STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 20
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
John Locke, Secondo trattato sul governo
Lo stato di natura è uno stato di perfetta
libertà di regolare le proprie azioni e disporre
dei propri beni e persone come meglio si crede
(…) senza chiedere l’altrui benestare o
obbedire alla volontà d’altri. (…) In tale stato
potere e libertà sono reciproci perché nessuno
ne ha più degli altri (§ 4)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Benché sia incondizionatamente libero, in questo stato, di
disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero
di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli
appartenga, se non quando lo imponga un motivo più nobile
della semplice sopravvivenza. Lo stato di natura è governato
da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione,
che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto
voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e
indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella
salute, nella libertà o nei possessi (§ 6)
John Locke, Secondo trattato sul governo
La legge naturale (…) ci dice che gli
uomini, una volta nati, hanno diritto alla
sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda
e a tutto ciò che la natura offre per la
loro sussistenza (§ 25)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Dio, che ha dato la terra in comune agli
uomini, ha dato loro anche la ragione,
onde se ne servissero nel modo più
vantaggioso per la vita e il benessere
loro. La terra, e tutto ciò che essa
contiene, viene data agli uomini per la
sussistenza e il piacere di vivere (§ 26)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Per quanto tutti i frutti che (la terra) naturalmente
produce e gli animali che sostenta appartengano in
comune all’umanità, essendo prodotti dalla spontanea
mano della natura, senza che nessuno ne abbia
originariamente un privato dominio a esclusione del
resto degli uomini, pure, tutto ciò è inteso all’utilità degli
uomini, dev’esserci di necessità un mezzo di
appropriarselo in un modo o nell’altro, prima che possa
essere d’un qualche vantaggio o beneficio a un singolo
individuo… (§ 28)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli
uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa
nessuno ha diritto alcuno al di fuori di lui. Il lavoro del suo corpo e
l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi.
Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata
e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli
appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla
condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo
lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale
lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà dellavoratore, nessun
altro che lui può avere diritto a ciò cui esso è stato incorporato, almeno
là dove avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti e
altrettanto buoni (§ 27)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Colui che si nutre delle ghiande raccolte ai piedi di una quercia o
dei pomi raccolti dagli alberi della foresta si è senza dubbio
appropriato quei frutti. Nessuno può negare che quel cibo sia suo.
Ora mi chiedo: in quale momento quei frutti hanno cominciato a
esser suoi? Nel momento in cui li ha digeriti? Oppure quando li ha
mangiati? O quando li ha arrosistiti? Quando se li è portati a casa,
oppure quando li ha colti? E’ chiaro che se non se li è appropriati col
primo atto del raccoglierli, con nient’altro può averlo fatto. Quel
lavoro ha fondato una distinzione fra questi beni e i beni
comuni; vi ha aggiunto più di quanto non avesse fatto la natura,
madre a tutti comune, e così sono divenuti suo diritto privato.
(§ 28)
John Locke, Secondo trattato sul governo
A ciò si obietterà forse che, se la raccolta delle bacche o di
altri frutti della terra costituisce un diritto sopra di essi,
allora chiunque può accumularne a suo piacimento. Al che
rispondo: no. La stessa legge di natura che in questo modo ci
conferisce la proprietà, vi pone pure dei limiti. “Dio ogni cosa
ci somministra copiosamente” (I Tim. VI, 17): così dice la
ragione e la rivelazione lo conferma. Ma a quale condizione?
Per il nostro godimento”. Quanto ciascuno può usare a
vantaggio della propria vita, prima che si deteriori, tanto col
suo lavoro può appropriarsi; quanto ciò eccede è più di
quanto gli spetta e appartiene ad altri…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Nulla Dio ha fatto perché l’uomo sciupi o distrugga.
Se si considera dunque la sovrabbondanza dei beni
naturali a lungo disponibili nel mondo e il piccolo
numero di consumatori; se si pensa a quale piccola parte
di quei beni si possa estendere l’operosità d’un sol
uomo, e quanto poco egli possa accumulare a
pregiudizio degli altri, specie se si attiene ai limiti, posti
dalla ragione, di quanto può servire al suo uso, poco
adito è dato per discussioni e contese circa la proprietà
così fondata (§ 31)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Ma principale oggetto di proprietà non sono oggi I
frutti della terra o gli animali che su di essi si
pascono, bensì la terra stessa, come cosa che tutte le
altre comprende e porta con sé. Mi sembra chiaro
che anche la proprietà della terra è acquisita allo
stesso modo. Quanto terreno un uomo zappa,
semina, migliora e coltiva, e di quanto può usare il
prodotto, tanto è di proprietà sua. Col suo lavoro egli
lo ha, per così dire, recinto dalla terra comune. (§ 32)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Né quest’appropriazione d’una parte di terra al fine
di coltivarla era di pregiudizio ad altri, poiché ve
n’era ancora a sufficienza e di altrettanto buona, più
di quanto ne potessero usare coloro che non ne erano
ancora provvisti. Così, in realtà, la recinzione fatta a
proprio vantaggio non riduceva la parte che restava
a disposizione degli altri, poiché chi lascia tanto
quanto un altro può usare è come se nulla avesse
preso (§ 33)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Non è così strano come a prima vista può
sembrare che la proprietà del lavoro potesse
contare più della comunità della terra. E’ infatti
il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del
valore. (…) Credo si possa dire con un calcolo
ancora molto modesto che dei prodotti della terra
che servono alla sussistenza dell’uomo nove
decimi sono effetto del lavoro. (§40)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella offerta da
diversi popoli d’America, ricchi di terra e poveri di tutti I
beni della sussistenza. La natura ha donato loro non meno
generosamente che ad altri popoli la materia prima della
ricchezza, cioè un suolo fertile, capace di produrre in
abbondanza tutto ciò che può servire per il cibo, il vestiario
e il piacere; ma, quella terra non essendo messa a frutto dal
lavoro, essi non hanno la centesima parte dei beni di cui noi
godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio
mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese
(§41)
John Locke, Secondo trattato sul governo
La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell'uomo
(…) sono in generale cose di breve durata; cose che, non
consumate, spontaneamente si guastano e perdono, mentre oro,
argento, diamanti, sono cose alle quali per arbitrio e
convenzione, più che per un'utilità reale e per la necessità della
sussistenza, è stato attribuito un valore... (§ 46).
…Così nacque l'uso del denaro, qualcosa di durevole che gli
uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che
per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e
propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza (§ 47).
John Locke, Secondo trattato sul governo
E, come i diversi gradi d'industria erano capaci di dare agli
uomini ricchezze in proporzioni diverse, così l'invenzione del
denaro diede loro l'opportunità di accrescerle ed estenderle. (…)
Dove non c'è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto
pregiato da essere accumulato, gli uomini non possono estendere
la loro proprietà della terra, per ricca che questa sia e facile a
prendersi: che valore potrebbero avere infatti per un uomo
diecimila, o centomila, acri di terra eccellente, bell'e coltivata e
ricca di bestiame, nel cuore delle regioni interne dell'America,
dove non ci fosse alcuna speranza di commerciare con altre parti
del mondo e guadagnare denaro con la vendita dei prodotti? (§48)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Ma, poiché oro e argento, essendo di poca utilità per la vita
dell’uomo in confronto a cibo, vestiario e mezzi, acquistano il
loro valore soltanto dal consenso degli uomini, e di questo valore
il lavoro costituisce in gran parte la misura, è evidente che gli
uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse
posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un
tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può
legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il
prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù or e argento che può
accumulare senza far torto a nessuno, dato che quei metalli non si
deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore . (§50)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Mi pare perciò assai facile comprendere come il lavoro poté
originariamente fondare il diritto alla proprietà dei comuni beni di
natura, e come il limite di quella fosse fissato dal consumo che
possiamo farne per I nostri usi. Non v’era dunque ragione di discutere
quel diritto, né v’erano dubbi quanto all’estensione della proprietà che
questo conferiva. Diritto e utilità andavano insieme, perché, avendo
diritto su tutto ciò su cui poteva esercitare il suo lavoro, un uomo non
era mai tentato di lavorare più di quello che poteva usare. Ciò escludeva
ogni contesa circa la legittimità, e ogni usurpazione dei diritti altrui: la
porzione che ogni uomo si tagliava per sé era facilmente visibile, ed era
inutile, oltre che disonesto, tagliarsi una porzione troppo grossa o
prendere più di quanto poteva servire. (§51)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Una cosa è certa, che all'inizio, prima che il desiderio di possedere
più del necessario avesse alterato l'intrinseco valore delle cose,
che dipende solo dalla loro utilità per la vita dell'uomo; prima che
si fosse convenuto che un pezzetto di metallo giallo, che si poteva
conservare senza che si deteriorasse o andasse perduto, valeva per
un grande pezzo di carne o un mucchio intero di frumento, per
quanto gli uomini avessero diritto di appropriarsi, col loro lavoro,
ciascuno per sé, tanto quanto potevano usare degli oggetti della
natura, pure ciò non poteva esser mai troppo, né recare pregiudizio
ad altri, poiché pari ricchezza avanzava per coloro che fossero
altrettanto industriosi.
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 21
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
John Locke, Secondo trattato sul governo
...Sebbene la legge di natura sia evidente e
intelligibile ad ogni creatura ragionevole, tuttavia
gli uomini, in quanto influenzati dai loro interessi
la ignorano per mancanza di studio, sicché
tendono a non riconoscerla come una legge che li
obblighi ad applicarla ai loro casi particolari
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Se l'uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è
padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al
più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla
sua libertà ? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio
e al controllo d'un altro potere ? La risposta ovvia è che, per
quanto nello stato di natura egli possieda il diritto connesso con
quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente
esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa
stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco
rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della
proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto
insicuro...
John Locke, Secondo trattato sul governo
Ciò lo induce ad abbandonare una condizione
che, per quanto libera, è piena di rischi e di
continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli
desidera e ambisce unirsi a una società che gli
altri abbiano costituito o abbiano in mente di
costituire per la reciproca salvaguardia della
loro vita, libertà e beni, cioè con quello che
definisco con il termine generale proprietà. (§
123)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Il grande è fondamentale intento per cui dunque gli uomini si
uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia
della loro proprietà. A tal fine lo stato di natura è per molti
rispetti inefficiente.
Vi manca in primo luogo una legge stabile, fissa e
notoria, accettata e riconosciuta per comune consenso come
criterio del giusto e dell'ingiusto e come comune misura Per
decidere di ogni controversia. Per quanto infatti la legge di natura
sia chiara e intelligibile a tutte le creature razionali, gli uomini,
traviati dall'interesse e ignari di essa per mancanza di riflessione,
non sono portati a riconoscerla come legge per loro vincolante
nell'applicazione ai loro casi particolari. (124)
John Locke, Secondo trattato sul governo
In secondo luogo, manca nello stato di natura un giudice
riconosciuto e imparziale, dotato dell'autorità di risolvere
ogni contrasto sulla base della legge istituita. Essendo infatti
in quello stato ciascuno giudice ed esecutore della legge di
natura, e gli uomini essendo parziali nei propri confronti, la
passione e lo spirito vendicativo tendono a spingerli troppo
oltre, e a infiammarli in modo eccessivo, quando si tratta di
casi propri, così come la negligenza e il disinteresse tendono
a farli noncuranti dei casi altrui. (§ 125)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Infine, nello stato di natura manca spesso il potere, atto
a sostenere e appoggiare la sentenza giusta e
renderla debitamente operante. Coloro che hanno
commessa ingiustizia raramente, potendo, si astengono
da far valere con la forza quella trasgressione; e questa
resistenza rende spesso pericolosi e talvolta fatali per
chi li compie i tentativi di punizione.(§ 126)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Nello stato di natura l'uomo ha due poteri, oltre alla libertà
di godere dei piaceri innocenti.
Il primo consiste nel fare tutto ciò che ritiene
opportuno per la conservazione sua e altrui nei limiti
consentiti dalla legge di natura. (…)
L'altro potere che un uomo ha nello stato di natura è
quello di punire i reati commessi contro la legge naturale. A
entrambi i poteri egli rinuncia quando entra in una società
politica per così dire privata o particolare e si incorpora in
uno Stato distinto da tutto il resto del genere umano.
John Locke, Secondo trattato sul governo
...Un uomo si spoglia della sua libertà naturale e accetta i vincoli
della società civile solo quando decide insieme con altri uomini di
associarsi e unirsi tutti in una comunità, per viver bene, nella
tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle
loro proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella
società non appartengono. Questo può esser fatto da un gruppo di
uomini, perché non lede la libertà di tutti gli altri, che restano come
prima nell'indipendenza dello stato di natura. Quando un certo
numero di uomini in tal modo consente di istituire una comunità o
stato politico, essi vengono immediatamente associati in modo da
costituire un solo corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di
decretare e decidere per il resto (§ 95).
John Locke, Secondo trattato sul governo
Infatti quando un gruppo, col consenso di ciascun individuo, costituisce
una comunità, di quella comunità fa con ciò stesso un sol corpo, che ha
il diritto di deliberare come un sol corpo, cioè solo in base alla volontà e
alla decisione della maggioranza. I decreti d'una comunità non essendo
infatti se non il consenso degli individui a essa appartenenti, e, essendo
necessario che ciò che costituisce un sol corpo si muova in una sola
direzione, è indispensabile che quel corpo si muova nella direzione in
cui lo spinge la forza maggiore, e cioè il consenso della maggioranza.
Gli sarebbe altrimenti impossibile decretare e continuare a sussistere
come un sol corpo, come una sola comunità, quale consenso di ciascun
individuo a esso consociato ha convenuto che fosse; onde ciascuno è
tenuto da quel consenso ad essere determinato dalla maggioranza.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…E' dunque inteso che chiunque, uscendo dallo stato di
natura, si unisca ad altri in una comunità, cede tutto il
potere, necessario ai fini per cui tutti si sono uniti in
società, alla maggioranza della comunità stessa, a meno
che non si sia convenuto un numero maggiore, appunto,
della maggioranza. E ciò avviene col semplice fatto di
decidere concordemente di unirsi in una sola società
politica: ecco tutto il patto che interviene, e deve
intervenire, fra gli individui che entrano a far parte d'uno
Stato o lo costituiscono…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Così, ciò che dà origine a una società
politica, e realmente la istituisce, non è se non
il consenso d'un certo numero di uomini liberi,
capaci d'una maggioranza, a riunirsi e
associarsi in una società siffatta. Questo e
questo soltanto ha dato e poteva dare origine a
un legittimo governo nel mondo (VIII, 99)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Avendo naturalmente in sé, come s'è dimostrato, l'intero potere della
comunità fin dal momento in cui gli uomini si uniscono in società, la
maggioranza può servirsi di tutto quel potere per fare di tanto in tanto
leggi per la comunità e renderle operanti per mezzo di funzionari da essa
stessa designati. In questo caso la forma di governo è una perfetta
democrazia. Oppure può affidare il potere di legiferare a pochi prescelti
e ai loro eredi e successori, e allora si tratta di un'oligarchia. O, ancora,
può affidarlo a uno solo, e allora è una monarchia. Se è affidato a un sol
uomo e ai suoi eredi, è una monarchia ereditaria; se a un sol uomo per
tutta la durata della sua vita, ma a condizione che alla sua morte il solo
potere di nominare un successore venga restituito alla maggioranza,
allora è una monarchia elettiva. Così con queste forme, la comunità può
creare forme di governo composite o miste, secondo che paia opportuno.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…E, se il potere legislativo viene dapprima dato dalla
maggioranza a una o più persone per la sola durata della loro vita,
o per un periodo comunque limitato, dopo di che il supremo
potere torna di nuovo a essa, quando ciò avviene la comunità può
disporne di nuovo affidandolo a chi vuole e costituire così una
nuova forma di governo. La forma di governo dipende dalla
collocazione del potere supremo, che è il legislativo; dunque,
essendo impossibile che un potere inferiore prescriva leggi a uno
superiore, o che un potere che non sia il potere supremo legiferi,
quale è la collocazione del potere di legiferare tale è la forma dello
Stato (X, 132). .
John Locke, Secondo trattato sul governo
...Vorrei che i miei obiettori tenessero presente che i monarchi
assoluti altro non sono che uomini; e se il governo dev'essere
rimedio ai mali che necessariamente scaturiscono dal fatto che gli
uomini sono giudici di se stessi, onde lo stato di natura non può
essere a lungo accettato, mi chiedo che genere di governo sia, e in
che senso sia migliore dello stato di natura, quello in cui un sol
uomo, regnando su molti, abbia la libertà di giudicare se stesso e
possa fare ai suoi sudditi tutto quello che vuole, mentre tutti gli
altri non hanno la minima libertà di discutere o controllare coloro
che eseguono il suo volere, e qualsiasi cosa egli faccia - sia
guidato da ragione, da errore o da passione - devono obbedirgli…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Molto meglio lo stato di natura, in
cui gli uomini non sono costretti a
sottomettersi all'ingiusto volere di
un'altr'uomo e in cui colui che giudica,
se giudica male della causa propria o
altrui, deve risponderne al resto degli
uomini .
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Entrando in società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla
libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato di natura,
affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come
richiede il bene della società stessa. Ma, poiché ciascuno fa questo
con l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e
proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale muti
con l'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere della
società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del
bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno
prendendo misure contro i tre difetti sopra menzionati, che
avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Così, chiunque disponga del potere legislativo o supremo d'uno
Stato è tenuto a governare secondo leggi istituite e stabili,
promulgate e rese note al popolo, e non sulla base di decreti
estemporanei; per mezzo di giudici imparziali e retti, che devono
risolvere i conflitti in base a quelle leggi; ed è tenuto ad usare la
forza della comunità, in patria, solo per l'esecuzione di quelle
leggi; e, fuori, al fine di prevenire e risarcire offese esterne e
mettere la comunità al sicuro da scorribande ed invasioni. E tutto
ciò non dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e
il pubblico bene del popolo. (§ 131)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Il potere legislativo, sia esso affidato a una o più persone, sia vigente
di continuo o solo a intervalli, è sì il supremo potere in ogni Stato,
ma ciò nonostante occorre considerare quanto segue:
In primo luogo, non esercita, né può assolutamente esercitare
l'arbitrio sulla vita e i beni del popolo. Non essendo infatti se non il
potere congiunto di ciascun membro della società, conferito a quella
persona o assemblea che appunto legiferano, non può essere nulla
più di quanto quelle persone possedevano nello stato di natura prima
di entrare in società e che hanno rimesso alla comunità. Nessuno
infatti può trasferire ad altri più potere di quanto non abbia, e
nessuno ha, su se stesso o su altri, un assoluto arbitrario potere di
togliersi la vita o strappare ad altri la vita o i beni...
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Il suo potere, nella massima estensione è
comunque limitato dal criterio del pubblico bene
della società. E' un potere che non ha altro fine
che la conservazione, e non può dunque avere mai
diritto di distruggere, ridurre in schiavitù o
deliberatamente in miseria coloro che vi sono
soggetti...
John Locke, Secondo trattato sul governo
In secondo luogo, l'autorità legislativa, o autorità suprema, non può
arrogarsi il potere di governare per mezzo di estemporanei arbitrari
decreti, ma è tenuta a dispensare la giustizia e stabilire i diritti dei sudditi
con leggi promulgate e stabili e per mezzo di giudici abilitati e noti...
In terzo luogo, il potere supremo non può togliere a un uomo una parte
della sua proprietà senza il suo consenso. Infatti, la conservazione della
proprietà essendo il fine del governo e la ragione per cui gli uomini
entrano in società, è necessariamente presupposto e richiesto che il
popolo abbia una proprietà; altrimenti bisognerebbe supporre che,
entrando in società, si perda ciò che era appunto il fine in vista del quale
vi si era entrati: un'assurdità, questa, troppo grossolana perché qualcuno
la accetti...
John Locke, Secondo trattato sul governo
...E' dunque un errore pensare che il potere supremo o potere legislativo
d'uno Stato possa fare ciò che vuole e disporre arbitrariamente dei beni
dei sudditi, o prenderne una parte a suo piacimento. Questo non è un
vero pericolo nei regimi in cui il legislativo consiste, del tutto o in parte,
in assemblee che variano, i cui membri, a scioglimento avvenuto,
tornano a esser sudditi sottoposti alle leggi comuni del paese, al pari
degli altri. Ma nei regimi in cui il legislativo risiede in una sola
assemblea sempre ininterrottamente in carica, o in un sol uomo, come
nelle monarchie assolute, c'è sempre il pericolo che costoro ritengano di
avere un interesse diverso da quello del resto della comunità, e di sentirsi
dunque autorizzati ad accrescere la propria ricchezza e il proprio potere
togliendo al popolo quello che vogliono" (XI, 138).
John Locke, Secondo trattato sul governo
…In uno Stato che poggi su proprie basi e operi secondo la propria natura,
cioè per la salvaguardia della comunità, non ci può essere se non un solo
supremo potere, che è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono
essere subordinati. Tuttavia, essendo il legislativo solo un potere fiduciario
inteso a certi fini, resta al popolo il supremo potere di destituire o mutare il
legislativo quando constata che esso agisce in modo contrario alla fiducia in
esso riposta. Infatti, ogni potere dato in affidamento per il conseguimento di
un fine è limitato appunto a quel fine, e ogni qualvolta quest’ultimo venga
manifestamente trascurato o calpestato, l’affidamento non può non venir
meno e il potere non ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito, e
che possono di nuovo collocarlo dove credono più opportuno per la loro
sicurezza e tutela. (XI, 149).
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Così la comunità conserva sempre il
supremo potere di difendersi dai tentativi e
disegni di chiunque, sia pure dei legislatori
quand’essi siano così stolti o malvagi da
formulare o perseguire piani contrari alla
libertà o ai beni dei sudditi. (XI, 149).
John Locke, Secondo trattato sul governo
Quando si maltratta il popolo e si calpesta il suo diritto, esso
è sempre pronto alla prima occasione a scrollarsi di dosso un
giogo che sente gravare su di sé. Sospirerà e cercherà il
momento opportuno, che, data la mutevolezza, la fragilità e la
natura fortuita delle cose umane, di rado tarda molto a venire.
(…) rivoluzioni del genere non avvengono per abusi minimi
nell'amministrazione della cosa pubblica. Grandi errori da
parte dei governanti, molte leggi sbagliate e inopportune, tutti
i cedimenti della debolezza umana saranno sopportati dal
popolo senza ribellione o manifestazioni di dissenso…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Ma, se una lunga serie di abusi, prevaricazioni ed
espedienti tutti intesi a una cosa sola, manifesta al popolo
una trama e mostra inequivocabilmente che cosa incombe su
di esso, in quale direzione lo si trascini, non stupisce allora
che esso si scuota e s'adoperi a porre il potere in mani capaci
di garantire i fini in vista dei quali il governo fu
originariamente istituito e senza i quali nomi antichi e
istituzioni formali non solo non sono migliori dello stato di
natura e della pura anarchia, ma sono addirittura peggiori, gli
inconvenienti essendo altrettanto gravi e pressanti e il
rimedio più remoto e difficile.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Chi giudicherà se il principe o il legislativo
agiscono conto il mandato ricevuto? …Sarà il
popolo a giudicare. Chi infatti potrà giudicare se
il suo delegato o deputato agisce bene, in
conformità al mandato affidatogli, se non colui
che appunto lo ha deputato e che deve per ciò
stesso avere ancora il potere di destituirlo quando
viene meno al mandato?
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Se alcuni si ritengono lesi e pensano che il sovrano agisca
contro il mandato o al di là del mandato, chi meglio del corpo del
popolo (che appunto gli ha fin dall’inizio affidato quel mandato)
può giudicare circa l’ampiezza che intendeva dare al mandato
stesso? Ma se il sovrano, o chiunque sia incaricato
dell’amministrazione civile, rifiuta questo modo di risolvere il
conflitto, allora solo arbitro è il cielo. L’uso della forza che non
riconoscono superiori sulla terra, e in casi che non consentono
l’appello a un giudice terreno, è infatti propriamente uno stato
di guerra, il cui arbitrato solo al cielo compete; e in quello stato
la parte lesa deve giudicare per suo conto quando sia il momento
di ricorrervi e affidarvisi…
Dichiarazione d’indipendenza americana
(1776)
…Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse
evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono
stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra
questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità;
che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini
i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei
governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo
tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o abolirlo,
e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che
abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più
idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità…
Dichiarazione d’indipendenza americana
(1776)
…La prudenza, invero, consiglierà di non modificare per cause
transeunti e di poco conto Governi da lungo tempo stabiliti, e,
conformemente a ciò, l’esperienza ha dimostrato che gli uomini
sono maggiormente disposti a sopportare, finché i mali siano
sopportabili, che a farsi giustizia essi stessi abolendo quelle
forme di Governo cui sono avvezzi. Ma quando un lungo
corteo di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti allo
stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un
Dispotismo assoluto, è loro diritto, è loro dovere, di abbattere
un tale Governo, e di procurarsi nuove garanzie per la loro
sicurezza futura...
John Locke, Lettera sulla tolleranza
…La causa delle anime non può appartenere al magistrato civile,
perché tutto il suo potere consiste nella costrizione. Ma la
religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima,
senza la quale nulla ha valore presso Dio. La natura
dell’intelligenza umana è tale che non può essere costretta da
nessuna forza esterna. Si confischino i beni, si tormenti il corpo
con il carcere o la tortura, tutto sarà vano, se con questi supplizi si
vuole mutare il giudizio della mente sulle cose.
Occorre fare luce perché muti una credenza dell’anima; e la
luce non può essere data in nessun modo da una pena inflitta
al corpo.
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 22
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
Baruch Spinoza, Ethica:
Il conatus è lo «sforzo col quale ciascuna cosa si sforza di
perseverare nel suo essere». Allorché il conatus «è riferito soltanto
alla mente si chiama volontà; ma quando è riferito insieme alla
mente e al corpo si chiama appetito (appetitus). Questo, quindi,
non è altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura
segue necessariamente ciò che serve alla sua conservazione, e
quindi l’uomo è determinato a farlo. Non c’è poi, nessuna
differenza tra l’appetito e il desiderio (cupiditas), tranne che il
desiderio si riferisce per lo più agli uomini in quanto sono
consapevoli del loro appetito e perciò si può definire così: il
desiderio è l’appetito con coscienza di se stesso» (III, XV)
Baruch Spinoza, Ethica:
…Libero è chi «non è guidato dalla paura della
morte, ma desidera direttamente il bene, cioè
agire, vivere, conservare il proprio essere avendo
quale fondamento la ricerca del proprio utile;
perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua
saggezza è meditazione della vita» (IV, P LXVII).
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :
…il diritto naturale è dunque determinato e
definito non da una saggia razionalità, bensì dal
proprio desiderio (cupiditas) e dalle proprie
possibilità; (…) ne segue che ogni individuo
[nello stato di natura] ha un diritto sovrano su
tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il
diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la
sua particolare potenza…
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :
Il governo democratico è «quello che più si accosta
all’ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella
libertà che la natura concede a ciascuno. In regime
democratico, infatti, nessun individuo aliena il proprio diritto
a favore di un altro, in modo da precludersi la facoltà di
prendere nuove decisioni; bensì aliena il suo diritto a favore
della totalità del corpo sociale di cui egli costituisce una
parte. Ed è appunto perciò che tutti gli individui restano
uguali, come lo erano prima nello stato di natura» (XVI)
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :
…Lo scopo di una repubblica (…) non è di convertire
in bestie gli uomini dotati di ragione o di farne degli
automi, ma al contrario di far sì che la loro mente e il
loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro
funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione e
non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno,
né si facciano trascinare da sentimenti iniqui. Il vero
fine di una repubblica è, dunque, la libertà (Cap. XX)
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 23
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Ho dapprima studiato gli uomini e sono giunto alla
convinzione che, in quell’infinita diversità di leggi e di
costumi, essi non siano guidati esclusivamente dalle loro
fantasie. Ho posto dei principi e ho veduto i casi
particolari conformarvisi quasi spontaneamente e li ho
veduti operanti nelle storie di tutte le nazioni; ho
compreso infine come ogni legge particolare sia legata a
un’altra o dipendente da una legge più generale
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, gli
esempi delle cose passate, i costumi e le maniere.
Da tutto questo risulta uno spirito generale. A
seconda che in ogni paese una di queste cause
agisce con maggior forza, le altre fanno sentire in
proporzione una forza minore…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La legge in generale è la ragione umana, in quanto
governa tutti i popoli della terra e le leggi politiche e
civili di ogni nazione non debbono essere che i casi
particolari in cui questa ragione umana viene applicata.
Esse debbono essere talmente adatte al popolo per cui
sono state fatte, che solo eccezionalmente le leggi di una
nazione possono convenire a un’altra; e debbono
conformarsi alla natura e al principio del governo
stabilite o che si deve stabilire…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Esse debbono essere corrispondenti alla natura fisica
del paese; al clima gelido, torrido o temperato; alla
qualità del terreno, alla sua situazione ed estensione;
al genere di vita dei popoli, agricoli, cacciatori o
pastori, debbono esser conformi al grado di libertà
che la costituzione concede; alla religione degli
abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al
loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, ai
loro modi di vita.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Infine, esse hanno rapporti reciproci; ne hanno
con la loro origine, con il fine del legislatore, con
l’ordine di cose su cui si fondano. Bisogna
dunque considerarle sotto tutti questi punti di
vista. Tale è lo scopo che perseguo in questa mia
opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi
costituiscono nel loro insieme ciò che viene
chiamato lo spirito delle leggi.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La teoria delle forme di governo:
Repubblica
Democrazia
Aristocrazia
Monarchia
Dispotismo
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo repubblicano è quello in cui tutto il
popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il
potere sovrano; il monarchico, quello in cui
governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse
e stabilite; mentre nel dispotico uno solo,
senza legge e senza regola, trascina tutto con
la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello
che io chiamo la natura di ogni governo…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Fra la natura del governo e il suo
principio c’è questa differenza, che la sua
natura è ciò che lo fa essere quello che è,
e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una
è la sua struttura particolare, e l’altro le
passioni umane che lo fanno muovere.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Forma di governo
Principio
Democrazia
Virtù
Aristocrazia
Moderazione
Monarchia
Onore
Dispotismo
Paura
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico
o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza
delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato
nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato
popolare ci vuole una molla in più che è la VIRTU’.
(…) Gli uomini politici greci ,che vivevano in un governo
popolare, non riconoscevano altra forza che potesse
sostenerli, se non quella della Virtù. Quelli dioggi non ci
parlano che di manifatture, di commercio, di finanze, di
ricchezze e perfino di lusso.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Quando tale virtù cessa, l’ambizione entra nei cuori che
possono riceverla, e in tutti entra l’avarizia. I desideri
cambiano oggetto; quello che si amava, non lo si ama
più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro
di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla
casa del padrone. (…) Un tempo i beni dei privati
formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico
diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un
guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di
alcuni cittadini e la licenza di tutti…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo aristocratico ha di per sé una certa forza che
la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che,
per la sua prerogativa e il suo interesse privato, esprime
il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano
messe in esecuzione a tale scopo.
Ma per quanto questo corpo è altrettanto facile reprimere
gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura
di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse
persone sotto la potestà della legge , e insieme sottrarle
ad essa.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Ora un corpo siffatto può reprimere se stesso in due
modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia
sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al
popolo, il che può formare una grande repubblica; o
mediante una virtù minore, cioè una certa
moderazione, che rende i nobili perlomeno uguali a
se stessi, il che fa la loro conservazione.
L’anima di questi governi è dunque la
moderazione…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo monarchico presuppone (…) delle
preminenze, dei ranghi e perfino una nobiltà
originaria. La natura dell’onore è di richiedere
preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è
al suo posto in questo governo.
L’ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce
buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo
governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è
pericolosa perché può esservi continuamente repressa.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Si direbbe che avvenga come nel sistema dell’universo, dove una
forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di
gravità ve li riporta. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo
politico, le leggi con la sua azione stessa, e accade che ognuno va
verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi
particolari.
E’ vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello
che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è
altrettanto utile al pubblico lo sarebbe quello vero ai privati che
potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a
compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra
ricompensa che la risonanza di quelle azioni?
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Come in una repubblica ci vuole la virtù, in
una monarchia l’onore, così in uno stato
dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla
virtù, non vi è necessaria, e l’onore vi
sarebbe pericoloso
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
E’ vero che nelle democrazie, il popolo sembra fare ciò
che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel
fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società dove
vi sono delle leggi, la libertà può solo consistere nel fare
ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò
che non si deve volere. Occorre avere ben presente che
cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà
è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti,
se un cittadino potesse fare tutto ciò che esse proibiscono,
non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri
acquisterebbero un tale potere…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La libertà politica, in un cittadino, consiste in
quella tranquillità di spirito che proviene
dall’opinione nutrita da ciascuno circa la
propria sicurezza; e perché si abbia questa
libertà, occorre che il governo sia tale che un
cittadino non debba temere un altro cittadino.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo
che si trovi ad avere il potere, sia portato ad
abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi
lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti:
perché non si possa abusare del potere, bisogna che,
per la disposizione delle cose, il potere argini il
potere. Una costituzione può essere tale che nessuno
sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga
e a non fare quello che la legge permette…
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 24
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo naturale:
1) Amor di sé, ovvero un impulso costante a
preservare la propria vita;
2) Pietà, ovvero la compassione per le
sofferenze degli altri membri della stessa
specie
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo naturale:
3) Perfettibilità, ovvero la capacità non solo
di cambiare le sue qualità essenziale, ma
anche di migliorarle;
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo civilizzato:
Amor proprio, ovvero una preoccupazione
per se stesso, mediata dal confronto con gli
altri;
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Mettendo (…) da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a
vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime più
semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi
anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il
nostro benessere e la nostra conservazione, l’altro ci ispira una
ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere sensibile e in
particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e dalla
combinazione che il nostro spirito può fare di questi due principi senza
dover ricorrere a quello della socievolezza scaturiscano tutte le norme
del diritto naturale; norme che in seguito la ragione è costretta a
ristabilire su altri fondamenti, quando per i suoi successivi sviluppi, è
giunta al risultato di soffocare la natura… (Prefazione)
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Per decreto di una provvidenza molto saggia le
facoltà che [l’uomo] aveva in potenza dovevano
svilupparsi solo con le occasioni di esercitarle, perché
non lo gravassero anzitempo di un peso superfluo per
divenire inutili e tardive al momento del bisogno. Nel
solo istinto aveva tutto ciò che gli occorreva per vivere
nello stato di natura; in una ragione coltivata ha solo ciò
che gli occorre per vivere in società…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non
avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie o
doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni né
cattivi, né avere vizi o virtù a meno di assumere questi
termini in senso fisico chiamando vizi nell’individuo le
qualità che possono ostacolare la sua conservazione e
virtù quelle che possono contribuirvi--.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Soprattutto non finiamo col concludere con Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna
idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che
rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che ritenendo a
ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo
padrone di tutto l’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni
moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione
dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui
principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in
cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla
conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al
genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto
inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di
soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso
necessarie le leggi.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Ma c’è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto, un
principio che dato all’uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia
dell’amor proprio, o prima che questo amore nascesse, l’istinto di
conservazione, tempesta l’ardore che nutre per il suo benessere con
un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile. Non ho alcun
timore di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù
naturale che sia stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto
delle virtù umane [Mandeville]. Parlo della pietà, disposizione che ben
si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi; virtù
tanto più universale ed utile all’uomo in quanto precede in lui qualunque
riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno talvolta segni
tangibili…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) E’ assolutamente certo che la pietà è un sentimento naturale, volto a
moderare in ciascun individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo così alla
mutua conservazione dell’intera specie. La pietà ci porta a soccorrere senza
riflettere quelli che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello stato di natura,
di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio: che nessuno è tentato di
disobbedire alla sua dolce voce; la pietà distoglierà ogni selvaggio robusto, che
appena creda di poter trovare altrove il proprio cibo, dal portar via a un debole
fanciullo o a un vecchio malato quello che si è procurato con fatica; è la pietà
che, invece della massima sublime di giustizia razionale, fai agli altri ciò che
vuoi sia fatto a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale,
molto meno perfetta, ma forse più utile della precedente: fai il tuo bene col
minor male possibile per gli altri… (Pt. I).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si
limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o non lische di pesce, a
ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare
o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca
o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che
uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso
di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro
natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel
momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, da quando ci si
accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu
introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario, e le vaste foreste si
trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli
uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la
miseria.… (Pt. I).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti:
la metallurgia e l’agricoltura. (…) Da quando ci fu bisogno di
uomini per fondere e forgiare il ferro, ci vollero altri uomini per
dar da mangiare a questi. Più il numero degli operai si veniva a
moltiplicare, mentre erano le mani impiegate a fornire il
sostentamento comune, senza che ci fossero meno bocche a
consumarlo; e poiché gli uni avevano bisogno di derrate in cambio
del loro ferro, gi altri scoprirono alla fine il segreto di impiegare il
ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacquero da un lato l’aratura e
l’agricoltura, dall’altro l’arte di lavorare i metalli e di
moltiplicarne gli usi… (Parte II)).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di
affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza
semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società
civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed
orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui
che, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse
gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dall'ascoltare questo
impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono
di tutti, e che la terra non è di nessuno!
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. (…) Ecco tutte
le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in gioco, l’amor
proprio risvegliato, la ragione resa attiva e lo spirito portato quasi al
culmine della perfezione che può attingere. Ecco tutte le qualità naturali in
azione, la posizione sociale e la sorte di ogni uomo stabilite non solo in
base alla consistenza dei beni e alla possibilità di servire o di nuocere, ma
anche allo spirito, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o ai
talenti, ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la
considerazione, bisognò
ben presto possederle o simularle. Bisognò, nel proprio interesse, mostrarsi
diversi da ciò che si era in realtà. Essere e parere diventarono due cose del
tutto diverse, e dalla distinzione scaturirono il fasto imponente, l’astuzia
ingannatrice e tutti i vizi che ne formano il corteo….
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
D’altro lato, ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente,
assoggettato, per così dire, a tutta la natura da una quantità di nuovi
bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui diventa in certo
senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno
dei loro servizi, povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo
mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza
posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in
apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende
astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe
ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farli temere
e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria
relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno quanto per
collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una
cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia,
tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo con più
sicurezza si maschera spesso da benevolenza; in una parola,
concorrenza e rivalità da un lato, conflitto di interessi dall’altro,
e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a
spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della
proprietà e il corteo inseparabile della diseguaglianza
nascente...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al
punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non
poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del
numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta,
conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto,
mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a
ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui
cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la
dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi dal canto loro, avevano
appena gustato il piacere di dominare quando, affrettandosi a disprezzare tutti gli
altri e servendosi degli antichi schiavi per sottometterne di nuovi, pensarono solo ad
assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno
assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo
divorare uomini..
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) A questo modo, i più potenti o i più miserabili considerando
la loro forza o i loro bisogni come una specie di diritto ai beni
altrui, diritto equivalente, secondo loro, al diritto di proprietà, la
rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più spaventoso disodine;
così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le
passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce
ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e
malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e quello del primo
occupante un perpetuo conflitto che andava sempre a finire in
duelli e uccisioni. La società in sul nascere fece posto al più
orribile stato di guerra...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per
difendersi; capace di schiacciare agevolemente un singolo, ma
schiacciato lui stesso da torme di banditi; solo contro tutti, non
potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari
contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il
ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più
avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a
proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei
propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e
di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il
diritto naturale gli era contrario..
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione
che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto
onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva
sicurezza, inventò facilmente speciose ragioni per trarli ai suoi scopi.
«Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli
ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo
degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano
conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna
sottomettendo senza distinzione il potente e il debole a doveri scambievoli. In
una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in
un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo
tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci
in un’eterna concordia».
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Ci volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar
uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da
sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed
ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero
incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo
abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non
avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli...Tale fu o
dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove
pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la
libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della
disuguaglianza, d'una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile,
e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il
genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
E' qui l'ultimo termine della disuguaglianza, e il punto
estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo
partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son
più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la
volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue
passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia
svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del
più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura,
differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto
quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest'ultimo
è il prodotto di un eccesso di corruzione
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 25
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo
deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la
natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se
stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un
tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche
modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione
dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza
parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che
tutti abbiamo ricevuto dalla natura.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
…Trovare una forma di associazione
(association) che protegga e difenda con tutta la
forza comune la persona e i beni di ciascun
associato, mediante la quale ognuno unendosi a
tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti
libero come prima.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a
una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun
associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la
comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si
dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e
se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha
interesse a renderla onerosa per gli altri.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Di più, facendosi l'alienazione senza riserve, l'unione è
perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più
niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto
ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che
potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno,
essendo su qualche punto il proprio giudice,
pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo
stato di natura persisterebbe, e l'occasione diverrebbe
necessariamente tirannica o vana.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a
nessuno; e siccome non c'è associato, sul quale
non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su
noi stessi, si guadagna l'equivalente intero di ciò
che si perde, e più forza per conservare ciò che si
ha.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Ciascuno di noi mette in comune la sua
persona e tutto il suo potere sotto la suprema
direzione della volontà generale; e noi,
come corpo, riceviamo ciascun membro
come parte indivisibile del tutto.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun
contraente, quest'atto di associazione produce un corpo
morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha
l'assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità,
il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona
pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre,
prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di
repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi
membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo,
potenza nei confronti coi suoi simili
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
In realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà
particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha
come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto
diverso dall'interesse comune; la sua esistenza assoluta, e
naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla
causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita
sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia
gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo
Stato come un emte di ragione, poiché questo non è un uomo, egli
godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di
suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo
politico.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Affinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso
deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può
dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla
volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non
significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero;
perché tale è la condizione che dando ogni cittadino alla patria,
lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che
forma il meccanismo e il funzionamento della macchina
politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali
senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più
enormi abusi.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo,
esso non considera che se stesso; e se una
relazione allora si costituisce, è dell'oggetto
intero, considerato sotto un certo aspetto, con
l'oggetto intero, considerato sotto un altro aspetto,
senza alcuna divisione del tutto. Allora l'oggetto
su cui si delibera è generale, come la volontà
deliberante. Quest'atto io chiamo una legge.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della
volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non
è se non un ente collettivo, non può essere rappresentato che da
se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà.
Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su
qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che
quest'accordo sia durevole e costante; perché la volontà singola
tende di sua natura alle preferenze, e la volontà generale
all'uguaglianza. E' più impossibile ancora che ci sia un garante di
tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre
esistesse...
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Per la stessa ragione che la sovranità è
inalienabile, essa è indivisibile; perché o la
volontà è generale o non è tale; essa o è quella
del corpo popolare o solo d'una parte. Nel primo
caso questa volontà dichiarata è un atto di
sovranità e fa legge; nel secondo non è che una
volontà particolare...
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione
stessa che non può essere alienata; essa consiste
essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non
si rappresenta; o è se stessa, ovvero è un'altra non c'è
via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né
possono essere i suoi rappresentanti; non sono che i suoi
commissari: non possono concludere nulla in modo
definitivo. Ogni legge che il popolo in persona non
abbia ratificata, è nulla; non è una legge.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Credo di poter fissare come principio incontestabile che
solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato
secondo il fine della sua istituzione che è il bene
comune…
Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere
che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto
l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone
l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,
o deve essere, il vero motore del corpo sociale.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Governo =
un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il
corpo sovrano per la loro reciproca
corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle
leggi e del mantenimento della libertà sia civile
che politica.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato
vuol dare leggi, o se i sudditi rifiutano
l’obbedienza, alla regola succede il disordine
(désordre), l’azione della forza e quella della
volontà non si accordano più, e lo Stato
dissolvendosi va così a finire nel dispotismo o
nell’anarchia .
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
L’ordine migliore e il più naturale si ha quando i più
saggi governano la moltitudine, purché si abbia la
certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non
per il loro.
(…) Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il
corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute
generali per volgerla agli oggetti particolari.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Se ci fosse un popolo di dei si governerebbe
democraticamente.
Un governo tanto perfetto non conviene agli
uomini.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Credo di poter fissare come principio incontestabile che
solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato
secondo il fine della sua istituzione che è il bene
comune…
Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere
che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto
l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone
l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,
o deve essere, il vero motore del corpo sociale.
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’economia politica
Non basta dire ai cittadini: «Siate buoni»; bisogna
insegnar loro ad esserlo; e l’esempio stesso, che è sotto
questo rispetto la prima lezione, non è il solo mezzo che
va impiegato: l’amore della patria è il più efficace; infatti
(…) ogni uomo è virtuoso quando la sua volontà
particolare è conforme in tutto alla volontà generale; e
noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che
amiamo...
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’economia politica
Volete che gli uomini siano
virtuosi? Cominciamo, dunque, col
fare in modo che amino la patria
J.-J. Rousseau, Emilio
Ogni patriota è rigido cogli stranieri: essi non sono che
uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo
inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è
di essere buoni verso quelli coi quali vivamo. Lo
Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma
nelle sue mura regnavano i disinteresse, l’equità, la
concordia…
J.-J. Rousseau, Progetto di
costituzione per la Corsica
Ogni popolo ha o deve avere un
carattere nazionale; se gli manca,
occorre cominciare col dargliene uno…
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 26
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 1:
Gli uomini nascono e restano liberi ed
eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non
possono essere fondate che sull’utilità
comune.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 2:
Il fine di ogni associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali ed
imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti
sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all’oppressione.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 3:
Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella nazione. Nessun corpo,
nessun individuo può esercitare un’autorità
che non emani espressamente da essa.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 4:
La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non
nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali
di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che
assicurano agli altri membri della società il
godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti
possono essere determinati soltanto dalla legge.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 5:
La legge ha il diritto di vietare solo le azioni
nocive alla società. Tutto ciò che non è
vietato dalla legge non può essere impedito,
e nessuno può essere costretto a fare ciò che
essa non ordina.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 6:
La legge è l’espressione della volontà
generale. Tutti i cittadini hanno il diritto
di concorrere personalmente o
attraverso i loro rappresentanti alla sua
formazione.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 16:
Qualsiasi società nella quale la garanzia dei
diritti non sia assicurata, e la separazione dei
poteri non sia determinata, non possiede una
costituzione.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
Nella prima epoca «vi è un numero più o meno
considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra
loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione:
ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli.
Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle
volontà individuali. L’associazione è opera loro. Esse
sono all’origine di ogni potere».
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà
comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione;
vogliono adempierne lo scopo. Per questo si riuniscono, e si
accordano fra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per
provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. Le volontà
individuali ne sono sempre la fonte, e ne costituiscono gli elementi
essenziali; ma considerate separatamente non avrebbero alcun
potere. Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità
ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa
non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. E’ anche
certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla
volontà comune.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più
la reale volontà comune ad agire, ma una volontà comune
rappresentativa. Sono due (…) i caratteri indelebili che le
sono propri: 1° Nel corpo rappresentativo tale volontà non è
piena ed illimitata; essa rappresenta solo una parte della
grande volontà comune nazionale. 2° I delegati non la
esercitano affatto come se si trattasse di un diritto proprio, si
tratta di un diritto che appartiene ad altri; la volontà comune è
presente in loro solo a titolo di procura.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è
l’origine di tutto. La sua volontà è sempre
conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima
di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto
naturale.
E.-J. Sieyès, Discorso sul veto
regio
La Francia non è, e non può essere una democrazia; non deve
assolutamente divenire uno Stato federale, composto da una
moltitudine di repubbliche, unite da un qualunque legame
politico. La Francia è e deve essere un tutt’uno, sottomesso in
ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione
comuni. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di
cittadini attivi, ripartiti in più di venticinquemila leghe
quadrate non possono assolutamente riunirsi, è certo che essi
possono aspirare solo ad un sistema legislativo per
rappresentanza.
E.-J. Sieyès, Discorso sul veto
regio
…Dunque i cittadini che nominano dei rappresentanti
rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi
direttamente la legge: non hanno quindi nessuna volontà
personale da imporre. Ogni influenza, ogni potere
appartengono loro esclusivamente nella persona dei
mandatari. Se imponessero delle volontà questo Stato
non sarebbe rappresentativo; sarebbe uno Stato
democratico
E.-J. Sieyès
Un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i
suoi committenti. (…) Dunque non esiste, non può esistere per un
deputato altro mandato imperativo o voto positivo, che quello
della Nazione; egli non è tenuto a tener conto dei consigli dei suoi
diretti committenti, se non nella misura in cui questi consigli
saranno conformi al voto nazionale. Questo voto dove può essere,
dove può esprimersi se non nell’ambito della stessa Assemblea
nazionale? (…) In questo caso non si tratta di compilare uno
scrutinio democratico, ma di proporre, ascoltare, accordarsi,
modificare il proprio personale parere, fino a formare una volontà
comune…
E.-J. Sieyès
Il popolo può parlare, può agire
solo attraverso i suoi
rappresentanti
E.-J. Sieyès, Osservazioni sul rapporto del
Comitato di costituzione
…Le classi infime, gli uomini più poveri, sono ben più lontani, per
intelligenza e sensibilità, dagli interessi dell’associazione, di quanto non
potessero esserlo i cittadini meno stimati degli antichi Stati liberi. Esiste
dunque fra noi una classe di uomini, cittadini di diritto, che non lo sono
di fatto. Spetta senza dubbio alla Costituzione e alle buone leggi di
ridurre il più possibile il numero degli appartenenti a questa classe. Ma è
comunque vero che vi sono uomini per altro fisicamente validi, che,
estranei a qualunque idea sociale, non sono in grado di assumere un
ruolo attivo nell’ambito della cosa pubblica. Non ci si deve permettere
di discriminarli in quanto persone, ma chi oserà trovare ingiusto che
vengano in qualche modo esclusi, non, lo ripeto, dalla protezione della
legge e dall’assistenza pubblica, ma dall’esercizio dei diritti politici?
E.-J. Sieyès, Preliminari alla costituzione
Tutti gli abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino
passivo: tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della
proprietà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un
ruolo attivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono
cittadini attivi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i
bambini, gli stranieri, coloro che non contribuiscono minimamente a
sostenere il sistema delle pubbliche istituzioni, non devono avere
un’influenza attiva sulla cosa pubblica. Tutti possono godere dei
vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema
delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande
impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri
dell’associazione
E.-J. Sieyès
Farsi/lasciarsi rappresentare è l’unica fonte della
prosperità civile… Moltiplicare gli strumenti/poteri per
soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare di
meno, questo è il naturale accrescimento della libertà
nello stato sociale. Ora, questo progresso della libertà
segue naturalmente l’istituzione del lavoro
rappresentativo
E.-J. Sieyès
Tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa
è presente ovunque, nell’ordinamento privato
come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre
dell’industria, della produzione e del commercio,
come pure di ogni progresso liberale e politico.
(…) Essa si confonde con l’essenza stessa della
vita sociale.
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 27
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
Necker
Questi eletti sono il vostro equivalente, con perfetta
esattezza. Il loro interesse, la loro volontà sono le vostre,
e nessun abuso di autorità, da parte di questi nuovi
menecmi vi sembrerà possibile. Che credulità. Che fede
per degli uomini in grado di pensare e di riflettere! Ed è
sempre la parola rappresentante che provoca una simile
cieca fiducia! Questo termine dà l’idea di un altro se
stesso.
Robespierre
Ovunque il popolo non eserciti la sua autorità e
non manifesti la sua volontà in prima persona, ma
tramite dei rappresentanti, se il corpo
rappresentativo non è puro e non s’identifica
completamente con il popolo, la libertà è
annientata.
Robespierre
La fonte di tutti i nostri mali è costituita dallo stato di
assoluta indipendenza in cui i rappresentanti si sono
posti da se stessi nei confronti della nazione senza averla
consultata. Non erano, per loro stessa ammissione, che
mandatari del popolo e si sono fatti sovrani,ovverosia
despoti. Il dispotismo non è altro che l’usurpazione del
potere sovrano.
Robespierre, Sui principi del governo
rappresentativo (1793)
Per fare una costituzione occorre in primo luogo stabilire questa
massima incontestabile:
“che il popolo è buono e che i suoi delegati sono corruttibili; che è
nella virtù e nella sovranità del popolo che bisogna cercare una
difesa contro i vizi e i dispotismi del governo. (…) Un popolo i
cui mandatari non devono dar conto a nessuno della loro gestione,
non ha una costituzione; poiché infatti dipenderà soltanto da
costoro tradirlo impunemente o lasciarlo tradire da altri. E se
questo è il senso che si attribuisce al governo rappresentativo,
confesso che impigherò tutti gli anatemi pronunciati contro di esso
da Jean-Jacques Rousseau”.
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Qual è lo scopo cui tendiamo? Il pacifico godimento della libertà e
dell’uguaglianza; il regno di quella giustizia eterna le cui leggi
sono state incise non già sul marmo o sulla pietra, ma nel cuore di
tutti gli uomini, anche in quello dello schiavo che le dimentica e
del tiranno che le nega. Vogliamo un ordine di cose nel quale ogni
passione bassa e crudele si incatenata, nel quale ogni passione
benefica e generosa sia ridestata dalle leggi; nel quale l’ambizione
sia il desiderio di meritare la gloria e di servire la patria; ove le
distinzioni non nascano altro che dalla stessa uguaglianza; nel
quale il cittadino sia sottomesso al magistrato, e il magistrato al
popolo, e il popolo alla giustizia; .
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Un ordine di cose nel quale la patria assicuri il
benessere a ogni individuo, e nel quale ogni individuo
goda con orgoglio della prosperità e della gloria della
patria; nel quale tutti gli animi si ingrandiscano con la
continua comunione dei sentimenti repubblicani, e con
l’esigenza di meritare la stima di un grande popolo; nel
quale le arti siano gli ornamenti della libertà che le
nobilita, il commercio sia la fonte della ricchezza
pubblica e non soltanto quella dell’opulenza mostruosa
di alcune case. .
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all’egoismo,
l’onestà all’onore, i principi alle usanze, i doveri alle
convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il
disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza
all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore della
gloria all’amre del denaro, le persone buone alle buone
compagnie, il merito all’intrigo, l’ingegno al bel esprit, la verità
all’esteriorità, il fascino della felicità al tedio del piacere
voluttuoso, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei “grandi”; e
un popolo magnanimo, potente, felice a un popolo “amabile”,
frivolo e miserabile; cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della
repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia. .
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Noi vogliamo, in una parola, adempiere
ai voti della natura, compiere i destini
dell’umanità, mantenere le promesse
della filosofia, assolvere la provvidenza
dal lungo regno del crimine e della
tirannia.
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
La democrazia non è uno Stato in cui il popolo –
costantemente riunito – regola da se stesso tutti gli affari
pubblici; e ancor meno è quello in cui centomila frazioni del
popolo, con misure isolate, precipitoso e contraddittorie,
decidono la sorte dell’intera società. Un simile governo non è
mai esistito, né potrebbe esistere se non per ricondurre il
popolo verso il dispotismo. La democrazia è uno Stato in cui
il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua
opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e per mezzo
dei suoi delegati tutto ciò che non può fare da se stesso.
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Se la forza del governo popolare in tempo di
pace è la virtù, la forza del governo popolare in
tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il
terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa
funesta; il terrore, senza il quale la virtù è
impotente. (…) Il governo della rivoluzione è il
dispotismo della libertà contro la tirannia.
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 28
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
Martin Wight, International Theory. The Three Traditions
1) La tradizione realista: Hobbes
2) La tradizione razionalista: Grozio
3) La tradizione rivoluzionaria: Kant
Alle origini del modello «cosmopolitico»
I progetti di pace perpetua:
1) Il Grand Dessein di Enrico IV (1598);
2) William Penn, An Essay Towards the Present
and Future Peace of Europe (1693);
3) Abbè de Saint-Pierre, Projet pour rendre la
paix perpétuelle en Europe (1713);
4) Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden (1795)
Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle
en Europe (1713)
1) I sovrani che aderiscono si garantiscono
reciprocamente una sicurezza totale contro i
grandi mali delle guerre esterne e delle guerre
civili;
2) Ogni alleato contribuirà alle spese comuni
della grande alleana in proporzione alle
entrate attuali e delle spese del suo Stato;
Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle
en Europe (1713)
3) Gli alleati rinunciano alla voce delle armi e
convengono di prendere la strada della conciliazione
attraverso la mediazione di un’assemblea generale
perpetua, la Dieta generale d’Europa;
4) Se la potenza condannata non ottempererà,
l’alleana si armerà e agirà contro di essa in modo
offensivo per contrastarla;
5) Queste disposizioni non possono essere modificate
se non con il consenso unanime di tutti;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
1. Nessun trattato di pace deve considerasi tale,
se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti
per una guerra futura;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
2. Nessuno Stato indipendente (non importa se
piccolo o grande) può venire acquistato da un
altro per successione ereditaria, per via di
scambio, compera o donazione;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus)
devono col tempo scomparire interamente;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
4. Non si devono contrarre debiti pubblici in
vista di controversie fra Stati da svolgere
all’estero;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
5. Nessuno Stato deve intromettersi con la
forza nella costituzione e nel governo di un
altro Stato;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
6. Nessuno Stato in guerra con un altro deve
permettersi atti di ostilità che renderebbero
impossibile la reciproca fiducia nella pace futura:
come, ad esempio, l’assoldare sicari ed avvelenatori,
la rottura della capitolazione, l’istigazione al
tradimento nello Stato al quale si fa la guerra, ecc…
I. Kant, Per la pace perpetua:
La guerra è (…) solo il triste mezzo necessario allo stato
di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare
secondo il diritto) per affermare con la forza il proprio
diritto, non potendo in tale stato esser considerata
nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò
presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo
solo l’esito del combattimento (come nel cosiddetto
giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto:
I. Kant, Per la pace perpetua:
ma tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva
(bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste un rapporto di
superiore ad inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio
in cui la distruzione può colpire contemporaneamente
entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe
luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del
genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi
che vi conducono, dev’essere pertanto assolutamente vietata.
I. Kant, Per la pace perpetua:
Primo articolo definitivo:
“La costituzione civile di ogni Stato
dev’essere repubblicana”
I. Kant, Per la pace perpetua:
La costituzione fondata in primo luogo secondo i
principi della libertà dei membri di una società
(in quanto uomini), della dipendenza di tutti da
un’unica legislazione (in quanto sudditi), in terzo
luogo dell’uguaglianza di tutti (in quanto
cittadini) è quella repubblicana
I. Kant, Per la pace perpetua:
Secondo articolo definitivo:
“Il diritto internazionale deve
fondarsi su un federalismo di liberi
Stati”
I. Kant, Per la pace perpetua:
I modelli di unione internazionale:
Lo «Stato di popoli (Völkerstaat)» o
«Civitas gentium»
I. Kant, Per la pace perpetua:
«Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile
pensare di uscire dalla condizione di della mancanza di
legge, che non contiene altro che la guerra, se non
rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui,
alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi
a pubbliche leggi costrittive e formando uno Stato dei
popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per
arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della
terra»
I. Kant, Per la pace perpetua:
I modelli di unione internazionale:
La «federazione di pace» o
«federazione di popoli (Völkerbund)»
I. Kant, Per la pace perpetua:
«Questa federazione non si propone la costruzione di
una potenza politica, ma semplicemente la
conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato
preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati
federati, senza che questi si sottomettano (come gli
individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla
costrizione da esse esercitate »
I. Kant, Per la pace perpetua:
Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco
non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo
stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra,
se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro
libertà selvaggia (senza leggi), consentire a leggi
pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli
(civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed
abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra.
I. Kant, Per la pace perpetua:
Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto
internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in
ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea
positiva di una repubblica universale (e perché non tutto
debba andare perduto) rimane soltanto il surrogato negativo
di una lega permanente e sempre più estesa, come unico
strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti
il torrente delle tendenze contrarie al diritto, sempre però con
il continuo pericolo che queste erompano nuovamente
I. Kant, Per la pace perpetua:
Terzo articolo definitivo:
“Il diritto cosmopolitico dev’essere
limitato alle condizioni dell’universale
ospitalità”
I. Kant, Per la pace perpetua:
…Ospitalità significa che il diritto che uno straniero ha
di non essere trattato come un nemico a causa del suo
arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, s
ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando
sta al suo posto non si deve agire verso di lui in modo
ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero
possa appellarsi (…) ma un diritto di visita, che spetta a
tutti gli uomini…
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 29
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la
parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti
d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle
leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a
morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o
più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di
scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua
proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne
ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni
e della propria condotta…
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per
conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che
egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per
occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme
alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di
ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia
nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante
rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno
obbligata a prendere in considerazione…
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi.
Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente
molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza
pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i
trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi;
nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli
comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel
condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi
chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà
collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità
dell’insieme…
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto
far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono
sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato
all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né
sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della
religione. (…) Nelle cose che a noi sembrano più utili l’autorità
del corpo sociale si interpone e impaccia la volontà degli
individui. (…) L’autorità si intromette anche nelle relazioni più
intime. (…) Le leggi regolano i costumi e poiché i costumi
concernono tutto non v’è nulla che le leggi non regolino.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli
affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino
egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato,
represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo
interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi
magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a
sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue
dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme
di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente
nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in
apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a
epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni
e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
(…) Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi che si
fondava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La
nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento
dell’indipendenza privata. La parte che nell’antichità ciascuno aveva
nella sovranità nazionale non era affatto, come lo è oggi, una astratta
supposizione. La volontà di ciascuno aveva un’influenza reale:
l’esercizio di questa volontà era un piacere vivo e ripetuto. Di
conseguenza gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici per
conservare i loro diritti politici e la loro partecipazione
all’amministrazione dello Stato. Ciascuno sentiva con orgoglio tutto
quello che valeva il suo suffragio e trovava, in questa coscienza
della sua personale importanza, un ampio consenso.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Questo compenso non esiste più oggi per noi. Perduto nella
moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita.
Mai la sua volontà si imprime sull’insieme, niente prova, ai suoi occhi,
la sua cooperazione. L’esercizio dei diritti politici ci offre dunque ormai
soltanto una parte dei godimenti che vi trovavano gli antichi e in pari
tempo i progressi della civiltà, la tendenza commerciale dell’epoca, la
comunicazione dei popoli fra loro hanno moltiplicato e variato
all’infinito i mezzi della felicità privata.
Ne segue che dobbiamo essere attaccati assai più degli antichi alla
nostra indipendenza individuale; perché gli antichi, quando
sacrificavano questa indipendenza ai diritti politici, sacrificavano il
meno per ottenere il più; mentre facendo lo stesso noi daremmo il più
per ottenere il meno.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Il fine degli antichi era la divisione del potere
sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era
questa che essi chiamavano libertà. Il fine dei
moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed
essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle
istituzioni questi godimenti…
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 30
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è (…) un
fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale,
duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli
avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo
sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento
sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli
sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare
che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto
i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? E’ possibile
che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi
avversari tanto deboli?
A. De Tocqueville, La democrazia in America
(…) Ecco che i ranghi si confondono, che le
barriere innalzate tra gli uomini si abbassano; si
dividono le proprietà, si divide il potere, la civiltà
si diffonde, le intelligenze si uguagliano;
l’assetto sociale diviene democratico e l’impero
della democrazia si stabilisce infine facilmente
nelle istituzioni e nei costumi.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
E’ nell’essenza stessa dei governi
democratici che il dominio della
maggioranza sia assoluto; poiché, fuori
della maggioranza, nelle democrazie, non
vi è nulla che resista…
A. De Tocqueville, La democrazia in America
I principi avevano, per così dire, materializzato la
violenza; le repubbliche democratiche dei nostri giorni
l’hanno resa del tutto spirituale, come la volontà umana
che essa vuole costringere. Sotto il governo assoluto di
uno solo, il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva
grossolanamente il corpo; e l’anima, sfuggendo a quei
colpi, s’elevava gloriosa al di sopra di esso; ma nelle
repubbliche democratiche, la tirannide non procede
affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta
all’anima.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Individualismo è un termine recente, originato da un’idea
nuova. I nostri padri non conoscevano che l’egoismo.
L’egoismo è un amore spassionato e sfrenato di se stessi,
che porta l’uomo a riferire tutto soltanto a se stesso, e a
preferire sé a tutto. L’individualismo è un sentimento
ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo ad
appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte
con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi
creato una piccola società per conto proprio, abbandona
volentieri la grande società a se stessa.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Immagino sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe
prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini
simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per
procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro
animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è
come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici
costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei
concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca
ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e
se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che
non ha più patria.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si
incarica di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro
sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite.
Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di
preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo
irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino,
purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità,
ma vuole esserne il solo agente ed il solo arbitro; provvede alla loro
sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri,
guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro
successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro
totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?
A. De Tocqueville, La democrazia in America
E’ così che giorno dopo giorno esso rende sempre
meno utile e sempre più raro l’impiego del libero
arbitrio, restringe in uno spazio sempre più
angusto l’azione della volontà e toglie poco alla
volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità
di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli
uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo
e spesso anche a considerarlo come un vantaggio
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Le nazioni moderne non possono evitare che le
condizioni diventino uguali; ma dipende da loro
che l’uguaglianza le porti alla schiavitù o alla
libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità
o alla miseria.
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 31
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
…Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto
mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende
dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma
altrettanto decisamente come soggetto (…), ciò che è poi lo stesso,
è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la
sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la
mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso (…). Il vero è il
divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la
propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e
la propria fine è effettuale.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
(…) Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto
l’essenza che si completa mediante il suo
sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è
essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò
che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua
natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenirse-stesso.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
(…) Che il vero sia effettuale solo come sistema,
o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò
è espresso in quella rappresentazione che enuncia
l’Assoluto come Spirito – elevatissimo concetto
appartenente all’Età moderna e alla sua religione.
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817):
Aufheben ha nella lingua un doppio senso: quello di conservare e
quello di far cessare, di porre un termine. Conservare ha
d’altronde un significato negativo, cioè per conservare qualcosa
bisogna che gli si tolga la sua immediatezza, che gli si sopprima la
sua esistenza, così che essa è sottomessa alle condizioni esterne.
In questo modo ciò che viene soppresso è nello stesso tempo
conservato, avendo perso solo la sua esistenza immediata, senza
essere per questo annientato. Sul piano semantico, le due
determinazioni di aufheben possono essere considerate significati
della stessa parola. E’ sorprendente che una lingua sia giunta a
usare una sola parola per due significati opposti.
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817):
(…) Una cosa è soppressa (superata) nella
misura in cui essa è realizzata in unità con il
suo opposto: in questa determinazione, la
Cosa superata appare come riflessa e può
essere designata come «momento»…
G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16):
(…) La contraddizione (…) è la radice di ogni movimento e
vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in
quanto ha in se stesso una contraddizione. (…) La comune
esperienza riconosce che si dà una quantità di cose
contraddittorie, di contraddittorie disposizioni, ecc., la cui
contraddizione non sta semplicemente in una riflessione esteriore,
ma in loro stesse. E la contraddizione non è poi da prendere
semplicemente come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è
il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni
muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e
mostrarsi della contraddizione…
Il sistema filosofico di Hegel:
Logica
Idea in sé e per sé=
Puro pensiero (tesi)
Filosofia della natura
Idea fuori di sé=
Natura (antitesi)
Filosofia dello spirito
Idea che ritorna in sé=
Spirito (sintesi)
Il sistema filosofico di Hegel:
Logica
Dottrina dell’essere
Dottrina dell’essenza
Dottrina del concetto
Filosofia della natura
Meccanica
Fisica
Organica
Il sistema filosofico di Hegel:
Filosofia dello Spirito
Spirito soggettivo
Antropologia
Fenomenologia
Psicologia
Spirito oggettivo
Diritto
Moralità
Eticità
Spirito assoluto
Arte
Religione
Filosofia
Il sistema filosofico di Hegel:
Eticità
Famiglia
Società civile
Stato
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821):
Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire
che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti.
Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo
non è in questo caso adeguato. Lo Stato non è
infatti una realtà astratta che si contrapponga ai
cittadini; bensì essi sono momento come nella
vita organica, in cui nessun membro è fine e
nessuno è mezzo, (§ 258 A)
G.W.F. Hegel, Epistolario:
Gli avvenimenti più universali (…) mi suscitano le più universali
considerazioni, che mi riportano nella sfera del pensiero i particolari singoli
e prossimi, per quanto questi possano interessare il sentimento. Io considero
che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d’ordine di avanzare;
un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile come una
falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento impercettibile del
sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si muovono
nell’uno e nell’altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure di che
si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano
invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici (…) a nulla servono; (…) Il
partito più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare
questo gigante che si avanza
G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:
La bandiera dello spirito libero (…) è la bandiera sotto cui
serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi,
non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di
quella di incorporare questo principio nel mondo (IV, 151)
…Sembra che allo spirito del mondo sia ora riuscito di
sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva, e di
cogliersi infine come Spirito assoluto, di generare da sé ciò
che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di
tenerlo in suo potere.
G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:
…Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima
filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla
è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa
idea concreta è il risultato degli sforzi dello
spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più
serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e
per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam
cognoscere mentem (parafrasi virgiliana).
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima
filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla
è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa
idea concreta è il risultato degli sforzi dello
spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più
serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e
per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam
cognoscere mentem (parafrasi virgiliana).
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale,
appunto per ciò che è l’apprendimento di ciò ch’è
presente e reale, non la costruzione di un al di là, che sa
Dio dove dovrebbe essere, - o del quale di fatto si sa ben
dire dov’è, cioè nell’errore di un vuoto, unilaterale
raziocinare…
Ciò che è razionale è reale:
e ciò che è reale è razionale.
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò
ch’è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente
e l’eterno che è presente. Poiché il razionale, che è
sinonimo dell’idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari
tempo nell’esistenza esterna, vien fuori in un’infinita
ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il
suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza
dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per
trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne
sentirlo ancora battere…
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la
scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il
tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa
razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve
restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come
dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso
non può giungere a insegnare allo Stato come deve
essere, ma, piuttosto, in quale modo esso deve esser
riconosciuto come universo etico.
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Intendere ciò che è, è il compito della filosofia,
poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che
si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro,
figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio
tempo appreso col pensiero. E’ altrettanto folle
pensare che una qualche filosofia precorra il suo
mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci
indietro il suo tempo, e salti oltre…
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come
realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa
non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione,
che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione
come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale
riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la
filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna
esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva
in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà
soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in
qualcosa che è in sé e per sé
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
(…) Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere
il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del
mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il
concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima
l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso
costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in
forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro,
allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si
lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia
il suo volo sul far del crepuscolo.
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 32
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
K. Marx, Tesi su Feuerbach:
Undicesima tesi
I filosofi hanno solo interpretato il
mondo in modi diversi; si tratta però
di mutarlo.
K. Marx, L’ideologia tedesca
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non
sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può
astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui
reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di
vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti
quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi
presupposti sono dunque constatabili per via puramente
empirica.
K. Marx, L’ideologia tedesca
Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui
umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica
di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura.
Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica
dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le
condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia
deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel
corso della storia per l’azione degli uomini.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione,
per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché
cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è
condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di
sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.
K. Marx, L’ideologia tedesca
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende
prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e
che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve
giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli
individui; anzi, esso è già un modo determinata dell’attività di questi
individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di
vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi
sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione,
tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò
che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali
della loro produzione.
K. Marx
Il compito della storia, una volta scomparso l’al di là della
verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di
qua. Compito della filosofia, che è al servizio della storia, è
lo smascheramento, dopo che la figura sacra
dell’estraneazione dell’uomo è già stata smascherata,
dell’autoestraneazione dell’uomo nelle figure non-sacre.
La critica del cielo si trasforma quindi nella critica della
terra, la critica della religione nella critica del diritto, la
critica della teologia nella critica della politica.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Il lato più profondo di Hegel sta nel fatto di
aver sentito come un contrasto la
separazione della società civile da quella
politica. Negativo è peraltro il fatto che egli
si accontenti di avere apparentemente
dissolto questo contrasto.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Per comportarsi quindi come un vero cittadino dello Stato, per
acquistare importanza ed efficacia politiche, egli deve uscire dalla sua
realtà civile, deve astrarsene e rientrare nella propria individualità,
abbandonando tutta questa organizzazione; l’unica esistenza infatti che
egli trova, per essere cittadino dello Stato, è la sua individualità nuda e
cruda, poiché l’esistenza dello Stato in quanto governo può fare a meno
dell’individuo, e la sua esistenza nella società civile prescinde da quella
dello Stato. Egli può essere cittadino dello Stato solo come individuo, e
in contrasto con queste uniche comunità sussistenti. La sua esistenza
come cittadino dello Stato è un’esistenza estranea alla sua esistenza
come uomo sociale, è cioè un’esistenza puramente individuale.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
I droits de l’homme, cioè i diritti dell’uomo, sono come tali
distinti dai droits du citoyen, cioè dai diritti del cittadino. Ma
chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altro fuorché il
membro della società borghese. Perché dunque il membro
della società borghese diventa un uomo, l’uomo
semplicemente, è perché i suoi diritti sono chiamati diritti
dell’uomo? Come ci spieghiamo questo fatto? Certo in base
al rapporto tra Stato politico e società borghese, cioè in base
alla natura dell’emancipazione (soltanto) politica.
K. Marx, La questione ebraica (1844)
Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell’uomo in
quanto specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti
di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera
dello Stato, nella società borghese, ma come caratteristiche della società
civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo,
l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella
realtà, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità
politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita
nella società borghese nella quale agisce come uomo privato, che
considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e
diviene trastullo di forze estranee…
K. Marx, La questione ebraica (1844)
Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo
spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si
trova nel medesimo contrasto, e la sovrasta nel medesimo modo in
cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè
dovendo insieme riconoscerla restaurarla e lasciarsi da essa
dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo
è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come
individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato,
dove l’uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario
di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita
individuale e riempito di una universalità irreale…
K. Marx, L’ideologia tedesca:
Il comunismo per noi non è uno stato di
cose che debba essere instaurato, un ideale
al quale la realtà dovrà conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente. Le
condizioni di questo movimento risultano
dal presupposto ora esistente.
Per la critica dell’economia politica (1859):
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in
rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in
rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di
sviluppo delle loro forze produttive materiali. (…) A un dato punto
del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano
in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i
rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica)
dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti,
da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro
catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il
cambiamento della base economica si sconvolge più o meno
rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
Per la critica dell’economia politica (1859):
(…) Una formazione sociale non perisce finché non si siano
sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che
siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali
della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non
quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose
dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le
condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno
sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati
come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società.
Il Capitale:
Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano
e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la
massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione,
dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che
sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso
meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale
diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e
sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione
del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro
involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della
proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. (…) La
produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttibilità di un processo
naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione.
Marx, Scritti giovanili
“Quando il proletariato annuncia il
dissolvimento dell’ordine finora
esistente, rivela solo il segreto della
sua propria esistenza, poiché esso il
dissolvimento effettivo di quest’
ordine mondiale”.
Marx, L’ideologia tedesca
Il comunismo per noi non è uno stato di
cose che debba essere instaurato, un ideale
al quale la realtà dovrà conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente. Le
condizioni di questo movimento risultano
dal presupposto ora esistente.
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