STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 20 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 John Locke, Secondo trattato sul governo Lo stato di natura è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone come meglio si crede (…) senza chiedere l’altrui benestare o obbedire alla volontà d’altri. (…) In tale stato potere e libertà sono reciproci perché nessuno ne ha più degli altri (§ 4) John Locke, Secondo trattato sul governo Benché sia incondizionatamente libero, in questo stato, di disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli appartenga, se non quando lo imponga un motivo più nobile della semplice sopravvivenza. Lo stato di natura è governato da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi (§ 6) John Locke, Secondo trattato sul governo La legge naturale (…) ci dice che gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda e a tutto ciò che la natura offre per la loro sussistenza (§ 25) John Locke, Secondo trattato sul governo Dio, che ha dato la terra in comune agli uomini, ha dato loro anche la ragione, onde se ne servissero nel modo più vantaggioso per la vita e il benessere loro. La terra, e tutto ciò che essa contiene, viene data agli uomini per la sussistenza e il piacere di vivere (§ 26) John Locke, Secondo trattato sul governo Per quanto tutti i frutti che (la terra) naturalmente produce e gli animali che sostenta appartengano in comune all’umanità, essendo prodotti dalla spontanea mano della natura, senza che nessuno ne abbia originariamente un privato dominio a esclusione del resto degli uomini, pure, tutto ciò è inteso all’utilità degli uomini, dev’esserci di necessità un mezzo di appropriarselo in un modo o nell’altro, prima che possa essere d’un qualche vantaggio o beneficio a un singolo individuo… (§ 28) John Locke, Secondo trattato sul governo Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno al di fuori di lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà dellavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò cui esso è stato incorporato, almeno là dove avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti e altrettanto buoni (§ 27) John Locke, Secondo trattato sul governo Colui che si nutre delle ghiande raccolte ai piedi di una quercia o dei pomi raccolti dagli alberi della foresta si è senza dubbio appropriato quei frutti. Nessuno può negare che quel cibo sia suo. Ora mi chiedo: in quale momento quei frutti hanno cominciato a esser suoi? Nel momento in cui li ha digeriti? Oppure quando li ha mangiati? O quando li ha arrosistiti? Quando se li è portati a casa, oppure quando li ha colti? E’ chiaro che se non se li è appropriati col primo atto del raccoglierli, con nient’altro può averlo fatto. Quel lavoro ha fondato una distinzione fra questi beni e i beni comuni; vi ha aggiunto più di quanto non avesse fatto la natura, madre a tutti comune, e così sono divenuti suo diritto privato. (§ 28) John Locke, Secondo trattato sul governo A ciò si obietterà forse che, se la raccolta delle bacche o di altri frutti della terra costituisce un diritto sopra di essi, allora chiunque può accumularne a suo piacimento. Al che rispondo: no. La stessa legge di natura che in questo modo ci conferisce la proprietà, vi pone pure dei limiti. “Dio ogni cosa ci somministra copiosamente” (I Tim. VI, 17): così dice la ragione e la rivelazione lo conferma. Ma a quale condizione? Per il nostro godimento”. Quanto ciascuno può usare a vantaggio della propria vita, prima che si deteriori, tanto col suo lavoro può appropriarsi; quanto ciò eccede è più di quanto gli spetta e appartiene ad altri… John Locke, Secondo trattato sul governo …Nulla Dio ha fatto perché l’uomo sciupi o distrugga. Se si considera dunque la sovrabbondanza dei beni naturali a lungo disponibili nel mondo e il piccolo numero di consumatori; se si pensa a quale piccola parte di quei beni si possa estendere l’operosità d’un sol uomo, e quanto poco egli possa accumulare a pregiudizio degli altri, specie se si attiene ai limiti, posti dalla ragione, di quanto può servire al suo uso, poco adito è dato per discussioni e contese circa la proprietà così fondata (§ 31) John Locke, Secondo trattato sul governo Ma principale oggetto di proprietà non sono oggi I frutti della terra o gli animali che su di essi si pascono, bensì la terra stessa, come cosa che tutte le altre comprende e porta con sé. Mi sembra chiaro che anche la proprietà della terra è acquisita allo stesso modo. Quanto terreno un uomo zappa, semina, migliora e coltiva, e di quanto può usare il prodotto, tanto è di proprietà sua. Col suo lavoro egli lo ha, per così dire, recinto dalla terra comune. (§ 32) John Locke, Secondo trattato sul governo Né quest’appropriazione d’una parte di terra al fine di coltivarla era di pregiudizio ad altri, poiché ve n’era ancora a sufficienza e di altrettanto buona, più di quanto ne potessero usare coloro che non ne erano ancora provvisti. Così, in realtà, la recinzione fatta a proprio vantaggio non riduceva la parte che restava a disposizione degli altri, poiché chi lascia tanto quanto un altro può usare è come se nulla avesse preso (§ 33) John Locke, Secondo trattato sul governo Non è così strano come a prima vista può sembrare che la proprietà del lavoro potesse contare più della comunità della terra. E’ infatti il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del valore. (…) Credo si possa dire con un calcolo ancora molto modesto che dei prodotti della terra che servono alla sussistenza dell’uomo nove decimi sono effetto del lavoro. (§40) John Locke, Secondo trattato sul governo Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella offerta da diversi popoli d’America, ricchi di terra e poveri di tutti I beni della sussistenza. La natura ha donato loro non meno generosamente che ad altri popoli la materia prima della ricchezza, cioè un suolo fertile, capace di produrre in abbondanza tutto ciò che può servire per il cibo, il vestiario e il piacere; ma, quella terra non essendo messa a frutto dal lavoro, essi non hanno la centesima parte dei beni di cui noi godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese (§41) John Locke, Secondo trattato sul governo La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell'uomo (…) sono in generale cose di breve durata; cose che, non consumate, spontaneamente si guastano e perdono, mentre oro, argento, diamanti, sono cose alle quali per arbitrio e convenzione, più che per un'utilità reale e per la necessità della sussistenza, è stato attribuito un valore... (§ 46). …Così nacque l'uso del denaro, qualcosa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza (§ 47). John Locke, Secondo trattato sul governo E, come i diversi gradi d'industria erano capaci di dare agli uomini ricchezze in proporzioni diverse, così l'invenzione del denaro diede loro l'opportunità di accrescerle ed estenderle. (…) Dove non c'è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto pregiato da essere accumulato, gli uomini non possono estendere la loro proprietà della terra, per ricca che questa sia e facile a prendersi: che valore potrebbero avere infatti per un uomo diecimila, o centomila, acri di terra eccellente, bell'e coltivata e ricca di bestiame, nel cuore delle regioni interne dell'America, dove non ci fosse alcuna speranza di commerciare con altre parti del mondo e guadagnare denaro con la vendita dei prodotti? (§48) John Locke, Secondo trattato sul governo Ma, poiché oro e argento, essendo di poca utilità per la vita dell’uomo in confronto a cibo, vestiario e mezzi, acquistano il loro valore soltanto dal consenso degli uomini, e di questo valore il lavoro costituisce in gran parte la misura, è evidente che gli uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù or e argento che può accumulare senza far torto a nessuno, dato che quei metalli non si deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore . (§50) John Locke, Secondo trattato sul governo Mi pare perciò assai facile comprendere come il lavoro poté originariamente fondare il diritto alla proprietà dei comuni beni di natura, e come il limite di quella fosse fissato dal consumo che possiamo farne per I nostri usi. Non v’era dunque ragione di discutere quel diritto, né v’erano dubbi quanto all’estensione della proprietà che questo conferiva. Diritto e utilità andavano insieme, perché, avendo diritto su tutto ciò su cui poteva esercitare il suo lavoro, un uomo non era mai tentato di lavorare più di quello che poteva usare. Ciò escludeva ogni contesa circa la legittimità, e ogni usurpazione dei diritti altrui: la porzione che ogni uomo si tagliava per sé era facilmente visibile, ed era inutile, oltre che disonesto, tagliarsi una porzione troppo grossa o prendere più di quanto poteva servire. (§51) John Locke, Secondo trattato sul governo Una cosa è certa, che all'inizio, prima che il desiderio di possedere più del necessario avesse alterato l'intrinseco valore delle cose, che dipende solo dalla loro utilità per la vita dell'uomo; prima che si fosse convenuto che un pezzetto di metallo giallo, che si poteva conservare senza che si deteriorasse o andasse perduto, valeva per un grande pezzo di carne o un mucchio intero di frumento, per quanto gli uomini avessero diritto di appropriarsi, col loro lavoro, ciascuno per sé, tanto quanto potevano usare degli oggetti della natura, pure ciò non poteva esser mai troppo, né recare pregiudizio ad altri, poiché pari ricchezza avanzava per coloro che fossero altrettanto industriosi. STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 21 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 John Locke, Secondo trattato sul governo ...Sebbene la legge di natura sia evidente e intelligibile ad ogni creatura ragionevole, tuttavia gli uomini, in quanto influenzati dai loro interessi la ignorano per mancanza di studio, sicché tendono a non riconoscerla come una legge che li obblighi ad applicarla ai loro casi particolari John Locke, Secondo trattato sul governo …Se l'uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla sua libertà ? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo d'un altro potere ? La risposta ovvia è che, per quanto nello stato di natura egli possieda il diritto connesso con quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto insicuro... John Locke, Secondo trattato sul governo Ciò lo induce ad abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di rischi e di continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera e ambisce unirsi a una società che gli altri abbiano costituito o abbiano in mente di costituire per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni, cioè con quello che definisco con il termine generale proprietà. (§ 123) John Locke, Secondo trattato sul governo Il grande è fondamentale intento per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà. A tal fine lo stato di natura è per molti rispetti inefficiente. Vi manca in primo luogo una legge stabile, fissa e notoria, accettata e riconosciuta per comune consenso come criterio del giusto e dell'ingiusto e come comune misura Per decidere di ogni controversia. Per quanto infatti la legge di natura sia chiara e intelligibile a tutte le creature razionali, gli uomini, traviati dall'interesse e ignari di essa per mancanza di riflessione, non sono portati a riconoscerla come legge per loro vincolante nell'applicazione ai loro casi particolari. (124) John Locke, Secondo trattato sul governo In secondo luogo, manca nello stato di natura un giudice riconosciuto e imparziale, dotato dell'autorità di risolvere ogni contrasto sulla base della legge istituita. Essendo infatti in quello stato ciascuno giudice ed esecutore della legge di natura, e gli uomini essendo parziali nei propri confronti, la passione e lo spirito vendicativo tendono a spingerli troppo oltre, e a infiammarli in modo eccessivo, quando si tratta di casi propri, così come la negligenza e il disinteresse tendono a farli noncuranti dei casi altrui. (§ 125) John Locke, Secondo trattato sul governo Infine, nello stato di natura manca spesso il potere, atto a sostenere e appoggiare la sentenza giusta e renderla debitamente operante. Coloro che hanno commessa ingiustizia raramente, potendo, si astengono da far valere con la forza quella trasgressione; e questa resistenza rende spesso pericolosi e talvolta fatali per chi li compie i tentativi di punizione.(§ 126) John Locke, Secondo trattato sul governo Nello stato di natura l'uomo ha due poteri, oltre alla libertà di godere dei piaceri innocenti. Il primo consiste nel fare tutto ciò che ritiene opportuno per la conservazione sua e altrui nei limiti consentiti dalla legge di natura. (…) L'altro potere che un uomo ha nello stato di natura è quello di punire i reati commessi contro la legge naturale. A entrambi i poteri egli rinuncia quando entra in una società politica per così dire privata o particolare e si incorpora in uno Stato distinto da tutto il resto del genere umano. John Locke, Secondo trattato sul governo ...Un uomo si spoglia della sua libertà naturale e accetta i vincoli della società civile solo quando decide insieme con altri uomini di associarsi e unirsi tutti in una comunità, per viver bene, nella tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle loro proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella società non appartengono. Questo può esser fatto da un gruppo di uomini, perché non lede la libertà di tutti gli altri, che restano come prima nell'indipendenza dello stato di natura. Quando un certo numero di uomini in tal modo consente di istituire una comunità o stato politico, essi vengono immediatamente associati in modo da costituire un solo corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di decretare e decidere per il resto (§ 95). John Locke, Secondo trattato sul governo Infatti quando un gruppo, col consenso di ciascun individuo, costituisce una comunità, di quella comunità fa con ciò stesso un sol corpo, che ha il diritto di deliberare come un sol corpo, cioè solo in base alla volontà e alla decisione della maggioranza. I decreti d'una comunità non essendo infatti se non il consenso degli individui a essa appartenenti, e, essendo necessario che ciò che costituisce un sol corpo si muova in una sola direzione, è indispensabile che quel corpo si muova nella direzione in cui lo spinge la forza maggiore, e cioè il consenso della maggioranza. Gli sarebbe altrimenti impossibile decretare e continuare a sussistere come un sol corpo, come una sola comunità, quale consenso di ciascun individuo a esso consociato ha convenuto che fosse; onde ciascuno è tenuto da quel consenso ad essere determinato dalla maggioranza. John Locke, Secondo trattato sul governo …E' dunque inteso che chiunque, uscendo dallo stato di natura, si unisca ad altri in una comunità, cede tutto il potere, necessario ai fini per cui tutti si sono uniti in società, alla maggioranza della comunità stessa, a meno che non si sia convenuto un numero maggiore, appunto, della maggioranza. E ciò avviene col semplice fatto di decidere concordemente di unirsi in una sola società politica: ecco tutto il patto che interviene, e deve intervenire, fra gli individui che entrano a far parte d'uno Stato o lo costituiscono… John Locke, Secondo trattato sul governo …Così, ciò che dà origine a una società politica, e realmente la istituisce, non è se non il consenso d'un certo numero di uomini liberi, capaci d'una maggioranza, a riunirsi e associarsi in una società siffatta. Questo e questo soltanto ha dato e poteva dare origine a un legittimo governo nel mondo (VIII, 99) John Locke, Secondo trattato sul governo Avendo naturalmente in sé, come s'è dimostrato, l'intero potere della comunità fin dal momento in cui gli uomini si uniscono in società, la maggioranza può servirsi di tutto quel potere per fare di tanto in tanto leggi per la comunità e renderle operanti per mezzo di funzionari da essa stessa designati. In questo caso la forma di governo è una perfetta democrazia. Oppure può affidare il potere di legiferare a pochi prescelti e ai loro eredi e successori, e allora si tratta di un'oligarchia. O, ancora, può affidarlo a uno solo, e allora è una monarchia. Se è affidato a un sol uomo e ai suoi eredi, è una monarchia ereditaria; se a un sol uomo per tutta la durata della sua vita, ma a condizione che alla sua morte il solo potere di nominare un successore venga restituito alla maggioranza, allora è una monarchia elettiva. Così con queste forme, la comunità può creare forme di governo composite o miste, secondo che paia opportuno. John Locke, Secondo trattato sul governo …E, se il potere legislativo viene dapprima dato dalla maggioranza a una o più persone per la sola durata della loro vita, o per un periodo comunque limitato, dopo di che il supremo potere torna di nuovo a essa, quando ciò avviene la comunità può disporne di nuovo affidandolo a chi vuole e costituire così una nuova forma di governo. La forma di governo dipende dalla collocazione del potere supremo, che è il legislativo; dunque, essendo impossibile che un potere inferiore prescriva leggi a uno superiore, o che un potere che non sia il potere supremo legiferi, quale è la collocazione del potere di legiferare tale è la forma dello Stato (X, 132). . John Locke, Secondo trattato sul governo ...Vorrei che i miei obiettori tenessero presente che i monarchi assoluti altro non sono che uomini; e se il governo dev'essere rimedio ai mali che necessariamente scaturiscono dal fatto che gli uomini sono giudici di se stessi, onde lo stato di natura non può essere a lungo accettato, mi chiedo che genere di governo sia, e in che senso sia migliore dello stato di natura, quello in cui un sol uomo, regnando su molti, abbia la libertà di giudicare se stesso e possa fare ai suoi sudditi tutto quello che vuole, mentre tutti gli altri non hanno la minima libertà di discutere o controllare coloro che eseguono il suo volere, e qualsiasi cosa egli faccia - sia guidato da ragione, da errore o da passione - devono obbedirgli… John Locke, Secondo trattato sul governo …Molto meglio lo stato di natura, in cui gli uomini non sono costretti a sottomettersi all'ingiusto volere di un'altr'uomo e in cui colui che giudica, se giudica male della causa propria o altrui, deve risponderne al resto degli uomini . John Locke, Secondo trattato sul governo …Entrando in società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato di natura, affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come richiede il bene della società stessa. Ma, poiché ciascuno fa questo con l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale muti con l'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere della società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno prendendo misure contro i tre difetti sopra menzionati, che avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile. John Locke, Secondo trattato sul governo …Così, chiunque disponga del potere legislativo o supremo d'uno Stato è tenuto a governare secondo leggi istituite e stabili, promulgate e rese note al popolo, e non sulla base di decreti estemporanei; per mezzo di giudici imparziali e retti, che devono risolvere i conflitti in base a quelle leggi; ed è tenuto ad usare la forza della comunità, in patria, solo per l'esecuzione di quelle leggi; e, fuori, al fine di prevenire e risarcire offese esterne e mettere la comunità al sicuro da scorribande ed invasioni. E tutto ciò non dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo. (§ 131) John Locke, Secondo trattato sul governo Il potere legislativo, sia esso affidato a una o più persone, sia vigente di continuo o solo a intervalli, è sì il supremo potere in ogni Stato, ma ciò nonostante occorre considerare quanto segue: In primo luogo, non esercita, né può assolutamente esercitare l'arbitrio sulla vita e i beni del popolo. Non essendo infatti se non il potere congiunto di ciascun membro della società, conferito a quella persona o assemblea che appunto legiferano, non può essere nulla più di quanto quelle persone possedevano nello stato di natura prima di entrare in società e che hanno rimesso alla comunità. Nessuno infatti può trasferire ad altri più potere di quanto non abbia, e nessuno ha, su se stesso o su altri, un assoluto arbitrario potere di togliersi la vita o strappare ad altri la vita o i beni... John Locke, Secondo trattato sul governo …Il suo potere, nella massima estensione è comunque limitato dal criterio del pubblico bene della società. E' un potere che non ha altro fine che la conservazione, e non può dunque avere mai diritto di distruggere, ridurre in schiavitù o deliberatamente in miseria coloro che vi sono soggetti... John Locke, Secondo trattato sul governo In secondo luogo, l'autorità legislativa, o autorità suprema, non può arrogarsi il potere di governare per mezzo di estemporanei arbitrari decreti, ma è tenuta a dispensare la giustizia e stabilire i diritti dei sudditi con leggi promulgate e stabili e per mezzo di giudici abilitati e noti... In terzo luogo, il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso. Infatti, la conservazione della proprietà essendo il fine del governo e la ragione per cui gli uomini entrano in società, è necessariamente presupposto e richiesto che il popolo abbia una proprietà; altrimenti bisognerebbe supporre che, entrando in società, si perda ciò che era appunto il fine in vista del quale vi si era entrati: un'assurdità, questa, troppo grossolana perché qualcuno la accetti... John Locke, Secondo trattato sul governo ...E' dunque un errore pensare che il potere supremo o potere legislativo d'uno Stato possa fare ciò che vuole e disporre arbitrariamente dei beni dei sudditi, o prenderne una parte a suo piacimento. Questo non è un vero pericolo nei regimi in cui il legislativo consiste, del tutto o in parte, in assemblee che variano, i cui membri, a scioglimento avvenuto, tornano a esser sudditi sottoposti alle leggi comuni del paese, al pari degli altri. Ma nei regimi in cui il legislativo risiede in una sola assemblea sempre ininterrottamente in carica, o in un sol uomo, come nelle monarchie assolute, c'è sempre il pericolo che costoro ritengano di avere un interesse diverso da quello del resto della comunità, e di sentirsi dunque autorizzati ad accrescere la propria ricchezza e il proprio potere togliendo al popolo quello che vogliono" (XI, 138). John Locke, Secondo trattato sul governo …In uno Stato che poggi su proprie basi e operi secondo la propria natura, cioè per la salvaguardia della comunità, non ci può essere se non un solo supremo potere, che è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono essere subordinati. Tuttavia, essendo il legislativo solo un potere fiduciario inteso a certi fini, resta al popolo il supremo potere di destituire o mutare il legislativo quando constata che esso agisce in modo contrario alla fiducia in esso riposta. Infatti, ogni potere dato in affidamento per il conseguimento di un fine è limitato appunto a quel fine, e ogni qualvolta quest’ultimo venga manifestamente trascurato o calpestato, l’affidamento non può non venir meno e il potere non ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito, e che possono di nuovo collocarlo dove credono più opportuno per la loro sicurezza e tutela. (XI, 149). John Locke, Secondo trattato sul governo …Così la comunità conserva sempre il supremo potere di difendersi dai tentativi e disegni di chiunque, sia pure dei legislatori quand’essi siano così stolti o malvagi da formulare o perseguire piani contrari alla libertà o ai beni dei sudditi. (XI, 149). John Locke, Secondo trattato sul governo Quando si maltratta il popolo e si calpesta il suo diritto, esso è sempre pronto alla prima occasione a scrollarsi di dosso un giogo che sente gravare su di sé. Sospirerà e cercherà il momento opportuno, che, data la mutevolezza, la fragilità e la natura fortuita delle cose umane, di rado tarda molto a venire. (…) rivoluzioni del genere non avvengono per abusi minimi nell'amministrazione della cosa pubblica. Grandi errori da parte dei governanti, molte leggi sbagliate e inopportune, tutti i cedimenti della debolezza umana saranno sopportati dal popolo senza ribellione o manifestazioni di dissenso… John Locke, Secondo trattato sul governo …Ma, se una lunga serie di abusi, prevaricazioni ed espedienti tutti intesi a una cosa sola, manifesta al popolo una trama e mostra inequivocabilmente che cosa incombe su di esso, in quale direzione lo si trascini, non stupisce allora che esso si scuota e s'adoperi a porre il potere in mani capaci di garantire i fini in vista dei quali il governo fu originariamente istituito e senza i quali nomi antichi e istituzioni formali non solo non sono migliori dello stato di natura e della pura anarchia, ma sono addirittura peggiori, gli inconvenienti essendo altrettanto gravi e pressanti e il rimedio più remoto e difficile. John Locke, Secondo trattato sul governo …Chi giudicherà se il principe o il legislativo agiscono conto il mandato ricevuto? …Sarà il popolo a giudicare. Chi infatti potrà giudicare se il suo delegato o deputato agisce bene, in conformità al mandato affidatogli, se non colui che appunto lo ha deputato e che deve per ciò stesso avere ancora il potere di destituirlo quando viene meno al mandato? John Locke, Secondo trattato sul governo …Se alcuni si ritengono lesi e pensano che il sovrano agisca contro il mandato o al di là del mandato, chi meglio del corpo del popolo (che appunto gli ha fin dall’inizio affidato quel mandato) può giudicare circa l’ampiezza che intendeva dare al mandato stesso? Ma se il sovrano, o chiunque sia incaricato dell’amministrazione civile, rifiuta questo modo di risolvere il conflitto, allora solo arbitro è il cielo. L’uso della forza che non riconoscono superiori sulla terra, e in casi che non consentono l’appello a un giudice terreno, è infatti propriamente uno stato di guerra, il cui arbitrato solo al cielo compete; e in quello stato la parte lesa deve giudicare per suo conto quando sia il momento di ricorrervi e affidarvisi… Dichiarazione d’indipendenza americana (1776) …Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o abolirlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità… Dichiarazione d’indipendenza americana (1776) …La prudenza, invero, consiglierà di non modificare per cause transeunti e di poco conto Governi da lungo tempo stabiliti, e, conformemente a ciò, l’esperienza ha dimostrato che gli uomini sono maggiormente disposti a sopportare, finché i mali siano sopportabili, che a farsi giustizia essi stessi abolendo quelle forme di Governo cui sono avvezzi. Ma quando un lungo corteo di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti allo stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un Dispotismo assoluto, è loro diritto, è loro dovere, di abbattere un tale Governo, e di procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura... John Locke, Lettera sulla tolleranza …La causa delle anime non può appartenere al magistrato civile, perché tutto il suo potere consiste nella costrizione. Ma la religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima, senza la quale nulla ha valore presso Dio. La natura dell’intelligenza umana è tale che non può essere costretta da nessuna forza esterna. Si confischino i beni, si tormenti il corpo con il carcere o la tortura, tutto sarà vano, se con questi supplizi si vuole mutare il giudizio della mente sulle cose. Occorre fare luce perché muti una credenza dell’anima; e la luce non può essere data in nessun modo da una pena inflitta al corpo. STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 22 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 Baruch Spinoza, Ethica: Il conatus è lo «sforzo col quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere». Allorché il conatus «è riferito soltanto alla mente si chiama volontà; ma quando è riferito insieme alla mente e al corpo si chiama appetito (appetitus). Questo, quindi, non è altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura segue necessariamente ciò che serve alla sua conservazione, e quindi l’uomo è determinato a farlo. Non c’è poi, nessuna differenza tra l’appetito e il desiderio (cupiditas), tranne che il desiderio si riferisce per lo più agli uomini in quanto sono consapevoli del loro appetito e perciò si può definire così: il desiderio è l’appetito con coscienza di se stesso» (III, XV) Baruch Spinoza, Ethica: …Libero è chi «non è guidato dalla paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere avendo quale fondamento la ricerca del proprio utile; perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è meditazione della vita» (IV, P LXVII). Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico : …il diritto naturale è dunque determinato e definito non da una saggia razionalità, bensì dal proprio desiderio (cupiditas) e dalle proprie possibilità; (…) ne segue che ogni individuo [nello stato di natura] ha un diritto sovrano su tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la sua particolare potenza… Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico : Il governo democratico è «quello che più si accosta all’ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella libertà che la natura concede a ciascuno. In regime democratico, infatti, nessun individuo aliena il proprio diritto a favore di un altro, in modo da precludersi la facoltà di prendere nuove decisioni; bensì aliena il suo diritto a favore della totalità del corpo sociale di cui egli costituisce una parte. Ed è appunto perciò che tutti gli individui restano uguali, come lo erano prima nello stato di natura» (XVI) Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico : …Lo scopo di una repubblica (…) non è di convertire in bestie gli uomini dotati di ragione o di farne degli automi, ma al contrario di far sì che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione e non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno, né si facciano trascinare da sentimenti iniqui. Il vero fine di una repubblica è, dunque, la libertà (Cap. XX) STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 23 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Ho dapprima studiato gli uomini e sono giunto alla convinzione che, in quell’infinita diversità di leggi e di costumi, essi non siano guidati esclusivamente dalle loro fantasie. Ho posto dei principi e ho veduto i casi particolari conformarvisi quasi spontaneamente e li ho veduti operanti nelle storie di tutte le nazioni; ho compreso infine come ogni legge particolare sia legata a un’altra o dipendente da una legge più generale C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi e le maniere. Da tutto questo risulta uno spirito generale. A seconda che in ogni paese una di queste cause agisce con maggior forza, le altre fanno sentire in proporzione una forza minore… C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi La legge in generale è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra e le leggi politiche e civili di ogni nazione non debbono essere che i casi particolari in cui questa ragione umana viene applicata. Esse debbono essere talmente adatte al popolo per cui sono state fatte, che solo eccezionalmente le leggi di una nazione possono convenire a un’altra; e debbono conformarsi alla natura e al principio del governo stabilite o che si deve stabilire… C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Esse debbono essere corrispondenti alla natura fisica del paese; al clima gelido, torrido o temperato; alla qualità del terreno, alla sua situazione ed estensione; al genere di vita dei popoli, agricoli, cacciatori o pastori, debbono esser conformi al grado di libertà che la costituzione concede; alla religione degli abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, ai loro modi di vita. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Infine, esse hanno rapporti reciproci; ne hanno con la loro origine, con il fine del legislatore, con l’ordine di cose su cui si fondano. Bisogna dunque considerarle sotto tutti questi punti di vista. Tale è lo scopo che perseguo in questa mia opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi costituiscono nel loro insieme ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi La teoria delle forme di governo: Repubblica Democrazia Aristocrazia Monarchia Dispotismo C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Il governo repubblicano è quello in cui tutto il popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il potere sovrano; il monarchico, quello in cui governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse e stabilite; mentre nel dispotico uno solo, senza legge e senza regola, trascina tutto con la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello che io chiamo la natura di ogni governo… C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Fra la natura del governo e il suo principio c’è questa differenza, che la sua natura è ciò che lo fa essere quello che è, e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una è la sua struttura particolare, e l’altro le passioni umane che lo fanno muovere. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Forma di governo Principio Democrazia Virtù Aristocrazia Moderazione Monarchia Onore Dispotismo Paura C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato popolare ci vuole una molla in più che è la VIRTU’. (…) Gli uomini politici greci ,che vivevano in un governo popolare, non riconoscevano altra forza che potesse sostenerli, se non quella della Virtù. Quelli dioggi non ci parlano che di manifatture, di commercio, di finanze, di ricchezze e perfino di lusso. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Quando tale virtù cessa, l’ambizione entra nei cuori che possono riceverla, e in tutti entra l’avarizia. I desideri cambiano oggetto; quello che si amava, non lo si ama più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla casa del padrone. (…) Un tempo i beni dei privati formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di alcuni cittadini e la licenza di tutti… C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Il governo aristocratico ha di per sé una certa forza che la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che, per la sua prerogativa e il suo interesse privato, esprime il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano messe in esecuzione a tale scopo. Ma per quanto questo corpo è altrettanto facile reprimere gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse persone sotto la potestà della legge , e insieme sottrarle ad essa. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Ora un corpo siffatto può reprimere se stesso in due modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al popolo, il che può formare una grande repubblica; o mediante una virtù minore, cioè una certa moderazione, che rende i nobili perlomeno uguali a se stessi, il che fa la loro conservazione. L’anima di questi governi è dunque la moderazione… C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Il governo monarchico presuppone (…) delle preminenze, dei ranghi e perfino una nobiltà originaria. La natura dell’onore è di richiedere preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è al suo posto in questo governo. L’ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è pericolosa perché può esservi continuamente repressa. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Si direbbe che avvenga come nel sistema dell’universo, dove una forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di gravità ve li riporta. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo politico, le leggi con la sua azione stessa, e accade che ognuno va verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi particolari. E’ vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è altrettanto utile al pubblico lo sarebbe quello vero ai privati che potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra ricompensa che la risonanza di quelle azioni? C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Come in una repubblica ci vuole la virtù, in una monarchia l’onore, così in uno stato dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla virtù, non vi è necessaria, e l’onore vi sarebbe pericoloso C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi E’ vero che nelle democrazie, il popolo sembra fare ciò che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società dove vi sono delle leggi, la libertà può solo consistere nel fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere. Occorre avere ben presente che cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti, se un cittadino potesse fare tutto ciò che esse proibiscono, non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri acquisterebbero un tale potere… C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi La libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dall’opinione nutrita da ciascuno circa la propria sicurezza; e perché si abbia questa libertà, occorre che il governo sia tale che un cittadino non debba temere un altro cittadino. C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo che si trovi ad avere il potere, sia portato ad abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti: perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere argini il potere. Una costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga e a non fare quello che la legge permette… STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 24 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Le caratteristiche dell’uomo naturale: 1) Amor di sé, ovvero un impulso costante a preservare la propria vita; 2) Pietà, ovvero la compassione per le sofferenze degli altri membri della stessa specie J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Le caratteristiche dell’uomo naturale: 3) Perfettibilità, ovvero la capacità non solo di cambiare le sue qualità essenziale, ma anche di migliorarle; J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Le caratteristiche dell’uomo civilizzato: Amor proprio, ovvero una preoccupazione per se stesso, mediata dal confronto con gli altri; J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Mettendo (…) da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime più semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il nostro benessere e la nostra conservazione, l’altro ci ispira una ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere sensibile e in particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e dalla combinazione che il nostro spirito può fare di questi due principi senza dover ricorrere a quello della socievolezza scaturiscano tutte le norme del diritto naturale; norme che in seguito la ragione è costretta a ristabilire su altri fondamenti, quando per i suoi successivi sviluppi, è giunta al risultato di soffocare la natura… (Prefazione) J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) Per decreto di una provvidenza molto saggia le facoltà che [l’uomo] aveva in potenza dovevano svilupparsi solo con le occasioni di esercitarle, perché non lo gravassero anzitempo di un peso superfluo per divenire inutili e tardive al momento del bisogno. Nel solo istinto aveva tutto ciò che gli occorreva per vivere nello stato di natura; in una ragione coltivata ha solo ciò che gli occorre per vivere in società… J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie o doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni né cattivi, né avere vizi o virtù a meno di assumere questi termini in senso fisico chiamando vizi nell’individuo le qualità che possono ostacolare la sua conservazione e virtù quelle che possono contribuirvi--. J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) Soprattutto non finiamo col concludere con Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che ritenendo a ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo padrone di tutto l’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso necessarie le leggi. J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) Ma c’è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto, un principio che dato all’uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia dell’amor proprio, o prima che questo amore nascesse, l’istinto di conservazione, tempesta l’ardore che nutre per il suo benessere con un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile. Non ho alcun timore di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù naturale che sia stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto delle virtù umane [Mandeville]. Parlo della pietà, disposizione che ben si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi; virtù tanto più universale ed utile all’uomo in quanto precede in lui qualunque riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno talvolta segni tangibili… J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) E’ assolutamente certo che la pietà è un sentimento naturale, volto a moderare in ciascun individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo così alla mutua conservazione dell’intera specie. La pietà ci porta a soccorrere senza riflettere quelli che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello stato di natura, di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio: che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce; la pietà distoglierà ogni selvaggio robusto, che appena creda di poter trovare altrove il proprio cibo, dal portar via a un debole fanciullo o a un vecchio malato quello che si è procurato con fatica; è la pietà che, invece della massima sublime di giustizia razionale, fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale, molto meno perfetta, ma forse più utile della precedente: fai il tuo bene col minor male possibile per gli altri… (Pt. I). J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o non lische di pesce, a ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, da quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario, e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria.… (Pt. I). J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti: la metallurgia e l’agricoltura. (…) Da quando ci fu bisogno di uomini per fondere e forgiare il ferro, ci vollero altri uomini per dar da mangiare a questi. Più il numero degli operai si veniva a moltiplicare, mentre erano le mani impiegate a fornire il sostentamento comune, senza che ci fossero meno bocche a consumarlo; e poiché gli uni avevano bisogno di derrate in cambio del loro ferro, gi altri scoprirono alla fine il segreto di impiegare il ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacquero da un lato l’aratura e l’agricoltura, dall’altro l’arte di lavorare i metalli e di moltiplicarne gli usi… (Parte II)). J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno! J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. (…) Ecco tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in gioco, l’amor proprio risvegliato, la ragione resa attiva e lo spirito portato quasi al culmine della perfezione che può attingere. Ecco tutte le qualità naturali in azione, la posizione sociale e la sorte di ogni uomo stabilite non solo in base alla consistenza dei beni e alla possibilità di servire o di nuocere, ma anche allo spirito, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o ai talenti, ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la considerazione, bisognò ben presto possederle o simularle. Bisognò, nel proprio interesse, mostrarsi diversi da ciò che si era in realtà. Essere e parere diventarono due cose del tutto diverse, e dalla distinzione scaturirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi che ne formano il corteo…. J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini D’altro lato, ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente, assoggettato, per così dire, a tutta la natura da una quantità di nuovi bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui diventa in certo senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno dei loro servizi, povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farli temere e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente... J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno quanto per collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia, tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo con più sicurezza si maschera spesso da benevolenza; in una parola, concorrenza e rivalità da un lato, conflitto di interessi dall’altro, e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della proprietà e il corteo inseparabile della diseguaglianza nascente... J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) Quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta, conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto, mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi dal canto loro, avevano appena gustato il piacere di dominare quando, affrettandosi a disprezzare tutti gli altri e servendosi degli antichi schiavi per sottometterne di nuovi, pensarono solo ad assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo divorare uomini.. J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (…) A questo modo, i più potenti o i più miserabili considerando la loro forza o i loro bisogni come una specie di diritto ai beni altrui, diritto equivalente, secondo loro, al diritto di proprietà, la rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più spaventoso disodine; così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e quello del primo occupante un perpetuo conflitto che andava sempre a finire in duelli e uccisioni. La società in sul nascere fece posto al più orribile stato di guerra... J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per difendersi; capace di schiacciare agevolemente un singolo, ma schiacciato lui stesso da torme di banditi; solo contro tutti, non potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario.. J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva sicurezza, inventò facilmente speciose ragioni per trarli ai suoi scopi. «Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza distinzione il potente e il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna concordia». J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini Ci volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli...Tale fu o dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, d'una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. J.-J. Rousseau, Sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini E' qui l'ultimo termine della disuguaglianza, e il punto estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura, differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest'ultimo è il prodotto di un eccesso di corruzione STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 25 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che tutti abbiamo ricevuto dalla natura. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale …Trovare una forma di associazione (association) che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Di più, facendosi l'alienazione senza riserve, l'unione è perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno, essendo su qualche punto il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo stato di natura persisterebbe, e l'occasione diverrebbe necessariamente tirannica o vana. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno; e siccome non c'è associato, sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l'equivalente intero di ciò che si perde, e più forza per conservare ciò che si ha. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun contraente, quest'atto di associazione produce un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha l'assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre, prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo, potenza nei confronti coi suoi simili J.-J. Rousseau, Il contratto sociale In realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto diverso dall'interesse comune; la sua esistenza assoluta, e naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo Stato come un emte di ragione, poiché questo non è un uomo, egli godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo politico. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Affinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero; perché tale è la condizione che dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che forma il meccanismo e il funzionamento della macchina politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più enormi abusi. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo, esso non considera che se stesso; e se una relazione allora si costituisce, è dell'oggetto intero, considerato sotto un certo aspetto, con l'oggetto intero, considerato sotto un altro aspetto, senza alcuna divisione del tutto. Allora l'oggetto su cui si delibera è generale, come la volontà deliberante. Quest'atto io chiamo una legge. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non è se non un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà. Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che quest'accordo sia durevole e costante; perché la volontà singola tende di sua natura alle preferenze, e la volontà generale all'uguaglianza. E' più impossibile ancora che ci sia un garante di tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre esistesse... J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Per la stessa ragione che la sovranità è inalienabile, essa è indivisibile; perché o la volontà è generale o non è tale; essa o è quella del corpo popolare o solo d'una parte. Nel primo caso questa volontà dichiarata è un atto di sovranità e fa legge; nel secondo non è che una volontà particolare... J.-J. Rousseau, Il contratto sociale La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione stessa che non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta; o è se stessa, ovvero è un'altra non c'è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere i suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla; non è una legge. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Credo di poter fissare come principio incontestabile che solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione che è il bene comune… Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è, o deve essere, il vero motore del corpo sociale. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Governo = un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il corpo sovrano per la loro reciproca corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle leggi e del mantenimento della libertà sia civile che politica. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato vuol dare leggi, o se i sudditi rifiutano l’obbedienza, alla regola succede il disordine (désordre), l’azione della forza e quella della volontà non si accordano più, e lo Stato dissolvendosi va così a finire nel dispotismo o nell’anarchia . J.-J. Rousseau, Il contratto sociale L’ordine migliore e il più naturale si ha quando i più saggi governano la moltitudine, purché si abbia la certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non per il loro. (…) Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute generali per volgerla agli oggetti particolari. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Se ci fosse un popolo di dei si governerebbe democraticamente. Un governo tanto perfetto non conviene agli uomini. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale Credo di poter fissare come principio incontestabile che solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione che è il bene comune… Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è, o deve essere, il vero motore del corpo sociale. J.-J. Rousseau, Discorso sull’economia politica Non basta dire ai cittadini: «Siate buoni»; bisogna insegnar loro ad esserlo; e l’esempio stesso, che è sotto questo rispetto la prima lezione, non è il solo mezzo che va impiegato: l’amore della patria è il più efficace; infatti (…) ogni uomo è virtuoso quando la sua volontà particolare è conforme in tutto alla volontà generale; e noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che amiamo... J.-J. Rousseau, Discorso sull’economia politica Volete che gli uomini siano virtuosi? Cominciamo, dunque, col fare in modo che amino la patria J.-J. Rousseau, Emilio Ogni patriota è rigido cogli stranieri: essi non sono che uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è di essere buoni verso quelli coi quali vivamo. Lo Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma nelle sue mura regnavano i disinteresse, l’equità, la concordia… J.-J. Rousseau, Progetto di costituzione per la Corsica Ogni popolo ha o deve avere un carattere nazionale; se gli manca, occorre cominciare col dargliene uno… STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 26 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 1: Gli uomini nascono e restano liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 2: Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 3: Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 4: La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati soltanto dalla legge. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 5: La legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 6: La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere personalmente o attraverso i loro rappresentanti alla sua formazione. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) Art. 16: Qualsiasi società nella quale la garanzia dei diritti non sia assicurata, e la separazione dei poteri non sia determinata, non possiede una costituzione. E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo stato Nella prima epoca «vi è un numero più o meno considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione: ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli. Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle volontà individuali. L’associazione è opera loro. Esse sono all’origine di ogni potere». E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo stato La seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione; vogliono adempierne lo scopo. Per questo si riuniscono, e si accordano fra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. Le volontà individuali ne sono sempre la fonte, e ne costituiscono gli elementi essenziali; ma considerate separatamente non avrebbero alcun potere. Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. E’ anche certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla volontà comune. E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo stato La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più la reale volontà comune ad agire, ma una volontà comune rappresentativa. Sono due (…) i caratteri indelebili che le sono propri: 1° Nel corpo rappresentativo tale volontà non è piena ed illimitata; essa rappresenta solo una parte della grande volontà comune nazionale. 2° I delegati non la esercitano affatto come se si trattasse di un diritto proprio, si tratta di un diritto che appartiene ad altri; la volontà comune è presente in loro solo a titolo di procura. E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo stato La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale. E.-J. Sieyès, Discorso sul veto regio La Francia non è, e non può essere una democrazia; non deve assolutamente divenire uno Stato federale, composto da una moltitudine di repubbliche, unite da un qualunque legame politico. La Francia è e deve essere un tutt’uno, sottomesso in ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione comuni. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di cittadini attivi, ripartiti in più di venticinquemila leghe quadrate non possono assolutamente riunirsi, è certo che essi possono aspirare solo ad un sistema legislativo per rappresentanza. E.-J. Sieyès, Discorso sul veto regio …Dunque i cittadini che nominano dei rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi direttamente la legge: non hanno quindi nessuna volontà personale da imporre. Ogni influenza, ogni potere appartengono loro esclusivamente nella persona dei mandatari. Se imponessero delle volontà questo Stato non sarebbe rappresentativo; sarebbe uno Stato democratico E.-J. Sieyès Un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i suoi committenti. (…) Dunque non esiste, non può esistere per un deputato altro mandato imperativo o voto positivo, che quello della Nazione; egli non è tenuto a tener conto dei consigli dei suoi diretti committenti, se non nella misura in cui questi consigli saranno conformi al voto nazionale. Questo voto dove può essere, dove può esprimersi se non nell’ambito della stessa Assemblea nazionale? (…) In questo caso non si tratta di compilare uno scrutinio democratico, ma di proporre, ascoltare, accordarsi, modificare il proprio personale parere, fino a formare una volontà comune… E.-J. Sieyès Il popolo può parlare, può agire solo attraverso i suoi rappresentanti E.-J. Sieyès, Osservazioni sul rapporto del Comitato di costituzione …Le classi infime, gli uomini più poveri, sono ben più lontani, per intelligenza e sensibilità, dagli interessi dell’associazione, di quanto non potessero esserlo i cittadini meno stimati degli antichi Stati liberi. Esiste dunque fra noi una classe di uomini, cittadini di diritto, che non lo sono di fatto. Spetta senza dubbio alla Costituzione e alle buone leggi di ridurre il più possibile il numero degli appartenenti a questa classe. Ma è comunque vero che vi sono uomini per altro fisicamente validi, che, estranei a qualunque idea sociale, non sono in grado di assumere un ruolo attivo nell’ambito della cosa pubblica. Non ci si deve permettere di discriminarli in quanto persone, ma chi oserà trovare ingiusto che vengano in qualche modo esclusi, non, lo ripeto, dalla protezione della legge e dall’assistenza pubblica, ma dall’esercizio dei diritti politici? E.-J. Sieyès, Preliminari alla costituzione Tutti gli abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino passivo: tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della proprietà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un ruolo attivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono cittadini attivi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i bambini, gli stranieri, coloro che non contribuiscono minimamente a sostenere il sistema delle pubbliche istituzioni, non devono avere un’influenza attiva sulla cosa pubblica. Tutti possono godere dei vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri dell’associazione E.-J. Sieyès Farsi/lasciarsi rappresentare è l’unica fonte della prosperità civile… Moltiplicare gli strumenti/poteri per soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare di meno, questo è il naturale accrescimento della libertà nello stato sociale. Ora, questo progresso della libertà segue naturalmente l’istituzione del lavoro rappresentativo E.-J. Sieyès Tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa è presente ovunque, nell’ordinamento privato come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre dell’industria, della produzione e del commercio, come pure di ogni progresso liberale e politico. (…) Essa si confonde con l’essenza stessa della vita sociale. STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 27 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 Necker Questi eletti sono il vostro equivalente, con perfetta esattezza. Il loro interesse, la loro volontà sono le vostre, e nessun abuso di autorità, da parte di questi nuovi menecmi vi sembrerà possibile. Che credulità. Che fede per degli uomini in grado di pensare e di riflettere! Ed è sempre la parola rappresentante che provoca una simile cieca fiducia! Questo termine dà l’idea di un altro se stesso. Robespierre Ovunque il popolo non eserciti la sua autorità e non manifesti la sua volontà in prima persona, ma tramite dei rappresentanti, se il corpo rappresentativo non è puro e non s’identifica completamente con il popolo, la libertà è annientata. Robespierre La fonte di tutti i nostri mali è costituita dallo stato di assoluta indipendenza in cui i rappresentanti si sono posti da se stessi nei confronti della nazione senza averla consultata. Non erano, per loro stessa ammissione, che mandatari del popolo e si sono fatti sovrani,ovverosia despoti. Il dispotismo non è altro che l’usurpazione del potere sovrano. Robespierre, Sui principi del governo rappresentativo (1793) Per fare una costituzione occorre in primo luogo stabilire questa massima incontestabile: “che il popolo è buono e che i suoi delegati sono corruttibili; che è nella virtù e nella sovranità del popolo che bisogna cercare una difesa contro i vizi e i dispotismi del governo. (…) Un popolo i cui mandatari non devono dar conto a nessuno della loro gestione, non ha una costituzione; poiché infatti dipenderà soltanto da costoro tradirlo impunemente o lasciarlo tradire da altri. E se questo è il senso che si attribuisce al governo rappresentativo, confesso che impigherò tutti gli anatemi pronunciati contro di esso da Jean-Jacques Rousseau”. Robespierre, Sui principi di morale politica (1794) Qual è lo scopo cui tendiamo? Il pacifico godimento della libertà e dell’uguaglianza; il regno di quella giustizia eterna le cui leggi sono state incise non già sul marmo o sulla pietra, ma nel cuore di tutti gli uomini, anche in quello dello schiavo che le dimentica e del tiranno che le nega. Vogliamo un ordine di cose nel quale ogni passione bassa e crudele si incatenata, nel quale ogni passione benefica e generosa sia ridestata dalle leggi; nel quale l’ambizione sia il desiderio di meritare la gloria e di servire la patria; ove le distinzioni non nascano altro che dalla stessa uguaglianza; nel quale il cittadino sia sottomesso al magistrato, e il magistrato al popolo, e il popolo alla giustizia; . Robespierre, Sui principi di morale politica (1794) Un ordine di cose nel quale la patria assicuri il benessere a ogni individuo, e nel quale ogni individuo goda con orgoglio della prosperità e della gloria della patria; nel quale tutti gli animi si ingrandiscano con la continua comunione dei sentimenti repubblicani, e con l’esigenza di meritare la stima di un grande popolo; nel quale le arti siano gli ornamenti della libertà che le nobilita, il commercio sia la fonte della ricchezza pubblica e non soltanto quella dell’opulenza mostruosa di alcune case. . Robespierre, Sui principi di morale politica (1794) Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all’egoismo, l’onestà all’onore, i principi alle usanze, i doveri alle convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore della gloria all’amre del denaro, le persone buone alle buone compagnie, il merito all’intrigo, l’ingegno al bel esprit, la verità all’esteriorità, il fascino della felicità al tedio del piacere voluttuoso, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei “grandi”; e un popolo magnanimo, potente, felice a un popolo “amabile”, frivolo e miserabile; cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia. . Robespierre, Sui principi di morale politica (1794) Noi vogliamo, in una parola, adempiere ai voti della natura, compiere i destini dell’umanità, mantenere le promesse della filosofia, assolvere la provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannia. Robespierre, Sui principi di morale politica (1794) La democrazia non è uno Stato in cui il popolo – costantemente riunito – regola da se stesso tutti gli affari pubblici; e ancor meno è quello in cui centomila frazioni del popolo, con misure isolate, precipitoso e contraddittorie, decidono la sorte dell’intera società. Un simile governo non è mai esistito, né potrebbe esistere se non per ricondurre il popolo verso il dispotismo. La democrazia è uno Stato in cui il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e per mezzo dei suoi delegati tutto ciò che non può fare da se stesso. Robespierre, Sui principi di morale politica (1794) Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. (…) Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia. STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 28 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 Martin Wight, International Theory. The Three Traditions 1) La tradizione realista: Hobbes 2) La tradizione razionalista: Grozio 3) La tradizione rivoluzionaria: Kant Alle origini del modello «cosmopolitico» I progetti di pace perpetua: 1) Il Grand Dessein di Enrico IV (1598); 2) William Penn, An Essay Towards the Present and Future Peace of Europe (1693); 3) Abbè de Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe (1713); 4) Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden (1795) Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe (1713) 1) I sovrani che aderiscono si garantiscono reciprocamente una sicurezza totale contro i grandi mali delle guerre esterne e delle guerre civili; 2) Ogni alleato contribuirà alle spese comuni della grande alleana in proporzione alle entrate attuali e delle spese del suo Stato; Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe (1713) 3) Gli alleati rinunciano alla voce delle armi e convengono di prendere la strada della conciliazione attraverso la mediazione di un’assemblea generale perpetua, la Dieta generale d’Europa; 4) Se la potenza condannata non ottempererà, l’alleana si armerà e agirà contro di essa in modo offensivo per contrastarla; 5) Queste disposizioni non possono essere modificate se non con il consenso unanime di tutti; I. Kant, Per la pace perpetua: Articoli preliminari: 1. Nessun trattato di pace deve considerasi tale, se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura; I. Kant, Per la pace perpetua: Articoli preliminari: 2. Nessuno Stato indipendente (non importa se piccolo o grande) può venire acquistato da un altro per successione ereditaria, per via di scambio, compera o donazione; I. Kant, Per la pace perpetua: Articoli preliminari: 3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire interamente; I. Kant, Per la pace perpetua: Articoli preliminari: 4. Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di controversie fra Stati da svolgere all’estero; I. Kant, Per la pace perpetua: Articoli preliminari: 5. Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato; I. Kant, Per la pace perpetua: Articoli preliminari: 6. Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità che renderebbero impossibile la reciproca fiducia nella pace futura: come, ad esempio, l’assoldare sicari ed avvelenatori, la rottura della capitolazione, l’istigazione al tradimento nello Stato al quale si fa la guerra, ecc… I. Kant, Per la pace perpetua: La guerra è (…) solo il triste mezzo necessario allo stato di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare secondo il diritto) per affermare con la forza il proprio diritto, non potendo in tale stato esser considerata nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo solo l’esito del combattimento (come nel cosiddetto giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto: I. Kant, Per la pace perpetua: ma tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva (bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste un rapporto di superiore ad inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio in cui la distruzione può colpire contemporaneamente entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi che vi conducono, dev’essere pertanto assolutamente vietata. I. Kant, Per la pace perpetua: Primo articolo definitivo: “La costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana” I. Kant, Per la pace perpetua: La costituzione fondata in primo luogo secondo i principi della libertà dei membri di una società (in quanto uomini), della dipendenza di tutti da un’unica legislazione (in quanto sudditi), in terzo luogo dell’uguaglianza di tutti (in quanto cittadini) è quella repubblicana I. Kant, Per la pace perpetua: Secondo articolo definitivo: “Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati” I. Kant, Per la pace perpetua: I modelli di unione internazionale: Lo «Stato di popoli (Völkerstaat)» o «Civitas gentium» I. Kant, Per la pace perpetua: «Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile pensare di uscire dalla condizione di della mancanza di legge, che non contiene altro che la guerra, se non rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui, alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi a pubbliche leggi costrittive e formando uno Stato dei popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della terra» I. Kant, Per la pace perpetua: I modelli di unione internazionale: La «federazione di pace» o «federazione di popoli (Völkerbund)» I. Kant, Per la pace perpetua: «Questa federazione non si propone la costruzione di una potenza politica, ma semplicemente la conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati federati, senza che questi si sottomettano (come gli individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla costrizione da esse esercitate » I. Kant, Per la pace perpetua: Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro libertà selvaggia (senza leggi), consentire a leggi pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli (civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra. I. Kant, Per la pace perpetua: Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea positiva di una repubblica universale (e perché non tutto debba andare perduto) rimane soltanto il surrogato negativo di una lega permanente e sempre più estesa, come unico strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze contrarie al diritto, sempre però con il continuo pericolo che queste erompano nuovamente I. Kant, Per la pace perpetua: Terzo articolo definitivo: “Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità” I. Kant, Per la pace perpetua: …Ospitalità significa che il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, s ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando sta al suo posto non si deve agire verso di lui in modo ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi (…) ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini… STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 29 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta… B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione… B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi. Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme… B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della religione. (…) Nelle cose che a noi sembrano più utili l’autorità del corpo sociale si interpone e impaccia la volontà degli individui. (…) L’autorità si intromette anche nelle relazioni più intime. (…) Le leggi regolano i costumi e poiché i costumi concernono tutto non v’è nulla che le leggi non regolino. B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi. B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) (…) Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi che si fondava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento dell’indipendenza privata. La parte che nell’antichità ciascuno aveva nella sovranità nazionale non era affatto, come lo è oggi, una astratta supposizione. La volontà di ciascuno aveva un’influenza reale: l’esercizio di questa volontà era un piacere vivo e ripetuto. Di conseguenza gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici per conservare i loro diritti politici e la loro partecipazione all’amministrazione dello Stato. Ciascuno sentiva con orgoglio tutto quello che valeva il suo suffragio e trovava, in questa coscienza della sua personale importanza, un ampio consenso. B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Questo compenso non esiste più oggi per noi. Perduto nella moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà si imprime sull’insieme, niente prova, ai suoi occhi, la sua cooperazione. L’esercizio dei diritti politici ci offre dunque ormai soltanto una parte dei godimenti che vi trovavano gli antichi e in pari tempo i progressi della civiltà, la tendenza commerciale dell’epoca, la comunicazione dei popoli fra loro hanno moltiplicato e variato all’infinito i mezzi della felicità privata. Ne segue che dobbiamo essere attaccati assai più degli antichi alla nostra indipendenza individuale; perché gli antichi, quando sacrificavano questa indipendenza ai diritti politici, sacrificavano il meno per ottenere il più; mentre facendo lo stesso noi daremmo il più per ottenere il meno. B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questa che essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni questi godimenti… STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 30 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 A. De Tocqueville, La democrazia in America Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è (…) un fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? E’ possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli? A. De Tocqueville, La democrazia in America (…) Ecco che i ranghi si confondono, che le barriere innalzate tra gli uomini si abbassano; si dividono le proprietà, si divide il potere, la civiltà si diffonde, le intelligenze si uguagliano; l’assetto sociale diviene democratico e l’impero della democrazia si stabilisce infine facilmente nelle istituzioni e nei costumi. A. De Tocqueville, La democrazia in America E’ nell’essenza stessa dei governi democratici che il dominio della maggioranza sia assoluto; poiché, fuori della maggioranza, nelle democrazie, non vi è nulla che resista… A. De Tocqueville, La democrazia in America I principi avevano, per così dire, materializzato la violenza; le repubbliche democratiche dei nostri giorni l’hanno resa del tutto spirituale, come la volontà umana che essa vuole costringere. Sotto il governo assoluto di uno solo, il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva grossolanamente il corpo; e l’anima, sfuggendo a quei colpi, s’elevava gloriosa al di sopra di esso; ma nelle repubbliche democratiche, la tirannide non procede affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta all’anima. A. De Tocqueville, La democrazia in America Individualismo è un termine recente, originato da un’idea nuova. I nostri padri non conoscevano che l’egoismo. L’egoismo è un amore spassionato e sfrenato di se stessi, che porta l’uomo a riferire tutto soltanto a se stesso, e a preferire sé a tutto. L’individualismo è un sentimento ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi creato una piccola società per conto proprio, abbandona volentieri la grande società a se stessa. A. De Tocqueville, La democrazia in America Immagino sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria. A. De Tocqueville, La democrazia in America Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne il solo agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? A. De Tocqueville, La democrazia in America E’ così che giorno dopo giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione della volontà e toglie poco alla volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo e spesso anche a considerarlo come un vantaggio A. De Tocqueville, La democrazia in America Le nazioni moderne non possono evitare che le condizioni diventino uguali; ma dipende da loro che l’uguaglianza le porti alla schiavitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria. STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 31 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1806-7), Prefazione: …Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto (…), ciò che è poi lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso (…). Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1806-7), Prefazione: (…) Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenirse-stesso. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1806-7), Prefazione: (…) Che il vero sia effettuale solo come sistema, o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’Assoluto come Spirito – elevatissimo concetto appartenente all’Età moderna e alla sua religione. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817): Aufheben ha nella lingua un doppio senso: quello di conservare e quello di far cessare, di porre un termine. Conservare ha d’altronde un significato negativo, cioè per conservare qualcosa bisogna che gli si tolga la sua immediatezza, che gli si sopprima la sua esistenza, così che essa è sottomessa alle condizioni esterne. In questo modo ciò che viene soppresso è nello stesso tempo conservato, avendo perso solo la sua esistenza immediata, senza essere per questo annientato. Sul piano semantico, le due determinazioni di aufheben possono essere considerate significati della stessa parola. E’ sorprendente che una lingua sia giunta a usare una sola parola per due significati opposti. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817): (…) Una cosa è soppressa (superata) nella misura in cui essa è realizzata in unità con il suo opposto: in questa determinazione, la Cosa superata appare come riflessa e può essere designata come «momento»… G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16): (…) La contraddizione (…) è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione. (…) La comune esperienza riconosce che si dà una quantità di cose contraddittorie, di contraddittorie disposizioni, ecc., la cui contraddizione non sta semplicemente in una riflessione esteriore, ma in loro stesse. E la contraddizione non è poi da prendere semplicemente come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione… Il sistema filosofico di Hegel: Logica Idea in sé e per sé= Puro pensiero (tesi) Filosofia della natura Idea fuori di sé= Natura (antitesi) Filosofia dello spirito Idea che ritorna in sé= Spirito (sintesi) Il sistema filosofico di Hegel: Logica Dottrina dell’essere Dottrina dell’essenza Dottrina del concetto Filosofia della natura Meccanica Fisica Organica Il sistema filosofico di Hegel: Filosofia dello Spirito Spirito soggettivo Antropologia Fenomenologia Psicologia Spirito oggettivo Diritto Moralità Eticità Spirito assoluto Arte Religione Filosofia Il sistema filosofico di Hegel: Eticità Famiglia Società civile Stato G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821): Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti. Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo non è in questo caso adeguato. Lo Stato non è infatti una realtà astratta che si contrapponga ai cittadini; bensì essi sono momento come nella vita organica, in cui nessun membro è fine e nessuno è mezzo, (§ 258 A) G.W.F. Hegel, Epistolario: Gli avvenimenti più universali (…) mi suscitano le più universali considerazioni, che mi riportano nella sfera del pensiero i particolari singoli e prossimi, per quanto questi possano interessare il sentimento. Io considero che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d’ordine di avanzare; un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile come una falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento impercettibile del sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si muovono nell’uno e nell’altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure di che si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici (…) a nulla servono; (…) Il partito più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare questo gigante che si avanza G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia: La bandiera dello spirito libero (…) è la bandiera sotto cui serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi, non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di quella di incorporare questo principio nel mondo (IV, 151) …Sembra che allo spirito del mondo sia ora riuscito di sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva, e di cogliersi infine come Spirito assoluto, di generare da sé ciò che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di tenerlo in suo potere. G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia: …Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa idea concreta è il risultato degli sforzi dello spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam cognoscere mentem (parafrasi virgiliana). G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: …Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa idea concreta è il risultato degli sforzi dello spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam cognoscere mentem (parafrasi virgiliana). G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale, appunto per ciò che è l’apprendimento di ciò ch’è presente e reale, non la costruzione di un al di là, che sa Dio dove dovrebbe essere, - o del quale di fatto si sa ben dire dov’è, cioè nell’errore di un vuoto, unilaterale raziocinare… Ciò che è razionale è reale: e ciò che è reale è razionale. G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò ch’è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente e l’eterno che è presente. Poiché il razionale, che è sinonimo dell’idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari tempo nell’esistenza esterna, vien fuori in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne sentirlo ancora battere… G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: …Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve essere, ma, piuttosto, in quale modo esso deve esser riconosciuto come universo etico. G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: …Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro, figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. E’ altrettanto folle pensare che una qualche filosofia precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il suo tempo, e salti oltre… G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione, che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in qualcosa che è in sé e per sé G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione: (…) Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo. STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 32 II SEMESTRE A.A. 2013-2014 K. Marx, Tesi su Feuerbach: Undicesima tesi I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo. K. Marx, L’ideologia tedesca I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica. K. Marx, L’ideologia tedesca Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. K. Marx, L’ideologia tedesca Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinata dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione. K. Marx Il compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di qua. Compito della filosofia, che è al servizio della storia, è lo smascheramento, dopo che la figura sacra dell’estraneazione dell’uomo è già stata smascherata, dell’autoestraneazione dell’uomo nelle figure non-sacre. La critica del cielo si trasforma quindi nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843) Il lato più profondo di Hegel sta nel fatto di aver sentito come un contrasto la separazione della società civile da quella politica. Negativo è peraltro il fatto che egli si accontenti di avere apparentemente dissolto questo contrasto. K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843) Per comportarsi quindi come un vero cittadino dello Stato, per acquistare importanza ed efficacia politiche, egli deve uscire dalla sua realtà civile, deve astrarsene e rientrare nella propria individualità, abbandonando tutta questa organizzazione; l’unica esistenza infatti che egli trova, per essere cittadino dello Stato, è la sua individualità nuda e cruda, poiché l’esistenza dello Stato in quanto governo può fare a meno dell’individuo, e la sua esistenza nella società civile prescinde da quella dello Stato. Egli può essere cittadino dello Stato solo come individuo, e in contrasto con queste uniche comunità sussistenti. La sua esistenza come cittadino dello Stato è un’esistenza estranea alla sua esistenza come uomo sociale, è cioè un’esistenza puramente individuale. K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843) I droits de l’homme, cioè i diritti dell’uomo, sono come tali distinti dai droits du citoyen, cioè dai diritti del cittadino. Ma chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altro fuorché il membro della società borghese. Perché dunque il membro della società borghese diventa un uomo, l’uomo semplicemente, è perché i suoi diritti sono chiamati diritti dell’uomo? Come ci spieghiamo questo fatto? Certo in base al rapporto tra Stato politico e società borghese, cioè in base alla natura dell’emancipazione (soltanto) politica. K. Marx, La questione ebraica (1844) Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell’uomo in quanto specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera dello Stato, nella società borghese, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella realtà, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita nella società borghese nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee… K. Marx, La questione ebraica (1844) Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto, e la sovrasta nel medesimo modo in cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla restaurarla e lasciarsi da essa dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato, dove l’uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale… K. Marx, L’ideologia tedesca: Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente. Per la critica dell’economia politica (1859): Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. (…) A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Per la critica dell’economia politica (1859): (…) Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. Il Capitale: Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. (…) La produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttibilità di un processo naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione. Marx, Scritti giovanili “Quando il proletariato annuncia il dissolvimento dell’ordine finora esistente, rivela solo il segreto della sua propria esistenza, poiché esso il dissolvimento effettivo di quest’ ordine mondiale”. Marx, L’ideologia tedesca Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.