Quaderni acp www.quaderniacp.it bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della A ssociazione www.acp.it C ulturale P ediatri ISSN 2039-1374 I bambini e il cibo settembre-ottobre 2014 vol 21 n°5 Poste Italiane s.p.a. - sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art 1, comma 2, DCB di Forlì - Aut Tribunale di Oristano 308/89 La Rivista è indicizzata in SciVerse Scopus Quaderni acp Website: www.quaderniacp.it September-October 2014; 21(5) Not a drop to drink Luca De Fiore 193 Editorial Lifestyle and health: also the National Bioethics Committee talks about it. What paediatricians do? Carlo Corchia The new Code of Ethics: news and considerations Patrizia Elli Information for parents: the journey continues with some changes Stefania Manetti A monumental stears at Milan Central Station Federica Zanetto Physical abuse: what paediatricians need to know Carla Berardi 198 Formation at a distance (FAD) A positive parent Costantino Panza, Antonella Brunelli, Stefania Manetti 205 Informing parents Oral communications of paediatric residents at the 2014 Tabiano conference 206 Research letters Mental health problems in childhood and adolescence: critical issues in practice and in intervention methods Roberto Sangermani 210 Mental health Meta-analysis on PDA ligation: are the available studies sufficient for an appropriate clinical choice? Manuela Condò 214 Telescope Consanguineous marriages: yesterday’s pros, today’s cons Enrico Valletta 218 A window on the world Trauma in the paediatric patient and venous thromboembolism prophylaxis. A clinical scenario Maddalena Marchesi 220 Scenarios 224 Info 226 Book Reporting any benefit received by drug industry is mandatory in USA. When in Italy? Red 228 Community corner The decision to vaccinate: a view from the bridge Leonardo Speri, Lara Simeoni, Mara Brunelli, Paola Campara, Massimo Valsecchi 229 Vaccinacipì 238 Movies 239 ACP Documents Paediatric resident in the family paediatrician’s office: the point of view of a Specialty Director Alfredo Guarino, Michele Fiore, Tommaso Montini 240 The world of postgraduate Q uaderni acp bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici della Associazione Culturale Pediatri Presidente Paolo Siani Direttore Michele Gangemi Direttore responsabile Franco Dessì Indirizzi Amministrazione Associazione Culturale Pediatri Direttore editoriale via Montiferru 6, 09070 Narbolia (OR) Tel. / Fax 078 57024 Comitato editoriale Direttore Michele Gangemi Giancarlo Biasini Antonella Brunelli Sergio Conti Nibali Luciano de Seta Stefania Manetti Costantino Panza Laura Reali Paolo Siani Maria Francesca Siracusano Maria Luisa Tortorella Enrico Valletta Federica Zanetto Casi didattici FAD - Laura Reali Collaboratori Francesco Ciotti Giuseppe Cirillo Antonio Clavenna Carlo Corchia Franco Giovanetti Italo Spada via Ederle 36, 37126 Verona e-mail: [email protected] Ufficio soci via Nulvi 27, 07100 Sassari Cell. 392 3838502, Fax 079 3027041 e-mail: [email protected] Stampa Stilgraf viale Angeloni 407, 47521 Cesena Tel. 0547 610201, fax 0547 367147 e-mail: [email protected] Internet La rivista aderisce agli obiettivi di diffusione gratuita on-line della letteratura medica ed è pubblicata per intero al sito web: www.quaderniacp.it Redazione: [email protected] Programmazione Web Gianni Piras Giovanna Benzi PUBBLICAZIONE ISCRITTA NEL REGISTRO NAZIONALE DELLA STAMPA N° 8949 Ignazio Bellomo © ASSOCIAZIONE CULTURALE PEDIATRI ACP EDIZIONI NO PROFIT Organizzazione Progetto grafico LA COPERTINA “A pranzo”,1868, Claude Monet (1840-1926), olio su tela. Städelsches Kunstinstitut, Francoforte. NORME REDAZIONALI PER GLI AUTORI. I testi vanno inviati alla redazione via e-mail ([email protected]) con la dichiarazione che il lavoro non è stato inviato contemporaneamente ad altra rivista. Per il testo, utilizzare carta non intestata e carattere Times New Roman corpo 12 senza corsivo; il grassetto solo per i titoli. Le pagine vanno numerate. Il titolo (italiano e inglese) deve essere coerente rispetto al contenuto del testo, informativo e sintetico. Può essere modificato dalla redazione. Vanno indicati l’Istituto/Ente di appartenenza e un indirizzo e-mail per la corrispondenza. Gli articoli vanno corredati da un riassunto in italiano e in inglese, ciascuno di non più di 1000 caratteri, spazi inclusi. La traduzione di titolo e riassunto può essere fatta, se richiesta, dalla redazione. Non devono essere indicate parole chiave. – Negli articoli di ricerca, testo e riassunto vanno strutturati in Obiettivi, Metodi, Risultati, Conclusioni. – I casi clinici per la rubrica “Il caso che insegna” vanno strutturati in: La storia, Il percorso diagnostico, La diagnosi, Il decorso, Commento, Cosa abbiamo imparato. – Tabelle e figure vanno poste in pagine separate, una per pagina. Vanno numerate, titolate e richiamate nel testo in parentesi tonde, secondo l’ordine di citazione. – Scenari secondo Sakett, casi clinici ed esperienze non devono superare i 12.000 caratteri, spazi inclusi, riassunti compresi, tabelle e figure escluse. Gli altri contributi non devono superare i 18.000 caratteri, spazi inclusi, compresi abstract e bibliografia. Casi particolari vanno discussi con la redazione. Le lettere non devono superare i 2500 caratteri, spazi inclusi; se di lunghezza superiore, possono essere ridotte dalla redazione. – Le voci bibliografiche non devono superare il numero di 12, vanno indicate nel testo fra parentesi quadre e numerate seguendo l’ordine di citazione. Negli articoli della FAD la bibliografia va elencata in ordine alfabetico, senza numerazione. Esempio 1): Corchia C, Scarpelli G. La mortalità infantile nel 1997. Quaderni acp 2000;5:10-4. Nel caso di un numero di Autori superiore a tre, dopo il terzo va inserita la dicitura et al. Per i libri vanno citati gli Autori secondo l’indicazione di cui sopra, il titolo, l’editore, l’anno di edizione. Esempio 2): Bonati M, Impicciatore P, Pandolfini C. La febbre e la tosse nel bambino. Il Pensiero Scientifico, 1998. Un singolo capitolo di un libro va citato con il nome dell’Autore del capitolo, inserito nella citazione del testo. Esempio 3): Tsitoura C. Child abuse and neglect. In: Lingstrom B, Spencer N. Social Pediatrics. Oxford University Press, 2005. Per qualsiasi ulteriore dettaglio si invita a fare riferimento a uno degli articoli già pubblicati sulla rivista. – Gli articoli vengono sottoposti in maniera anonima alla valutazione di due o più revisori. La redazione trasmetterà agli autori il risultato della valutazione. In caso di non accettazione del parere dei revisori, gli autori possono controdedurre. È obbligatorio dichiarare l’esistenza o meno di un conflitto d’interesse. La sua eventuale esistenza non comporta necessariamente il rifiuto alla pubblicazione dell’articolo. Quaderni acp 2014; 21(5): 193 Sott’acqua, ma sempre assetati Luca De Fiore Associazione Alessandro Liberati - Network Italiano Cochrane “Water, water every where / Nor any drop to drink”. La strofa della Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge è stata ripresa nel titolo di un editoriale pubblicato sul JAMA Internal Medicine a fine marzo 2014 [1]. L’autore, David Carnahan, commentava una revisione sistematica uscita contemporaneamente sulla stessa rivista e che esamina la letteratura sugli interrogativi che nascono “al letto del malato”: in media, ogni due pazienti visitati, il medico si fa una domanda alla quale non sa dare risposta [2]. Solo nella metà dei casi il clinico si cimenta nella ricerca, ma – quando ci prova – riesce nell’intento in meno di quattro volte su cinque. Niente di nuovo sotto il sole, commenta lo stesso editorialista. Si tratta, infatti, di numeri in linea con la quasi totalità degli studi classici sull’argomento, a partire da quelli di Covell e di Ely, ripresi nella revisione sistematica della Davies e di Harrison, alla quale fu dato spazio con un’intervista anche sul Bollettino di informazione sui farmaci dell’Agenzia italiana del farmaco [3-5]. Ripartiamo dai numeri: due terzi degli interrogativi clinici che si pone il medico durante la pratica quotidiana restano senza risposta. La principale barriera è la mancanza di tempo. Ma l’andar sempre di fretta è solo apparentemente un problema individuale: la questione riguarda l’organizzazione nel suo complesso, soprattutto considerando che le stesse difficoltà sono vissute dalla quasi totalità del personale delle aziende sanitarie. La mancanza di tempo è poi direttamente legata alla disponibilità di una connessione veloce alla rete all’interno delle strutture o negli ambulatori, alla mancanza di postazioni informatiche efficienti, alla difficoltà di accedere alle risorse documentali e alla possibilità di disporre di strumenti di interrogazione della letteratura scientifica che offrano risposte sintetiche e più facilmente trasferibili alla pratica clinica. La risposta alla situazione delineata dai due interventi pubblicati sul JAMA Internal Medicine non può che essere di sistema. Quello che colpisce è che, mentre il singolo medico o infermiere o farmacista sembra soffrire per l’inadeguatezza che si trova spesso a vivere nelle proprie giornate di lavoro, una paragonabile situazione di disagio non pare avvertita con la stessa frequenza dal management delle aziende sanitarie o, a livello più alto, dagli assessorati regionali. Ne consegue che qualsiasi tentativo di risposta agli specifici problemi della sanità è destinato a essere parziale, episodico, infine transitorio, perché ignora il punto centrale: rendere il Servizio Sanitario Nazionale una comunità di pratica capace di crescere elaborando conoscenza e proponendo/discutendo risposte utili per affrontare le sfide che si pongono a livello sia della cura del singolo malato sia della salute della popolazione. Senza un pensiero strategico che valorizzi le tre componenti chiave – apprendimento, innovazione e competitività – qualsiasi spesa per la formazione è destinata a restare un costo e non un investimento. È il caso, tra i tanti, delle sottoscrizioni per abbonamenti e banche dati che le Regioni, le Province autonome, gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) e molte altre istituzioni sanitarie sostengono annualmente per un valore complessivo di alcune decine di milioni di euro: una sanità frammentata che fonda le proprie pratiche e le decisioni cliniche e di politica sanitaria su saperi quantitativamente e qualitativamente disomogenei. E così accade che a distanza di pochi chilometri (o metri) il clinico di un IRCCS abbia accesso a oltre 5000 fonti primarie e che un medico di medicina generale o un pediatra di libera scelta possano consultare solo quell’unica newsletter di dis-informazione gratuita che uno sponsor consente sia loro recapitata nella casella di email: prevedibili difformità interregionali, ma ancor più incredibili diversità tra centri universitari e ospedalieri, tra capitale e Provincia, tra piana e montagna. È un’iniquità mai considerata, forse perché il valore della conoscenza è, più che trascurato, quasi dimenticato. L’accesso alle informazioni è la condizione per costruire conoscenze capaci di migliorare la qualità delle cure. In Italia il solco tracciato dalla prima esperienza di successo, quella del Sistema bibliotecario biomedico lombardo, è stato seguito dalla Biblioteca medica virtuale inaugurata dalla Provincia autonoma di Bolzano nel 2006 e dalla Biblioteca virtuale per la salute della Regione Piemonte [6-9]. A queste si è aggiunta la Biblioteca Alessandro Liberati del Servizio Sanitario della Regione Lazio, con obiettivi per diversi aspetti ancora più nuovi. Primo, stimolare il personale sanitario a consultare prioritariamente la documentazione gratuitamente accessibile. Ciò vale anche per i contenuti pubblicati su periodici tradizionali ma liberamente consultabili: dagli articoli di ricerca pubblicati su BMJ (aperti per policy esplicita del settimanale della British Medical Association) ai commenti di politica sanitaria del New England Journal of Medicine. Secondo, suggerire la fruizione dell’insieme dei contenuti proposti dalle principali riviste di medicina generale e non soltanto di quanto solitamente ospitato nel Summary del giornale: quindi, attenzione ai blog dei principali collaboratori, alle interviste video, ai set di diapositive e così via. Terzo, osservare cautela nella consultazione delle fonti primarie, preferendo le cosiddette “secondary publication” (sintesi di più lavori valutati criticamente, linee-guida che diano sufficienti garanzie di affidabilità e indipendenza, riassunti di revisioni sistematiche prodotte da équipe di riconosciuta esperienza e serietà e così via). Soprattutto, però, trasformare un sito web in una palestra, uno spazio utile alla “rieducazione” del personale sanitario alla lettura, al confronto, al dialogo. Sulle biblioteche, su quanto siano preziose, sulla loro funzione essenziale è stato detto e scritto moltissimo e questa, dello scrittore Neil Gaiman, è una delle cose più belle: “Libraries are about freedom. Freedom to read, freedom of ideas, freedom of communication. They are about education, about entertainment, about making safe spaces, and about access to information”. Ma c’è qualcosa di ancora più diretto che possiamo aggiungere: se è vero che siamo “Nati per Leggere”, è altrettanto importante convincersi che non siamo cresciuti per smettere di farlo. u Bibliografia [1] Carnahan D. Water, water, everywhere, and not a drop to drink. JAMA Intern Med 2014;174(5):719-20. doi: 10.1001/jamainternmed.2014.1. [2] Del Fiol G, Workman T, Gorman PN. Clinical questions raised by clinicians at the point of care: a systematic review. JAMA Intern Med 2014;174(5):710-8. doi: 10.1001/jamainternmed.2014.368. [3] Covell DG, Uman GC, Manning PR. Information needs in office practice: are they being met? Ann Intern Med 1985;103(4):596-9. [4] Ely JW, Osheroff JA, Ebell MH, et al. Analysis of questions asked by family doctors regarding patient care. BMJ 1999;319(7206):358-61. [5] Davies K, Harrison J. The information-seeking behaviour of doctors: a review of the evidence. Health Info Libr J 2007;24(2):78-94. [6] www.sbbl.it/. [7] Rabensteiner V, Hofer B, Meier H, De Fiore L. Web, workshops, e-learning for Quality improvement. An Evidence-based Medicine educational programme. Recenti Prog Med 2007;98(3):169-74. [8] www.bvspiemonte.it/. [9] www.bmv.bz.it. Per corrispondenza: Luca De Fiore e-mail: [email protected] 193 4Quaderni acp 2014; 21(5): 194 Stili di vita e tutela della salute: anche il Comitato Nazionale di Bioetica ne parla. E i pediatri che fanno? Carlo Corchia International Centre on Birth Defects and Prematurity, Roma Il 20 marzo scorso è stato reso noto il documento/parere Stili di vita e tutela della salute del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) [http://www.governo.it/ bioetica/pdf/Stili_di_vita_20032014.pdf]. Il documento intende sottolineare, in particolare, il fatto che “il mantenimento di un efficiente servizio sanitario rivolto al maggior numero possibile di utenti è interesse di tutti i cittadini, ma esige anche l’impegno personale a contribuire, per quanto possibile, al mantenimento della propria salute”. Il principio etico fondamentale richiamato dal CNB è che «sebbene lo Stato non debba imporre paradigmi di salute a persone che hanno differenti concezioni del bene salute, rientra nei suoi compiti… sollecitarli a prendere coscienza che il diritto alla salute non può prescindere dal dovere di solidarietà sociale previsto dalla nostra Costituzione… e che il diritto alla (tutela della) salute viene riconosciuto sia come “diritto fondamentale dell’individuo” sia come “interesse della collettività”». Affermato il principio, il CNB tende, comunque, a precisare che «un programma di prevenzione primaria non può essere discriminatorio nei confronti di chi non vi aderisce o di chi pratica “cattive abitudini” di vita. Anzi, la società dovrebbe rivolgersi proprio a queste persone a rischio di malattie, sostenendo e pubblicizzando servizi di assistenza, per aiutarle a ripristinare stili di vita più adatti a mantenere un buono stato di salute». In che modo muoversi? 1. intervenendo sui produttori di alcol, tabacco e cibi ad alto valore energetico attraverso una moral suasion o l’adozione di specifiche strategie fiscali; 2. promuovendo un patto pubblico-privato in cui si realizzino gradualmente i necessari cambiamenti; 3. rendendo determinati comportamenti appetibili attraverso una strategia che modifichi il contesto (p.e. informativo) in cui gli individui adottano le proprie scelte; il riferimento va alle strategie c.d. di nudging, in cui l’adoPer corrispondenza: Carlo Corchia e-mail: [email protected] 194 zione individuale di comportamenti virtuosi viene incentivata modulando i caratteri del contesto decisionale; 4. imponendo per legge stili di vita ritenuti adeguati alla salute. Si accenna poi anche alle attività degli Ordini dei medici, alla responsabilità dei media, ai conflitti d’interesse dello Stato, che da una parte incassa tasse e dall’altra paga per i danni indotti dai prodotti tassati (vd. fumo e alcol), e si prospetta anche la possibilità di prendere in considerazione la compensazione dei danni economici subiti dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN) con gli arricchimenti ottenuti dalle imprese commerciali. Nel testo del CNB, oltre alla straordinaria forza di questi messaggi, quasi inconsueti nel contesto italiano, sono tuttavia ravvisabili alcuni punti di debolezza. Oltre alla scontata genericità tipica di questo di tipo di documenti, due aspetti vanno specificamente ricordati: il primo riguarda l’assenza di ogni riferimento all’importanza dei periodi preconcezionale e prenatale, soprattutto il primo, per la prevenzione primaria degli esiti avversi della riproduzione e per la promozione della salute nell’infanzia, nell’età adulta e nelle generazioni future. Ci si limita, infatti, a ricordare l’importanza delle prime fasi della vita del bambino per l’acquisizione di comportamenti corretti, soprattutto di tipo alimentare e nutrizionale, solo con un breve accenno alle malattie di origine prenatale. Il secondo aspetto concerne quello che sembra essere un richiamo alla necessità della prevenzione motivata su base prevalentemente economica. Si afferma infatti che “poiché le risorse del SSN non sono infinite, ma tendono a diventare insufficienti a causa delle sempre maggiori richieste di salute sul piano quantitativo e qualitativo, ne risulta che la sostenibilità del SSN dipende e dipenderà da un forte impegno nel promuovere il più possibile la prevenzione primaria al fine di ridurre il numero, l’incidenza e la gravità delle malattie”. Qui mi pare non venga fatta la giusta distinzione tra “richiesta di salute” e “richiesta di prestazioni sanitarie” e sembra quasi di intravedere una giustificazione alla necessità della prevenzione primaria solo in base a un principio economico, lasciando sottintendere che, laddove le risorse ci fossero, la prevenzione si renderebbe meno necessaria; con ciò contravvenendo al principio etico che le risorse non debbono “comunque” essere sperperate e che la promozione della salute è “comunque” un obbligo sancito dalla Carta Costituzionale. Si tratta di un obbligo che fa riferimento proprio al principio etico della responsabilità collettiva, che rappresenta appunto l’aspetto più rilevante di questo documento del CNB, applicabile per estensione anche alla salute riproduttiva e preconcezionale. Purtroppo non sembra che i pediatri, anche quelli ACP, siano particolarmente interessati alla prevenzione primaria degli esiti avversi della riproduzione, nonostante il loro dichiarato interesse per la salute dei bambini e la funzione di advocacy in favore dell’infanzia tante volte richiamata. Come se per questi aspetti il piano dell’impegno professionale avesse difficoltà a incontrare quello dei princìpi. Anche il pediatra deve farsi promotore della salute riproduttiva e preconcezionale nel suo agire quotidiano, perché il suo ambulatorio è frequentato da donne/coppie che potrebbero iniziare una nuova gravidanza in almeno la metà dei casi e perché non c’è alcuna donna/coppia che non presenti nella sua storia almeno un fattore di rischio per esiti avversi della riproduzione. Questo impegno dev’essere visto come inerente all’usuale ruolo professionale del pediatra e non come una sua estensione. Le competenze professionali vanno acquisite durante il normale curriculum di studi e mantenute in seguito con programmi di formazione adeguati. Ma soprattutto è necessario che si sviluppi un’attitudine culturale in questa direzione, come già i pediatri ACP hanno dimostrato di saper fare per tanti altri importanti aspetti riguardanti la salute e il benessere dei bambini. u Quaderni acp 2014; 21(5): 195 Il nuovo Codice deontologico: novità e riflessioni Patrizia Elli Pediatra di famiglia, Buccinasco (Milano) Il 18 maggio 2014 il Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCEO) ha approvato a Torino il nuovo Codice deontologico. L’ultima versione risale al 2006 e il “Codice Torino”, come è stato ribattezzato, si è reso necessario per il continuo e rapido evolversi della pratica medica. Alcune novità riguardano aspetti che spesso vengono ritenuti marginali se non addirittura dimenticati: la comunicazione medico-paziente, la comunicazione e il consenso del minore, la terapia del dolore e le cure palliative. Il primo è enunciato nell’art. 20 (relazione di cura): “[…] il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura”. Viene qui ripreso l’articolo 5 della Carta di Firenze, dove si sottolinea che una comunicazione professionale è parte integrante della cura e, come tale, il tempo dedicato a essa ha la stessa valenza di quello dedicato alla visita del paziente [1]. Se la comunicazione è tempo di cura ne consegue che deve far parte del bagaglio professionale e del curriculum formativo del medico. Troviamo esplicito accenno al secondo aspetto – l’attenzione alla comunicazione e al consenso del minore – in tre articoli: nell’art. 33 (informazione e comunicazione con la persona assistita), “[…] il medico garantisce al minore elementi di informazione utili perché comprenda la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico-terapeutici programmati, al fine di coinvolgerlo nel processo decisionale”; nell’art. 35 (consenso e dissenso informato), “[…] il medico tiene in adeguata considerazione le opinioni espresse dal minore in tutti i processi decisionali che lo riguardano”; nell’art. 38 (sperimentazione umana), “[…] il medico documenta la volontà del minore e ne tiene conto”. Come pediatri non possiamo che rallegrarci di questo ripetuto richiamo nel Codice deontologico a un aspetto spesso dimenticato: la ricerca dell’alleanza terapeutica del minore. Perché tuttavia non rimanga lettera morta occorre anche qui aggiungere elementi di conoscenza, collaborando con altre figure professionali dell’ambito giuridico e psicologico. A questo proposito si veda anche l’articolo del magistrato Augusta Tognoni già pubblicato su Quaderni acp che affronta con molta chiarezza gli aspetti giuridici e attuativi pratici del consenso del minore [2]. La novità del terzo aspetto, la terapia del dolore e le cure palliative, è nella terminologia usata: nel nuovo Codice “il sollievo dalla sofferenza” viene sostituito da “la terapia del dolore”. Questa nuova terminologia non è formale ma sottende un concetto importante: il dolore deve poter essere misurato e curato non a discrezione del medico bensì sulla base delle conoscenze e dei protocolli che permettono di quantificarlo e trattarlo in modo efficace. In questo si inserisce il Progetto “Niente Male Junior” del Ministero per una formazione a cascata di tutti i pediatri del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), l’approvazione da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) di un master di secondo livello di “terapia del dolore e cure palliative”, sempre per pediatri, e la nuova legislazione per le cure palliative pediatriche [3]. Il trattamento del dolore è un dovere del medico (art. 3) e “[…] il controllo efficace del dolore si configura in ogni condizione clinica come intervento appropriato e proporzionato” (art. 16). Infine, “il medico in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente prosegue nella terapia del dolore e delle cure palliative […]” (art. 3). Al dolore e alla terapia del dolore Quaderni acp ha dedicato numerosi articoli [4]. Infine, quattro sono gli articoli inediti inclusi (quello su medicina potenziativa ed estetica, quello sulla medicina militare, sull’informatizzazione in sanità e sul medico nell’organizzazione sanitaria). Non entriamo nel merito dei singoli arti- coli citati, per la cui lettura si rimanda al documento scaricabile dal sito della FNOMCEO (www.fnomceo.it); tuttavia è utile riflettere sul significato di quanto enunciato nell’art. 79 (innovazione e organizzazione sanitaria): “il medico partecipa e collabora con l’organizzazione sanitaria... opponendosi a ogni condizionamento che lo distolga dai fini primari della medicina”. Qui trova spazio il legame “necessario” tra etica ed economia per cui il medico, pur collaborando al contenimento dei costi e alla razionalizzazione della erogazione delle prestazioni, deve principalmente garantire ai pazienti un’assistenza caratterizzata da professionalità, appropriatezza clinica e indipendenza di giudizio. Un concetto analogo è espresso nell’art. 70 (qualità ed equità delle prestazioni): “[…] il medico deve esigere da parte della struttura in cui opera ogni garanzia affinché le modalità del suo impegno e i requisiti degli ambienti di lavoro non incidano negativamente sulla qualità e la sicurezza del suo lavoro […]”. Entrambi gli articoli restituiscono o, meglio, sottolineano il ruolo del medico come unico responsabile e detentore delle caratteristiche che deve avere il suo rapporto con il paziente in termini di professionalità e tempo, senza dimenticare il ruolo che ricopre all’interno del sistema e dell’organizzazione sanitaria. L’approvazione del nuovo Codice deontologico può e deve essere occasione per una sua attenta lettura che sarà fonte di riflessione sugli aspetti etici, umani, filosofici, scientifici della professione medica, inscindibili da tutta la sfera comportamentale del professionista. u Bibliografia [1] Gangemi M. La “Carta di Firenze” è un impegno dell’ACP. Quaderni acp 2005;12(5):185. [2] Tognoni A. Il consenso informato del minore. Aspetti generali e pratici. Quaderni acp 2013; 20(2):84-7. [3] Benini F, Gangemi M. Il dolore del bambino: dove siamo. Quaderni acp 2014;21(2):49. [4] Benini F. Il dolore nel bambino. Il gruppo terapeutico con i genitori, esperienza di sostegno alla genitorialità. Quaderni acp 2010;17(2):70-3. Per corrispondenza: Patrizia Elli e-mail: [email protected] 195 Quaderni acp 2014; 21(5): 196 Informazioni per genitori: il percorso continua con qualche cambiamento Stefania Manetti Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (Napoli) Quaderni acp è un bimestrale di informazione politico-culturale e di ausili didattici dell’ACP. Da sempre, nella nostra rivista, abbiamo avuto una rubrica rivolta ai genitori, con l’intento di rispondere, in maniera chiara ma scientificamente supportata, a problematiche diverse e di dare ai pediatri delle cure primarie l’opportunità di poter condividere del materiale informativo con i genitori dei propri pazienti. Per tante ragioni scrivere per i genitori non è semplice, anche se come pediatri siamo abituati a comunicare con le famiglie, chi con maggiore e specifiche competenze, chi con l’esperienza derivante dalla pratica. Tuttavia risulta spesso difficile tradurre concetti, a volte anche complessi, in una terminologia semplice ed efficace e scrivere in modo da poter dare informazioni comprensibili a tutti i genitori, di qualsiasi livello culturale e di istruzione. Come redazione ci siamo chiesti se questa rubrica di informazioni per genitori servisse. Spesso abbiamo considerato l’idea di verificare che uso ne facciano i pediatri lettori di Quaderni acp. Quello “dietro alle quinte” per la rubrica di informazioni per genitori è un lavoro di ricerca di articoli scientifici sui vari argomenti trattati; persino la scelta degli argomenti è sempre basata su studi nell’ambito delle cure primarie comparsi su riviste internazionali (JAMA pediatrics, The Lancet, BMJ, Archives ecc.); essa deriva anche dalla consultazione di alcuni siti di associazioni pediatriche come l’American Academy of Pediatrics (AAP) o di ospedali (cincinnatichildren.org) che hanno delle sezioni a supporto dei genitori. La decisione di selezionare alcuni argomenti rispetto ad altri è stata basata, per il passato, su tematiche che erano in quel momento discusse a livello internazionale o che avevano suscitato l’interesse dei media, o su linee guida di recente aggiornamento riguardo a problemi importanti. Per corrispondenza: Stefania Manetti e-mail: [email protected] 196 Negli ultimi anni la letteratura scientifica si è molto soffermata sul trasferimento di informazioni sostenute da evidenze scientifiche verso i luoghi di cura in condivisione con i pediatri, i pazienti e le famiglie. Lo Shared Decision Making (SDM, Condivisione nelle decisioni) è un processo che coinvolge gli operatori sanitari nella comunicazione di opzioni terapeutiche e diagnostiche con i genitori e i pazienti, tenendo conto dei valori personali degli stessi in modo da optare per la migliore strategia per il paziente stesso.Tale procedura diventa particolarmente critica quando le decisioni da prendere hanno alla base opzioni ragionevoli da un punto di vista medico e che invece differiscono tra di loro in maniera significativa per la famiglia e/o il paziente. L’utilizzo di “ausili per la decisione” è una delle strategie disponibili per implementare la condivisione nelle decisioni. Gli ausili sono strumenti che aiutano le persone a lasciarsi coinvolgere nelle decisioni da prendere, dando informazioni sulle opzioni disponibili e sugli esiti, e cercando di fare chiarezza sui valori personali. Non rimpiazzano la comunicazione efficace da parte dell’operatore sanitario ma la completano avendo in comune lo stesso obiettivo, ossia di trasmettere un percorso di cura di alta qualità basato su evidenze scientifiche e centrato sulle famiglie. Sullo SDM in pediatria c’è, a oggi, poca letteratura scientifica ed è in corso una review sistematica per l’applicazione di un protocollo su tale processo collaborativo. Negli ultimi anni inoltre molte ricerche hanno messo in evidenza e dimostrato l’importanza di come una modalità comunicativa corretta con le famiglie sia alla base di un percorso di diagnosi e cura efficace. A partire dal considerare la health literacy del paziente (che in pediatria comprende sempre non solo il bambino ma spesso come “decision maker” anche il o i genitori) come un elemento estremamente importante nel trasferi- mento non solo di informazioni ma anche nel processo di cura, specie nei confronti di bambini con bisogni speciali o malattie croniche. La health literacy è la capacità di una persona di ottenere, comprendere e utilizzare informazioni basilari sui servizi sanitari in modo da poter poi prendere decisioni appropriate. I livelli di health literacy delle persone sono importanti mediatori nella relazione tra diseguaglianze di salute e diseguaglianze socio-economiche. Gli adulti con bassi livelli di health literacy ricorrono più frequentemente alla ospedalizzazione, ai servizi di emergenza, e non riescono a gestire bene le malattie croniche. Poco si conosce sui rapporti tra health literacy dei genitori o dei bambini e lo stato di salute. Molte informazioni sanitarie destinate ai genitori e riguardanti la salute dei loro bambini sono troppo complesse per il livello di comprensione della popolazione media, e questo può generare un inappropriato uso dei servizi e un dosaggio sbagliato dei farmaci, con rischi anche di sovradosaggio. La scarsa health literacy è definita da alcuni una silente epidemia capace di influenzare lo stato di salute dell’individuo e della popolazione. Rimandiamo a Quaderni acp 2009;16: 151-5 per ulteriori approfondimenti. In conclusione, i lettori avranno notato come negli ultimi numeri della rivista la rubrica di informazioni per i genitori sia entrata in “sintonia” con la FAD con l’intento, presente già in diverse riviste (e citiamo una per tutte JAMA, sia nella versione medica che pediatrica con gli storici Advices for patients), di fornire ai pediatri una modalità comunicativa complementare e chiaramente non sostitutiva alla comunicazione “faccia a faccia” con il bambino e il genitore. Anche questo cambiamento, come tutti quelli che vengono realizzati per Quaderni acp, è stato discusso e approvato dalla redazione con l’obiettivo di dare ai lettori un ausilio in più per la pratica clinica quotidiana. Speriamo sia di vostro gradimento. u Quaderni acp 2014; 21(5): 197 Lo scalone monumentale della Stazione Centrale di Milano Federica Zanetto Pediatra di famiglia, ASL Monza Brianza Pubblicato su Ricerca&Pratica 2014;30:147-8 “Nella stazione di Milano profughi della classe media in attesa dell’ultimo treno. Gli esperti: fenomeno nuovo, arrivano i siriani colti”. Così titolava a grandi caratteri il reportage di N. Zancan su La Stampa del 22 maggio u.s. in cui si citava anche l’osservazione di V. Polizzi di “Save the Children”: “È una migrazione del tutto nuova. Qualcosa che non avevamo mai visto. Arrivano persone che conoscono l’inglese, colte, di classi sociali medio-alte. Per prima cosa, chiedono di potersi lavare. Sono tutte molto informate. Sono sempre grate, rispettose. Non ho mai assistito al minimo episodio di violenza”. Nonostante la crisi in Siria sia iniziata nel marzo del 2011, è soltanto nel 2013 che i siriani incominciano ad arrivare numerosi in Italia via mare, a bordo di imbarcazioni fatiscenti, dopo un lungo e costoso viaggio attraverso diversi Paesi, in buona parte in mano ai trafficanti. La Siria è il secondo principale Paese di provenienza dei migranti, preceduta solo dall’Eritrea. Ma è il primo Paese di origine se si considerano soltanto i minori in nucleo familiare: 1542 (su 2124) bambine e bambini arrivati in Italia via mare sono siriani, tratti in salvo dalla guerra da uno o entrambi i genitori. Gli arrivi via mare sono ripresi in modo consistente a partire dal mese di aprile 2014, con un progressivo aumento del numero di minori, fenomeno che rappresenta uno degli aspetti più allarmanti di questa nuova ondata di arrivi. I siriani, così come eritrei, somali e afgani, non vogliono restare in Italia, ma intendono proseguire il loro viaggio verso Paesi del Nord Europa (in particolare Svezia, Norvegia, Germania e Svizzera) dove vivono altri loro familiari o amici, che hanno trovato condizioni di accoglienza e integrazione dignitose. Nella maggior parte dei casi dalla Sicilia raggiungono in treno Milano, dove vengono temporaneamente accolti nelle strutture messe a loro disposizione dall’amministrazione comunale, e da lì proseguono in treno o con i passeur il loro viaggio verso Nord [1]. A distanza di tante settimane, lo scalone monumentale della Stazione Centrale di Milano continua dunque a rappresentare l’ultima fermata italiana dei profughi siriani in fuga dalla guerra: tra il continuo, frenetico via vai di viaggiatori e turisti in transito, in una condizione logistica di assoluta precarietà, il lavoro incessante degli operatori di “Save the Children” e dei volontari del Comune di Milano e la presenza preziosa e indispensabile dei mediatori linguistico-culturali cercano di sopperire alla persistente assenza di basilari strutture di prima accoglienza. I nuclei familiari sono numerosi, con bambini anche molto piccoli. Magri, malnutriti, molti di loro, compresi i piccolissimi, hanno scottature solari ed esiti molto evidenti su volto e parti esposte. I bimbi di pochi mesi di età sono quelli più da osservare e più provati. Non hanno passeggini e dormono solo saltuariamente in braccio da molti giorni. Uno si tranquillizza adagiato su un traballante fasciatoio di… terza o quarta mano (ma meno male che c’è!). Poco più in là, catturato da bolle di sapone, palloncini e matite colorate, un nugolo di bambini più grandicelli si raccoglie (sul pavimento) attorno alle educatrici. Una piccola, unica, bella nota di spontanea giocosità. Nel sacco del pediatra, accanto al paracetamolo, ai sali reidratanti, alla crema antibiotica, alla crema cortisonica, a quella disinfettante e a qualche garza, il ricettario bianco si assottiglia rapidamente: sono tutti partiti con quasi nulla appresso e c’è chi non riesce, anche gli adulti, a completare terapie già in corso. I genitori appaiono molto rassicurati quando capiscono che possono avere la ricetta per poter poi andare nella farma- cia della stazione (quasi tutti vanno ad acquistarsi quanto occorre). Dal sacco del pediatra emerge via via anche la consapevolezza di una emergenza che non ha fine, che ci riguarda tutti e che obbliga a porci delle domande, al bisogno di capire, prima di giudicare. Chi si trova in situazioni di difficoltà e in una migrazione causata da sofferenze e drammi spesso inaccettabili può viverne i momenti più faticosi in maniera positiva e come risorsa solo con dignitose condizioni di ospitalità e con l’offerta di servizi essenziali accoglienti. Non sta succedendo nel mezzanino dello scalone monumentale della Stazione Centrale, area che continua a essere abusiva anche per operatori e volontari, oltretutto resa in parte inagibile dalla presenza di deiezioni e rifiuti di vario genere, anche di vecchia data. Le persone e le famiglie straniere che lì sono costrette ad accamparsi, pur momentaneamente e di passaggio, interpellano assetti consolidati e responsabilità a ogni livello. Rammentano a noi professionisti che operiamo nei servizi e nell’ambito della cura (medici, pediatri, ostetriche, assistenti sociali, psicologi, educatori) che possiamo essere potenti tutori di resilienza. Sollecitano tutti alla “scelta di intelligenza profetica” e al “salto di qualità nella convivenza civile” auspicati da C.M. Martini: “nel campo dei diritti umani valgono non soltanto le parole o le affermazioni solenni, ma pure le realizzazioni progressive nelle quali, pur misurando la distanza dalla meta, si vede come concretamente ci si sta avvicinando a un ideale di maggiore giustizia sociale e fraternità” [2]. u Bibliografia [1] Rapporto di Save the Children. L’ultima spiaggia. Dalla Siria all’Europa, in fuga dalla guerra. http://images.savethechildren.it/IT/f/img_pubblicazioni/img239_b.pdf. [2] Martini CM. Non temiamo la storia. Piemme Editore, 1992. Per corrispondenza: Federica Zanetto e-mail: [email protected] 197 Quaderni acp 2014; 21(5): 198-204 Il maltrattamento fisico: quali conoscenze per il pediatra Carla Berardi Pediatra di famiglia, Perugia Lo scarso contributo dei pediatri alla individuazione dei casi di maltrattamento deriva in buona parte dalla scarsa diffusione delle conoscenze relative alla semeiotica delle lesioni esito di abuso e dalle difficoltà di diagnosi differenziale con le lesioni accidentali. Pertanto l’articolo si propone di analizzare i segni e i sintomi specifici o compatibili con il maltrattamento fisico e i criteri diagnostici utili per sospettare/identificare i casi di abuso nell’esercizio della pratica professionale, con l’obiettivo di migliorare la capacità di: – identificare gli indicatori anamnestici del maltrattamento; – riconoscere le caratteristiche di lividi, ustioni e fratture che fanno sospettare il maltrattamento; – identificare i segni classici di trauma cranico da abuso (già Shaken Baby Syndrome). Non vengono date indicazioni su: – diagnosi (confermare o escludere il maltrattamento) in quanto non di competenza del pediatra, che comunque è tenuto a collaborare al percorso diagnostico territorialmente ritenuto corretto; – segnalazione, in ogni caso doverosa, oltre che obbligo di legge in caso di sospetto; – prevenzione, comunque di competenza del pediatra, specialmente del pediatra di libera scelta che è in una posizione chiave per individuare i fattori di rischio e offrire supporto alle famiglie in difficoltà così da rinforzare la protezione del bambino. Definizione del maltrattamento sui minori Per maltrattamento sui bambini e gli adolescenti s’intendono “tutte le forme di abuso fisico e/o psico-emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale o altro che comportano un danno reale o potenziale per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza, per il suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità, fiducia o potere” (WHO, 2002). Dati epidemiologici È noto che, sebbene l’abuso all’infanzia rappresenti uno dei maggiori problemi di sanità pubblica nei Paesi ad alto tenore di vita (WHO, 2006) per l’impatto sul benessere fisico, mentale e sociale delle vittime, e sulla società di cui fanno parte, la sua incidenza e prevalenza rimangono sottostimate. Una review di The Lancet sulla prevalenza del maltrattamento infantile in alcuni Paesi ad alto tenore di vita evidenzia che i casi di maltrattamento accertato riferiti ogni anno alle agenzie di protezione dell’infanzia riguardano dall’1,5 al 5% dei bambini nella popolazione generale; gli studi di popolazione condotti con la metodologia del “self-report retrospettivo” (questionari somministrati ad adolescenti o giovani adulti a cui veniva chiesto di riferire eventuali episodi di violenza subiti durante la propria infanzia) indicano che ogni anno circa il 4-16% dei bambini subisce abuso fisico. Dagli stessi studi emerge che almeno per un periodo nel corso dell’infanzia (prevalenza cumulativa), il 5-35% subisce abuso fisico, il 4-l9% abuso psico-emozionale, il 6-12% è trascurato, l’8-25% è esposto a violenza assistita e infine che il 15-30% delle femmine e il 5-15% dei maschi sono state vittime di varie forme di abuso sessuale. Uno studio recente, che valuta la prevalenza cumulativa dei casi di abuso accertati, indica che al 2011 negli Stati Uniti il 12,5% dei minori è stato abusato nel corso dell’infanzia. Nonostante l’incertezza dei dati, questo sottolinea la sottostima da parte delle statistiche ufficiali. Dati provenienti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), relativi al maltrattamento dei bambini nella Regione europea, confermano l’estensione del fenomeno, indicando una prevalenza per abuso fisico del 22,9%, abuso psicoemozionale del 29,1%, abuso sessuale del 9,6%, e per trascuratezza del 16,318,4%. Nella Regione europea almeno 850 bambini sotto i 15 anni muoiono ogni anno a causa di maltrattamenti. In Italia non esiste ancora un sistema informativo nazionale in grado di fornire dati epidemiologici aggiornati sul maltrattamento nonostante le raccomandazioni ONU e OMS. Le stesse statistiche ufficiali sul fenomeno sono estremamente carenti e le uniche raccolte di dati sono di fonte giudiziaria, organizzate a fini interni dalle istituzioni giuridiche e quindi scarsamente utili dal punto di vista epidemiologico. La prima indagine nazionale quali-quantitativa condotta su un campione di 31 Comuni a cura di Terre des Hommes e CISMAI (settembre 2013) registra una prevalenza di casi noti ai servizi pari a 0,98% mentre studi di popolazione condotti su un campione di studenti delle scuole superiori con la tecnica del self-report retrospettivo indicano che il 3% ha subìto nell’infanzia abuso fisico, l’11% abuso emozionale e l’8% (maschi) e il 20% (femmine) abuso sessuale. Questi dati ci dicono che nella pratica professionale del pediatra la probabilità di doversi confrontare con il maltrattamento è alta, superiore a quella di altre patologie rispetto alle quali c’è evidentemente maggiore consapevolezza e migliore formazione (da Nelson 2013: sindrome di Down 0,1%, diabete tipo 1 0,2%, cardiopatie congenite 0,8%, tumori 0,016%, autismo 0,2%). Il maltrattamento fisico Per maltrattamento fisico s’intende il ricorso sistematico alla violenza fisica come aggressioni, punizioni corporali o gravi attentati all’integrità fisica, alla vita del bambino/adolescente e alla sua dignità. “Questo include il colpire, percuotere, prendere a calci, scuotere, mordere, strangolare, scottare, bruciare, avvelenare, soffocare. Gran parte della violenza a danno di minori dentro le mura domestiche viene inflitta con lo scopo di punire” (WHO, 2006). Per corrispondenza: Carla Berardi e-mail: [email protected] a distanza 198 F A D formazione a distanza L’abuso fisico è un fenomeno frequente; pertanto c’è un’alta probabilità che il pediatra incontri bambini vittime di maltrattamento nella pratica professionale, ma nonostante ciò la maggior parte delle lesioni da abuso fisico rischia di non essere riconosciuta. Lesioni di modesta entità che non richiedono l’intervento medico possono essere tenute nascoste. I bambini abusati possono presentarsi nella pratica clinica in vari modi: la lesione può essere il motivo della consultazione o può essere riscontrata in occasione di una visita per altri motivi; dunque è necessario essere attenti a sospettare il maltrattamento ogni volta che ci si trovi a valutare un bambino con lesioni traumatiche. Dai dati della letteratura emerge che i bambini più piccoli (< 3 anni) hanno la più alta probabilità di essere maltrattati, con la più alta percentuale al di sotto di un anno; ma tutte le età, inclusi gli adolescenti, sono a rischio. Le aggressioni esitano in lesioni che possono essere a carico di diversi organi e apparati configurando quadri clinici diversi (lesioni cutanee, fratture, trauma cranico ossia Shaken Baby Syndrome, danni viscerali) e pongono complesse questioni di diagnostica differenziale. La diagnosi differenziale, come per le altre patologie, si basa su: anamnesi (valutare se la dinamica riferita è compatibile con lo sviluppo psicomotorio del bambino e con la lesione), esame fisico (valutare la condizione generale del bambino e le caratteristiche delle lesioni per accertare se siano specifiche o compatibili con maltrattamento), eventuali esami diagnostici o consulenza da parte di esperti. Decidere se una lesione è causata da abuso non è facile, ed è corredata da crescenti aspettative da parte di forze dell’ordine, avvocati e opinione pubblica su una certezza basata su “prove sicure”. È necessario essere formati adeguatamente e in tutti i casi dubbi è raccomandabile un confronto con pediatri esperti nella materia (American Academy of Pediatrics, 2013). Anamnesi Per la diagnosi differenziale tra lesione accidentale o da maltrattamento è indispensabile raccogliere un’anamnesi mirata sulla dinamica che ha causato la lesione, sulle condizioni mediche del bambino (dal momento in cui si è verifi- Quaderni acp 2014; 21(5) cato il trauma fino al momento in cui si presenta all’osservazione/cure mediche), sulla situazione socio-familiare (che può rilevare la presenza di eventuali fattori di rischio). Lesioni da maltrattamento vengono tipicamente giustificate dall’abusante (e in genere anche dal bambino vittima) come accidentali, per cui è essenziale essere critici rispetto alle informazioni fornite, e ottenere una storia dettagliata su come la lesione si è verificata (come, quando e dove, se qualcuno era presente). L’anamnesi va condotta in modo non accusatorio, ponendo domande aperte, lasciando raccontare liberamente l’accaduto al genitore, ma ottenendo dettagli sulle caratteristiche fisiche del luogo dove è avvenuto il trauma, sulle circostanze che lo hanno preceduto, sul modo specifico nel quale è accaduto, sulle condizioni del bambino e sulle cure prestategli dal momento in cui si è verificato il trauma fino a quello in cui si è presentato all’osservazione medica. Alcuni elementi anamnestici possono far sorgere il sospetto di abuso fisico (tabella 1). È anche importante porre attenzione al comportamento sia del bambino che dei genitori. Alcuni atteggiamenti possono essere utili indicatori per sospettare l’abuso (tabella 2). È necessario raccogliere una completa anamnesi medica, soprattutto indagando su patologie che possono fornire una spiegazione medica della lesione. Per esempio, in un bambino che presenti lividi multipli, sarà necessario indagare precedenti eventuali episodi di sanguinamento, o facilità a presentare lividi, o eventuale uso di farmaci, nel sospetto di una coagulopatia. Anche una completa anamnesi psicosociale ha grande importanza, perché fornisce informazioni sulla famiglia che possono rivelare la presenza di fattori di rischio per abuso (tabella 3). È fondamentale però ricordare che la presenza o assenza di fattori di rischio sono utili per aiutare a formulare il sospetto di abuso, ma non devono essere considerate di per sé sufficienti a formulare il sospetto. Esame fisico Nel sospetto di abuso è essenziale valutare lo sviluppo fisico del bambino: peso, statura, circonferenza cranica (nei lattanti) e condizioni generali (abiti e igiene), per determinare se il bambino è in buona salute e ha ricevuto cure adeguate, e il suo sviluppo psicomotorio, per determinare se la causa accidentale delle lesioni è compatibile con l’autonomia raggiunta. L’esame obiettivo deve cominciare con un esame completo della pelle, dalla testa ai piedi, per accertare se ci siano lesioni specifiche o compatibili con maltrattamento. Vanno esaminati: collo, testa, bocca, estremità, inclusi mani e piedi, genitali, ano, natiche, torace e schiena, e in particolare le sedi più nascoste di lesioni inflitte, quali le orecchie, specie la superficie posteriore, l’angolo della mandibola, il collo, il cuoio capelluto, il frenulo linguale e vestibolare. Vanno attentamente valutati ogni livido, abrasione, ustione e ogni altra lesione. Lesioni della cute Le lesioni della cute, soprattutto di modesta entità, sono estremamente comuni nei bambini e per la maggior parte sono dovute a incidenti. L’aspetto di una lesione è raramente patognomonico per abuso o incidente, per cui per la diagnosi differenziale è essenziale conoscere bene la semeiotica fisica e valutare attentamente la relazione tra dinamica causale e lesione. Va anche considerato che in uno stesso bambino possono coesistere lesioni accidentali e inflitte, e che possono capitare incidenti inusuali, causa di lesioni con aspetto non comune per cause accidentali, ma è necessario fare attenzione a non accettare spiegazioni inverosimili pur di non considerare la possibilità di maltrattamento. I lividi I lividi sono le lesioni più comuni nell’abuso fisico, ma sono anche comunemente provocate dal gioco e dalle normali attività. Per la diagnosi differenziale è fondamentale valutare attentamente ogni lesione (sede, forma, gravità), considerare se la causa accidentale è possibile secondo il livello di sviluppo neuromotorio del bambino, se la dinamica riferita è plausibile e se il bambino ha ricevuto cure adeguate. Tre fattori possono aiutare a distinguere i lividi da causa accidentale da quelli da abuso: l’età e lo sviluppo neuromotorio del bambino, l’aspetto del livido e la sede della lesione. Età. I bambini piccoli, che non camminano o che non hanno un’autonomia mo199 F A D formazione a distanza toria, non dovrebbero presentare lesioni per le quali i genitori non possano fornire una spiegazione chiara e precisa. Uno studio osservazionale condotto su bambini da 0 a 3 anni di età mostra che solo il 2,2% dei bambini che non gattonano e non camminano presenta lividi (in dettaglio: < 6 mesi: 0,5%; 6-8 mesi: 4,0%; 9-12 mesi: 11,5%), vs il 17,8% di quelli che hanno iniziato a camminare e il 51,9% di quelli che camminano. Sede. Anche la sede può dare informazioni utili per la diagnosi differenziale. È ampiamente dimostrato che i lividi provocati accidentalmente nel gioco o nelle comuni attività quotidiane sono localizzati quasi sempre sulla superficie anteriore del corpo e in corrispondenza delle prominenze ossee (più frequentemente fronte, stinchi, ginocchia) (figura 1). Quelli causati da maltrattamento possono presentarsi in ogni parte del corpo, ma più spesso sono localizzati su zone lontane da prominenze ossee e con più tessuto adiposo sottostante (natiche, addome, torace e guance) (figura 2). Al capo, nei bambini di età < 6 anni, i lividi accidentali si localizzano soprattutto in un’area a forma di T dalla fronte al naso, al labbro superiore e al mento, e alla regione posteriore del capo (figura 1). Meno del 6% dei lividi accidentali della faccia è localizzato alle guance o in regione periorbitaria. Al contrario, quelli da abuso sono localizzati più spesso a orecchie (figura 3), guance e collo, tutte sedi estremamente rare per lividi accidentali. Sono particolarmente sospetti lividi localizzati in aree specifiche come: avambracci, arti superiori e zone adiacenti del tronco, superficie laterale delle cosce, che possono indicare “lividi da difesa” se il bambino ha tentato di proteggersi dai colpi. Forma. L’aspetto è molto importante perché può presentare l’impronta dell’oggetto che l’ha prodotto (fibbia di cintura, bastone, pugno ecc.), cosa che non si verifica nei lividi da causa accidentale. Un colpo inferto a mano aperta, come uno schiaffo, può provocare lividi lineari e paralleli che riproducono i contorni delle dita. L’irregolarità delle distanze tra un livido e l’altro può indicare la sovrapposizione di più di un’impronta, cioè più di uno schiaffo (figura 4). Un pugno può lasciare l’impronta delle nocche. Un calcio può lasciare l’impronta chiara della Quaderni acp 2014; 21(5) TABELLA 1: ELEMENTI ANAMNESTICI INDICATORI DI MALTRATTAMENTO FISICO Storia dell’accaduto vaga, povera di dettagli, che non diventa più precisa nel tempo, ma, viceversa, cambia versione Descrizione della dinamica dell’incidente non compatibile con la tipologia, la sede, l’estensione e la gravità della lesione e con lo sviluppo fisico-psicomotorio del bambino Spiegazioni nettamente diverse fornite da differenti testimoni Ritardo nel cercare l’aiuto medico Ricoveri precedenti in cui è possibile sospettare una dinamica di abuso Storia di violenza familiare TABELLA 2: INDICATORI SOSPETTI DI MALTRATTAMENTO FISICO Atteggiamento del genitore • Genitori scarsamente preoccupati, che minimizzano il problema, con un comportamento e un coinvolgimento emotivo non adeguati alle circostanze e alle condizioni del bambino • Genitori ostili o addirittura aggressivi verso il medico, che rifiutano il ricovero e ulteriori accertamenti Atteggiamento del bambino • Bambino triste, troppo tranquillo, eccessivamente impaurito o, viceversa, iperattivo, incontenibile, con comportamento di “allarme e ipervigilanza”, oppure di apatia e distacco • Bambino che presenta un attaccamento eccessivo e indiscriminato per tutte le persone con cui viene in contatto TABELLA 3: ANAMNESI PSICOSOCIALE Accertare la composizione del nucleo familiare e lo stato lavorativo dei genitori Documentare se il nucleo familiare è noto ai servizi sociali. Se sì, perché? Documentare se i genitori hanno precedenti penali, se c’è una storia di violenza familiare o precedente sospetto di abuso sul bambino o su fratelli Accertare eventuale abuso di droga o alcol nei genitori o altri conviventi, eventuali malattie mentali Chiedere se i genitori sono stati vittime di qualche forma di abuso nella loro infanzia Indagare sui modelli di disciplina impiegati, soprattutto se sono in uso punizioni fisiche scarpa. Un livido a forma di U o J è di solito indicativo di trauma non-accidentale, tipicamente da frustata con cintura, cavo o fil di ferro. È molto importante esaminare accuratamente se ai lividi sono associate petecchie, perché recentemente è emerso dalla letteratura che la contemporanea presenza di petecchie è fortemente sospetta per lesione da abuso, con valore predittivo di 80 (IC 95%: 64,1- 90,1), sebbene la loro assenza non abbia alcun valore per la diagnosi differenziale. Un livido con forma tipica è quello provocato da morso, lesione particolarmente importante da identificare, perché un morso da adulto sul corpo di 200 F A D un bambino, di forza tale da lasciare un segno, non è mai dovuto a causa accidentale; è sempre espressione di un abuso e pertanto va documentato dettagliatamente, meglio se fotografato, perché dall’impronta si può risalire all’abusante. Il morso si presenta classicamente come un livido di forma circolare o ovalare, costituita da due archi concavi in opposizione, associato o meno a ecchimosi e/o petecchie (figura 5). In alcuni casi la forma può essere distorta, se il morso è incompleto, o se è su una superficie curva. Va considerato che i bambini possono essere morsi da animali, o da altri bambini, per cui è necessario saper formazione a distanza fare la diagnosi differenziale. I morsi da cane hanno arcata ogivale più stretta, i denti sono più appuntiti e sottili e di solito provocano lesioni da strappo, con sanguinamento. Il metodo per distinguere il morso da adulto (e quindi abusivo) da quello da bambino si basa sulla misurazione della distanza tra l’impronta dei due canini, che nel morso di un adulto è di 3-4,5 cm; in quello di un ragazzo o giovane adulto di 2,5-3 cm, in quello di un bambino di età inferiore a 8 anni di < 2,5 cm. L’analisi completa del morso per risalire all’abusante è di competenza medico-legale (ricostruzione dell’impronta, analisi del DNA in morsi recenti). Il pediatra dovrà porre in diagnosi differenziale patologie della cute, come per esempio le micosi. Datazione. Per lungo tempo è stata in uso la pratica di datare i lividi in base al colore presentato, pratica fortemente richiesta da team investigativi. In realtà è stato chiaramente dimostrato che non esiste una base scientifica per la datazione di lividi in base al colore, per cui questa pratica deve essere abbandonata. Si stanno sperimentando nuove tecniche, al momento però non applicabili alla pratica clinica. Tutti i lividi sospetti devono essere accuratamente documentati (sede, colore e dimensioni), per iscritto (preferibilmente su diagramma del corpo), e se possibile con foto. Diagnosi differenziale. Va fatta con i disordini della coagulazione, in cui si verifica la comparsa di lividi di cui non è spiegata la causa o di entità eccessiva rispetto alla dinamica che viene descritta (trombocitopenia idiopatica, emofilia, malattia di von Willebrand, malattia emorragica del neonato, deficit di vitamina K, leucemia, coagulazione intravasale disseminata, porpora fulminante). Sarà necessario eseguire: emocromo, conta piastrine, PTT, PT, tempo di coagulazione ed eventualmente richiedere consulenza ematologica. Altre condizioni da porre in diagnosi differenziale sono: le chiazze mongoliche che possono presentarsi su glutei, schiena, ginocchia, capo, piedi, area lombosacrale, e la porpora di Schönlein-Henoch. Le ustioni Le ustioni sono lesioni da abuso piuttosto frequenti: si stima che rappresentino Quaderni acp 2014; 21(5) il 10% delle lesioni da abuso fisico nel bambino. D’altra parte anche le ustioni accidentali sono comuni, specialmente nei bambini di età inferiore a 5 anni. Per la diagnosi differenziale è fondamentale valutare attentamente ogni lesione ed esaminare accuratamente la dinamica riferita dell’incidente. Le ustioni accidentali sono causate più frequentemente da liquidi bollenti che il bambino si rovescia addosso (figura 6), interessano di solito gli arti superiori, la faccia, il collo e la superficie anteriore del tronco. Sono di solito asimmetriche e a bordi irregolari. L’ustione è più grave nel punto più alto, dove il liquido bollente viene a contatto con il corpo, e la gravità si riduce nelle parti sottostanti, dove la temperatura del liquido si è ridotta. Le zone sottostanti a sporgenze rimangono illese, come pure le zone protette dagli abiti (figura 7). A differenza di quelle accidentali, le ustioni da maltrattamento sono più frequentemente dovute a immersione in liquidi bollenti/caldi (figure 8, 9) (va segnalato che un’ustione grave può essere provocata dal contatto per solo 5 secondi con acqua a temperatura di 60 ºC), sono più frequenti nei bambini più piccoli e sovente associate a “toileting accidents”, quando il bambino si sporca e le feci debordano dal pannolino, interessano più frequentemente il perineo e/o le natiche, gli arti inferiori, le mani o, più raramente, l’intera faccia. Fortemente suggestive per maltrattamento sono ustioni a “guanto” alle mani o “a calzino” ai piedi, specie se bilaterali e simmetriche. Gli elementi che permettono di differenziarle da ustioni accidentali sono: i margini netti, la profondità rilevante e uniforme, le pieghe cutanee risparmiate, l’assenza di lesioni da schizzi. Un aspetto importante della valutazione di questi casi è l’indagine (da parte delle autorità predisposte) allo scopo di determinare la temperatura dell’acqua che esce dal rubinetto e il tempo necessario perché raggiunga un livello pericoloso. Al secondo posto per frequenza nei bambini piccoli sono le ustioni da contatto con fiamma o superfici arroventate. Quelle da causa accidentale sono più frequenti al palmo delle mani, mentre quelle da abuso interessano più spesso la schiena e il collo. Hanno limiti netti, profondità uniforme e rilevante (ustioni di terzo grado), forma da cui è possibile riconoscere l’oggetto che è stato usato. Un’ustione da contatto spesso segnalata in casi di maltrattamento è quella da sigaretta (figura 10). Pochi casi documentati nella letteratura confermano che le ustioni da sigaretta intenzionali si presentano in parti esposte del corpo e hanno forma circolare approssimativamente di 1 cm di diametro. La diagnosi differenziale va fatta in questo caso anche con l’impetigine, che però presenta, inconfondibilmente, croste intorno alla lesione. A differenza delle ustioni da liquidi, quelle da contatto riguardano tutte le fasce di età. Per la valutazione di un’ustione sospetta per abuso, oltre alle caratteristiche descritte e all’analisi della dinamica dell’incidente riferita dai genitori, è necessario porre la diagnosi differenziale con altre condizioni che possono presentare un aspetto simile: impetigine, epidermolisi bollosa, eruzione fissa da farmaci, fotodermatiti, rimedi tradizionali come la moxibustione. Va sottolineato che nella valutazione di bambini con ustioni da sospetto abuso è importante la ricerca di fratture occulte (mediante sorveglianza scheletrica). In uno studio di bambini con ustioni non accidentali il 18,6% di quelli di età < 2 anni aveva anche fratture (De Graw 2010). N.B. Le ustioni da abuso, oltre a maltrattamento fisico (inflitte), possono essere dovute a trascuratezza (da difetto di sorveglianza), con un rapporto tra le due di 1:9 a favore della trascuratezza. In questo caso è molto difficile identificarle come abusive, in quanto sono di fatto provocate da incidenti che avrebbero potuto essere prevenuti, e avrebbero dovuto ricevere cure immediate e adeguate. La difficoltà sta nel distinguere tra disattenzione momentanea dei genitori e inadeguatezza nella sorveglianza. Lesioni del cavo orale La valutazione medica per sospetto abuso fisico deve includere un esame della cavità orale, ricercando lesioni dentali, della lingua, della parete vestibolare delle labbra, della mucosa, con particolare attenzione al frenulo labiale e sublinguale. La lacerazione del frenulo linguale per lungo tempo è stata considerata patognomonica per maltrattamento, soprattutto nei bambini più piccoli, ma allo stesso tempo è considerata dai dentisti un 201 F A D formazione a distanza FIGURA 1: SEDI DI LIVIDI DA CAUSA ACCIDENTALE FIGURA Quaderni acp 2014; 21(5) FIGURA 3: LIVIDO ALL’ORECCHIO FIGURA 4: SCHIAFFO FIGURA 5: MORSO FIGURA 6: USTIONE ACCIDENTALE 2: SEDI DI LIVIDI DA ABUSO solo liquido bollente FIGURA 7: USTIONE ACCIDENTALE FIGURA 8: USTIONI DA ABUSO immersione trauma comune nell’infanzia, provocato da un colpo diretto, o da cadute (contro un tavolo, o dall’altalena). Sfortunatamente non ci sono studi comparativi che diano indicazioni sulle caratteristiche utili per differenziare le forme accidentali da quelle da abuso, ma un aiuto può venire dall’anamnesi, dal momento che la rottura del frenulo, per il copioso sanguinamento che ne deriva, è un evento che viene ricordato dai genitori che pertanto dovrebbero saperne riferire la dinamica causale. Quando da abuso, è provocata dalla forzatura con un oggetto (cucchiaio, biberon, ciuccio) e di solito sono presenti altre lesioni inflitte, spesso occulte e gravi. Pertanto, se si riscontra una lacerazione del frenulo in un bambino di età < 2 anni che non abbia una spiegazione adeguata, è necessario procedere alla ricerca di fratture occulte e, nel caso il bambino abbia meno di 1 anno di età, anche a un esame oftalmologico alla ricerca di emorragie retiniche, e FIGURA 9: USIONE DA IMMERSIONE 202 F A D FIGURA 10: USIONE DA CONTATTO CON SIGARETTA formazione a distanza a una TAC cerebrale nel sospetto di trauma cranico da abuso. Le fratture Le fratture sono molto comuni nel bambino; sono provocate da incidenti stradali, da cadute durante il gioco o l’attività sportiva, ma ogni frattura può anche essere esito di maltrattamento; pertanto va considerata la possibilità di abuso. Gli elementi per la diagnosi differenziale sono: anamnesi della dinamica causale e valutazione della compatibilità con la frattura, età del bambino (autonomia motoria), tipo e sede della frattura, e numero delle fratture. Età. Questo è un fattore chiave per la diagnosi differenziale tra fratture accidentali e inflitte. Fratture in bambini che non camminano, senza una dinamica dell’incidente chiara e compatibile, devono far sorgere il sospetto di maltrattamento. Un ampio studio caso-controllo inglese mostra che l’85% delle fratture accidentali riguarda bambini di età > 5 anni, mentre l’80% di quelle da abuso si verifica in bambini < 18 mesi. Lo stesso quadro emerge da uno studio americano da cui si evince che, mentre l’incidenza delle fratture da abuso nei bambini di età compresa tra 0 e 3 anni è di 15,3/100.000, in quelli < 12 mesi è di 36,1/100.000, crollando a 5/100.000 nella fascia 12-35 mesi. Dunque le fratture da maltrattamento sono più comuni al di sotto dei 3 anni di età, soprattutto nel primo anno, quando si stima che siano presenti in un terzo dei bambini vittime di abuso, spesso non riconosciute. Tipo e sede. Sebbene nessuna frattura sia diagnostica, alcune di esse hanno un’alta specificità per abuso: coste, scapola, sterno, acromion e fratture metafisarie delle ossa lunghe. Lattanti che non camminano hanno una bassissima probabilità di avere fratture accidentali delle ossa lunghe. Complessivamente la probabilità che una frattura di femore in un bambino sia dovuta a maltrattamento è del 28% (IC 95%: 1544), ma nella maggior parte dei casi si riferisce a bambini piccoli, di età < 1 anno. La sede più comune è la diafisi, il tipo più sospetto è la spirale. Al femore le fratture diafisarie sono le più comuni, sia da cause accidentali che da abuso, le metafisarie invece sono meno frequenti, e sicuramente più spesso Quaderni acp 2014; 21(5) dovute a maltrattamento, per torsione, accelerazione-decelerazione e scuotimento (p<0,001). Per le fratture dell’omero la probabilità della natura abusiva nei bambini di età < 3 anni è del 48% (IC 95%: 6-94), e in questo caso l’età < 15 mesi ha un forte valore predittivo rispetto ai 15-36 mesi. Anche per l’omero il tipo di frattura è un elemento chiave per la diagnosi differenziale: quelle sopracondilari sono più frequentemente, anche se non esclusivamente, dovute a cause accidentali, mentre le più comuni da maltrattamento sono le spirali o oblique (nei bambini < 5 anni). Le fratture craniche sono comuni nei bambini piccoli: l’80% di quelle accidentali e l’88% di quelle da abuso riguardano bambini < 1 anno di età. Sebbene la probabilità della natura abusiva sia del 30% (IC 95%: 1946), ci sono poche caratteristiche che permettono di differenziarle. In entrambi i casi le più comuni sono le fratture lineari, di solito parietali. Il significato di fratture complesse, depresse o multiple è difficile da definire, perché i dati della letteratura sono incerti. Rispetto alla sede, le fratture a più alta specificità per abuso sono quelle costali, con una probabilità di abuso del 71% (IC 95: 42-91). Queste sono raramente accidentali, possono essere provocate da trauma da parto, da grossi traumi o essere la conseguenza di malattie metaboliche del tessuto osseo. Escluse queste cause, fratture costali multiple sono altamente specifiche per maltrattamento. La sede a più alta specificità è l’area mediale della regione posteriore, le fratture costali anteriori sono più frequentemente da abuso, le laterali più frequentemente da causa accidentale. Altre sedi fortemente sospette sono: fratture dell’estremità laterale della clavicola e dell’acromion della scapola, fratture dei processi spinosi vertebrali nel tratto cervico-toracico (causate da flessione-estensione associate a scuotimento). Un altro dato utile per la diagnosi differenziale che emerge chiaramente da molteplici studi è che la presenza di fratture multiple è fortemente associata ad abuso. Fratture ripetute vengono di solito interpretate come espressione di particolare vivacità del bambino o come sospetta fragilità ossea da patologie ossee malformative o metaboliche tipiche dell’età: prematurità, malattie metaboliche, malattie croniche con associato rachitismo, e in particolare osteogenesi imperfetta. Questa è una malattia congenita autosomica dominante, rara, con una prevalenza di 1:30.000 (molto inferiore a quella del maltrattamento), che si manifesta con fragilità ossea e, sintomi associati, sclere blu, lassità legamentosa, osteopenia, ossa wormiane, dentinogenesi imperfetta, bassa statura, sordità, storia familiare. Pertanto, in assenza di grandi traumi, la diagnosi differenziale di fratture multiple va fatta con queste condizioni. Va sottolineato che molte delle fratture causate da maltrattamento non provocano sintomi importanti, per cui possono non essere diagnosticate. Complessivamente si stima che un terzo dei bambini maltrattati presenti fratture, molte delle quali sono occulte, soprattutto in bambini che non camminano; pertanto i bambini di età inferiore ai 2 anni in cui si sospetti un maltrattamento fisico devono essere sottoposti a una completa indagine radiologica (sorveglianza scheletrica) per identificare, o escludere, la presenza di fratture occulte in atto o guarite. Questa indagine va condotta secondo standard definiti e consta di 19 immagini radiografiche. Dai 2 ai 5 anni la decisione di effettuare la sorveglianza dev’essere valutata di volta in volta sulla base dell’anamnesi e dei segni clinici, mentre ha poco valore nei bambini di età superiore a 5 anni. Shaken Baby Syndrome Il termine corrente per definire questo quadro clinico è trauma cranico da abuso. È la più frequente causa di morte per maltrattamento; i bambini più a rischio sono quelli di età < 1 anno. Il trauma cranico è causato dal violento scuotimento del bambino che determina la dislocazione del cervello rispetto alla dura madre, esitando in lesioni di entità variabile al parenchima cerebrale, con stiramento e lacerazione di assoni e di vasi, e conseguenti emorragie intracraniche. Anche gli occhi vengono fortemente sollecitati dallo scuotimento, le ripetute forze di accelerazione-decelerazione determinano emorragie retiniche di varia entità, riscontrabili all’incirca nell’85% dei casi. I segni classici della Shaken Baby Syndrome sono: ematoma subdurale ed emorragie retiniche, spesso associati a 203 F A D formazione a distanza tipiche fratture costali e metafisarie delle ossa lunghe, in assenza di una spiegazione plausibile della dinamica causale. I sintomi variano in funzione della gravità delle lesioni cerebrali: sonnolenza, rifiuto del cibo, irritabilità, pianto, vomito, convulsioni, apnea, alterazioni dello stato di coscienza, fino al coma e alla morte. Si stima che dei bambini vittime un terzo muore, un terzo presenta danni permanenti, un terzo vive con pochi o nessun esito (fisico). Le conseguenze a lungo termine possono essere varie: paralisi cerebrale, disabilità fisica, disturbi della vista/cecità, sordità, difetto cognitivo, disturbi del linguaggio, dell’apprendimento e del comportamento. La gravità del quadro clinico, inclusi gli esiti a distanza, sottolineano l’importanza del ruolo del pediatra, sia nel sospettare che, soprattutto, nel prevenire il fenomeno (è noto che più del 50% dei bambini che hanno subito un trauma cranico da abuso erano stati visitati dal pediatra nel mese precedente senza che l’abuso fosse sospettato), argomento che esula dagli obiettivi di questo articolo. Conclusioni Il maltrattamento è un fenomeno frequente, che tipicamente tende a essere mascherato e le sue conseguenze sono gravi. Recenti ricerche delle neuroscienze evidenziano dannose implicazioni a livello neurologico e alterazioni sullo sviluppo cerebrale; evidenze cliniche e ricerche svolte in tutto il mondo hanno dimostrato conseguenze a breve, medio e lungo termine. I bambini vittime di maltrattamento hanno un’alta probabilità di sviluppare una varietà di problemi mentali e comportamentali (ritardo mentale, ansia, depressione, disturbi relazionali, disturbi della condotta, aggressività) e il danno causato è tanto maggiore quanto più il fenomeno resta sommerso perché non riconosciuto, con la conseguenza che l’abuso viene ripetuto nel tempo e Quaderni acp 2014; 21(5) l’intervento di protezione del bambino è ritardato o eluso. Alla luce dei dati epidemiologici e delle conseguenze a lungo termine che il maltrattamento determina sulla salute dei bambini è necessaria una riflessione relativa al ruolo del pediatra. I pediatri sono osservatori privilegiati, con un’alta probabilità di incontrare bambini maltrattati nella pratica professionale; nonostante ciò l’attenzione del mondo pediatrico è carente. Non riconoscere e non segnalare un caso di sospetto abuso è una grande responsabilità. Sebbene nessuna lesione, isolatamente, permetta di fare diagnosi di abuso, non sospettare la causa abusiva di una lesione può far perdere al bambino l’unica possibilità di essere riconosciuto come vittima e protetto, con il rischio di ulteriori aggressioni, che potrebbero anche essere fatali, e di conseguenze gravi sullo sviluppo fisico e psicologico. Valutare se una lesione è spiegabile con un incidente o una condizione organica, o se invece dev’essere considerato un meccanismo non accidentale, è compito specifico del pediatra. Accertare il maltrattamento è di competenza della magistratura. Individuare i bambini vittime di maltrattamento è un dovere morale e di competenza professionale, prima che obbligo di legge. È il primo passo indispensabile per la messa in atto di interventi di protezione e di recupero del bambino e della famiglia. u Bibliografia di riferimento Barsness KA, Cha ES, Bensard DD, et al. The positive predictive value of rib fractures as an indicator of nonaccidental trauma in children. J Trauma 2003;54(6):1107-10. Belfer RA, Klein BL, Orr L. Use of the skeletal survey in the evaluation of child maltreatment. Am J Emerg Med 2001;19(1):122-4. Coles L, Kemp A. Cues and clues to preventing shaken baby syndrome. Community Pract 2003;76:459-63. Dunstan FD, Guildea ZE, Kontos K, et al. A scoring system for bruise patterns: a tool for identifying abuse. Arch Dis Child 2002;86(5):330-3. Gilbert R, Widom CS, Browne K, et al. Burden and consequences of child maltreatment in high- 204 F A D income countries. 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Quaderni acp 2014; 21(5): 205 Un genitore positivo Costantino Panza*, Antonella Brunelli**, Stefania Manetti*** *Pediatra di famiglia, Sant’Ilario d’Enza (RE); **Direttore del Distretto ASL, Cesena (FC) ***Pediatra di famiglia, Piano di Sorrento (NA) La filastrocca di Giampiero, Sofia e Donato racconta una cosa ben conosciuta dai bambini: gli adulti sono dei giganti! I piccoli ci guardano dal basso e imparano tutto da noi adulti. Imitano qualsiasi cosa noi ‘grandi’ facciamo: è il mestiere del bambino quello di imparare dai più grandi. Un bambino o bambina di pochi mesi hanno la possibilità di imparare a parlare, ad aver fiducia e a voler bene al proprio genitore perché le loro capacità, a questa tenerissima età, permettono questi apprendimenti. A 3 anni invece potranno iniziare a imparare le regole di casa che papà e mamma con pazienza ripeteranno chissà quante volte; a questa età riescono a dialogare e iniziano a capire quello che è possibile fare e le azioni che possono essere rischiose. Un bambino o bambina di 6 anni inizieranno ad assumersi qualche responsabilità o qualche impegno, come partecipare a uno sport che richiede disciplina, o regole da condividere con altri bambini. In questi momenti di crescita i bambini fanno esperienza e imparano dai grandi: genitori, educatori, insegnanti, allenatori. Cosa possiamo fare noi genitori per favorire la miglior crescita dei nostri bimbi e per sostenere il loro apprendimento? Quanto ai bambini di pochi mesi, sappiamo che il modo migliore per aiutare il loro sviluppo è accoglierli, spesso in braccio, parlare loro, accarezzarli, guardandoli negli occhi; in un mondo di giganti sconosciuti, questo nostro comportamento crescerà in loro la capacità di affidarsi con sicurezza al genitore. Rivolgendosi a lui o lei con le parole e leggendo libri adatti a partire dai 6 mesi, tenendolo o tenendola in braccio, oltre che costruire una buona relazione, stimoliamo le sue competenze di linguaggio. Quando inizierà a gattonare o a muovere i primi passi dovremo riconoscere quali sono i pericoli presenti nella nostra casa a misura di ‘giganti’ ma non di bimbo piccolo. Fino a 3 anni i bambini non sono in grado di capire i rischi o pericoli dell’ambiente domestico, nemmeno se noi spieghiamo tante e tante volte quello che non devono o non possono fare. Sta a noi adulti fare in modo che la casa sia un ambiente sicuro e privo di pericoli, perché a questa età è naturale e salutare volere esplorare e toccare tutto. Tocca a noi genitori attrezzarci di tanta pazienza, tenere sotto vigile controllo nostro figlio, nostra figlia, allontanandoli dai pericoli e spiegando sempre a lui o a lei perché lo facciamo. Un buon genitore riconosce le capacità e le possibilità che il proprio figlio ha raggiunto e quindi fornisce spiegazioni che il bambino può comprendere, offre incoraggiamenti per nuovi modi di fare, mostrando con il suo comportamento da ‘gigante’ quello che il bambino o la bambina potrebbero fare, facendo provare e riprovare infinite volte, senza mai perdere la pazienza. Papà e mamma possono riconoscere il momento in cui è giusto porre dei limiti, cioè fornire dei “no”, limitando quello che il bambino o la bambina possono fare con sicurezza e libertà e quello che invece non è consentito loro fare. Queste limitazioni non sono dei divieti motivati da un volere punitivo, ma sono una prova di amore e rispetto verso il proprio figlio o figlia. Il papà e la mamma, riconoscendo le capacità e le abilità raggiunte dal bambino, capiscono quello che può fare da solo o aiutato da un adulto, e quello che non è in grado di fare autonomamente. Le punizioni Qualche volta, raramente, per i bambini più grandi potrebbero essere necessarie delle punizioni. Per punizioni intendiamo una limitazione della libertà del bambino o della bambina, qualcosa che prima questi potevano fare e che adesso noi abbiamo loro vietato o ridotto, per esempio il tempo da trascorrere davanti alla TV o ai videogiochi. La punizione, che necessita sempre di essere discussa e spiegata nelle sue motivazioni, non dev’essere percepita come umiliante o degradante e, soprattutto, non riguarda mai l’affetto che noi genitori manifestiamo sempre a nostro figlio o nostra figlia. «Oggi al paese di nome Armonia è nato Giampiero, è nata Sofia ed è un giorno assai fortunato perché è nato, con loro, Donato. … Non sanno parlare, né camminare, ad occhi attenti sanno osservare nell’aria sporca, nel fumo nero sanno capire, con sguardo severo, chi si ritiene molto importante perché dal basso sembra un gigante… ». B. Tudino, Io Rispetto, Unicef Cosa non fare Talvolta un genitore, soprattutto se sotto stress, può agire in un modo impulsivo sgridando o urlando, oppure ricorrendo a una punizione fisica, per esempio in caso di un comportamento non voluto come una disobbedienza o quando il bimbo si mette in una situazione di pericolo, oppure se piange ininterrottamente. Per punizione fisica s’intende colpire il bambino con la mano o con un oggetto (un bastone, una cintura, una frusta, una scarpa ecc.), dare calci, scossoni, spintoni al bambino, oppure graffiarlo, pizzicarlo, morderlo, tirargli i capelli; obbligare il bambino a restare in posizioni scomode, provocargli bruciature o sfregiarlo. La punizione psicologica, la violenza verbale, oppure denigrare, isolare o ignorare il bambino vengono considerati punizioni umilianti o degradanti. Cosa si può fare Se siamo in un momento di forte stress o rabbia a causa di un problema economico, una difficoltà finanziaria, la perdita del posto di lavoro o una frustrazione lavorativa, un conflitto con il partner di cui non riusciamo a vedere una soluzione, oppure l’altro genitore utilizza punizioni corporali o se siamo convinti che l’utilizzo della punizione fisica sia corretto perché così è stata la nostra educazione, è importante parlare di questo con il pediatra. Insieme valuterete la situazione per comprendere quale comportamento tenere e come sia possibile modificare il proprio modo di agire per favorire la miglior crescita del bambino. Se un bambino viene punito duramente si sente non amato o non desiderato e noi genitori perdiamo il nostro obiettivo di crescere un bambino nel rispetto, nella non violenza, nella fiducia e nella sicurezza di sé. Parlare con il pediatra del nostro stile educativo è un momento importante del nostro essere genitori. u Per corrispondenza: Stefania Manetti e-mail: [email protected] 205 Quaderni acp 2014; 21(5): 206-209 Comunicazioni orali degli specializzandi al Convegno di Tabiano 2014 Trial clinico: trattamento con propranololo di 63 pazienti con emangioma infantile G. Stringari, G. Barbato, M. Zanzucchi, M. Marchesi, G. Cerasoli, A. Gritti, N. Carano AO Universitaria di Parma Introduzione Gli emangiomi infantili (IH) sono le neoplasie benigne più comuni dell’infanzia, caratterizzate da una fase proliferativa nel primo anno di vita e da una fase di involuzione spontanea (7-10 anni). L’incidenza varia dal 2,6% al 4,5% [1]. Fattori di rischio riconosciuti: sesso femminile, prematurità, età materna elevata, gemellarità. Nell’eziologia è riconosciuto un coinvolgimento della proliferazione delle cellule endoteliali. Generalmente gli IH compaiono nelle prime settimane di vita come lesioni superficiali, profonde o miste, più frequentemente localizzate a volto, collo, testa, tronco, estremità e perineo. La diagnosi è clinica e basata su anamnesi e caratteristiche della lesione. Nei casi dubbi sono utili l’osservazione clinica nel tempo o la valutazione ecografica. La terapia è indicata per prevenire o arrestare le complicanze, prevenire cicatrici o esiti perenni che possono incidere sull’aspetto estetico. Scopo dello studio Scopo dello studio è stato quello di verificare la sicurezza del propranololo nel trattamento degli IH e di istituire un percorso diagnostico-terapeutico adeguato al trattamento di questi pazienti. Materiali e metodi Tra dicembre 2009 e gennaio 2014 sono stati arruolati 63 bambini, 43 femmine e 20 maschi, con diagnosi di IH, per i quali è stata posta indicazione al trattamento farmacologico con propranololo. In 3 pazienti non è stato espresso il consenso all’inizio della terapia, 4 pazienti sono stati esclusi dal trial (3 per interruzione precoce del trattamento, 1 per scarsa compliance); 13 pazienti erano prematuri con un’età gestazionale compresa tra 31 e 37 settimane. L’età media di insorgenza degli IH era di 9,7 giorni. Per tutti è stato ottenuto il consenso informato al trattamento e all’acquisizione di fotografie; sono state inoltre fornite istruzioni ai genitori per la gestione della terapia a domicilio. L’indicazione al trattamento è stata posta sulla base delle Linee Guida dell’AAD [2]. Il protocollo terapeutico prevede un breve ricovero (tre giorni e due notti); tutti i pazienti sono stati sottoposti a valutazione clinica generale, elettrocardiogramma (ECG) ed eventuale ecocardiografia. La valutazione ecografica dell’emangioma è stata eseguita solo per lesioni profonde o miste con significativa componente profonda. I valori di frequenza cardiaca (FC) e di pressione arteriosa (PA) sono stati registrati prima della somministrazione di ciascuna dose di propranololo e due ore dopo la stessa. Lo schema posologico prevede la somministrazione di 1 mg/kg/die in 3 dosi per le prime 24 ore, quindi 2 mg/kg/die in 3 dosi in seconda giornata; a distanza di quattro-sette giorni, in caso di buona tolleranza alla terapia, il dosaggio viene incrementato a 3 mg/kg/die in 3 somministrazioni. Il follow-up è stato effettuato mensilmente con misurazione della FC, PA, acquisizione della documentazione fotografica ed eventuale adeguamento del dosaggio del farmaco al peso del paziente [3]. L’efficacia terapeutica è stata valutata utilizzando una scala analo- Per corrispondenza: Maria Francesca Siracusano e-mail: [email protected] 206 gico-visiva (VAS), già utilizzata in altri studi pubblicati in letteratura (0: assenza di qualsiasi segno di lesione visibile a livello cutaneo o mucosale, 10: peggiore condizione riscontrata) [4]. Risultati Dei 56 pazienti trattati, 51 hanno terminato la terapia. L’età media di inizio è stata di 6,7 mesi, quella di fine 15,3 mesi; la durata media della terapia è stata di 8,2 mesi; la mediana dei punteggi VAS è stata di 7,5; 5; 4; 3; 3, rispettivamente al 1°, 2°, 3°, 6° mese e fine terapia. Confrontando i punteggi VAS riscontrati è stato evidenziato un miglioramento statisticamente significativo (p < 0,001), soprattutto nei primi due mesi di terapia. Dei 51 pazienti che hanno terminato il trattamento, 2 non hanno risposto alla terapia, 7 hanno presentato un miglioramento inferiore al 50%, 42 hanno avuto una buona risposta alla terapia con riduzione maggiore del 50%; 8 pazienti hanno presentato recidiva e sono stati sottoposti a secondo ciclo di terapia con risultati sovrapponibili a quelli ottenuti dal primo ciclo terapeutico; 5 sono tuttora in terapia, 1 è un caso di recidiva, per 4 si tratta del primo ciclo terapeutico (età media di inizio della terapia 3,3 mesi), tutti stanno rispondendo alla terapia. Nessuno dei pazienti trattati ha presentato bradicardia, in 11 di loro sono stati riscontrati valori pressori inferiori alla norma per l’età (riscontro occasionale in pazienti asintomatici), 2 pazienti hanno presentato ipoglicemia (< 50 mg/dl) in corso di gastroenterite virale intercorrente (somministrati liquidi zuccherati per os e sospesa temporaneamente terapia) [5]. Quattro pazienti hanno presentato disturbi del sonno (non è stato necessario interrompere la terapia); 11 hanno interrotto temporaneamente la terapia a scopo precauzionale in corso di bronchiolite o di flogosi delle alte vie aeree con componente broncostruttiva; 1 paziente ha presentato alopecia transitoria. Discussione L’efficacia del trattamento con propranololo è stata attestata sul 96% dei pazienti trattati: tale risultato è in linea con quanto segnalato in letteratura [6]. I dati del nostro studio confermano l’indicazione a trattare gli IH in fase proliferativa nei primi mesi di vita (< 6 mesi). Risultati minori e incompleti si riscontrano in IH già in fase involutiva. Il trattamento è necessario per tutta la durata della fase proliferativa (entro i 18 mesi di età). Conclusioni I dati raccolti, in accordo con la letteratura, confermano l’efficacia del propranololo nel ridurre le dimensioni degli IH e confermano la sicurezza di tale trattamento (prima scelta nella terapia degli IH). Il meccanismo d’azione è legato a: vasocostrizione, effetto anti-angiogenico, ruolo pro-apoptotico sulle cellule endoteliali. La terapia con propranololo è sicura; se il dosaggio viene incrementato progressivamente non si riscontrano bradicardia o ipotensione sintomatica. L’ipoglicemia va prevenuta evitando il digiuno prolungato o sospendendo brevemente la terapia in caso di patologie intercorrenti che limitino l’alimentazione. In corso di flogosi delle alte vie aeree con componente ostruttiva è da considerare una temporanea sospensione della terapia. Bibliografia [1] Bruckner AL, Frieden IJ. 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Propranolol and infantile hemangiomas four years later: a sistematic review. Pediatr Dermatol 2013;30(2):182-91. doi: 10.1111/pde.12089. Occhio non vede… cuore non duole A. Giacometti*, A.M. Cangelosi*, F. Viaroli*, C. Madia*, V. Allegri**, B. Tchana**, N. Carano**, A. Agnetti** *Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Parma; **UO di Cardiologia Pediatrica, Clinica Pediatrica, AO Universitaria di Parma Un ragazzo di 20 anni giungeva alla nostra attenzione inviato dal Collega dell’ambulatorio cardiologico dell’adulto, ove si era recato su indicazione del medico del lavoro per riscontro di soffio cardiaco. A una prima ecocardiografia venivano descritti una camera ventricolare posta a sinistra senza evidenza della continuità del tratto di efflusso, una camera ventricolare posta a destra ricevente un vaso arterioso in posizione anomala e un modesto rigurgito della valvola atrio-ventricolare posta a sinistra. All’elettrocardiogramma (ECG) eseguito nella medesima occasione si segnalavano blocco AV di 1° grado, blocco di branca sinistro incompleto, presenza di onde Q in V1 e V2 e assenza di onde Q in V5 e V6. Veniva pertanto inviato all’attenzione dei cardiologi pediatri per approfondimenti in merito a sospetta cardiopatia congenita. Presso l’ambulatorio cardiologico pediatrico il ragazzo si presentava asintomatico, in buone condizioni generali. Non riferiva segni e sintomi suggestivi di patologia cardiovascolare. Riferiva una normale tolleranza allo sforzo fisico. Anamnesi patologica remota e anamnesi familiare riferite mute per patologie degne di nota. All’esame obiettivo si evidenziava soltanto un soffio sistolico 2/VI in parasternale sinistra medio-bassa. La restante obiettività clinica era nella norma. All’ECG: “Discordanza atrio-ventricolare e ventricolo-arteriosa. A destra presenza di valvola AV tipo mitrale a impianto alto, connessa con ventricolo morfologicamente sinistro, a sua volta connesso con arteria polmonare. A sinistra presenza di valvola AV tipo tricuspide, con insufficienza di grado moderato, connessa con ventricolo morfologicamente destro, connesso a sua volta con aorta, posta anteriormente e a sinistra rispetto all’arteria polmonare. Atrio sinistro ingrandito. Ventricolo morfologicamente dx (sistemico) ipertrofico e trabecolato”. Veniva quindi posta diagnosi di trasposizione congenitamente corretta dei grossi vasi (L-TGA), associata a insufficienza di grado moderato della valvola tricuspide posta a sinistra. È stato inoltre eseguito Rx torace che ha evidenziato un peduncolo vascolare sottile. A completamento diagnostico si consigliava ECG dinamico delle 24 ore. Il paziente veniva posto in terapia con vasodilatatori sistemici (ACE inibitori). Discussione La L-TGA rappresenta meno dell’1% di tutte le cardiopatie congenite. Accanto alla discordanza atrio-ventricolare e ventricolo-arteriosa nella maggior parte dei casi sono evidenziabili difetti associati: in ordine di frequenza ritroviamo ampi DIV (80%), stenosi polmonare valvolare e/o subvalvolare (50%), insufficienza tricuspidale, disturbi della conduzione AV fino al blocco AV completo e tachiaritmie sopraventricolari. I sintomi, i reperti obiettivi, l’evoluzione naturale e il trattamento dipendono quindi dalla severità e dalla natura dei difetti associati. I pazienti con L-TGA isolata possono essere asintomatici fino all’età adulta. Tra i soggetti con difetti associati, circa il 30% sviluppa una progressiva insufficienza tricuspidale e dal 10% al 55% va incontro a blocco AV completo. La terapia medica ha lo scopo di prevenire e trattare l’eventuale scompenso cardiaco e le tachiaritmie sopraventricolari. Inoltre viene consigliata la profilassi dell’endocardite batterica. La terapia chirurgica si rende necessaria quando si sviluppa scompenso cardiaco intrattabile per progressiva disfunzione del ventricolo sinistro (morfologicamente destro). Esistono due possibilità correttive: il double switch, che consiste nell’invertire i ritorni venosi e la posizione dei grossi vasi arteriosi (procedura ad alto rischio) e il trapianto cardiaco (considerato nella maggioranza dei casi di prima scelta). Nei casi di blocco AV completo è indicato l’impianto di pacemaker. Il followup prevede controlli clinici e strumentali ogni sei-otto mesi. Il caso clinico preso in esame pone l’attenzione su come questa cardiopatia congenita così complessa sia rimasta silente per anni e sia stata diagnosticata occasionalmente solo in età adulta. Un bernoccolo all’improvviso S. Lega*, M. Rabusin** *Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Trieste; **SC di Oncoematologia Pediatrica, IRCCS “Burlo Garofolo”, Trieste Una bambina di 5 anni viene inviata a visita presso il Servizio di Oncoematologia Pediatrica per la comparsa improvvisa di una tumefazione non dolente e a rapida crescita in regione pretibiale sinistra. Non c’è storia di trauma maggiore. La bambina è per il resto in buone condizioni generali e non vengono riferiti sintomi di accompagnamento. All’esame obiettivo è evidente una tumefazione di circa 3 cm di diametro in regione pretibiale, di consistenza dura, non dolorabile alla palpazione. La cute sovrastante è normale. Emocromo e indici di flogosi sono normali. L’ecografia vede una lesione ovalare ipoecogena ma non è dirimente nel definire la natura della massa; viene pertanto eseguita una risonanza magnetica nucleare (RMN) della gamba che descrive una massa sottocutanea, ben delimitata rispetto ai piani circostanti e, a sorpresa, un’area midollare iperintensa riferibile a edema midollare in corrispondenza della lesione. La massa viene asportata chirurgicamente e l’esame istopatologico pone diagnosi di Granuloma Annulare Sottocutaneo (GAS). Il GAS è una lesione infiammatoria benigna e autolimitantesi, con analogie di decorso e istologia con il granuloma annulare superficiale. La localizzazione pretibiale è tipica, così come è tipica l’insorgenza in età prescolare. L’evoluzione è sempre verso la risoluzione spontanea, anche se in tempi lunghi, e la ricorrenza è possibile, anche in sedi diverse da quella primitiva. La comparsa improvvisa della tumefazione e la rapida crescita possono porre, come nel nostro caso, il problema della diagnosi differenziale con i tumori maligni possibili a questa età (rabdomiosarcoma, neuroblastoma) ma l’assenza di segni di malattia sistemica e il riconoscimento delle tipicità del GAS (età e sede) orientano fortemente nella diagnosi. L’origine del GAS non è nota; tra le possibili ipotesi trova spazio quella del trauma, lieve e protratto, che funzionerebbe da innesco per la risposta infiammatoria locale. Nel nostro caso, a posteriori, i genitori ci hanno raccontato che la bimba aveva da poco ricevuto un triciclo e che spingendosi in avanti e puntando i piedi a terra sbatteva continuamente le gambe contro i pedali. Questo dato, anche se non può avere con certezza un nesso con la comparsa del GAS (e d’altra parte non poteva nemmeno far escludere la malignità), ha potuto spiegare il reperto midollare alla RMN. Bibliografia di riferimento Cancado CG, Vale FR, Bacchi CE. Subcutaneous (deep) granuloma annulare in children: a possible mimicker of epithelioid sarcoma. Fetal Pediatr Pathol 2007;26(1):33-9. Grogg KL, Nascimento AG. Subcutaneous granuloma annulare in childhood: clinicopathologic features in 34 cases. Pediatrics 2001;107(3):E42. 207 research letters Quaderni acp 2014; 21(5) Una varicella con finale a sorpresa S. Mazzoni*, V. Mandese*, C. Cattelani*, P. Paolucci*°, L. Iughetti*° *Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia; °UO di Pediatria, Azienda Ospedaliera Universitaria, Policlinico, Modena XY, 3 anni e mezzo, presentava da due giorni febbre fino a 39 °C, associata a esantema varicelliforme, trattato con paracetamolo e antistaminico, e da un giorno tumefazione occipitale dx, iperemica e dolente, in corrispondenza di una lesione da grattamento. Portato in Pronto Soccorso (PS), il bambino aveva parametri vitali nella norma, discrete condizioni generali, febbre. All’esame obiettivo si evidenziavano croste e vescicole diffuse, tumefazione iperemica e dolente in sede occipitale dx, associata a edema bilaterale del collo con intensa iperemia cutanea sovrastante, dolente alla palpazione lieve, deviazione del capo verso sx con linfadenopatia laterocervicale e retronucale. Gli esami ematici dimostravano neutrofilia relativa, rialzo degli indici di flogosi (PCR 5,71 mg/dl), assetto coagulativo lievemente alterato. Al bambino, ricoverato, veniva somministrata terapia antibiotica (ceftriaxone) e antinfiammatoria (ketorolac) ev, ma in seconda giornata si verificava un importante peggioramento del quadro locale e generale con iperpiressia e indici di flogosi in marcato aumento (PCR 19,11 mg/dl). Nel sospetto di fascite necrotizzante, in accordo con i colleghi ORL e l’infettivologo, si modificava la terapia ev con clindamicina, ampicillina + sulbactam e aciclovir e si eseguiva tomografia computerizzata (TC) al collo con m.d.c., che evidenziava ispessimento e scollamento delle fasce cervicali superficiale e prevertebrale dal lato di dx nelle logge posteriori del collo, confermando il sospetto clinico. Si procedeva quindi a intervento chirurgico immediato di cervicotomia bilaterale e a debridment chirurgico. L’analisi istologica mostrava linfonodi reattivi compatibili con infezione da varicella, mentre quella microbiologica era negativa. La terapia antibiotica combinata veniva protratta fino a cinque giorni dopo negativizzazione degli indici di flogosi, per un totale di diciassette giorni. I controlli ORL seriati riscontravano regolare evoluzione della ferita chirurgica. Si dimetteva XY dopo diciotto giorni di degenza in buone condizioni generali. La fascite necrotizzante è una patologia grave e, se non trattata, rapidamente fatale, caratterizzata da necrosi dei tessuti molli, delle fasce e della cute sovrastante, che può portare a insufficienza multiorgano con shock settico (0,4-0,5 casi su 100.000, mortalità del 20-34%). Generalmente si verifica in seguito a inoculo di un batterio attraverso soluzioni di continuo della cute, determinando infezione profonda, edema, occlusione vascolare e necrosi. Si distinguono due forme: TIPO 1, secondaria a infezioni polimicrobiche da aerobi e anaerobi, e TIPO 2, secondaria a un’infezione da SBEGA (10% dei casi). La sua incidenza in pazienti affetti da varicella è rara. Clinicamente è caratterizzata da: febbre alta persistente, edema, eritema, dolore sproporzionato a livello locale, pseudoparalisi e, nelle forme più gravi, letargia, aspetto settico, ipotensione e tachicardia. La diagnosi è soprattutto clinica ed è generalmente tardiva, in quanto inizialmente i sintomi cutanei sono sfumati. Gli esami di laboratorio evidenziano leucocitosi, acidosi metabolica, iperglicemia e incremento della creatinina, nelle forme avanzate. L’imaging può essere di supporto e deve essere eseguito a conferma diagnostica, senza però comportare un ritardo nell’iter terapeutico. È importante iniziare tempestivamente una terapia antibiotica empirica a largo spettro, associata a debridment chirurgico per impedire la necrosi muscolare. La terapia deve essere proseguita fino alla scomparsa dei segni di infiammazione (generalmente quattordici giorni). Nelle forme di tipo 2, soprattutto nei pazienti più piccoli, può essere utile 208 la somministrazione di immunoglobuline ev. È stata riscontrata un’associazione tra fascite necrotizzante e assunzione di FANS in corso di varicella, forse legata al meccanismo di riduzione della chemiotassi dei granulociti o al ritardo di diagnosi per attenuazione dei sintomi da parte del farmaco. La fascite dev’essere sempre sospettata in pazienti con varicella che presentano dolore sproporzionato alla lesione cutanea, febbre persistente e scadimento delle condizioni generali. Quando la ferritina è troppa F. Savina*, T. Fedeli**, G.M. Ferrari***, C. Barboni***, F. Dell’Acqua***, M. Aricò°, P. Confalonieri°°, R.M. Gaini°°°, A. Sala▲, C. Rizzari▲ *Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Parma; **UO di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale FMBBM, Monza; ***Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Monza; °Istituto Toscano Tumori, Firenze; °°UO di Chirurgia Maxillo-Facciale, AO “San Gerardo”, Monza; °°°UO di Otorinolaringoiatria, AO “San Gerardo”, Monza; ▲ UO di Ematologia Pediatrica, Fondazione MBBM, Ospedale “San Gerardo”, Monza Case report Riportiamo il caso di N.E. che all’età di 23 giorni veniva ricoverata presso un altro Centro per febbre persistente, difficoltà alla suzione, calo ponderale e distensione addominale. Nonostante la terapia antibiotica in atto si assisteva a un progressivo peggioramento delle condizioni cliniche e, a 42 giorni, la bambina presentava incremento della distensione addominale, iperpiressia ed epatopatia. Indagini microbiologiche e sierologiche sempre negative. La positività per Klebsiella pneumoniae all’urinocoltura induceva a modificare il trattamento in 45ª giornata con metronidazolo + meropenem. In 50ª giornata compariva pancitopenia rapidamente progressiva (Hb 8,9 g/dl, GB 6110/mm3, con N=917/mm3, PLT 10.000/mm3). Contestualmente si assisteva a un ulteriore rapido peggioramento delle condizioni cliniche, associato a peggioramento degli indici di funzionalità epatica, ipoalbuminemia (2,2 g/dl), ipertrigliceridemia (300 mg/dl) e a una gravissima alterazione dell’assetto coagulativo (APTT 95, PT 131 sec, fibrinogeno 0 mg/dl). Nel sospetto di malattia emolinfoproliferativa, la lattante all’età di 51 giorni veniva trasferita presso l’Ospedale di Monza dove, vista l’età, veniva contestualmente presa in carico dai medici della TIN e dell’Ematologia Pediatrica. All’ingresso la piccola appariva cachettica, in condizioni generali critiche. Presentava epatosplenomegalia all’OT e ascite. Necessitava di supporto ventilatorio e nutrizionale. Nel sospetto di sindrome da attivazione macrofagica veniva effettuato dosaggio della ferritina, risultata 81.602 ng/ml. L’aspirato midollare mostrava assenza di megacariociti ma non ulteriori rilievi patologici. Veniva subito intrapresa terapia con desametasone (10 mg/m2/die) ed etoposide (150 mg/m2/sett). Veniva effettuata indagine genetica, i cui risultati successivamente avrebbero permesso di confermare definitivamente la diagnosi di linfoistiocitosi emofagocitica familiare (HLH), sottotipo 5, da deficit di STXBP2. Il trattamento risultava efficace, con progressiva riduzione dell’organomegalia, della pancitopenia e della febbre, sospensione del supporto trasfusionale e riduzione della ferritina. Il quadro si complicava però a 61 giorni per comparsa di lesione necrotica destruente facciale da Aspergillus flavus, associata ad addensamento polmonare, che venivano trattati con amfotericina B liposomiale ev ad alte dosi e due interventi di courettage chirurgico al volto. A 82 giorni si assisteva a ripresa di febbre e ricomparsa di pancitopenia in corso di terapia; veniva pertanto intrapreso trattamento con desa- research letters Quaderni acp 2014; 21(5) metasone (20 mg/m2/die) e siero antilinfocitario di coniglio (rATG,5 mg/kg/die) per cinque giorni, con nuovo miglioramento delle condizioni cliniche. Dopo due settimane dal termine del trattamento si assisteva a nuova ricomparsa di febbre, opistotono marcato e incremento del fabbisogno trasfusionale. Persistevano la polmonite e la lesione necrotica facciale da Aspergillus flavus, con schisi palatale e impossibilità all’alimentazione. Nonostante tutti i provvedimenti attuati si assisteva all’exitus della paziente per progressione della malattia all’età di 4 mesi e mezzo. L’ultimo valore di ferritina disponibile era 620.486 ng/ml. Commento La HLH è una sindrome caratterizzata da disregolazione della risposta immunitaria, con iperattivazione costituzionale di linfociti T e macrofagi. Questa patologia presenta un’incidenza di 1:50.000 nati. Si distingono forme primarie, su base familiare, e forme secondarie conseguenti a immunodeficienza, eventi infettivi o neoplasie. Clinicamente possono comparire febbre, pancitopenia, citolisi epatica, ipertrigliceridemia, coagulopatia, associate ad alterazioni neurologiche. La diagnosi si basa su criteri clinici e laboratoristici, spesso con alterazioni dei meccanismi immunologici che regolano la risposta alle infezioni. Il trattamento iniziale consiste essenzialmente nella somministrazione di alte dosi di desametasone e di farmaci immunosoppressivi, da intraprendersi assai precocemente, anche quando non sono completamente disponibili dati di conferma diagnostica. L’HLH è infatti spesso da considerarsi una vera e propria emergenza ematologica, vista l’alta mortalità iniziale dovuta alla rapida progressione della malattia. Nel 60% dei casi si riscontrano figure di emofagocitosi all’aspirato midollare o in altre sedi (SNC, milza, fegato, linfonodi). La conferma per le forme familiari è data da una approfondita analisi genetica eseguibile in centri specializzati, mentre le forme secondarie che rispondono al trattamento immunosoppressivo, e non presentano alcuna riattivazione a distanza, possono guarire definitivamente nella maggior parte dei casi. Le forme secondarie che non rispondono al trattamento iniziale (o che si riattivano a distanza di tempo) e le forme familiari devono essere sottoposte, dopo la fase iniziale di immunosoppressione, a un trapianto di cellule staminali ematopoietiche con guarigione quantificabile in circa il 50-60% dei casi. Una bambina di 8 mesi con febbre di lunga durata e vomito Elisa Panontin, Massimo Maschio Clinica Pediatrica, IRCCS “Burlo-Garofolo”, Trieste Kristina, lattante di 8 mesi, è giunta alla nostra attenzione per una febbre di lunga durata. La sua storia era iniziata una settimana prima con la comparsa di febbre elevata, associata a qualche scarica diarroica. A distanza di quattro giorni dall’esordio della febbre è stata diagnosticata un’infezione delle vie urinarie (con isolamento all’urinocoltura di Escherichia coli con carica > 106) trattata con ceftibutene senza però ottenere lo sfebbramento (ma nemmeno la negativizzazione dell’esame urine) a distanza di 72 ore. È stata dunque avviata una terapia antibiotica endovenosa con tobramicina, antibiotico al quale il germe isolato risultava sensibile, con negativizzazione dell’urinocoltura ma persistenza della febbre. Per escludere la presenza di una complicanza (ascesso renale/nefrite lobare) è stata eseguita una risonanza magnetica nucleare (RMN) dell’addome che è risultata completamente negativa. Nel frattempo la bambina si manteneva in ottime condizioni generali ed era completamente asintomatica. Gli esami ematici mostravano una leucocitosi mista e una marcata elevazione della VES (120 mm/h) con PCR mossa. A questo punto ci si trovava di fronte a una lattante con febbre di lunga durata senza segno di localizzazione, per cui anda- va dimenticata l’infezione delle vie urinarie e di conseguenza veniva avviato l’iter diagnostico della febbre “Senza Altra Indicazione” (SAI). Nel frattempo però le condizioni generali della bambina peggioravano: diventava progressivamente sempre più irritabile e cominciava a vomitare. Non aveva altri segni di ipertensione endocranica e nemmeno una fontanella bombée, ma il quadro clinico era molto suggestivo di un’infezione endocranica (ascesso cerebrale?). Prima di eseguire la RMN dell’encefalo però è stata richiesta una “banale” radiografia del torace che di per sé è risultata essere diagnostica: Kristina ha una tubercolosi miliare, ed essendo entrata nel secondo settenario di malattia potrebbe avere anche una localizzazione cerebrale che spiegherebbe anche il vomito e lo scadimento delle condizioni generali. La RMN dell’encefalo lo confermava: leptomeningite alla base e tubercoli non caseificati sparsi alla giunzione tra sostanza bianca e sostanza grigia. Mentre venivano eseguiti Mantoux e Quantiferon veniva avviata anche la terapia antitubercolare con quattro farmaci (isoniazide, rifampicina, pirazinamide ed etambutolo) e da subito anche la terapia steroidea, come da linee guida nella tubercolosi miliare con interessamento cerebrale. Nel frattempo Mantoux e Quantiferon sono risultati entrambi positivi, ripetutamente negativa invece la ricerca diretta del bacillo di Koch (BK) su aspirato ipofaringeo e gastrico. La bambina ha origini serbe (entrambi i genitori) e dall’anamnesi è poi emerso che vive con il nonno paterno che soffre di una tosse cronica da sei mesi, con una radiografia che risulterà in un secondo momento positiva per la presenza di caverne multiple, e con un escreato positivo per BK. A distanza di due giorni dall’avvio della terapia la bambina non ha presentato più episodi di vomito e dopo dieci giorni si è completamente sfebbrata. La tubercolosi non è più una malattia rara né “d’altri tempi” alle nostre latitudini: con l’aumento in particolare dei flussi migratori dai Paesi in via di sviluppo e dei livelli di povertà, è una malattia che va pensata ed esclusa di fronte a una febbre non spiegata. Nella maggior parte dei casi i bambini vengono infettati da un contatto familiare. La forma miliare è più frequente nei bambini di età inferiore ai 5 anni e il coinvolgimento del sistema nervoso centrale si ha nel 20-40% dei casi. Tale localizzazione si complica spesso con idrocefalo e paralisi dei nervi cranici (dovuta all’organizzazione dell’essudato che tipicamente si localizza alla base cranica), arterite cerebrale ed epilessia. La forma disseminata dà un’anergia nella maggior parte di casi quindi una Mantoux o un Quantiferon negativi non devono indurre l’abbandono del sospetto diagnostico. La terapia delle forme disseminate con coinvolgimento cerebrale prevede quattro farmaci antitubercolari e la durata, maggiore rispetto alle altre forme, è di almeno nove-dodici mesi. Lo steroide riduce mortalità e sequele neurologiche a lungo termine; lo schema più usato prevede l’utilizzo del prednisone a 2 mg/kg diviso in due dosi giornaliere, a dose piena per quattro-sei settimane, seguito da un lento scalo. Questo caso è istruttivo perché ci ricorda di fare sempre le cose semplici all’inizio, come la radiografia del torace in una febbre SAI che dura a lungo, anche con obiettività toracica negativa. È istruttivo anche perché una febbre lunga con un vomito di sospetta origine centrale in un bambino proveniente da una zona a rischio deve obbligatoriamente far pensare a una TBC disseminata con coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Bibliografia di riferimento Behrman RE, Kliegman RM, Stanton BF, et al. Nelson Textbook of Pediatrics, 19 Ed. Saunders, 2011. Cruz AT, Starke JR. Clinical manifestations of tuberculosis in children. Paediatr Respir Rev 2007;8(2):107-17. NICE clinical guideline: Clinical diagnosis and management of tuberculosis, and measures for its prevention and control. March 2011. 209 mentale Quaderni acp 2014; 21(5): 210-213 Rubrica a cura di Angelo Spataro Problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza: criticità nella pratica e nella modalità di intervento Roberto Sangermani UOC di Pediatria, AO “San Carlo Borromeo”, Milano Abstract Mental health problems in childhood and adolescence: critical issues in practice and in intervention methods Every day paediatricians encounter in patients signs of discomforts due to mental health problems. Services appointed to the safeguard of health are at the moment inadequate to address these problems. Paediatric visits during critical moments in childhood and adolescence are important in order to recognize problems, treat them during the acute phase and facilitate transition to follow up care. The evidence of these current deficiencies in prevention and treatment of health problems should be seen as an occasion to rethink and organize culturally and structurally the emergency care system making it able to deal with these type of needs. Quaderni acp 2014; 21(5): 210-213 Ogni giorno i pediatri incontrano sempre più frequentemente nella storia dei loro pazienti segnali di malessere legati a problemi di salute mentale. Attualmente i servizi deputati alla salvaguardia della salute dell’infanzia e dell’adolescenza sono inadeguati ad affrontare questi problemi. La visita pediatrica nei momenti di maggiore vulnerabilità del bambino/adolescente è importante per riconoscere i problemi, trattarli in acuto e favorire la transizione alle cure successive. L’evidenza delle attuali carenze nella prevenzione e nella cura dei problemi di salute mentale dovrebbe essere occasione per riorganizzare il sistema di emergenza e per adeguarlo culturalmente e strutturalmente ad affrontare questo tipo di problemi. Disagio mentale Ogni giorno i pediatri incontrano sempre più frequentemente nella storia dei loro pazienti i segnali del disagio del vivere causati da problemi di salute mentale. A volte clamorosi, più spesso mascherati con sintomi di malessere fisico, essi sono un problema globalmente diffuso, in deciso aumento e che non viene affrontato adeguatamente dai sistemi sociali e sanitari. La Word Health Organization (WHO) prevede che nel 2020 i problemi di salute mentale saranno ai primi posti tra le prime cinque cause di morbilità, mortalità e disabilità [1-3]. Anche in Italia è esperienza comune di operatori sanitari ed educatori, particolarmente negli ultimi anni, percepire l’aumento di frequenza dei problemi di salute mentale nei bambini e negli adolescenti. A fronte di questi dati che interessano tutto il mondo e che potremmo definire inquietanti non corrisponde un’adeguata capacità di presa in carico da parte delle agenzie e dei servizi deputati alla salvaguardia della salute dell’infanzia e dell’adolescenza. Negli USA risulta che solo il 36% del totale e il 40-50% dei casi Per corrispondenza: Roberto Sangermani e-mail: [email protected] 210 gravi di bambini e adolescenti con problemi di salute mentale vengono presi in cura [4]. In un numero sempre maggiore i problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza si presentano come crisi psichiatrica acuta, spesso cogliendo i dipartimenti di emergenza e i pediatri non preparati a un adeguato ed efficace intervento [5]. La crisi psichiatrica acuta È una condizione di malessere che comporta un reale rischio per sé e per gli altri e che, a seconda della gravità con cui si presenta, necessita di una presa in carico con modalità e tempi definiti, interventi in emergenza o prese in carico in urgenza (tabella 1) [6]. La situazione di emergenza è una rottura dell’equilibrio personale e sociale, con pericolo per l’integrità fisica e psichica correlato alle capacità della famiglia e dell’ambiente (società, servizi sanitari) di gestire l’emergenza causata dal disagio e dalla sofferenza. Sono considerate condizioni di emergenza quelle in cui il peggioramento della sintomatologia non è gestibile al di fuori di un ambiente contenitivo e in cui il paziente mette a rischio se stesso e gli altri o mostra comportamenti distruttivi: più del 70% delle crisi psichiatriche si presenta come una di tali condizioni [5]. Le situazioni di urgenza sono un effettivo rischio per l’incolumità del paziente tali da rendere necessario un trattamento sanitario immediato in una struttura con adeguate competenze neuropsichiatriche. I problemi di salute mentale e la situazione attuale nei Dipartimenti di Emergenza pediatrica (DEp) L’incremento dei problemi di salute mentale ha ovviamente investito le competenze del pediatra. Negli ultimi anni, in tutti i Paesi del mondo, il ricorso al DEp per problemi di salute mentale è aumentato da 2 a 7 volte [7]. Uno studio multicentrico realizzato in ospedali pediatrici USA ha stimato che bambini e adolescenti che si presentano per sintomi psichiatrici ai DEp rappresentano dallo 0,9 al 9,3% di tutti gli accessi [8]. Il dato di aumento di accessi ai DEp legati a problemi di salute mentale è probabilmente sottostimato se si tiene conto che, in frequenti occasioni, si presentano bambini o adolescenti con più o meno vaghi sintomi di sofferenza somatica che in realtà sono (anche se spesso non riconosciute) manifestazioni psicosomatiche legate a depressione, stress post-traumatico, ideazione suicida, maltrattamento fisico e maltrattamento psicologico. In Italia la maggior parte dei ricoveri psichiatrici in adolescenza avviene per disturbi della condotta, abuso di sostanze e alcol, gravi disturbi d’ansia e disturbi del comportamento alimentare [9]. TABELLA 1: CLASSIFICAZIONE DI ROSEN (1984) E RIADATTATA DA GAIL (2006) EMERGENZA Tentato suicidio Agiti autolesivi Stato confusionale acuto Condizione di violenza acuta Agitazione psicomotoria acuta Grave abuso fisico Trascuratezza estrema Disturbi alimentari con grave scadimento fisico URGENZA Angoscia intensa – Panico Vittime di gravi traumi fisici o psichici salute mentale I dati 2012 del Gruppo di Approfondimento Tecnico sull’Acuzie Psichiatrica in Lombardia ribadiscono sia il più che significativo aumento dei problemi legati alle crisi psichiatriche acute in età evolutiva, sia la sostanziale “inadeguatezza” del sistema sanitario a fornire adeguate risposte [5]. In Lombardia, dal 2001 al 2008, i ricoveri ordinari per diagnosi psichiatrica sono aumentati del 64% e nel 70% dei casi si sono verificati in un contesto non appropriato. A Milano nello stesso periodo i ricoveri sono aumenti di ben 3 volte e nel 30% dei casi sono avvenuti in condizioni di urgenza; solo nel 20% dei casi i pazienti in età evolutiva sono stati ricoverati direttamente in reparti di Neuropsichiatria infantile (NPI) (tabella 2) [5]. Questi dati sottolineano l’inadeguatezza delle risorse disponibili per affrontare in modo appropriato i problemi neuropsichiatrici in età evolutiva, in particolare quando si presentano in condizioni di criticità. La carenza di risorse per ricoveri in strutture NPI (tabella 3) dimostra una condizione di particolare insufficienza: in Italia solo un terzo dei ricoveri avviene in strutture di cura adeguate [5,9]. In Lombardia solo il 2,5% della popolazione fino ai 15 anni di età e solo l’1,7% degli adolescenti fino a 17 anni richiedono e ottengono accesso ai servizi di NPI. Il dato di insufficienza nell’intervento è ancora più “inquietante” se si considera che tra gli adolescenti tra 15 e 17 anni è atteso un aumento dei problemi di salute mentale [5]. L’arrivo al DEp di un bambino/adolescente in crisi psichiatrica acuta è spesso il primo contatto possibile con i servizi che si occupano di salute mentale ed è spesso anche la prima occasione di chiara evidenza del disturbo neuropsichiatrico. Un intervento adeguato in queste situazioni ha un ruolo chiave nelle prospettive di cura dei problemi di salute mentale [10]. Il momento della crisi con l’incontro spesso drammatico tra il bambino, la sua famiglia, il suo contesto di vita e l’ospedale è una irrinunciabile occasione (a volte l’unica, a volte l’ultima) per attivare un progetto di cure e per modificare anche radicalmente una storia clinica altrimenti con prognosi più severa [5]. Tra i numerosissimi accessi nel Pronto Soccorso pediatrico, ci sono anche i Quaderni acp 2014; 21(5) TABELLA 2: ANDAMENTO DEI RICOVERI PER DIAGNOSI PSICHIATRICA A MILANO E IN LOMBARDIA (2001-2008) TABELLA 3: DISPONIBILITÀ DI POSTI LETTO PSICHIATRICI 0-18 ANNI TABELLA 4: BARRIERE PRESENTI NEI SERVIZI DI EMERGENZA Barriere all’assistenza dei problemi di salute mentale nel Dipartimento di Emergenza: 1) Mancanza di informazioni riguardo alle malattie psichiatriche pediatriche. 2) Limiti del setting DEA (della valutazione in urgenza) che influiscono sui tempi e la completezza della valutazione. 3) Necessità di educare con training staff DEA nell’identificazione e trattamento dei disturbi psichiatrici. 4) Mancanza o insufficienza di possibilità di accesso e ad efficace trattamento in ricovero/outpatient ai servizi di salute mentale * Pediatric and Adolescent Mental Health in the Emergency Services System. Pediatrics 2011 bambini/adolescenti con segnali di sofferenza neuropsichiatrica non acuta. La capacità di riconoscere queste condizioni rappresenta un possibile punto di partenza per un efficace intervento al fine di evitare il rischio di cronicizzazione o di possibile successiva crisi acuta. Crisi psichiatrica acuta: proposte per adeguare i DEp L’evidenza delle attuali carenze nella prevenzione e nella cura dei problemi di salute mentale dovrebbe essere occasione per riorganizzare il sistema di emergenza e per adeguarlo culturalmente e strutturalmente ad affrontare questo tipo di problemi. Nella tabella 4 sono indicate le “barriere” presenti nel sistema dei servizi medici di emergenza che secondo il Committee on Pediatric Emergency Medicine ostacolano un adeguato intervento [11]. 1) Mancanza di informazioni riguardo alle malattie psichiatriche pediatriche o verso i problemi di salute mentale Numerosi studi di epidemiologia hanno rilevato l’elevata incidenza di problemi di salute mentale nei pazienti visitati nei DEp generali e nei DEp per problemi non psichiatrici. 211 salute mentale I risultati di screening effettuati in DEp in pazienti con sintomi non psichiatrici indicano che in generale i problemi di salute mentale emersi con lo screening non vengono riconosciuti dai medici curanti e dai medici del DEp: il 23% dei bambini/adolescenti giunti al DEp con sintomi non psichiatrici ha in realtà due o più problemi di salute mentale e il 45% un problema con limitazione del funzionamento psicosociale. Un livello significativo di stress psichiatrico al momento della visita è presente nel 10% di essi [11]. Ansia, depressione, sintomi da stress post-traumatico, tentati suicidi o atti contro il sé corporeo, suicidi sono le condizioni più rilevanti che spesso non vengono riconosciute. Ansia è presente nel 33% dei pazienti e i sintomi maggiormente correlati risultano asma, cefalea, assenze scolastiche e frequenti visite mediche; il 20% presenta una depressione moderata o severa, il 32% alcuni gradi di ideazione suicidaria. Gli adolescenti depressi nel 42% dei casi non avvertono né riconoscono i propri sintomi depressivi e, anche quando se ne rendono conto, nel 50% dei casi non lo comunicano ai genitori [11]. La condizione di stress post-traumatico legata a vissuti drammatici acuti riguardanti la salute con timore per la salute fisica o di morte (traumi gravi, ricoveri in rianimazione ecc.) è ampiamente sottovalutata nella pratica corrente in DEp, pur essendo spesso causa di sintomi psichiatrici persistenti. I tentativi di suicidio, le autoaggressioni al sé corporeo e il suicidio sono gli eventi più drammatici che coinvolgono l’adolescente, la famiglia, la società. Negli USA il suicidio è la quarta causa di morte nella popolazione tra i 10 e i 14 anni e la terza causa di morte tra i 13 e 19 anni. Il 50% degli adolescenti tra 13 e 19 anni ha occasionalmente pensieri di suicidio [11]. Nonostante la grande preoccupazione mediatica e sociale, il rischio del comportamento suicida nel maggior numero dei casi non viene riconosciuto né dalla famiglia, né dagli educatori, né nelle occasioni di valutazione della salute da parte dei medici. Come noto, il tentato suicidio insieme agli atti contro il sé corporeo presuppone l’elevato rischio di agire altri tentativi di 212 Quaderni acp 2014; 21(5) suicidio e il suicidio. Quindi riconoscere l’ideazione suicidaria o il tentato suicidio ha un cruciale valore nella prevenzione della morte per suicidio. In realtà risultano insufficienti le “risposte” dei servizi della salute a questo drammatico problema. Il medico curante non riconosce/individua il tentato suicidio in oltre l’80% dei casi. Meno del 50% degli adolescenti che sono stati visitati o ricoverati al DEp per riconosciuto tentato suicidio è stato avviato a un’adeguata presa in carico. E anche quando viene intrapreso un percorso di cura e prevenzione l’aderenza da parte dell’adolescente è bassa, tanto che solo un quinto riesce a ricevere l’intervento necessario [11]. 2) Limiti del setting nel Dipartimento di Emergenza e Accettazione (DEA) L’ambiente del DEp, così come è organizzato nella maggior parte delle situazioni, non rappresenta l’ambiente ideale per accogliere i pazienti con crisi psichiatrica acuta o con altri sintomi di disagio psichico. Il setting è di per sé stressante e non dispone di un’area quieta e della privacy necessaria in queste situazioni, tutte sensibili alle stimolazioni negative quali confusione e incertezza del percorso dell’intervento di assistenza. Inoltre, di solito, i tempi di attesa per la visita sono prolungati. Nei DEp raramente è possibile avere consulenti NPI e quindi, una volta definito il problema come di natura neuropsichiatrica, la consultazione specialistica spesso è possibile solo dopo molte ore. Un’accoglienza ottimale nei DEp di chi presenta problemi di salute mentale dovrebbe prevedere uno spazio progettato ad hoc per la stabilizzazione e il trattamento. 3) Training dello staff operatori del DEA Per affrontare adeguatamente i problemi di salute mentale è fondamentale avviare un percorso di “detensionamento” che consiste nel creare un clima adeguato e una cultura assistenziale orientata anche al problema neuropsichiatrico. Il triage del DEp dev’essere progettato per riconoscere i disturbi mentali e stabilirne la priorità di accesso in base alla gravità. La competenza di medici e infermieri è fondamentale per riuscire a creare il clima di “detensionamento” e per la sicurezza del paziente e degli operatori. La formazione specifica, sapere cosa fare, nei confronti del disturbo psichiatrico acuto permette di potere dare risposte adeguate e attente, riducendo l’inevitabile stress che spesso queste condizioni procurano a tutto il personale di assistenza nel DEp. In particolare le competenze per un intervento efficace sono necessarie nelle condizioni spesso imprevedibili di adolescenti con comportamenti distruttivi, quali l’agitazione psicomotoria e l’abuso di sostanze: in tali casi è necessario avviare un rapido percorso di stabilizzazione medica farmacologica per alleviare i sintomi e aumentare la sicurezza del paziente e del personale e degli altri pazienti. 4) Mancanza o insufficienza di possibilità di accesso ai servizi di salute mentale e di efficace trattamento in ricovero o come outpatient La prevenzione e la cura dei problemi di salute mentale rappresentano una grande criticità, affrontata con risorse inadeguate, non solo nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). L’insufficiente possibilità di accedere a un intervento in Neuropsichiatria infantile (NPI) nel momento della crisi psichiatrica e al successivo affidamento alle cure nei servizi territoriali è in gran parte legata alla carenza di risorse di personale, e quelle attuali non permettono una pronta disponibilità, né in ospedale né sul territorio. Tali difficoltà nell’affrontare questo percorso emergono anche nel 6° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e adolescenza in Italia per l’anno 2012-2013, con il riscontro di “numerose zone d’ombra” e di un progressivo abbattimento delle risorse e carenza di attenzione per gli interventi fondamentali atti a garantire un welfare a misura di bambini [9]. In particolare viene definita non adeguata l’assistenza neuropsichiatrica infantile: “Sono insufficienti le risorse e la presa in carico territoriale per i disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza. In Italia la patologia psichiatrica rimane quella maggiormente negletta, in particolare in adolescenza, sia nell’ambito della diagnosi precoce sia in quello della gestione delle emergenze” [9]. Né si può rinunciare a salute mentale denunciare che “nella attuale situazione di crisi e di riduzione di risorse gli effetti sulla salute dei bambini e degli adolescenti, in particolare quelli stranieri, è drammatica e necessita di pronti e appropriati interventi” [12]. Numerosi e anche recenti progetti hanno indicato quali dovrebbero essere gli interventi necessari per migliorare l’attuale insufficiente risposta delle strutture sociosanitarie ai problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza. Gli obiettivi prevedono la “formazione approfondita degli operatori dei servizi di NPI, dei servizi ASL, delle UO Pediatriche, la strutturazione di gruppi di operatori competenti in tutte le UO di NPI, la definizione di percorsi diagnosticiterapeutici condivisi, la sensibilizzazione dei pediatri di libera scelta e degli operatori sanitari, scolastici ed educativi per l’attivazione di interventi preventivi e per l’invio precoce” [12]. Anche la Pediatria resta in attesa di risposte istituzionali, della società e dell’organizzazione sanitaria nazionale, regionale e locale alle persistenti criticità nella pratica e nella modalità di intervento in presenza di problemi di salute mentale e in particolare nelle situazioni di crisi psichiatrica acuta. u Bibliografia [1] Chun TH, Duffy S, Linakis J. Emergency Department Screening for Adolescent Mental Health Disorders: The Who, What, When, Where, Why, and How it Could and Should Be Done. Clin Pediatr Emerg Med 2013;14(1):3-11. [2] Merikangas KR, He JP, Burstein M, et al. Lifetime prevalence of mental disorders in US adolescent: results from National Comorbidity Survey Quaderni acp 2014; 21(5) Replication-Adolescent Supplement (NCS-A). J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2010;49(10): 98-9. doi: 10.1016/j.jaac.2010.05.017. [3] Murray CJL, Lopes AD. The Global Burden of Disease: A Comprehensive Assessment of Mortality and Disability From Diseases, Injuries and Risk Factors in 1990 an Projected in 2020. Harvard University Press, 1996. [4] Merikangas KR, He JP, Burstein M, et al. Service utilization for lifetime mental disorders in US adolescents: results of the National Comorbidity Survey-Adolescent (NCS-A). J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2011;50:32-45. [5] Albizzati A, Balottin U, Benzoni S, et al. Gruppo di Approfondimento Tecnico Regionale sul trattamento dell’acuzie psichiatrica in adolescenza. Circolare n. 2748, 13/02/2012. www.sanità.regione. lombardia.it/. [6] Edelsohn GA, Gomez JP. Psychiatriyc emergencies in adolescents. Adolesc Med Clin 2006; 17(1):183-204. [7] Gardner W, Kelleher KJ, Wasserman R, et al. Primary care treatment of pediatric psycosocial problems: A study from Pediatric Research on Office setting and Ambulatory sentinel Practice Network. Pediatrics 2000;106(4):E44. [8] Mahajan P, Alpern E, Grupp-Phelan J. Epidemiology of psychiatryc-related visits to emergency departments in a multicenter collaborative research pediatric network. Pediatr Emerg Care 2009; 25(11):715-20. doi: 10.1097/PEC.0b013e3181bec82f. [9] Gruppo CRC. 6° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, 2012-2013. www.gruppocrc.net/. [10] Grupp-Phelan J, Bridge J. Pediatric and Adolescent Mental Health Disorders: An Evolving Crisis in Emergency Care. Clin Pediatr Emerg Med 2013;14(1):1-76. [11] Dolan MA, Fein JA; Committee on Pediatric Emergency Medicine. Pediatric and Adolescent Mental Health in the Emergency Medical Services System. Pediatrics 2011;127(5);e1356. doi: 10.1542/peds.2011-0522. [12] Progetto migranti: 5 anni di dialogo tra il bisogno e le cure. IRCCS - Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, 16-17 dicembre 2013. www.quotidianosanità.it 03/01/1914. DNA E PLACENTA A proposito degli embrioni scambiati a Roma e di chi sia figlio il bambino, il prof. Alberto Piazza, dello Human Genetics Foundation, fa notare che è ben vero che la genetica è importante nell’assegnare i gemelli ai genitori biologici, giudicando di fatto la madre che li partorisce una madre surrogata o un utero in affitto, ma ci sono molti però. Piazza afferma che certamente la formazione dei neuroni dipende dal DNA ma le loro connessioni sono determinate dall’ambiente endouterino come poi lo saranno da quello extrauterino. E non c’è dubbio che l’ambiente endouterino non è un fatto riferibile al DNA delle cellule impiantate ma da ciò che la madre “suggerisce” al figlio. Il professore aggiunge che “il DNA è un canovaccio in cui ognuno scrive la sua storia”. (La Stampa 31 luglio 2014) DALLA MADRE AL NEONATO SI TRASMETTONO PAURE E FOBIE Ancor prima di fare esperienze proprie, i neonati possono acquisire fobie e paure sviluppate dalla madre a causa di traumi vissuti prima della loro nascita. Lo rivela una ricerca sui topi, secondo la quale i segnali olfattivi trasmessi dalla madre, quando è in presenza dello stimolo che scatena la paura, attivano così fortemente l’amigdala del neonato da imprimere una diffidenza permanente nei confronti di quello stimolo. A dimostrare un fenomeno che ha lasciato a lungo perplessi gli psicologi – sono due ricercatori della New York University School of Medicine e dell’Università del Michigan ad Ann Arbour, che firmano un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences. “Le esperienze delle madri sono ricavate dalle espressioni materne di paura. Questi ricordi materni trasmessi sono di lunga durata, mentre altri tipi di apprendimento infantile, se non rinforzati dalla ripetizione, svaniscono rapidamente”, dice Jacek Debiec, uno degli Autori dello studio, che indica nei segnali olfattivi il meccanismo di trasmissione di tali paure. (Newsletter, Le Scienze 30 luglio 2014) 213 Quaderni acp 2014; 21(5): 214-217 Meta-analisi sulla legatura del PDA: gli studi disponibili sono sufficienti a guidare la scelta clinica? Manuela Condò Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Ospedale Manzoni, Lecco Recensione dell’articolo: Weisz DE, More K, McNamara PJ, Shah P. PDA ligation and health outcomes: a meta-analysis. Pediatrics 2014;133:e1024-46. Abstract Meta-analysis on PDA ligation: are the available studies sufficient for an appropriate clinical choice? The therapeutic strategy for patent ductus arteriosus (PDA) ligation in premature infants is still under discussion. Weisz et al. have carried out a systematic review and meta-analysis on the efficacy of PDA ligation compared to medical therapy. The study population consisted of premature infants <32 weeks’ gestation with a clinical and/or cardiovascular ultrasound diagnosis of PDA. The impact of PDA ligation in terms of mortality, neonatal severe morbidity and neurodevelopmental impairments (NDI) in early childhood was evaluated. One randomized controlled trial (RCT) and 39 cohort studies were included, most of which had a moderate risk of bias, because of the failure to adjust for survival and important preligation confounders. The meta-analysis was performed using the random-effect model, due to the heterogeneity among the studies. The results of the meta-analysis showed that PDA ligation, compared to medical treatment, was associated with a reduced mortality (aOR: 0.54; 95% CI: 0.38-0.77); no difference for combined mortality or NDI in early childhood (aOR: 0.95; 95% CI: 0.58-1.57 ) was found; PDA ligation was also associated with increased chronic lung disease (CLD) (aOR: 2.51; 95% CI: 1.98-3.18), severe retinopathy of prematurity (ROP) (aOR: 2.23; 95% CI: 1.62-3.08) and NDI (aOR: 1.54; 95% CI: 1.01-2.33). The meta-analysis is burdened by numerous methodological biases and its results confirm the difficulty for clinicians to identify the best treatment choice for PDA ligation in premature infants. Quaderni acp 2014; 21(5): 214-217 La strategia terapeutica di chiusura del dotto arterioso pervio (PDA) nei neonati prematuri costituisce ancora oggetto di discussione. Weisz e coll. hanno effettuato una revisione sistematica e meta-analisi sull’efficacia della legatura del PDA rispetto alla terapia medica. La popolazione studiata comprendeva neonati prematuri <32 settimane di gestazione con diagnosi clinica e/o ecocardiografica di PDA, nei quali è stato valutato l’impatto della legatura del PDA in termini di mortalità, morbosità neonatale grave e deficit di sviluppo neuroevolutivo (NDI) nella prima infanzia. Sono stati inclusi un trial randomizzato controllato (RCT) e 39 studi di coorte, la maggior parte dei quali presentava un rischio moderato di bias, per il mancato aggiustamento per sopravvivenza e importanti confondenti pre-trattamento chirurgico. La meta-analisi è stata eseguita con il modello ‘a effetti casuali’, vista l’eterogeneità tra gli studi. I risultati della meta-analisi hanno evidenziato che la legatura del PDA, rispetto al trattamento medico, si associa a ridotta mortalità (OR: 0,54; IC 95%: 0,38-0,77), senza però differenza nell’esito combinato mortalità o NDI nella prima infanzia (OR: 0,95; IC 95%: 0,58-1,57); la legatura del PDA si associa altresì ad aumento della malattia polmonare cronica (CLD) (OR: 2,51; IC 95%: 1,98-3,18), della retinopatia del pretermine (ROP) di grado elevato (OR: 2,23; IC 95%: 1,62-3,08) e dell’NDI (OR: 1,54; IC 95%: 1,01-2,33). La meta-analisi è gravata da numerosi bias metodologici e i suoi risultati confermano la difficoltà per i clinici di individuare la scelta terapeutica più adatta alla chiusura del PDA nei neonati prematuri. Per corrispondenza: Manuela Condò e-mail: [email protected] 214 Introduzione Il trattamento del dotto arterioso pervio (PDA) nei neonati prematuri è ancora ampiamente oggetto di dibattito. L’interesse dei neonatologi per il PDA è legato all’elevata mortalità e morbosità a esso associata, in particolare nei neonati con peso neonatale molto basso (VLBW <1500 g di peso alla nascita) o molto pretermine (VPI <32 settimane di età gestazionale); lo shunt sin-dx attraverso il dotto arterioso è causa sia di ridotto flusso ematico sistemico, con rischio aumentato di emorragia intraventricolare (IVH), insufficienza renale ed enterocolite necrotizzante (NEC), che di iperafflusso polmonare, con rischio di emorragia polmonare, broncodisplasia (BPD) e aumento della durata della ventilazione meccanica [1]. La variabilità nella gestione del PDA dipende innanzitutto dalla definizione diagnostica, in quanto si utilizzano comunemente termini come ‘PDA sintomatico’ e ‘PDA emodinamicamente significativo’, che prevedono differenti criteri clinici ed ecocardiografici. Le difficoltà sulla scelta terapeutica riguardano in primis l’opportunità o meno di trattare il dotto, sia perché non vi è ancora evidenza che il trattamento migliori gli esiti a lungo termine, sia per il rischio di esporre inutilmente il paziente agli effetti collaterali della terapia [2]. La profilassi del PDA con indometacina, cioè la somministrazione di questo farmaco a tutti i neonati grandi pretermine o di peso molto basso, riduce l’incidenza di PDA, di IVH di 3° e 4° grado e il rischio di legatura del PDA, ma non gli esiti neurosensoriali a 18 mesi di vita [3]. Anche la profilassi con ibuprofene non si associa a riduzione della mortalità o di BPD [4]. L’indicazione al trattamento viene posta più comunemente nei prema- telescopio turi con segni clinici di PDA o in fase pre-sintomatica, utilizzando criteri clinico-ecocardiografici [5]. La variabilità riguarda anche le modalità di trattamento del PDA, con possibilità di terapia conservativa (restrizione dei liquidi, diuretici, strategie ventilatorie), di utilizzo di FANS (indometacina, ibuprofene) o del più recente paracetamolo e infine della legatura chirurgica. Le terapie mediche possono prevedere differenti posologie e durate di trattamento. Per quanto riguarda la legatura del PDA, è pratica comune utilizzarla come terapia ‘rescue’, in caso di fallimento o inapplicabilità della terapia medica, per la morbosità a essa correlata, tra cui pneumotorace, alterata performance miocardica, retinopatia del pretermine (ROP), malattia polmonare cronica (CLD), deficit neuroevolutivo (NDI) [6]. Da tutto ciò deriva la difficoltà per i clinici di orientarsi in merito alla migliore scelta terapeutica. Vi sono anche dei limiti a eseguire meta-analisi su tale tematica, stante la paucità di studi randomizzati controllati (RCT) e l’eterogeneità degli studi osservazionali disponibili. Risultati dello studio Lo studio di Weisz e coll. è innanzitutto una revisione sistematica, a cui segue una meta-analisi, per quanto nel titolo ci si riferisca solo a quest’ultima [6]. L’oggetto di tale studio era la valutazione dell’impatto della legatura del PDA nei neonati prematuri, in termini di rischio di mortalità, patologie neonatali gravi e NDI nella prima infanzia. La categoria di prematuri studiati comprendeva neonati <32 settimane di gestazione almeno per l’80% della popolazione in esame, con diagnosi clinica e/o ecocardiografica di PDA. Tali criteri d’inclusione sono già indicativi di eterogeneità tra gli studi. Gli studi dovevano comprendere tra gli esiti almeno uno tra i seguenti: mortalità prima della dimissione, CLD, ROP grave (stadio 2 plus richiedente trattamento o ≥ 3), NDI nella prima infanzia (a 15-48 mesi di età corretta), esito combinato di mortalità o NDI nella prima infanzia, deficit cognitivo e paralisi cerebrale. Nella revisione sistematica sono stati inclusi 40 studi, di cui 39 di coorte e solo Quaderni acp 2014; 21(5) TABELLA 1: RISULTATI DELLA META-ANALISI Esito OR IC 95% I2 Mortalità 0,54 0,38-0,77 39% Mortalità o NDI prima infanzia 0,95 0,58-1,57 71% CLD 2,51 1,98-3,18 44% ROP severa 2,23 1,62-3,08 37% NDI prima infanzia 1,54 1,01-2,33 48% Paralisi cerebrale 1,51 0,86-2,63 00% Disturbo cognitivo* 1,96 1,14-3,37 - * Un solo studio un RCT. Trattandosi per lo più di studi osservazionali, il rischio di bias è potenzialmente elevato; la valutazione del rischio di bias è stata effettuata tramite la Newcastle-Ottawa Scale per gli studi osservazionali e la Cochrane Risk of Bias tool per l’RCT. I rischi di bias individuati erano dovuti al mancato aggiustamento per la sopravvivenza e per alcuni confondenti post-natali pre-legatura del PDA, tra cui l’IVH, la dipendenza ventilatoria e la sepsi. Gli Autori hanno poi eseguito una metaanalisi, utilizzando un modello ‘a effetti casuali’, e hanno combinato separatamente i dati corretti e i dati grezzi; le differenze tra i vari gruppi sono state riportate come odds ratio corretti (OR) con intervalli di confidenza (IC) al 95%. L’eterogeneità è stata valutata tramite l’I2 statistico ed è considerata significativa per I2 > 50%. Nella meta-analisi, dal confronto tra i gruppi e i sottogruppi di trattamento (legatura del PDA, terapia medica, terapia conservativa, FANS, FANS + legatura del PDA), i risultati dell’analisi univariata e multivariata hanno evidenziato una ridotta mortalità per il gruppo sottoposto a legatura del PDA, mentre è emerso un aumentato rischio per i restanti esiti (CLD, ROP severa, NDI nella prima infanzia, danno cognitivo); nessuna differenza è stata riscontrata per l’esito combinato mortalità o NDI nella prima infanzia, né per la paralisi cerebrale (tabella 1). La conclusione degli Autori è che la metaanalisi offre indicazioni a migliorare l’evidenza disponibile per orientare i clinici rispetto alla legatura del PDA. Allo stesso tempo mette in evidenza le difficoltà dei neonatologi quando si tratta di prendere in considerazione l’intervento chirurgico. Infatti l’associazione di tale modalità terapeutica con una ridotta mortalità è gravata da numerosi bias metodologici. Tale esito emerge principalmente da studi osservazionali, che non tengono conto in modo adeguato dei bias di sopravvivenza e del confondimento da indicazione e che utilizzano differenti definizioni di PDA emodinamicamente significativo, come detto in precedenza. Gli Autori esprimono quindi la necessità di effettuare RCT, che però sarebbero caratterizzati da una ridotta validità esterna a causa della variabilità nelle procedure nei vari centri, ma soprattutto studi osservazionali che prendano in considerazione le possibili covariate prelegatura del PDA. Valutazione metodologica dello studio L’obiettivo della revisione sistematica e della meta-analisi è ben definito; viene infatti valutato l’impatto della legatura del PDA nei neonati <32 settimane di gestazione sul rischio di mortalità, morbosità neonatale grave e NDI nella prima infanzia. Tale obiettivo risulta clinicamente rilevante. I neonatologi infatti si trovano di fronte a un’innumerevole quantità di studi che considerano differenti opzioni terapeutiche per la chiusura del PDA nei neonati prematuri e che giungono a risultati talora contrastanti. La ricerca degli studi sembra essere stata condotta in modo esaustivo, dato anche il 215 telescopio ricorso al Cochrane Central Register of Controlled Trials [7]. I dati sono stati estratti da due ricercatori indipendenti. I criteri d’inclusione degli studi appaiono ragionevoli e coerenti rispetto all’obiettivo prefissato. In particolare è stata presa in considerazione una categoria ristretta di neonati prematuri (<32 settimane di gestazione almeno per l’80% dei neonati studiati), a differenza di altre revisioni sistematiche [8]. Per la diagnosi di PDA sono stati utilizzati criteri clinici e/o ecocardiografici, il che, comunque, conferma la variabilità della gestione clinica riguardante il PDA ed è anche un primo elemento di possibile eterogeneità tra gli studi selezionati. Per quanto riguarda l’esposizione, gli studi dovevano confrontare almeno un gruppo o sottogruppo di trattamento chirurgico con uno di terapia medica; i sottogruppi chirurgici comprendevano quello della ‘terapia medica e legatura’ (terapia medica seguita da intervento chirurgico) e quello della ‘legatura primaria’ (chirurgia senza precedente terapia medica); dei sottogruppi medici facevano parte quello della ‘sola farmaco-terapia’ (FANS, paracetamolo) e quello della ‘terapia conservativa’ (assenza di terapia farmacologica o chirurgica). La terapia chirurgica consisteva in una toracotomia laterale sinistra, con applicazione di una clip o legatura del PDA, eseguita al letto del paziente o in sala operatoria, entro 40 settimane di età gestazionale corretta. Anche dalla tipologia e numerosità dei sottogruppi di confronto emerge l’estrema eterogeneità degli studi disponibili in letteratura sul trattamento del PDA; in particolare le caratteristiche di base della popolazione del gruppo della terapia chirurgica e di quello della terapia medica sono molto diverse (età gestazionale e peso neonatale più bassi nei trattati chirurgicamente). Tra gli esiti, gli studi dovevano comprenderne almeno uno tra mortalità prima della dimissione, CLD, ROP grave, NDI nella prima infanzia, esito combinato di mortalità o NDI nella prima infanzia, deficit cognitivo e paralisi cerebrale. La completezza del follow-up per gli studi di coorte è stata ritenuta accettabile se la percentuale di bambini controllati era ≥ 90% per gli esiti neonatali e ≥ 75% per 216 Quaderni acp 2014; 21(5) COSA CI DICONO I RISULTATI DI QUESTO STUDIO − Non sempre le meta-analisi sono informative e necessarie; dipende dal modo con cui i vari studi hanno affrontato l’argomento. − La valutazione se effettuare o meno la legatura del dotto si basa più su considerazioni cliniche, variabili da caso a caso, che su evidenze ricavate da RCT o da studi osservazionali ben condotti. CONFONDIMENTO, CONFONDIMENTO DA INDICAZIONE ED ETEROGENEITÀ − Si parla di “confondimento” quando una variabile si associa sia ai fattori di esposizione che agli esiti. Ne può risultare un’apparente associazione tra variabili o, meno frequentemente, la mancata evidenza di una reale associazione. − Nel “confondimento da indicazione” si attribuiscono al trattamento gli effetti dovuti al motivo per cui il trattamento viene effettuato. − La “eterogeneità” indica il grado di diversità tra gli studi inclusi in una meta-analisi. L’I2 o indice di Higgins esprime la percentuale di varianza dovuta alla reale eterogeneità tra gli studi e non al caso; è significativa se > 50%. gli esiti neurologici; è stata accettata una percentuale ≥ 70% per gli esiti neurologici, qualora i bambini persi al follow-up fossero stati descritti accuratamente e non fossero emerse differenze sostanziali rispetto alla coorte dei bambini controllati. Per la meta-analisi sono stati ritenuti eleggibili 40 studi, di cui 39 di coorte e un solo RCT, nonostante una meta-analisi dovrebbe idealmente utilizzare per lo più RCT per avere risultati qualitativamente elevati, perché poco influenzati da bias [7]. Il numero dei trial e la numerosità totale dei pazienti degli studi inclusi (32.345 prematuri) sono risultati elevati e hanno quindi consentito una buona precisione dei risultati della meta-analisi. Per quanto riguarda le caratteristiche degli studi inclusi, dei 39 studi osservazionali, 28 avevano eseguito il confronto tra gruppi di trattamento senza aggiustamento per le covariate, mentre 11 avevano effettuato analisi multivariate. La maggior parte degli studi di coorte presentava un rischio di bias lieve-moderato, mentre per quelli con confronti univariati il rischio di bias è risultato medioalto, per la presenza di importanti differenze perinatali tra i due gruppi di trattamento. Nessuno studio di coorte ha valutato il rischio di bias di sopravvivenza. L’unico RCT incluso nella meta-analisi è il vecchio studio di Cotton e coll. del 1978, che presentava un rischio di bias lieve-moderato e non descriveva le modalità di randomizzazione, né i metodi utilizzati per la valutazione in cieco degli esiti [9]. Tale studio era stato peraltro escluso dalla revisione sistematica della Cochrane sopracitata, perché prevedeva il confronto tra la chiusura chirurgica del PDA e la sola terapia conservativa, senza terapia farmacologica. La meta-analisi è stata condotta combinando separatamente i dati corretti e grezzi, utilizzando il modello ‘a effetti casuali’; questo modello statistico, a differenza di quello ‘a effetti fissi’, viene utilizzato in presenza di significativa eterogeneità tra i risultati degli studi [7]. L’eterogeneità è stata valutata ed espressa tramite l’I2 statistico, con significatività per I2 >50%. Il confronto tra i gruppi terapeutici è stato effettuato tramite gli OR con IC al 95%, poi riportati su una scala logaritmica per la rappresentazione grafica della meta-analisi. La ridotta mortalità e l’aumento di NDI possono essere almeno in parte spiegati con la presenza di alcuni bias, tra i quali vanno citati la legatura del PDA come terapia ‘rescue’ (terapia chirurgica dopo il fallimento della terapia medica) e il bias di sopravvivenza, in quanto i neonati devono essere sopravvissuti alla terapia medica per giungere a quella chirurgica. Vi è poi il confondimento da indicazione, perché la morbosità pre-legatu- telescopio ra, fattore di rischio per l’NDI, può essere stata più elevata nei neonati sottoposti a intervento. Per tutti questi problemi metodologici si può concludere che i risultati della metaanalisi non possono essere considerati abbastanza robusti per ricavarne delle indicazioni terapeutiche univoche. Problemi aperti e conclusioni Studiare le strategie terapeutiche del PDA è clinicamente rilevante per l’elevata incidenza del PDA nei neonati prematuri (36,2% nei grandi prematuri ricoverati nelle TIN italiane), e per i rischi di mortalità e morbosità a esso associati [10]. Dalla revisione sistematica con metaanalisi presa in esame emerge che la legatura del PDA si associa a ridotta mortalità rispetto alla terapia medica e ad aumentato rischio di CLD, ROP grave, NDI nella prima infanzia e danno cognitivo, mentre non vi è differenza nell’esito combinato mortalità o NDI nella prima infanzia. L’individuazione di importanti bias metodologici (disponibilità di studi per lo più osservazionali con eterogeneità statistica lieve-moderata, scarsità di analisi multivariate, inadeguata attenzione ai bias di sopravvivenza e al confondimento da indicazione) rende però discutibile l’opportunità di eseguire una meta-analisi. D’altra parte gli Autori illustrano approfonditamente tali limitazioni, offrendo ai clinici, a loro parere, la possibilità di una valutazione più critica e consapevole dei risultati degli studi Quaderni acp 2014; 21(5) attualmente disponibili sulla legatura del PDA. Emerge infine l’importanza di eseguire nuovi trial e studi osservazionali con un disegno metodologico che tenga conto delle criticità rilevate. u Bibliografia [1] Hermes-DeSantis ER, Clyman RI. Patent ductus arteriosus: pathophysiology and management. J Perinatol 2006;26(Suppl 1):S14-8. [2] Benitz WE. Patent ductus arteriosus: to treat or not to treat? Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed 2012;97:F80-2. [3] Schmidt B, Davis P, Moddemann D, et al. Long-term effets of indomethacin prophylaxis in extremely-low-birth-weight infants. N Engl J Med 2001;344(26):1966-72. [4] Ohlsson A, Shah SS. Ibuprofen for the prevention of patent ductus arteriosus in the preterm and/or low birth weight infants. Cochrane Database Syst Rev 2011;7:CD004213. doi: 10.1002/ 14651858. [5] Evans N. Current controversies in the diagnosis and treatment of patent ductus arteriosus in preterm infants. Adv Neonatal Care 2003;3(4):168-77. [6] Weisz DE, More K, McNamara PJ, Shah P. PDA ligation and health outcomes: a meta-analysis. Pediatrics 2014;133(4):e1024-46. doi: 10.1542/ peds.2013-3431. [7] Egger M, Smith GD, Phillips AN. Meta-analysis: principles and procedures. BMJ 1997;315 (7121):1533-7. [8] Malviya MN, Ohlsson A, Shah SS. Surgical versus medical treatment with cyclooxygenase inhibitors for symptomatic patent ductus arteriosus in preterm infants. Cochrane Database Syst Rev 2013;3:CD003951. doi: 10.1002/14651858. CD003951.pub3. [9] Cotton RB, Stahlman MT, Bender HW, et al. Randomized trial of early closure of symptomatic patent ductus arteriosus in small preterm infants. J Pediatr 1978;93(4):647-51. [10] Ronconi A, Corchia C, Bellù R, et al. Esiti dei neonati di basso peso nelle Terapie Intensive Neonatali partecipanti all’Italian Neonatal Network nel 2008. Rapporti ISTISAN 2012. INDOOR TANNING L’indoor tanning (IT) è la esposizione a un lettuccio con tanning, o ad altri strumenti che utilizzano a scopo cosmetico radiazioni ultraviolette (97% UVA e 3% UVB). È ben noto che la cute può essere danneggiata e vedere così l’insorgere del cancro particolarmente nei giovani: Il rischio di melanoma sembra accertato. Una lettera a The Lancet (2014; 384:131-2) riporta che circa il 20% dei teenagers usa l’IT e riferisce di una indagine che ha raccolto, con una interfaccia di Twitter, i tweets sull’argomento IT in due settimane della primavera 2013. Sono stati individuati 154.496 tweet (7,7 per minuto), lanciati da 120.000 persone con la potenzialità di raggiungerne 120.000.000. Una percentuale molto modesta (2,5%) si riferiva ai rischi associati all’IT; il costo era molto trascurato (0,46%). Gli Autori sottolineano due dati: – la diffusione dell’interesse per l’IT; – la possibilità di utilizzare i social network come strumento di educazione sanitaria sia per l’invio di messaggi salutari che per la prevenzione di messaggi pericolosi. ADDIO AL RICAMBIO GENERAZIONALE IN SANITÀ È approdata, sulla Gazzetta Ufficiale del 18 agosto, la Legge sulla riforma della pubblica amministrazione. Per ciò che riguarda il personale, e in particolare quello delle aziende sanitarie, gli articoli 1e 2 riguardano il cosiddetto “ricambio generazionale”. Contrariamente ai primi testi proposti, rimane il trattenimento in servizio, fino ai 70 anni, dei dirigenti sanitari. Questo è in contraddizione con le regole di tutto il restante personale del pubblico impiego. 217 Quaderni acp 2014; 21(5): 218-219 Unioni tra consanguinei: vantaggi di ieri, svantaggi di oggi Enrico Valletta Dipartimento Materno-Infantile, AUSL della Romagna, Forlì “Inoltre essa è veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è divenuta mia moglie”. Genesi 20,12 (CEI) Può accadere che un’osservazione clinica porti a connessioni con scienze umane diverse dalla medicina e che queste, a loro volta, possano suggerire chiavi interpretative e linee di intervento per la sanità pubblica. Prendiamo lo spunto da uno studio britannico che intendeva chiarire le cause dell’elevata frequenza di malformazioni congenite e di mortalità infantile nella popolazione immigrata di origine pakistana [1]. Nel Distretto di Bradford (UK), il rischio di malformazioni (305/10.000 nativi vivi) risultava quasi doppio rispetto al resto del Paese e doppio (RR 1,96) era anche il rischio per i neonati di etnia pakistana rispetto a quelli di origine britannica. Il 18% dei neonati esaminati proveniva da coppie formate da primi cugini e il 95% di loro era di origine pakistana. La consanguineità dei genitori raddoppiava (RR 2,19) il rischio di malformazioni congenite e il 31% delle malformazioni in bambini pakistani era attribuibile alla consanguineità dei genitori. Un’osservazione su un tema non del tutto ignoto, ma che pone un evidente problema di sanità pubblica e individuale. Meno scontati sono i modi per affrontare la questione, e una visione più allargata aiuta a comprendere la complessità del fenomeno. Le unioni tra consanguinei nel mondo Nei Paesi occidentali le unioni tra consanguinei (inbreeding) sono un evento raro e siamo portati a ritenere che sia così dappertutto. Rischiamo di non vedere quello che accade intorno (e, oggi, anche dentro) al nostro sistema sociale. Circa il 10% (500-800 milioni) della popolazione mondiale ha genitori consanguinei e nei Paesi Arabi e del Medio Oriente fino al 60% (ma anche l’80% in alcune regio- ni dell’Arabia Saudita) di tutti i matrimoni sono tra consanguinei (tabella 1). Il 75% delle unioni è tra primi cugini, ma sono comuni anche quelle tra secondi cugini o con gradi inferiori di parentela [2]. Il dato geografico si sovrappone alla diffusione territoriale delle religioni islamica e induista, con minime partecipazioni di piccole comunità cristiane ed ebraiche nel Sud-Est asiatico [3]. Le motivazioni, tuttavia, non sono solo religiose ma anche culturali, sociali, economiche e ancor più relative a comportamenti volti alla preservazione di caratteri genetici premianti in popolazioni sottoposte a un’elevata pressione selettiva ambientale. L’Islam, pur non incoraggiandole, consente le unioni tra consanguinei e il profeta Maometto stesso unì in matrimonio due suoi consanguinei e diede in moglie la propria figlia ad Ali, figlio di suo zio [3-4]. In realtà questa usanza ha radici culturali nella civiltà araba pre-islamica nella quale il matrimonio tra cugini era incoraggiato per motivi sociali (la donna è già parte della famiglia e può sperare in un migliore trattamento, contrarre il matrimonio nella cerchia familiare è più agevole) ed economici (dote e proprietà sono mantenute all’interno dell’ambito familiare). Una civiltà essenzialmente rurale, le forti connotazioni tribali, l’isolamento geografico e un basso livello socio-culturale hanno contribuito a mantenere inalterata nel corso dei secoli questa tradizione. Tuttavia, seppure fortemente radicate, le motivazioni religiose e sociali non appaiono sufficienti a spiegare un fenomeno le cui ragioni ultime vanno cercate piuttosto nella biologia evoluzionistica [5-6]. Gli svantaggi della riproduzione tra consanguinei (depressione da inbreeding) sono ben noti: il rischio di malformazioni congenite è raddoppiato (4%) rispetto alle unioni non-consanguinee, così come più elevati sono la probabilità di trasmettere mutazioni recessive sfavorevoli e il rischio di generare omozigoti ammalati (incremento della mortalità). Nonostante questo, in regioni del mondo sottoposte a una forte pressione selettiva da parte di specifiche malattie endemiche, l’inbreeding ha offerto importanti vantaggi per le popolazioni residenti. L’esempio più immediato è la maggiore resistenza nei confronti della malaria negli eterozigoti e, ancor più negli omozigoti, per α-Talassemia. In una situazione ambientale di questo tipo, la sopravvivenza di una comunità è evidentemente legata alla persistenza dell’allele α+-Talassemia nei suoi componenti [6]. Le unioni tra consanguinei garantiscono la massima circolazione del gene e, quindi, la sopravvivenza della specie. Ragionamento simile vale per il gene dell’emoglobina S, anch’esso protettivo nei confronti della malaria: l’inbreeding consente la persistenza dell’eterozigosi AS nella popolazione a prezzo dell’eliminazione di un certo numero di soggetti omozigoti SS a elevata mortalità. Se il bilancio tra protezione offerta dall’eterozigosi AS e mortalità dovuta all’omozigosi SS è positivo, la procreazione tra consanguinei risulterà comunque una scelta vincente [5]. Non secondariamente, le coppie consanguinee sono più fertili, forse per una migliore compatibilità genetica materno-fetale o anche per un meccanismo di compenso rispetto alla maggiore mortalità legata alle malattie congenite. L’inbreeding oggi: rischi e opportunità Solo recentemente il mondo arabo ha iniziato a guardare all’inbreeding con interesse scientifico e a studiarne le implicazioni attuali e future per la propria salute [2-4,7]. Emerge la consapevolezza che le unioni tra consanguinei – che il progresso economico e sociale rendono oggi evoluzionisticamente meno indispensabili per la sopravvivenza delle comunità – rappresenta un pesante retaggio culturale con importanti conseguenze negative dal punto di vista sanitario. L’inevitabile incremento delle malattie genetiche su base autosomica recessiva è Per corrispondenza: Enrico Valletta e-mail: [email protected] 218 internazionale osservatorio internazionale Quaderni acp 2014; 21(5) I MEDICI ITALIANI CHE VANNO A ESERCITARE ALL’ESTERO l’effetto più immediato e percepibile. I sistemi sanitari dei Paesi Arabi osservano ora il lento (forse troppo lento) evolversi di questa tradizione sotto la spinta della modernizzazione sociale e della mobilità geografica degli individui e si pongono il problema dell’educazione nei comportamenti riproduttivi dei propri cittadini. Le importanti componenti religioso-culturali che permeano quei tessuti sociali rappresentano un elemento di realtà ineludibile e condizionante qualsiasi processo evolutivo. Ma, paradossalmente, l’inbreeding costituisce anche un’opportunità, per la ricerca genetica e per l’applicazione delle nuove tecnologie di analisi del genoma umano, di enorme interesse e potenzialità [4,7-8]. La concentrazione e la persistenza di alleli patologici, altrove rarissimi, possono offrire importanti elementi di conoscenza difficilmente ottenibili in contesti nei quali l’incrocio tra consanguinei è evento eccezionale e la dispersione di alcuni caratteri genetici ne rende difficile l’individuazione e l’analisi. Comunque si evolvano cultura e tradizioni nei Paesi di origine, le unioni consanguinee all’interno dei nuclei etnici inseriti nelle società a elevato sviluppo rischiano di trasformarsi da vantaggio selettivo a determinante negativo di salute individuale e pubblica. Appare logico che si intraprendano iniziative di informazione e di assistenza nelle scelte riproduttive che possano modificare, poco alla volta, realtà come quella segnalata dai ricercatori di Bradford. u Bibliografia [1] Sheridan E, Wright J, Small N, et al. Risk factors for congenital anomaly in a multiethnic birth cohort: an analysis of the Born in Bradford study. Lancet 2013;382(9901):1350-9. doi: 10.1016/ S0140-6736(13)61132-0. [2] Islam MM. The practice of consanguineous marriage in Oman: prevalence, trends and determinants. J Biosoc Sci 2012;44(5):571-94. doi: 10.1017/S0021932012000016. [3] Jurdi R, Saxena PC. The prevalence and correlates of consanguineous marriages in Yemen: similarities and contrasts with other Arab countries. S62: The new demography of the Arab Region. TABELLA 1: PREVALENZA DELLE UNIONI CONSANGUINEE IN ALCUNI PAESI ARABI [2] Nazione Consanguineità (%) Primi cugini Complessiva Algeria 11,3 34,0 Bahrain 24,5 43,1 15,9 20,9 Egitto Iraq 29,2 57,8 Giordania 34,2 48,1 Kuwait 30,2 54,3 Libano 31,6 37,8 Libia 48,4 Mauritania 47,2 09,7 22,8 Marocco Oman 38,5 51,6 Palestina 27,7 45,4 Qatar 34,8 54,0 Arabia Saudita 33,6 56,0 Sudan 49,5 63,3 Siria 28,7 35,4 Tunisia 20,8 39,3 Emirati Arabi 26,2 50,5 Yemen 32,0 44,7 www.archive-iussp.org/Brazil2001/s60/S62_ P04_Jurdi.pdf/. [4] Kari JA, Bockenhauer D, Stanescu H, et al. Consaguinity in Saudi Arabia: a unique opportunity for pediatric kidney research. Am J Kidney Dis 2014;63(2):304-10. doi: 10.1053/j.ajkd.2013.08. 033. [5] Denic S, Nagelkerke N, Agarwal MM. On some novel aspects of consanguineous marriages. Public Health Genomics 2011;14(3):162-8. doi: 10.1159/ 000321771. [6] Hoben AD, Buunk AP, Fincher CL, et al. On the adaptive origins and maladaptive consequences of human inbreeding: parasite prevalence, immune functioning and consanguineous marriage. Evol Psychol 2010;8(4):658-76. [7] Abu Saad H, Elbedour S, Hallaq E, et al. Consanguineous marriage and intellectual and developmental disabilities among Arab Bedouins children of the Negev region in Southern Israel: a pilot study. Front Public Health 2014;2:1-3. doi: 10.3389/fpubh.2014.00003. [8] Alkuraya FS. Impact of new genomic tools on the practice of clinical genetics in consanguineous populations: the Saudi experience. Clin Genet 2013;84(3):203-8. doi: 10.1111/cge.12131. Uno studio di ANAAO Giovani, su dati di diverse banche, ha preso in esame alcuni particolari molto interessanti della vita professionale dei medici. Una delle domande affrontate riguarda l’emigrazione dall’Italia verso l’estero. Ci si è chiesti quale sia la dimensione di questo fenomeno. È stata utilizzata la banca dati FnomCeo mirando alla cancellazione dagli albi degli ordini provinciali. Il risultato quindi risulta approssimato in difetto in quanto non è necessario cancellarsi dall’albo per esercitare all’estero. Ecco comunque i dati. Il numero complessivo dei medici che si sono trasferiti per esercitare all’estero negli ultimi cinque anni ammonta a 625 con una media annuale di 114.Gli anni di maggiore espatrio sono stati il 2012-2014 con una netta e comprensibile prevalenza dell’età fra 25 e 39 anni. Un dato molto interessante è la distribuzione per regione degli emigrati nel 2012-14. Abruzzo 10 Basilicata 1 Calabria 0 Campania 28 Emilia-Romagna 39 FVG 0 Lazio 1 Liguria 32 Lombardia 97 Marche 0 Piemonte 5 Puglia 4 Toscana 13 Umbria 0 Sardegna 9 Sicilia 28 Puglia 4 Toscana 3 Umbria 0 Valle d’Aosta 0 Trentino 45 Veneto 35 Come si vede vi è una netta concentrazione in alcune Regioni, ma si tenga conto, nella valutazione dei dati, della consistenza demografica delle singole Regioni. L’emigrazione comporta ovviamente una perdita economica rilevante per lo Stato che consuma risorse di cui non utilizza i risultati. La spesa per i sei anni di laurea e per la specializzazione, che certamente chi emigra ha conseguito, ammonta a circa 152.800 euro. Una perdita totale quindi, per anno, di molti miliardi. 219 Quaderni acp 2014; 21(5): 220-223 Traumi nel paziente pediatrico e profilassi del tromboembolismo venoso. Uno scenario clinico Maddalena Marchesi Pediatra, Parma Abstract Trauma in the paediatric patient and venous thromboembolism prophylaxis. A clinical scenario This clinical scenario addresses the case of a child with a fracture of the lower limb in which the orthopedic surgeon, in addition to an immobilization with a cast, proposes venous thromboembolism prophylaxix with enoxaparin. The incidence of venous thromboembolism (VTE) in children hospitalized for trauma injuries ranges from 0.02% at of 0.33%. The main risk factors for VTE in paediatric patients hospitalized for trauma injuries are the age, the severity and type of injury, the presence of central venous catheter. Data are lacking both on the incidence and on the indications for VTE prophylaxis in paediatric outpatients. Scientific literature indicates that the risk assessment for VTE should guide the choice of therapy in the individual patient. Quaderni acp 2014; 21(5): 220-223 Lo scenario clinico affronta il caso di una bambina con frattura dell’arto inferiore a cui l’ortopedico, oltre a immobilizzazione con apparecchio gessato, propone profilassi con enoxaparina. L’incidenza di tromboembolismo venoso (VTE) nelle casistiche di bambini ricoverati con trauma varia dallo 0,02% allo 0,33%. I principali fattori di rischio per VTE in pazienti pediatrici ospedalizzati con trauma sono l’età, la severità e il tipo di trauma, la presenza di catetere venoso centrale. Non esistono dati sull’incidenza né indicazioni per la profilassi per VTE nei bambini trattati ambulatoriamente. La letteratura scientifica indica che la valutazione del rischio per VTE deve guidare la scelta terapeutica nel singolo paziente. Lo scenario Giulia, 10 anni e 8 mesi, in seguito a trauma accidentale durante l’ora di ginnastica, si è procurata una frattura composta della tibia destra. In ospedale l’arto viene immobilizzato con un apparecchio gessato coscia-piede che deve mantenere per 25 giorni; l’ortopedico prescrive enoxaparina 2000 UI per via s.c. per il periodo dell’immobilizzazione. Dall’anamnesi familiare si rileva che il nonno di Giulia ha presentato un episodio di trombosi venosa profonda all’età di 70 anni, in assenza di altri fattori di rischio (es. tumore, trauma). Giulia è normopeso, pubere (ha presentato il menarca circa un anno prima), è una ragazza in buona salute, sportiva, e l’anamnesi patologica remota è muta per eventi significativi. Il trauma di Giulia può essere classificato come trauma minore (ISS < 9) (box 1). A seguito della frattura non è stata sottoposta a chirurgia o ospedalizzazione. È corretto il ricorso alla profilassi per trombosi venosa profonda (TVP)? Il background Da un punto di vista fisiopatologico la trombosi è un evento multifattoriale in cui sono coinvolti cambiamenti nel flusso di sangue, nella sua composizione e modificazioni nello stato della parete vascolare. Ancora oggi, a distanza di centocinquant’anni, è ritenuta valida la triade di Virchow che nel 1856 individuò nella stasi venosa, nell’ipercoagulabiltà del sangue e nell’attivazione del rivestimento endoteliale dei vasi sanguigni i fattori principali coinvolti nell’origine di una trombosi. La formazione del trombo venoso origina spesso a livello della gamba, nei seni valvolari venosi; in condizioni di normalità la stasi è maggiore, si creano vortici nel flusso sanguigno e l’ambiente, che è particolarmente ipossico, favorisce l’attivazione delle cellule endoteliali. I fattori correttivi che sono normalmente attivi in questo ambiente protrombotico possono non risultare altrettanto efficaci quando l’arto viene immobilizzato [1]. L’eparina a basso peso molecolare (LMWH) è un frammento di eparina, glicosamminoglicano utilizzato come farmaco iniettivo anticoagulante. Come l’eparina, esercita il suo effetto antitrombotico facilitando l’azione dell’antitrombina a inibire la trombina (fattore IIa) e il fattore Xa, ma presenta caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche che la rendono più maneggevole; infatti può essere somministrata a livello sottocutaneo, non richiede monitoraggio ematologico e da diversi anni è utilizzata anche in pediatria [2]. Nei bambini di età superiore o uguale a 2 mesi i dosaggi profilattici delle più usate LMWH sono: per l’enoxaparina 0,5 mg/kg/dose ogni 12 ore per via sottocutanea (1 mg di enoxaparina corrisponde a circa 100 unità anti-fattore Xa); per la deltaparina 92 ± 52 unità/kg ogni 24 ore [2]. Una revisione sistematica con metanalisi del 2011 ha verificato l’efficacia e la sicurezza dell’eparina a basso peso molecolare in età pediatrica [3]. Il rischio di sanguinamento maggiore in corso di terapia con LMWH è del 5% (IC 95%: 3,1-7,8) [3]. Il problema del tromboembolismo venoso (VTE) come complicanza post-traumatica è ben documentato in età adulta (rischio di base per VTE dopo un trauma 3-5%) e la profilassi farmacologica con LMWH è da alcuni anni una pratica clinica corrente anche a livello ambulatoriale in presenza di un trauma che comporta immobilizzazione della gamba; questo riduce della metà l’incidenza di TVP (OR 0,49; IC 95%: 0,34-0,72; p = 0,29) [4-5]. Sebbene in quasi tutte le casistiche di pazienti pediatrici con VTE il trauma sia riconosciuto come fattore di rischio, non è stato ancora quantificato il rischio di VTE dopo un trauma, mentre sono disponibili dati retrospettivi di incidenza di tale complicanza che varia dallo 0,02% allo 0,33%; questo dato è stato ricavato da studi di revisione di registri nazionali o istituzionali su pazienti pediatrici con trauma e riguarda soprattutto bambini ricoverati. Mancano invece studi pro- Per corrispondenza: Maddalena Marchesi e-mail: [email protected] 220 scenari scenari spettici in cui sia stato effettuato uno screening per VTE; inoltre non sono disponibili dati epidemiologici sui pazienti con trauma trattati ambulatoriamente [4]. Rarissimi i case report di TVP in età pediatrica dopo fratture comuni [6-7]. Una recente revisione della Cochrane sulla tromboprofilassi per trauma maggiore (box 2) su pazienti di ogni età, raccomanda di effettuare profilassi per VTE [8]. Recentemente sono stati identificati i fattori di rischio per VTE in pazienti pediatrici ospedalizzati con trauma (box 3) [4]. I fattori di rischio principali sono l’età, la severità e il tipo di trauma, la presenza di catetere venoso centrale (CVC). L’età risulta essere un fattore molto importante. Gli adolescenti risultano più a rischio di VTE dopo un trauma rispetto ai bambini più piccoli. In un’ampia casistica di 135.000 pazienti, avere un’età > 14 anni al momento del trauma espone a un rischio significativamente maggiore di VTE (OR 2,34%; IC 95%: 1,95-2,80) e, tra i minori di 16 anni, il gruppo 10-15 anni ha un rischio relativo di VTE di cinque volte superiore (IC 95%: 1,5-16,7) rispetto ai minori di 10 anni; in un’altra casistica su 402.329 persone di età inferiore a 21 anni con trauma, si calcola che, anche considerando la gravità del trauma, rispetto all’età, i pazienti di 13-15 anni presentano un OR corretto di 1,96 (IC 95%: 1,53-2,25; p<0,01) mentre quelli di 16-21 anni un OR corretto di 3,77 (IC 95%: 3,00-4,75; p<0,01) rispetto ai bambini di età inferiore a 13 anni [9-10]. Purtroppo nessuno di questi studi valuta lo stato puberale, elemento considerato in altri studi [11]. Nel protocollo di Risk Assessment per VTE del Children’s Hospital di Philadelphia l’età di 14 anni è stata scelta come cut-off: i minori di 14 anni ospedalizzati vengono considerati a basso rischio di VTE e ricevono profilassi a discrezione del clinico solo in presenza di condizioni ad alto rischio di VTE. Sopra i 14 anni invece tutti i pazienti ospedalizzati vengono valutati per il rischio di VTE in base al quale viene effettuata o meno la profilassi. Indipendentemente dall’età, minore o maggiore di 14 anni, i pazienti pediatrici ambulatoriali senza altri fattori di rischio vengono considerati a basso rischio di VTE [12]. Per quanto riguarda la severità del trauma si rimanda alla tabella 1. Quaderni acp 2014; 21(5) BOX 1: INJURY SEVERITY SCORE (ISS) L’ISS è un sistema di punteggio anatomico che permette di classificare i pazienti con traumi multipli. Nel calcolo dell’ISS il corpo viene diviso in sei regioni (testa e collo, faccia, torace, addome, estremità e cingolo pelvico, area esterna). Per calcolare il punteggio ISS, è necessario assegnare un codice di gravità da 1 a 6 (dove 1 è lesione minore e 6 corrisponde a lesione non curabile), prendere il codice di gravità più alto in ciascuna delle tre regioni corporee più gravemente colpite, elevarlo al quadrato e sommare i tre numeri ottenuti (ISS = A2 + B2 + C2 dove A, B, C sono i punteggi delle tre regioni corporee più lesionate). I punteggi ISS variano da 1 a 75. Se uno dei tre punteggi è un 6, il punteggio totale viene automaticamente impostato a 75. Il punteggio ISS non è utile come strumento di triage ma serve perché correla linearmente con la mortalità, la morbilità, la durata della degenza ospedaliera e altre variabili dopo un trauma. I traumi si classificano in base all’ISS in minori (ISS < 9), moderati (ISS 9-15), severi (ISS > 25), critici (ISS > 25). BOX 2: TRAUMA MAGGIORE – Trauma chiuso o penetrante con coinvolgimento di due o più organi e segni vitali instabili e/o – persona con un punteggio ISS >9 (vedi box 3 sull’ISS) e/o – persona coinvolta in un evento a ‘elevata energia’ a rischio di trauma severo anche se al momento della prima valutazione i parametri vitali sono stabili BOX 3: FATTORI DI RISCHIO PER VTE IN PAZIENTI PEDIATRICI OSPEDALIZZATI CON TRAUMA (DA VOCE BIBLIOGRAFICA 4, MODIFICATO) 1. Età ≥14 anni 2. Severità del trauma ISS > 9 3. Tipo di trauma 4. Presenza di catetere venoso centrale 5. Obesità (definita come BMI > 95° pct) 6. Altri fattori di rischio generali per VTE: – condizioni congenite e acquisite di trombofilia: deficit di antitrombina o di proteina C o S, mutazione del fattore V di Leiden (F5 R506Q), mutazione del fattore II G20210A, iperomocisteinemia, aumento dei livelli di lipoproteina a, livelli elevati di fattore VIII, presenza di autoanticorpi anti-fosfolipidi – sepsi, immobilità, neoplasia maligna, chirurgia – malattie cardiache congenite e acquisite (es. quelle con ipertensione polmonare primitiva o con shunt cavo-polmonare bilaterale, aneurismi delle coronarie dopo malattia di Kawasaki ecc.) – malattie renali (insufficienza renale terminale, sindrome nefrosica) – malformazioni cerebrali (idrocefalo, spina bifida) – anemia falciforme, malattia infiammatoria intestinale, fibrosi cistica – nutrizione parenterale a lungo termine – terapia ormonale sostitutiva e alcuni tipi di chemioterapia (es. con L-asparaginasi) TABELLA 1: RISCHIO RELATIVO DI VTE NEL PAZIENTE PEDIATRICO CON TRAUMA (DA VOCE BIBLIOGRAFICA 15) ISS Trauma critico (ISS > 25) Trauma severo (ISS 16-25) Trauma moderato (ISS 9-15) Rischio relativo di VTE verso ISS < 9 (trauma minore) OR 3,53 (IC 95%: 2,01-6,22) OR 2,49 (IC 95%: 1,56-3,96) OR 2,13 (IC 95%: 1,49-3,05) 221 scenari Rispetto al tipo di trauma, i traumi vascolari maggiori, quello cranico e alla colonna vertebrale severi, i traumi toracici e addominali, le fratture pelviche e degli arti inferiori sono associati a un maggior rischio di VTE [13-15]. La pre-esistenza di un CVC o la necessità di applicare un CVC dopo il trauma è un fattore di rischio cruciale per lo sviluppo di VTE nei bambini. In alcune casistiche la presenza attuale o pregressa di un CVC risulta essere il singolo fattore di rischio più importante per lo sviluppo di VTE, in modo indipendente dalla gravità del trauma stesso [13-15]. Maggiore è il numero di CVC presenti maggiore è il rischio di VTE (aumento di OR di 7,9 volte per ogni CVC presente) [16]. Numerose sono le condizioni congenite o acquisite che aumentano il rischio di VTE in età pediatrica indipendentemente dal trauma (box 3, punto 6) [2,17-20]; anche l’obesità sembrerebbe promuovere lo sviluppo di VTE dopo un trauma; tuttavia l’inadeguatezza metodologica dell’unico studio presente (in cui non è stato possibile calcolare il BMI nel 73% dei pazienti) rende attualmente questo dato non suffragato da prove [4]. Per quanto riguarda lo stato trombofilico i dati presenti in letteratura indicano che gli adulti e i bambini con due o più fattori trombofilici ereditari presentano un rischio aumentato di VTE [21]. La prevalenza riportata di difetti trombofilici in bambini con VTE è molto variabile: 10-78% in base alla popolazione analizzata, all’ampiezza della casistica, alla definizione di trombosi e al tipo di indagini effettuate. Il contributo di ciascun difetto identificato (box 3, punto 6) all’eziologia della trombosi in età pediatrica rimane incerto. In età pediatrica non ci sono evidenze per giustificare lo screening di bambini con anamnesi familiare positiva per difetti trombofilici, né per farlo dopo un primo episodio di VTE, eccetto in caso di VTE idiopatica [17]. Una storia familiare di VTE in età inferiore a 50 anni viene considerata dal Consensus Statement Italiano del 2013 un fattore di rischio per VTE da valutare in caso di chirurgia ortopedica maggiore nei pazienti in età pediatrica puberi per l’utilizzo della profilassi, mentre questo non vale per i bambini prepuberi, nei quali la 222 Quaderni acp 2014; 21(5) TABELLA 2: PROTOCOLLO PER LA PROFILASSI DI VTE IN PAZIENTI CRITICI DOPO UN TRAUMA (DA VOCE BIBLIOGRAFICA 12, MODIFICATO) Per i pazienti ad alto rischio di VTE1 e a basso rischio di sanguinamento2 Terapia anticoagulante con eparina a basso peso molecolare a 0,5 mg/kg per via sottocutanea fino alla dimissione ospedaliera Per i pazienti ad alto rischio di VTE1 e ad alto rischio di sanguinamento3 Applicare dispositivi di compressione sequenziale Al settimo giorno di degenza in ICU effettuare ecografia bilaterale degli arti inferiori e di quelli superiori se è presente un CVC Per i pazienti a basso rischio di VTE4 Non sono indicati anticoagulanti o altri interventi clinici Fattori di rischio per VTE – immobilità prevista per più di cinque giorni – Glasgow Coma Scale < 9 – presenza di CVC – trauma al midollo spinale – frattura complessa degli arti inferiori – frattura pelvica che richiede un’operazione – uso di isotropi – rianimazione cardio-polmonare – terapia con estrogeni – malattia infiammatoria cronica – precedenti episodi di VTE – stato trombofilico noto – tumore maligno in atto 1 2 3 4 Fattori di rischio per sanguinamento – emorragia intracranica – trauma agli organi solidi – intervento chirurgico programmato o procedura invasiva programmata nelle successive 24 ore – allergia all’eparina – alto rischio di sanguinamento severo – insufficienza renale Pazienti ad alto rischio di VTE: pazienti di età superiore ai 13 anni o pazienti minori di 13 anni che presentano quattro o più fattori di rischio. Pazienti a basso rischio di sanguinamento: quando sono assenti i fattori di rischio per sanguinamento. Pazienti ad alto rischio di sanguinamento: quando sono presenti uno o più di un fattore di rischio per sanguinamento. Pazienti a basso rischio di VTE: pazienti con meno di 13 anni e con tre o meno fattori di rischio per VTE. profilassi per VTE è da valutarsi solo in situazioni cliniche specifiche [18]. La domanda Nei bambini con trauma che comporta immobilizzazione di uno/entrambi gli arti inferiori trattati ambulatoriamente [POPOLAZIONE] la profilassi per trombosi venosa profonda con eparina a basso peso molecolare [INTERVENTO] rispetto a nessuna profilassi [CONFRONTO] è necessaria [OUTCOME]? La strategia di ricerca Su PubMed viene eseguita la ricerca con la seguente stringa (trauma OR fracture): AND child AND venous thromboembolism prophylaxis AND “ambulatory care” [MESH], con limite: articoli degli ultimi dieci anni. Questa ricerca non ha prodotto alcun risultato. Viene allora am- pliato l’ambito eliminando “ambulatory care” [MESH]. Da questa ricerca emergono 29 articoli, di cui uno nuovo di interesse [22], oltre ad alcuni già citati nel background [4,6,10,15-17,19]. I risultati a. Indicazioni alla profilassi per VTE dopo un trauma nei pazienti pediatrici ospedalizzati Il protocollo del Children’s Hospital of Wisconsin, USA, per la profilassi di VTE in pazienti critici dopo un trauma è riassunto nella tabella 2. L’applicazione di questa linea guida non validata, in Terapia Intensiva (ICU), ha permesso di ridurre del 65%, ossia dal 5,2% all’1,8%, l’incidenza di VTE senza aumentare il rischio di sanguinamento: nessun paziente sottoposto a profilassi con LMWH ha presentato emorragia [22]. scenari b. Indicazioni alla profilassi per VTE dopo un trauma nei pazienti pediatrici ambulatoriali Per quanto riguarda i pazienti pediatrici ambulatoriali non esistono indicazioni che definiscono a chi, quando e con che modalità effettuare la profilassi primaria con LMWH. Conclusioni Negli ultimi anni sono aumentate, in età pediatrica, le conoscenze in merito al problema del tromboembolismo venoso e sono stati identificati i fattori di rischio per VTE dopo un trauma. Alla luce delle attuali evidenze per il paziente critico, ricoverato in ospedale, si possono dare indicazioni sulla profilassi per VTE, mentre non emergono chiare indicazioni per i bambini con trauma, ospedalizzati ma non critici, per cui dev’essere effettuata una valutazione caso per caso. A livello ambulatoriale le attuali evidenze suggeriscono che lo scenario valido in età adulta non è replicabile in età pediatrica in assenza di specifici fattori di rischio. La valutazione del rischio per VTE deve guidare la scelta terapeutica nel singolo paziente. È bene che il pediatra di famiglia conosca i fattori di rischio per VTE e di fronte a un bambino con multipli fattori di rischio si ponga la domanda sulla necessità della profilassi. Infine, è importante considerare la possibilità, rara, che anche in età pediatrica un trauma possa complicarsi con una TVP. Giulia presenta due fattori di rischio per lo sviluppo di VTE: lo stato puberale anche se ha meno di 13 anni e l’immobilizzazione dell’arto inferiore destro; l’episodio di TVP nel nonno, poiché si è verificato a 70 anni, non è da considerare come fattore di rischio familiare. Alla luce delle attuali scarse evidenze scientifiche, i genitori vengono informati sulla mancanza di dati circa la profilas- Quaderni acp 2014; 21(5) si per VTE per Giulia e, dopo aver discusso con loro i rischi del trattamento (emorragia) e i possibili benefici (protezione VTE), si decide di non fare la profilassi. u Bibliografia [1] Key NS. Bench to bedside: new developments in our understanding of the pathophysiology of thrombosis. J Thromb Thrombolysis 2013;35(3): 342-5. doi: 10.1007/s11239-013-0898-8. [2] Albisetti M, Chan AKC. Diagnosis and treatment of venous thrombosis and thromboembolism in infants and children, 2013. www.uptodate.com. [3] Bidlingmaier C, Kenet G, Kurnik K, et al. Safety and efficacy of low molecular weight heparins in children: a systematic review of the literature and meta-analysis of single-arm studies. Semin Thromb Hemost 2011;37(7):814-25. doi: 10.1055/s -0031-1297173. [4] Thompson AJ, McSwain SD, Webb SA, et al. 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Gli Autori della revisione hanno rivisto tutta la letteratura sull’argomento dal 2000 in poi, con l’obiettivo di comparare le varie formule; hanno anche cercato di capire cosa producesse, in termini di nutrizione e salute, l’aggiunta o la modifica di proteine, prebiotici, probiotici, acidi grassi di vario tipo, colesterolo, ferro, iodio, selenio ecc. Risultato: nulla. Non esiste alcuna documentazione scientifica che attesti che formule addizionate con questi ingredienti facciano meglio di quelle non addizionate. Hanno poi fatto lo stesso lavoro per comparare i latti di formula con il latte materno, definito come allattamento esclusivo o quasi (almeno 90% di latte materno) per almeno quattro mesi. Risultato: il latte materno fa sempre meglio, indipendentemente dagli ingredienti più o meno numerosi che le ditte aggiungono alle loro formule. Infine, hanno cercato in letteratura articoli su problemi di denutrizione infantile (generica o specifica per qualche micronutriente) in Europa. Risultato: non esiste da alcuna parte in Europa la necessità di aggiungere qualcosa ai latti formulati per dare risposta a presunti problemi di denutrizione. Ripetiamo cose già note. Quello che forse non sapevamo è quanto bassa sia la qualità della ricerca in questo campo, viste le percentuali di articoli esclusi dai ricercatori olandesi. Ma forse nemmeno questa è una sorpresa: la ricerca sui latti di formula è infatti finanziata al 100% dall’industria. Viene il sospetto che venga effettuata, volutamente, ricerca di bassa qualità, per usare a scopo di marketing risultati distorti. Del resto lo stesso succede con la ricerca sui farmaci finanziata dalle multinazionali del farmaco, come spiega bene Ben Goldacre nel suo libro Bad 224 Pharma, recentemente pubblicato anche in Italia con il titolo Effetti Collaterali. L’Antitrust sanziona tre ditte per immagini su latte in polvere e biberon L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deciso di sanzionare Mondadori, Unifarm e Philips per una pubblicità occulta inserita in un servizio sulla maternità di Belen Rodriguez, pubblicato dal settimanale Chi. Le sanzioni decise sono pari a 70mila euro ciascuno per Mondadori e Unifarm e a 50mila euro per Philips. Nel servizio, intitolato “Belen con il suo Santiago” erano riportate, ingrandite, riquadrate in rosso e isolate dal contesto, le immagini di un latte per neonati, Neolatte1, e di un biberon della Avent. Nelle didascalie che accompagnavano le foto venivano specificati prezzi e proprietà dei due prodotti: in particolare il latte artificiale veniva indicato come “un tipo di latte in polvere per lattanti con Bifidus naturali, che favoriscono una sana e buona digestione” mentre il biberon “in PES (Polietersulfone) per neonati, riduce al minimo l’aria nella pancia evitando coliche e irritabilità”. Il latte Neolatte1 è prodotto da un’azienda tedesca ma distribuito nel canale delle farmacie da Unifarm. La società olandese Philips produce anche prodotti per le mamme e i bambini, fra i quali il biberon Philips Avent. Secondo l’Antitrust, pur in assenza di una prova diretta dell’accordo, è stato possibile desumere la natura pubblicitaria del messaggio da molteplici indizi precisi e concordanti quali: la collocazione delle foto, le informazioni sui prodotti, la differenza tra il servizio in bozza (che non conteneva riferimenti specifici a prodotti individuati e alle loro caratteristiche) e quello poi pubblicato. Nell’impaginazione mancava inoltre qualsiasi accorgimento o indicazione che rendessero evidente ai consumatori la natura promozionale delle immagini. L’OMS sbaglia direzione L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) cambia rotta, ma talvolta sbaglia direzione, come quando si apre alla col- laborazione di ONG, filantropi e industrie. Le implicazioni di questi rapporti sono infatti molto differenti: probabilmente pericolose nel caso di una stretta relazione con industrie e singoli filantropi, potenzialmente virtuose nel caso delle ONG. È quanto sostengono nelle pagine di BMJ Judith Richter, ricercatrice freelance dell’Università di Zurigo, e Lida Lhotska, coordinatrice per la Regione europea di IBFAN, l’ONG che controlla che le industrie che producono alimenti per l’infanzia rispettino le leggi che ne regolamentano il marketing. I latti di formula, similmente alle sigarette, non possono essere pubblicizzati, essendo in competizione con il latte materno – riconosciuto come ottimale per tutti i bambini del mondo, sia quello ricco che quello povero – ma questa norma viene spesso violata dall’industria. Proprio rifacendosi all’esperienza di IBFAN, Lida Lhotska ricorda che le industrie non hanno nella loro mission la salvaguardia della salute, ma il raggiungimento del profitto, anche quando questo mette a repentaglio la vita di donne e bambini e in violazione della legge. Paradossi nella sponsorizzazione di manifestazioni sportive Un ricercatore indipendente dell’Università di San Paolo del Brasile scrive a The Lancet denunciando il fatto che chi ha la maggiore responsabilità nei riguardi dell’obesità infantile nel mondo è anche sponsor di manifestazioni sportive. Le bevande zuccherate sono sotto accusa come una delle cause più importanti di obesità incontrollata, soprattutto a carico dei bambini, anche nelle nazioni in via di sviluppo come la Cina, l’India e il Brasile. Le multinazionali del cibo si affannano invece a sostenere, con campagne miliardarie, che l’obesità è causata dalla mancanza di attività fisica. Stante questa controversia è singolare che il primo Congresso internazionale su Attività fisica e Salute pubblica, tenutosi a Rio de Janeiro in aprile, sia stato sponsorizzato proprio dalla Coca-Cola. Come è singolare che fra gli sponsor dei mondiali di info Quaderni acp 2014; 21(5) salute calcio 2014 e delle Olimpiadi 2016 ci siano Coca-Cola e McDonald’s, con il beneplacito delle organizzazioni sportive internazionali. Non esiste una chiara contraddizione se multinazionali del cibo e bevande offrono il loro sostegno allo sport e all’attività fisica? (Lancet 2014;383:2041). Medicina narrativa a Oristano La medicina narrativa entra a pieno titolo nella pratica clinica, tanto che la Asl di Oristano, tra le prime in Italia, ha deciso di inserirla nella propria programmazione triennale. «È ormai riconosciuto il valore curativo della comunicazione tra medici e pazienti – spiega il Direttore Generale della Asl oristanese, Mariano Meloni, che ha creduto nel progetto tanto da inserirlo nelle azioni strategiche su cui l’azienda punta per migliorare la propria offerta – perché ascoltare e rimettere al centro la persona malata significa arrivare a diagnosi più corrette, più precise e più rapide, instaurare con i pazienti una alleanza terapeutica che permette di aderire con maggiore convinzione alle cure proposte e renderle quindi più efficaci». Il percorso di medicina narrativa della Asl di Oristano coinvolge cento operatori sanitari, fra medici, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, assistenti sociali, provenienti da cinque Unità Operative (UO) impegnate nella diagnosi e nel trattamento delle malattie croniche. Interessate al progetto sono Diabetologia, Oncologia, Ematologia, Nefrologia e Dialisi, Centri di Salute Mentale: dopo un periodo di formazione, gli operatori e i pazienti dei cinque servizi racconteranno, a campione e su base volontaria, la malattia e il rapporto fra sanitario e paziente attraverso uno strumento narrativo che funzionerà come una sorta di diario personale. Le storie, cinque per ogni UO, saranno poi analizzate con l’obiettivo di far emergere criticità e suggerimenti che possano servire a migliorare la pratica clinica. «Il progetto di medicina narrativa avviato dall’Asl 5 ha due peculiarità all’interno del panorama italiano – spiega Eliana Zuin, dell’UO di Formazione, che ha curato il percorso. La prima è che nessun’altra azienda sanitaria ha istituzionalizzato questa pratica come invece ha fatto la nostra, che l’ha inserita nella programmazione aziendale. Inoltre noi coinvolgiamo non solo i pazienti, ma anche i sanitari (medici, infermieri e altre figure professionali che hanno un ruolo terapeutico), a cui chiediamo di raccontare il proprio rapporto con i malati e con i loro familiari. L’obiettivo è quello di far sì che anche loro si interroghino sul proprio operato e siano stimolati a fare meglio». Ma il progetto dell’Asl oristanese è pioniere anche per un altro motivo: «Ciò che è emerso dalla conferenza internazionale che si è tenuta a Roma dall’11 al 13 giugno scorsi presso l’Istituto Superiore di Sanità proprio sul tema della medicina narrativa – rileva Eliana Zuin – è che occorrono delle linee guida comuni che orientino le aziende sanitarie nell’applicazione della medicina narrativa e nella raccolta delle storie. Attualmente un panel di esperti internazionali è al lavoro per crearle, ma la nostra azienda sanitaria si è già data queste regole, perché a monte c’è già stato un lavoro di formazione, di studio e di elaborazione di uno strumento narrativo che orienterà sanitari e pazienti nel racconto delle proprie emozioni e della propria storia». Nasce la “Rete Sostenibilità e Salute” Ventuno organizzazioni no profit italiane hanno formato una Rete di coordinamento per affermare, tramite la sottoscrizione della “Carta di Bologna”, un modello differente di salute e sanità, “realmente” sostenibile. Il modello della crescita economica senza limiti – afferma Jean-Louis Aillon, portavoce della Rete – ha i giorni contati, non è più sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale e non è in grado di assicurare la tutela della salute dei cittadini, in quanto questo processo va a minare la qualità dell’ambiente e quei fattori socio-culturali da cui la salute dipende, arrivando oggigiorno a minacciare gli equilibri stessi della vita sul pianeta. I cambiamenti climatici comportano rischi concreti per la salute umana, afferma Samuel Myers della “Harvard Medical School”, e i loro effetti indiretti metteranno a rischio la qualità della vita di centinaia di milioni di persone, generando costi enormi per i Sistemi Sanitari pubblici. Dall’altra parte il New England Journal of Medicine indica con chiarezza il percorso da intraprendere: «Perché le popolazioni vivano in maniera sostenibile e in buona salute nel lungo periodo, il settore sanitario deve rimodellare il modo in cui le società umane pianificano, costruiscono, spostano, producono, consumano, condividono e generano energia». Recenti studi confermano che su 2500 prestazioni sanitarie supportate da buone evidenze scientifiche solo il 46% è sicuramente utile e il 4% è giudicato dannoso, e che chi vive in regioni ad alta intensità prescrittiva sperimenta livelli di sopravvivenza peggiori di chi vive in regioni a bassa intensità prescrittiva. Occorrono quindi, secondo la “Rete Sostenibilità e Salute”, una cultura e una società alternative, non basate esclusivamente sul paradigma economico del profitto e dell’efficienza fine a se stessa, e in grado di superare le disuguaglianze e favorire l’affermazione del diritto alla salute di tutti i cittadini e cittadine. Oggi più che mai, infatti, curare significa prendersi cura del pianeta su cui viviamo. Su questi presupposti è stata recentemente sottoscritta la “Carta di Bologna per la Sostenibilità e la Salute”, che formalizza la nascita della “Rete Sostenibilità e Salute”. «Nell’ottica della sostenibilità – spiega Aillon – i modelli di salute, sanità e cura devono porre al centro la persona, privilegiando l’attenzione al paziente. Integrazione tra saperi, interazione dei professionisti e delle organizzazioni, e importanza delle sinergie con le medicine tradizionali e non convenzionali, sono parole chiave importantissime. È indispensabile che il Servizio Sanitario Nazionale, basato sulla prevenzione e sull’assistenza primaria, resti una risorsa per tutti, senza diseguaglianze di accesso, indipendente dalle influenze del mercato, sulla base di un sistema che valuti i risultati in termini di “produzione di salute” e non solo di numero di prestazioni sanitarie erogate» (www.sostenibilitaesalute.org). 225 Quaderni acp 2014; 21(5): 226-227 Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano La famiglia custode del “segreto” Emmanuel Carrère La settimana bianca Adelphi, 2014 pp. 139, euro 16 “Tutte le famiglie felici si somigliano: ogni famiglia infelice lo è a modo proprio” è una citazione tolstojana riproposta ai lettori d’oggi da Muriel Barbery ne L’eleganza del riccio e che bene si accompagna a quello che sovente ci ripete una psichiatra infantile che frequento: in ogni famiglia nella quale c’è un segreto, un non detto, spesso sono proprio i bambini che, inconsapevolmente, se ne fanno carico, ne portano il peso e ne pagano le conseguenze. L’analisi delle difficoltà, del disagio, dei sintomi anche somatici che un bambino offre alla nostra attenzione, le intuizioni che talora emergono dalla conoscenza appena più approfondita delle dinamiche familiari possono aprire uno spiraglio sul “segreto” custodito in quella famiglia. Sapere afferrare questo lampo di luce sarebbe già tanto, andare oltre richiede molto, molto mestiere. Il lettore che avesse questo mestiere potrebbe cogliere nelle paure, nelle angosce, e nei pensieri ossessivi di Nicolas l’espressione di qualcosa che è sopra di lui, che lo avvolge e lo opprime senza che lui abbia alcuna percezione di quale forma abbia questo qualcosa. La settimana bianca, che tra molte vicissitudini, trascorrerà in montagna con la sua classe, darà al lettore – e, c’è da augurarsi, anche a Nicolas – la chiave interpretativa di tutto. Non sappiamo quale uso farà di questa chiave perché il finale è per così dire, aperto. Intuiamo che, dopo la settimana bianca, la vita futura di Nicolas potrà dipanarsi lungo due sentieri del tutto opposti: quello della conoscenza, della comprensione profonda e del possibile riscatto per se stesso e per la storia della propria famiglia, oppure quello della caduta in un’oscurità 226 senza fine dalla quale – fantasia del tutto personale e probabilmente impropria – potrebbe emergere un nuovo Hannibal Lecter. Enrico Valletta La ricerca di un linguaggio tra mondi diversi Nadine Gordimer L’aggancio Universale Economica Feltrinelli, 2003 pp. 270, euro 8 Con la prospettiva di alcune ore eccezionalmente vuote da potere riempire con la lettura, di corsa prima di partire, ho deciso di comperare una copia di un libro già letto, opera di una scrittrice che mi piace molto. L’aggancio il titolo italiano, strana traduzione dell’originale Pickup. “Ecco: avete visto. Ho visto. Quel gesto. Una donna in uno dei tanti ingorghi che sono all’ordine del giorno in città, in qualsiasi città. Non ricorderete l’episodio, né saprete chi è la ragazza. Io sì, invece, perché a partire da quell’immagine scoprirò – nella forma del racconto – le conseguenze di quella banale disavventura della strada; dove l’avrebbero portata e come. Le sue mani alzate, aperte”. Inizia così la storia della relazione tra una ragazza bianca e privilegiata e un uomo clandestino in un garage di Johannesburg. Dapprima solo un’attrazione sessuale, perché il linguaggio dei due corpi è il solo che hanno in comune due persone così differenti per nascita, tradizioni, educazione e cultura. Ma quando Abdu viene rintracciato e, in qualità di immigrato illegale, gli viene notificata l’espulsione, Julie dovrà fare i conti con la sua vita, i suoi sentimenti e il valore della sua libertà. Decide di seguirlo nel suo paese poverissimo e di andare a vivere con lui e la sua famiglia musulmana. E questa decisione sarà l’inizio di un percorso, attraverso la polvere, il deserto, l’esclusione e l’accettazione. Un romanzo in cui la Gordimer esplora sì l’amore tra persone di culture diverse, ma anche le radici e le ragioni dell’amore in sé; in cui indaga sulle difficoltà intrinseche in questo incontro, ma anche sulla difficoltà di accettare un uomo o una donna come altro da sé; sul dramma della mancanza di certezze di chi è costretto alla migrazione e non ha documenti. Ho scritto la recensione di questo libro proprio nel giorno in cui è arrivata la notizia della morte di Nadine Gordimer, che ha vissuto per scrivere e per rendere il Sud Africa libero, e che ha ricevuto nel 1991 il Nobel per la sua opera che i giurati definirono “di grandissimo beneficio all’umanità”. A noi resta il piacere di leggere tutti i suoi libri. Maria Francesca Siracusano Comportamenti umani ed evoluzione Dario Maestripieri A che gioco giochiamo noi primati. Evoluzione ed economia delle relazioni sociali umane Raffaello Cortina Editore, 2014 pp. 346, euro 26 Più di trecento pagine in cui si confronta l’uomo con gli altri primati: è giusto? In realtà noi non discendiamo dalle scimmie, questo lo sanno tutti, e anche scimpanzé, orango, gorilla, bonobo, babbuino, gibbone, macaco (tutte scimmie antropomorfe) in coro proclamano che non discendono da noi. Abbiamo semplicemente dei progenitori in comune. Poi, milioni di anni fa, ognuno per la sua strada. Perché allora gli psicologi evoluzionisti offendono l’onorabilità della nostra specie con queste irritanti comparazioni? Tra i tanti motivi, tutti spiegati in questo libro, vi ricordo l’inerzia filogenetica, una tendenza biologica a non levarci di dosso le caratteristiche dell’antenato che ci ha preceduto. E, purtroppo (il purtroppo è rivolto ai puristi della specie Homo sapiens), sembra che siano presenti continuità filogenetiche per un’ampia gamma di comportamenti sociali complessi. libri Quaderni acp 2014; 21(5) buona Ecco perché molti psicologi studiano i comportamenti sociali, le relazioni amorose, il sistema di attaccamento madrefiglio, il legame di coppia nelle diverse specie di primati. La nostra socialità è modellata dalla selezione naturale e da quella sessuale e, per spiegare molti sistemi di comportamento (umano e animale), gli psicologi hanno imparato a usare modelli matematici esportati dalle scienze economiche, come la Teoria dei Giochi che spiega come il nostro comportamento razionale sia legato a un’analisi costo/beneficio… non sempre consapevole. Ho appena scritto “razionale” e ho sbagliato: i biologi evoluzionisti non presumono l’esistenza di alcun pensiero razionale conscio da parte degli animali, umani compresi. E qui l’agitazione del lettore è alta: come è possibile che il frutto del nostro libero arbitrio finisca per somigliare a ciò che le scimmie hanno fatto nella giungla per milioni di anni? Lascio la risposta alle pagine di questo bel libro scritto da uno scienziato italiano emigrato in USA; in un capitolo del libro dal titolo “Siamo tutti mafiosi” racconta la sua vicenda italiana che ha un sapore, molto amaro, per nulla biologico ma di consuetudine… o forse è la stessa cosa? Costantino Panza Non le solite pappe AA.VV. Io mangio come voi. Come iniziare una sana alimentazione ai 6 mesi e proseguire fino ai 99 anni Terre di Mezzo Editore, 2014 pp. 76, euro 11 L’idea del libro nasce da un lungo lavoro svolto insieme a 400 mamme che hanno descritto l’alimentazione del proprio piccolo e le difficoltà incontrate nell’affrontare il delicato momento dell’introduzione dei cibi diversi dal latte. Quando i bimbi assaggiano per la prima volta omogeneizzati e pappine, non sempre lo fanno con piacere. Perché non iniziare subito a proporre loro cibi sani, semplici da preparare, ma allo stesso tempo gustosi e adatti a tutta la famiglia? Le ricette di questo libro, scritte da studiosi e nutrizionisti che hanno raccolto l’esperienza di tanti genitori, permettono di condividere da subito con i propri figli l’amore per la tavola, e preparare pasti salutari, bilanciati e stuzzicanti. Dalla colazione ai piatti unici, passando per primi, secondi e contorni, 63 ricette con l’indicazione chiara dei gruppi alimentari principali che contengono, e di come adattarle anche ai piccolissimi. In ogni ricetta vi sono dei simboli colorati che identificano sia i principali gruppi alimentari (cereali, carne, pesce, latte, uova, legumi, verdura, frutta, frutta secca, olio e burro) sia le possibili modalità di adattamento e degustazione per i più piccoli. I colori dei simboli aiutano a capire quanti gruppi alimentari si stanno assumendo in quel pasto, non la loro quantità o importanza, Gli Autori sono un gruppo di studiosi, nutrizionisti, pediatri, biologi, epidemiologi dell’Unità per la Ricerca sui servizi sanitari dell’Ospedale materno-infantile “Burlo Garofolo” di Trieste, a cui si sono aggiunti un artista cuoco e l’esperienza di tantissime mamme. Un consiglio: la ricetta del baccalà alla vicentina di nonna Rita! Sergio Conti Nibali Tra giustizia e compassione Giorgio Fontana Morte di un uomo felice Sellerio editore Palermo, 2014 pp. 280, euro 14 Giorgio Fontana è un giovane scrittore nato nel 1981. Questo non è il suo primo romanzo. Siamo nella Milano del 1981, non a caso l’anno di nascita del narratore e anno feroce e tragico per le stragi terroristiche. Il protagonista della storia è un magistrato, Giacomo Colnaghi, in prima linea « Penso di aver iniziato a scrivere fin da bambina, quando, nei tragitti lunghi o brevi sul sedile posteriore dell’automobile dei miei genitori, in silenzio raccontavo a me stessa storie, dialoghi, impressioni. Oggi rivivo spesso questo tipo di esperienza nei viaggi aerei di una certa durata; tra un qui e un lì, le necessità di interagire con gli altri, conduco una vita interiore, l’interiorità dell’immaginazione individuale». Nadine Gordimer, Vivere con uno scrittore nelle indagini sul terrorismo. Colnaghi coordina un piccolo gruppo di inquirenti e indaga sulle attività di una banda armata responsabile dell’omicidio di un uomo politico. La storia si snoda in parallelo attraverso la vita del magistrato, fatta di solitudine e di sguardi attenti verso un quotidiano difficile ma anche di piccole felicità, e la Milano di allora, scenario di stragi e di grandi inquietudini. Il dubbio accompagna costantemente il suo lavoro, tanto da provare perfino empatia, in alcune occasioni, nei confronti dei terroristi e delle persone che cerca disperatamente di arrestare. Il suo metodo investigativo è fatto non solo di prove ma anche di voglia di capire i meccanismi attraverso i quali una persona possa arrivare a dare una svolta così dura e tragica alla propria vita, e l’origine delle ferite così profonde di una società. La sua è la continua ricerca di un compromesso tra giustizia e compassione. Colnaghi è una persona molto religiosa, appassionatamente cattolica, e la sua religiosità, spesso tragica, lo accompagna sempre nel lavoro. Sono poi le sue umili origini a emergere spesso e a rafforzare in lui la convinzione che in una società aperta, nonostante le vicende del periodo, sia possibile riuscire a perseguire degli obiettivi. La figura di un uomo solo, con un padre che non ha conosciuto, che lo ha lasciato piccolissimo morendo durante un’azione di lotta da partigiano, un padre che ha amato e le cui gesta eroiche hanno in qualche modo per lui giustificato l’abbandono subìto. La bellezza di questo romanzo sta nella riflessione, che stimola nel lettore, sul senso profondo della giustizia e nella narrazione pulita, incisiva e delicata. Colnaghi appare da subito come vittima destinata e il senso della morte è presente durante tutto lo svolgimento del racconto; tuttavia esso è accompagnato spesso da una felicità non giustificata ma che traspare e appare in maniera spontanea e innocente. Belli i ritratti dei vari personaggi che accompagnano il magistrato, dagli amici ai colleghi di lavoro, alle persone, come il ferroviere, incontrate casualmente. Un romanzo da leggere e da consigliare. Stefania Manetti 227 Quaderni acp 2014; 21(5): 228 Rubrica a cura di Costantino Panza In USA obbligatorio informare pubblicamente sull’elargizione di denaro a ogni medico da parte dell’industria. E in Italia? La relazione economica tra medico e industrie farmaceutiche o di apparecchiature sanitarie è altamente dibattuta; è stimato che il 71% dei medici nel 2009 abbia preso compensi o omaggi dalle industrie. Negli Stati Uniti è stato recentemente approvato il Sunshine Act che obbliga a informare pubblicamente sui rapporti finanziari che intercorrono tra singolo medico e industria. Nello Stato del Massachusetts, il Pharmaceutical and Medical Device Manufacturer Code of Conduct richiede già dal 2009 di registrare in un apposito database elargizioni dell’industria verso i medici di valore superiore ai 50 $. Dai dati raccolti da luglio 2009 a dicembre 2011 si rileva una spesa totale di oltre 76 milioni di dollari; i medici interessati ai compensi erano 6530 nel 2010, e 5921 nel 2011. I compensi sono stati suddivisi in servizi in bona fide, cibo, finanziamenti per formazione o training, studi di marketing, donazioni, conferenze, programmi di educazione medica. La più comune forma di pagamento è risultata essere il cibo (14.251 pagamenti per un totale di 2,4 milioni $); mentre i compensi per servizi in bona fide sono stati quelli a più alto valore (8432 pagamenti per un totale di 67 milioni $). La media dei pagamenti verso i professionisti è stata di 4637 $ nel 2010 e 4944 $ nel 2011: i meno pagati sono stati i medici di medicina generale e i pediatri di famiglia; gli ortopedici sono stati i più pagati, con oltre 18.000 $ in trenta mesi per professionista. Non sono stati conteggiati omaggi di costo inferiore ai 50 $. u LA GIORNALISTA. Se qualcuno non fosse convinto della necessità di trasparenza nei rapporti tra medici e industria e in generale nelle strategie di politica sanitaria, dovrebbe tenere a mente un caso paradigmatico: la pandemia da virus A/H1N1. Era il 2009, l’influenza suina dilagava in tutto il mondo e a giugno l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) elevò l’allarme al livello massimo, il sesto: tanto bastò a far scattare gli accordi di prelazione siglati anni prima dagli Stati con le aziende farmaceutiche per la produzione di vaccini pandemici. Una boccata d’ossigeno per l’industria in un momento di crisi globale, che si è tradotta in profitti milionari. Quasi tutti gli Stati occidentali corsero all’acquisto, salvo rare eccezioni (la Polonia). In Italia e altrove la campagna vaccinale fu un flop. Il migliore giornalismo investigativo e scientifico europeo svelò in quei mesi le relazioni “pericolose” tra alcuni esperti del segretissimo Emergency Committee che coadiuvava il segretario generale dell’OMS e Big Pharma. Nel febbraio 2010 l’OMS ammise davanti al Consiglio d’Europa errori e condizionamenti. Segretezza e opacità hanno marchiato la gestione della pandemia 2009. Terribile la lezione che tutti, e i medici in particolare, dovrebbero ricordare: la prima vittima della mancanza di trasparenza e dei conflitti d’interesse a ogni livello è la credibilità delle autorità sanitarie e della medicina. Manuela Perrone, Il Sole 24 ORE Sanità, Roma [email protected] IL FARMACOLOGO. Come tutte le iniziative che segnalano un ritorno alla “normalità” (in fondo è questo il senso più vero della nuova legge: da una parte dev’essere chiaro se il medico risponde all’interesse del/la paziente o dell’industria, e dall’altra il come/quanto l’industria manipola il mercato) un “benvenuto” è d’obbligo. Come sarebbe ovvio l’auspicio anche in Italia. La domanda rimane – totalmente aperta, anche negli USA – se il mercato è compatibile con la trasparenza: la tendenza più di fondo, infatti (ed è molto più preoccupante e invadente del pagamento diretto dei medici), è quella di fare sempre più, di tutte le prestazioni mediche, un settore assolutamente competitivo del mercato, e sempre meno un “servizio”. Non è un problema di nomi, ma di cultura. Il fatto di dichiarare quanto qualcuno riceve dall’industria può essere “venduto” come segno di merito: è tanto bravo che anche l’industria lo paga. Sunshine è un tassello per regolare il conflitto di interessi: ma non si capisce perché la sanità – una volta che non è più un’area del diritto soprattutto per chi sta peggio, ma un mercato qualsiasi – dovrebbe essere più “virtuosa” di altre aree di mercato e di professionisti: avvocati, esperti, economisti, banchieri... Sempre ricordandoci che l’Italia per la non-trasparenza (dal fisco in giù) è Paese leader a livello globale. Gianni Tognoni, Direttore Consorzio “Mario Negri Sud”, Chieti [email protected] *Kesselheim AS, Robertson CT, Siri K, et al. Distributions of Industry Payments to Massachusetts physicians. N Engl J Med 2013;368(22):2049-52. IL POLITICO. Nella mia esperienza di medico, negli USA, ho verificato quanto possa diventare ingombrante la presenza delle aziende e, con il tempo, è emersa spontaneamente l’esigenza di dotarsi di strumenti sempre più efficaci per regolamentare questo delicato rapporto. In Italia non abbiamo ancora una normativa simile a quella americana, ma ritengo sia soltanto una questione di tempo. Del resto anche in politica stiamo assistendo a una sempre più legittima e giustificata richiesta di trasparenza da parte della popolazione, affinché istituzioni e pubblica amministrazione garantiscano libero accesso alle informazioni e permettano così di rafforzare il necessario rapporto di fiducia fra cittadini e operatori dei diversi settori. Si tratterà di trovare formule adatte alla nostra cultura, che tengano in considerazione il sempre crescente spirito di iniziativa e di autonomia delle persone ammalate nei confronti delle scelte legate al proprio percorso terapeutico. Tuttavia nulla cambierà senza la buona volontà e l’assunzione di responsabilità da parte dei medici e dei ricercatori. Soprattutto per i giovani specialisti è indispensabile giungere preparati e consapevoli dei potenziali rischi di condizionamento, ma anche di supporto corretto alla propria attività, da parte dell’industria. Ho sempre sostenuto l’esigenza di inserire nei corsi di laurea opportunità concrete di preparazione, anche etica, all’esercizio della professione e al rapporto con il paziente. Fiducia, trasparenza, correttezza, dialogo, libera scelta informata sono la base della comunicazione medico-paziente che qualsiasi nuova norma dovrà garantire e rafforzare. Ignazio R. Marino, M.D., FACS Professore di Chirurgia, Jefferson Medical College; Sindaco di Roma Capitale 228 L’EPIDEMIOLOGO. Leggere questo articolo causa tristezza, ma non sorpresa. Sono decenni infatti che mi batto, senza grandi risultati purtroppo, affinché i medici (ma anche altri professionisti della salute) non intrattengano, o pongano fine a relazioni pericolose con chi considera la salute come un mercato, sia nel senso nobile del termine (il luogo dove si scambiano merci) sia in quello deteriore (il non luogo dove vince chi sa trarre i maggiori profitti nel minor tempo possibile, spesso vendendo fumo). Nonostante l’impegno, mio e di molti altri, per mettere un freno a questo lento scivolare in sabbie mobili dalle quali diventa a un certo punto impossibile liberarsi, l’andazzo è diventato la norma. Tanto che molti non ci fanno più caso. È triste constatare che c’è voluta una legge, conseguente alle denunce di un senatore e poi voluta dal presidente Obama, per costringere gli attori di queste relazioni pericolose, medici e industria, a rendere per lo meno trasparenti i loro scambi, sperando che prima o poi provino un qualche senso di vergogna. Mi piacerebbe che in Italia non fosse così, che con uno scatto d’orgoglio i miei colleghi decidessero di anticipare l’Obama nostrano che prima o poi introdurrà nel bel paese un Sunshine Act. Speranza in teoria realizzabile, per quanto improbabile. Perché nel mio immaginario, nei miei sogni, vorrei che di un Sunshine Act nostrano non ci fosse bisogno. Ma si sa: i sogni svaniscono al risveglio. Adriano Cattaneo, Epidemiologo, associato a Ibfan Italia e “NoGraziePagoIo”, Trieste [email protected] vaccin Quaderni acp 2014; 21(5): 229-236 La scelta di vaccinare: uno sguardo dal ponte Leonardo Speri, Lara Simeoni, Mara Brunelli, Paola Campara, Massimo Valsecchi Dipartimento di Prevenzione ULSS 20, Verona Abbiamo deciso di dedicare questo numero speciale di “Vaccinacipì” alla ricerca di “GenitoriPiù” sui determinanti della scelta vaccinale. Si parla molto di vaccinazioni senza però analizzare con attenzione il perché si determinino comportamenti ostili da parte dei genitori e si dà spesso per scontato di aver capito tutto. La Regione Veneto ha decretato la sospensiva dell’obbligo vaccinale e si è spesa per formare gli operatori sanitari alle abilità comunicativo-relazionali muovendosi in un’ottica di empowerment. Per cambiare il paradigma tradizionale era necessario capire cosa i genitori sanno o pensano di sapere intorno ai vaccini e alle malattie collegate. Questa ricerca ci permette uno sguardo da un “ponte” gettato tra operatori e genitori, liberandoci da alcuni pregiudizi per costruire un rapporto medico-paziente sempre meno orientato al paternalismo. Abbiamo chiesto a una mamma, a un pediatra di famiglia (PdF) e counsellor e a un medico di Sanità Pubblica di commentarne i risultati, in modo di aiutarci a vedere il problema nella sua complessità e dai vari punti di vista. Al lettore spetta farsi una opinione critica su cosa si possa migliorare nel Sistema Sanitario per aiutare i genitori a scegliere il meglio per il loro figlio, sostenendoli senza ricorrere a pratiche terroristiche. Siamo certi che molti speculano sulle paure dei genitori ed è nostro compito accompagnare scelte mature e consapevoli partendo da un ascolto attivo senza preconcetti. Attendiamo i vostri commenti numerosi ([email protected]). Il Direttore, Michele Gangemi Premessa Quando all’inizio del 2009 la Regione Veneto assumeva la decisione di investire in una “Indagine sui determinanti del rifiuto vaccinale” nell’infanzia, affidandola al Dipartimento di Prevenzione dell’ULSS 20 di Verona, forte dell’esperienza di capofila del programma “GenitoriPiù”, l’opinione prevalente tra pediatri di famiglia (PdF) e assistenti sanitarie o medici del servizio vaccinale collocava la scelta dei genitori “rifiutanti” (1,5-2%) dentro un orizzonte ideologico poco scalfibile, confinando la possibilità di un dialogo a quei genitori che aderivano solo per alcune vaccinazioni (3%). Di contro non vi era particolare preoccupazione per i genitori che accettavano in toto l’offerta vaccinale (95%), per lo più bisognosi di qualche autorevole rassicurazione di fronte al timore fisiologico davanti a quello che rimane, in ogni caso, un intervento sanitario su un bambino sano. La scelta di sospendere l’obbligo vaccinale, disposta dalla Legge Regionale n. 7 del 23 marzo 2007, poggiava su diverse importanti motivazioni, tra cui quest’ultimo dato, espressione di un’adesione consolidata e di una soddisfacente efficienza del sistema. Nella fase culminante dell’indagine, all’inizio del 2011, non si registravano particolari flessioni nelle coperture vaccinali (dal 95,6% al 94,4% per l’esavalente nel primo triennio di applicazione); tuttavia alcune aziende sanitarie del territorio pedemontano erano particolarmente, e tradizionalmente, impegnate da un Per corrispondenza: Leonardo Speri e-mail: [email protected] significativo fenomeno di rifiuto attivo. La flessione, che peraltro è sembrata investire anche altre Regioni, si è tuttavia gradualmente estesa a territori limitrofi, fatti oggetto di un particolare fiorire di iniziative contrarie alle vaccinazioni, dove attualmente si segnala una difficoltà a mantenere alte coperture, che però vengono riguadagnate nel tempo, ma non senza un lavoro impegnativo. La fragilità dell’idea iniziale di poter contare su genitori vaccinatori “fidelizzati” e la tendenza a ritardare il momento delle vaccinazioni in realtà sono due tra i più importanti elementi anticipati dall’indagine, i cui dati hanno messo in discussione una visione semplificata e stereotipata del comportamento dei genitori. La ricerca: obiettivi e metodo Un cambio di paradigma, improntato all’ascolto e al dialogo, e un approccio di counselling, applicato in modo innovativo a un “soggetto collettivo”, costringevano, quindi, a spostare l’obiettivo verso un’analisi della complessità delle scelte vaccinali di tutti i genitori, indipendentemente dalla loro adesione all’offerta vaccinale, totale o parziale o di rifiuto, e a cercare di focalizzare il sistema di relazioni tra genitori da un lato e operatori dei servizi vaccinali e PdF dall’altro. Scelto il territorio di riferimento, circoscritto a sei Aziende Sanitarie della Regione (14.953 nati, circa il 31% dei nati complessivi del 2010 nel Veneto) e identificato in base alle criticità nelle coperture della vaccinazione esavalente in cinque di queste, è stato condotto un paziente percorso preliminare: indagine bibliografica approfondita della letteratura internazionale, interviste semi-strutturate con testimoni privilegiati, nove in- contri di gruppo organizzati secondo la tecnica quali/quantitativa informatizzata Nominal Group Tecnique - NGT (tre incontri con un totale di 26 genitori non vaccinatori o vaccinatori parziali e sei incontri con 66 tra operatori vaccinali e PdF)1. Da questo lavoro preparatorio è stato “distillato” un questionario che, oltre ai dati di tipo socio-demografico, le esperienze rispetto alle vaccinazioni, le fonti di informazione e le relazioni con gli operatori, si è proposto di studiare le convinzioni dei genitori attraverso 21 affermazioni sul loro atteggiamento rispetto alle vaccinazioni. Per ciascun item è stato valutato, tramite una scala di Likert a 5 punti, il grado di accordo o disaccordo. Il questionario finale è stato messo a punto per essere proposto, indipendentemente dalla loro scelta vaccinale, a “tutti i genitori”, definiti successivamente in tre sottogruppi e tipizzati, come rappresentato nella figura 1. Il questionario è stato reso disponibile per l’autosomministrazione: – in forma cartacea presso i centri vaccinali e i PdF delle sei ULSS (2140 compilazioni valide, campione statisticamente rappresentativo della popolazione di riferimento dei genitori che vaccinano). In particolare, per raggiungere il maggior numero di genitori che non vaccinano o genitori che vaccinano solo parzialmente, ai PdF è stata chiesta la consegna mirata del questionario cartaceo con busta preaffrancata o la consegna del link per la compilazione via web; – via web con sistema Cawi (Computer Assisted Web Interviewing), diffondendolo attraverso molti canali, in particolare associazioni e blog2, ren229 vaccinacipì Quaderni acp 2014; 21(5) FIGURA 1: DEFINIZIONE DELLE TIPOLOGIE DI GENITORI INTERVISTATI NELL’INDAGINE SUI DETERMINANTI DEL RIFIUTO DELL’OFFERTA VACCINALE TABELLA 2: I CONSIGLI DEGLI OPERATORI TABELLA 1: QUESTIONARI VALIDI COMPILATI PER LA SCELTA VACCINALE E FONTE TABELLA 3: CONOSCENZE DEGLI OPERATORI SULLE CONTROINDICAZIONI (IN VERDE LE RISPOSTE CORRETTE) FIGURA FIGURA 230 2: INTENZIONE DI VACCINARE IN FUTURO IL FIGLIO 3: INFORMAZIONI SULLE VACCINAZIONI E PEDIATRI FIGURA 4: IL PROFILO DEGLI OPERATORI TRA PROMOZIONE CONVINTA E NEUTRALITÀ vaccinacipì dendolo pertanto accessibile su scala nazionale (2148 compilazioni valide, 610 provenienti dal Veneto, delle quali 175 dal territorio delle sei ULSS partecipanti alla ricerca). Nei questionari raccolti via web, campione ovviamente non rappresentativo, si riscontra un alto numero di non vaccinatori (650/2148) con un conseguente (e interessante) bias di selezione. La risposta è stata al di sopra di ogni aspettativa (tabella 1). Quaderni acp 2014; 21(5) TABELLA 4: CONOSCENZA DI CANALE VERDE I risultati L’elaborazione dei 2315 questionari relativi alla medesima coorte delle sei ULSS di ricerca, rappresentativa della popolazione che vaccina, ma contenente anche un considerevole campione, sia pure autoselezionato, di genitori che avevano rifiutato ogni vaccinazione (un terzo dei genitori che non vaccinano nella coorte interessata), ha fornito informazioni interessanti e in parte inattese, tracciando uno scenario molto variegato, frutto della combinazione di informazioni, percezioni e convinzioni diverse. Concentrando l’attenzione sui dati del territorio di ricerca, il profilo dei genitori che non vaccinano risulta: cittadino italiano, scolarità tendenzialmente elevata (in particolare la madre), maggiore età media, parità più alta, maggior presenza di madri impiegate in ambito sanitario. I dati sui cittadini stranieri che è stato possibile raggiungere con la ricerca, proposta solo in lingua italiana, confermano l’aneddotica sulla tendenza all’utilizzo completo dell’offerta vaccinale. La prima sorpresa nell’analisi dei dati riguarda l’intenzione dichiarata sulle future vaccinazioni (figura 2): contrariamente all’ipotesi di partenza, tra i rispondenti solo il 37% di chi non ha vaccinato risulta determinato a proseguire nella scelta; per il restante 63% ci sono margini di ripensamento. L’intenzione di non vaccinare scende al 12% tra i vaccinatori parziali (il 28% si dichiara disponibile a seguire il calendario completo) e oltre lo 0,5% tra chi ha fatto tutte le vaccinazioni (dato tuttavia di un certo peso in termini assoluti). Una seconda sorpresa tuttavia è il dato che più di altri dovrebbe interrogare operatori e decisori e che rimane invisibile per chi si limita alla superficie dei tassi di copertura: all’interno della popolazione che finora ha vaccinato è presente una quota molto rilevante di genitori “dubbiosi”. Nel campione – statisticamente rappresentativo – sono un preoccupante 15%. Questi genitori, anche se finora hanno vaccinato, presentano a un successivo approfondimento un profilo con evidenti similitudini con il gruppo dei vaccinatori parziali, soprattutto relativamente alla fiducia negli operatori e ai timori sui rischi da vaccinazione. Se risulta quindi di particolare importanza il fatto che nel gruppo di chi non vaccina ci siano ampie disponibilità al dialogo, d’altro canto l’adesione elevatissima all’offerta vaccinale della popolazione non è automatica e il patrimonio di fidelizzazione e di adesione “di default” è tutt’altro che scontato. Per quanto riguarda le fonti di informazione vi è una certa omogeneità tra i tre gruppi nell’accesso a fonti istituzionali. Indipendentemente dalla scelta fatta, il 72% dei genitori indica di aver avuto il PdF come fonte informativa. Non tutti i pediatri, secondo i genitori, avrebbero però consigliato l’intero percorso vaccinale. Il dato di chi ha dichiarato di aver ricevuto una proposta “ridotta” è pari al 15%, sia per chi non vaccina sia per chi vaccina parzialmente, e può essere motivato come mediazione o, in una prospettiva di counselling, come un “tenere aperta la porta” della relazione. C’è però un sottogruppo, pari al 4,5%, che, pur avendo scelto di fare tutte le vaccinazioni, dichiara di aver ricevuto un consiglio limitato solo ad alcune. Questo dato va tenuto presente alla luce di ulteriori informazioni raccolte dall’indagine e da ricerche successive sull’atteggiamento dei diversi operatori e dei PdF. Il “percepito” circa le informazioni sugli effetti collaterali fornite dal pediatra non è uniforme: dichiara di averle ricevute ben l’86% dei vaccinatori, ma meno di un terzo dei non vaccinatori (figura 3). Difficile dire se per effetto dell’atteggiamento di partenza del genitore, che ritiene che vi sia di più di quello che gli operatori sanno o raccontano, o dell’approccio impostato dal pediatra, in più di un caso dichiaratamente influenzato da percorsi formativi più di marketing sociale che di comunicazione, orientati a sottolineare pressoché unilateralmente gli aspetti positivi. C’è invece una netta differenza tra i genitori nell’accesso a fonti esterne al sistema vaccinale e al Servizio Sanitario Nazionale (SSN): chi non vaccina si rivolge con maggiore frequenza alle associazioni contrarie alle vaccinazioni, a internet e al passaparola. Anche per le fonti di informazione il sottogruppo (15%) dei vaccinatori totali ma “dubbiosi” si mantiene su valori 231 vaccinacipì molto vicini a quelli dei vaccinatori parziali, ed è così anche relativamente alle esperienze dirette o indirette di eventi avversi. Quanto alle 21 affermazioni relative agli atteggiamenti i tre gruppi presentano affinità ma anche marcate differenze. Tutti i genitori dichiarano, per esempio, di temere le reazioni avverse subito dopo la vaccinazione, mentre è più variabile la percezione del rischio di effetti negativi a lungo termine, che sono la preoccupazione di chi non vaccina; è l’inverso per la pericolosità delle malattie prevenibili con la vaccinazione. Secondo l’insieme dei dati raccolti la scelta di vaccinare è il frutto di un difficile equilibrio nella valutazione di rischi e benefici. L’ansia per le reazioni avverse viene mitigata dalla consapevolezza della pericolosità delle malattie e del valore protettivo delle vaccinazioni. Su tutto questo però i genitori hanno informazioni e percezioni molto diverse, in particolare circa la supposta reticenza degli operatori riguardo alle reazioni avverse, e finiscono per fare scelte diverse. Le scelte vaccinali e la valutazione del rapporto rischi/benefici sono infatti fortemente influenzate proprio da questa percezione e dall’autorevolezza o fiducia nelle fonti informative scelte (chi non vaccina ritiene che gli operatori non siano preparati), mentre la sospensione dell’obbligo vaccinale viene ritenuta dai genitori sostanzialmente ininfluente sulle proprie scelte. Le motivazioni di chi non vaccina, come si è visto in parte condivise anche da chi finora ha vaccinato, sono in estrema sintesi le seguenti: “Le vaccinazioni vengono proposte su bambini troppo piccoli e in quantità eccessiva in un’unica soluzione. Gli effetti collaterali gravi, che possono presentarsi anche a distanza di tempo, considerato anche che si tratta di un business per le case farmaceutiche, vengono tenuti nascosti da parte di operatori che danno informazioni unilaterali sui benefici e non sui rischi, colpevolizzano chi non vaccina, e sono in odore di conflitto di interessi. Il tutto per affrontare malattie tutto sommato meno pericolose dei vaccini stessi”. Trovano qui conferma sia il dato citato all’inizio sul ritardo nelle vaccinazioni che i dubbi crescenti nei genitori, i quali impegnano sempre di più tutti gli opera232 Quaderni acp 2014; 21(5) tori, sia in termini di tempo che in qualità delle risposte. È la fotografia di un dibattito aperto, di una contiguità e influenza reciproca tra genitori che fanno scelte diverse, di appartenenze “sfumate” ai tre sottogruppi e di un ruolo ancora riconosciuto, ma tutt’altro che indiscusso, degli operatori e dell’istituzione. Cosa succede tra gli operatori? Il programma “GenitoriPiù” (www.genitoripiu.it), in collaborazione con la Fondazione Ca’ Foscari dell’Università di Venezia, conduce ricerche periodiche sugli otto determinanti di salute promossi, destinate sia ai genitori che agli operatori, approfondendo, dove possibile, i dati disponibili o funzionando da sistema di sorveglianza pilota su un’area, quella materno-infantile, ancora insufficiente oggetto di attenzione. La ricerca di “GenitoriPiù” del 2012 ha potuto tener conto quindi dei dati risultanti dall’indagine sui determinanti della scelta vaccinale e ha approfondito la situazione del Veneto in un campione rappresentativo dei genitori (n. 6246) e in un campione selezionato di operatori, risultato, nonostante alcuni bias, abbastanza numeroso (n. 1590) e in grado di indicare tendenze. Circa i genitori, cui è stato proposto un questionario autosomministrato in occasione della seconda seduta vaccinale, sono state indagate le intenzioni circa il proseguimento del calendario vaccinale per i loro figli, già esplorate nell’indagine citata. Rispetto a quest’ultima viene confermata la tendenza al dubbio tra chi vaccina, con un dato di circa il 10% di incertezza sul proseguimento delle vaccinazioni. Per le fonti informative i genitori confermano la tendenza, già riscontrata in una precedente ricerca del 20093 e anche nelle dichiarazioni degli operatori, circa un attivismo piuttosto debole dei servizi per l’accompagnamento alla nascita e di Punti Nascita ospedalieri. Il dato ribadisce quanto riscontrato dall’indagine: il pediatra scende ma mantiene tra gli operatori il ruolo di fonte informativa principale con il 62% delle scelte, mentre il dato delle informazioni ricevute nei gruppi pre-parto è sostanzialmente coincidente. Da più ricerche (i dati 2009 sono confermati nel 2012) risulta quindi evidente una difficoltà del sistema, non solo attraverso le dichiarazioni dei genitori ma per affermazione degli operatori stessi. Ricordiamo che se non si può parlare di rappresentatività statistica, possiamo pensare a una selezione per sensibilità, sottolineando comunque che ha risposto il 50% dei PdF della Regione. Vale la pena concentrarsi su questa debolezza e disomogeneità dell’attività informativa, dal momento che in questo campione le diverse categorie professionali mantengono la stessa differenziazione, come convinzioni, conoscenze, atteggiamenti e comportamenti conseguenti. Nella ricerca “GenitoriPiù” 2012 infatti la frequenza dei consigli autodichiarata dagli operatori è maggiore di quella rilevata dai genitori, comunque con molti operatori che non intervengono sulle vaccinazioni. Nei dati si mantiene la stessa forte differenza tra i pediatri di famiglia e centri vaccinali da un lato e chi lavora nei servizi per l’accompagnamento alla nascita e nei punti nascita ospedalieri dall’altro. A questo si aggiunge una proporzionale tendenza alla selettività verso le vaccinazioni, in molti casi consigliate “solo in parte” (tabella 2). Difficile non associare questo comportamento alle risposte, proporzionalmente differenziate tra i servizi, sulla conoscenza delle controindicazioni alla vaccinazione: nei servizi dove c’è meno propensione a dare consigli risulta una chiara sopravvalutazione del peso delle condizioni patologiche leggere e della prematurità (tabella 3). Il dato evoca una tendenza protettiva e rileva più una credenza che un sapere basato sull’evidenza. Viene da chiedersi se questa tendenza protettiva, che va al di là delle evidenze scientifiche, non sia il frutto di un clima generale circa la “pericolosità” delle vaccinazioni, che solo una rigorosa ricerca e un solida convinzione possono contraddire. A conferma di questa ipotesi è interessante vedere come per questi operatori più “protettivi”, queste convinzioni corrispondano a un atteggiamento di fondo rispetto all’offerta vaccinale. Sono stati estratti 6 item dai 21 utilizzati nell’“Indagine sui determinanti della scelta vaccinale” (paragrafo 1), identificati, con un procedimento statistico, come quelli che meglio discriminavano in tre gruppi i genitori tra “favorevoli”, vaccinacipì “neutrali” e “contrari” alle vaccinazioni (figura 4). Sottoposti questi item agli operatori, la distribuzione tra “favorevoli”, “neutrali” e “contrari” fa risultare ancora più evidente la diffusione di atteggiamenti quanto meno prudenti o incerti, soprattutto negli stessi servizi dove prevale un atteggiamento più “protettivo” nei confronti delle vaccinazioni, con la tendenza a un debole attivismo. È interessante notare come abbiano un peso importante le convinzioni circa le reazioni avverse, il numero di vaccini in un’unica soluzione, il rapporto rischi/benefici, rispecchiando le perplessità dei genitori. L’attenzione va rivolta allora a quali siano le basi su cui poggiano queste conoscenze, quale sia e da dove derivi questo debito informativo. I dati raccolti offrono una prima suggestione relativa alla scarsa conoscenza e utilizzo, sia in assoluto sia con la stessa differenziazione tra i diversi servizi, dello strumento di monitoraggio delle reazioni avverse (“Canale Verde”) presente nella Regione Veneto, uno strumento fondamentale sia dal punto di vista epidemiologico che della consulenza clinica. Lo si conosce poco, i suoi report si leggono ancor meno e, limitatamente alle reazioni medio-lievi, si tende a sottosegnalare (tabella 4). La sua conoscenza permetterebbe senz’altro di dimensionare in modo corretto l’incidenza e la gravità delle reazioni avverse, dato pressoché sconosciuto tra Consultori e Punti Nascita, e comunque poco conosciuto anche dagli operatori dei servizi vaccinali. In un momento in cui i genitori sono bersagliati da allarmi di ogni tipo, che proseguono la loro efficacia nonostante siano da tempo destituiti di fondamento, dal caso Thiomersal al dibattito vaccini e autismo, la domanda che pongono i dati raccolti è infatti su come una scarsa conoscenza dei veri rischi relativi alle vaccinazioni possa costituire un elemento che spiega le incertezze che si manifestano ai diversi livelli del processo di promozione, gestione e controllo dell’offerta vaccinale. Quest’ultimo dato, assieme agli altri descritti, mostra la necessità tra gli operatori di rafforzare e approfondire la competenza sulla tematica delle reazioni avverse e dell’assunzione in merito di un assetto comunicativo con le famiglie con Quaderni acp 2014; 21(5) un profilo sorretto da abilità relazionali e di counselling. Conclusioni Se, come si è dimostrato, la situazione dell’adesione all’offerta vaccinale è più articolata e complessa e se la sospensione dell’obbligo vaccinale vuole rappresentare la rinuncia a un atteggiamento autoritario, ormai giuridicamente “disinnescato” e controproducente, il punto di arrivo di un sistema sanitario evoluto, cioè la piena assunzione della sfida di un’adesione libera e consapevole alle vaccinazioni, passa attraverso la garanzia di un percorso di qualità nell’organizzazione, nel monitoraggio, nella formazione del personale, nell’ascolto e nella comunicazione con i genitori. L’analisi dei dati ha suggerito alcune strategie: – Strutturare i servizi vaccinali per garantire un’offerta attiva delle vaccinazioni con appropriate modalità di counselling in modo da mantenere la credibilità del sistema vaccinale grazie alla autorevolezza, preparazione, capacità di ascolto degli operatori. – Intervenire nel web per fornire informazioni trasparenti e complete sul valore protettivo e sui rischi delle vaccinazioni e contrastare la controinformazione. Il sito www.vaccinarsi.org rappresenta una prima risposta concreta e molto seguita. – Attivare un sistema di informazione per i genitori e gli operatori sanitari sulle epidemie da malattie prevenibili con le vaccinazioni. È allo studio il rafforzamento delle strategie comunicative: la ripresa in termini di comunicazione di massa dell’allarme polio o di altre epidemie come il morbillo sono ancora piuttosto deboli. – Migliorare il sistema di informazione sui dati reali relativi alle reazioni avverse. È in dirittura d’arrivo nel Veneto la diffusione di un libretto sulle reazioni avverse che accompagnerà il libretto delle vaccinazioni. Questi requisiti si rilevano oggi vitali, tanto più che le coperture vaccinali sembrano risentire di vari fattori ma non della modalità adottata dai diversi sistemi sanitari, impositiva o meno, come si evince anche da una rassegna delle esperienze europee4. L’ingrediente “fiducia” rimane fondamento delle scelte, e la preparazione, l’attitudine all’ascolto e alla partecipazione rafforzano la credibilità – patrimonio irrinunciabile – degli operatori. In collaborazione con Sinodè srl di Padova che ha curato tutta la parte statistica della ricerca. 2 Allattare.info, Alibaba (Yahoo), Associazione Insieme, Bambino Naturale, Blog VaccinarSì/Vaccinfo.it, GAAM, Genitori Channel, IBFAN Italia, Io e il Mio Bambino, LaLecheLeague Italia, MAMI, mammaonline.com, mammeonline.net, Bebè a costo zero, Medico e Bambino, Progetto Nascere Meglio, Spazio Neomamma, UPPA (Un Pediatra per Amico). 3 Campostrini S, Porchia S. “Pillole di ValutazionePromuovere le vaccinazioni”. In: Speri L, Brunelli M (a cura di). “GenitoriPiù: Materiale informativo per gli operatori”, Verona 2009. 4 Lopalco PL. “Strategie e coperture vaccinali negli Stati Europei”. http://www.vaccinarsi.org/assets/uploads/news/2013-12-conferenza-5anni sospensione/2_Strategie_e_coperture_vaccinali_europa.pdf. 1 Bibliografia di riferimento EpiCentro (Redazionale). “Adesione all’offerta: quanto contano capacità di ascolto e buona comunicazione?”. www.epicentro.iss.it/approfondimenti/2013/VaccinazioniRifiutoVaccinaleVeneto.asp/. Gangemi M, Elli P, Quadrino S. “Il Counselling ovvero una Comunicazione Efficace”. In: Speri L, Brunelli M (a cura di). “GenitoriPiù: Materiale informativo per gli operatori”. Verona, 2009. Pozza F, Piovesan C, Russo F, et al. “Impact of universal vaccination on the epidemiology of varicella in Veneto, Italy”. Vaccine 2011;29(51):9480-7. doi: 10.1016/j.vaccine.2011.10.022. Russo F, Pozza F, Napoletano G, et al. “Experience of vaccination against invasive bacterial disease in Veneto Region (North East Italy)”. J Prev Med Hyg 2012;53(2):113-5. Speri L, Simeoni L, Brunelli M, et al. “Vaccinazioni: dalla prescrizione all’ascolto”. Dialogo sui farmaci n. 5/2012. Valsecchi M. “Vaccinazioni, superare il divario tra obbligo e scelta: l’esempio del Veneto”. www.epicentro.iss.it/temi/vaccinazioni/Veneto2011.asp/. Valsecchi M. “Vaccinare senza obbligo di legge. Perché solo in Veneto?”. www.saluteinternazionale .info/2013/12/vaccinare-senza-obbligo-di-leggeperche-solo-in-veneto/. N.B. La ricerca, completa di allegati e con tutta la bibliografia di riferimento è reperibile in prevenzione.ulss20.verona.it/indagine_scelta_vaccinale.h tml dove è possibile accedere anche a tutte le schede delle singole pubblicazioni selezionate. Commento di Isabella Sciarretta Verona, Associazione “Il Melograno” Per corrispondenza: Associazione Nazionale Centri informazione maternità e nascita (sito/mail: www.melograno.org; [email protected]) 233 vaccinacipì L’identificazione dei genitori che attraverso i focus group e i questionari web fossero stati disponibili a dichiarare le motivazioni relative alle loro scelte in ambito vaccinale è stata affidata alla rete veneta de “Il Melograno”, Centri informazione maternità e nascita. Con una pronta adesione che ha superato le migliori aspettative, diverse centinaia di genitori hanno raccolto l’invito a compilare il questionario. La ricerca sembra aver dunque intercettato una sorta di bisogno da parte dei genitori – vaccinatori o non vaccinatori – di raccontare i propri vissuti. Dal nostro punto di vista l’esperienza ha consentito di dare nome e voce alle preoccupazioni e alle emozioni di chi deve compiere quella che è in sostanza la prima scelta genitoriale. Eccone alcune, le più frequenti, con alcune considerazioni utili a definirne il senso. Timore. La scelta di vaccinare o meno determina un intervento diretto sulla salute del figlio a breve e lungo termine. Rispetto a questo – cioè rispetto al danno oggettivo ed eventuale, derivante dall’una o dall’altra decisione, quindi rispetto alla responsabilità del proprio bambino – il valore sociale della scelta vaccinale diventa secondaria. Hanno più peso le esperienze individuali, le personali storie di salute, i fattori ideologici che le valutazioni epidemiologiche e i fattori di rischio della popolazione. Confusione. I genitori di un bambino di 2 mesi sono genitori neo-nati, in fase di formazione di un ruolo, in fase di assestamento anche come coppia genitoriale. La scelta – la prima che proietta il loro bambino in una dimensione sociale – è di entrambi. Esce dall’intreccio di due storie culturali e sanitarie diverse. Smarrimento. Il medico non è più autorevole tout court, ma è percepito come l’esecutore tecnico di un sapere complesso di cui però non ha più l’esclusiva. Cercano allora altre fonti. Il 43% dei vaccinatori totali ha preso informazioni dal passaparola. Ma queste fonti tendono a dare una visione negativa delle vaccinazioni, dando spazio ai racconti sugli effetti collaterali del vaccino (provato o meno che sia, grave o meno che sia). Si è persa invece la memoria storica delle malattie infettive. 234 Quaderni acp 2014; 21(5) Desiderio. Di essere responsabili e attivi protagonisti delle scelte di salute. Così come cercano di essere consumatori consapevoli, danno importanza a nuovi e più studiati stili di vita. La ricerca ha permesso di identificare alcune richieste che i genitori portano agli operatori sanitari che incontrano in questa fase. Chiedono sì di essere indirizzati verso fonti scientifiche e di studiare per loro scelte personalizzate, ma soprattutto chiedono ascolto. Chiedono comprensione per la specificità delle esperienze, un accompagnamento nel recuperare l’autonomia nella decisione; incoraggiamento alla condivisione della riflessione tra madre e padre; valorizzazione del processo decisionale. Delle tante e-mail che abbiamo ricevuto dai nostri soci che hanno voluto raccontare la loro esperienza di vaccinatori o non vaccinatori, una, quella che Roberta ci ha regalato, ci pare evidenzi bene il fronte delle criticità e le prospettive per un cambiamento di rotta ormai necessario. Saranno le sue parole a chiudere il nostro intervento e far capire cosa chiediamo al sistema sanitario. Sono la mamma di una bambina di 26 mesi e mi trovo a scrivere queste semplici riflessioni riguardanti il delicato tema “vaccini”. Di fronte a moltissimi argomenti (dalle scelte sullo svezzamento a quelle strettamente mediche, a quelle legate al sonno ecc.) mi ritrovo spesso a concludere che le mamme si dividono, generalmente, in due categorie. Anche parlando di vaccini, ho avuto questa impressione: – Ci sono le mamme che si fidano ciecamente delle figure di riferimento, i cosiddetti “esperti” (in primis i pediatri), e che quindi seguono la scaletta dei vaccini senza porsi domande. – Ci sono quelle che vogliono capire e fare una scelta responsabile, che tengono conto di un istinto materno. Non invidio la prima categoria perché sono mamme che non si interrogano e non entrano in gioco in meccanismi e questioni che i genitori, a mio avviso, dovrebbero riprendersi in mano! Trovandoci davanti alla libertà di scelta, al diritto di poter scegliere la strada dif- ficile e tortuosa dei vaccini, io e il mio compagno ci siamo buttati in questo mondo per capirne di più, come è stato fatto per tutte le questioni riguardanti la crescita della nostra bimba. Chi c’è in gioco? Oltre alla bimba, noi genitori, la pediatra, il Distretto sanitario e altri: il nostro omeopata di fiducia, il mio medico, internet, riviste, amici, esperienze altrui ecc. Alle richieste di informazioni, tutti hanno risposto a modo loro: al Distretto ti liquidano col libretto sui vaccini, l’omeopata decisamente contrario con argomentazioni mediche/economiche (linea estrema del no) ma con quel tocco di estremismo che personalmente quasi mi infastidisce; la pediatra sostenitrice del sì indiscusso e indiscutibile ma senza spiegazioni di ordine medico-scientifico. Insomma, posizioni insoddisfacenti. Il mio medico di base invece ha assunto una posizione più serena: abbiamo ragionato insieme su aspetti medici, sociali, economici, ma anche su questioni più pratiche legate alla quotidianità (gestire una malattia infettiva, stare a casa dal lavoro per curare i bimbi...). In sostanza, l’omeopata con i suoi no “senza se e senza ma” non ha convinto molto, anche se con spiegazioni scientifiche e professionali; la pediatra col suo sì “senza se e senza ma”, oltre a essere stata poco professionale, ha messo più dubbi di prima perché non voleva nemmeno sentirsi far domande: si fanno e basta. Per un discorso di responsabilità (“Questa è la libertà di scelta sbandierata in tutt’Italia?”, pensai uscendo dallo studio). Il punto di vista del mio medico (favorevole ai vaccini!) mi ha rasserenata sulla scelta di far qualche vaccino. E così ho cominciato l’iter durante il quale ho raccolto degli aneddoti veramente antipatici e spero unici! Dopo aver scelto di posticipare l’esavalente, mi sono recata al Distretto per fare il vaccino morbillo-rosolia e parotite (avrei voluto fare solo il morbillo, in un primo momento ma non ho trovato la via per farlo): non solo il medico, inizialmente, si rifiutò di farmelo perché prima avrei dovuto fare l’esavalente - terza dose (dove sta scritto?), ma voleva farmi firmare una carta dove io dichiaravo di essere contro i vaccini!!! E il tutto condito dalle solite frasi: “Si rende conto cosa vaccinacipì può succedere a sua figlia…”, con tono allarmante. Libertà di scelta ma terrorismo psicologico. Io non sono contraria ai vaccini. Mi piace capire, però. Cosa sto facendo, perché, come, quando farli, rischi/benefici a breve e a lungo termine. Mi ritrovo ad aver fatto dei vaccini sforzandomi… quando bastava forse qualche discorso ben fatto da parte di medici, pediatri, operatori sanitari in genere. Senza giudizi. Commento di Patrizia Elli Pediatra di Famiglia e counsellor Buccinasco (MI) [email protected] La grande novità che emerge dall’analisi dei dati raccolti con la ricerca riguarda prevalentemente la presenza di sottogruppi all’interno di quelli che, nel pensare comune, vengono classificati come due gruppi omogenei di genitori: i vaccinatori e i non vaccinatori. Il dato più importante e da valutare riguarda quei genitori che, sebbene abbiano vaccinato, non proseguiranno più nel calendario vaccinale proposto e, all’opposto, il notevole margine di lavoro con chi non ha vaccinato ma che potrebbe rivedere le proprie decisioni. Non è una novità ma una preoccupante conferma l’aver evidenziato non solo la difformità delle informazioni fornite dai diversi professionisti della salute, ma anche la scarsa preparazione di molti operatori. Non è casuale che venga sottolineata proprio nelle situazioni di rifiuto vaccinale dove il genitore, per arginare le proprie paure, avrebbe bisogno di trovare autorevolezza e professionalità nelle informazioni. È proprio da questo dato che occorre partire: in una medicina dove da anni impera la legge delle evidenze scientifiche non è pensabile che gli stessi operatori sanitari diano informazioni basate su proprie opinioni, timori, credenze. Se non si provvede ad assicurare una formazione seria su tutta la tematica vaccinale che coinvolga tutti gli operatori impegnati in questa area (medici vaccinatori, infermieri, PdF, medici di famiglia, assistenti sanitarie), utilizzando anche momenti di formazione comune Quaderni acp 2014; 21(5) per facilitare il confronto e uniformare il linguaggio e i contenuti, servirà ben poco curare le abilità di counselling. L’obiettivo dev’essere quello di trasmettere contenuti seri, autorevoli, professionali, scientifici, condivisi dai singoli componenti del sistema sanitario, all’interno di una relazione che preveda la specificità di ogni genitore, il suo ascolto e la risposta ai suoi dubbi. Il PdF non è solo ma opera all’interno di un sistema: collegarsi alle strutture vaccinali del territorio permette un confronto e un aggiornamento continui e la trasmissione di informazioni non discordanti e confondenti a chi già ha dei dubbi. Rimanendo nell’ambito dell’informazione, sicuramente avere a disposizione siti come “Vaccinarsì” è di grande utilità, ma la ricerca ci ricorda che i genitori che non vaccinano si rivolgono ad associazioni che a loro volta accedono a siti “antivaccinali”. In questi casi il medico o l’operatore sanitario con abilità di counselling potrebbero: – farsi indicare le fonti per consultarle personalmente; – aiutare il genitore a capire perché siano poco attendibili (es. spesso non ci sono riferimenti bibliografici e, se ci sono, sono molto vecchi oppure le informazioni sulle malattie per le quali ci si vaccina non sono complete o esaustive…); – cercare di raccogliere informazioni sui medici che scrivono in questi siti (sono iscritti agli ordini professionali? Se lo sono, l’Ordine è a conoscenza di quanto affermano? È possibile sollecitare l’Ordine a un richiamo dei medesimi?). Tornando alla nuova tipologia di genitori che la ricerca ha evidenziato, è ovvio che non è più possibile generalizzare: – Ogni genitore è diverso e inserito in un sistema differente che ne influenza comportamento e decisioni in modo diverso e variabile nel tempo. – Ogni scelta, si è visto, può essere suscettibile di cambiamento. Pertanto verificarne la conferma è consigliabile, comprenderne le motivazioni necessario. – Offrire scenari alternativi è doveroso. Quest’ultimo punto, se proposto dopo ascolto e comprensione delle motivazio- ni che hanno portato al rifiuto vaccinale o a un ripensamento, permette di aiutare il genitore a prendere in considerazione anche cosa significa non vaccinare, parlargli delle malattie che, giustamente dal suo punto di vista, non esistono più ma che potrebbero ripresentarsi, riflettere insieme sul bene del suo bambino che vive anche in una comunità. Se si semplifica, si può dire che il medico e gli operatori sanitari, quando ragionano in termini di rischio, hanno una percezione di tipo statistico-epidemiologico e devono prendersi cura del singolo paziente ma anche della comunità di cui lui fa parte. Il genitore si preoccupa per il suo bambino, ragiona in termini soggettivi-emotivi ed è difficile per lui acconsentire a un atto medico che può presentare dei rischi e, per giunta, attuato in benessere. Le malattie per le quali si propongono i vaccini e la gravità di alcune delle loro manifestazioni e complicanze non ci sono più nella memoria delle famiglie e non sono vissute come un pericolo. Una proposta per trovare una mediazione in queste opposte posizioni è far riflettere i genitori sul fatto che, se si diffonde il rifiuto vaccinale, la percentuale dei vaccinati ovviamente scende al di sotto dei valori necessari affinché la malattia non circoli (questa è una nozione spesso non nota). La stessa comunità che prima poteva proteggere i bambini non vaccinati ora diffonderebbe la malattia che potrebbe colpirli. Una malattia quindi che esiste ancora, che non è triste patrimonio solo di popolazioni vissute come lontane con le quali si pensa, erroneamente, di non venire a contatto. La sfida è riuscire a far comprendere che aderire all’offerta vaccinale significa difendere il proprio figlio da un pericolo reale, anche se non percepito. Ottima a questo proposito l’idea di attivare un sistema di informazione sulle epidemie di malattie prevenibili con le vaccinazioni. Rimane da affrontare il problema delle reazioni avverse per le quali è sicuramente utile un sistema di informazione aggiornato. Sicuramente importante è fornire ai genitori i dati sulle reazioni più gravi, possibilmente specificando una classe di riferimento e usando le frequenze naturali al posto delle percentuali (es. una encefalite ogni milione di dosi effettuate). Questa modalità potrebbe aiutare 235 vaccinacipì a dare una giusta collocazione statistica e una diversa percezione dei casi recentemente riportati dai media. Ultima ma non meno importante è la necessità di una trasparenza a tutti i livelli dei rapporti con le case produttrici dei vaccini, ottenibile sia con la correttezza dei rapporti personali di ciascun medico con l’industria farmaceutica, sia con la richiesta da parte del singolo e delle società scientifiche che ogni scelta vaccinale rispetti dei criteri di metodo rigorosi (vedi “8 passi ACP”). Commento di Franco Giovanetti Medico di sanità pubblica, Dipartimento di Prevenzione, ASLCN2, Alba, Brà (CN) [email protected] È la prima volta che il rifiuto vaccinale viene indagato in Italia per mezzo di un’analisi così approfondita. Sebbene lo studio sia stato condotto su una parte ridotta di popolazione (corrispondente al 31% dei nati nella Regione Veneto durante il 2010), si può ritenere che i risultati e le conclusioni rivestano un valore generale. In estrema sintesi, lo studio ruota intorno a due aspetti della prevenzione vaccinale: la percezione dei genitori e quella degli operatori sanitari. Nell’ambito genitoriale, la percezione riguarda anzitutto l’informazione ricevuta. Il PdF si conferma come la principale fonte informativa, e la qualità dell’informazione è percepita come elevata dai genitori “vaccinatori” e carente da chi non vaccina. Gli Autori si chiedono quale sia la causa di tale discrepanza e avanzano alcune ipotesi. La mia opinione è che molti genitori non vaccinatori ritengano a priori deficitaria l’informazione di tipo istituzionale e professionale (che da ora in poi chiamerò “informazione ufficiale”) perché non contiene elementi in grado di giustificare razionalmente il rifiuto vaccinale. In altre parole: l’informazione ufficiale reputa scientificamente infondata e pertanto inattendibile la massa di informazioni “alternative” riportate nei siti web e nei libri degli antivaccinatori. Pertanto essa non risulta credibile. 236 Quaderni acp 2014; 21(5) Se l’informazione alternativa fosse veritiera, qualunque persona razionale concluderebbe che vaccinare i figli è un errore. Viceversa, se fosse mendace, quale ostacolo alla vaccinazione potrebbe scorgere un genitore adeguatamente informato? Ogni genitore che rifiuta le vaccinazioni è convinto di fare la cosa giusta e di salvaguardare la salute del proprio figlio; pertanto l’informazione ufficiale deve essere distorta, omissiva, mendace perché, se così non fosse, la scelta di non vaccinare non avrebbe alcun senso. E qui il discorso si interseca con un fenomeno storico e sociale consolidato, ossia le teorie della cospirazione. Come scrivono gli Autori dello studio, l’opinione prevalente tra i non vaccinatori è la seguente: “Gi effetti collaterali gravi, che possono presentarsi anche a distanza di tempo, considerato anche che si tratta di un business per le aziende farmaceutiche, vengono tenuti nascosti da parte di operatori che danno informazioni unilaterali sui benefici e non sui rischi, colpevolizzando chi non vaccina e sono in odore di conflitto d’interessi. Il tutto per affrontare malattie tutto sommato meno pericolose dei vaccini stessi”. Che cos’è questa sintesi, se non un esempio di teoria della cospirazione? La narrativa complottista, qualunque sia l’argomento, presenta alcune caratteristiche costanti, quali per esempio la tendenza a mescolare fatti e speculazioni senza distinguere tra i due, il rifiuto di considerare spiegazioni alternative, respingendo tutte le prove che smentiscono clamorosamente la teoria e cercando solo argomenti a sostegno di ciò che si ritiene sia la verità, la convinzione irrealistica che la trama coinvolga un grande numero di persone, le quali dovrebbero, tutte, mantenere il silenzio sui loro segreti. Naturalmente non tutti i genitori che rifiutano le vaccinazioni abbracciano in toto le teorie cospirative. Inoltre lo studio veneto ha reperito tracce di questa visione della realtà anche tra i vaccinatori: i confini non sono netti. L’altro aspetto indagato dallo studio è la percezione degli operatori sanitari. In questo caso non c’è molto da dire: esistono lacune culturali, come risulta dalle risposte ai quesiti su due false controindicazioni che tutti dovrebbero riconosce- re come tali, e invece vediamo che così non è. La mancata lettura dei report del Canale Verde da parte di molti partecipanti conferma questa criticità. In conclusione: che fare? È irrealistico e pericoloso tornare indietro e rifugiarsi nell’obbligo vaccinale, che non è una soluzione e spesso è parte del problema. Peraltro, dallo studio emerge chiaramente che la presenza o meno dell’obbligo vaccinale è irrilevante ai fini delle scelte genitoriali. Proverei a elencare alcune aree d’intervento: a. ristabilire la fiducia: le sentenze con le quali alcuni tribunali del lavoro hanno riconosciuto l’autismo come danno vaccinale rappresentano un grave vulnus alla credibilità del sistema (occorre una riforma profonda delle procedure di riconoscimento del danno, sul modello del Vaccine Injury Compensation Program vigente negli Stati Uniti); b. lavorare sulla comunicazione del rischio secondo metodologie basate sulle evidenze; c. monitorare con indagini ad hoc conoscenze e atteggiamenti dei genitori e degli operatori sanitari; d. informare correttamente e in modo trasparente la popolazione, non soltanto sui rischi e benefici, ma anche sui limiti di alcuni interventi vaccinali (per es. sulla reale efficacia di popolazione quando si tratta di microrganismi presenti con svariati sierotipi o ceppi, non tutti coperti dalla vaccinazione). Per quanto riguarda gli operatori sanitari, la risposta non può che essere “più formazione”, per colmare i vuoti di conoscenza esistenti. La conoscenza delle basi scientifiche dei programmi vaccinali dovrebbe essere un patrimonio comune di tutti gli operatori sanitari, non solo dei medici e delle assistenti sanitarie ma anche di altre figure professionali, in primo luogo le ostetriche, che hanno un rapporto molto stretto con le future mamme e godono della loro fiducia. Tale formazione, il più possibile indipendente nei contenuti e rigorosa nei metodi, dovrebbe iniziare negli anni universitari e proseguire per tutta la vita professionale. u IN RICORDO DI MASSIMO PETRONE In questi ultimi anni tante volte ho parlato di lui, a colleghi, ad amici, in occasioni pubbliche. Quante volte ho pensato: “Cosa farebbe, cosa direbbe Massimo se fosse in questa situazione ?”. Mi sono accorto negli anni di quanto fosse profonda la sua impronta sul mio modo di pensare e di agire. Alcune parole possono aiutarmi a comprendere la natura della sua influenza su di me. Metodo. Chi ha avuto la fortuna di lavorare con Petrone è stato abituato a misurarsi, anni prima della formulazione dell’Evidence Based Medicine, con la necessità di documentare le proprie scelte cliniche. Non sopportava l’autoreferenzialità, le discussioni sterili tra chi fa affermazioni senza misurarsi con le conoscenze esistenti. Le nostre riunioni erano costantemente interrotte dal suo alzarsi (o dal farci alzare!) per prendere uno o più libri, per consultarli e basare le proprie decisioni… sulla base delle prove di efficacia. Quanto lontano da un recente modo d’essere di chi (nell’ambito medico o in quello politico e sociale) ci fa assistere ogni giorno all’arroganza dell’ignoranza. Attenzione al contesto. Molti anni prima della diffusione del termine “implementazione” Massimo mi ha insegnato che a nulla vale la formulazione di protocolli o linee guida se non ci si misura con le difficoltà nell’attuazione di quanto previsto. Per lui era importante che tutti i professionisti coinvolti fossero coscienti delle scelte fatte (penso al tempo impiegato a diffondere tra il personale i motivi per cui avevamo deciso di mettere i neonati in posizione supina o alla meticolosità delle norme relative alla protezione dall’HIV). Era davvero distante da un mondo scientifico (si fa per dire!!), attento prevalentemente all’immagine (l’esistenza di documenti al fine di ottenere la certificazione). Esplicitazione delle scelte. Che si trattasse di una scelta clinica o di una decisione organizzativa, non è mai accaduto che Massimo non esplicitasse il motivo delle proprie scelte anche quando questo creava tensione con una parte o tutti noi (penso alla durezza degli schemi dei turni, alle decisioni su ferie “coatte” in novembre...). Ci costringeva a misurarci con la definizione degli obiettivi; non potevamo anteporre le nostre esigenze agli stessi; potevamo, se capaci, proporre soluzioni alternative. Anche in questo caso il suo modo di agire risulta assai distante da una prassi diffusa. Il pretendere di definire prioritariamente gli obiettivi, discutendone con estrema franchezza, per poter valutare successivamente strategie e tattiche per raggiungerli è un metodo che raramente ho trovato in altri dirigenti (o in uomini politici), più propensi a definire gli interventi sulla base di una presunta, e spesso inesistente, urgenza. Autonomia e responsabilità. Il profondo rispetto che Massimo ha ricevuto da tutti quelli che hanno avuto modo di lavorare al suo fianco credo derivasse in buona parte dal fatto che egli riconosceva, in modo non formale, il contributo che ciascuno di noi (medici e infermiere) dava per raggiungere gli obiettivi. Egli sapeva riconoscere a ciascuno di noi (senza alcuna gelosia) l’autonomia professionale e nel contempo pretendeva l’assunzione di responsabilità. Mi disse una volta che per poter dirigere un reparto bisognava aver superato il “bisogno di essere amati dai propri collaboratori”. Io credo che Massimo abbia fatto profondamente suo questo concetto, ottenendo la stima… e l’affetto della quasi totalità dei professionisti da lui diretti. Questo stretto rapporto tra autonomia e responsabilità è la traduzione, sul piano professionale, di quello tra diritti e doveri. Il suo rigore era quello di battersi per i diritti senza cedere alla tentazione, tutta populistica (oggi così diffusa), di sottacere la necessità dei doveri. Comunicazione e supporto alla famiglia. Il suo sistema valoriale, la sua storia professionale, i suoi maestri e amici l’hanno portato ad avere una particolare attenzione alla famiglia dei bambini. La meticolosa correzione delle nostre lettere di dimissione (continui spostamenti di frasi, con la matita appuntita) si accompagnava alla scelta di aprire costantemente il reparto ai genitori, di non dedicare loro comunicazioni frettolose, di garantire costantemente una continuità delle cure dopo l’ospedalizzazione. Quando sono andato a lavorare in EmiliaRomagna ho scoperto quanto fossimo avanti. Lui non partecipava a tanti convegni, non gli interessava “vendere” l’immagine; la sua attenzione era tutta rivolta a garantire la reale efficacia di quanto altri si limitavano a enunciare. Conflitti di interesse. Quanta attenzione a questo aspetto, senza alcun estremismo. Da un lato un rapporto trasparente tra lui e le ditte produttrici di latte (quelle che garantivano una biblioteca di reparto più ricca di centri universitari!), dall’altro il divieto assoluto a rapporti personali tra i singoli professionisti e l’industria. Quando organizzavamo le “Giornate di Epidemiologia Pediatrica di Varenna” i partecipanti pagavano l’intero ammontare dell’organizzazione e a una ditta era richiesto di stampare gli atti (chiedendole con fermezza di evitare la propria presenza nel corso delle Giornate). No, con lui non siamo mai stati sponsorizzati e l’onere della trattativa, per garantire la nostra autonomia, se l’assumeva completamente lui. Tutto questo ho imparato da Massimo, anche attraverso momenti di scontri aspri (se qualcuno ha definito lui “spigoloso”, lui, come scrisse in una lettera alla Direzione sanitaria, definì me “petulante”). Un uomo così: rigoroso, coerente, trasparente. Potremmo definirlo anacronistico: anacronistico nel senso che appare al di fuori di un tempo (quello attuale) caratterizzato da populismo, semplicismo, arroganza, ignoranza, volgarità. Io preferisco pensare ad ana-cronistico nel senso di “senza tempo” perché i valori che hanno caratterizzato la vita di Massimo persistono; perché, come dice Altan, Massimo era uno di quelli che non facevano confusione tra ideologia, idee e ideali, pronto a confrontarsi con il nuovo ma tenendo fede a valori che mi ha aiutato a definire meglio. Dante Baronciani 237 Quaderni acp 2014; 21(5): 238 ragazzi Le meraviglie di Alice Italo Spada Comitato cinematografico dei ragazzi, Roma Gelsomina, la prima di quattro figli del burbero Wolfgang e della paziente Angelica, vive nella campagna umbra a stretto contatto con la natura. Non è la reincarnazione della Gelsomina felliniana de La strada perché i tempi sono cambiati, il progresso sta divorando le campagne e le meraviglie non sono più le esibizioni dell’erculeo Zampanò, bensì le riprese televisive, le scenografie posticce, i concorsi a premi, le frasi fatte di una fata bianca, le promesse. Gelsomina, come la maggior parte delle ragazze della sua età, sogna un futuro migliore. Un sogno da realizzare partecipando a un concorso indetto dalla TV, lasciando la campagna, smettendo di produrre miele e salse di pomodoro e magari andando a vivere con qualcuno che, come Martin, il ragazzino taciturno con precedenti penali che le autorità hanno inserito nel nucleo familiare di Wolfgang per fargli seguire un programma di reinserimento sociale, sa modulare fischi di richiamo. Apparentemente accade poco: il concorso lo vincono altri, la troupe televisiva smonta il set, Martin si dà alla fuga, il gregge viene venduto, la giostra familiare rimane ferma. In realtà, invece, qualcosa cambia nella vita di Gelsomina. Dopo avere preso coscienza della fragilità degli adulti, la ragazzina diventa piccola donna, si ribella all’autorità paterna, si affida ai sentimenti e nuota verso l’isola dell’amore. Si smembrerà il casale, ma non il nucleo familiare. Mamma Angelica – e a seguire il burbero papà Wolfgang – dovranno prendere coscienza che i figli crescono e che nella vita esistono anche tetti sotto le stelle. Non sappiamo se, quando ha affermato di avere debiti nei confronti di tanti registi, Alice Rohrwacher, oltre a citare Roberto Rossellini, stava pensando anche a Federico Fellini, ai fratelli Taviani e a Ermanno Olmi. Di certo Le meraviglie, “Gran Premio della Giuria” a Cannes 2014, richiama Per corrispondenza: Italo Spada e-mail: [email protected] 238 sequenze di Amarcord, Padre Padrone e L’albero degli zoccoli. Accostamenti giustificati dal fatto che anche qui siamo di fronte a un film, in parte autobiografico e tipicamente italiano, che va oltre una singola storia e un paese ben definito. Jane Campion e i giurati del 2014, lontani geograficamente e culturalmente dall’Italia, sono rimasti affascinati dalla campagna umbro-toscana esattamente come nel 1973, nel 1977 e nel 1978 altri giurati e altri critici lo erano stati rispettivamente dal mare di Rimini, dai pascoli sardi di Baddhevrùstana e dalla bassa pianura bergamasca. Una bella sorpresa pertanto per il nostro cinema e per la stessa regista che, pur sperando in cuor suo di ottenere qualche riconoscimento, di certo non si aspettava con questo suo secondo lungometraggio di lasciarsi alle spalle registi affermati come Cronenberg, i fratelli Dardenne, Egoyan, Godard, Loach, Leigh, Hazanavicius e Zvyagintsev. Ovvio chiedersi allora a che si devono tanta attenzione e tanto successo. Le meraviglie, in fondo, è un film semplice e delicato che a qualcuno potrebbe sembrare la versione bucolica di Corpo celeste, premiato a Cannes nel 2011 con il “Nastro d’argento al miglior regista esordiente”. In realtà c’è dell’altro che di certo non è sfuggito a chi gli ha assegnato l’ambìto riconoscimento; qualcosa che va al di là del racconto di un’adolescenza, stagione della vita che, per dirla con Truffaut, “lascia un buon ricordo solo agli adulti che hanno una pessima memoria”. L’Alice di Lewis Carroll trova le sue meraviglie attraversando uno specchio, la Gelsomina di Alice Rohrwacher trova la sua maturità attraversando il mare. Gli spettatori più attenti troveranno delizioso Le meraviglie solo se saranno capaci di attraversare lo specchio dello schermo come probabilmente hanno fatto i giurati di Cannes: facendo attenzione a quelle “gocce di miele” sparse di sequenza in sequenza che mutano l’allarme per un mondo perduto in nostalgia, la prosa di una vita grama in poesia, la falsa realtà dei media in possibile fiaba. Qualche esempio? Bere la luce del sole, ballare senza musica, spruzzarsi l’acqua del mare, camminare a piedi nudi nelle pozzanghere, salire sugli alberi, dormire all’aria aperta, comunicare con un fischio, ripararsi dalla pioggia sotto un telone, cantare in coro, ottenere un cammello in regalo, giocare con le ombre e, soprattutto, costruire un’arnia nel proprio cuore per trasformare in carezze le punture delle api e la scontrosità degli emarginati. u Le meraviglie Regia: Alice Rohrwacher Con: Maria Alessandra Lungu, Sam Louwyck, Alba Rohrwacher, Sabine Timoteo, Agnese Graziani, Monica Bellucci Italia, 2014 Durata: 111’, col. Quaderni acp 2014; 21(5): 239 documenti Un documento dell’ACP sulla carenza di ferro Pubblichiamo questo documento dell’ACP sulla presunta carenza di ferro nel lattante e nel piccolo bambino. Carenza di ferro in lattanti e piccoli bambini Il problema della presunta carenza di ferro nel lattante e nel bambino piccolo è stato affrontato nel magazine Pediatria della Società Italiana di Pediatria (SIP), in base ai risultati dello studio “Nutrintake”, del quale non si dicono nel dettaglio il disegno, le modalità con cui è stato condotto, e la fonte di finanziamento. L’Associazione Culturale Pediatri (ACP), in un comunicato stampa, ricorda che la letteratura scientifica a supporto della carenza di ferro è molto debole e gli end point che vengono misurati spesso sono dei surrogati, prendendo in considerazione lievi diminuzioni dei valori rispetto alla media e non l’eventuale effetto di questa diminuzione sulla salute dei bambini. L’ACP sottolinea che il bambino che si nutre con latte materno, a parità di contenuto di ferro, ne assorbe circa il 50%, contro circa il 10% di quello contenuto in una formula, e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), sulla base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini. Il documento Sul magazine Pediatria della SIP (dicembre 2013, numero 12, pagina 7) nella sezione news è stata pubblicata una nota a proposito della carenza di ferro in lattanti e bambini piccoli. Il “problema” è posto da un po’ di tempo all’attenzione dei media, non solo da parte di alcuni appartenenti ad associazioni professionali, ma anche da alcune ditte che producono alimenti per bambini con aggiunta di ferro, le quali, evidentemente, hanno un interesse commerciale specifico. La presunta carenza di apporto di ferro nei bambini deriva, in base a quanto pubblicato nel magazine Pediatria, dai risultati di uno studio denominato “Nutrintake” del quale non conosciamo, nel dettaglio, il disegno, le modalità con cui è stato condotto e la fonte di finanziamento; così come non siamo a conoscenza delle “raccomandazioni ufficiali sulla prevenzione della carenza di ferro” e della composizione della “commissione di esperti” chiamata a produrle. A questo proposito l’ACP si rammarica di essere venuta a conoscenza solo ora e in questo modo della costituzione di tale “commissione” dalla quale, evidentemente, è stata esclusa. La letteratura scientifica a supporto di tale presunta “epidemia” di carenza di ferro è molto debole e, tra l’altro, gli end point che vengono misurati spesso sono dei surrogati, per cui non è possi- bile sapere fino a che punto i livelli di ferro (in caso di lievi diminuzioni dei valori rispetto alla media) influenzano realmente la salute dei bambini. Alcuni suggerimenti proposti per migliorare l’apporto di ferro con l’alimentazione dei lattanti e dei bambini sopra l’anno di vita ci lasciano perplessi. Si sa, per esempio, che l’assorbimento del ferro attraverso il latte è massimo con quello materno; a parità di contenuto, il bambino che si nutre con latte materno ne assorbe circa il 50%, contro circa il 10% di quello contenuto in una formula; eppure, nel testo della nota di cui sopra, il latte materno viene citato solo laddove è scritto “prediligere il latte materno per i primi 6 mesi”, dando quasi per scontato che dopo questa età il latte materno debba essere sostituito da altro tipo di latte; infatti il latte materno non viene più menzionato come possibile alternativa nel secondo semestre e dopo l’anno di vita, pur essendo note a tutti le raccomandazioni di OMS, American Academy of Pediatrics (AAP) e Linee Guida ministeriali sull’importanza dell’allattamento al seno prolungato per il benessere del bambino e della mamma. Viene poi sponsorizzato il latte di crescita perché “è arricchito in ferro e può aiutare a ottimizzarne l’apporto”; oltre, come già scritto, a non menzionare il latte materno come la migliore fonte lattea di ferro per il bambino anche di età superiore all’anno, si raccomanda l’uso di un prodotto che va in direzione opposta a quanto suggerito da OMS ed EFSA le quali, sulla base di evidenze scientifiche solide, dichiarano che i latti di crescita sono prodotti inutili nell’alimentazione dei bambini se non addirittura potenzialmente dannosi, in quanto l’alto contenuto di zuccheri e il conseguente sapore dolce potrebbero influenzare le preferenze del bambino per i cibi dolci e favorire sovrappeso e obesità. L’ACP ritiene che promuovere e sostenere una sana alimentazione nei bambini non possa prescindere dal proteggerla da interessi esclusivamente commerciali, che possono portare a scelte che vanno a ledere il diritto dei bambini e delle loro famiglie di ottenere un’informazione corretta e volta a tutelare esclusivamente la loro salute. u http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/131025.htm http://www.ibfanitalia.org/unindagine-dettagliata-sui-latti-di-crescita/ http://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2113Information concerning the use and marketing of follow-up formula The use of follow-up formula. WHO 17 July 2013. Scientific Opinion on nutrient requirements and dietary intakes of infants and young children in the European Union. EFSA Journal 2013;11(10):3408 [103 pp]. doi:10.2903/j.efsa.2013.3408. 239 Quaderni acp 2014; 21(5): 240 specializzando Lo specializzando nell’ambulatorio del pediatra di famiglia: il punto di vista di un Direttore di Specialità Alfredo Guarino*, Michele Fiore**, Tommaso Montini** *Direttore di Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Napoli “Federico II”; **Pediatra di famiglia Dopo avere mostrato i dati relativi alla collaborazione tra la Scuola di Specializzazione in Pediatria e il pediatra di libera scelta e dopo avere raccolto la testimonianza di alcuni colleghi specialisti in Formazione dell’Università “Federico II” di Napoli, dove è prevista la frequenza dello specializzando presso il pediatra di famiglia (PdF), in questo numero della rivista coinvolgiamo il professor Guarino, direttore della Scuola di Specialità in Pediatria dell’Università “Federico II” di Napoli, e due pediatri di famiglia, Tommaso Montini e Michele Fiore che lavorano a Napoli [1]. Il professor Guarino indica alcuni punti cruciali nella formazione del medico, che attraversa un periodo di rapido cambiamento: – l’emivita delle conoscenze mediche (definita come il tempo in cui più della metà delle conoscenze diviene obsoleta) si è ridotta a meno di cinque anni; – il numero dei medici si sta rapidamente riducendo, ma la qualità è in miglioramento; – le risorse pubbliche destinate alla salute sono in riduzione e si vanno spostando verso pazienti cronici e verso la terza età; – esistono una smodata medicalizzazione e un eccesso di interventi costosi (e spesso dannosi) per i bambini con malattie acute (per esempio un’inappropriata prescrizione antibiotica per le infezioni respiratorie); – esiste un progressivo spostamento di risorse dalla professionalità (e quindi dalla remunerazione del medico) verso investimenti tecnologici e sull’organizzazione. Questi cambiamenti richiedono una profonda rivisitazione dei percorsi formativi degli specializzandi in pediatria. La Scuola di Specializzazione dell’Università “Federico II” di Napoli ha una Per corrispondenza: Alfredo Guarino e-mail: [email protected] 240 tradizione di eccellenza nella performance dei docenti e studenti ma come molte scuole ha il limite dei modelli didattici. È infatti noto che i docenti tendono a insegnare quello che conoscono meglio (per esempio alcune malattie rare) e talvolta l’insegnamento di pediatria rischia di essere ipertrofico in alcune aree di conoscenza, ma limitato in altre. In tal senso l’approccio del pediatra di famiglia è del tutto peculiare perché centrato su aspetti ben definiti, sottolineati da T. Montini: in un ambulatorio delle cure primarie ci sono la prevenzione, il sostegno alla genitorialità, la gestione dell’acuto banale e non, ma ci sono anche la storia delle mamme e delle famiglie, i problemi sociali, il disagio, le devianze, l’adolescenza… Il pediatra è spesso persino semplice presenza per un importante sostegno emotivo: nelle malattie croniche, nei problemi familiari, nei momenti della perdita. In ambulatorio vi è anche l’individuazione precoce di malattie gravi, spesso occulte e sepolte in una impegnativa attività clinica molto ripetitiva. Per ottenere questo obiettivo è necessaria l’applicazione di un approccio basato su una rigorosa metodologia di anamnesi e di esame obiettivo, che rende possibile individuare le “red flags” di sospetto di patologia grave. Queste aree sono spesso poco approfondite nei corsi di specializzazione in pediatria. Ne consegue la necessità che la formazione dello specializzando comprenda la conoscenza dell’approccio del PdF. Una peculiarità del lavoro del pediatra, nel sistema sanitario italiano, è la necessità di risolvere problemi in tempi rapidi, con poche indagini, con pochi confronti (il pediatra lavora quasi sempre da solo), nei limiti del controllo della spesa, con alti livelli di burocratizzazione e in un contesto caotico, con sale di attesa stracolme e visite disturbate da telefoni impazziti. Sono fondamentali, dunque, l’organizzazione del lavoro e la capacità di costruirsi dei percorsi mentali, quasi automatici, per centrare i problemi e selezionare le situazioni di rischio. Come sottolinea anche M. Fiore, l’esperienza del tirocinio dello specializzando nell’ambulatorio del PdF è indubbiamente positiva, pur dovendo porre in discussione alcuni aspetti: Tempi. Devono essere codificate la durata del tirocinio e l’epoca durante il corso di specializzazione alla quale questa esperienza va proposta. Le due questioni sono strettamente connesse poiché un breve periodo all’inizio del percorso di specializzazione rischia di essere poco formativo e di non lasciare traccia sulle scelte professionali future; proporre viceversa almeno sei mesi di frequenza al penultimo o ultimo anno di specializzazione potrebbe comportare una forte implementazione nella pratica clinica. Contenuti. I contenuti formativi del tirocinio presso il PdF devono essere discussi e condivisi con i responsabili della didattica della scuola, riconoscendo una specificità culturale dell’approccio alla pratica delle cure primarie, anche attraverso alcune ore di didattica frontale. Valutazioni. La valutazione dei ragazzi alla fase del tirocinio dovrebbe essere affidata a persone terze rispetto al tutore. Il notevole sforzo organizzativo e l’impegno personale dei docenti e anche (e soprattutto) dei discenti hanno obiettivi molto ambiziosi, che rispondono alle considerazioni fatte sopra. In buona sostanza gli specializzandi beneficiano di un’ampia varietà didattica e assicurano d’altra parte una trasmissione di nuove conoscenze tra la pediatria universitaria, la pediatria ospedaliera e la pediatria di famiglia: un circolo virtuoso, in cui insegnare e apprendere si mescolano in un processo bidirezionale con benefici per tutti. Commenta T. Montini: “Benvenuti, specializzandi, dunque! Grazie del vostro entusiasmo e della vostra preparazione! Ma noi operatori… ‘tiriamoci su le maniche’ e attrezziamoci bene per accogliervi!”. u Bibliografia [1] Gagliardo C, Aversa S, Sansotta N. La formazione dello specializzando nell’ambulatorio del pediatra di famiglia, Quaderni acp 2014;21(3);143. www.acp.it Non sei mai stato iscritto all’ACP o non lo sei più da 5 anni? Puoi essere presentato da un nostro socio. Per te l'iscrizione per il 2014 è di soli €. 50 mentre il socio presentatore concorrerà all'iscrizione gratuita al prossimo Congresso Nazionale ACP. Compilando il modulo di iscrizione (www.acp.it/come-iscriversi) scegli l'adesione alla campagna promozionale. Conosci la nostra FAD? Per il 2014 sono previsti 27 credici: www.acp.it/fad-acp Porta un amico in ACP Quaderni acp website: www.quaderniacp.it settembre-ottobre 2014 vol 21 nº 5 Editoriale 193 Sott’acqua, ma sempre assetati Luca De Fiore 194 Stili di vita e tutela della salute: anche il Comitato Nazionale di Bioetica ne parla. E i pediatri che fanno? Carlo Corchia 195 Il nuovo Codice deontologico: novità e riflessioni Patrizia Elli 196 Informazioni per genitori: il percorso continua con qualche cambiamento Stefania Manetti 197 Lo scalone monumentale della Stazione Centrale di Milano Federica Zanetto Formazione a distanza 198 Il maltrattamento fisico: quali conoscenze per il pediatra Carla Berardi Informazioni per genitori 205 Un genitore positivo Costantino Panza, Antonella Brunelli, Stefania Manetti Research letters 206 Comunicazioni orali degli specializzandi al Convegno di Tabiano 2014 Salute mentale 210 Problemi di salute mentale nell’infanzia e nell’adolescenza: criticità nella pratica e nella modalità di intervento Roberto Sangermani Telescopio 214 Meta-analisi sulla legatura del PDA: gli studi disponibili sono sufficienti a guidare la scelta clinica? Manuela Condò Osservatorio internazionale 218 Unioni tra consanguinei: vantaggi di ieri, svantaggi di oggi Enrico Valletta Scenari 220 Traumi del paziente pediatrico e profilassi del tromboembolismo venoso. Uno scenario clinico Maddalena Marchesi Info 224 Nuova revisione dell’EFSA sulla composizione dei latti formulati 224 L’Antitrust sanziona tre ditte per immagini su latte in polvere e biberon 224 L’OMS sbaglia direzione 224 Paradossi nella sponsorizzazione di manifestazioni sportive 225 Medicina narrativa a Oristano 225 Nasce la “Rete Sostenibilità e Salute” Libri 226 La settimana bianca di Emmanuel Carrère 226 L’aggancio di Nadine Gordimer 226 A che gioco giochiamo noi primati di Dario Maestripieri 227 Io mangio come voi di AA.VV. 227 Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana L’angolo della comunità 228 In USA obbligatorio informare pubblicamente sull’elargizione di denaro a ogni medico da parte dell’industria. E in Italia? Red Vaccinacipì 229 La scelta di vaccinare: uno sguardo dal ponte Leonardo Speri, Lara Simeoni, Mara Brunelli, Paola Campara, Massimo Valsecchi 237 In ricordo di MASSIMO PETRONE Film 238 Le meraviglie di Alice Italo Spada Documenti 239 Un documento dell’ACP sulla carenza di ferro Red Lo specializzando 240 Lo specializzando nell’ambulatorio del pediatra di famiglia: il punto di vista di un Direttore di Specialità Alfredo Guarino, Michele Fiore, Tommaso Montini Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP La quota d’iscrizione per l’anno 2014 è di 100 euro per i medici, 10 euro per gli specializzandi, 30 euro per gli infermieri e per i non sanitari. Il versamento può essere effettuato tramite il c/c postale n. 12109096 intestato a: - Associazione Culturale Pediatri, Via Montiferru, 6 - Narbolia (OR) (indicando nella causale l’anno a cui si riferisce la quota) oppure attraverso una delle altre modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione”. Se ci si iscrive per la prima volta occorre scaricare e compilare il modulo per la richiesta di adesione presente sul sito www.acp.it alla pagina “Iscrizione” e seguire le istruzioni in esso contenute oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, la Newsletter mensile Appunti di viaggio e la Newsletter quadrimestrale Fin da piccoli del Centro per la Salute del Bambino richiedendola all’indirizzo [email protected]. Hanno anche diritto a uno sconto sulla iscrizione alla FAD dell’ACP alla quota agevolata di 50 euro anziché 150; sulla quota di abbonamento a Medico e Bambino, indicata nel modulo di conto corrente postale della rivista e sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP. Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento, ricevere pacchetti formativi su argomenti quali la promozione della lettura ad alta voce, l’allattamento al seno, la ricerca e la sperimentazione e altre materie dell’area pediatrica. Potranno partecipare a gruppi di lavoro su ambiente, vaccinazioni, EBM e altri. Per una informazione più completa visitare il sito www.acp.it.