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Numero 66
03 Giugno 2015
99 Pagine
Subaru Forester
Diesel Lineartronic
Finalmente
automatica!
Si aggiorna nei contenuti e offre il
cambio automatico Lineartronic
Periodico elettronico di informazione automobilistica
Volkswagen
Golf Variant
Nuova GTD,
Alltrack e R
Le tre nuove Variant
Formula 1
Keke Rosberg
Oggi tutti conoscono
Nico Rosberg, ma pochi sanno la
storia del padre Keke
| PROVA SU STRADA |
Porsche
Macan S Diesel
da Pag. 2 a Pag. 19
All’Interno
NEWS: Nuova Skoda Superb | BMW 3.0 CSL Hommage | Zagato Mostro | Il futuro dell’auto secondo Bosch
M. Clarke Origini e affermazione dei freni a disco | IMM 2015 il raduno più pazzo del mondo | F1: 2017 ritorno al futuro
PROVA SU STRADA
PORSCHE MACAN S DIESEL
Istinto animale
La Macan ha dimostrato che persino i SUV
possono diventare divertenti e belli da guidare.
Qualità costruttiva, motore e cambio sono
al vertice della categoria. Veramente pochi i
dettagli fuori posto
di Matteo Valenti
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Prova
Periodico elettronico di informazione motociclistica
Media
M
acan. Una parola dal sapore esotico, che in indonesiano significa “tigre”.
Nel caso della nuova SUV
compatta della Porsche
potrebbe sembrare una
scelta spregiudicata, visto che cstiamo parlando di un’auto da quasi due tonnellate. E invece,
come scoprireremo nel corso della nostra prova,
i tedeschi non potevano scegliere un nome più
appropriato.
Dal vivo: com’è fuori
Il design della Macan è senza dubbio ben riuscito. Più proporzionata, compatta e filante rispetto
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alla sorella maggiore Cayenne, la SUV compatta di Zuffenhausen si fa subito notare grazie al
cofano allungato e alle careggiate larghe, con il
posteriore che appare ben piantato per terra. Il
parabrezza particolarmente inclinato e il profilo
delle vetrature laterali poi conferiscono un tocco
di grande sportivià e dinamicità alla fiancata. Di
serie vengono offerti cerchi in lega da 18 pollici
ma si possono avere misure fino a 21 pollici di
diametro (optional da circa 1.000 a 4.500 euro
a seconda dei modelli). Davvero accattivanti i
gruppi ottici anteriori, con i quattro diodi a led
per le luci diurne, ma ancor di più quelli posteriori, che sembrano scaturire direttamente dalla
carrozzeria.
Dal vivo: com’è dentro
Saliti a bordo si ha subito l’impressione di trovarsi al volante di una vera Porsche. Chiave d’accensione rigorosamente a sinistra, tunnel centrale
“in salita” e strumentazione con gli immancabili
quadranti circolari. Bellissimo il volante, derivato
nel design da quello della hypercar di famiglia,
la 918 Spyder, ma sorprendono anche i sedili
(riscaldati e ventilati!), perfettamente sagomati
e rivestiti di morbida pelle. Al centro della plancia spicca il classico sistema multimediale PCM,
con cui si dialoga attraverso lo schermo touch e
i comandi “fisici” sotto al display. È molto completo ed efficacie, anche se forse ci si aspetterebbe qualcosa di più in termini di rapidità di
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Prova
Periodico elettronico di informazione motociclistica
esecuzione. Non mancamo un bauletto centrale e due portabibite, anche se di fatto si sente la
mancanza di uno spazio dove riporre gli oggetti
di uso quotidiano in maniera rapida ed immediata.
eccezionale la pelle con cuciture a vista che riveste la plancia – e dettagli di grande pregio. Uno
su tutti il cronometro analogico offerto con il
pacchetto Sport Chrono.
anche con gli schienali reclinati. Peccato solo per
il piccolo gradino in corrispondenza della soglia
di carico e per l’assenza della ruota di scorta (il
ruotino da 18” è un optional da 231 euro).
Qualità sublime
Dietro si sta comodi, bagagliaio ok
A bordo della Macan si viaggia in prima classe.
Anche chi sta dietro può godere di grande spazio per le gambe e bocchette di ventilazione posteriori con controlli dedicati (il clima triziona è
comunque optional). Solo i più alti, nel caso si
dovesse scegliere il tetto panoramico, rischiano
di sfiorare il padiglione con la testa. Il bagagliaio offre una buona capacità, che parte da 500
per raggiungere i 1.500 litri con sedili abbassati.
La superfici di carico è piatta e ben sfruttabile,
Sicurezza: c’è di tutto e di più
Ormai ci siamo (quasi) abituati al livello qualitativo eccellente raggiunto dalle Porsche e anche
questa volta non smettiamo di sorprenderci.
La Macan rivela una cura realizzativa maniacale, degna di una 911, sia dentro come fuori. Gli
accoppiamenti di carrozzeria sono rigorosi,
costanti in maniera quasi ossessiva e le guarnizioni abbondano ovunque. L’abitacolo poi mette in mostra materiali di grandissima qualità –
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Completissima la lista dei più moderni dispositivi
di sicurezza e di assistenza alla guida. Non mancano il cruise control attivo con frenata automatica di emergenza e il contollo dell’angolo cieco,
ma nemmeno il sistema che controsterza automaticamente in caso di abbandono involontario
della carreggiata (sopra ai 65 km/h). Purtoppo
però tutti questi dispositivi non sono di serie e
vengono offerti soltanto come optional, a cifre
non trascurabili.
Audi Q5, parente alla lontana
Prodotta nella modernissima fabbrica di Lipsia (insieme a Panamera e Cayenne), la Macan
è un progetto che sfrutta al massimo le sinergie all’interno della galassia Volkswagen, senza
per questo però rinunciare al DNA tipico di ogni
modello Porsche. Nasce sull’architettura MLB,
quella dell’Audi Q5 per intenderci, opportunamente modificata dagli ingegneri di Zuffenhausen. Le raffinate sospensioni in alluminio per
esempio sono tali e quali quelle della Q5, ma gli
ammortizzatori sono diversi, più corti e rigidi, a
tutto vantaggio di un assetto più orientato alla
sportività. Inoltre la Macan può essere equipaggiata non solo con ammortizzatori attivi, ma anche con raffinatissime sospensioni ad aria, non
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disponibili sulla SUV dei Quattro Anelli, nemmeno come optional. Queste permettono di alzare
la Macan di ben 40 mm nella guida in fuoristrada,
in modo da avere un’altezza da terra di 23,5 cm,
ma anche di abbassarla per facilitare le operazioni di carico e migliorare la dinamica di guida
in modalità Sport Plus. Le carreggiate sono più
larghe di 37 mm, le pinze freno anteriori rimangono in alluminio ma guadagnano sei pistoncini,
mentre il raffinato sistema a trazione integrale è
stato completamente riprogettato. Può contare
su una frizione Magna a controllo elettronico che
ripartisce in maniera intelligente la coppia motrice tra i due assi, distribuendo però sempre maggior motricità al retrotreno (perlomeno in condizioni normali). In questo modo è stato possibile
montare, secondo una tradizione tipicamente
Porsche, pneumatici più grandi al posteriore
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Prova
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(255 invece di 235 nel caso di cerchi da 18”) con
effetti importanti sulla dinamica di guida. Il cambio a doppia frizione con sette rapporti invece è
Made in Audi e non è quindi lo stesso che troviamo su altri modelli Porsche, prodotto da ZF. Non
manca naturalmente un differenziale posteriore,
che può essere a controllo elettronico (Porsche
Torque Vectoring Plus), pensato per migliroare
la motricità in entrate e uscita di curva.
Prezzi: occhio agli optional!
Con una lunghezza di 4,681 m, una larghezza di
1,923 ed un’altezza 1,624, la Macan deve vedersela prima di tutto con una vettura aggressiva
e affermata come la Range Rover Evoque. Ma
anche modelli più tradizionali come BMW X3,
la Mercedes GLK (e la futura GLC) ma anche le
stesse Audi Q5 e Porsche Cayenne e bene che
si guardino le spalle. I prezzi partono da 64.030
euro per le versioni 3.0 S a benzina e 3.0 S Diesel
a gasolio. Si parte invece da 86.433 euro per il
top di gamma attuale, la versione Turbo a benzina da 400 CV. Come sempre però basta un attimo per far lievitare queste cifre d’attacco, considerate le copiose liste di accessori disponibili.
Sbizzarrendosi con il configutore si può arrivare
tranquillamente ad accumulare optional per un
valore anche superiore ai 30.000 euro!
Le nostre impressioni di guida
Gli uomini Porsche hanno insistito molto sul fatto che la Macan è una vettura ben diversa nella dinamica di guida dall’Audi Q5 da cui deriva.
Per scoprire se sono stati di parola non resta
che mettere in moto e vedere che pasta è fatta.
Siamo al volante della versione S Diesel, la più
gettonata nel nostro Paese, dove la Macan è già
diventata un’auto di grande successo. Sotto al
cofano si nasconde un V6 a gasolio da 3.0 litri
che in Italia è stato autolimitato a 250 CV per
ovvi motivi fiscali (all’estero eroga 258 CV). Il sei
cilindri prende vita ma non fa nulla per far sentire
la sua voce, complice anche la sublime insonorizzazione dell’abitacolo. Quando non si ha fretta la Macan a gasolio fa di tutto per garantire un
comfort di guida eccezionale. Il PDK a sette marce è veloce e impercettibile nei cambi di marcia,
mentre il motore si dimsotra pastoso e capace
di muovere le due tonnellate della Macan anche
con un filo di gas. La Macan però vuole essere
prima di tutto un Porsche. Anzi, una tigre agile
e scattante, sempre pronta a mordere l’asfalto.
Passiamo quindi nelle modalità Sport e Sport
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Plus per capire le reali potenzialità di questa
SUV. Le sopsensioni si fanno più rigide, mentre
cambio, motore e sterzo rispondono in maniera
molto più repentina. La Macan, in un istante, ha
cambiato completamente volto. Diventa incredibilmente agile e scattante, addirittura emozionante in curva. Persino il sound del motore
diventa quasi coinvolgente, nonostante l’alimentazione a gasolio. Il motore tira fuori una grinta
soprendende ed il merito è anche della valanga
di coppia subito disponibile (ben 580 Nm a soli
1.750 giri/min!). Il PDK diventa ancora più fulmineo nell’inserimento di marcia e soprattutto,
come su ogni Porsche che si rispetti, in modalità
manuale mantiene la marcia inserita fino al limitatore, come sulle vere sportive, senza mai intervenire in maniera autonoma. Le sopsensioni, ora
molto più rigide, permettono cambi di direzione
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Prove
Periodico elettronico di informazione motociclistica
soprendendemente veloci per un’auto con questo peso ed ingombri. L’appoggio è immediato
e i trasferimenti di carico si riducono al minimo.
Lo sterzo merita un vero e proprio dieci e lode.
Al di là delle dimensioni contenute della corona, convince per una precisione sorprendente,
che garantisce inserimenti in curva chirurgci.
Sempre consistente e mai troppo “pesante”, dà
grande confidenza e fa sempre capire bene dove
si vanno a mettere le ruote. L’aspetto che ci ha
entusiasmato di più è la gestione della trazione
integrale. Normalmente la Macan trasferisce
la maggior parte della motricità al posteriore,
garantendo un piacere di guida superiore. Solo
quando serve (scarsa aderenza, pioggia, fango,
neve, ecc., ) la coppia passa davanti (anche fino
al 100% in casi estremi), ma in maniera sempre
intelligente e a seconda delle condizioni della
strada. In accelerazione per esempio la trazione
si ripartisce con un rapporto 50:50 per scaricare
a terra tutta la potenza in maniera efficacie, poi
(in condizioni normali) passa gradualmente dietro. Il risultato è un’auto che arriva ad accennare
persino un leggero sovrasterzo quando si forza
il ritmo. Apparentemente potrebbe sembrare un
controsenso ma di fatto siamo davanti ad una
SUV bella e coinvolgente da guidare, nonostante
il peso e la notevole altezza da terra.
Consumi
Nel corso della nostra prova, dove abbiamo alternato percorsi trafficati a strade lontano dalle
città e autostrade, siamo risuciti ad ottenere
un consumo medio pari a 8,9 l/100 km (dato
del computer di bordo). Un risultato superiore
alla soglia psicologica dei 10 km/l e comunque
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positivo per un’auto da 2,0 tonnellate, spinta da
un sei cilindri a gasolio da 250 CV. Siamo sicuri che con uno stile di guida più attento, dove si
sfrutta al massimo l’efficienza del cambio PDK,
si riescano ad ottenere risultati persino migliori.
Conclusioni
La Macan ha dimostrato che persino i SUV possono diventare divertenti e belli da guidare. Un
traguardo non da poco, ottenuto grazie ad una
meccanica, ma soprattutto ad una gestione elettronica veramente molto raffinate.
Qualità costruttiva, motore e cambio sono al vertice della categoria. Veramente pochi i dettagli
fuori posto.
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PROVA OFFROAD
SUBARU FORESTER
DIESEL LINEARTRONIC
Finalmente
automatica!
A tre anni dal lancio la Subaru Forester si aggiorna
nei contenuti e finalmente offre il cambio automatico
Lineartronic in abbinamento al sorprendete boxer
diesel. Un accoppiata vincente, anche sullo sterrato.
Peccato per le plastiche interne
di Emiliano Perucca Orfei
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Media
A
tre anni dal lancio Forester si rinnova portando in concessionaria
un nuovo look ma soprattutto
nuovi contenuti tecnici ed allestimenti più ricchi che in passato
nonostante un prezzo di listino
mediamente più basso di circa 3.000 euro (si
parte da 27.990 euro). Un valore, quest’ultimo,
molto importante ma che non porta con sé alcun
tipo di taglio in termini di dotazioni, anzi, rispetto
al modello precedente il turbodiesel da due litri
vanta ora la certificazione Euro6 mentre il cambio è il sofisticato CVT Lineartronic a variazione
continua con possibilità di guida manuale tramite la “simulazione” di sei rapporti (La versione diesel automatica parte da 35.890 e arriva a
40.590 euro).
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Prova
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che prevede una gestione della velocità in salita
e discesa totalmente automatica, molto utile per
affrontare passaggi offroad vicini all’estremo.
Una capacità, quella fuoristradistica, che trova
conferma anche negli angoli di attacco e di uscita (25°) oltre che nei 23° di superamento dosso
e nei 220 mm di altezza da terra. Con la nuova
Forester le novità arrivano anche dentro: debutta infatti il nuovo sistema multimediale Starlink
con schermo a colori da ed accresciuta capacità di calcolo. Una unità piuttosto evoluta, rivista
nel software per risultare più semplice e facile da
usare ed allo stesso tempo pensata per essere
più pratica da utilizzare anche con i comandi al
volante. Starlink utilizza un’antenna “potenziata” Shark Fin e permette una integrazione con alcune app di Android 4.0 (o superiore) ed iOS 5.1
(o superiore). Tre gli allestimenti disponibili con
la motorizzazione a gasolio: Style, Sport Style ed
Sport Unlimited. Già su Style sono disponibili il
sistema multimediale Starlink ed il climatizzatore ma è solo dagli allestimenti Sport Style che si
incontrano il pacchetto estetico sportivo, i cerchi
da 18” ed il portellone posteriore con apertura e
chiusura servoassistita.
Su Sport Unlimited, oltre alla dotazione della
Sport Style si aggiungono anche due altoparlanti per il sistema multimediale, il navigatore, il
tetto apribile in cristallo ed il sistema d’accesso
ed avviamento senza chiave. Solo per le versioni
dotate di cambio Lineartronic, inoltre, vengono
proposti di serie i sistemi X-Mode ed Hill Descent
Control. Mancano, anche a pagamento, tutti i
sistemi di sicurezza di ultima generazione: non
sono previsti, dunque, l’antitamponamento ed il
cruise control.
Dal vivo: com’è fuori
Lunga 460 cm, larga 180 ed alta 174 (passo
264), la nuova Subaru Forester non è molto diversa dalla precedente, anzi, ma trattandosi di
un restyling le cose non potevano che essere
così. Piccole modifiche di dettaglio mantengono
comunque attuale una vettura che comunque
non viene scelta nella maggior parte dei casi per
l’estetica ma per i contenuti tecnici.
Boxer diesel: il bello di essere unici
Quattro cilindri da 1.998 cc, come il duemila benzina praticamente “inesistente” in Italia, il boxer
delle Pleiadi eroga una potenza massima di 147
CV a 3.600 giri ed un valore di coppia che rimane
costante a 350 Nm in un range compreso tra i
1.600 ed i 2.400 giri. Quattro valvole per cilindro
il cuore a gasolio della Forester consuma 6,1 litri di gasolio ogni 100 km, assicura uno scatto
0-100 km/h in 9,9 secondi, 180 km/h di velocità
massima ed è abbinato ad una trasmissione che
fa forza su un cambio manuale a sei marce e - nel
caso della automatica - su di una trazione integrale che rinuncia al classico giunto viscoso centrale in favore di una frizione a lamelle controllata
elettronicamente. Un sistema che in Subaru hanno voluto completare con il pacchetto X-Mode
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Prova
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su strada. Basse vibrazioni, tenuta di strada da
berlina ma totale controllo di quello che accade
attorno grazie all’ampia superficie vetrata ed alla
seduta alta, il SUV Subaru è molto silenzioso ma
si dimostra anche praticamente inarrestabile
quando si va fuoristrada: abbiamo avuto la possibilità di testare la vettura sulle salite e le discese di una pista di motocross scoprendo come da
un lato la trazione integrale Subaru si dimostri
ancora oggi un punto di riferimento assoluto e
dall’altro come il sistema X Mode, proposto con
il cambio automatico Lineartronic, permetta
davvero a chiunque di affrontare percorsi offroad davvero al limite. Tra le chicche meccaniche
della vettura c’è indubbiamente il cambio CVT:
a bassa andatura si comporta come un normale
variatore continuo ma quando si richiede potenza si trasforma andando a simulare il comportamento di un cambio manuale. Questo rende in
Dal vivo: com’è dentro
Gli interni della Forester non sono certamente
quanto di più moderno e curato si possa trovare
in ambito automobilistico, ma hanno dalla loro la
capacità di offrire grande comfort, tanto spazio
e, nonostante le plastiche non si possano definire piacevoli al tatto, un indice di robustezza e
di durata nel tempo molto elevato. Rispetto alla
prima serie dell’ultima generazione Forester,
però, sono cambiate alcune cose per quanto
concerne le finiture - nuove le cornici silver attorno le bocchette dell’aria - così come è stato
rivisto il sistema multimediale: lo Starlink funziona molto bene, è veloce, facile da usare, molto
completo nelle informazioni di navigazione. E’ un
sistema che si interfaccia alla perfezione con gli
smartphone di ultima generazione ma non dialoga, ad esempio, col display del computer di
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bordo limitandone un po’ la praticità quando si
vuole utilizzarlo simultaneamente per due funzioni distinte. Lo spazio a bordo, come dicevamo, è molto ampio ma quello che ci è piaciuta è
anche la dimensione del bagagliaio (483 litri) che
può arrivare a 1.573 litri abbattendo progressivamente gli schienali posteriori.
Come va
Il punto forte di questa vettura, oltre allo spazio
interno, è certamente il piacere di guida che offre. Il basso baricentro assicurato dal motore boxer, l’efficacia del cambio CVT che si trasforma in
cambio “manuale” a sei marce quando si richiede
oltre il 65% della potenza e la bontà della trazione integrale che lavora prevalentemente sull’asse posteriore (60%) rendono la guida della Forester Lineartronic diesel davvero molto piacevole
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Periodico elettronico di informazione motociclistica
Prove
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assoluto meno performante il rapporto motore/
cambio ma rende la guida più piacevole oltre che
meno “stressante” da un punto di vista acustico,
vero limite (sini ad ora) dei cambi CVT.
In conclusione
La nuova Subaru Forester è stata raffinata rispetto al modello precedente ed ora si presenta
in concessionaria molto matura e completa. Il
prezzo, a parità di allestimento, è sceso di quasi 3.000 euro e questo davvero non guasta. Un
prodotto interessante per chi cerca spazio ed ha
bisogno di un’auto davvero sicura, confortevole
ed in grado di non fermarsi di fronte a nulla pur
senza i limiti stradali dei veri fuoristrada.
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PROVA SU STRADA
VOLKSWAGEN GOLF VARIANT
Nuova GTD,
Alltrack e R
La gamma Golf si arricchisce di tre nuove Variant.
GTD per chi cerca sportività ma con bassi consumi.
AllTrack per chi non sa decidersi tra station e SUV
e infine R, dedicata agli amanti
delle super- prestazioni
di Maurizio Vettor
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dotazione di serie e contenuti tecnici molto interessanti. Prima di tutto però, al di là delle schede
tecniche e dei valori assoluti, è senza ombra di
dubbio il piacere di guida, elevatissimo, a catturare il guidatore. Sia che si decida di acquistare
una Golf per macinare chilometri, una per le gite
fuoriporta verso la casa di montagna o una per
ricercare un po’ di adrenalina, sappiate che vi
troverete in un habitat sì lineare e formale ma
anche confortevole, pratico. L’azione dinamica
è sorretta da una telaistica robusta, bilanciata e
sospinta da propulsori di grande generosità.
Media
Golf Variant GTD: la strada
non finisce mai
I
Questa nuova auto rappresenta un primato per
Volkswagen: trattasi della prima Golf motorizzata GTD in “formato” Variant. Trentatre anni
sono trascorsi dalla presentazione della prima
Golf GTD. Oggi, la station-wagon più sportiva e
parca nei consumi della Casa tedesca, monta un
motore due litri common rail capace di erogare
una potenza di 184 cv. Nonostante la potenza
elevata, i consumi dichiarati sono molto buoni tanto che nel ciclo combinato, la vettura con
cambio manuale a 6 rapporti, consuma soli 4,4
l/100 km. Un motore che è riuscito a conciliare
grandi doti di “passista” con il DNA sportivo (0100 km/h in 7,9 sec), il tutto amalgamato da una
grande elasticità. La trazione è anteriore e la dotazione di serie vanta il differenziale elettronico a
bloccaggio trasversale, sterzo progressivo, ESC
con assistente di controsterzata e stabilizzazione dell’eventuale rimorchio nonché il sistema di
frenata anti-collisione multipla. Tre vetture, tre
tipologie di utilizzo e di guidatore: GTD, per l’uomo che non vuole fermarsi mai, AllTrack per l’uomo che non sa decidersi mai (tra SUV e station)
e Variant R per chi non sa frenarsi mai. A questo
va aggiunto anche l’assetto abbassato di 15 mm
e cerchi in lega da 18” che calzano pneumatici
da 225/40 R18. La GTD Variant si è dimostrata
una vettura ottima per i lunghi viaggi, indicata
sia per chi la vuole utilizzarla come auto della
giorni d’oggi parlano di SUV, microcar, ibride. Quelle che fino a poco tempo fa erano
al centro della scena, detentrici di primati
e grandi fette di mercato, le station-wagon,
oggi sembrano stare un po’ nell’angolo, in
attesa di tempi migliori. Ma Volkswagen
crede ancora nella potenza di questo tipo di vettura e forte di questa convinzione, ha presentato tre nuove autovetture Golf Variant: GTD,
Alltrack e R. Tre auto estremamente interessanti da molteplici punti di osservazione: tecnico, prestazionale e funzionale. In Andalusia, nei
dintorni di Malaga, luogo di caleidoscopici eventi
folcroristici e di bellissime strade, le tre nuove
nate di casa Volkswagen hanno mostrato le loro
caratteristiche tecniche, ma anche e soprattutto, quelle dinamiche. Grazie all’arrivo di questi
nuove vetture, Golf Variant chiude il proprio cerchio con declinazioni che vanno dalla 1.2 TSI da
85 cv alla 2.0 R da 300 cv. Tre auto con una ricca
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Prova
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passaruota maggiorati e quella sua aria spiccatamente “country” ci avevano fatto pensare
a una vettura con il fianco scoperto a qualche
critica nell’utilizzo urbano ed extraurbano. Provatela e vi lascerà a bocca aperta, per questa
sua “sana schizzofrenia”. In casa Volkswagen
la considerano un vero crossover tra un SUV e
una Variant. Come non dar loro ragione. Le doti
da SUV emergono nei tratti di fuoristrada dove
la nuova vettura tedesca sa impressionare per
le capacità di arrampicatrice (trazione integrale
4Motion) che le permettono ripartenze da fermo
su salite sterrate che impensierirebbero molte
vetture nate per il fuoristrada. Sembra davvero non conoscere limiti. La Variant Alltrack è
inoltre dotata, grazie al Drive Profile (di serie),
famiglia grazie alla grande capacità di carico e ai
volumi interni, ma anche come auto di lavoro. Il
pianale di carica è basso a tutto vantaggio delle
operazioni di carico e scarico. Il confort offerto
dalle sospensioni, eccellente, e la grande insonorizzazione, ne fanno una vettura perfetta per
chi passa, per lavoro o per diletto, molto tempo
in auto. Nonostante le grandi doti di passista e i
volumi da station, la GTD Variant piace molto anche sullo stretto e sulle strade di montagna dove
si fa apprezzare per la coppia del propulsore ma
anche per l’agilità e reattività. Il comportamento è sempre neutro, anche nella guida al limite
con correzioni di traiettorie improvvise, nessun
accenno di sottosterzo o sovrasterzo. La GTD
Variant è disponibile in versione 2.0 TDI BlueMotion Technology e 2.0 TDI DSG BlueMototion.
Entrambe con 184 cv e nella ricca dotazione di
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serie non è però compreso il Drive Profile mentre
ci sono sedili anteriori con regolazione in altezza
e lombare, indicatori sensori pressione pneumatici, sensori pioggia, pedaliera sportiva, climatizzatore automatico e cruise control. I prezzi
per l’Italia non sono ancora stati definiti. Quelli
per il mercato tedesco sono rispettivamente di
34.200 e 36.100.
Golf Variant Alltrack: quando
la strada finisce inizia la terra
Che fosse una vettura a suo agio sui percorsi off-road ce lo saremmo aspettati. Che fosse
anche una vettura sportiveggiante su strada,
con un ottima tenuta e una eccellente “dinamica” con scarso rollio e beccheggio, nella guida
veloce su strada, un po’ meno. Il suo assetto
rialzato (20 mm in più della Variant di serie), i
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Prove
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della modalità “fuoristrada” che aziona anche un
assistenza alla discesa: si imposta la velocità e
la vettura lavora in totale autonomia regolando
velocità e frenata. Al guidatore non rimane altro che tenere lo sterzo e indirizzare la vettura
dove lo si desidera. La Golf Variant Alltrack sarà
in vendita da maggio in tre diversi allestimenti:
1.6 TDI Bluemotion Tchnology da 110 cv, 2.0 TDI
Bluemotion Technology 150 cv e 2.0 TDI DSG da
184 cv. I prezzi per l’Italia delle nuove Variant non
sono ancora stati resi noti, ma per farvi un’idea le
Alltrack sul mercato tedesco verranno vendute
rispettivamente a 29.400,31.400 e 34.400 euro.
Golf Variant R: dalla strada alla pista Un’auto
che non occuperà numeri importanti tra quelli
del mercato italiano, e lo testimonia il fatto che
il prezzo e gli allestimenti siano su richiesta,
ma questo non toglie che chi come noi avrà la
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fortuna di provarla, proverà poi un profondo senso di invidia per i molti che invece la acquisteranno nel nord Europa. Là, infatti, questo tipologia
di auto, è senza dubbio più apprezzata o diciamo “capita”. L’esterno è quello di una station,
ma il cuore e le sensazioni che si possono provare, non appena si sale a bordo, sono da vera
auto sportiva. Non sono solo i valori espressi dal
motore due litri turbo a stupire, per quanto considerevoli: 300 cavalli e una coppia di 380 Nm,
trasmessi a terra grazie alla trazione integrale
4Motion e al cambio a doppia frizione DSG a 6
rapporti. A impressionare è anche il suo comportamento dinamico. Il bilanciamento dei pesi, lo
sterzo progressivo, il sistema ESC Sport (disattivabile per la guida su pista), l’impianto frenante
(che non mostra segni di fatica nemmeno dopo
ripetuti e poderosi azionamenti). Senza contare
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appunto che il motore spinge con inaudita forza
fa della Variant R un oggettino “bellico” davvero
interessante. Per non parlare del sound allo scarico che, con il drive profile settato su sport, si
fregia di emozionanti scoppiettii ad ogni cambio
marcia. Tutto il resto, qualità degli interni, confort di marcia autostradale, insonorizzazione,
qualità dei materiali, sembra passare in secondo piano. L’abitacolo, come per la GTD e la AllTrack non sconvolgono per arditezza: il design
che potremmo definire “accademico” e lineare
non segue certo la tendenza del momento, ma
non dispiace. Chi decide di acquistare la sportivissima Variant R sappia che avrà un auto ottima
per girare in pista ma anche in grado di trasportare una grande quantità di oggetti, grazie a una
capacità di carico che va da 605 litri a 1620 litri.
Il nostro consiglio finale? Non soffermatevi solo
sui dati tecnici, sugli allestimenti, sul design o
sulle dotazioni di serie. Dedicate una giornata a
provare una di queste vetture, quella che più si
avvicina alle vostre esigenze e quella che potrebbe rispondere maggiormente alle vostre aspettative. Ne varrà sicuramente la pena…
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Prove
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News
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spazio per le ginocchia pari a ben 16 centimetri,
e naturalmente per il bagagliaio: il vano di carico
misura infatti 660 litri (+ 27 litri rispetto alla Superb Wagon di seconda generazione), che con gli
schienali dei sedili posteriori abbattuti possono
arrivare a ben 1.950 litri.
Debutto a settembre
Esteticamente le differenze con la sorella berlina sono poche, tranne che per il posteriore dotato di portellone dall’andamento spiovente con
gruppi ottici a led, per i mancorrenti sul tetto e
per il grande tetto panoramico optional. Motorizzazioni ed equipaggiamenti sono invece analoghi al modello a tre volumi, compresi i sistemi di
connettività MirrorLink, Apple CarPlay e Android
Auto. La nuova Superb Wagon verrà presentata
ufficialmente in settembre al Salone di Francoforte 2015 per arrivare sul mercato poche settimane dopo.
NUOVA SKODA SUPERB
ECCO LA VERSIONE WAGON
Arriverà a settembre la versione familiare della Superb di terza
generazione. Tra le sue qualità principali una capacità di carico di 660
litri che può arrivare fino a 1.950 litri. L’anteprima mondiale al prossimo
Salone di Francoforte
D
opo pochi mesi dal lancio della versione berlina, Skoda raddoppia l’offerta della Superb annunciando il lancio della nuova Skoda Superb Wagon
(o “Combi”, in alcuni mercati) basata sulla terza
generazione della ammiraglia di Mlada Boleslav.
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Bagagliaio “extralarge”
La nuova Superb Wagon è costruita sulla piattaforma MQB, che gli ingegneri céchi hanno sfruttato al massimo: il passo misura ben 2 metri e 84
(+ 8 cm rispetto alla precedente Superb), dunque c’è molto più spazio all’interno, soprattutto
per i passeggeri posteriori che godono di uno
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Periodico elettronico di informazione motociclistica
a sei cilindri in linea, dotato di eBoost. Del frontale, colpiscono il disegno dei fari, a laser e a LED,
oltre al vistoso spoiler in fibra di carbonio, il quale
diminuisce sensibilmente l’impatto visivo dell’altezza da terra dell’auto. Spostando lo sguardo
al retrotreno, la situazione non cambia. Forza e
potenza vengono trasmessi da un alettone di dimensioni veramente importanti posto sulla coda
della 3.0 CSL. A ciò, si aggiunge un altro spoiler
posizionato sulla parte terminale del tettuccio, di
certo impatto visivo e di sicura efficienza aerodinamica. Gli interni, minimalisti, trasudano sportività: i sedili, in perfetto stile racing, sono dotati
di cinture a sei punti. Ridotto all’essenziale il sistema di infotainment, con due display – il primo
posizionato sopra allo sterzo, mentre il secondo
ubicato al centro dell’abitacolo – che forniscono
unicamente le informazioni indispensabili al guidatore, come la marcia inserita, i giri del motore,
la velocità ed il punto di cambiata. Interessante
il volante, dotato di paddle, la cui forma rimanda alla cloche di un velivolo. Il fatto di ritrovarci a
bordo di una vettura dal puro spirito corsaiolo ci
viene ricordato dall’estintore, installato sul tunnel centrale.
Analizzandola ai raggi x, la 3.0 CSL rivela un’anima composta da CFRP, un acronimo volto a
sintetizzare un utilizzo di materiali compositi in
plastica, rinforzata con abbondante utilizzo della
fibra di carbonio, la quale fa bella mostra di sé
in corrispondenza delle fiancate, dove troviamo
anche i terminali di scarico, delle vere e proprie
bocche da fuoco. La Hommage piace davvero,
sia per le forme decise ed eleganti, sia per la cura
dei dettagli che BMW ha usato per produrre questo doveroso tributo ad una delle icone della propria storia. Un tributo del quale, in tutta sincerità,
si sentiva il bisogno.
BMW 3.0 CSL HOMMAGE
QUANDO I PROTOTIPI FANNO SOGNARE
La Casa di Monaco si è presentata a Villa d’Este 2015 con un prototipo
che rende omaggio alla mitica 3.0 CSL, una vettura incredibile e molto
amata dagli appassionati di tutto il mondo
B
MW non si è lasciata sfuggire l’occasione di Villa d’Este 2015 per svelare
un prototipo che celebra una delle
creature più famose e sognate della
sua storia. Dotata di uno sgargiante colore golf
yellow, la 3.0 CSL Hommage paga il tributo alla
sua omonima degli anni ’70, con uno stile che
50
lascia davvero senza fiato. Il prototipo dell’azienda di Monaco, infatti, appare fin da subito in tutta
la sua prorompente mascolinità e durezza. Non
è una vettura che passa inosservata, tra le sponde del Lago di Como, grazie a forme sinuose ed
evocative: la caratteristica griglia a doppio rene
– di dimensioni generose – nasconde un motore
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Periodico elettronico di informazione motociclistica
ZAGATO MOSTRO
LE PRIME IMMAGINI DELLA
BELVA ITALIANA
Nessun errore, avete letto bene. La nuova meraviglia concepita da
Zagato si chiama Mostro. Ma il suo nome in realtà nasconde un
aneddoto molto particolare legato al motorismo storico
N
essun errore, avete letto bene. La
nuova meraviglia concepita da Zagato si chiama Mostro. Il suo nome in
realtà nasconde un aneddoto molto
particolare legato al motorismo storico. La fuoriserie italiana infatti si ispira esplicitamente alla
Maserati 450S Coupé Costin-Zagato del 1957,
subito ribattezzata “Mostro” dagli uomini del
Tridente per le sue prestazioni sensazionali. Era
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un’auto da corsa, costruita appositamente per
partecipare alla Mille Miglia su richiesta esplicita di Sir Stirling Moss. La Zagato Mostro di oggi,
disegnata da Norihiko Harada, Capo del Design
alla Zagato, nasconde una meccanica di origine
Maserati. Per il momento non sono stati diffusi
dettagli tecnici ma si tratta certamente di un V8,
come dimostra il sound cupo e brutale che potete ascoltare nel nostro video. Potrebbe trattarsi
quindi, con ogni probabilità, del collaudato 4.2
V8 dell’attuale GranTurismo, in grado di erogare dai 400 ai 450 CV. Il Mostro si è fatto vedere
quest’oggi in anteprima assoluta alla nuova pista
sorta sulle ceneri del centro prove Alfa Romeo di
Arese e sarà esposta al Concorso d’Eleganza di
Villa d’Este il prossimo weekend. Per conoscere
tutti i dettagli ufficiali bisognerà pazientare ancora un po’.
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IL FUTURO DELL’AUTO
SECONDO BOSCH
di Antonio Gola | Cosa ci riservano i prossimi dieci anni in tema di
mobilità? Per Bosch l’auto del futuro dovrà essere sempre più
elettrificata, autonoma e connessa
A
lla 62° edizione dell’Incontro Internazionale con la Stampa Automotive,
presso il Centro prove di Boxberg,
Bosch ha presentato la roadmap
delle tecnologie che vedremo crescere nei prossimi dieci anni nel mondo dell’automotive, in un
contesto in cui l’orizzonte di visione è sempre più
vasto e si estende oltre il cofano dell’auto, verso
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Innovazione
Periodico elettronico di informazione motociclistica
l’organizzazione della mobilità, le infrastrutture,
passando attraverso l’efficienza energetica dei
veicoli e l’interazione degli stessi con l’ambiente
in cui si muovono.
Detto e fatto, anche il nome cambia: il settore di
business “Automotive Technology” viene ribattezzato “Mobility Solutions”.
45 auto all’avanguardia,
tutte da provare
Si capisce che l’evento è importante, lo dimostra
prima di tutto la partecipazione attiva del top
management Bosch: Dr. Rolf Bulander, Dr. Dirk
Hoheisel a Dr. Markus Heyn membri del Board di
Robert Bosch GmbH, a disposizione anche per
le domande dei giornalisti di mezzo mondo. Per
non parlare del dispiego di mezzi equipaggiati
con tecnologie Bosch: ben 45 veicoli per provare
tutte le più attuali tecnologie e quelle del prossimo futuro. Dalle vetture laboratorio con tanto di
strumentazione ancora a bordo, all’hi-tech stile
Silicon Valley della Tesla che guida da sola; dall’ibrida votata all’estremo risparmio di carburante,
la VW XL1, all’ibrido che ha ceduto al “Lato Oscuro della Forza”, la Porsche 918; tutti i veicoli da
provare nel Proving Ground Bosch sull’anello ad
alta velocità con curve sopraelevate, o sulla pista
handling. Insomma, un piccolo paradiso per caraddicted, oltretutto con la disponibilità dei tecnici Bosch ad illustrare ciascun dispositivo tecnico.
L’auto di domani
E’ il Presidente del settore di business Mobility
Solutions, Dr. Rolf Bulander, a introdurre l’incontro con la stampa: Bosch è un attore protagonista nel mondo automotive con ottimi risultati
economici nel 2014 ed un primo trimestre 2015
ancora positivo, che segna più 13 percento nel
settore Mobility Solutions, grazie a 126 stabilimenti di produzione, 59 centri di progettazione
per un totale di 205.000 persone. “Tecnologia
per la vita”, uno slogan che mostra Bosch impegnata direttamente al miglioramento della
mobilità in generale, non soltanto l’efficienza dei
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Innovazione
Periodico elettronico di informazione motociclistica
essere elettrificata, autonoma e connessa. Tre
aggettivi che tracciano il futuro sviluppo tecnologico con cui Bosch punta ad equipaggiare sempre più veicoli, dandosi obbiettivi chiari: dimezzare il costo delle batterie entro il 2020, entro il
2025 il 15% di tutti i nuovi veicoli disporranno di
un propulsore elettrico. Ciò significa anche che
nel prossimo decennio il motore a combustione
continuerà a costituire la base per una mobilità
efficiente. Ridurre il consumo di carburante di
un ulteriore 10% nei motori diesel e del 20% in
quelli a benzina dato che, insieme ai propulsori
elettrici, anche il motore a combustione deve
ancora raggiungere il picco di efficienza. Entro
il 2020, Bosch vuole mettere in produzione un
pilota automatico per la guida automatizzata in
autostrada e circa 2.000 ingegneri Bosch stanno
lavorando a tutti quei componenti affini a questo
motori. Prevedere lo sviluppo del futuro significa
poter produrre in accordo a ciò che il mercato
richiederà maggiormente, ma come si evolveranno le automobili e la circolazione stradale
negli anni a venire? Sembra che la società e la
tecnologia una volta tanto tendano a convergere, ad esempio sull’efficienza dei consumi, ma le
previsioni sono sempre rischiose ed il mercato
non si svilupperà per forza di cose in modo lineare. Per prepararsi alle variabili di mercato Bosch
ha elaborato diversi scenari futuri. Da un lato si
può immaginare che prevalga nel futuro la mobilità privata, spinta dall’individualistico piacere di
utilizzare il proprio veicolo: ciò significa che nelle
economie avanzate la domanda di veicoli dipenderà dalle innovazioni, mentre nei mercati emergenti sarà stimolata dall’adozione degli standard
consumistici del mondo occidentale (attualmente in Cina ci sono appena 50 automobili
56
obiettivo. La guida connessa ha superato la fase
dei progetti pilota ed entro la fine di quest’anno
Bosch, solo per queste funzioni, avrà connesso
circa 200.000 veicoli, per supportare assicurazioni e società di gestione delle flotte, ma in futuro ci saranno soluzioni completamente nuove
per il trasporto urbano partendo dai sensori micromeccanici delle vetture sino ai sensori installati sulla superficie stradale.
Elettrificazione, automatizzazione e connettività
rendono la mobilità privata sostenibile e piacevole. Ciò significa che sono compatibili con gli scenari futuri: “un mondo più verde” e “divertimento
per tutti”.
E, cosa ancora più importante, i tre percorsi
sono complementari. Questo è il futuro secondo
Bosch, e sinora Robert e i suoi successori hanno
sempre visto giusto.
ogni 1.000 abitanti, mentre nell’Unione Europea
si sale a 500). Diversamente, le politiche per la
salvaguardia del clima e l’evoluzione demografica indirizzata all’addensamento urbano produrranno un ulteriore inasprimento delle normative
sulle emissioni e sull’efficienza dei veicoli, tanto
nelle economie avanzate, quanto nei mercati
emergenti. In questo scenario di “un mondo più
verde” la mobilità privata non solo sarà regolata
in modo più rigoroso, ma sarà affiancata da altre
forme di trasporto.
Elettrificata, autonoma, connessa
Questi due scenari del futuro si trovano ai due
estremi opposti, ma in entrambi i casi le risposte a livello tecnologico sono le stesse ed indipendentemente dal fatto che la mobilità privata
continui a crescere o sia regolata in modo più
severo, l’auto del futuro, secondo Bosch, dovrà
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Attualità
Periodico elettronico di informazione motociclistica
storia, come ci ha spiegato il nostro editorialista
Enrico De Vita ai microfoni di Elena Carbonari, in
diretta su Isoradio.
Autovelox, è arrivata una sentenza shock, non
è vero?
«In Italia è arrivata finalmente la prima condanna congiunta in materia di autovelox, inflitta al
venditore dell’apparecchiatura e al comandante
dei vigili di Spotorno (in provincia di Savona) che
ne aveva richiesto l’installazione. In particolare è
scattata per l’amministratrice della società Igea
di Ceparana (SP) e per suo marito, Claudio Ghizzoni, ex comandante dei vigili urbani di Podenzana».
TANGENTI E AUTOVELOX
COMANDANTE DEI VIGILI CONDANNATO A
QUATTRO ANNI: SENTENZA EPOCALE
di Enrico De Vita | Scandalo all’italiana: mazzette per installare
autovelox che spesso erano delle vere e proprie trappole per gli
automobilisti. A far emergere il traffico un’inchiesta terminata con una
pesante condanna per i protagonisti dell’illecito. Ecco cosa potrebbe
cambiare dopo la sentenza
I
n cambio di tangenti venivano installati
autovelox. Ma la notizia è ancora più eclatante perché il titolare dell’Azienda che
noleggiava le apparecchiature per il rilevamento della velocità è un ex comandante dei
vigili urbani. A scoprirlo è stata l’inchiesta “Hot
Velox” che ha condannato Claudio Ghizzoni a
quattro anni di carcere. Una sentenza che farà
58
Cosa hanno scoperto gli inquirenti?
«Attraverso l’inchiesta “Hot Velox”, iniziata nel
2013, i magistrati hanno dimostrato che Ghizzoni aveva pagato mazzette all’allora comandante
dei vigili di Spotorno, Andrea Saroldi (che per
questa vicenda aveva patteggiato 34 mesi di carcere), per fare in modo che il Comune scegliesse
la sua Azienda per la fornitura di autovelox».
Oltre alle tangenti c’era dell’altro?
«Certo! Questa Azienda aveva installato apparecchiature in diverse zone d’Italia, soprattutto
in Liguria ma anche in Lombardia. Ma la dinamica, a quanto sembra, era sempre la stessa:
le telecamere venivano nascoste in ogni modo
agli automobilisti e abbinate a limiti di velocità
inverosimilmente bassi, trasformandosi in vere e
proprie trappole. Anche gli autovelox dello scandalo, installati a Cardano al Campo (VA), che
erano stati nascosti addirittura nei cassonetti,
provenivano dalla ditta di Ghizzoni!».
Perché è importante questa sentenza?
«Questa sentenza farà storia perché finalmente i
giudici hanno dimostrato che la proliferazione di
autovelox e soprattutto l’installazione di queste
apparecchiature in punti “strategici”, abbinata
a limiti di velocità inverosimilmente bassi, non
era dettata da amore per la sicurezza stradale,
come spesso invocato dagli amministratori, ma
da puro intento mercantile, alimentato da corruzione e voglia di fare cassa. Le prove addotte
sono stati elementi sufficienti per condannare a
quattro anni i protagonisti di un simile illecito. E
questo non era mai accaduto prima».
Quando una multa elevata con autovelox non
deve essere considerata valida?
«Ogni sanzione elevata con strumenti elettronici
– senza la presenza di un agente - deve essere
accompagnata da una prova che certifichi l’avvenuta infrazione: tale prova è sempre una immagine fotografica. Se manca, non c’è la prova
dell’infrazione. Solo il telelaser non scatta foto,
ma viene operato da un agente che con la sua
testimonianza fornisce la prova. In caso di semafori dotati di T-Red non basta un solo scatto
ma devono essere fornite almeno due fotografie,
una all’inizio e una a metà dell’incrocio. Nel caso
di autovelox e di Tutor invece si deve mostrare
una fotografia in cui si veda in maniera nitida la
targa. E soprattutto non possono essere considerate prove attendibili fotografie in cui si vedono più automobili affiancate».
Come deve essere installato un autovelox secondo la Legge?
«Per legge ogni autovelox – su strade extraurbane - deve essere segnalato almeno 250 metri
prima dalla presenza di un segnale stradale su
fondo blu. Nell’ambito urbano il cartello deve
avere fondo bianco. In entrambi i casi, la segnalazione va ripetuta in prossimità dell’apparecchio.
Più importante è la distanza della postazione dal
cartello che indica il limite di velocità imposto
su quel determinato tratto di strada: l’autovelox
deve trovarsi almeno 1.000 metri dopo il cartello
che limita la velocità. Non si può insomma variare il limite da 90 a 60 km/h e dopo 100 metri
piazzare una bella telecamera per fare strage
di soldi e di punti, come troppo spesso avviene
oggi!».
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Periodico elettronico di informazione motociclistica
EUGENIO FRANZETTI
«PEUGEOT NEL WRC E
DS IN FORMULA-E? È POSSIBILE»
Interviste
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di Ippolito Fassati | La nascita di DS potrebbe sconvolgere radicalmente
le carte in tavola nel motorsport della famiglia PSA, come ci ha
confermato lo stesso Eugenio Franzetti, Direttore Comunicazione
e Relazioni Esterne del Gruppo francese
I
l lancio mondiale del
marchio DS pone un
grande quesito all’interno della grande famiglia
PSA: in futuro quale sarà l’impegno del Gruppo francese nel
motorsport? La nascita di un
terzo marchio infatti potrebbe sconvolgere radicalmente
le carte in tavola, come ci ha
confermato lo stesso Eugenio
Franzetti, Direttore Comunicazione e Relazioni Esterne di
PSA Italia.
E’ una vera rivoluzione quella
che sta attraversando PSA,
non è vero?
«Assolutamente sì. L’aspetto
più interessante di questa nuova era del Gruppo PSA è senza
dubbio il differenziamento dei
tre marchi che è già iniziato e
che sarà sempre più forte in
futuro. Per intenderci, è chiaro
che il cliente di una Peugeot
2008 è completamente diverso da quello di una Citroen C4
Cactus. In questo modo abbiamo esteso tantissimo la nostra
60
arena competitiva».
Cosa ci dobbiamo aspettare?
«Avremo tre gamme di prodotto sempre più diverse tra loro,
che si rivolgeranno a clienti
molto differenziati ma anche
più estesi rispetto al passato.
In questo modo vogliamo migliorare i nostri risultati commerciali».
Quali sono i tempi?
«Tra l’inizio della progettazione di un nuovo modello e l’uscita effettiva sul mercato passano circa dieci anni. E’ chiaro
che quando si parla di auto
ogni rivoluzione richiede i suoi
tempi. Per questo oggi nasce
DS ma per vedere una prima
gamma di nuovi modelli dovremo aspettare ancora qualche
anno».
Potrebbe cambiare tutto quindi anche nel motorsport, dove
siete impegnati su più fronti...
«Anche il motorsport si gestisce con tempi lunghi, per cui
non possiamo interrompere
da un momento all’altro impegni a lungo termini. Il WRC per
esempio è nato con il marchio
Citroen ma ora coinvolge DS,
anche se la vettura continua
ad essere preparata da Citroen
Racing. Ci vorrà del tempo per
vedere dei riallineamenti, ma
è certo che tutti e tre i marchi
saranno sempre coinvolti nel
motorsport».
La grande domanda ruota intorno al nuovo marchio DS.
Quale disciplina sportiva potrebbe sposarsi con la sua
identità?
«DS dovrà trovare uno sbocco
nel motorsport allineato alla
sua sete di avanguardia e tecnologia. Si è parlato tanto di un
debutto in Formula E e ora le
smentite si sono fatte sempre
meno insistenti, quindi è possibile. La Formula E del resto
nasconde uno sviluppo tecnologico impressionanti, quindi
sarebbe perfetto con il mondo
DS».
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Interviste
Periodico elettronico di informazione motociclistica
THIERRY METROZ
«FACCIAMO SUL SERIO, LE DS AVRANNO
INTERNI CON FINITURE IN PIETRA!»
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di Ippolito Fassati | In occasione del lancio ufficiale di DS, che si separa
definitivamente da Citroen, abbiamo intervistato Thierry Metroz,
Direttore Design del Marchio DS Automobiles
I
n occasione del lancio
ufficiale del nuovo marchio automobilistico DS,
che si separa definitivamente da Citroen per sfidare
a testa alta i mostri sacri (tedeschi) del mercato premium,
abbiamo intervistato Thierry
Metroz, Direttore Design del
Marchio DS Automobiles.
Come faranno le DS a proporre qualcosa di diverso dai
marchi premium tedeschi?
«Le DS credo che saranno
molto più innovative perché
porteranno a bordo delle auto
la filosofia puramente francese dell’Art déco. Sulle DS vogliamo riportare sulle auto la
tradizione artigianale dei carrozzieri francesi».
Le tedesche però hanno già
proporzioni molto curate...
«Credo che le auto tedesche
abbiano proporzioni perfette
ma poca attenzione al dettagli
decorativo. Spesso sono mol62
to rigide, solide e non lasciano
molto spazio alla fluidità. In
modo particolare Audi,forse
un po’ meno Mercedes».
vuoi diventare un marchio premium invece quella per le proporzioni deve diventare un’ossessione».
Qual è l’aspetto più importante da curare nel design per entrare a testa alta nel mercato
premium?
«Le proporzioni, non ho alcun
dubbio. E’ molto importante
curare in ogni minimo dettaglio
il rapporto tra la grandezza dei
cerchi, la lunghezza del passo
e la larghezza delle carreggiate. Il lavoro più impegnativo
del mio team è proprio questo:
assicurarsi di avere auto con
proporzioni perfette».
Lo stesso discorso vale anche
per gli interni, vero?
«Sì, le proporzioni devono
dettare legge sia all’esterno
che all’interno, dove è importantissimo arrivare ad avere
un’ergonomia perfetta. Ogni
comando deve essere facile
da azionare, ma anche molto preciso ed efficiente. Poi ci
vuole una qualità assoluta dei
materiali e grande innovazione
tecnologica».
Le proporzioni però sono importanti per ogni marchio
automobilistico. Come volete
distinguervi?
«I marchi generalisti puntano
molto più sui dettagli di stile,
su particolari appariscenti o
originali, ma spesso non curano molto le proporzioni. Se
State veramente pensando di
realizzare interni con finiture
in pietra?
«Certo, facciamo sul serio!
Stiamo veramente studiando
come utilizzare la pietra per
realizzare finiture interne sulle DS di domani. Troveremo
dettagli in pietra sui pannelli
porta, ma anche sulla console
centrale. Abbiamo già la tecnologia per fare tutto questo.
Saremo i primi al mondo ad
utilizzare un materiale così innovativo a bordo di un’auto».
Ma in questo modo non si rischia di aggravare il peso?
«Il peso non rappresenterà un
problema perché utilizzeremo
uno strato sottilissimo di pietra. Il peso sarà quindi assolutamente trascurabile!»
I clienti però potranno continuare a scegliere diversi tipi
di personalizzazione?
«Certo, vogliamo proporre il
massimo della raffinatezza
anche per quanto riguarda i rivestimenti in legno e pelle, ma
vogliamo stupire anche con
pietra e cristallo!»
Design e tecnologia. Chi è più
importante?
«Servono entrambi. Senza
tecnologia il design non è niente. Pensiamo alla pietra. Noi
designer abbiamo pensato di
utilizzarla per impreziosire gli
interni, ma senza la tecnologia
non saremmo mai riusciti ad
applicarla per davvero».
Cosa dobbiamo aspettarci dal
prossimo nuovo modello?
«La prossima DS sarà probabilmente un SUV, perché
questo tipo di auto vanno per
la maggiore in tutte le parti
del mondo. Tutti vogliono un
SUV!»
Non c’è il rischio di avere
un’offerta spropositata nel
mondo dei SUV?
«Non credo perché in futuro
probabilmente vedremo molte
più contaminazioni nel mondo
degli Sport Utility. Ci saranno
SUV più dinamici e magari più
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Interviste
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bassi, ma anche particolari
versioni coupé o sedan».
C’è qualche elemento della
DS originale che ritroveremo
anche sui modelli del futuro?
«Abbiamo preso tre elementi dalla DS originale che vogliamo mantenere anche sui
modelli futuri. Sicuramente il
tetto flottante, che abbiamo introdotto sulla DS 3, ma anche
la particolare modanatura in
alluminio anteriore della DS 5
e la nuova calandra DS Wings.
Tutti questi elementi si rifanno
in maniera inequivocabile alla
prima DS e li ritroveremo anche in futuro».
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Interviste
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PATRIZIA SFERRAZZA, SHELL
«STIMOLIAMO I GIOVANI CON
PROGETTI CONCRETI»
di Andrea Perfetti | Rotterdam ha ospitato la Shell Eco-marathon, dove
studenti di tutto il mondo si sono sfidati ottenendo consumi pazzeschi
(oltre 2.000 km/l!). Il Direttore della comunicazione di Shell racconta
l’impegno del Gruppo a sostegno dei giovani studenti e imprenditori
italiani
R
Rotterdam è protagonista per
il quarto anno consecutivo
della sfida che vede protagonisti oltre 200 equipaggi da
30 Paesi sul circuito cittadino
olandese. Non si lotta per il
miglior tempo sul giro. Al centro della Shell Eco-marathon
sono l’innovazione tecnologica
e il risparmio energetico. Gli
oltre 50.000 studenti in gara
mostreranno all’Europa i loro
incredibili prototipi, in grado
di percorrere migliaia di chilometri con un litro di carburante (avete letto bene). La Shell
Eco-marathon compie 30 anni.
La prima edizione risale al
1985 e oggi si presenta come
la competizione mondiale più
importante nell’ambito dell’energetica. La corsa inventata
66
da Shell è anche un punto di
incontro speciale tra il mondo accademico e le aziende.
C’è inoltre uno scambio di
informazioni tra la Shell e i ricercatori, che sono chiamati
a utilizzare i lubrificanti di ultima generazione per ridurre
al minimo gli attriti interni del
propulsore. E i risultati si vedono sul campo. Il nostro Paese
è rappresentato da 8 team
provenienti da 6 Università e
2 Istituti tecnici. Gli studenti sono presenti a Rotterdam
con veicoli da loro interamente progettati e costruiti. L’Italia schiera cinque veicoli nella
categoria Prototipi e tre nella
categoria Urban Concept: Herbie 3.5 (P) dell’ITIS A. Rossi di
Vicenza, FaBI-Sparkless (P) e
+39D dell’ITIP L. Bucci di Faenza, Escorpio EVO (P) dell’ITIS
L. da Vinci di Carpi, IDRA (P) e
XAM del Politecnico di Torino,
Daphne 2.0 del Politecnico di
Milano e Potentia II dell’Università degli Studi della Basilicata.
Alla compagnia petrolifera va
quindi il merito di investire sulla fornitura di energia ai propri
clienti, puntando al contempo a limitare l’impatto delle
operazioni sull’ambiente. Soprattutto Shell sta investendo dal 1985 nella formazione
dei giovani studenti, sia delle
università che degli istituti
tecnici. Studenti che vengono chiamati a lavorare con le
aziende e a interagire in modo
interdisciplinare, acquisendo
esperienze che poi si rivele-
ranno essenziali nel mondo del
lavoro. Di questa importante
attività ha parlato con noi Patrizia Sferrazza, Direttore Relazioni Esterne e Comunicazione di Shell Italia.
A Rotterdam innovazione e
efficienza energetica sono i
temi principe della Eco-marathon.
«Il 2015 è un’edizione entusiasmante della Shell Eco-marathon, non solo perché si celebra il suo 30° anniversario e
nel corso della manifestazione
ci sarà occasione di ripercorrere la storia e i successi di questi tre decenni, ma soprattutto
perché ogni anno ci si confronta con nuove sfide alla ricerca
di soluzioni e tecnologie che
possano contribuire alle sfide
globali per il futuro dell’energia
e della mobilità».
To Liquid), quindi c’è una collaborazione molto stretta di cui
siamo orgogliosi».
Qual è il rapporto di Shell con
gli studenti in gara? C’è un
reale scambio di informazioni
utili alla ricerca e che quindi
avranno ripercussioni sulla
nostra vita quotidiana?
«Sicuramente la nostra compagnia ha un ruolo di primo
piano. Basti pensare ai lubrificanti di ultima generazione Helix sintetici, realizzati partendo
dal gas naturale e largamente
impiegati nella Eco-marathon
proprio in virtù dell’alta protezione offerta unita agli attriti
estremamente ridotti. Il team
italiano di Faenza impiega poi
il nostro carburante GTL (Gas
Da due anni avete un premio
particolare, denominato Tribology Award. Di cosa si tratta?
«Il Shell Helix Tribology Award
premia i team che sfruttano al
meglio la tecnologia dei lubrificanti per migliorare l’efficienza del loro veicolo. Sappiamo
infatti tutti che i lubrificanti
contribuiscono in modo evidente alla riduzione dei consumi. Questo premio incoraggia
quindi gli studenti a considerare i lubrificanti come una componente essenziale per ridurre
il consumo e incrementare l’efficienza energetica».
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Interviste
Periodico elettronico di informazione motociclistica
partner di eco-patente (il
progetto gratuito che forma
istruttori di guida e neopatentati a una condotta più sicura
e diffonde informazioni sul
corretto ed ecosostenibile utilizzo dell’autovettura. Nda).
Avremo modo di aggiungere al
programma di ecopatente una
serie di informazioni sulla scelta del lubrificante e sulla cura
dell’auto per ottenere un impatto migliore sull’ambiente».
Torniamo agli studenti italiani che partecipano alla Ecomarathon. Cosa imparano in
questa esperienza?
«Vediamo gruppi di studenti
entusiasti, contenti di esprimere il loro talento e di cercare
innovazioni in una applicazione
pratica. Passano da uno studio
teorico a una pratico in cui si
confrontano con le diverse abilità necessarie a realizzare un
progetto complesso. Ci siamo
confrontati negli anni con studenti di ingegneria meccanica
che hanno lavorato in perfetta
sinergia con architetti per la
parte di design o con le facoltà
di comunicazione per avviare progetti in cui si dovevano
reperire sponsor. Lo stesso
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Politecnico di Milano è riuscito a vincere il Communication
Award per due volte negli anni
passati».
Oltre agli studenti, gioca un
ruolo di primo piano il mondo accademico. Qual è il suo
peso, anche economico?
«La risposta è molto positiva,
soprattutto da parte delle Università che sono naturalmente
più prossime al mondo del lavoro. Il Politecnico di Milano
ha iniziato a partecipare nel
2003, negli anni ha realizzato
diversi veicoli. Anche il Politecnico di Torino, che prende
parte alla manifestazione da 7
anni, ha messo in campo uno
urban concept studiato per la
mobilità urbana. Ha già un
design e una funzionalità vicini a un veicolo di normale
produzione. Shell fa ricerca e
sviluppo nei propri laboratori,
ma qui dà ai giovani una piattaforma sui cui sperimentare
il meglio del talento loro e dei
loro colleghi. Due anni fa un
team svedese è riuscito a fare
immatricolare il suo veicolo in
gara alla Eco-marathon e oggi
è regolarmente venduto».
C’è una regione italiana in cui
siete particolarmente presenti?
«Sì, direi sicuramente la Basilicata. Qui nel 2010 abbiamo
lanciato il progetto Shell Inventagiovani. È un programma di investimento e sviluppo
sostenibile promosso da Royal
Dutch Shell volto a incentivare l’imprenditorialità giovanile.
L’obiettivo non è dare soldi,
ma fornire supporto, formazione e servizi di orientamento
e di consulenza ai potenziali
imprenditori di domani che
abbiano un’idea di business. Si
rivolge ai giovani della Basilicata di età compresa tra i 18 e i
35 anni. Nel mondo del lavoro
mancava infatti a livello locale
una preparazione adeguata a
fare un business plan, fondamentale per passare dall’idea
ai fatti».
Che risultati avete ottenuto?
«I risultati sono sorprendenti. Questo è un progetto che
Shell realizza in altri 25 Paesi. In Italia abbiamo lanciato
sette imprenditori, che hanno
dato corpo alla loro idea di business in Basilicata. Altri due
sono in startup. La Basilicata
soffre l’abbandono dei giovani che cercano lavoro altrove,
per questo aver dato supporto
alla realizzazione di sette idee
imprenditoriali è per noi una
grande soddisfazione. Sono interessanti le idee che nascono.
Il primo imprenditore ha aperto una linea cosmetica, partendo dal latte di asina prodotto
dai suoi genitori. Un’altra ragazza, sulla spinta del turismo
in aumento in Basilicata, ha
inaugurato un corso di inglese
itinerante, che raggiunge i paesi più remoti con un pulmino
e forma gli operatori turistici.
Anche le altre iniziative sono
molto interessanti».
C’è tanta attenzione ai giovani da parte di Shell, basta
vedere la gara di Rotterdam.
E la risposta va oltre le aspettative, il messaggio è incoraggiante
«Sì, sta a noi saper stimolare
i giovani e proporre quelle occasioni concrete di confronto
con progetti che incontrino le
esigenze dei ragazzi.
Vanno coinvolti nella costruzione del loro futuro, la risposta sarà sicuramente entusiasmante».
Quali altre iniziative avete in
Italia per affiancare i giovani
e avvicinarli al mondo del lavoro?
«Abbiamo diverse attività.
Siamo presenti nel settore dei lubrificanti e siamo
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ORIGINI E AFFERMAZIONE
DEI FRENI A DISCO
di Massimo Clarke | Dalle prime proposte e dai primi brevetti alla
affermazione definitiva, ottenuta grazie ai grandi successi agonistici.
Ecco la lunga ed interessante storia dei freni a disco
C
ome accaduto per tanti altri dispositivi e per tante altre soluzioni tecniche, anche nel caso dei freni a disco
l’idea base risale agli albori del motorismo. E, anche in questo caso, per arrivare a
metterla in pratica in maniera razionale e vantaggiosa, di acqua sotto i ponti ne è dovuta passare
non poca… Il primo brevetto relativo a un freno
a disco destinato ad equipaggiare un’automobile, per quanto è dato sapere risale al lontano
1902. Il merito va a F. W. Lanchester, un tecnico
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Tecnica
Periodico elettronico di informazione motociclistica
inglese davvero vulcanico, che per diverso tempo ha anche costruito vetture di pregevole fattura. La sua prima proposta prevedeva un sottile
disco che veniva stretto per mezzo di una semplicissima pinza meccanica tra due piccole pastiglie. In seguito Lanchester ha realizzato anche
un tipo che lavorava in bagno d’olio.
I primi esempi
Nel corso degli anni Dieci e Venti del secolo scorso si sono susseguite proposte differenti, negli
USA, in Germania e in Inghilterra; in certi casi
(come quello dell’americana Tru-stop), il freno
agiva sull’albero di trasmissione; altre riguardavano soluzioni multidisco, con una struttura
che ricordava quella delle frizioni motociclistiche. Quest’ultimo schema ha successivamente
trovato applicazioni in campo aeronautico per
merito di costruttori come Dunlop, Lockheed,
Goodyear (la “Airwheel”) e Argus Motoren. Un
interessante brevetto, rilasciato nel 1933 alla English Electric Co., prevedeva un freno con disco
autoventilante con pinza meccanica; era stato
studiato per impiego industriale ma aveva un disegno assai simile a quello dei freni che successivamente si sarebbero affermati sulle auto. Va
ricordato anche, nello stesso periodo, il brevetto
relativo a un freno a dischi multipli per impiego
aeronautico rilasciato all’americano Weldon.
Nel corso della seconda guerra mondiale freni a disco realizzati con vari schemi sono stati
impiegati anche su alcuni carri armati e su alcuni
veicoli blindati. Nel 1940 alla famosa 500 miglia
di Indianapolis hanno preso parte due vetture
dotate di freni a disco, una Lencki-Special e una
Miller a quattro ruote motrici. L’adozione della
nuova soluzione tecnica non ha destato particolare interesse, perché sul velocissimo ovale non
si fanno certo grandi staccate e, diversamente
da quanto accade sui circuiti europei, i freni non
sono determinanti. A
Le Mans la consacrazione
Una volta terminate le ostilità, le preziose e positive esperienze effettuate nel settore aeronautico hanno portato rapidamente diversi tecnici a
focalizzare le loro attenzioni sulle possibilità di
impiego di freni di questo tipo in campo automobilistico. Da un suo brevetto del 1946 la Dunlop
ha così sviluppato nel giro di pochi anni un freno
con unico disco sul quale agivano tre coppie di
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Tecnica
Periodico elettronico di informazione motociclistica
19). Per quanto riguarda i fabbricanti dei dischi
e delle pinze, a Dunlop e Girling si sono successivamente aggiunti marchi come Lockheed, DBA,
e ATE. Nella prima metà degli anni Sessanta la
maggior parte dei costruttori europei è passata
gradualmente ai freni a disco anteriori per quasi
tutti i modelli, mantenendo però ancora i molti
casi i tamburi posteriormente. Solo sulle auto
di impostazione più utilitaria e di prestazioni più
modeste i tamburi hanno continuato ad essere
impiegati ancora per qualche tempo su tutte e
quattro le ruote.
I vantaggi del disco
Mentre nei freni a tamburo delle due ganasce
usualmente vincolate al piatto portaceppi almeno una è autofrenante, nei freni a disco questa
sorta di autentica “servoassistenza incorporata”
non c’è e nel circuito idraulico di comando deve
pastiglie, disposte a 120° e spinte da sei pistoni
idraulici, destinato ad essere montato su vetture
di alte prestazioni. Nel 1949 negli USA la Crosley
ha montato su una piccola serie della sua Hot
Shot dischi autoventilanti realizzati in collaborazione con la Goodyear. Un discreto successo
hanno avuto i freni con due dischi completamente racchiusi all’interno di un grosso tamburo
fittamente alettato che sono apparsi nello stesso periodo sulla Chrysler Crown Imperial e che
hanno continuato ad essere impiegati fino al
1954. I dischi erano fissi ma potevano scorrere
assialmente; a premerli contro le superfici laterali del tamburo rotante provvedevano alcuni cilindri idraulici. Le prime prove di freni di questo
tipo erano state effettuate addirittura nel 1939
su una vettura Plymouth. Lo sviluppo effettuato
dalla Dunlop partendo dai suoi freni per impiego
72
esserci una pressione notevolmente più elevata.
Per questa ragione sin dai primi esempi di impiego dei freni a disco è stato adottato un dispositivo in grado di aumentare considerevolmente la
forza esercitata dal pilota sul pedale. Di servofreni ne erano stati ideati e realizzati di vario tipo
anche in precedenza; ad affermarsi, per la loro
semplicità e per la loro ottima efficienza, sono
stati quelli pneumomeccanici, che funzionavano
sfruttando la depressione esistente nel collettore di aspirazione durante la fase di rilascio (cioè
con il motore trascinato, a farfalla chiusa). Questi dispositivi sono costituiti in pratica da capsule
pneumatiche di rilevante diametro nelle quali il
vano interno è diviso in due parti da un apposito diaframma; una viene al momento opportuno
messa in collegamento con l’atmosfera, mentre
l’altro è collegato al collettore di aspirazione. In
fase di rilascio la pressione atmosferica spinge
aeronautico è sfociato in una serie di prove in
gara che si sono svolte a partire dal 1952 su vetture Jaguar; una di esse ha preso parte alla Mille
Miglia e un’altra si è imposta a Le Mans nel 1953.
Anteriormente venivano impiegate pinze con sei
pistoni opposti. Proprio la durissima competizione francese ha visto la definitiva consacrazione
dei freni a disco nel 1954, anno nel quale hanno
equipaggiato le esordienti Jaguar D, vincitrici
della 24 ore nel 1955, 56 e 57.
Il disco arriva sulle auto di serie
Oramai la strada era stata indicata e i freni di
questo nuovo tipo hanno cominciato ben presto
ad essere impiegati anche su alcune auto di serie, non solo sportive a due posti (Austin Healey,
Triumph, Jensen) ma anche berline destinate ad
essere prodotte in grandi numeri (Citroen DS
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sul diaframma con una forza che va a sommarsi a quella che dal pedale viene trasmessa alla
pompa del circuito idraulico di comando del sistema frenante. Rispetto ai quelli a tamburo, i
freni a disco presentavano vari vantaggi, tra i
quali spiccava un più agevole raffreddamento.
Nonostante questo, per le applicazioni più gravose (veicoli da competizione o di prestazioni
molto elevate) ben presto è apparso evidente
che occorreva migliorare la situazione. Il disco
lavorava allo scoperto, ma veniva ad essere abbondantemente “schermato” in quanto alloggiato all’interno della campanatura della ruota. Per
aumentare la superficie di scambio termico (fermo restando il diametro) e per attivare una vigoroso flusso di aria sfruttando la forza centrifuga
sono stati così realizzati i dischi autoventilanti,
dotati di una serie di passaggi radiali ottenuti per
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foratura o direttamente di fusione. Per quanto
riguarda le pinze, inizialmente sono state impiegate anche soluzioni che in seguito sono state
abbandonate, a vantaggio di quelle che da anni
dominano la scena.
Meritano di essere ricordate le prime Dunlop, costituite da un corpo principale centrale al quale
erano fissati mediante viti i cilindri idraulici individuali. Le prime Girling erano monoblocco, con
due cilindri idraulici opposti ottenuti mediante
foratura, praticata da un lato (l’altra estremità
era cieca), dove successivamente veniva applicato un grosso tappo filettato di chiusura. Sulla
Citroen DS 19, apparsa alla fine del 1955, venivano impiegate pinze che già prefiguravano la soluzione flottante, largamente affermatasi a partire
dai primi anni Sessanta per ragioni di costo e di
ingombro.
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L’
idea di riciclare oggi, per fortuna, è
entrata nell’immaginario collettivo
ma un tempo le cose non erano
proprio così, tanto che ci si sbarazzava degli oggetti con molta più facilità.
MUSEO NICOLIS
ECCO PERCHÉ BISOGNA
ANDARCI UNA VOLTA NELLA VITA
di Matteo Valenti | Dalla passione per la meccanica dell’imprenditore
veronese Luciano Nicolis è nato a Villafranca di Verona un museo che
raccoglie delle rarità eccezionali: il Museo Nicolis
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Un’ossessione per il riciclo
Questo spreco però non andava proprio giù a Luciano Nicolis, un geniale imprenditore veronese
che in tempi insospettabili si inventò un metodo
per riciclare la preziosissima carta. Nel giro di pochi anni la sua azienda, la Lamacart, è diventata
una delle realtà leader nel recupero dei materiali
a base di cellulosa e ancora oggi questo società
opera in tutto il mondo con processi e tecnologie all’avanguardia. Nel frattempo però questo
“pioniere del riciclo” ha continuato a recuperare
e collezionare tantissimi tipi di oggetti, spesso
diversi tra loro ma sempre accomunati da un
unico aspetto: tutti i pezzi della sua collezione
erano animati da un principio meccanico. In particolare il Signor Nicolis era affascinato quindi
da automobili, motociclette e bici ma non solo.
Dopo aver raccolto oggetti di straordinaria bellezza per tutta una vita Luciano Nicolis ha deciso
poi di radunarli tutti in un museo, fatto costruire
appositamente a fianco della sua Lamacart ed
inaugurato nel 2000.
Auto: 100 esemplari di
valore inestimabile
Il museo si sviluppa su quattro piani per un totale
di 6.000 metri quadrati di esposizione. Partiamo
naturalmente dalle auto. Ce ne sono circa cento,
una più bella dell’altra. Rimaniamo colpiti in maniera particolare per esempio da una rarissima
Benz del 1914, ordinata da un maharaja indiano. Oppure da affascinanti esemplari di Lancia:
una Beta 20 HP, ricchissima, e una mitica Lambda, la prima auto di serie con telaio a struttura
portante, il capolavoro di Vincenzo Lancia. Non
manca nemmeno il massimo dell’opulenza, grazie ad una pregiatissima Isotta Fraschini Tipo 8
del 1919, una delle prime auto a montare un otto
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Stupirsi ad ogni angolo
Se non siete ancora soddisfatti poi potete lasciarvi rapire poi da una miriade di altri oggetti di
grande pregio. Nel museo ci sono 120 biciclette
di ogni epoca, 500 macchine fotografiche, ma
anche 120 strumenti musicali tra cui pianoforti
e grammofoni. Ci sono poi qualcosa come 100
macchine per scrivere una diversa dall’altra e
poi enormi motori per aerei e per navi, collezioni
di fanali, stemmi, vestiti, giocattoli, autoradio e
strumenti aeronautici. Ma basta girare un angolo
per scoprire qualcos’altro di nuovo e di diverso!
Una collezione per “preservare il futuro” Quella di Luciano Nicolis, scomparso nel 2012 a 79
anni, è stata una passione per il collezionismo, il
restauro e soprattutto la meccanica veramente
lontana dai confini della realtà. E ora, mentre ci
troviamo qui, immersi nei suoi incredibili oggetti,
ci vengono in mente le sue parole. «Non siamo
i proprietari di tutto questo – diceva Luciano
Nicolis – siamo solo i custodi per il futuro». E a
questo punto, non resta che emozionarsi ancora
di più.
cilindri in linea. E poi si continua con Alfa Romeo,
Balilla, Delahaye, ma anche Lamborghini, Maserati, Fiat, Cadillac e chi più ne ha più ne metta!
L’auto più sensazionale dell’intera collezione è
senza dubbio l’incredibile Lancia Astura Spyder
che campeggia al centro del primo piano, realizzata appositamente da Alfa Romeo per le
competizioni automobilistiche. Dopo aver partecipato per diverse edizioni alla Mille Miglia,
questa meraviglia cade nelle mani scellerate di
contrabbandieri che commerciano orologi di
grande valore dall’Italia alla Svizzera. In seguito
la polizia della Confederazione confisca l’auto ai
contrabbandieri e finisce dimenticata per anni in
un deposito. Fino a quando, un giorno, non viene
trovata dal nostro protagonista, che la riporta al
suo splendore.
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Moto: ce n’è per tutti i gusti
Luciano Nicolis, certo, era sì un grande appassionato di automobili ma in realtà la sua passione
sconfinava ancora oltre. Come abbiamo ricordato in apertura infatti, a lui interessava qualsiasi
oggetto fosse animato da un principio meccanico. E quindi non potevano mancare le motociclette. Moto Guzzi, Gilera, Benelli e Bianchi. Al
museo di Villafranca di Verona c’è veramente da
perdere la testa. Ma la cosa più incredibile è che
ciascuno di questi veicoli è perfettamente funzionante. Nel museo c’è veramente da perdersi.
In ogni angolo si trovano oggetti incredibili. Non
manca nemmeno una strepitosa collezione di
volanti appartenuti a piloti di Formula 1. Ci sono
quelli di Senna, Schumacher, Berger, Keke Rosberg e tanti altri ancora!
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IMM 2015
IL VIDEO DEL RADUNO
PIÙ PAZZO DEL MONDO
di Matteo Valenti | La passione per l’automobile non conosce confini.
Per capirlo basta farsi un giro al Raduno Mondiale Mini, un posto
incredibile dove accorrono ogni anno migliaia di appassionati da
ogni angolo del mondo
L
a passione per l’automobile non conosce confini. Lo sappiamo benissimo
noi, che andiamo matti per i motori!
Quest’anno infatti l’International Mini
Meeting, il più grande raduno del mondo dedicato alla Mini si svolge nel cuore della Lituania, vicino a dei bellissimi laghi. Alcuni sono proprio dei
matti, venite a conoscerli con noi. Eh sì, perché
a questo raduno se ne vedono davvero di tutti i
colori. Dalla Mini Limousine, alle elaborazioni più
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strane, fino alle incredibili versioni trasformate
in Monster Truck. Naturalmente, con caravan al
seguito, giusto per non farsi mancare niente! Ma
ci sono perfino le curiose Marcos e le simpaticissime Mini Moke, con capottina rigorosamente
in tela. Tantissime però anche le Mini della “rinascita degli anni 2000”, quelle dell’era BMW
per intenderci. Esemplari di prima, seconda e
perfino terza serie, ancora freschi freschi di fabbrica, si mischiano con armonia alle loro nonne.
Una prova inconfutabile del successo ottenuto
dall’operazione BMW, che è riuscita a traghettare nell’era moderna i concetti di fondo della Mini
originale. Ma per capire perché un’auto come la
Mini, apparentemente semplice e forse, in alcuni casi, anche un po’ buffa, possa far scaturire
una passione più forte di qualsiasi cosa, anche
di distanze improponibili, basta parlare con loro,
i tanti protagonisti del Mini Meeting. Li abbiamo
intervistati nel nostro video, buona visione!
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molto altro ancora in occasione dell’IMM 2015,
dove è tornato ad essere circondato, ancora una
volta, dalle sue tanto amate Mini.
La Mini trionfa al Rally di Montecarlo nel 1967 e
lascia il mondo a bocca aperta. Qual è il segreto di una vittoria simile?
«Il primo segreto della grandissima competitività
della Mini Cooper S da rally erano le dimensioni,
perché era molto piccola. Ma la sua vera arma
erano gli sbalzi così corti. Questo ci consentiva
di cambiare direzione utilizzando molta meno
trazione e potevamo montare anche pneumatici
con prestazioni inferiori rispetto ai nostri avversari».
E poi?
«Guardate la sua larghezza, è strettissima! Questo ci permetteva di avere un angolo di sterzata
molto, ma molto più ristretto a quello di vetture
più grandi. In una successione di curve per esempio, questo si traduceva in un maggiore velocità
perché riuscivamo ad avere traiettorie migliori,
più strette ed efficienti. Con una macchina così
stretta riuscivamo ad entrare in curva più forte
degli altri».
Eppure tanti pensano che le auto a trazione
anteriore non siano realmente competitive...
«La trazione anteriore può essere svantaggiosa per chi non sa guidare bene. Un pilota deve
sempre capire come lavora una macchina e in
una trazione anteriore è fondamentale mandare
sempre in drift l’asse anteriore, controllandolo
però con l’acceleratore».
Ma non era in sottosterzo in questo modo?
«Certo! Ero sempre in sottosterzo, ma lo
controllavo trasformandolo in un vantaggio.
Come facevo? Agivo contemporaneamente su
RAUNO AALTONEN
«MA QUALI SUPERCAR! PER DIVERTIRSI
BASTA ANCORA POCO, COME NEL ‘70»
di Matteo Valenti | Rauno Aaltonen, vincitore del Rally di Montecarlo
nel ‘67 con la Mini, ci svela i retroscena di quella vittoria leggendaria, in
un’intervista che ci porta fino ai giorni nostri per scoprire che il mondo,
in certi casi, non è poi così tanto cambiato
C
lasse 1938, Rauno Aaltonen è un pilota vecchia scuola, che dice le cose
come stanno senza troppi giri di parole. Soprannominato il “Professore
dei Rally” per il suo indiscutibile talento, questo
pilota finlandese è stato uno dei personaggi chiave del Mondiale Rally negli anni ‘70, insieme a
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nomi del calibro di Timo Mäkinen e Sandro Munari. Tra le tante vittorie conquistate in carriera
però una, più di tutte, è rimasta scolpita nell’immaginario collettivo. Stiamo parlando del leggendario primo posto al rally di Montecarlo conquistato nel 1967 al volante della piccola ma tenace
Mini Cooper S. Aaltonen ci ha parlato di questo e
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indiscrezioni dicevano chiaramente che le auto
inglesi sarebbero state squalificate dall’organizzazione a Montecarlo. Una fonte molto autorevole infatti, sapendo che c’era questo clima, mi
consigliò prima della gara di controllare ogni singola vite della mia Mini, affinché fosse perfettamente allineata ai regolamenti. In ogni caso nemmeno questo bastò ad evitare quella misteriosa
squalifica. Qualcuno non voleva chiaramente
che la Mini vincesse. Purtroppo non ho mai scoperto chi fosse. Ma ormai sono passati troppi
anni, guardo avanti, mai voltarsi indietro!».
La Mini è l’auto da corsa a cui è rimasto più
affezionato?
«Ho amato tante automobili nella mia carriera.
La Mini certamente è una di quelle a cui sono
più affezionato, ma prima di conoscerla ho adorato anche Saab, MG e Mercedes. Quest’ultima
in particolare è stata un’auto che mi regalò mio
padre e che io trasformai in versione rally. Con la
Mercedes ho imparato a driftare perfettamente
sfruttando la trazione posteriore.»
entrambi i pedali con grande decisione. Questo
mi consentiva di far girare la macchina molto di
più che se avessi scelto di utilizzare soltanto la
potenza del motore. Premere su freno e gas contemporaneamente mi dava lo stesso effetto del
freno a mano, ma al tempo stesso non perdevo
così tanto tempo e non stressavo troppo la meccanica della vettura».
Tanti piloti si sono serviti poi di questa tecnica
pazzesca...
«Sono stato il primo al mondo a sviluppare questa tecnica di guida. Un altro pilota che la imparò molto presto fu Timo Mäkinen, ma non sono
stati tanti quelli che l’hanno saputa adottare
in maniera veramente efficacie. Il rischio è di
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frenare troppo con il risultato di essere più lenti
e non più veloci! Per questo consiglio sempre ai
non professionisti di dimenticarsi di questa tecnica di guida».
Una curiosità. Mini avrebbe potuto conquistare un grande risultato a Montecarlo già nel
1966, ma vennero squalificate inspiegabilmente tutte le auto britanniche. La versione ufficiale dice che la squalifica arrivò per i fari non
regolamenteri... ma qual è la verità?
«Non l’ho mai capito neanch’io. Non ho prove per sostenerlo, ma sono sicuro che la decisione di squalificare le Mini era stata presa
ancor prima della gara. A dicembre del ‘65 infatti mi erano già arrivate delle voci. E queste
Eppure nella sua carriera c’era posto anche
per una gloria italiana, non è vero?
«Sì ho corso anche con la Lancia Fulvia HF,
un’auto eccezionale! Il suo motore V4 era fenomenale, ve lo posso garantire!»
Quindi preferiva guidare comunque auto a trazione posteriore?
«Il tipo di trazione per me non faceva alcuna differenza. Anteriore e posteriore, riuscivo ad essere sempre veloce, anche se bisognava adottare
tecniche di guida completamente diverse».
Ha corso anche con il grande Sandro Munari.
Cosa ricorda di quegli anni magici?
«Con Sandro non eravamo rivali. Abbiamo corso
anche nello stesso team e avevamo un bellissimo rapporto tra di noi. L’atmosfera nel paddock
era amichevole, ci volevamo tutti bene. Certo,
capitava che ci raccontassimo piccole bugie tra
di noi per crearci piccoli vantaggi, per esempio
sugli assetti. Ma non siamo mai andati oltre, non
c’è mai stata una scazzotata, non ho mai sentito
urla e non ho mai visto comportamenti maleducati. Era davvero un rapporto tra gentleman».
Chi sono stati i suoi avversari più forti?
«I miei più grandi rivali in gara sono stati certamente Sandro Munari, Timo Mäkinen, Erik Carlsson e Paddy Hopkirk».
Oggi il mondo del rally è completamente cambiato. Cosa pensa del WRC attuale?
«Mi piace il WRC oggi, sono contento di vedere
auto ancora così potenti. Mi dispiace solo che
per motivi di costi non si sia scelto di avere auto
con il differenziale centrale».
Perché?
«Sulle automobili di serie a trazione integrale il
differenziale centrale è diventato fondamentale.
Altrimenti ci ritroveremmo ancora oggi con dei
sistemi 4x4 come quelli dei trattori del 1951! E
sarebbero auto inguidabili perché ci sarebbero
pattinamenti in continuazione! Se si fosse adottato il differenziale centrale sulle WRC quindi
avremmo potuto sviluppare molto più velocemente questa tecnologia, per portare nuovi
sviluppi sulle auto di serie. La competizione va
bene, ma in questo modo non c’è travaso tecnologico tra motorsport e auto di serie».
Però il WRC aiuta nello sviluppo di molte componenti per l’auto. Penso agli pneumatici...
«Certo, il WRC aiuta a velocizzare lo sviluppo di
motori, cambi, pneumatici e sospensioni. Ma
non dà nessun contributo alla progettazione dei
differenziali centrali, che sono diventati vitali sulle auto AWD di serie».
Cosa ne pensa dei piloti di oggi?
«Loeb è stato senza dubbio un pilota eccezionale
nel WRC, l’ho adorato a 360°. E la sua forza era
tutta nella sua infinita intelligenza. Provate ad
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Anche lei, come il sottoscritto, è un sostenitore
della teoria di Colin Chapman “less is more”?
«Sono completamente d’accordo, da sempre!»
Dovrebbe farlo presente un po’ più spesso alla
Case auto...
«Sai, sarebbe anche inutile dirglielo, perché i costruttori non fanno che altro che assecondare i
gusti dei clienti. E se i clienti chiedono sempre
più potenza è normale che le case si adeguino».
Eppure un’auto leggera è sempre la scelta vincente, la potenza non è tutto...
«Non sono contrario alla potenza a prescindere.
Sono solo convinto che certi livelli di potenza,
500 o 600 CV, debbano sempre rimanere riservati a mani esperte e non a chiunque. Possono
avere anche tutta l’elettronica del mondo, ma diventano talmente veloci che per la maggior parte
dei guidatori possono diventare veramente pericolose.»
Quindi per divertirsi, alla fine, basta ancora
“poco”?
«Prendiamo un esempio concreto. La Mini One
D, è vero, non ha moltissima potenza ma è affidabile e consuma pochissimo. Ecco, una macchina
così, con un bell’assetto e un bello sterzo, è già
più che sufficiente per divertirsi senza correre
rischi inutili!»
ascoltare le sue interviste, non ha mai puntato il
dito contro nessuno quando le cose si mettevano male. Un vero “sportsman”!»
E della Mini di oggi? È riuscita a conservare
davvero lo spirito di quella originale?
«Credo proprio di sì. La Mini di oggi ha ancora il
motore trasversale, gli sbalzi molto corti e le dimensioni tutto sommato sono compatte. Questo
significa che la Mini attuale, come quella di allora, è estremamente reattiva».
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Eppure anche la nuova Mini è cresciuta sempre di più...
«Il problema è che oggi i clienti vogliono avere
auto sempre più grandi.
E poi spesso, secondo me, i clienti non sanno
cosa vogliono davvero.
Un’auto grande, per viaggiare comodi o una piccola e veloce, per divertirsi?
Alcuni se lo dimenticano, ma questi due aspetti
non possono andare insieme.
In nessun modo!»
Qual’è stata l’auto di serie che ha utilizzato di
più?
«L’auto su cui ho macinato più chilometri nella
mia vita privata, non in gara, è stata senza dubbio una BMW 320».
Quando sono stato in Finlandia ho capito perché siete i rallisti più bravi del mondo. Avete
condizioni climatiche estreme, strade fantastiche e soprattutto deserte! Ha iniziato a guidare già da bamabino?
«Sì, ho iniziato a guidare all’età di sei anni. Mio
padre all’inizio saliva con me, più che altro in
caso ci fermasse la polizia. Ricordo che mi diceva
sempre: “io ti faccio guidare ma mi raccomando,
niente incidenti!”. In ogni caso già ad otto anni
andavo ad allenarmi da solo».
Oggi ha una scuola di guida in Finlandia. Cosa
insegnate ai piloti di domani?
«Sì, oggi gestisco una scuola di guida, ma alla
mia maniera! Insomma non insegnano solo a
fare la frenata di emergenza e l’evitamento ostacolo. Da me si impara quale pedale schiacciare
per andare più veloce!»
Se dovesse dare un consiglio ad un pilota per
diventare più veloce cosa gli direbbe?
«Il segreto per andare forte su un’auto da corsa è
solo e soltanto la concentrazione.
Punto. Bisogna riuscire a estraniarsi da tutto, dal
contesto, e iniziare a pensare solo ad andare più
forte possibile. Per guidare forte in pratica non
si devono provare emozioni di alcun tipo. Vuoi
vincere?
Lascia le tue emozioni da qualche altra parte! Se
riesci a trovare questa forma assoluta, credimi,
riesci a sentire persino un’auto che sopraggiunge da una curva cieca e che tu non hai modo di
vedere.»
Non deve essere per niente facile...
«Penso che un pilota, specialmente oggi, debba
sempre avere un supporto psicologico al suo
fianco. Riuscire a trovare la concentrazione assoluta è difficilissimo, in pochi ci riescono per
davvero».
E lei ci riusciva?
«Ogni tanto, non sempre!»
E invece cosa consiglierebbe di non fare assolutamente, dall’alto della sua esperienza?
«La cosa più sbagliata da fare? Sentirsi “cool”.
Credo che sia un atteggiamento sbagliato in ogni
campo. Se fai una cosa perché è “cool” non farla,
rischi di fare una stupidaggine!»
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Formula 1
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spostando motore o accessori più vicini al baricentro. Cambia di conseguenza anche l’aerodinamica e i centri di pressione dinamica, quindi si
tratta di fare una macchina completamente nuova che ha bisogno di ore di studi in galleria del
vento, quindi il risparmio di regole fisse e stabili
nel tempo va a farsi benedire. Come si dovranno
rifare le scocche per sopportare i carichi durante
i rifornimenti, quindi la zona deve essere rinforzata con standard diversi. Per risparmiare soldi
i fenomeni della F.1 hanno imposto da due anni
i rapporti del cambio fissi, ovvero non puoi nemmeno cambiare marcia perché costa troppo…
Più peso, più gente al seguito
FORMULA 1
MONDIALE 2017: RITORNO AL FUTURO
di Paolo Ciccarone | Reintroduzione del rifornimento e gomme più
larghe sono le novità individuate dallo strategy group della F.1. Sono
soluzioni datate, che comporterebbero più costi e sollevano più di un
dubbio...
L
a F.1 guarda al domani girandosi indietro. Dopo la riunione dello strategy
group, che dovrebbe disegnare le monoposto e le regole del futuro, è emerso un quadro che di nuovo non ha nulla, ma anzi
riprende alcune vecchie cose buttate in soffitta
perché obsolete e fuori tempo massimo. Si comincia dal rifornimento.
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Rifornire una monoposto vuol dire avere due apparecchi per la benzina (uno attivo e uno di scorta) e se son due le auto magari averne quattro
tanto per non sbagliare. Si tratta di strutture che
pesano un centinaio di kg e ogni kg costa circa
45 euro nel trasporto aereo, quindi solo per uno
strumento ci vogliono 4500 euro a bilancio in
più per ogni gara (18000 euro se son due) moltiplicato per la stagione di 20 gare si tratta di un
aggravio di circa 400 mila euro di spese. Certo,
fanno ridere rispetto a quello che spendono solo
di acqua minerale in un team, ma oltre ai macchinari ci sono più meccanici da portare in giro,
ovvero oltre ai soliti tre per ruota (e fan 12) più
crick (altri 2) e segnalatore ce ne vogliono altri
due-tre per azionare lo strumento. Aggiungere
costi di trasporto e stipendi…
(aumento del regime di rotazione) a che serve
avere auto che dovrebbero consumare meno ma
devono fermarsi ai box perché non possono finire la corsa con la stessa benzina a bordo? E’ un
controsenso che non esclude i rischi al pit stop,
con incidenti sempre in agguato, a meno che il
rifornimento non lo faccia il pilota mettendo la
tessera punti nella macchinetta, prende la pompa si fa il pieno e poi torna in auto come facciamo
noi comuni mortali.
Gomme spalla larga
Si parla anche di gomme più larghe per dare più
aderenza, ovvero dopo 20 anni tornare alle 18
pollici di battistrada dopo che per anni ci hanno
imposto le 15 e per giunta scanalate per farle
scivolare meglio. Ora pensate a un costruttore
(dal 2017 potrebbero essere in gioco alternative
a Pirelli) che senza fare prove, senza poter sviluppare le coperture (come succede anche oggi
agli italiani) devono mettere in pista una gomma
basata sulla fiducia con motori che dovrebbero
dare 1000 cavalli invece degli 800 di oggi. E per
ora ci fermiamo qua perché altri dubbi verranno
a galla nei prossimi giorni. Quello che è certo è
che i fenomeni della F.1, fin tanto che si faranno
le regole da soli, non andranno da nessuna parte
e il circo rischia di affondare sempre più.
Meno consumi, più consumi
Cambiare per rifornire
Fare una monoposto che preveda il rifornimento vuol dire buttare via le auto attuali e pensarne di nuove per diversi aspetti. La prima, il serbatoio attuale è di 100 kg di capacità. E’ inutile,
a parità di consumo e benzina a disposizione,
mantenere un serbatoio di queste dimensioni, si
dovrà ridurne la capacità in modo da avere baricentri più bassi e poter sfruttare lo spazio in più
L’assurdo, che fa inorridire Bernie Ecclestone, è
che resteranno questi motori ibridi, che lui odia
e che la Mercedes difende come baluardo della
ricerca industriale. Per andare più veloci oltre
alla riduzione del peso delle vetture (e quindi ricerca sui materiali leggeri e altre spese etc etc)
i motori dovevano consumare meno. Infatti si
è passati da 1,4 km al litro a 2,7 con i 100 kg a
disposizione. Ora se resteranno sempre 100 i kg
a disposizione, ma coi motori tirati al massimo
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Storie di F1
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1982: l’anno più pazzo della F1
La Ferrari aveva tutto per vincere il titolo, tranne
la fortuna. La 126 C2 era senza dubbio la miglior
monoposto del lotto, ma la Williams di Rosberg
era forse quella che si adattava meglio a quasi
tutte le condizioni. Alla fine, bastò una sola vittoria, il GP di Svizzera corso sul circuito francese
di Digione e per Kejo detto Keke Rosberg, finlandese, i 9 punti conquistati furono sufficienti per
scavalcare nella classifica iridata Pironi, fermo in
un letto d’ospedale da tre GP. Eppure l’inizio di
stagione per Rosberg non fu malvagio. Un quinto posto in Sudafrica, un secondo in Brasile e un
altro secondo posto a Long Beach. Solo che la
gara brasiliana fu fatale non solo al finlandese
ma anche a Piquet. I commissari tecnici, infatti, dopo una attenta verifica scoprirono che la
Williams di Rosberg e la Brabham di Piquet avevano un serbatoio che veniva rabboccato d’acqua per rientrare nel peso minimo, aggirando il
regolamento. A Imola Rosberg non si presentò
per la disputa fra le squadre inglesi e quelle legaliste, per cui alla fine il bilancio è stato positivo.
In pista Keke era un pilota determinato, un duro
e con la stampa non è che fosse molto tenero,
anche se col passare degli anni si è molto addolcito e trasformato in una persona simpatica e
gradevole. Ma gli inizi, al volante della poco competitiva Theodore (Sudafrica 1978) il debutto fu
di quelli… esplosivi. Una perdita di benzina dal
serbatoio, infatti, ustionò Rosberg costringendolo al ritiro.
La svolta con la Williams
Poi ci furono gli anni a barcamenarsi con squadre di mezza classifica come l’ATS e la Fittipaldi,
anche se ci fu la parentesi Wolf dalla quale solo
Jody Scheckter riusciva a tirare fuori qualcosa di
buono. La trasformazione arriva proprio in quel
1982, quando la Williams lo assume al posto di
KEKE ROSBERG
E QUEL MONDIALE VINTO CON
UN GOAL A PORTA VUOTA
di Paolo Ciccarone | Oggi tutti conoscono Nico Rosberg, ma pochi
sanno la storia del padre Keke, che nel 1982 vinse un mondiale
nell’anno più pazzo della Formula 1
S
e oggi dici Rosberg si pensa subito a
Nico, che ha vinto domenica scorsa
in Spagna. Qualcuno sa che è figlio
d’arte, perché il padre Keke ha vinto un mondiale, ma pochi conoscono il genitore
come pilota e in che condizioni ha corso. Ecco allora un riepilogo storico di Keke Rosberg campione del mondo, partendo però da un fatto certo:
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un mondiale come quello vinto da Keke Rosberg
nel 1982 equivale, nel calcio, a un goal a porta
vuota. Quella stagione, infatti, è passata alla storia come quella dei grandi drammi: la scomparsa
di Gilles Villeneuve a maggio, il gravissimo incidente di Didier Pironi ad agosto, il malanno alla
spalla di Patrick Tambay a settembre. Senza dimenticare la morte di Riccardo Paletti in Canada.
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Alan Jones, che ha deciso di ritirarsi e dopo che
nelle prime due corse dell’anno anche Reutemann decide di fermarsi, Rosberg si ritrova a un
tratto prima guida di una squadra che ha vinto
il mondiale piloti nell’80 e che negli ultimi due
anni ha portato a casa il titolo costruttori. E’ una
eredità pesante, ma Rosberg in quel 1982 non
sbaglia quasi mai e si dimostra di una regolarità
incredibile. Finisce ancora secondo in Belgio, si
ritira a Montecarlo ma a Detroit è ancora a punti,
quarto, ritirandosi in Canada e salendo ancora
sul podio in Olanda. Dal GP di Francia cambia decisamente il passo. Siamo al Castellet e Rosberg
si accontenta di un quinto posto. L’otto agosto si
disputa il GP di Germania ma in qualifica Pironi
decolla sulla Renault di Prost e si ferisce gravemente. In gara Rosberg coglie un terzo posto, è
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secondo in volata nel GP d’Austria, dove per pochi centimetri la Lotus di Elio De Angelis riesce a
vincere davanti alla Williams, ma il crescendo di
Rosberg non si arresta e il 29 agosto, sul circuito
di Digione, vince il GP di Svizzera superando la
Ferrari nella classifica iridata.
Un mondiale vinto “a porta vuota”
Tambay è costretto alla resa fin dalle prove per
un malanno alla spalla e non partecipa alla gara.
Rosberg non ha rivali e si impone davanti alla Renault di Prost. Con Pironi fuori gioco e Tambay
sofferente, il più è fatto. La Ferrari schiera a Monza Mario Andretti, che segna una pole incredibile, finisce al terzo posto con Rosberg fuori dalla
zona punti. Quel risultato consente alla Ferrari di
conquistare il mondiale costruttori, nell’ultima
corsa a Las Vegas Rosberg prende altri due punti
grazie al quinto posto. Nella classifica finale vince il mondiale con appena 5 punti di vantaggio
su Didier Pironi, che ha saltato le ultime cinque
gare. Il suo viene considerato un mondiale non
meritato, una specie di furto alla Ferrari, ma nel
corso delle stagioni seguenti Rosberg si dimostra un pilota di talento, vincendo ancora. Paradossalmente la sua miglior stagione sarà quella
del 1985, con due GP vinti e il terzo posto nella
classifica mondiale dietro a Prost e Alboreto. Poi,
nel 1986, ultimo anno in F.1 con la McLaren TAG
Porsche: una pole in Germania e un secondo posto come miglior piazzamento a Montecarlo. A
38 anni Rosberg decide di smettere, conservando nella sua bacheca il titolo mondiale dell’anno
più pazzo che la F.1 abbia mai vissuto.
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Rally
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I
CIR 2015
ANDREUCCI-ANDREUSSI-PEUGEOT.
“IL GATTO A NOVE CODE FLAGELLA
ANCORA AL TARGA FLORIO”!
di Piero Batini | Lunga passerella finale sulle tre PS Grattieri, per
incoronare d’alloro il Campione moltiplicatore di Record. Scandola e
Chardonnet sul podio di Campofelice di Roccella. L’anno prossimo è
Targa Florio Numero 100
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l titolo l’ho preso paro-paro dalla saggezza popolare, scegliendo una soltanto tra
le tante espressioni di entusiasmo che la
Sicilia dei Motori ha dedicato al suo Campione preferito e, da anni ormai, figlio adottivo.
Ma altri titoli sono spuntati come fiori dall’entusiasmo popolare. Dal più scontato “La nona sinfonia” al “Paolo insegnagli la strada”, citazione
dell’urlo che accompagnò, scritto sui muretti
del circuito delle Madonie, la prima, leggendaria
vittoria di Nino Vaccarella. Scelto questo titolo,
ci sarebbe da chiedersi, però, se il “terrificante”
riferimento al numero 9, gridato da un Tifoso lanciato poster e pennarello tra le braccia di Paolo
Andreucci, voleva evocare ieri la nona speciale
vinta che completava il capolavoro della prima
giornata di gara, oggi la nona, pesantissima Targa d’ottone che va aggiungersi nella sala dei riconoscimenti del Fuoriclasse toscano o, domani, il
nono Titolo che la vittoria del Targa accetta già,
prima ancora di affrontare la seconda metà del
torneo, come ipoteca sul Campionato Italiano.
E nove sia, comunque e da qualsiasi parte lo si
guardi, a coronamento della 99ma edizione della
Targa.
Nona vittoria alla Targa Florio per Andreucci e
Andreussi
Key facts. Nove vittorie di Prova Speciale, su tredici in totale, nove successi assoluti a partire dal
1997, il terzo consecutivo negli ultimi tre anni, e
il 99° Targa Florio va in archivio con l’ennesima
impresa compiuta oggi da Paolo Andreucci, insieme all’inseparabile Anna Andreussi, alla sua
squadra, e al pizzico di fortuna che accompagna
sempre le gesta gli eroi. Se il clamoroso guasto
al cambio della 208 T16, infatti, si fosse verificato
durante la prima speciale del venerdì, invece che
al termine della prova spettacolo di giovedì sera,
Andreucci avrebbe potuto fare ben poco. Invece
la fortuna ha avuto il sopravvento sulla malasorte, e offerto al Team dei Meccanici l’opportunità
di superarsi nell’operazione di sostituzione del
cambio impiegando appena sedici minuti, record
precedente stracciato e stupendo show corale.
Il resto della gara di Paolo… ma sarebbe meglio
dire dall’inizio, è un crescendo quasi stupefacente, in un’interpretazione del suo talento che
è equilibrio perfetto tra velocità, refrattarietà
all’errore e alla pressione “ambientale”, e spettacolo. Anche per questo, non solo per il suo
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Rally
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nuova Macchina in configurazione R5. Lasciando
stare che Sebastien Chardonnet non conosceva
le strade che portano al trionfo della Targa Florio,
che il francese è uno specialista della terra, e che
se fosse un fuoriclasse assoluto, avrebbe avuto
più fortuna nel Mondiale. Ma “Seb” è comunque
uno bravo, e uno che ha subito capito con che…
asfalti aveva a che fare. Per questo il pilota Ford
ErreEffe ha preferito continuare a costruire sulle Madonie un futuro migliore passando per una
serie di test sulla sua Fiesta R5. Si sarebbe accontentato del quarto posto che sembrava nella
logica di inizio Rally, e ovviamente è più contento
del podio che, comunque, ha strameritato.
record, il toscano più veloce del Mondo è così
particolarmente amato nella Sicilia della Corsa
che non a caso è un mito.
Riolo, Perico e Basso traditi da errori, propri e
altrui
Inutile dire che la Targa Florio, più di altri Rally,
si vince solo riducendo drasticamente a zero il
numero degli errori. Ne basta uno piccolissimo
e, non c’è attenuante, indulgenza o “jolly”, la
gara va a monte. Ne hanno commessi Salvatore “Toto” Riolo, che pure ha vinto tre volte sulle
strade delle Madonie, Alessandro Perico, e Giandomenico Basso. I primi due sono ritirati, il terzo
ha caparbiamente rimesso la macchina in strada
e ripreso la gara, ma ormai lontano anni luce da
un risultato qualsiasi che non fosse quello di onorare la sua fama di Pilota irriducibile. E anche la
fortuna, in presenza dell’errore, al Targa si fa da
parte. Perico aveva anche forato, prima di uscire di strada, e Riolo è stato poi “centrato” da un
autista-pilota-c....... che ha pensato bene di non
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rispettare uno stop. D’altra parte si fa presto a
condannare le “vittime” di un errore al Targa. Il
numero di volte che la macchina può scappare a
destra o sinistra, lanciata da una improvvisa deformazione dell’asfalto o dallo svanire del “grip”
sotto le ruote è inimmaginabile. Bravi, e fortunati, quelli che sono riusciti a superare indenni le
mille trappole, meno bravi ma non degli “scarponi” i meno fortunati.
Secondo posto per un conservativo Scandola
Umberto Scandola, per esempio, non ha vinto una sola Prova Speciale, ma ha trattenuto la
sua spettacolare aggressività di guida e non ha
commesso un solo sbaglio. In questo modo il
Campione 2013 ha raccolto alla fine del Rally un
secondo posto che forse non si aspettava, e che
si trasforma in una buona “pesata” per il Campionato, e ha concluso con una prova superba
il lungo ciclo della sua avventura alla guida della
Skoda Fabia Super 2000, che ora finalmente va
in “pensione” per far entrare in scena l’attesa,
Ottimo sesto posto assoluto per Tassone e
Michi
Correre al riparo dagli errori vuol dire anche
lasciare sull’asfalto molto tempo, e infatti alle
spalle di Andreucci, Scandola e Chardonnet c’è
quello che solitamente si chiama “vuoto”. Ma,
ancora effetto Targa, in Sicilia il “vuoto” può essere tutt’altro che disonorevole e trasformarsi in
un successo personale importante. Ed ecco che,
prive di errori, sono bellissime anche la gara di
Rossetti a Chiarcossi, Equipaggio già due volte
vincitore del Targa che con la Clio RS “vale” il
quarto posto e un passo avanti nel primato del
Campionato Produzione, e la corsa dell’autoctono Vintaloro che insieme a Cambria è premiato
con un quinto posto che, da queste parti soprattutto, vale un anno di gloria. Per non parlare del sesto posto assoluto ottenuto da Michele
Tassone e Daniele Michi, che è dimostrazione di
grande maturità tattica del pur giovane pilota. In
gara con la 208 R2 dello Junior Team Peugeot
Sport Italia, il piemontese ha dato vita ad un bellissimo duello con Giuseppe Testa, scegliendo di
soffrire durante tutta la prima giornata di gara
e riservando le sue carte migliori per il piatto di
un autentico gran finale. Edizione 99, vuol dire
che la prossima Targa Florio è la numero 100.
Vuol dire mettersi al lavoro da domani per un
impegno che, preso in mano due edizioni fa da
ACI Sport, non può essere limitato a garantire
la sopravvivenza della Corsa minacciata dall’impietoso cinismo dei tempi che corrono. Salvati i
numeri 98 e 99, adesso l’impegno si trasforma
nella responsabilità di invertire d’un colpo la tendenza, e confezionare un evento che, senza mezze misure, non dovrà essere niente di meno che
indimenticabile. Chissà se proprio per questo la
propaganda locale incita ad un’edizione “cento”
della Targa Florio… Mondiale! E intanto, a proposito di Mondiale, il CIR si sposta in Sardegna,
questa volta simbolicamente, per accompagnare l’avventura-regalo di compleanno che Peugeot Sport Italia ha voluto offrire a Paolo Andreucci
e Signora. Per quanto riguarda il CIR vero e proprio, se ne riparla a metà luglio, con il san Marino.
Di nuovo, per l’ultima volta quest’anno, Terra.
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REDAZIONE
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Reg. trib. Mi Num. 680 del 26/11/2003
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