,
meno frequentemente, la mancata evidenza di una reale associazione.
− Nel “confondimento da indicazione” si attribuiscono al trattamento gli effetti
dovuti al motivo per cui il trattamento viene effettuato.
− La “eterogeneità” indica il grado di diversità tra gli studi inclusi in una meta-analisi. L’I2 o indice di Higgins esprime la percentuale di varianza dovuta alla reale
eterogeneità tra gli studi e non al caso; è significativa se > 50%.
gli esiti neurologici; è stata accettata una
percentuale ≥ 70% per gli esiti neurologici, qualora i bambini persi al follow-up
fossero stati descritti accuratamente e
non fossero emerse differenze sostanziali rispetto alla coorte dei bambini controllati.
Per la meta-analisi sono stati ritenuti
eleggibili 40 studi, di cui 39 di coorte e
un solo RCT, nonostante una meta-analisi dovrebbe idealmente utilizzare per lo
più RCT per avere risultati qualitativamente elevati, perché poco influenzati da
bias [7].
Il numero dei trial e la numerosità totale
dei pazienti degli studi inclusi (32.345
prematuri) sono risultati elevati e hanno
quindi consentito una buona precisione
dei risultati della meta-analisi.
Per quanto riguarda le caratteristiche
degli studi inclusi, dei 39 studi osservazionali, 28 avevano eseguito il confronto
tra gruppi di trattamento senza aggiustamento per le covariate, mentre 11 avevano effettuato analisi multivariate. La
maggior parte degli studi di coorte presentava un rischio di bias lieve-moderato, mentre per quelli con confronti univariati il rischio di bias è risultato medioalto, per la presenza di importanti differenze perinatali tra i due gruppi di trattamento. Nessuno studio di coorte ha valutato il rischio di bias di sopravvivenza.
L’unico RCT incluso nella meta-analisi è
il vecchio studio di Cotton e coll. del
1978, che presentava un rischio di bias
lieve-moderato e non descriveva le
modalità di randomizzazione, né i metodi utilizzati per la valutazione in cieco
degli esiti [9]. Tale studio era stato peraltro escluso dalla revisione sistematica
della Cochrane sopracitata, perché prevedeva il confronto tra la chiusura chirurgica del PDA e la sola terapia conservativa, senza terapia farmacologica.
La meta-analisi è stata condotta combinando separatamente i dati corretti e
grezzi, utilizzando il modello ‘a effetti
casuali’; questo modello statistico, a differenza di quello ‘a effetti fissi’, viene
utilizzato in presenza di significativa eterogeneità tra i risultati degli studi [7].
L’eterogeneità è stata valutata ed espressa tramite l’I2 statistico, con significatività per I2 >50%. Il confronto tra i gruppi terapeutici è stato effettuato tramite gli
OR con IC al 95%, poi riportati su una
scala logaritmica per la rappresentazione
grafica della meta-analisi.
La ridotta mortalità e l’aumento di NDI
possono essere almeno in parte spiegati
con la presenza di alcuni bias, tra i quali
vanno citati la legatura del PDA come
terapia ‘rescue’ (terapia chirurgica dopo
il fallimento della terapia medica) e il
bias di sopravvivenza, in quanto i neonati devono essere sopravvissuti alla terapia medica per giungere a quella chirurgica. Vi è poi il confondimento da indicazione, perché la morbosità pre-legatu-
telescopio
ra, fattore di rischio per l’NDI, può essere stata più elevata nei neonati sottoposti
a intervento.
Per tutti questi problemi metodologici si
può concludere che i risultati della metaanalisi non possono essere considerati
abbastanza robusti per ricavarne delle
indicazioni terapeutiche univoche.
Problemi aperti e conclusioni
Studiare le strategie terapeutiche del
PDA è clinicamente rilevante per l’elevata incidenza del PDA nei neonati prematuri (36,2% nei grandi prematuri ricoverati nelle TIN italiane), e per i rischi di
mortalità e morbosità a esso associati
[10].
Dalla revisione sistematica con metaanalisi presa in esame emerge che la legatura del PDA si associa a ridotta mortalità rispetto alla terapia medica e ad
aumentato rischio di CLD, ROP grave,
NDI nella prima infanzia e danno cognitivo, mentre non vi è differenza nell’esito combinato mortalità o NDI nella prima infanzia. L’individuazione di importanti bias metodologici (disponibilità di
studi per lo più osservazionali con eterogeneità statistica lieve-moderata, scarsità
di analisi multivariate, inadeguata attenzione ai bias di sopravvivenza e al
confondimento da indicazione) rende
però discutibile l’opportunità di eseguire
una meta-analisi. D’altra parte gli Autori
illustrano approfonditamente tali limitazioni, offrendo ai clinici, a loro parere, la
possibilità di una valutazione più critica
e consapevole dei risultati degli studi
Quaderni acp 2014; 21(5)
attualmente disponibili sulla legatura del
PDA.
Emerge infine l’importanza di eseguire
nuovi trial e studi osservazionali con un
disegno metodologico che tenga conto
delle criticità rilevate. u
Bibliografia
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Neonatali partecipanti all’Italian Neonatal Network
nel 2008. Rapporti ISTISAN 2012.
INDOOR
TANNING
L’indoor tanning (IT) è la esposizione a un lettuccio con tanning, o ad
altri strumenti che utilizzano a
scopo cosmetico radiazioni ultraviolette (97% UVA e 3% UVB). È ben
noto che la cute può essere danneggiata e vedere così l’insorgere del
cancro particolarmente nei giovani:
Il rischio di melanoma sembra
accertato.
Una lettera a The Lancet (2014;
384:131-2) riporta che circa il
20% dei teenagers usa l’IT e riferisce di una indagine che ha raccolto, con una interfaccia di Twitter, i
tweets sull’argomento IT in due settimane della primavera 2013. Sono
stati individuati 154.496 tweet (7,7
per minuto), lanciati da 120.000
persone con la potenzialità di raggiungerne 120.000.000. Una percentuale molto modesta (2,5%) si
riferiva ai rischi associati all’IT; il
costo era molto trascurato (0,46%).
Gli Autori sottolineano due dati:
– la diffusione dell’interesse per
l’IT;
– la possibilità di utilizzare i social
network come strumento di educazione sanitaria sia per l’invio
di messaggi salutari che per la
prevenzione di messaggi pericolosi.
ADDIO AL RICAMBIO
GENERAZIONALE IN SANITÀ
È approdata, sulla Gazzetta Ufficiale
del 18 agosto, la Legge sulla riforma
della pubblica amministrazione. Per
ciò che riguarda il personale, e in
particolare quello delle aziende sanitarie, gli articoli 1e 2 riguardano il
cosiddetto “ricambio generazionale”.
Contrariamente ai primi testi proposti, rimane il trattenimento in servizio,
fino ai 70 anni, dei dirigenti sanitari.
Questo è in contraddizione con le
regole di tutto il restante personale
del pubblico impiego.
217
Quaderni acp 2014; 21(5): 218-219
Unioni tra consanguinei:
vantaggi di ieri, svantaggi di oggi
Enrico Valletta
Dipartimento Materno-Infantile, AUSL della Romagna, Forlì
“Inoltre essa è veramente mia sorella,
figlia di mio padre,
ma non figlia di mia madre,
ed è divenuta mia moglie”.
Genesi 20,12 (CEI)
Può accadere che un’osservazione clinica porti a connessioni con scienze umane
diverse dalla medicina e che queste, a
loro volta, possano suggerire chiavi
interpretative e linee di intervento per la
sanità pubblica. Prendiamo lo spunto da
uno studio britannico che intendeva chiarire le cause dell’elevata frequenza di
malformazioni congenite e di mortalità
infantile nella popolazione immigrata di
origine pakistana [1]. Nel Distretto di
Bradford (UK), il rischio di malformazioni (305/10.000 nativi vivi) risultava
quasi doppio rispetto al resto del Paese e
doppio (RR 1,96) era anche il rischio per
i neonati di etnia pakistana rispetto a
quelli di origine britannica. Il 18% dei
neonati esaminati proveniva da coppie
formate da primi cugini e il 95% di loro
era di origine pakistana. La consanguineità dei genitori raddoppiava (RR 2,19)
il rischio di malformazioni congenite e il
31% delle malformazioni in bambini
pakistani era attribuibile alla consanguineità dei genitori. Un’osservazione su un
tema non del tutto ignoto, ma che pone
un evidente problema di sanità pubblica
e individuale. Meno scontati sono i modi
per affrontare la questione, e una visione
più allargata aiuta a comprendere la complessità del fenomeno.
Le unioni tra consanguinei
nel mondo
Nei Paesi occidentali le unioni tra consanguinei (inbreeding) sono un evento
raro e siamo portati a ritenere che sia così
dappertutto. Rischiamo di non vedere
quello che accade intorno (e, oggi, anche
dentro) al nostro sistema sociale. Circa il
10% (500-800 milioni) della popolazione mondiale ha genitori consanguinei e
nei Paesi Arabi e del Medio Oriente fino
al 60% (ma anche l’80% in alcune regio-
ni dell’Arabia Saudita) di tutti i matrimoni sono tra consanguinei (tabella 1). Il
75% delle unioni è tra primi cugini, ma
sono comuni anche quelle tra secondi
cugini o con gradi inferiori di parentela
[2]. Il dato geografico si sovrappone alla
diffusione territoriale delle religioni islamica e induista, con minime partecipazioni di piccole comunità cristiane ed
ebraiche nel Sud-Est asiatico [3]. Le motivazioni, tuttavia, non sono solo religiose ma anche culturali, sociali, economiche e ancor più relative a comportamenti
volti alla preservazione di caratteri genetici premianti in popolazioni sottoposte a
un’elevata pressione selettiva ambientale.
L’Islam, pur non incoraggiandole, consente le unioni tra consanguinei e il profeta Maometto stesso unì in matrimonio
due suoi consanguinei e diede in moglie
la propria figlia ad Ali, figlio di suo zio
[3-4]. In realtà questa usanza ha radici
culturali nella civiltà araba pre-islamica
nella quale il matrimonio tra cugini era
incoraggiato per motivi sociali (la donna
è già parte della famiglia e può sperare in
un migliore trattamento, contrarre il
matrimonio nella cerchia familiare è più
agevole) ed economici (dote e proprietà
sono mantenute all’interno dell’ambito
familiare). Una civiltà essenzialmente
rurale, le forti connotazioni tribali, l’isolamento geografico e un basso livello
socio-culturale hanno contribuito a mantenere inalterata nel corso dei secoli questa tradizione.
Tuttavia, seppure fortemente radicate, le
motivazioni religiose e sociali non appaiono sufficienti a spiegare un fenomeno
le cui ragioni ultime vanno cercate piuttosto nella biologia evoluzionistica [5-6].
Gli svantaggi della riproduzione tra consanguinei (depressione da inbreeding)
sono ben noti: il rischio di malformazioni congenite è raddoppiato (4%) rispetto
alle unioni non-consanguinee, così come
più elevati sono la probabilità di trasmettere mutazioni recessive sfavorevoli e il
rischio di generare omozigoti ammalati
(incremento della mortalità). Nonostante
questo, in regioni del mondo sottoposte a
una forte pressione selettiva da parte di
specifiche malattie endemiche, l’inbreeding ha offerto importanti vantaggi per le
popolazioni residenti. L’esempio più immediato è la maggiore resistenza nei confronti della malaria negli eterozigoti e,
ancor più negli omozigoti, per α-Talassemia. In una situazione ambientale di questo tipo, la sopravvivenza di una comunità è evidentemente legata alla persistenza dell’allele α+-Talassemia nei suoi
componenti [6]. Le unioni tra consanguinei garantiscono la massima circolazione
del gene e, quindi, la sopravvivenza della
specie. Ragionamento simile vale per il
gene dell’emoglobina S, anch’esso protettivo nei confronti della malaria: l’inbreeding consente la persistenza dell’eterozigosi AS nella popolazione a prezzo
dell’eliminazione di un certo numero di
soggetti omozigoti SS a elevata mortalità. Se il bilancio tra protezione offerta
dall’eterozigosi AS e mortalità dovuta
all’omozigosi SS è positivo, la procreazione tra consanguinei risulterà comunque una scelta vincente [5]. Non secondariamente, le coppie consanguinee sono
più fertili, forse per una migliore compatibilità genetica materno-fetale o anche
per un meccanismo di compenso rispetto
alla maggiore mortalità legata alle malattie congenite.
L’inbreeding oggi:
rischi e opportunità
Solo recentemente il mondo arabo ha iniziato a guardare all’inbreeding con interesse scientifico e a studiarne le implicazioni attuali e future per la propria salute
[2-4,7]. Emerge la consapevolezza che le
unioni tra consanguinei – che il progresso economico e sociale rendono oggi
evoluzionisticamente meno indispensabili per la sopravvivenza delle comunità – rappresenta un pesante retaggio
culturale con importanti conseguenze
negative dal punto di vista sanitario.
L’inevitabile incremento delle malattie
genetiche su base autosomica recessiva è
Per corrispondenza:
Enrico Valletta
e-mail: [email protected]
218
internazionale
osservatorio internazionale
Quaderni acp 2014; 21(5)
I MEDICI ITALIANI
CHE VANNO
A ESERCITARE ALL’ESTERO
l’effetto più immediato e percepibile. I
sistemi sanitari dei Paesi Arabi osservano ora il lento (forse troppo lento) evolversi di questa tradizione sotto la spinta
della modernizzazione sociale e della
mobilità geografica degli individui e si
pongono il problema dell’educazione nei
comportamenti riproduttivi dei propri
cittadini. Le importanti componenti religioso-culturali che permeano quei tessuti sociali rappresentano un elemento di
realtà ineludibile e condizionante qualsiasi processo evolutivo. Ma, paradossalmente, l’inbreeding costituisce anche
un’opportunità, per la ricerca genetica e
per l’applicazione delle nuove tecnologie
di analisi del genoma umano, di enorme
interesse e potenzialità [4,7-8]. La concentrazione e la persistenza di alleli patologici, altrove rarissimi, possono offrire
importanti elementi di conoscenza difficilmente ottenibili in contesti nei quali
l’incrocio tra consanguinei è evento
eccezionale e la dispersione di alcuni
caratteri genetici ne rende difficile l’individuazione e l’analisi.
Comunque si evolvano cultura e tradizioni nei Paesi di origine, le unioni consanguinee all’interno dei nuclei etnici
inseriti nelle società a elevato sviluppo
rischiano di trasformarsi da vantaggio
selettivo a determinante negativo di salute individuale e pubblica. Appare logico
che si intraprendano iniziative di informazione e di assistenza nelle scelte riproduttive che possano modificare, poco
alla volta, realtà come quella segnalata
dai ricercatori di Bradford. u
Bibliografia
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10.1017/S0021932012000016.
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S62: The new demography of the Arab Region.
TABELLA
1: PREVALENZA DELLE UNIONI
CONSANGUINEE IN ALCUNI PAESI ARABI [2]
Nazione
Consanguineità (%)
Primi cugini Complessiva
Algeria
11,3
34,0
Bahrain
24,5
43,1
15,9
20,9
Egitto
Iraq
29,2
57,8
Giordania
34,2
48,1
Kuwait
30,2
54,3
Libano
31,6
37,8
Libia
48,4
Mauritania
47,2
09,7
22,8
Marocco
Oman
38,5
51,6
Palestina
27,7
45,4
Qatar
34,8
54,0
Arabia Saudita
33,6
56,0
Sudan
49,5
63,3
Siria
28,7
35,4
Tunisia
20,8
39,3
Emirati Arabi
26,2
50,5
Yemen
32,0
44,7
www.archive-iussp.org/Brazil2001/s60/S62_
P04_Jurdi.pdf/.
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Uno studio di ANAAO Giovani, su
dati di diverse banche, ha preso in
esame alcuni particolari molto interessanti della vita professionale dei
medici. Una delle domande affrontate riguarda l’emigrazione dall’Italia
verso l’estero. Ci si è chiesti quale sia
la dimensione di questo fenomeno. È
stata utilizzata la banca dati
FnomCeo mirando alla cancellazione
dagli albi degli ordini provinciali. Il
risultato quindi risulta approssimato
in difetto in quanto non è necessario
cancellarsi dall’albo per esercitare
all’estero. Ecco comunque i dati. Il
numero complessivo dei medici che si
sono trasferiti per esercitare all’estero
negli ultimi cinque anni ammonta a
625 con una media annuale di
114.Gli anni di maggiore espatrio
sono stati il 2012-2014 con una netta e comprensibile prevalenza dell’età fra 25 e 39 anni. Un dato molto
interessante è la distribuzione per regione degli emigrati nel 2012-14.
Abruzzo
10
Basilicata
1
Calabria
0
Campania
28
Emilia-Romagna 39
FVG
0
Lazio
1
Liguria
32
Lombardia
97
Marche
0
Piemonte
5
Puglia
4
Toscana
13
Umbria
0
Sardegna
9
Sicilia
28
Puglia
4
Toscana
3
Umbria
0
Valle d’Aosta
0
Trentino
45
Veneto
35
Come si vede vi è una netta concentrazione in alcune Regioni, ma si tenga conto, nella valutazione dei dati,
della consistenza demografica delle
singole Regioni. L’emigrazione comporta ovviamente una perdita economica rilevante per lo Stato che consuma risorse di cui non utilizza i risultati. La spesa per i sei anni di laurea
e per la specializzazione, che certamente chi emigra ha conseguito,
ammonta a circa 152.800 euro. Una
perdita totale quindi, per anno, di
molti miliardi.
219
Quaderni acp 2014; 21(5): 220-223
Traumi nel paziente pediatrico e profilassi
del tromboembolismo venoso. Uno scenario clinico
Maddalena Marchesi
Pediatra, Parma
Abstract
Trauma in the paediatric patient and venous thromboembolism prophylaxis. A clinical scenario
This clinical scenario addresses the case of a child with a fracture of the lower limb
in which the orthopedic surgeon, in addition to an immobilization with a cast, proposes venous thromboembolism prophylaxix with enoxaparin. The incidence of venous
thromboembolism (VTE) in children hospitalized for trauma injuries ranges from
0.02% at of 0.33%. The main risk factors for VTE in paediatric patients hospitalized
for trauma injuries are the age, the severity and type of injury, the presence of central
venous catheter. Data are lacking both on the incidence and on the indications for VTE
prophylaxis in paediatric outpatients. Scientific literature indicates that the risk assessment for VTE should guide the choice of therapy in the individual patient.
Quaderni acp 2014; 21(5): 220-223
Lo scenario clinico affronta il caso di una bambina con frattura dell’arto inferiore a
cui l’ortopedico, oltre a immobilizzazione con apparecchio gessato, propone profilassi con enoxaparina. L’incidenza di tromboembolismo venoso (VTE) nelle casistiche di
bambini ricoverati con trauma varia dallo 0,02% allo 0,33%. I principali fattori di
rischio per VTE in pazienti pediatrici ospedalizzati con trauma sono l’età, la severità
e il tipo di trauma, la presenza di catetere venoso centrale. Non esistono dati sull’incidenza né indicazioni per la profilassi per VTE nei bambini trattati ambulatoriamente. La letteratura scientifica indica che la valutazione del rischio per VTE deve guidare la scelta terapeutica nel singolo paziente.
Lo scenario
Giulia, 10 anni e 8 mesi, in seguito a
trauma accidentale durante l’ora di ginnastica, si è procurata una frattura composta della tibia destra. In ospedale l’arto viene immobilizzato con un apparecchio gessato coscia-piede che deve mantenere per 25 giorni; l’ortopedico prescrive enoxaparina 2000 UI per via s.c.
per il periodo dell’immobilizzazione.
Dall’anamnesi familiare si rileva che il
nonno di Giulia ha presentato un episodio di trombosi venosa profonda all’età
di 70 anni, in assenza di altri fattori di
rischio (es. tumore, trauma). Giulia è
normopeso, pubere (ha presentato il menarca circa un anno prima), è una ragazza in buona salute, sportiva, e l’anamnesi patologica remota è muta per eventi
significativi. Il trauma di Giulia può
essere classificato come trauma minore
(ISS < 9) (box 1). A seguito della frattura non è stata sottoposta a chirurgia o
ospedalizzazione. È corretto il ricorso
alla profilassi per trombosi venosa
profonda (TVP)?
Il background
Da un punto di vista fisiopatologico la
trombosi è un evento multifattoriale in
cui sono coinvolti cambiamenti nel flusso di sangue, nella sua composizione e
modificazioni nello stato della parete
vascolare.
Ancora oggi, a distanza di centocinquant’anni, è ritenuta valida la triade di
Virchow che nel 1856 individuò nella
stasi venosa, nell’ipercoagulabiltà del
sangue e nell’attivazione del rivestimento endoteliale dei vasi sanguigni i fattori
principali coinvolti nell’origine di una
trombosi. La formazione del trombo
venoso origina spesso a livello della
gamba, nei seni valvolari venosi; in condizioni di normalità la stasi è maggiore,
si creano vortici nel flusso sanguigno e
l’ambiente, che è particolarmente ipossico, favorisce l’attivazione delle cellule
endoteliali. I fattori correttivi che sono
normalmente attivi in questo ambiente
protrombotico possono non risultare
altrettanto efficaci quando l’arto viene
immobilizzato [1].
L’eparina a basso peso molecolare
(LMWH) è un frammento di eparina, glicosamminoglicano utilizzato come farmaco iniettivo anticoagulante. Come l’eparina, esercita il suo effetto antitrombotico facilitando l’azione dell’antitrombina a inibire la trombina (fattore IIa) e il
fattore Xa, ma presenta caratteristiche
farmacocinetiche e farmacodinamiche
che la rendono più maneggevole; infatti
può essere somministrata a livello sottocutaneo, non richiede monitoraggio ematologico e da diversi anni è utilizzata
anche in pediatria [2]. Nei bambini di età
superiore o uguale a 2 mesi i dosaggi
profilattici delle più usate LMWH sono:
per l’enoxaparina 0,5 mg/kg/dose ogni
12 ore per via sottocutanea (1 mg di enoxaparina corrisponde a circa 100 unità
anti-fattore Xa); per la deltaparina 92 ±
52 unità/kg ogni 24 ore [2]. Una revisione sistematica con metanalisi del 2011 ha
verificato l’efficacia e la sicurezza dell’eparina a basso peso molecolare in età
pediatrica [3]. Il rischio di sanguinamento maggiore in corso di terapia con
LMWH è del 5% (IC 95%: 3,1-7,8) [3].
Il problema del tromboembolismo venoso (VTE) come complicanza post-traumatica è ben documentato in età adulta
(rischio di base per VTE dopo un trauma
3-5%) e la profilassi farmacologica con
LMWH è da alcuni anni una pratica clinica corrente anche a livello ambulatoriale in presenza di un trauma che comporta
immobilizzazione della gamba; questo
riduce della metà l’incidenza di TVP (OR
0,49; IC 95%: 0,34-0,72; p = 0,29) [4-5].
Sebbene in quasi tutte le casistiche di
pazienti pediatrici con VTE il trauma sia
riconosciuto come fattore di rischio, non
è stato ancora quantificato il rischio di
VTE dopo un trauma, mentre sono disponibili dati retrospettivi di incidenza di
tale complicanza che varia dallo 0,02%
allo 0,33%; questo dato è stato ricavato
da studi di revisione di registri nazionali
o istituzionali su pazienti pediatrici con
trauma e riguarda soprattutto bambini
ricoverati. Mancano invece studi pro-
Per corrispondenza:
Maddalena Marchesi
e-mail: [email protected]
220
scenari
scenari
spettici in cui sia stato effettuato uno
screening per VTE; inoltre non sono disponibili dati epidemiologici sui pazienti
con trauma trattati ambulatoriamente [4].
Rarissimi i case report di TVP in età pediatrica dopo fratture comuni [6-7].
Una recente revisione della Cochrane sulla tromboprofilassi per trauma maggiore
(box 2) su pazienti di ogni età, raccomanda di effettuare profilassi per VTE [8].
Recentemente sono stati identificati i fattori di rischio per VTE in pazienti pediatrici ospedalizzati con trauma (box 3) [4].
I fattori di rischio principali sono l’età,
la severità e il tipo di trauma, la presenza di catetere venoso centrale (CVC).
L’età risulta essere un fattore molto
importante. Gli adolescenti risultano più
a rischio di VTE dopo un trauma rispetto
ai bambini più piccoli. In un’ampia casistica di 135.000 pazienti, avere un’età >
14 anni al momento del trauma espone a
un rischio significativamente maggiore
di VTE (OR 2,34%; IC 95%: 1,95-2,80)
e, tra i minori di 16 anni, il gruppo 10-15
anni ha un rischio relativo di VTE di cinque volte superiore (IC 95%: 1,5-16,7)
rispetto ai minori di 10 anni; in un’altra
casistica su 402.329 persone di età inferiore a 21 anni con trauma, si calcola che,
anche considerando la gravità del trauma, rispetto all’età, i pazienti di 13-15
anni presentano un OR corretto di 1,96
(IC 95%: 1,53-2,25; p<0,01) mentre
quelli di 16-21 anni un OR corretto di
3,77 (IC 95%: 3,00-4,75; p<0,01) rispetto ai bambini di età inferiore a 13 anni
[9-10]. Purtroppo nessuno di questi studi
valuta lo stato puberale, elemento considerato in altri studi [11].
Nel protocollo di Risk Assessment per
VTE del Children’s Hospital di Philadelphia l’età di 14 anni è stata scelta
come cut-off: i minori di 14 anni ospedalizzati vengono considerati a basso rischio di VTE e ricevono profilassi a discrezione del clinico solo in presenza di
condizioni ad alto rischio di VTE. Sopra
i 14 anni invece tutti i pazienti ospedalizzati vengono valutati per il rischio di
VTE in base al quale viene effettuata o
meno la profilassi. Indipendentemente
dall’età, minore o maggiore di 14 anni, i
pazienti pediatrici ambulatoriali senza
altri fattori di rischio vengono considerati a basso rischio di VTE [12].
Per quanto riguarda la severità del trauma si rimanda alla tabella 1.
Quaderni acp 2014; 21(5)
BOX
1: INJURY SEVERITY SCORE (ISS)
L’ISS è un sistema di punteggio anatomico che permette di classificare i pazienti con
traumi multipli. Nel calcolo dell’ISS il corpo viene diviso in sei regioni (testa e collo,
faccia, torace, addome, estremità e cingolo pelvico, area esterna). Per calcolare il
punteggio ISS, è necessario assegnare un codice di gravità da 1 a 6 (dove 1 è lesione minore e 6 corrisponde a lesione non curabile), prendere il codice di gravità più
alto in ciascuna delle tre regioni corporee più gravemente colpite, elevarlo al quadrato e sommare i tre numeri ottenuti (ISS = A2 + B2 + C2 dove A, B, C sono i punteggi
delle tre regioni corporee più lesionate). I punteggi ISS variano da 1 a 75. Se uno dei
tre punteggi è un 6, il punteggio totale viene automaticamente impostato a 75.
Il punteggio ISS non è utile come strumento di triage ma serve perché correla linearmente con la mortalità, la morbilità, la durata della degenza ospedaliera e altre
variabili dopo un trauma.
I traumi si classificano in base all’ISS in minori (ISS < 9), moderati (ISS 9-15), severi
(ISS > 25), critici (ISS > 25).
BOX
2: TRAUMA MAGGIORE
– Trauma chiuso o penetrante con coinvolgimento di due o più organi e segni vitali
instabili e/o
– persona con un punteggio ISS >9 (vedi box 3 sull’ISS) e/o
– persona coinvolta in un evento a ‘elevata energia’ a rischio di trauma severo anche
se al momento della prima valutazione i parametri vitali sono stabili
BOX 3: FATTORI DI RISCHIO PER VTE IN PAZIENTI PEDIATRICI OSPEDALIZZATI CON
TRAUMA (DA VOCE BIBLIOGRAFICA 4, MODIFICATO)
1. Età ≥14 anni
2. Severità del trauma ISS > 9
3. Tipo di trauma
4. Presenza di catetere venoso centrale
5. Obesità (definita come BMI > 95° pct)
6. Altri fattori di rischio generali per VTE:
– condizioni congenite e acquisite di trombofilia: deficit di antitrombina o di proteina C o S, mutazione del fattore V di Leiden (F5 R506Q), mutazione del fattore II
G20210A, iperomocisteinemia, aumento dei livelli di lipoproteina a, livelli elevati
di fattore VIII, presenza di autoanticorpi anti-fosfolipidi
– sepsi, immobilità, neoplasia maligna, chirurgia
– malattie cardiache congenite e acquisite (es. quelle con ipertensione polmonare
primitiva o con shunt cavo-polmonare bilaterale, aneurismi delle coronarie dopo
malattia di Kawasaki ecc.)
– malattie renali (insufficienza renale terminale, sindrome nefrosica)
– malformazioni cerebrali (idrocefalo, spina bifida)
– anemia falciforme, malattia infiammatoria intestinale, fibrosi cistica
– nutrizione parenterale a lungo termine
– terapia ormonale sostitutiva e alcuni tipi di chemioterapia (es. con L-asparaginasi)
TABELLA
1: RISCHIO RELATIVO DI VTE NEL PAZIENTE PEDIATRICO CON TRAUMA (DA VOCE
BIBLIOGRAFICA 15)
ISS
Trauma critico (ISS > 25)
Trauma severo (ISS 16-25)
Trauma moderato (ISS 9-15)
Rischio relativo di VTE verso ISS < 9 (trauma minore)
OR 3,53 (IC 95%: 2,01-6,22)
OR 2,49 (IC 95%: 1,56-3,96)
OR 2,13 (IC 95%: 1,49-3,05)
221
scenari
Rispetto al tipo di trauma, i traumi vascolari maggiori, quello cranico e alla
colonna vertebrale severi, i traumi toracici e addominali, le fratture pelviche e
degli arti inferiori sono associati a un
maggior rischio di VTE [13-15].
La pre-esistenza di un CVC o la necessità di applicare un CVC dopo il trauma
è un fattore di rischio cruciale per lo sviluppo di VTE nei bambini. In alcune
casistiche la presenza attuale o pregressa
di un CVC risulta essere il singolo fattore di rischio più importante per lo sviluppo di VTE, in modo indipendente dalla
gravità del trauma stesso [13-15]. Maggiore è il numero di CVC presenti maggiore è il rischio di VTE (aumento di OR
di 7,9 volte per ogni CVC presente) [16].
Numerose sono le condizioni congenite
o acquisite che aumentano il rischio di
VTE in età pediatrica indipendentemente
dal trauma (box 3, punto 6) [2,17-20];
anche l’obesità sembrerebbe promuovere
lo sviluppo di VTE dopo un trauma; tuttavia l’inadeguatezza metodologica dell’unico studio presente (in cui non è stato
possibile calcolare il BMI nel 73% dei
pazienti) rende attualmente questo dato
non suffragato da prove [4]. Per quanto
riguarda lo stato trombofilico i dati presenti in letteratura indicano che gli adulti e i bambini con due o più fattori trombofilici ereditari presentano un rischio
aumentato di VTE [21]. La prevalenza
riportata di difetti trombofilici in bambini con VTE è molto variabile: 10-78% in
base alla popolazione analizzata, all’ampiezza della casistica, alla definizione di
trombosi e al tipo di indagini effettuate.
Il contributo di ciascun difetto identificato (box 3, punto 6) all’eziologia della
trombosi in età pediatrica rimane incerto.
In età pediatrica non ci sono evidenze per
giustificare lo screening di bambini con
anamnesi familiare positiva per difetti
trombofilici, né per farlo dopo un primo
episodio di VTE, eccetto in caso di VTE
idiopatica [17].
Una storia familiare di VTE in età inferiore a 50 anni viene considerata dal Consensus Statement Italiano del 2013 un fattore di rischio per VTE da valutare in
caso di chirurgia ortopedica maggiore nei
pazienti in età pediatrica puberi per l’utilizzo della profilassi, mentre questo non
vale per i bambini prepuberi, nei quali la
222
Quaderni acp 2014; 21(5)
TABELLA
2: PROTOCOLLO PER LA PROFILASSI DI VTE IN PAZIENTI CRITICI DOPO UN
TRAUMA (DA VOCE BIBLIOGRAFICA 12, MODIFICATO)
Per i pazienti ad alto rischio di VTE1 e a basso rischio di sanguinamento2
Terapia anticoagulante con eparina a basso peso molecolare a 0,5 mg/kg per via
sottocutanea fino alla dimissione ospedaliera
Per i pazienti ad alto rischio di VTE1 e ad alto rischio di sanguinamento3
Applicare dispositivi di compressione sequenziale
Al settimo giorno di degenza in ICU effettuare ecografia bilaterale degli arti inferiori e di quelli superiori se è presente un CVC
Per i pazienti a basso rischio di VTE4
Non sono indicati anticoagulanti o altri interventi clinici
Fattori di rischio per VTE
– immobilità prevista per più di cinque
giorni
– Glasgow Coma Scale < 9
– presenza di CVC
– trauma al midollo spinale
– frattura complessa degli arti inferiori
– frattura pelvica che richiede un’operazione
– uso di isotropi
– rianimazione cardio-polmonare
– terapia con estrogeni
– malattia infiammatoria cronica
– precedenti episodi di VTE
– stato trombofilico noto
– tumore maligno in atto
1
2
3
4
Fattori di rischio per sanguinamento
– emorragia intracranica
– trauma agli organi solidi
– intervento chirurgico programmato o
procedura invasiva programmata nelle
successive 24 ore
– allergia all’eparina
– alto rischio di sanguinamento severo
– insufficienza renale
Pazienti ad alto rischio di VTE: pazienti di età superiore ai 13 anni o pazienti minori di 13 anni che
presentano quattro o più fattori di rischio.
Pazienti a basso rischio di sanguinamento: quando sono assenti i fattori di rischio per sanguinamento.
Pazienti ad alto rischio di sanguinamento: quando sono presenti uno o più di un fattore di rischio per
sanguinamento.
Pazienti a basso rischio di VTE: pazienti con meno di 13 anni e con tre o meno fattori di rischio per VTE.
profilassi per VTE è da valutarsi solo in
situazioni cliniche specifiche [18].
La domanda
Nei bambini con trauma che comporta
immobilizzazione di uno/entrambi gli
arti inferiori trattati ambulatoriamente
[POPOLAZIONE] la profilassi per trombosi venosa profonda con eparina a basso
peso molecolare [INTERVENTO] rispetto a nessuna profilassi [CONFRONTO] è
necessaria [OUTCOME]?
La strategia di ricerca
Su PubMed viene eseguita la ricerca con
la seguente stringa (trauma OR fracture):
AND child AND venous thromboembolism prophylaxis AND “ambulatory care” [MESH], con limite: articoli degli ultimi dieci anni. Questa ricerca non ha
prodotto alcun risultato. Viene allora am-
pliato l’ambito eliminando “ambulatory
care” [MESH]. Da questa ricerca emergono 29 articoli, di cui uno nuovo di
interesse [22], oltre ad alcuni già citati
nel background [4,6,10,15-17,19].
I risultati
a. Indicazioni alla profilassi per VTE
dopo un trauma nei pazienti pediatrici ospedalizzati
Il protocollo del Children’s Hospital of
Wisconsin, USA, per la profilassi di VTE
in pazienti critici dopo un trauma è riassunto nella tabella 2. L’applicazione di
questa linea guida non validata, in Terapia Intensiva (ICU), ha permesso di
ridurre del 65%, ossia dal 5,2% all’1,8%,
l’incidenza di VTE senza aumentare il
rischio di sanguinamento: nessun paziente sottoposto a profilassi con LMWH ha
presentato emorragia [22].
scenari
b. Indicazioni alla profilassi per VTE
dopo un trauma nei pazienti pediatrici ambulatoriali
Per quanto riguarda i pazienti pediatrici
ambulatoriali non esistono indicazioni
che definiscono a chi, quando e con che
modalità effettuare la profilassi primaria
con LMWH.
Conclusioni
Negli ultimi anni sono aumentate, in età
pediatrica, le conoscenze in merito al
problema del tromboembolismo venoso
e sono stati identificati i fattori di rischio
per VTE dopo un trauma. Alla luce delle
attuali evidenze per il paziente critico,
ricoverato in ospedale, si possono dare
indicazioni sulla profilassi per VTE,
mentre non emergono chiare indicazioni
per i bambini con trauma, ospedalizzati
ma non critici, per cui dev’essere effettuata una valutazione caso per caso. A
livello ambulatoriale le attuali evidenze
suggeriscono che lo scenario valido in
età adulta non è replicabile in età pediatrica in assenza di specifici fattori di
rischio. La valutazione del rischio per
VTE deve guidare la scelta terapeutica
nel singolo paziente. È bene che il pediatra di famiglia conosca i fattori di rischio
per VTE e di fronte a un bambino con
multipli fattori di rischio si ponga la
domanda sulla necessità della profilassi.
Infine, è importante considerare la possibilità, rara, che anche in età pediatrica un
trauma possa complicarsi con una TVP.
Giulia presenta due fattori di rischio per
lo sviluppo di VTE: lo stato puberale
anche se ha meno di 13 anni e l’immobilizzazione dell’arto inferiore destro; l’episodio di TVP nel nonno, poiché si è
verificato a 70 anni, non è da considerare come fattore di rischio familiare.
Alla luce delle attuali scarse evidenze
scientifiche, i genitori vengono informati sulla mancanza di dati circa la profilas-
Quaderni acp 2014; 21(5)
si per VTE per Giulia e, dopo aver
discusso con loro i rischi del trattamento
(emorragia) e i possibili benefici (protezione VTE), si decide di non fare la profilassi. u
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223
Quaderni acp 2014; 21(5): 224-225
Rubrica a cura di Sergio Conti Nibali
Nuova revisione dell’EFSA
sulla composizione
dei latti formulati
Il 20 gennaio 2014 l’Autorità Europea
per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha
pubblicato sul suo sito una revisione,
commissionata a un gruppo di ricerca
olandese, per stabilire quali siano gli
ingredienti essenziali per i latti formulati
per l’infanzia, iniziali e di proseguimento. Gli Autori della revisione hanno rivisto tutta la letteratura sull’argomento dal
2000 in poi, con l’obiettivo di comparare
le varie formule; hanno anche cercato di
capire cosa producesse, in termini di
nutrizione e salute, l’aggiunta o la modifica di proteine, prebiotici, probiotici,
acidi grassi di vario tipo, colesterolo,
ferro, iodio, selenio ecc. Risultato: nulla.
Non esiste alcuna documentazione scientifica che attesti che formule addizionate
con questi ingredienti facciano meglio di
quelle non addizionate. Hanno poi fatto
lo stesso lavoro per comparare i latti di
formula con il latte materno, definito
come allattamento esclusivo o quasi
(almeno 90% di latte materno) per almeno quattro mesi. Risultato: il latte materno fa sempre meglio, indipendentemente
dagli ingredienti più o meno numerosi
che le ditte aggiungono alle loro formule. Infine, hanno cercato in letteratura
articoli su problemi di denutrizione
infantile (generica o specifica per qualche micronutriente) in Europa. Risultato:
non esiste da alcuna parte in Europa la
necessità di aggiungere qualcosa ai latti
formulati per dare risposta a presunti
problemi di denutrizione. Ripetiamo
cose già note. Quello che forse non sapevamo è quanto bassa sia la qualità della
ricerca in questo campo, viste le percentuali di articoli esclusi dai ricercatori
olandesi. Ma forse nemmeno questa è
una sorpresa: la ricerca sui latti di formula è infatti finanziata al 100% dall’industria. Viene il sospetto che venga effettuata, volutamente, ricerca di bassa qualità, per usare a scopo di marketing risultati distorti. Del resto lo stesso succede
con la ricerca sui farmaci finanziata dalle
multinazionali del farmaco, come spiega
bene Ben Goldacre nel suo libro Bad
224
Pharma, recentemente pubblicato anche
in Italia con il titolo Effetti Collaterali.
L’Antitrust sanziona
tre ditte per immagini
su latte in polvere
e biberon
L’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato ha deciso di sanzionare
Mondadori, Unifarm e Philips per una
pubblicità occulta inserita in un servizio
sulla maternità di Belen Rodriguez, pubblicato dal settimanale Chi. Le sanzioni
decise sono pari a 70mila euro ciascuno
per Mondadori e Unifarm e a 50mila euro
per Philips. Nel servizio, intitolato
“Belen con il suo Santiago” erano riportate, ingrandite, riquadrate in rosso e isolate dal contesto, le immagini di un latte
per neonati, Neolatte1, e di un biberon
della Avent. Nelle didascalie che accompagnavano le foto venivano specificati
prezzi e proprietà dei due prodotti: in particolare il latte artificiale veniva indicato
come “un tipo di latte in polvere per lattanti con Bifidus naturali, che favoriscono una sana e buona digestione” mentre
il biberon “in PES (Polietersulfone) per
neonati, riduce al minimo l’aria nella
pancia evitando coliche e irritabilità”. Il
latte Neolatte1 è prodotto da un’azienda
tedesca ma distribuito nel canale delle
farmacie da Unifarm. La società olandese
Philips produce anche prodotti per le
mamme e i bambini, fra i quali il biberon
Philips Avent. Secondo l’Antitrust, pur in
assenza di una prova diretta dell’accordo,
è stato possibile desumere la natura pubblicitaria del messaggio da molteplici
indizi precisi e concordanti quali: la collocazione delle foto, le informazioni sui
prodotti, la differenza tra il servizio in
bozza (che non conteneva riferimenti
specifici a prodotti individuati e alle loro
caratteristiche) e quello poi pubblicato.
Nell’impaginazione mancava inoltre
qualsiasi accorgimento o indicazione che
rendessero evidente ai consumatori la
natura promozionale delle immagini.
L’OMS sbaglia direzione
L’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) cambia rotta, ma talvolta sbaglia
direzione, come quando si apre alla col-
laborazione di ONG, filantropi e industrie. Le implicazioni di questi rapporti
sono infatti molto differenti: probabilmente pericolose nel caso di una stretta
relazione con industrie e singoli filantropi, potenzialmente virtuose nel caso delle
ONG. È quanto sostengono nelle pagine
di BMJ Judith Richter, ricercatrice freelance dell’Università di Zurigo, e Lida
Lhotska, coordinatrice per la Regione
europea di IBFAN, l’ONG che controlla
che le industrie che producono alimenti
per l’infanzia rispettino le leggi che ne
regolamentano il marketing. I latti di formula, similmente alle sigarette, non possono essere pubblicizzati, essendo in
competizione con il latte materno – riconosciuto come ottimale per tutti i bambini del mondo, sia quello ricco che quello
povero – ma questa norma viene spesso
violata dall’industria. Proprio rifacendosi all’esperienza di IBFAN, Lida Lhotska
ricorda che le industrie non hanno nella
loro mission la salvaguardia della salute,
ma il raggiungimento del profitto, anche
quando questo mette a repentaglio la vita
di donne e bambini e in violazione della
legge.
Paradossi
nella sponsorizzazione
di manifestazioni sportive
Un ricercatore indipendente dell’Università di San Paolo del Brasile scrive a The
Lancet denunciando il fatto che chi ha la
maggiore responsabilità nei riguardi dell’obesità infantile nel mondo è anche
sponsor di manifestazioni sportive. Le
bevande zuccherate sono sotto accusa
come una delle cause più importanti di
obesità incontrollata, soprattutto a carico
dei bambini, anche nelle nazioni in via di
sviluppo come la Cina, l’India e il Brasile. Le multinazionali del cibo si affannano invece a sostenere, con campagne
miliardarie, che l’obesità è causata dalla
mancanza di attività fisica. Stante questa
controversia è singolare che il primo
Congresso internazionale su Attività fisica e Salute pubblica, tenutosi a Rio de
Janeiro in aprile, sia stato sponsorizzato
proprio dalla Coca-Cola. Come è singolare che fra gli sponsor dei mondiali di
info
Quaderni acp 2014; 21(5)
salute
calcio 2014 e delle Olimpiadi 2016 ci
siano Coca-Cola e McDonald’s, con il
beneplacito delle organizzazioni sportive
internazionali.
Non esiste una chiara contraddizione se
multinazionali del cibo e bevande offrono il loro sostegno allo sport e all’attività
fisica? (Lancet 2014;383:2041).
Medicina narrativa
a Oristano
La medicina narrativa entra a pieno titolo nella pratica clinica, tanto che la Asl di
Oristano, tra le prime in Italia, ha deciso
di inserirla nella propria programmazione triennale. «È ormai riconosciuto il
valore curativo della comunicazione tra
medici e pazienti – spiega il Direttore
Generale della Asl oristanese, Mariano
Meloni, che ha creduto nel progetto tanto
da inserirlo nelle azioni strategiche su cui
l’azienda punta per migliorare la propria
offerta – perché ascoltare e rimettere al
centro la persona malata significa arrivare a diagnosi più corrette, più precise e
più rapide, instaurare con i pazienti una
alleanza terapeutica che permette di aderire con maggiore convinzione alle cure
proposte e renderle quindi più efficaci».
Il percorso di medicina narrativa della
Asl di Oristano coinvolge cento operatori sanitari, fra medici, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, assistenti sociali,
provenienti da cinque Unità Operative
(UO) impegnate nella diagnosi e nel trattamento delle malattie croniche. Interessate al progetto sono Diabetologia,
Oncologia, Ematologia, Nefrologia e
Dialisi, Centri di Salute Mentale: dopo
un periodo di formazione, gli operatori e
i pazienti dei cinque servizi racconteranno, a campione e su base volontaria, la
malattia e il rapporto fra sanitario e
paziente attraverso uno strumento narrativo che funzionerà come una sorta di
diario personale. Le storie, cinque per
ogni UO, saranno poi analizzate con l’obiettivo di far emergere criticità e suggerimenti che possano servire a migliorare
la pratica clinica. «Il progetto di medicina narrativa avviato dall’Asl 5 ha due
peculiarità all’interno del panorama italiano – spiega Eliana Zuin, dell’UO di
Formazione, che ha curato il percorso.
La prima è che nessun’altra azienda sanitaria ha istituzionalizzato questa pratica
come invece ha fatto la nostra, che l’ha
inserita nella programmazione aziendale.
Inoltre noi coinvolgiamo non solo i
pazienti, ma anche i sanitari (medici,
infermieri e altre figure professionali che
hanno un ruolo terapeutico), a cui chiediamo di raccontare il proprio rapporto
con i malati e con i loro familiari.
L’obiettivo è quello di far sì che anche
loro si interroghino sul proprio operato e
siano stimolati a fare meglio». Ma il progetto dell’Asl oristanese è pioniere anche
per un altro motivo: «Ciò che è emerso
dalla conferenza internazionale che si è
tenuta a Roma dall’11 al 13 giugno scorsi presso l’Istituto Superiore di Sanità
proprio sul tema della medicina narrativa
– rileva Eliana Zuin – è che occorrono
delle linee guida comuni che orientino le
aziende sanitarie nell’applicazione della
medicina narrativa e nella raccolta delle
storie. Attualmente un panel di esperti
internazionali è al lavoro per crearle, ma
la nostra azienda sanitaria si è già data
queste regole, perché a monte c’è già
stato un lavoro di formazione, di studio e
di elaborazione di uno strumento narrativo che orienterà sanitari e pazienti nel
racconto delle proprie emozioni e della
propria storia».
Nasce la “Rete
Sostenibilità e Salute”
Ventuno organizzazioni no profit italiane
hanno formato una Rete di coordinamento per affermare, tramite la sottoscrizione
della “Carta di Bologna”, un modello
differente di salute e sanità, “realmente”
sostenibile. Il modello della crescita economica senza limiti – afferma Jean-Louis
Aillon, portavoce della Rete – ha i giorni
contati, non è più sostenibile dal punto di
vista sociale e ambientale e non è in
grado di assicurare la tutela della salute
dei cittadini, in quanto questo processo
va a minare la qualità dell’ambiente e
quei fattori socio-culturali da cui la salute dipende, arrivando oggigiorno a
minacciare gli equilibri stessi della vita
sul pianeta. I cambiamenti climatici
comportano rischi concreti per la salute
umana, afferma Samuel Myers della
“Harvard Medical School”, e i loro effetti indiretti metteranno a rischio la qualità
della vita di centinaia di milioni di persone, generando costi enormi per i Sistemi
Sanitari pubblici. Dall’altra parte il New
England Journal of Medicine indica con
chiarezza il percorso da intraprendere:
«Perché le popolazioni vivano in maniera sostenibile e in buona salute nel lungo
periodo, il settore sanitario deve rimodellare il modo in cui le società umane pianificano, costruiscono, spostano, producono, consumano, condividono e generano energia». Recenti studi confermano
che su 2500 prestazioni sanitarie supportate da buone evidenze scientifiche solo
il 46% è sicuramente utile e il 4% è giudicato dannoso, e che chi vive in regioni
ad alta intensità prescrittiva sperimenta
livelli di sopravvivenza peggiori di chi
vive in regioni a bassa intensità prescrittiva. Occorrono quindi, secondo la “Rete
Sostenibilità e Salute”, una cultura e una
società alternative, non basate esclusivamente sul paradigma economico del profitto e dell’efficienza fine a se stessa, e in
grado di superare le disuguaglianze e
favorire l’affermazione del diritto alla
salute di tutti i cittadini e cittadine. Oggi
più che mai, infatti, curare significa prendersi cura del pianeta su cui viviamo.
Su questi presupposti è stata recentemente sottoscritta la “Carta di Bologna per la
Sostenibilità e la Salute”, che formalizza
la nascita della “Rete Sostenibilità e
Salute”.
«Nell’ottica della sostenibilità – spiega
Aillon – i modelli di salute, sanità e cura
devono porre al centro la persona, privilegiando l’attenzione al paziente. Integrazione tra saperi, interazione dei professionisti e delle organizzazioni, e importanza
delle sinergie con le medicine tradizionali e non convenzionali, sono parole chiave
importantissime. È indispensabile che il
Servizio Sanitario Nazionale, basato sulla
prevenzione e sull’assistenza primaria,
resti una risorsa per tutti, senza diseguaglianze di accesso, indipendente dalle
influenze del mercato, sulla base di un
sistema che valuti i risultati in termini di
“produzione di salute” e non solo di
numero di prestazioni sanitarie erogate»
(www.sostenibilitaesalute.org).
225
Quaderni acp 2014; 21(5): 226-227
Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano
La famiglia custode
del “segreto”
Emmanuel Carrère
La settimana bianca
Adelphi, 2014
pp. 139, euro 16
“Tutte le famiglie felici si somigliano: ogni famiglia infelice lo è a modo proprio” è una citazione tolstojana riproposta ai lettori d’oggi da Muriel Barbery ne
L’eleganza del riccio e che bene si accompagna a quello che sovente ci ripete
una psichiatra infantile che frequento: in
ogni famiglia nella quale c’è un segreto,
un non detto, spesso sono proprio i bambini che, inconsapevolmente, se ne fanno
carico, ne portano il peso e ne pagano le
conseguenze.
L’analisi delle difficoltà, del disagio, dei
sintomi anche somatici che un bambino
offre alla nostra attenzione, le intuizioni
che talora emergono dalla conoscenza
appena più approfondita delle dinamiche
familiari possono aprire uno spiraglio sul
“segreto” custodito in quella famiglia.
Sapere afferrare questo lampo di luce sarebbe già tanto, andare oltre richiede
molto, molto mestiere.
Il lettore che avesse questo mestiere potrebbe cogliere nelle paure, nelle angosce, e nei pensieri ossessivi di Nicolas
l’espressione di qualcosa che è sopra di
lui, che lo avvolge e lo opprime senza
che lui abbia alcuna percezione di quale
forma abbia questo qualcosa.
La settimana bianca, che tra molte vicissitudini, trascorrerà in montagna con
la sua classe, darà al lettore – e, c’è da
augurarsi, anche a Nicolas – la chiave
interpretativa di tutto. Non sappiamo
quale uso farà di questa chiave perché il
finale è per così dire, aperto. Intuiamo
che, dopo la settimana bianca, la vita
futura di Nicolas potrà dipanarsi lungo
due sentieri del tutto opposti: quello della
conoscenza, della comprensione profonda e del possibile riscatto per se stesso e
per la storia della propria famiglia, oppure quello della caduta in un’oscurità
226
senza fine dalla quale – fantasia del tutto
personale e probabilmente impropria –
potrebbe emergere un nuovo Hannibal
Lecter.
Enrico Valletta
La ricerca di un linguaggio
tra mondi diversi
Nadine Gordimer
L’aggancio
Universale Economica
Feltrinelli, 2003
pp. 270, euro 8
Con la prospettiva di alcune ore eccezionalmente vuote da potere riempire con la
lettura, di corsa prima di partire, ho deciso di comperare una copia di un libro già
letto, opera di una scrittrice che mi piace
molto.
L’aggancio il titolo italiano, strana traduzione dell’originale Pickup. “Ecco: avete visto. Ho visto. Quel gesto. Una donna
in uno dei tanti ingorghi che sono all’ordine del giorno in città, in qualsiasi città.
Non ricorderete l’episodio, né saprete
chi è la ragazza. Io sì, invece, perché a
partire da quell’immagine scoprirò
– nella forma del racconto – le conseguenze di quella banale disavventura
della strada; dove l’avrebbero portata e
come. Le sue mani alzate, aperte”.
Inizia così la storia della relazione tra
una ragazza bianca e privilegiata e un
uomo clandestino in un garage di Johannesburg. Dapprima solo un’attrazione
sessuale, perché il linguaggio dei due
corpi è il solo che hanno in comune due
persone così differenti per nascita, tradizioni, educazione e cultura. Ma quando
Abdu viene rintracciato e, in qualità di
immigrato illegale, gli viene notificata
l’espulsione, Julie dovrà fare i conti con
la sua vita, i suoi sentimenti e il valore
della sua libertà. Decide di seguirlo nel
suo paese poverissimo e di andare a vivere con lui e la sua famiglia musulmana. E
questa decisione sarà l’inizio di un percorso, attraverso la polvere, il deserto,
l’esclusione e l’accettazione. Un romanzo in cui la Gordimer esplora sì l’amore
tra persone di culture diverse, ma anche
le radici e le ragioni dell’amore in sé; in
cui indaga sulle difficoltà intrinseche in
questo incontro, ma anche sulla difficoltà
di accettare un uomo o una donna come
altro da sé; sul dramma della mancanza
di certezze di chi è costretto alla migrazione e non ha documenti. Ho scritto la
recensione di questo libro proprio nel
giorno in cui è arrivata la notizia della
morte di Nadine Gordimer, che ha vissuto per scrivere e per rendere il Sud Africa
libero, e che ha ricevuto nel 1991 il
Nobel per la sua opera che i giurati definirono “di grandissimo beneficio all’umanità”. A noi resta il piacere di leggere
tutti i suoi libri.
Maria Francesca Siracusano
Comportamenti umani
ed evoluzione
Dario Maestripieri
A che gioco giochiamo
noi primati.
Evoluzione ed economia
delle relazioni sociali umane
Raffaello Cortina Editore,
2014
pp. 346, euro 26
Più di trecento pagine in cui si confronta
l’uomo con gli altri primati: è giusto? In
realtà noi non discendiamo dalle scimmie, questo lo sanno tutti, e anche scimpanzé, orango, gorilla, bonobo, babbuino, gibbone, macaco (tutte scimmie antropomorfe) in coro proclamano che non
discendono da noi. Abbiamo semplicemente dei progenitori in comune.
Poi, milioni di anni fa, ognuno per la sua
strada. Perché allora gli psicologi evoluzionisti offendono l’onorabilità della
nostra specie con queste irritanti comparazioni? Tra i tanti motivi, tutti spiegati
in questo libro, vi ricordo l’inerzia filogenetica, una tendenza biologica a non
levarci di dosso le caratteristiche dell’antenato che ci ha preceduto. E, purtroppo
(il purtroppo è rivolto ai puristi della specie Homo sapiens), sembra che siano
presenti continuità filogenetiche per
un’ampia gamma di comportamenti
sociali complessi.
libri
Quaderni acp 2014; 21(5)
buona
Ecco perché molti psicologi studiano i
comportamenti sociali, le relazioni amorose, il sistema di attaccamento madrefiglio, il legame di coppia nelle diverse
specie di primati. La nostra socialità è
modellata dalla selezione naturale e da
quella sessuale e, per spiegare molti
sistemi di comportamento (umano e animale), gli psicologi hanno imparato a
usare modelli matematici esportati dalle
scienze economiche, come la Teoria dei
Giochi che spiega come il nostro comportamento razionale sia legato a un’analisi costo/beneficio… non sempre consapevole. Ho appena scritto “razionale” e
ho sbagliato: i biologi evoluzionisti non
presumono l’esistenza di alcun pensiero
razionale conscio da parte degli animali,
umani compresi.
E qui l’agitazione del lettore è alta: come
è possibile che il frutto del nostro libero
arbitrio finisca per somigliare a ciò che le
scimmie hanno fatto nella giungla per
milioni di anni? Lascio la risposta alle
pagine di questo bel libro scritto da uno
scienziato italiano emigrato in USA; in
un capitolo del libro dal titolo “Siamo
tutti mafiosi” racconta la sua vicenda italiana che ha un sapore, molto amaro, per
nulla biologico ma di consuetudine… o
forse è la stessa cosa?
Costantino Panza
Non le solite pappe
AA.VV.
Io mangio come voi. Come
iniziare una sana alimentazione ai 6 mesi e proseguire
fino ai 99 anni
Terre di Mezzo Editore, 2014
pp. 76, euro 11
L’idea del libro nasce da un lungo lavoro
svolto insieme a 400 mamme che hanno
descritto l’alimentazione del proprio piccolo e le difficoltà incontrate nell’affrontare il delicato momento dell’introduzione dei cibi diversi dal latte.
Quando i bimbi assaggiano per la prima
volta omogeneizzati e pappine, non sempre lo fanno con piacere. Perché non iniziare subito a proporre loro cibi sani,
semplici da preparare, ma allo stesso
tempo gustosi e adatti a tutta la famiglia? Le ricette di questo libro, scritte da
studiosi e nutrizionisti che hanno raccolto l’esperienza di tanti genitori, permettono di condividere da subito con i propri
figli l’amore per la tavola, e preparare
pasti salutari, bilanciati e stuzzicanti. Dalla colazione ai piatti unici, passando per primi, secondi e contorni, 63 ricette con l’indicazione chiara dei gruppi alimentari principali che contengono, e di
come adattarle anche ai piccolissimi.
In ogni ricetta vi sono dei simboli colorati che identificano sia i principali gruppi alimentari (cereali, carne, pesce, latte,
uova, legumi, verdura, frutta, frutta
secca, olio e burro) sia le possibili modalità di adattamento e degustazione per i
più piccoli.
I colori dei simboli aiutano a capire
quanti gruppi alimentari si stanno assumendo in quel pasto, non la loro quantità
o importanza, Gli Autori sono un gruppo
di studiosi, nutrizionisti, pediatri, biologi, epidemiologi dell’Unità per la Ricerca sui servizi sanitari dell’Ospedale
materno-infantile “Burlo Garofolo” di
Trieste, a cui si sono aggiunti un artista
cuoco e l’esperienza di tantissime
mamme.
Un consiglio: la ricetta del baccalà alla
vicentina di nonna Rita!
Sergio Conti Nibali
Tra giustizia e compassione
Giorgio Fontana
Morte di un uomo felice
Sellerio editore
Palermo, 2014
pp. 280, euro 14
Giorgio Fontana è un giovane scrittore
nato nel 1981. Questo non è il suo primo
romanzo.
Siamo nella Milano del 1981, non a caso
l’anno di nascita del narratore e anno
feroce e tragico per le stragi terroristiche.
Il protagonista della storia è un magistrato, Giacomo Colnaghi, in prima linea
« Penso di aver iniziato a scrivere fin da
bambina, quando, nei tragitti lunghi o
brevi sul sedile posteriore dell’automobile
dei miei genitori, in silenzio raccontavo a
me stessa storie, dialoghi, impressioni.
Oggi rivivo spesso questo tipo di esperienza nei viaggi aerei di una certa durata; tra
un qui e un lì, le necessità di interagire con
gli altri, conduco una vita interiore, l’interiorità dell’immaginazione individuale».
Nadine Gordimer, Vivere con uno scrittore
nelle indagini sul terrorismo. Colnaghi
coordina un piccolo gruppo di inquirenti
e indaga sulle attività di una banda armata responsabile dell’omicidio di un uomo
politico.
La storia si snoda in parallelo attraverso
la vita del magistrato, fatta di solitudine
e di sguardi attenti verso un quotidiano
difficile ma anche di piccole felicità, e la
Milano di allora, scenario di stragi e di
grandi inquietudini. Il dubbio accompagna costantemente il suo lavoro, tanto da
provare perfino empatia, in alcune occasioni, nei confronti dei terroristi e delle
persone che cerca disperatamente di
arrestare.
Il suo metodo investigativo è fatto non
solo di prove ma anche di voglia di capire i meccanismi attraverso i quali una
persona possa arrivare a dare una svolta
così dura e tragica alla propria vita, e l’origine delle ferite così profonde di una
società. La sua è la continua ricerca di un
compromesso tra giustizia e compassione. Colnaghi è una persona molto religiosa, appassionatamente cattolica, e la
sua religiosità, spesso tragica, lo accompagna sempre nel lavoro. Sono poi le sue
umili origini a emergere spesso e a
rafforzare in lui la convinzione che in
una società aperta, nonostante le vicende
del periodo, sia possibile riuscire a perseguire degli obiettivi.
La figura di un uomo solo, con un padre
che non ha conosciuto, che lo ha lasciato
piccolissimo morendo durante un’azione
di lotta da partigiano, un padre che ha
amato e le cui gesta eroiche hanno in
qualche modo per lui giustificato l’abbandono subìto. La bellezza di questo
romanzo sta nella riflessione, che stimola nel lettore, sul senso profondo della
giustizia e nella narrazione pulita, incisiva e delicata. Colnaghi appare da subito
come vittima destinata e il senso della
morte è presente durante tutto lo svolgimento del racconto; tuttavia esso è
accompagnato spesso da una felicità non
giustificata ma che traspare e appare in
maniera spontanea e innocente. Belli i
ritratti dei vari personaggi che accompagnano il magistrato, dagli amici ai colleghi di lavoro, alle persone, come il ferroviere, incontrate casualmente. Un romanzo da leggere e da consigliare.
Stefania Manetti
227
Quaderni acp 2014; 21(5): 228
Rubrica a cura di Costantino Panza
In USA obbligatorio informare pubblicamente sull’elargizione
di denaro a ogni medico da parte dell’industria. E in Italia?
La relazione economica tra medico e industrie farmaceutiche o
di apparecchiature sanitarie è altamente dibattuta; è stimato che
il 71% dei medici nel 2009 abbia preso compensi o omaggi dalle
industrie. Negli Stati Uniti è stato recentemente approvato il
Sunshine Act che obbliga a informare pubblicamente sui rapporti finanziari che intercorrono tra singolo medico e industria.
Nello Stato del Massachusetts, il Pharmaceutical and Medical
Device Manufacturer Code of Conduct richiede già dal 2009 di
registrare in un apposito database elargizioni dell’industria verso
i medici di valore superiore ai 50 $. Dai dati raccolti da luglio
2009 a dicembre 2011 si rileva una spesa totale di oltre 76 milioni di dollari; i medici interessati ai compensi erano 6530 nel
2010, e 5921 nel 2011. I compensi sono stati suddivisi in servizi
in bona fide, cibo, finanziamenti per formazione o training, studi
di marketing, donazioni, conferenze, programmi di educazione
medica. La più comune forma di pagamento è risultata essere il
cibo (14.251 pagamenti per un totale di 2,4 milioni $); mentre i
compensi per servizi in bona fide sono stati quelli a più alto valore (8432 pagamenti per un totale di 67 milioni $). La media dei
pagamenti verso i professionisti è stata di 4637 $ nel 2010 e 4944
$ nel 2011: i meno pagati sono stati i medici di medicina generale e i pediatri di famiglia; gli ortopedici sono stati i più pagati,
con oltre 18.000 $ in trenta mesi per professionista. Non sono
stati conteggiati omaggi di costo inferiore ai 50 $. u
LA GIORNALISTA. Se qualcuno non fosse convinto della necessità di
trasparenza nei rapporti tra medici e industria e in generale nelle strategie di politica sanitaria, dovrebbe tenere a mente un caso paradigmatico: la pandemia da virus A/H1N1. Era il 2009, l’influenza suina
dilagava in tutto il mondo e a giugno l’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) elevò l’allarme al livello massimo, il sesto: tanto
bastò a far scattare gli accordi di prelazione siglati anni prima dagli
Stati con le aziende farmaceutiche per la produzione di vaccini pandemici. Una boccata d’ossigeno per l’industria in un momento di crisi
globale, che si è tradotta in profitti milionari. Quasi tutti gli Stati occidentali corsero all’acquisto, salvo rare eccezioni (la Polonia). In Italia
e altrove la campagna vaccinale fu un flop. Il migliore giornalismo
investigativo e scientifico europeo svelò in quei mesi le relazioni “pericolose” tra alcuni esperti del segretissimo Emergency Committee che
coadiuvava il segretario generale dell’OMS e Big Pharma. Nel febbraio 2010 l’OMS ammise davanti al Consiglio d’Europa errori e condizionamenti. Segretezza e opacità hanno marchiato la gestione della
pandemia 2009. Terribile la lezione che tutti, e i medici in particolare, dovrebbero ricordare: la prima vittima della mancanza di trasparenza e dei conflitti d’interesse a ogni livello è la credibilità delle autorità sanitarie e della medicina.
Manuela Perrone, Il Sole 24 ORE Sanità, Roma
[email protected]
IL FARMACOLOGO. Come tutte le iniziative che segnalano un
ritorno alla “normalità” (in fondo è questo il senso più vero della
nuova legge: da una parte dev’essere chiaro se il medico risponde all’interesse del/la paziente o dell’industria, e dall’altra il
come/quanto l’industria manipola il mercato) un “benvenuto” è
d’obbligo. Come sarebbe ovvio l’auspicio anche in Italia. La
domanda rimane – totalmente aperta, anche negli USA – se il
mercato è compatibile con la trasparenza: la tendenza più di
fondo, infatti (ed è molto più preoccupante e invadente del pagamento diretto dei medici), è quella di fare sempre più, di tutte
le prestazioni mediche, un settore assolutamente competitivo
del mercato, e sempre meno un “servizio”. Non è un problema
di nomi, ma di cultura. Il fatto di dichiarare quanto qualcuno
riceve dall’industria può essere “venduto” come segno di merito:
è tanto bravo che anche l’industria lo paga. Sunshine è un tassello per regolare il conflitto di interessi: ma non si capisce perché la sanità – una volta che non è più un’area del diritto soprattutto per chi sta peggio, ma un mercato qualsiasi – dovrebbe
essere più “virtuosa” di altre aree di mercato e di professionisti:
avvocati, esperti, economisti, banchieri... Sempre ricordandoci
che l’Italia per la non-trasparenza (dal fisco in giù) è Paese leader a livello globale.
Gianni Tognoni, Direttore Consorzio “Mario Negri Sud”, Chieti
[email protected]
*Kesselheim AS, Robertson CT, Siri K, et al. Distributions of Industry Payments to Massachusetts physicians. N Engl J Med 2013;368(22):2049-52.
IL POLITICO. Nella mia esperienza di medico, negli USA, ho verificato quanto possa diventare ingombrante la presenza delle aziende e, con il tempo, è
emersa spontaneamente l’esigenza di dotarsi di strumenti sempre più efficaci per regolamentare questo delicato rapporto. In Italia non abbiamo ancora
una normativa simile a quella americana, ma ritengo sia soltanto una questione di tempo. Del resto anche in politica stiamo assistendo a una sempre
più legittima e giustificata richiesta di trasparenza da parte della popolazione, affinché istituzioni e pubblica amministrazione garantiscano libero accesso alle informazioni e permettano così di rafforzare il necessario rapporto di
fiducia fra cittadini e operatori dei diversi settori. Si tratterà di trovare formule
adatte alla nostra cultura, che tengano in considerazione il sempre crescente
spirito di iniziativa e di autonomia delle persone ammalate nei confronti delle
scelte legate al proprio percorso terapeutico. Tuttavia nulla cambierà senza
la buona volontà e l’assunzione di responsabilità da parte dei medici e dei
ricercatori. Soprattutto per i giovani specialisti è indispensabile giungere preparati e consapevoli dei potenziali rischi di condizionamento, ma anche di
supporto corretto alla propria attività, da parte dell’industria. Ho sempre
sostenuto l’esigenza di inserire nei corsi di laurea opportunità concrete di
preparazione, anche etica, all’esercizio della professione e al rapporto con
il paziente. Fiducia, trasparenza, correttezza, dialogo, libera scelta informata sono la base della comunicazione medico-paziente che qualsiasi nuova
norma dovrà garantire e rafforzare.
Ignazio R. Marino, M.D., FACS Professore di Chirurgia,
Jefferson Medical College;
Sindaco di Roma Capitale
228
L’EPIDEMIOLOGO. Leggere questo articolo causa tristezza, ma non sorpresa. Sono decenni infatti che mi batto, senza grandi risultati purtroppo,
affinché i medici (ma anche altri professionisti della salute) non intrattengano, o pongano fine a relazioni pericolose con chi considera la salute
come un mercato, sia nel senso nobile del termine (il luogo dove si scambiano merci) sia in quello deteriore (il non luogo dove vince chi sa trarre i
maggiori profitti nel minor tempo possibile, spesso vendendo fumo).
Nonostante l’impegno, mio e di molti altri, per mettere un freno a questo
lento scivolare in sabbie mobili dalle quali diventa a un certo punto impossibile liberarsi, l’andazzo è diventato la norma. Tanto che molti non ci
fanno più caso. È triste constatare che c’è voluta una legge, conseguente
alle denunce di un senatore e poi voluta dal presidente Obama, per
costringere gli attori di queste relazioni pericolose, medici e industria, a
rendere per lo meno trasparenti i loro scambi, sperando che prima o poi
provino un qualche senso di vergogna. Mi piacerebbe che in Italia non
fosse così, che con uno scatto d’orgoglio i miei colleghi decidessero di
anticipare l’Obama nostrano che prima o poi introdurrà nel bel paese un
Sunshine Act. Speranza in teoria realizzabile, per quanto improbabile.
Perché nel mio immaginario, nei miei sogni, vorrei che di un Sunshine Act
nostrano non ci fosse bisogno. Ma si sa: i sogni svaniscono al risveglio.
Adriano Cattaneo, Epidemiologo, associato a Ibfan Italia e
“NoGraziePagoIo”, Trieste
[email protected]
vaccin
Quaderni acp 2014; 21(5): 229-236
La scelta di vaccinare:
uno sguardo dal ponte
Leonardo Speri, Lara Simeoni, Mara Brunelli, Paola Campara, Massimo Valsecchi
Dipartimento di Prevenzione ULSS 20, Verona
Abbiamo deciso di dedicare questo numero speciale di “Vaccinacipì” alla ricerca di “GenitoriPiù” sui determinanti della scelta
vaccinale. Si parla molto di vaccinazioni senza però analizzare con attenzione il perché si determinino comportamenti ostili da
parte dei genitori e si dà spesso per scontato di aver capito tutto. La Regione Veneto ha decretato la sospensiva dell’obbligo vaccinale e si è spesa per formare gli operatori sanitari alle abilità comunicativo-relazionali muovendosi in un’ottica di empowerment.
Per cambiare il paradigma tradizionale era necessario capire cosa i genitori sanno o pensano di sapere intorno ai vaccini e alle
malattie collegate. Questa ricerca ci permette uno sguardo da un “ponte” gettato tra operatori e genitori, liberandoci da alcuni
pregiudizi per costruire un rapporto medico-paziente sempre meno orientato al paternalismo. Abbiamo chiesto a una mamma, a un
pediatra di famiglia (PdF) e counsellor e a un medico di Sanità Pubblica di commentarne i risultati, in modo di aiutarci a vedere
il problema nella sua complessità e dai vari punti di vista. Al lettore spetta farsi una opinione critica su cosa si possa migliorare
nel Sistema Sanitario per aiutare i genitori a scegliere il meglio per il loro figlio, sostenendoli senza ricorrere a pratiche terroristiche. Siamo certi che molti speculano sulle paure dei genitori ed è nostro compito accompagnare scelte mature e consapevoli partendo da un ascolto attivo senza preconcetti. Attendiamo i vostri commenti numerosi ([email protected]).
Il Direttore, Michele Gangemi
Premessa
Quando all’inizio del 2009 la Regione
Veneto assumeva la decisione di investire in una “Indagine sui determinanti del
rifiuto vaccinale” nell’infanzia, affidandola al Dipartimento di Prevenzione
dell’ULSS 20 di Verona, forte dell’esperienza di capofila del programma “GenitoriPiù”, l’opinione prevalente tra
pediatri di famiglia (PdF) e assistenti sanitarie o medici del servizio vaccinale
collocava la scelta dei genitori “rifiutanti” (1,5-2%) dentro un orizzonte ideologico poco scalfibile, confinando la possibilità di un dialogo a quei genitori che
aderivano solo per alcune vaccinazioni
(3%). Di contro non vi era particolare
preoccupazione per i genitori che accettavano in toto l’offerta vaccinale (95%),
per lo più bisognosi di qualche autorevole rassicurazione di fronte al timore fisiologico davanti a quello che rimane, in
ogni caso, un intervento sanitario su un
bambino sano.
La scelta di sospendere l’obbligo vaccinale, disposta dalla Legge Regionale n. 7
del 23 marzo 2007, poggiava su diverse
importanti motivazioni, tra cui quest’ultimo dato, espressione di un’adesione
consolidata e di una soddisfacente efficienza del sistema.
Nella fase culminante dell’indagine,
all’inizio del 2011, non si registravano
particolari flessioni nelle coperture vaccinali (dal 95,6% al 94,4% per l’esavalente nel primo triennio di applicazione);
tuttavia alcune aziende sanitarie del territorio pedemontano erano particolarmente, e tradizionalmente, impegnate da un
Per corrispondenza:
Leonardo Speri
e-mail: [email protected]
significativo fenomeno di rifiuto attivo.
La flessione, che peraltro è sembrata
investire anche altre Regioni, si è tuttavia
gradualmente estesa a territori limitrofi,
fatti oggetto di un particolare fiorire di
iniziative contrarie alle vaccinazioni,
dove attualmente si segnala una difficoltà a mantenere alte coperture, che
però vengono riguadagnate nel tempo,
ma non senza un lavoro impegnativo.
La fragilità dell’idea iniziale di poter
contare su genitori vaccinatori “fidelizzati” e la tendenza a ritardare il momento delle vaccinazioni in realtà sono due
tra i più importanti elementi anticipati
dall’indagine, i cui dati hanno messo in
discussione una visione semplificata e
stereotipata del comportamento dei
genitori.
La ricerca: obiettivi e metodo
Un cambio di paradigma, improntato
all’ascolto e al dialogo, e un approccio di
counselling, applicato in modo innovativo a un “soggetto collettivo”, costringevano, quindi, a spostare l’obiettivo verso
un’analisi della complessità delle scelte
vaccinali di tutti i genitori, indipendentemente dalla loro adesione all’offerta vaccinale, totale o parziale o di rifiuto, e a
cercare di focalizzare il sistema di relazioni tra genitori da un lato e operatori
dei servizi vaccinali e PdF dall’altro.
Scelto il territorio di riferimento, circoscritto a sei Aziende Sanitarie della
Regione (14.953 nati, circa il 31% dei
nati complessivi del 2010 nel Veneto) e
identificato in base alle criticità nelle
coperture della vaccinazione esavalente
in cinque di queste, è stato condotto un
paziente percorso preliminare: indagine
bibliografica approfondita della letteratura internazionale, interviste semi-strutturate con testimoni privilegiati, nove in-
contri di gruppo organizzati secondo la
tecnica quali/quantitativa informatizzata
Nominal Group Tecnique - NGT (tre incontri con un totale di 26 genitori non
vaccinatori o vaccinatori parziali e sei
incontri con 66 tra operatori vaccinali e
PdF)1.
Da questo lavoro preparatorio è stato
“distillato” un questionario che, oltre ai
dati di tipo socio-demografico, le esperienze rispetto alle vaccinazioni, le fonti
di informazione e le relazioni con gli operatori, si è proposto di studiare le convinzioni dei genitori attraverso 21 affermazioni sul loro atteggiamento rispetto
alle vaccinazioni. Per ciascun item è
stato valutato, tramite una scala di Likert a 5 punti, il grado di accordo o disaccordo.
Il questionario finale è stato messo a
punto per essere proposto, indipendentemente dalla loro scelta vaccinale, a “tutti
i genitori”, definiti successivamente in
tre sottogruppi e tipizzati, come rappresentato nella figura 1.
Il questionario è stato reso disponibile
per l’autosomministrazione:
– in forma cartacea presso i centri vaccinali e i PdF delle sei ULSS (2140
compilazioni valide, campione statisticamente rappresentativo della
popolazione di riferimento dei genitori che vaccinano). In particolare, per
raggiungere il maggior numero di
genitori che non vaccinano o genitori
che vaccinano solo parzialmente, ai
PdF è stata chiesta la consegna mirata
del questionario cartaceo con busta
preaffrancata o la consegna del link
per la compilazione via web;
– via web con sistema Cawi (Computer
Assisted Web Interviewing), diffondendolo attraverso molti canali, in
particolare associazioni e blog2, ren229
vaccinacipì
Quaderni acp 2014; 21(5)
FIGURA
1: DEFINIZIONE DELLE TIPOLOGIE DI GENITORI INTERVISTATI NELL’INDAGINE SUI DETERMINANTI DEL RIFIUTO DELL’OFFERTA VACCINALE
TABELLA
2: I CONSIGLI DEGLI OPERATORI
TABELLA 1: QUESTIONARI VALIDI COMPILATI PER LA SCELTA
VACCINALE E FONTE
TABELLA
3: CONOSCENZE DEGLI OPERATORI SULLE CONTROINDICAZIONI (IN VERDE LE RISPOSTE CORRETTE)
FIGURA
FIGURA
230
2: INTENZIONE DI VACCINARE IN FUTURO IL FIGLIO
3: INFORMAZIONI SULLE VACCINAZIONI E PEDIATRI
FIGURA 4: IL PROFILO DEGLI OPERATORI TRA PROMOZIONE
CONVINTA E NEUTRALITÀ
vaccinacipì
dendolo pertanto accessibile su scala
nazionale (2148 compilazioni valide,
610 provenienti dal Veneto, delle
quali 175 dal territorio delle sei ULSS
partecipanti alla ricerca). Nei questionari raccolti via web, campione ovviamente non rappresentativo, si riscontra un alto numero di non vaccinatori
(650/2148) con un conseguente (e
interessante) bias di selezione.
La risposta è stata al di sopra di ogni
aspettativa (tabella 1).
Quaderni acp 2014; 21(5)
TABELLA
4: CONOSCENZA DI CANALE VERDE
I risultati
L’elaborazione dei 2315 questionari relativi alla medesima coorte delle sei ULSS
di ricerca, rappresentativa della popolazione che vaccina, ma contenente anche
un considerevole campione, sia pure
autoselezionato, di genitori che avevano
rifiutato ogni vaccinazione (un terzo dei
genitori che non vaccinano nella coorte
interessata), ha fornito informazioni interessanti e in parte inattese, tracciando
uno scenario molto variegato, frutto della
combinazione di informazioni, percezioni e convinzioni diverse.
Concentrando l’attenzione sui dati del
territorio di ricerca, il profilo dei genitori che non vaccinano risulta: cittadino
italiano, scolarità tendenzialmente elevata (in particolare la madre), maggiore età
media, parità più alta, maggior presenza
di madri impiegate in ambito sanitario. I
dati sui cittadini stranieri che è stato possibile raggiungere con la ricerca, proposta solo in lingua italiana, confermano
l’aneddotica sulla tendenza all’utilizzo
completo dell’offerta vaccinale.
La prima sorpresa nell’analisi dei dati
riguarda l’intenzione dichiarata sulle
future vaccinazioni (figura 2): contrariamente all’ipotesi di partenza, tra i rispondenti solo il 37% di chi non ha vaccinato
risulta determinato a proseguire nella
scelta; per il restante 63% ci sono margini di ripensamento. L’intenzione di non
vaccinare scende al 12% tra i vaccinatori parziali (il 28% si dichiara disponibile
a seguire il calendario completo) e oltre
lo 0,5% tra chi ha fatto tutte le vaccinazioni (dato tuttavia di un certo peso in
termini assoluti).
Una seconda sorpresa tuttavia è il dato che
più di altri dovrebbe interrogare operatori
e decisori e che rimane invisibile per chi si
limita alla superficie dei tassi di copertura:
all’interno della popolazione che finora ha
vaccinato è presente una quota molto rilevante di genitori “dubbiosi”. Nel campione – statisticamente rappresentativo – sono un preoccupante 15%.
Questi genitori, anche se finora hanno
vaccinato, presentano a un successivo
approfondimento un profilo con evidenti
similitudini con il gruppo dei vaccinatori
parziali, soprattutto relativamente alla
fiducia negli operatori e ai timori sui
rischi da vaccinazione.
Se risulta quindi di particolare importanza il fatto che nel gruppo di chi non vaccina ci siano ampie disponibilità al dialogo, d’altro canto l’adesione elevatissima
all’offerta vaccinale della popolazione
non è automatica e il patrimonio di fidelizzazione e di adesione “di default” è
tutt’altro che scontato.
Per quanto riguarda le fonti di informazione vi è una certa omogeneità tra i tre
gruppi nell’accesso a fonti istituzionali.
Indipendentemente dalla scelta fatta, il
72% dei genitori indica di aver avuto il
PdF come fonte informativa. Non tutti i
pediatri, secondo i genitori, avrebbero
però consigliato l’intero percorso vaccinale.
Il dato di chi ha dichiarato di aver ricevuto una proposta “ridotta” è pari al
15%, sia per chi non vaccina sia per chi
vaccina parzialmente, e può essere motivato come mediazione o, in una prospettiva di counselling, come un “tenere
aperta la porta” della relazione. C’è però
un sottogruppo, pari al 4,5%, che, pur
avendo scelto di fare tutte le vaccinazioni, dichiara di aver ricevuto un consiglio
limitato solo ad alcune. Questo dato va
tenuto presente alla luce di ulteriori
informazioni raccolte dall’indagine e da
ricerche successive sull’atteggiamento
dei diversi operatori e dei PdF.
Il “percepito” circa le informazioni sugli
effetti collaterali fornite dal pediatra non
è uniforme: dichiara di averle ricevute
ben l’86% dei vaccinatori, ma meno di
un terzo dei non vaccinatori (figura 3).
Difficile dire se per effetto dell’atteggiamento di partenza del genitore, che ritiene che vi sia di più di quello che gli operatori sanno o raccontano, o dell’approccio impostato dal pediatra, in più di un
caso dichiaratamente influenzato da percorsi formativi più di marketing sociale
che di comunicazione, orientati a sottolineare pressoché unilateralmente gli
aspetti positivi.
C’è invece una netta differenza tra i genitori nell’accesso a fonti esterne al sistema vaccinale e al Servizio Sanitario
Nazionale (SSN): chi non vaccina si
rivolge con maggiore frequenza alle
associazioni contrarie alle vaccinazioni,
a internet e al passaparola.
Anche per le fonti di informazione il
sottogruppo (15%) dei vaccinatori totali
ma “dubbiosi” si mantiene su valori
231
vaccinacipì
molto vicini a quelli dei vaccinatori parziali, ed è così anche relativamente alle
esperienze dirette o indirette di eventi
avversi.
Quanto alle 21 affermazioni relative agli
atteggiamenti i tre gruppi presentano affinità ma anche marcate differenze. Tutti
i genitori dichiarano, per esempio, di
temere le reazioni avverse subito dopo la
vaccinazione, mentre è più variabile la
percezione del rischio di effetti negativi a
lungo termine, che sono la preoccupazione di chi non vaccina; è l’inverso per la
pericolosità delle malattie prevenibili
con la vaccinazione. Secondo l’insieme
dei dati raccolti la scelta di vaccinare è il
frutto di un difficile equilibrio nella valutazione di rischi e benefici. L’ansia per le
reazioni avverse viene mitigata dalla
consapevolezza della pericolosità delle
malattie e del valore protettivo delle vaccinazioni.
Su tutto questo però i genitori hanno informazioni e percezioni molto diverse, in
particolare circa la supposta reticenza
degli operatori riguardo alle reazioni avverse, e finiscono per fare scelte diverse.
Le scelte vaccinali e la valutazione del
rapporto rischi/benefici sono infatti fortemente influenzate proprio da questa
percezione e dall’autorevolezza o fiducia
nelle fonti informative scelte (chi non
vaccina ritiene che gli operatori non
siano preparati), mentre la sospensione
dell’obbligo vaccinale viene ritenuta dai
genitori sostanzialmente ininfluente sulle
proprie scelte.
Le motivazioni di chi non vaccina, come
si è visto in parte condivise anche da chi
finora ha vaccinato, sono in estrema sintesi le seguenti: “Le vaccinazioni vengono proposte su bambini troppo piccoli e
in quantità eccessiva in un’unica soluzione. Gli effetti collaterali gravi, che
possono presentarsi anche a distanza di
tempo, considerato anche che si tratta di
un business per le case farmaceutiche,
vengono tenuti nascosti da parte di operatori che danno informazioni unilaterali sui benefici e non sui rischi, colpevolizzano chi non vaccina, e sono in odore
di conflitto di interessi. Il tutto per
affrontare malattie tutto sommato meno
pericolose dei vaccini stessi”.
Trovano qui conferma sia il dato citato
all’inizio sul ritardo nelle vaccinazioni
che i dubbi crescenti nei genitori, i quali
impegnano sempre di più tutti gli opera232
Quaderni acp 2014; 21(5)
tori, sia in termini di tempo che in qualità
delle risposte.
È la fotografia di un dibattito aperto, di
una contiguità e influenza reciproca tra
genitori che fanno scelte diverse, di
appartenenze “sfumate” ai tre sottogruppi e di un ruolo ancora riconosciuto, ma
tutt’altro che indiscusso, degli operatori
e dell’istituzione.
Cosa succede tra gli operatori?
Il programma “GenitoriPiù” (www.genitoripiu.it), in collaborazione con la Fondazione Ca’ Foscari dell’Università di
Venezia, conduce ricerche periodiche
sugli otto determinanti di salute promossi, destinate sia ai genitori che agli operatori, approfondendo, dove possibile, i
dati disponibili o funzionando da sistema
di sorveglianza pilota su un’area, quella
materno-infantile, ancora insufficiente
oggetto di attenzione.
La ricerca di “GenitoriPiù” del 2012 ha
potuto tener conto quindi dei dati risultanti dall’indagine sui determinanti della
scelta vaccinale e ha approfondito la
situazione del Veneto in un campione
rappresentativo dei genitori (n. 6246) e
in un campione selezionato di operatori,
risultato, nonostante alcuni bias, abbastanza numeroso (n. 1590) e in grado di
indicare tendenze.
Circa i genitori, cui è stato proposto un
questionario autosomministrato in occasione della seconda seduta vaccinale, sono
state indagate le intenzioni circa il proseguimento del calendario vaccinale per i
loro figli, già esplorate nell’indagine citata. Rispetto a quest’ultima viene confermata la tendenza al dubbio tra chi vaccina,
con un dato di circa il 10% di incertezza
sul proseguimento delle vaccinazioni.
Per le fonti informative i genitori confermano la tendenza, già riscontrata in una
precedente ricerca del 20093 e anche
nelle dichiarazioni degli operatori, circa
un attivismo piuttosto debole dei servizi
per l’accompagnamento alla nascita e di
Punti Nascita ospedalieri.
Il dato ribadisce quanto riscontrato dall’indagine: il pediatra scende ma mantiene tra gli operatori il ruolo di fonte informativa principale con il 62% delle scelte,
mentre il dato delle informazioni ricevute nei gruppi pre-parto è sostanzialmente
coincidente.
Da più ricerche (i dati 2009 sono confermati nel 2012) risulta quindi evidente
una difficoltà del sistema, non solo attraverso le dichiarazioni dei genitori ma per
affermazione degli operatori stessi.
Ricordiamo che se non si può parlare di
rappresentatività statistica, possiamo
pensare a una selezione per sensibilità,
sottolineando comunque che ha risposto
il 50% dei PdF della Regione.
Vale la pena concentrarsi su questa debolezza e disomogeneità dell’attività informativa, dal momento che in questo campione le diverse categorie professionali
mantengono la stessa differenziazione,
come convinzioni, conoscenze, atteggiamenti e comportamenti conseguenti.
Nella ricerca “GenitoriPiù” 2012 infatti
la frequenza dei consigli autodichiarata
dagli operatori è maggiore di quella rilevata dai genitori, comunque con molti
operatori che non intervengono sulle
vaccinazioni. Nei dati si mantiene la
stessa forte differenza tra i pediatri di
famiglia e centri vaccinali da un lato e
chi lavora nei servizi per l’accompagnamento alla nascita e nei punti nascita ospedalieri dall’altro. A questo si aggiunge una proporzionale tendenza alla selettività verso le vaccinazioni, in molti casi
consigliate “solo in parte” (tabella 2).
Difficile non associare questo comportamento alle risposte, proporzionalmente
differenziate tra i servizi, sulla conoscenza delle controindicazioni alla vaccinazione: nei servizi dove c’è meno propensione a dare consigli risulta una chiara
sopravvalutazione del peso delle condizioni patologiche leggere e della prematurità (tabella 3).
Il dato evoca una tendenza protettiva e
rileva più una credenza che un sapere
basato sull’evidenza. Viene da chiedersi
se questa tendenza protettiva, che va al di
là delle evidenze scientifiche, non sia il
frutto di un clima generale circa la “pericolosità” delle vaccinazioni, che solo una
rigorosa ricerca e un solida convinzione
possono contraddire.
A conferma di questa ipotesi è interessante vedere come per questi operatori
più “protettivi”, queste convinzioni corrispondano a un atteggiamento di fondo
rispetto all’offerta vaccinale.
Sono stati estratti 6 item dai 21 utilizzati
nell’“Indagine sui determinanti della
scelta vaccinale” (paragrafo 1), identificati, con un procedimento statistico,
come quelli che meglio discriminavano
in tre gruppi i genitori tra “favorevoli”,
vaccinacipì
“neutrali” e “contrari” alle vaccinazioni
(figura 4).
Sottoposti questi item agli operatori, la
distribuzione tra “favorevoli”, “neutrali”
e “contrari” fa risultare ancora più evidente la diffusione di atteggiamenti
quanto meno prudenti o incerti, soprattutto negli stessi servizi dove prevale un
atteggiamento più “protettivo” nei confronti delle vaccinazioni, con la tendenza
a un debole attivismo. È interessante
notare come abbiano un peso importante
le convinzioni circa le reazioni avverse,
il numero di vaccini in un’unica soluzione, il rapporto rischi/benefici, rispecchiando le perplessità dei genitori.
L’attenzione va rivolta allora a quali
siano le basi su cui poggiano queste
conoscenze, quale sia e da dove derivi
questo debito informativo.
I dati raccolti offrono una prima suggestione relativa alla scarsa conoscenza e
utilizzo, sia in assoluto sia con la stessa
differenziazione tra i diversi servizi, dello strumento di monitoraggio delle reazioni avverse (“Canale Verde”) presente
nella Regione Veneto, uno strumento
fondamentale sia dal punto di vista epidemiologico che della consulenza clinica.
Lo si conosce poco, i suoi report si leggono ancor meno e, limitatamente alle
reazioni medio-lievi, si tende a sottosegnalare (tabella 4). La sua conoscenza
permetterebbe senz’altro di dimensionare
in modo corretto l’incidenza e la gravità
delle reazioni avverse, dato pressoché
sconosciuto tra Consultori e Punti Nascita, e comunque poco conosciuto anche
dagli operatori dei servizi vaccinali.
In un momento in cui i genitori sono bersagliati da allarmi di ogni tipo, che proseguono la loro efficacia nonostante
siano da tempo destituiti di fondamento,
dal caso Thiomersal al dibattito vaccini e
autismo, la domanda che pongono i dati
raccolti è infatti su come una scarsa
conoscenza dei veri rischi relativi alle
vaccinazioni possa costituire un elemento che spiega le incertezze che si manifestano ai diversi livelli del processo di
promozione, gestione e controllo dell’offerta vaccinale.
Quest’ultimo dato, assieme agli altri
descritti, mostra la necessità tra gli operatori di rafforzare e approfondire la
competenza sulla tematica delle reazioni
avverse e dell’assunzione in merito di un
assetto comunicativo con le famiglie con
Quaderni acp 2014; 21(5)
un profilo sorretto da abilità relazionali e
di counselling.
Conclusioni
Se, come si è dimostrato, la situazione
dell’adesione all’offerta vaccinale è più
articolata e complessa e se la sospensione dell’obbligo vaccinale vuole rappresentare la rinuncia a un atteggiamento
autoritario, ormai giuridicamente “disinnescato” e controproducente, il punto di
arrivo di un sistema sanitario evoluto,
cioè la piena assunzione della sfida di
un’adesione libera e consapevole alle
vaccinazioni, passa attraverso la garanzia
di un percorso di qualità nell’organizzazione, nel monitoraggio, nella formazione del personale, nell’ascolto e nella
comunicazione con i genitori. L’analisi
dei dati ha suggerito alcune strategie:
– Strutturare i servizi vaccinali per
garantire un’offerta attiva delle vaccinazioni con appropriate modalità di
counselling in modo da mantenere la
credibilità del sistema vaccinale grazie alla autorevolezza, preparazione,
capacità di ascolto degli operatori.
– Intervenire nel web per fornire informazioni trasparenti e complete sul
valore protettivo e sui rischi delle vaccinazioni e contrastare la controinformazione. Il sito www.vaccinarsi.org
rappresenta una prima risposta concreta e molto seguita.
– Attivare un sistema di informazione
per i genitori e gli operatori sanitari
sulle epidemie da malattie prevenibili
con le vaccinazioni. È allo studio il
rafforzamento delle strategie comunicative: la ripresa in termini di comunicazione di massa dell’allarme polio o
di altre epidemie come il morbillo
sono ancora piuttosto deboli.
– Migliorare il sistema di informazione
sui dati reali relativi alle reazioni
avverse. È in dirittura d’arrivo nel
Veneto la diffusione di un libretto
sulle reazioni avverse che accompagnerà il libretto delle vaccinazioni.
Questi requisiti si rilevano oggi vitali,
tanto più che le coperture vaccinali sembrano risentire di vari fattori ma non
della modalità adottata dai diversi sistemi sanitari, impositiva o meno, come si
evince anche da una rassegna delle esperienze europee4.
L’ingrediente “fiducia” rimane fondamento delle scelte, e la preparazione,
l’attitudine all’ascolto e alla partecipazione rafforzano la credibilità – patrimonio irrinunciabile – degli operatori.
In collaborazione con Sinodè srl di Padova che ha
curato tutta la parte statistica della ricerca.
2
Allattare.info, Alibaba (Yahoo), Associazione
Insieme, Bambino Naturale, Blog VaccinarSì/Vaccinfo.it, GAAM, Genitori Channel, IBFAN Italia,
Io e il Mio Bambino, LaLecheLeague Italia, MAMI, mammaonline.com, mammeonline.net, Bebè a
costo zero, Medico e Bambino, Progetto Nascere
Meglio, Spazio Neomamma, UPPA (Un Pediatra
per Amico).
3
Campostrini S, Porchia S. “Pillole di ValutazionePromuovere le vaccinazioni”. In: Speri L, Brunelli
M (a cura di). “GenitoriPiù: Materiale informativo
per gli operatori”, Verona 2009.
4
Lopalco PL. “Strategie e coperture vaccinali negli
Stati Europei”. http://www.vaccinarsi.org/assets/uploads/news/2013-12-conferenza-5anni sospensione/2_Strategie_e_coperture_vaccinali_europa.pdf.
1
Bibliografia di riferimento
EpiCentro (Redazionale). “Adesione all’offerta:
quanto contano capacità di ascolto e buona comunicazione?”. www.epicentro.iss.it/approfondimenti/2013/VaccinazioniRifiutoVaccinaleVeneto.asp/.
Gangemi M, Elli P, Quadrino S. “Il Counselling ovvero una Comunicazione Efficace”. In: Speri L,
Brunelli M (a cura di). “GenitoriPiù: Materiale
informativo per gli operatori”. Verona, 2009.
Pozza F, Piovesan C, Russo F, et al. “Impact of universal vaccination on the epidemiology of varicella
in Veneto, Italy”. Vaccine 2011;29(51):9480-7. doi:
10.1016/j.vaccine.2011.10.022.
Russo F, Pozza F, Napoletano G, et al. “Experience
of vaccination against invasive bacterial disease in
Veneto Region (North East Italy)”. J Prev Med Hyg
2012;53(2):113-5.
Speri L, Simeoni L, Brunelli M, et al. “Vaccinazioni: dalla prescrizione all’ascolto”. Dialogo sui farmaci n. 5/2012.
Valsecchi M. “Vaccinazioni, superare il divario tra
obbligo e scelta: l’esempio del Veneto”. www.epicentro.iss.it/temi/vaccinazioni/Veneto2011.asp/.
Valsecchi M. “Vaccinare senza obbligo di legge.
Perché solo in Veneto?”. www.saluteinternazionale
.info/2013/12/vaccinare-senza-obbligo-di-leggeperche-solo-in-veneto/.
N.B. La ricerca, completa di allegati e con tutta la
bibliografia di riferimento è reperibile in prevenzione.ulss20.verona.it/indagine_scelta_vaccinale.h
tml dove è possibile accedere anche a tutte le schede delle singole pubblicazioni selezionate.
Commento di Isabella Sciarretta
Verona, Associazione “Il Melograno”
Per corrispondenza:
Associazione Nazionale Centri
informazione maternità e nascita
(sito/mail: www.melograno.org;
[email protected])
233
vaccinacipì
L’identificazione dei genitori che attraverso i focus group e i questionari web
fossero stati disponibili a dichiarare le
motivazioni relative alle loro scelte in
ambito vaccinale è stata affidata alla rete
veneta de “Il Melograno”, Centri informazione maternità e nascita. Con una
pronta adesione che ha superato le
migliori aspettative, diverse centinaia di
genitori hanno raccolto l’invito a compilare il questionario. La ricerca sembra
aver dunque intercettato una sorta di
bisogno da parte dei genitori – vaccinatori o non vaccinatori – di raccontare i
propri vissuti.
Dal nostro punto di vista l’esperienza ha
consentito di dare nome e voce alle
preoccupazioni e alle emozioni di chi
deve compiere quella che è in sostanza la
prima scelta genitoriale.
Eccone alcune, le più frequenti, con alcune considerazioni utili a definirne il
senso.
Timore. La scelta di vaccinare o meno
determina un intervento diretto sulla
salute del figlio a breve e lungo termine.
Rispetto a questo – cioè rispetto al danno
oggettivo ed eventuale, derivante dall’una o dall’altra decisione, quindi rispetto
alla responsabilità del proprio bambino –
il valore sociale della scelta vaccinale
diventa secondaria. Hanno più peso le
esperienze individuali, le personali storie
di salute, i fattori ideologici che le valutazioni epidemiologiche e i fattori di
rischio della popolazione.
Confusione. I genitori di un bambino di
2 mesi sono genitori neo-nati, in fase di
formazione di un ruolo, in fase di assestamento anche come coppia genitoriale.
La scelta – la prima che proietta il loro
bambino in una dimensione sociale – è di
entrambi. Esce dall’intreccio di due storie culturali e sanitarie diverse.
Smarrimento. Il medico non è più autorevole tout court, ma è percepito come
l’esecutore tecnico di un sapere complesso di cui però non ha più l’esclusiva.
Cercano allora altre fonti. Il 43% dei
vaccinatori totali ha preso informazioni
dal passaparola. Ma queste fonti tendono
a dare una visione negativa delle vaccinazioni, dando spazio ai racconti sugli
effetti collaterali del vaccino (provato o
meno che sia, grave o meno che sia). Si è
persa invece la memoria storica delle
malattie infettive.
234
Quaderni acp 2014; 21(5)
Desiderio. Di essere responsabili e attivi
protagonisti delle scelte di salute. Così
come cercano di essere consumatori consapevoli, danno importanza a nuovi e più
studiati stili di vita.
La ricerca ha permesso di identificare
alcune richieste che i genitori portano
agli operatori sanitari che incontrano in
questa fase. Chiedono sì di essere indirizzati verso fonti scientifiche e di studiare per loro scelte personalizzate, ma
soprattutto chiedono ascolto. Chiedono
comprensione per la specificità delle
esperienze, un accompagnamento nel
recuperare l’autonomia nella decisione;
incoraggiamento alla condivisione della
riflessione tra madre e padre; valorizzazione del processo decisionale.
Delle tante e-mail che abbiamo ricevuto
dai nostri soci che hanno voluto raccontare la loro esperienza di vaccinatori o
non vaccinatori, una, quella che Roberta
ci ha regalato, ci pare evidenzi bene il
fronte delle criticità e le prospettive per
un cambiamento di rotta ormai necessario. Saranno le sue parole a chiudere il
nostro intervento e far capire cosa chiediamo al sistema sanitario.
Sono la mamma di una bambina di
26 mesi e mi trovo a scrivere queste semplici riflessioni riguardanti il delicato
tema “vaccini”. Di fronte a moltissimi
argomenti (dalle scelte sullo svezzamento a quelle strettamente mediche, a quelle legate al sonno ecc.) mi ritrovo spesso
a concludere che le mamme si dividono,
generalmente, in due categorie. Anche
parlando di vaccini, ho avuto questa
impressione:
– Ci sono le mamme che si fidano ciecamente delle figure di riferimento, i
cosiddetti “esperti” (in primis i
pediatri), e che quindi seguono la scaletta dei vaccini senza porsi domande.
– Ci sono quelle che vogliono capire e
fare una scelta responsabile, che tengono conto di un istinto materno. Non
invidio la prima categoria perché
sono mamme che non si interrogano e
non entrano in gioco in meccanismi e
questioni che i genitori, a mio avviso,
dovrebbero riprendersi in mano!
Trovandoci davanti alla libertà di scelta,
al diritto di poter scegliere la strada dif-
ficile e tortuosa dei vaccini, io e il mio
compagno ci siamo buttati in questo
mondo per capirne di più, come è stato
fatto per tutte le questioni riguardanti la
crescita della nostra bimba.
Chi c’è in gioco? Oltre alla bimba, noi
genitori, la pediatra, il Distretto sanitario e altri: il nostro omeopata di fiducia,
il mio medico, internet, riviste, amici,
esperienze altrui ecc.
Alle richieste di informazioni, tutti hanno
risposto a modo loro: al Distretto ti liquidano col libretto sui vaccini, l’omeopata decisamente contrario con argomentazioni mediche/economiche (linea
estrema del no) ma con quel tocco di
estremismo che personalmente quasi mi
infastidisce; la pediatra sostenitrice del
sì indiscusso e indiscutibile ma senza
spiegazioni di ordine medico-scientifico.
Insomma, posizioni insoddisfacenti. Il
mio medico di base invece ha assunto
una posizione più serena: abbiamo ragionato insieme su aspetti medici, sociali, economici, ma anche su questioni più
pratiche legate alla quotidianità (gestire
una malattia infettiva, stare a casa dal
lavoro per curare i bimbi...).
In sostanza, l’omeopata con i suoi no
“senza se e senza ma” non ha convinto
molto, anche se con spiegazioni scientifiche e professionali; la pediatra col suo sì
“senza se e senza ma”, oltre a essere
stata poco professionale, ha messo più
dubbi di prima perché non voleva nemmeno sentirsi far domande: si fanno e
basta. Per un discorso di responsabilità
(“Questa è la libertà di scelta sbandierata in tutt’Italia?”, pensai uscendo dallo
studio).
Il punto di vista del mio medico (favorevole ai vaccini!) mi ha rasserenata sulla
scelta di far qualche vaccino. E così ho
cominciato l’iter durante il quale ho raccolto degli aneddoti veramente antipatici e spero unici!
Dopo aver scelto di posticipare l’esavalente, mi sono recata al Distretto per fare
il vaccino morbillo-rosolia e parotite
(avrei voluto fare solo il morbillo, in un
primo momento ma non ho trovato la via
per farlo): non solo il medico, inizialmente, si rifiutò di farmelo perché prima
avrei dovuto fare l’esavalente - terza
dose (dove sta scritto?), ma voleva farmi
firmare una carta dove io dichiaravo di
essere contro i vaccini!!! E il tutto condito dalle solite frasi: “Si rende conto cosa
vaccinacipì
può succedere a sua figlia…”, con tono
allarmante.
Libertà di scelta ma terrorismo psicologico.
Io non sono contraria ai vaccini. Mi
piace capire, però. Cosa sto facendo,
perché, come, quando farli, rischi/benefici a breve e a lungo termine.
Mi ritrovo ad aver fatto dei vaccini sforzandomi… quando bastava forse qualche discorso ben fatto da parte di medici, pediatri, operatori sanitari in genere.
Senza giudizi.
Commento di Patrizia Elli
Pediatra di Famiglia e counsellor
Buccinasco (MI)
[email protected]
La grande novità che emerge dall’analisi
dei dati raccolti con la ricerca riguarda
prevalentemente la presenza di sottogruppi all’interno di quelli che, nel pensare comune, vengono classificati come
due gruppi omogenei di genitori: i vaccinatori e i non vaccinatori. Il dato più importante e da valutare riguarda quei genitori che, sebbene abbiano vaccinato, non
proseguiranno più nel calendario vaccinale proposto e, all’opposto, il notevole
margine di lavoro con chi non ha vaccinato ma che potrebbe rivedere le proprie
decisioni.
Non è una novità ma una preoccupante
conferma l’aver evidenziato non solo la
difformità delle informazioni fornite dai
diversi professionisti della salute, ma anche la scarsa preparazione di molti operatori. Non è casuale che venga sottolineata
proprio nelle situazioni di rifiuto vaccinale dove il genitore, per arginare le proprie
paure, avrebbe bisogno di trovare autorevolezza e professionalità nelle informazioni. È proprio da questo dato che occorre partire: in una medicina dove da anni
impera la legge delle evidenze scientifiche non è pensabile che gli stessi operatori sanitari diano informazioni basate su
proprie opinioni, timori, credenze.
Se non si provvede ad assicurare una formazione seria su tutta la tematica vaccinale che coinvolga tutti gli operatori
impegnati in questa area (medici vaccinatori, infermieri, PdF, medici di famiglia, assistenti sanitarie), utilizzando
anche momenti di formazione comune
Quaderni acp 2014; 21(5)
per facilitare il confronto e uniformare il
linguaggio e i contenuti, servirà ben poco
curare le abilità di counselling. L’obiettivo dev’essere quello di trasmettere
contenuti seri, autorevoli, professionali,
scientifici, condivisi dai singoli componenti del sistema sanitario, all’interno di
una relazione che preveda la specificità
di ogni genitore, il suo ascolto e la risposta ai suoi dubbi.
Il PdF non è solo ma opera all’interno di
un sistema: collegarsi alle strutture vaccinali del territorio permette un confronto e
un aggiornamento continui e la trasmissione di informazioni non discordanti e
confondenti a chi già ha dei dubbi.
Rimanendo nell’ambito dell’informazione, sicuramente avere a disposizione siti
come “Vaccinarsì” è di grande utilità, ma
la ricerca ci ricorda che i genitori che non
vaccinano si rivolgono ad associazioni
che a loro volta accedono a siti “antivaccinali”. In questi casi il medico o l’operatore sanitario con abilità di counselling
potrebbero:
– farsi indicare le fonti per consultarle
personalmente;
– aiutare il genitore a capire perché
siano poco attendibili (es. spesso non
ci sono riferimenti bibliografici e, se
ci sono, sono molto vecchi oppure le
informazioni sulle malattie per le
quali ci si vaccina non sono complete
o esaustive…);
– cercare di raccogliere informazioni
sui medici che scrivono in questi siti
(sono iscritti agli ordini professionali?
Se lo sono, l’Ordine è a conoscenza di
quanto affermano? È possibile sollecitare l’Ordine a un richiamo dei medesimi?).
Tornando alla nuova tipologia di genitori che la ricerca ha evidenziato, è ovvio
che non è più possibile generalizzare:
– Ogni genitore è diverso e inserito in
un sistema differente che ne influenza
comportamento e decisioni in modo
diverso e variabile nel tempo.
– Ogni scelta, si è visto, può essere suscettibile di cambiamento. Pertanto
verificarne la conferma è consigliabile, comprenderne le motivazioni
necessario.
– Offrire scenari alternativi è doveroso.
Quest’ultimo punto, se proposto dopo
ascolto e comprensione delle motivazio-
ni che hanno portato al rifiuto vaccinale
o a un ripensamento, permette di aiutare
il genitore a prendere in considerazione
anche cosa significa non vaccinare, parlargli delle malattie che, giustamente dal
suo punto di vista, non esistono più ma
che potrebbero ripresentarsi, riflettere
insieme sul bene del suo bambino che
vive anche in una comunità.
Se si semplifica, si può dire che il medico e gli operatori sanitari, quando ragionano in termini di rischio, hanno una percezione di tipo statistico-epidemiologico
e devono prendersi cura del singolo
paziente ma anche della comunità di cui
lui fa parte.
Il genitore si preoccupa per il suo bambino, ragiona in termini soggettivi-emotivi
ed è difficile per lui acconsentire a un
atto medico che può presentare dei rischi
e, per giunta, attuato in benessere. Le
malattie per le quali si propongono i vaccini e la gravità di alcune delle loro
manifestazioni e complicanze non ci
sono più nella memoria delle famiglie e
non sono vissute come un pericolo.
Una proposta per trovare una mediazione
in queste opposte posizioni è far riflettere i genitori sul fatto che, se si diffonde il
rifiuto vaccinale, la percentuale dei vaccinati ovviamente scende al di sotto dei
valori necessari affinché la malattia non
circoli (questa è una nozione spesso non
nota). La stessa comunità che prima
poteva proteggere i bambini non vaccinati ora diffonderebbe la malattia che
potrebbe colpirli. Una malattia quindi
che esiste ancora, che non è triste patrimonio solo di popolazioni vissute come
lontane con le quali si pensa, erroneamente, di non venire a contatto.
La sfida è riuscire a far comprendere che
aderire all’offerta vaccinale significa
difendere il proprio figlio da un pericolo
reale, anche se non percepito. Ottima a
questo proposito l’idea di attivare un sistema di informazione sulle epidemie di
malattie prevenibili con le vaccinazioni.
Rimane da affrontare il problema delle
reazioni avverse per le quali è sicuramente utile un sistema di informazione
aggiornato. Sicuramente importante è
fornire ai genitori i dati sulle reazioni più
gravi, possibilmente specificando una
classe di riferimento e usando le frequenze naturali al posto delle percentuali (es.
una encefalite ogni milione di dosi effettuate). Questa modalità potrebbe aiutare
235
vaccinacipì
a dare una giusta collocazione statistica e
una diversa percezione dei casi recentemente riportati dai media.
Ultima ma non meno importante è la
necessità di una trasparenza a tutti i livelli dei rapporti con le case produttrici dei
vaccini, ottenibile sia con la correttezza
dei rapporti personali di ciascun medico
con l’industria farmaceutica, sia con la
richiesta da parte del singolo e delle
società scientifiche che ogni scelta vaccinale rispetti dei criteri di metodo rigorosi (vedi “8 passi ACP”).
Commento di Franco Giovanetti
Medico di sanità pubblica,
Dipartimento di Prevenzione,
ASLCN2, Alba, Brà (CN)
[email protected]
È la prima volta che il rifiuto vaccinale
viene indagato in Italia per mezzo di
un’analisi così approfondita. Sebbene lo
studio sia stato condotto su una parte
ridotta di popolazione (corrispondente al
31% dei nati nella Regione Veneto
durante il 2010), si può ritenere che i
risultati e le conclusioni rivestano un
valore generale.
In estrema sintesi, lo studio ruota intorno
a due aspetti della prevenzione vaccinale: la percezione dei genitori e quella
degli operatori sanitari.
Nell’ambito genitoriale, la percezione
riguarda anzitutto l’informazione ricevuta. Il PdF si conferma come la principale
fonte informativa, e la qualità dell’informazione è percepita come elevata dai
genitori “vaccinatori” e carente da chi
non vaccina.
Gli Autori si chiedono quale sia la causa
di tale discrepanza e avanzano alcune
ipotesi. La mia opinione è che molti
genitori non vaccinatori ritengano a priori deficitaria l’informazione di tipo istituzionale e professionale (che da ora in
poi chiamerò “informazione ufficiale”)
perché non contiene elementi in grado
di giustificare razionalmente il rifiuto
vaccinale. In altre parole: l’informazione ufficiale reputa scientificamente
infondata e pertanto inattendibile la
massa di informazioni “alternative”
riportate nei siti web e nei libri degli antivaccinatori. Pertanto essa non risulta credibile.
236
Quaderni acp 2014; 21(5)
Se l’informazione alternativa fosse veritiera, qualunque persona razionale concluderebbe che vaccinare i figli è un
errore. Viceversa, se fosse mendace,
quale ostacolo alla vaccinazione potrebbe scorgere un genitore adeguatamente
informato? Ogni genitore che rifiuta le
vaccinazioni è convinto di fare la cosa
giusta e di salvaguardare la salute del
proprio figlio; pertanto l’informazione
ufficiale deve essere distorta, omissiva,
mendace perché, se così non fosse, la
scelta di non vaccinare non avrebbe
alcun senso.
E qui il discorso si interseca con un fenomeno storico e sociale consolidato, ossia
le teorie della cospirazione. Come scrivono gli Autori dello studio, l’opinione
prevalente tra i non vaccinatori è la
seguente: “Gi effetti collaterali gravi, che
possono presentarsi anche a distanza di
tempo, considerato anche che si tratta di
un business per le aziende farmaceutiche, vengono tenuti nascosti da parte di
operatori che danno informazioni unilaterali sui benefici e non sui rischi, colpevolizzando chi non vaccina e sono in
odore di conflitto d’interessi. Il tutto per
affrontare malattie tutto sommato meno
pericolose dei vaccini stessi”.
Che cos’è questa sintesi, se non un esempio di teoria della cospirazione? La narrativa complottista, qualunque sia l’argomento, presenta alcune caratteristiche
costanti, quali per esempio la tendenza a
mescolare fatti e speculazioni senza
distinguere tra i due, il rifiuto di considerare spiegazioni alternative, respingendo
tutte le prove che smentiscono clamorosamente la teoria e cercando solo argomenti a sostegno di ciò che si ritiene sia
la verità, la convinzione irrealistica che
la trama coinvolga un grande numero di
persone, le quali dovrebbero, tutte, mantenere il silenzio sui loro segreti.
Naturalmente non tutti i genitori che
rifiutano le vaccinazioni abbracciano in
toto le teorie cospirative. Inoltre lo studio
veneto ha reperito tracce di questa visione della realtà anche tra i vaccinatori: i
confini non sono netti.
L’altro aspetto indagato dallo studio è la
percezione degli operatori sanitari. In
questo caso non c’è molto da dire: esistono lacune culturali, come risulta dalle
risposte ai quesiti su due false controindicazioni che tutti dovrebbero riconosce-
re come tali, e invece vediamo che così
non è. La mancata lettura dei report del
Canale Verde da parte di molti partecipanti conferma questa criticità.
In conclusione: che fare? È irrealistico e
pericoloso tornare indietro e rifugiarsi
nell’obbligo vaccinale, che non è una
soluzione e spesso è parte del problema.
Peraltro, dallo studio emerge chiaramente che la presenza o meno dell’obbligo
vaccinale è irrilevante ai fini delle scelte
genitoriali. Proverei a elencare alcune
aree d’intervento:
a. ristabilire la fiducia: le sentenze con
le quali alcuni tribunali del lavoro
hanno riconosciuto l’autismo come
danno vaccinale rappresentano un
grave vulnus alla credibilità del sistema (occorre una riforma profonda
delle procedure di riconoscimento del
danno, sul modello del Vaccine Injury
Compensation Program vigente negli
Stati Uniti);
b. lavorare sulla comunicazione del
rischio secondo metodologie basate
sulle evidenze;
c. monitorare con indagini ad hoc conoscenze e atteggiamenti dei genitori e
degli operatori sanitari;
d. informare correttamente e in modo
trasparente la popolazione, non soltanto sui rischi e benefici, ma anche
sui limiti di alcuni interventi vaccinali (per es. sulla reale efficacia di popolazione quando si tratta di microrganismi presenti con svariati sierotipi o
ceppi, non tutti coperti dalla vaccinazione).
Per quanto riguarda gli operatori sanitari, la risposta non può che essere “più
formazione”, per colmare i vuoti di
conoscenza esistenti.
La conoscenza delle basi scientifiche dei
programmi vaccinali dovrebbe essere un
patrimonio comune di tutti gli operatori
sanitari, non solo dei medici e delle assistenti sanitarie ma anche di altre figure
professionali, in primo luogo le ostetriche, che hanno un rapporto molto stretto
con le future mamme e godono della loro
fiducia. Tale formazione, il più possibile
indipendente nei contenuti e rigorosa nei
metodi, dovrebbe iniziare negli anni universitari e proseguire per tutta la vita
professionale. u
IN RICORDO DI MASSIMO PETRONE
In questi ultimi anni tante volte ho parlato di lui, a colleghi, ad amici, in occasioni pubbliche. Quante volte ho
pensato: “Cosa farebbe, cosa direbbe Massimo se fosse
in questa situazione ?”.
Mi sono accorto negli anni di quanto fosse profonda
la sua impronta sul mio modo di pensare e di agire.
Alcune parole possono aiutarmi a comprendere la natura della sua influenza su di me.
Metodo. Chi ha avuto la fortuna di lavorare con
Petrone è stato abituato a misurarsi, anni prima della formulazione dell’Evidence Based Medicine, con la necessità di documentare le proprie scelte cliniche. Non sopportava l’autoreferenzialità, le discussioni sterili tra chi fa
affermazioni senza misurarsi con le conoscenze esistenti. Le nostre riunioni erano costantemente interrotte dal
suo alzarsi (o dal farci alzare!) per prendere uno o più
libri, per consultarli e basare le proprie decisioni… sulla
base delle prove di efficacia.
Quanto lontano da un recente modo d’essere di chi
(nell’ambito medico o in quello politico e sociale) ci fa
assistere ogni giorno all’arroganza dell’ignoranza.
Attenzione al contesto. Molti anni prima della diffusione del termine “implementazione” Massimo mi ha
insegnato che a nulla vale la formulazione di protocolli o
linee guida se non ci si misura con le difficoltà nell’attuazione di quanto previsto. Per lui era importante che
tutti i professionisti coinvolti fossero coscienti delle scelte
fatte (penso al tempo impiegato a diffondere tra il personale i motivi per cui avevamo deciso di mettere i neonati in posizione supina o alla meticolosità delle norme
relative alla protezione dall’HIV).
Era davvero distante da un mondo scientifico (si fa
per dire!!), attento prevalentemente all’immagine (l’esistenza di documenti al fine di ottenere la certificazione).
Esplicitazione delle scelte. Che si trattasse di una scelta clinica o di una decisione organizzativa, non è mai
accaduto che Massimo non esplicitasse il motivo delle
proprie scelte anche quando questo creava tensione con
una parte o tutti noi (penso alla durezza degli schemi dei
turni, alle decisioni su ferie “coatte” in novembre...). Ci
costringeva a misurarci con la definizione degli obiettivi;
non potevamo anteporre le nostre esigenze agli stessi;
potevamo, se capaci, proporre soluzioni alternative.
Anche in questo caso il suo modo di agire risulta
assai distante da una prassi diffusa. Il pretendere di definire prioritariamente gli obiettivi, discutendone con estrema franchezza, per poter valutare successivamente strategie e tattiche per raggiungerli è un metodo che raramente ho trovato in altri dirigenti (o in uomini politici),
più propensi a definire gli interventi sulla base di una
presunta, e spesso inesistente, urgenza.
Autonomia e responsabilità. Il profondo rispetto che
Massimo ha ricevuto da tutti quelli che hanno avuto
modo di lavorare al suo fianco credo derivasse in buona
parte dal fatto che egli riconosceva, in modo non formale, il contributo che ciascuno di noi (medici e infermiere)
dava per raggiungere gli obiettivi. Egli sapeva riconoscere a ciascuno di noi (senza alcuna gelosia) l’autonomia professionale e nel contempo pretendeva l’assunzione di responsabilità. Mi disse una volta che per poter
dirigere un reparto bisognava aver superato il “bisogno
di essere amati dai
propri collaboratori”.
Io credo che Massimo
abbia fatto profondamente suo questo
concetto, ottenendo
la stima… e l’affetto
della quasi totalità
dei professionisti da
lui diretti. Questo
stretto rapporto tra
autonomia e responsabilità è la traduzione, sul piano
professionale, di quello tra diritti e doveri. Il suo rigore
era quello di battersi per i diritti senza cedere alla tentazione, tutta populistica (oggi così diffusa), di sottacere la
necessità dei doveri.
Comunicazione e supporto alla famiglia. Il suo sistema valoriale, la sua storia professionale, i suoi maestri e
amici l’hanno portato ad avere una particolare attenzione alla famiglia dei bambini. La meticolosa correzione
delle nostre lettere di dimissione (continui spostamenti di
frasi, con la matita appuntita) si accompagnava alla scelta di aprire costantemente il reparto ai genitori, di non
dedicare loro comunicazioni frettolose, di garantire
costantemente una continuità delle cure dopo l’ospedalizzazione. Quando sono andato a lavorare in EmiliaRomagna ho scoperto quanto fossimo avanti. Lui non
partecipava a tanti convegni, non gli interessava “vendere” l’immagine; la sua attenzione era tutta rivolta a
garantire la reale efficacia di quanto altri si limitavano a
enunciare.
Conflitti di interesse. Quanta attenzione a questo aspetto, senza alcun estremismo. Da un lato un rapporto
trasparente tra lui e le ditte produttrici di latte (quelle che
garantivano una biblioteca di reparto più ricca di centri
universitari!), dall’altro il divieto assoluto a rapporti personali tra i singoli professionisti e l’industria. Quando
organizzavamo le “Giornate di Epidemiologia Pediatrica
di Varenna” i partecipanti pagavano l’intero ammontare
dell’organizzazione e a una ditta era richiesto di stampare gli atti (chiedendole con fermezza di evitare la propria presenza nel corso delle Giornate). No, con lui non
siamo mai stati sponsorizzati e l’onere della trattativa,
per garantire la nostra autonomia, se l’assumeva completamente lui.
Tutto questo ho imparato da Massimo, anche attraverso momenti di scontri aspri (se qualcuno ha definito
lui “spigoloso”, lui, come scrisse in una lettera alla
Direzione sanitaria, definì me “petulante”).
Un uomo così: rigoroso, coerente, trasparente.
Potremmo definirlo anacronistico: anacronistico nel
senso che appare al di fuori di un tempo (quello attuale)
caratterizzato da populismo, semplicismo, arroganza,
ignoranza, volgarità. Io preferisco pensare ad ana-cronistico nel senso di “senza tempo” perché i valori che
hanno caratterizzato la vita di Massimo persistono; perché, come dice Altan, Massimo era uno di quelli che non
facevano confusione tra ideologia, idee e ideali, pronto
a confrontarsi con il nuovo ma tenendo fede a valori che
mi ha aiutato a definire meglio.
Dante Baronciani
237
Quaderni acp 2014; 21(5): 238
ragazzi
Le meraviglie
di Alice
Italo Spada
Comitato cinematografico dei ragazzi, Roma
Gelsomina, la prima di quattro figli del
burbero Wolfgang e della paziente Angelica, vive nella campagna umbra a
stretto contatto con la natura. Non è la
reincarnazione della Gelsomina felliniana de La strada perché i tempi sono cambiati, il progresso sta divorando le campagne e le meraviglie non sono più le esibizioni dell’erculeo Zampanò, bensì le
riprese televisive, le scenografie posticce, i concorsi a premi, le frasi fatte di una
fata bianca, le promesse. Gelsomina, come la maggior parte delle ragazze della
sua età, sogna un futuro migliore.
Un sogno da realizzare partecipando a un
concorso indetto dalla TV, lasciando la
campagna, smettendo di produrre miele e
salse di pomodoro e magari andando a
vivere con qualcuno che, come Martin, il
ragazzino taciturno con precedenti penali che le autorità hanno inserito nel
nucleo familiare di Wolfgang per fargli
seguire un programma di reinserimento
sociale, sa modulare fischi di richiamo.
Apparentemente accade poco: il concorso lo vincono altri, la troupe televisiva
smonta il set, Martin si dà alla fuga, il
gregge viene venduto, la giostra familiare rimane ferma. In realtà, invece, qualcosa cambia nella vita di Gelsomina.
Dopo avere preso coscienza della fragilità degli adulti, la ragazzina diventa piccola donna, si ribella all’autorità paterna,
si affida ai sentimenti e nuota verso l’isola dell’amore.
Si smembrerà il casale, ma non il nucleo
familiare. Mamma Angelica – e a seguire il burbero papà Wolfgang – dovranno
prendere coscienza che i figli crescono e
che nella vita esistono anche tetti sotto le
stelle. Non sappiamo se, quando ha affermato di avere debiti nei confronti di tanti
registi, Alice Rohrwacher, oltre a citare
Roberto Rossellini, stava pensando anche a Federico Fellini, ai fratelli Taviani
e a Ermanno Olmi.
Di certo Le meraviglie, “Gran Premio
della Giuria” a Cannes 2014, richiama
Per corrispondenza:
Italo Spada
e-mail: [email protected]
238
sequenze di Amarcord, Padre Padrone e
L’albero degli zoccoli. Accostamenti
giustificati dal fatto che anche qui siamo
di fronte a un film, in parte autobiografico e tipicamente italiano, che va oltre
una singola storia e un paese ben definito. Jane Campion e i giurati del 2014,
lontani geograficamente e culturalmente
dall’Italia, sono rimasti affascinati dalla
campagna umbro-toscana esattamente
come nel 1973, nel 1977 e nel 1978 altri
giurati e altri critici lo erano stati rispettivamente dal mare di Rimini, dai pascoli sardi di Baddhevrùstana e dalla bassa
pianura bergamasca.
Una bella sorpresa pertanto per il nostro
cinema e per la stessa regista che, pur
sperando in cuor suo di ottenere qualche
riconoscimento, di certo non si aspettava
con questo suo secondo lungometraggio
di lasciarsi alle spalle registi affermati
come Cronenberg, i fratelli Dardenne,
Egoyan, Godard, Loach, Leigh, Hazanavicius e Zvyagintsev. Ovvio chiedersi
allora a che si devono tanta attenzione e
tanto successo.
Le meraviglie, in fondo, è un film semplice e delicato che a qualcuno potrebbe
sembrare la versione bucolica di Corpo
celeste, premiato a Cannes nel 2011 con
il “Nastro d’argento al miglior regista
esordiente”. In realtà c’è dell’altro che di
certo non è sfuggito a chi gli ha assegnato l’ambìto riconoscimento; qualcosa che
va al di là del racconto di un’adolescenza, stagione della vita che, per dirla con
Truffaut, “lascia un buon ricordo solo
agli adulti che hanno una pessima memoria”.
L’Alice di Lewis Carroll trova le sue
meraviglie attraversando uno specchio,
la Gelsomina di Alice Rohrwacher trova
la sua maturità attraversando il mare. Gli
spettatori più attenti troveranno delizioso
Le meraviglie solo se saranno capaci di
attraversare lo specchio dello schermo
come probabilmente hanno fatto i giurati
di Cannes: facendo attenzione a quelle
“gocce di miele” sparse di sequenza in
sequenza che mutano l’allarme per un
mondo perduto in nostalgia, la prosa di
una vita grama in poesia, la falsa realtà
dei media in possibile fiaba. Qualche
esempio? Bere la luce del sole, ballare
senza musica, spruzzarsi l’acqua del
mare, camminare a piedi nudi nelle pozzanghere, salire sugli alberi, dormire
all’aria aperta, comunicare con un
fischio, ripararsi dalla pioggia sotto un
telone, cantare in coro, ottenere un cammello in regalo, giocare con le ombre e,
soprattutto, costruire un’arnia nel proprio
cuore per trasformare in carezze le punture delle api e la scontrosità degli emarginati. u
Le meraviglie
Regia: Alice Rohrwacher
Con: Maria Alessandra Lungu, Sam
Louwyck, Alba Rohrwacher, Sabine
Timoteo, Agnese Graziani, Monica
Bellucci
Italia, 2014
Durata: 111’, col.
Quaderni acp 2014; 21(5): 239
documenti
Un documento dell’ACP
sulla carenza di ferro
Pubblichiamo questo documento dell’ACP sulla presunta carenza di ferro nel lattante e nel piccolo bambino.
Carenza di ferro in lattanti
e piccoli bambini
Il problema della presunta carenza di ferro nel lattante e nel
bambino piccolo è stato affrontato nel magazine Pediatria della
Società Italiana di Pediatria (SIP), in base ai risultati dello studio “Nutrintake”, del quale non si dicono nel dettaglio il disegno, le modalità con cui è stato condotto, e la fonte di finanziamento. L’Associazione Culturale Pediatri (ACP), in un comunicato stampa, ricorda che la letteratura scientifica a supporto
della carenza di ferro è molto debole e gli end point che vengono misurati spesso sono dei surrogati, prendendo in considerazione lievi diminuzioni dei valori rispetto alla media e non l’eventuale effetto di questa diminuzione sulla salute dei bambini.
L’ACP sottolinea che il bambino che si nutre con latte materno,
a parità di contenuto di ferro, ne assorbe circa il 50%, contro
circa il 10% di quello contenuto in una formula, e che
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Autorità
europea per la sicurezza alimentare (EFSA), sulla base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono
prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini.
Il documento
Sul magazine Pediatria della SIP (dicembre 2013, numero 12,
pagina 7) nella sezione news è stata pubblicata una nota a proposito della carenza di ferro in lattanti e bambini piccoli.
Il “problema” è posto da un po’ di tempo all’attenzione dei
media, non solo da parte di alcuni appartenenti ad associazioni
professionali, ma anche da alcune ditte che producono alimenti
per bambini con aggiunta di ferro, le quali, evidentemente,
hanno un interesse commerciale specifico.
La presunta carenza di apporto di ferro nei bambini deriva, in
base a quanto pubblicato nel magazine Pediatria, dai risultati di
uno studio denominato “Nutrintake” del quale non conosciamo,
nel dettaglio, il disegno, le modalità con cui è stato condotto e
la fonte di finanziamento; così come non siamo a conoscenza
delle “raccomandazioni ufficiali sulla prevenzione della carenza
di ferro” e della composizione della “commissione di esperti”
chiamata a produrle. A questo proposito l’ACP si rammarica di
essere venuta a conoscenza solo ora e in questo modo della
costituzione di tale “commissione” dalla quale, evidentemente,
è stata esclusa.
La letteratura scientifica a supporto di tale presunta “epidemia”
di carenza di ferro è molto debole e, tra l’altro, gli end point che
vengono misurati spesso sono dei surrogati, per cui non è possi-
bile sapere fino a che punto i livelli di ferro (in caso di lievi
diminuzioni dei valori rispetto alla media) influenzano realmente la salute dei bambini.
Alcuni suggerimenti proposti per migliorare l’apporto di ferro
con l’alimentazione dei lattanti e dei bambini sopra l’anno di
vita ci lasciano perplessi. Si sa, per esempio, che l’assorbimento del ferro attraverso il latte è massimo con quello materno; a
parità di contenuto, il bambino che si nutre con latte materno ne
assorbe circa il 50%, contro circa il 10% di quello contenuto in
una formula; eppure, nel testo della nota di cui sopra, il latte
materno viene citato solo laddove è scritto “prediligere il latte
materno per i primi 6 mesi”, dando quasi per scontato che dopo
questa età il latte materno debba essere sostituito da altro tipo di
latte; infatti il latte materno non viene più menzionato come
possibile alternativa nel secondo semestre e dopo l’anno di vita,
pur essendo note a tutti le raccomandazioni di OMS, American
Academy of Pediatrics (AAP) e Linee Guida ministeriali sull’importanza dell’allattamento al seno prolungato per il benessere del bambino e della mamma.
Viene poi sponsorizzato il latte di crescita perché “è arricchito
in ferro e può aiutare a ottimizzarne l’apporto”; oltre, come già
scritto, a non menzionare il latte materno come la migliore fonte
lattea di ferro per il bambino anche di età superiore all’anno, si
raccomanda l’uso di un prodotto che va in direzione opposta a
quanto suggerito da OMS ed EFSA le quali, sulla base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono
prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini se non addirittura potenzialmente dannosi, in quanto l’alto contenuto di zuccheri e il conseguente sapore dolce potrebbero influenzare le
preferenze del bambino per i cibi dolci e favorire sovrappeso e
obesità.
L’ACP ritiene che promuovere e sostenere una sana alimentazione nei bambini non possa prescindere dal proteggerla da interessi esclusivamente commerciali, che possono portare a scelte
che vanno a ledere il diritto dei bambini e delle loro famiglie di
ottenere un’informazione corretta e volta a tutelare esclusivamente la loro salute. u
http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/131025.htm
http://www.ibfanitalia.org/unindagine-dettagliata-sui-latti-di-crescita/
http://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2113Information concerning the use and marketing of follow-up formula The use
of follow-up formula. WHO 17 July 2013.
Scientific Opinion on nutrient requirements and dietary intakes of infants and
young children in the European Union.
EFSA Journal 2013;11(10):3408 [103 pp]. doi:10.2903/j.efsa.2013.3408.
239
Quaderni acp 2014; 21(5): 240
specializzando
Lo specializzando nell’ambulatorio
del pediatra di famiglia: il punto di vista
di un Direttore di Specialità
Alfredo Guarino*, Michele Fiore**, Tommaso Montini**
*Direttore di Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Napoli “Federico II”; **Pediatra di famiglia
Dopo avere mostrato i dati relativi alla
collaborazione tra la Scuola di Specializzazione in Pediatria e il pediatra di
libera scelta e dopo avere raccolto la
testimonianza di alcuni colleghi specialisti in Formazione dell’Università “Federico II” di Napoli, dove è prevista la
frequenza dello specializzando presso il
pediatra di famiglia (PdF), in questo
numero della rivista coinvolgiamo il professor Guarino, direttore della Scuola di
Specialità in Pediatria dell’Università
“Federico II” di Napoli, e due pediatri di
famiglia, Tommaso Montini e Michele
Fiore che lavorano a Napoli [1].
Il professor Guarino indica alcuni punti
cruciali nella formazione del medico, che
attraversa un periodo di rapido cambiamento:
– l’emivita delle conoscenze mediche
(definita come il tempo in cui più
della metà delle conoscenze diviene
obsoleta) si è ridotta a meno di cinque
anni;
– il numero dei medici si sta rapidamente riducendo, ma la qualità è in
miglioramento;
– le risorse pubbliche destinate alla
salute sono in riduzione e si vanno
spostando verso pazienti cronici e
verso la terza età;
– esistono una smodata medicalizzazione e un eccesso di interventi costosi (e
spesso dannosi) per i bambini con
malattie acute (per esempio un’inappropriata prescrizione antibiotica per
le infezioni respiratorie);
– esiste un progressivo spostamento di
risorse dalla professionalità (e quindi
dalla remunerazione del medico)
verso investimenti tecnologici e sull’organizzazione.
Questi cambiamenti richiedono una
profonda rivisitazione dei percorsi formativi degli specializzandi in pediatria.
La Scuola di Specializzazione dell’Università “Federico II” di Napoli ha una
Per corrispondenza:
Alfredo Guarino
e-mail: [email protected]
240
tradizione di eccellenza nella performance dei docenti e studenti ma come molte
scuole ha il limite dei modelli didattici. È
infatti noto che i docenti tendono a insegnare quello che conoscono meglio (per
esempio alcune malattie rare) e talvolta
l’insegnamento di pediatria rischia di
essere ipertrofico in alcune aree di conoscenza, ma limitato in altre.
In tal senso l’approccio del pediatra di
famiglia è del tutto peculiare perché centrato su aspetti ben definiti, sottolineati
da T. Montini: in un ambulatorio delle
cure primarie ci sono la prevenzione, il
sostegno alla genitorialità, la gestione
dell’acuto banale e non, ma ci sono
anche la storia delle mamme e delle
famiglie, i problemi sociali, il disagio, le
devianze, l’adolescenza…
Il pediatra è spesso persino semplice presenza per un importante sostegno emotivo: nelle malattie croniche, nei problemi
familiari, nei momenti della perdita.
In ambulatorio vi è anche l’individuazione precoce di malattie gravi, spesso
occulte e sepolte in una impegnativa attività clinica molto ripetitiva. Per ottenere
questo obiettivo è necessaria l’applicazione di un approccio basato su una rigorosa metodologia di anamnesi e di esame
obiettivo, che rende possibile individuare le “red flags” di sospetto di patologia
grave.
Queste aree sono spesso poco approfondite nei corsi di specializzazione in
pediatria. Ne consegue la necessità che la
formazione dello specializzando comprenda la conoscenza dell’approccio del
PdF.
Una peculiarità del lavoro del pediatra,
nel sistema sanitario italiano, è la necessità di risolvere problemi in tempi rapidi,
con poche indagini, con pochi confronti
(il pediatra lavora quasi sempre da solo),
nei limiti del controllo della spesa, con
alti livelli di burocratizzazione e in un
contesto caotico, con sale di attesa stracolme e visite disturbate da telefoni
impazziti. Sono fondamentali, dunque,
l’organizzazione del lavoro e la capacità
di costruirsi dei percorsi mentali, quasi
automatici, per centrare i problemi e
selezionare le situazioni di rischio.
Come sottolinea anche M. Fiore, l’esperienza del tirocinio dello specializzando
nell’ambulatorio del PdF è indubbiamente positiva, pur dovendo porre in discussione alcuni aspetti:
Tempi. Devono essere codificate la durata del tirocinio e l’epoca durante il corso
di specializzazione alla quale questa
esperienza va proposta. Le due questioni
sono strettamente connesse poiché un
breve periodo all’inizio del percorso di
specializzazione rischia di essere poco
formativo e di non lasciare traccia sulle
scelte professionali future; proporre
viceversa almeno sei mesi di frequenza
al penultimo o ultimo anno di specializzazione potrebbe comportare una forte
implementazione nella pratica clinica.
Contenuti. I contenuti formativi del tirocinio presso il PdF devono essere discussi e condivisi con i responsabili della
didattica della scuola, riconoscendo una
specificità culturale dell’approccio alla
pratica delle cure primarie, anche attraverso alcune ore di didattica frontale.
Valutazioni. La valutazione dei ragazzi
alla fase del tirocinio dovrebbe essere
affidata a persone terze rispetto al tutore.
Il notevole sforzo organizzativo e l’impegno personale dei docenti e anche (e
soprattutto) dei discenti hanno obiettivi
molto ambiziosi, che rispondono alle
considerazioni fatte sopra. In buona
sostanza gli specializzandi beneficiano
di un’ampia varietà didattica e assicurano d’altra parte una trasmissione di
nuove conoscenze tra la pediatria universitaria, la pediatria ospedaliera e la
pediatria di famiglia: un circolo virtuoso,
in cui insegnare e apprendere si mescolano in un processo bidirezionale con
benefici per tutti. Commenta T. Montini:
“Benvenuti, specializzandi, dunque!
Grazie del vostro entusiasmo e della
vostra preparazione! Ma noi operatori…
‘tiriamoci su le maniche’ e attrezziamoci
bene per accogliervi!”. u
Bibliografia
[1] Gagliardo C, Aversa S, Sansotta N. La formazione dello specializzando nell’ambulatorio del pediatra di famiglia, Quaderni acp 2014;21(3);143.
www.acp.it
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settembre-ottobre 2014 vol 21 nº 5
Editoriale
193 Sott’acqua, ma sempre assetati
Luca De Fiore
194 Stili di vita e tutela della salute:
anche il Comitato Nazionale di Bioetica
ne parla. E i pediatri che fanno?
Carlo Corchia
195 Il nuovo Codice deontologico: novità e riflessioni
Patrizia Elli
196 Informazioni per genitori: il percorso continua
con qualche cambiamento
Stefania Manetti
197 Lo scalone monumentale della Stazione Centrale
di Milano
Federica Zanetto
Formazione a distanza
198 Il maltrattamento fisico:
quali conoscenze per il pediatra
Carla Berardi
Informazioni per genitori
205 Un genitore positivo
Costantino Panza, Antonella Brunelli,
Stefania Manetti
Research letters
206 Comunicazioni orali degli specializzandi
al Convegno di Tabiano 2014
Salute mentale
210 Problemi di salute mentale nell’infanzia
e nell’adolescenza: criticità nella pratica
e nella modalità di intervento
Roberto Sangermani
Telescopio
214 Meta-analisi sulla legatura del PDA:
gli studi disponibili sono sufficienti
a guidare la scelta clinica?
Manuela Condò
Osservatorio internazionale
218 Unioni tra consanguinei: vantaggi di ieri,
svantaggi di oggi
Enrico Valletta
Scenari
220 Traumi del paziente pediatrico e profilassi
del tromboembolismo venoso.
Uno scenario clinico
Maddalena Marchesi
Info
224 Nuova revisione dell’EFSA sulla composizione
dei latti formulati
224 L’Antitrust sanziona tre ditte per immagini
su latte in polvere e biberon
224 L’OMS sbaglia direzione
224 Paradossi nella sponsorizzazione
di manifestazioni sportive
225 Medicina narrativa a Oristano
225 Nasce la “Rete Sostenibilità e Salute”
Libri
226 La settimana bianca
di Emmanuel Carrère
226 L’aggancio
di Nadine Gordimer
226 A che gioco giochiamo noi primati
di Dario Maestripieri
227 Io mangio come voi
di AA.VV.
227 Morte di un uomo felice
di Giorgio Fontana
L’angolo della comunità
228 In USA obbligatorio informare pubblicamente
sull’elargizione di denaro a ogni medico
da parte dell’industria. E in Italia?
Red
Vaccinacipì
229 La scelta di vaccinare: uno sguardo dal ponte
Leonardo Speri, Lara Simeoni, Mara Brunelli,
Paola Campara, Massimo Valsecchi
237 In ricordo di MASSIMO PETRONE
Film
238 Le meraviglie di Alice
Italo Spada
Documenti
239 Un documento dell’ACP sulla carenza di ferro
Red
Lo specializzando
240 Lo specializzando nell’ambulatorio
del pediatra di famiglia: il punto di vista
di un Direttore di Specialità
Alfredo Guarino, Michele Fiore,
Tommaso Montini
Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP
La quota d’iscrizione per l’anno 2014 è di 100 euro per i medici, 10 euro per gli specializzandi, 30 euro per gli infermieri e per i non sanitari. Il versamento può essere
effettuato tramite il c/c postale n. 12109096 intestato a: - Associazione Culturale Pediatri, Via Montiferru, 6 - Narbolia (OR) (indicando nella causale l’anno a cui si riferisce la quota)
oppure attraverso una delle altre modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione”. Se ci si iscrive per la prima volta occorre scaricare e compilare il modulo per la richiesta di adesione presente sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione” e seguire le istruzioni in esso contenute oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, la Newsletter mensile Appunti di viaggio e la Newsletter quadrimestrale Fin da piccoli del Centro per la Salute
del Bambino richiedendola all’indirizzo [email protected]. Hanno anche diritto a uno sconto sulla iscrizione alla FAD dell’ACP alla quota agevolata di 50 euro anziché 150; sulla
quota di abbonamento a Medico e Bambino, indicata nel modulo di conto corrente postale della rivista e sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP. Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento, ricevere pacchetti formativi su argomenti quali la promozione della lettura ad alta voce, l’allattamento al seno, la ricerca e la sperimentazione e
altre materie dell’area pediatrica. Potranno partecipare a gruppi di lavoro su ambiente, vaccinazioni, EBM e altri. Per una informazione più completa visitare il sito www.acp.it.
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