APPROFONDIMENTO STORIOGRAFICO SUL FASCISMO
a. Piero Gobetti
Nato a Torino nel 1901, estremamente combattivo di carattere, si fa portavoce di un
liberalismo radicale, espresso mediante la rivista da lui fondata e diretta,
Rivoluzione liberale (1922). Egli esprime tra l’altro (insieme a quella crociana e a
quella marxista) una tra le interpretazioni ‘classiche’ del fascismo, (secondo la
celebre espressione di Renzo De Felice), definito “autobiografia della nazione”: tale
regime è l’esito di una profonda fragilità morale e civile della nostra classe dirigente
liberale, che ha fallito sin dal Risorgimento. I liberali moderati non sono stati in
grado di coinvolgere le masse popolari e di fondare sulla loro partecipazione il
nuovo stato italiano. Nel quadro di un risorgimento “senza eroi”, privo cioè di
tensione morale, civile e politica, di grandi slanci ideali da parte della classe
dirigente italiana), fa eccezione Cavour, unica individualità di spicco, la cui direzione
politica degli eventi costituisce l’originalità del Risorgimento, definito da Gobetti “la
lotta di un uomo e di pochi isolati contro cattiva letteratura di un popolo dominato
dalla miseria” (P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Einaudi, Torino 1976). Sul
nostro paese peserebbe anche la mancata riforma religiosa nel ‘500, che in altri
paesi ha condotto ad una emancipazione delle coscienze in chiave antiautoritaria.
Pertanto, il fascismo è l’espressione emblematica di vizi atavici radicati negli italiani:
trasformismo, demagogia, spirito da cortigiani: “né Mussolini né Vittorio Emanuele
III hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi”. La
mancanza di una classe dirigente moderna e riformatrice impedisce il
coinvolgimento delle masse popolari: la sua ‘rivoluzione liberale’ auspicherebbe una
alleanza progressista tra borghesia progressista e lavoratori, nell’ottica di una
radicale riforma della società italiana.
Nel 1924 Gobetti criticò la secessione dell’Aventino in quanto opposizione sterile e
propose la costituzione di un antiparlamento. La rivista fu costretta a chiudere e il
suo giovane redattore subì un’aggressione da parte fascista che gli provocò ferite
invalidanti. Fuggì così a Parigi dove morì nel 1926 per effetto delle percosse, all’età
di 25 anni.
b. Il Manifesto degli intellettuali fascisti
Redatto dal filosofo Giovanni Gentile insieme a Mussolini, pubblicato sul Popolo
d’Italia il 21 Aprile 1925 e firmato da intellettuali come Luigi Pirandello e lo storico
Gioacchino Volpe, tale documento delinea la concezione di uno Stato come idea in
cui l’individuo può trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e i suoi diritti. In nome
di esso gli è richiesto un sacrificio, anche a costo della stessa vita. Lo Stato non
esiste per gli individui, ma al contrario questi sono in funzione di quello: un chiaro
esempio di Stato etico. “Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento
politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e
sacrificio dell’individuo a un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di
vita, la sua libertà e il suo diritto; idea che è patria, come ideale che si viene
realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e
individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal
restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da
attuare, tradizione perciò e missione”. Gentile evidenzia qui il carattere religioso del
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fascismo: servire la patria è una vera e propria missione, contrapposta al cosiddetto
liberalismo agnostico che conosce solo una libertà formale ed esteriore. Il filosofo
puntualizza una continuità storica tra il periodo eroico del Risorgimento (che
l’attuale liberalismo avrebbe tradito) e il fascismo: il fenomeno risorgimentale
sarebbe stato il prodotto di una minoranza, come il fascismo oggi. E quello fascista
è un partito di giovani, imbevuti di una fede energica e violenta al servizio della
Nazione, secondo una concezione austera della vita, improntata al senso della
comunità.
c. Il Manifesto degli intellettuali antifascisti e l’interpretazione crociana del
fascismo
Scritto da Benedetto Croce e pubblicato il 1 Maggio del 1925 in risposta al
Manifesto fascista, firmato da molti intellettuali, tra i quali il giovane Eugenio
Montale e Gaetano Salvemini, questo documento esordisce definendo quanto
redatto da Gentile “un imparaticcio scolaresco”, pieno “ di confusioni dottrinali” e
ragionamenti distorti. In esso si abusa del termine religione: il fascismo è solo
un’ideologia che definisce sacra l’idea di patria, mentre non fa altro che giustificare
spudoratamente un’idea totalitaria di stato, conducendo all’odio e al rancore tra gli
italiani, anche con il definire ‘stranieri’ tutti quelli che non sono fascisti. Il manifesto
fascista, prosegue Croce, è un miscuglio bizzarro di autoritarismo e demagogia:
proclama riverenza alle leggi, mentre in realtà le calpesta; dice di essere moderno,
mentre è vecchiume ammuffito; mostra tendenze bolsceviche e disprezza la
cultura. “Per questa caotica e inafferrabile religione noi non ci sentiamo di
abbandonare la nostra vecchia fede”, fatta di amore per la verità, senso della
giustizia, educazione intellettuale e morale. Gli uomini del Risorgimento saranno
offesi e turbati da quelle parole. Gli intellettuali fascisti dicono che il Risorgimento fu
opera di una minoranza, “ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza
della nostra costituzione politica e sociale”.
Sembrano compiacersi dell’attuale indifferenza di gran parte degli italiani riguardo
allo scontro tra i fascisti e i loro oppositori. I liberali tentarono, viceversa, di
sensibilizzare il popolo alla partecipazione politica, attraverso l’istituzione del
suffragio universale.
Croce giustifica poi il favore iniziale dei liberali verso il fascismo (compreso il suo)
con il tentativo di immettere forze fresche e di rinnovamento nella politica italiana.
Conclude affermando che “la presente lotta politica in Italia varrà, per ragioni di
contrasto, a ravvivare e fare intendere in modo più profondo e più concreto al
nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali e a farli amare con più
consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si
giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio
che l’Italia doveva percorrere per ringiovanire la sua vita nazionale, per compiere la
sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo
civile”. Risulta qui evidente, nell’ultimo periodo, il concetto crociano della necessità
del processo storico, di derivazione hegeliana: ciò prelude alla interpretazione
successiva del fenomeno fascista visto come parentesi, tragica sebbene
necessaria, rispetto ad un corso storico precedentemente felice, nell’ottica di una
storia “sempre giustificatrice e mai giustiziera”, come sosterrà nella Storia come
pensiero e come azione del 1938. Il fascismo, dunque, come “morbo intellettuale e
morale”, che incarnerebbe quel momento negativo eppure necessario per
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consentire, dopo il suo superamento, il progresso dello Spirito, nell’ottica di una
storia che si configura sempre come Storia della libertà.
Quella di Croce si evidenzia come l’altra interpretazione classica del fascismo di
stampo liberale; tra l’altro, il filosofo sostiene che il fascismo trovò sostenitori in
tutte le classi, dagli industriali agli agrari, dai piccolo – borghesi agli operai e
contadini; allo stesso modo, in tutte le classi trovò degli oppositori, smentendo la
visione marxista di un fascismo come dittatura di classe.
Una concezione del genere mostra un limite piuttosto evidente: Croce, vedendo nel
fascismo una parentesi della storia italiana, crede che la vecchia Italia liberale
possa rinascere dalle proprie ceneri; certamente un sistema liberale di più alto
livello civile e spirituale ma pur sempre nella continuità con il passato. E’ proprio qui
che il filosofo si sbaglia: il paese che nascerà il 2 giugno del 1946 sarà
completamente diverso rispetto a quello nel cui contesto il fascismo ha trovato la
sua incubazione.
d) L’interpretazione marxista
La terza interpretazione classica del fascismo è quella marxista; sebbene nel corso
del tempo sia stata piuttosto banalizzata anche dai suoi detrattori, essa va al di là del mero
giudizio del fascismo come dittatura reazionaria appoggiata dalla borghesia, ma è molto
più articolata. Antonio Gramsci affida il suo punto di vista ad un documento elaborato
insieme a Palmiro Togliatti per il III Congresso del Partito comunista d’Italia, tenutosi a
Lione nel gennaio del 1926, conosciuto come Tesi di Lione: è un tentativo di capire il
fenomeno fascista per poterlo meglio combattere. “Il fascismo, come movimento di
reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e disorganizzare la classe
lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle classi
dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia.” Del resto, il
coronamento di tutta la propaganda ideologica del fascismo è la tendenza
all’imperialismo, per cui nella crisi della società italiana vi sono “i germi di una guerra che
verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia
fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il
dominio del mondo”. E’ pertanto falso sostenere che il fascismo abbia la sua essenza nella
piccola borghesia, incapace com’è, nonostante il suo malcontento, di condurre una politica
autonoma e di guidare una lotta contro la reazione industriale e agraria. Anzi, tutte le
misure adottate dal fascismo (protezionismo, battaglia del grano, ecc.) sono a favore degli
agrari e non certo dei piccoli e medi coltivatori.
Su questa linea prosegue negli anni seguenti la riflessione di Togliatti, che nelle Lezioni
sul fascismo del 1935 definisce il fenomeno fascista regime “reazionario di massa”,
sottolineando con ciò la peculiarità del fascismo, il suo sforzo incessante di coinvolgere e
mobilitare le masse, non solo piccolo borghesi, ma in seguito operaie e contadine: “Per
questo il dopolavoro è una delle organizzazioni più complesse della dittatura fascista” –
che secondo Togliatti non ha carattere omogeneo, come i fasci di combattimento, ma è
“l’organizzazione più larga del fascismo”. Pertanto, “la nostra tattica deve essere più larga
che altrove perché, dato il modo in cui il dopolavoro è organizzato, noi possiamo legare a
noi degli strati più larghi di lavoratori che in altre organizzazioni (…). La nostra linea deve
essere quella dell’entrata nel dopolavoro senza scrupoli e senza riserve”.
Tuttavia, il frutto più complesso e ricco di spunti anche polemici verso lo stesso movimento
operaio viene da Angelo Tasca, fondatore con Gramsci e Togliatti del gruppo torinese filo
bolscevico “Ordine Nuovo”. Trasferitosi in Francia nel 1927, da sempre schierato con l’ala
destra del partito, quella favorevole alla collaborazione con i socialisti, si oppose alla
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politica staliniana e fu espulso per deviazionismo dal partito comunista. Egli scrisse nel
1938 Nascita e avvento del fascismo, sostenendo che anche dopo l’agosto del ’22 la
vittoria del fascismo non fosse assolutamente fatale. Certamente la Grande Guerra, con i
suoi contraccolpi economici, sociali e culturali, è l’evento cardine senza il quale non si può
comprendere l’avvento del regime. D’altra parte, sia i socialisti che i comunisti ( facendo
con ciò autocritica) hanno commesso gravi errori, arroccati com’erano in uno sterile
estremismo e hanno finito per fare il gioco del fascismo. “ Sarebbe stato necessario
opporre al fascismo non il semplice antifascismo, ma la Nazione stessa (…). La Nazione
resta anche per essi un mezzo, un mezzo di fortuna escogitato ed afferrato all’ultimo
momento per salvarsi da un avversario che li incalza con la spada alle reni. Tra questa
Nazione e la classe operaia, lo iato non è riempito, giacché la classe operaia non arriva a
capire, dopo tanti anni di propaganda fatta sotto la parola d’ordine ‘rosso contro tricolore’,
quale possa essere il suo posto in questa ‘Nazione’ (…). La classe operaia non poteva
difendere i suoi diritti che compiendo fino all’ultimo i suoi doveri di fronte a se stessa e di
fronte alla collettività, di cui avrebbe dovuto diventare la coscienza, l’ala marciante.
Dovere, responsabilità, iniziativa: tale era il prezzo della libertà. Solo a questa condizione
il fascismo avrebbe potuto essere spazzato via nel secondo semestre del 1922”. In questo
contesto, citando Marx, Tasca sostiene che “affinché una classe sia veramente
rivoluzionaria occorre che abbia anzitutto il sentimento di essere non classe particolare,
bensì la rappresentante dei bisogni della società (…). Invece il socialismo si sottrasse al
suo compito e durante la crisi postbellica fu il grande assente. Senza questa diserzione
sarebbe impossibile spiegare il successo fascista”.
Analisi acuta e penetrante, quella di Tasca. Per concludere, dobbiamo ricordare che, per
quanto concerne i comunisti italiani, pesò fortemente il condizionamento della politica del
Komintern: nel 1920 Lenin fissò la linea del cosiddetto social - fascismo, per cui i partiti
comunisti occidentali non dovevano collaborare con i colleghi socialisti o socialdemocratici
dei rispettivi paesi in quanto questi erano oggettivamente alleati con i fascisti, perché
espressione della stessa classe borghese e dei medesimi interessi, spesso mascherati, di
classe. Fu un tragico errore. Nel 1935 il Komintern cambiò radicalmente politica, invitando
al contrario i comunisti a dar vita a Fronti popolari, come accadde in Francia e Spagna,
con le altre forze socialiste e progressiste, in modo da sbarrare la strada ai fascisti. Linea
significativa, seppur tardiva, per fermare l’escalation dei regimi totalitari di destra e la
deriva dell’Europa verso il secondo conflitto mondiale.
e) Il fascismo ideologia piccolo – borghese?
Concludiamo questo approfondimento soffermandoci su un aspetto centrale per
comprendere il fenomeno fascista: esso fu veramente espressione della piccola
borghesia? Se sì, fino a che punto? Salvatorelli (1886-1974), per anni direttore della
Stampa e costretto dai fascisti a lasciare la direzione del giornale nel 1925, fu il primo a
vedere nel fascismo un’ideologia piccolo – borghese, andando oltre la classica concezione
marxista della ‘reazione di classe’. I ceti medi, schiacciati dalla crisi post – bellica (senza
cui non potremmo comprendere la genesi dei regimi di destra), si sentivano oppressi da
un lato dalla grande borghesia industriale e finanziaria, dall’altro da quel proletariato
tutelato dai ‘sovversivi rossi’ che essi guardavano con disprezzo, temendo proprio una
proletarizzazione delle loro condizioni sociali ed economiche. In tutto ciò, il 1915 fu un
periodo tristemente profetico per la storia successiva: “ E le giornate di maggio non
rimasero un episodio isolato e un fenomeno passeggero: esse generarono una tradizione,
che è sopravvissuta alla guerra e che ha sostanziato e sostanzia ancora di sé tutta
l’azione politica di quei conservatori italiani, dai quali il fascismo è approvato e
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incoraggiato”. (da Nazionalfascismo, 1923). Resta peraltro il fatto che Salvatorelli vede in
modo sprezzante il ceto medio di quegli anni: è il movimento degli sbandati e degli
emarginati, che fu ben presto sapientemente manipolato dagli agrari e dai grandi
industriali. Renzo De Felice (1929-1996), uno tra i maggiori storici del fascismo, parte dagli
stessi presupposti di Salvatorelli, ossia il declassamento di un ceto medio proletarizzato,
per rimarcare tuttavia il ruolo attivo della piccola borghesia: pur partendo da una situazione
psicologica di insicurezza e disorientamento, in lotta contemporaneamente con il
capitalismo e la classe operaia, i ceti medi si ribellano a questo destino e vogliono proporsi
come un ceto emergente che tende ad assumere un ruolo da protagonista della vita
politica italiana: “Secondo me si può parlare di fenomeno rivoluzionario (…) se non altro
perché è un regime, e ancor di più un movimento che tende alla mobilitazione, non alla
demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo”. Dunque, sebbene
la mobilitazione e partecipazione delle masse sia stata attuata in modo evidentemente
demagogico, ciò non deve far dimenticare come il fascismo non si sia servito solo del
terrore per consolidare il proprio potere, ma anche dell’irregimentazione del consenso,
ossia la sua capacità di conquistarsi un consenso di massa: un regime, insomma, dei ceti
medi (Intervista sul fascismo, Laterza, Roma – Bari 1975, pp. 40-41).
Altri storici, come Quazza, hanno una prospettiva diversa. Pur non disconoscendo che
molti ‘valori’ proclamati dal fascismo siano stati assimilati dalla piccola borghesia come
autentici modelli di comportamento, tuttavia egli puntualizza come “senza la connivenza
dei vecchi centri di potere dello Stato (corona, alti gradi dell’esercito, della burocrazia
amministrativa e poliziesca, della magistratura) – senza contare l’industria e l’alta finanza
– il fascismo non avrebbe certo vinto”. (Fascismo e società italiana, Einaudi, Torino 1973,
pp. 10- 12). L’eterogeneità dei ceti medi, continua Quazza, l’essere cioè una miscela di
piccoli artigiani e commercianti, piccoli produttori, insegnanti e funzionari statali di livello
inferiore, li condanna ad una ruolo subalterno rispetto ai due maggiori protagonisti dello
scontro di quegli anni, la borghesia e il proletariato. Pertanto, pur volendo la piccola
borghesia difendere il proprio reddito e il proprio prestigio, “specialmente in un momento di
scontro frontale, i ceti medi sono destinati a diventare strumenti di una delle altre due parti
in lotta”. Perciò, “ insistere sulla definizione del fascismo come regime dei ceti medi è un
errore perché per sé soli essi non ebbero la forza non solo di condurre al governo il
fascismo, ma ancor meno di vincere la partita per il potere”. (ibidem).
Concludiamo con quanto sostiene Emilio Gentile (1946-), che definisce quella fascista,
ricordando un’espressione di Mosse, “rivoluzione borghese antiborghese”. Il fenomeno
fascista ebbe nella prima guerra mondiale e nella crisi che ne derivò la sua incubazione:
questo è oggi un punto fermo della storiografia del secondo Novecento. Esso ereditò
l’attivismo e l’antiparlamentarismo dei movimenti rivoluzionari antiliberali, di destra e
sinistra, operativi nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo (nazionalismo e sindacalismo
rivoluzionario, come sostiene anche Sternhell), e fondendole con i miti, le esperienze e gli
stati d’animo generati dalla Grande Guerra, diede vita ad una inedita forma di
nazionalismo rivoluzionario: “ il fascismo nacque dalla volontà di perpetuare l’esperienza
bellica sublimata come una nuova e inedita forma di misticismo nazionalista,
istituzionalizzandola attraverso la militarizzazione e la sacralizzazione della politica”. (Il
fascismo in tre capitoli, Laterza, Roma – Bari 2007, p. 76). In tal senso, il fascismo è un
movimento antiborghese perché avversa il razionalismo e l’egualitarismo delle ideologie
democratiche e socialiste, oltre a disprezzare l’individualismo e il materialismo della
società borghese e liberale e il moderatismo della democrazia parlamentare. Dall’altro
lato, esso punta a servirsi del capitalismo e del progresso (concetti tipicamente borghesi)
per migliorare la comunità, senza dimenticare che il fascismo, come il nazismo in
Germania, non sarebbe mai andato al potere senza un compromesso con i centri di
comando tipici della società borghese.
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APPROFONDIMENTO STORIOGRAFICO SUL FASCISMO a. Piero