RISPETTO DEL SEGRETO PROFESSIONALE
E DELLA PRIVACY
DA PARTE DELL’ASSISTENTE SOCIALE
(P. P. Vissicchio)
Introduzione
Il segreto professionale
La Privacy
Le implicazioni di carattere penale
Conclusione
INTRODUZIONE
La lezione di oggi, spero possa essere esaustiva e, per certi versi, accattivante perché
intendo, con i limiti di tempo che mi sono stati imposti, fornirvi sufficienti notizie
sull’argomento in modo da permettervi di avere un quadro generale sull’argomento.
Mi aiuterò con delle slides informative che integreranno l’argomento e completeranno il
senso di quanto sto per dirvi.
E allora, il segreto professionale lo incontriamo quotidianamente, inconsapevolmente.
Tutti noi leggiamo i quotidiani, per esempio, seguiamo i telegiornali, i giornali radio, le
notizie dal web, insomma noi tutti dai “media” (e non dai “midia” come viene erroneamente
detto, media è una parola latina) apprendiamo centinaia e centinaia di notizie
quotidianamente.
Il giornalista, ma anche il medico, l’avvocato, il professore, il poliziotto, l’assistente sociale
e via via anche altre categorie di lavoratori intellettuali si propone quotidianamente come
mediatore intellettuale tra il fatto (o, per meglio dire i dati/fatto) e colui che, di tali dati, ne è
l’utilizzatore conclusivo.
Bella scoperta, direte, ma c’è un fatto molto interessante: ciascuno di noi è tenuto al
segreto professionale e ciò gli consente di ricevere le notizie, i dati e quant’altro debba
considerarsi dato riservato e, quindi, dato sensibile, perché la legge garantisce la raccolta
ed il trattamento dei dati.
Il concetto di privacy ha, pertanto, una natura poliedrica, trova applicazione in molteplici
situazioni, in relazione al singolo e all'impresa, al singolo ed alla pubblica amministrazione
(numerosi sono gli esempi: tra datore di lavoro e dipendente; tra paziente e medico e così
via).
Tale concetto è caratterizzato da sfaccettature e da molte differenziazioni ma, soprattutto
da un mutamento culturale della società che passa da una visione della persona fondata
sull' intangibilità della proprietà privata ad una concezione incentrata sull'individuo in se e
nella sua personalità.
La legge 675/96, nota come legge sulla privacy, disciplina garanzie sulla gestione delle
informazioni personali.
Nello specifico, all’art. 1, comma 1, "garantisce che il trattamento dei dati personali si
svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché nella dignità delle persone
fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all'identità personale; garantisce
altresì i diritti delle persone giuridiche e di ogni altro ente o associazione".
Per definizione, si sottolinea il diritto individuale alla protezione dei dati personali,
affermando che "Chiunque ha diritto alla protezione dei dati che lo riguardano".
Tale definizione semplifica il quadro di riferimento legato all'ambito di applicazione delle
disposizioni normative, in quanto rende applicabili i principi di tutela in tutte le circostanze
in cui chiunque, per qualsiasi fine, tratta dati personali di chiunque altro.
Il diritto garantito della protezione dei dati personali, obbliga i soggetti che li trattano, a
garantirne la protezione.
Appare importante richiamare la disposizioni di cui al comma 2 dell'articolo 2 che dispone
che il trattamento dei dati personali è disciplinato assicurando un elevato livello di tutela
dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo nel rispetto dei principi di
armonizzazione, semplificazione ed efficacia delle modalità previste per il loro esercizio da
parte degli interessati, nonché l'adempimento degli obblighi da parte dei titolari del
trattamento.
Vi richiamo queste norme introduttive a carattere generale, poiché uno dei presupposti del
nuovo codice (Il Decreto Legislativo 196 del 2003) è che l'assenza di "complicazione
procedurale" assume di per sé un valore di "tutela" per i soggetti di cui vengono trattati i
dati personali.
In relazione all'argomento si possono sottolineare definizioni di rilevante importanza per
l'argomento.
E così avremo:
LA FASE DEL TRATTAMENTO
E’ quella fase in cui qualsiasi operazione o complesso di operazioni, effettuate anche
senza l'ausilio di strumenti elettronici, concerne la raccolta, la registrazione,
l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modifica, la
selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione,
la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca
dati.
IL TITOLARE DEL TRATTAMENTO
Può essere la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi
altro ente, associazione od organismo cui competono, anche unitamente ad altro titolare,
le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli
strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza.
Nel caso in cui il trattamento è effettuato da una persona giuridica, da una pubblica
amministrazione o da qualsiasi altro ente, associazione o organismo, il titolare del
trattamento è l'entità nel suo complesso o l'unità od organismo periferico che esercita un
potere decisionale del tutto autonomo sulle finalità e sulle modalità del trattamento, ivi
compreso il profilo della sicurezza.
Questo ce lo dice l’articolo 28.
IL RESPONSABILE DEL TRATTAMENTO
E’ la persona fisica, ma anche la persona giuridica, la pubblica amministrazione e
qualsiasi altroente, associazione od organismo preposti dal titolare al trattamento di dati
personali.
Ricordiamo a tale proposito che il Responsabile è una figura che può essere individuata
facoltativamente dal titolare con precisa indicazione delle modalità di assegnazione,
nonché le caratteristiche della figura (che - tra l’altro - sono specificate nel successivo
articolo 29).
GLI INCARICATI
Sono le persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal titolare o dal
responsabile.
Tali soggetti devono essere individuati per iscritto (in ossequio all’articolo 30) e sono gli
unici a poter compiere operazioni di trattamento sui dati personali.
Gli incaricati, inoltre, operano sotto la diretta autorità del titolare o del responsabile,
attenendosi alle istruzioni impartite.
Per quanto riguarda le definizioni dei dati oggetto di tutela, si ha la distinzione
fondamentale tra:
I DATI PERSONALI
I dati personali consistono in qualunque informazione relativa a persona fisica, persona
giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante
riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione
personale.
I DATI SENSIBILI
Cosa sono, allora, i dati sensibili?
Sono dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni
od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati
personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Qui prenderemo in considerazione tutto ciò che le leggi inerenti alla riservatezza, alla
privacy ed al segreto professionale affermano con un’attenta analisi degli articoli del
codice di procedura penale.
Faremo riferimento anche al codice deontologico trattando la privacy specificatamente nel
contesto della professione di assistente sociale e nella riservatezza che lo stesso
assistente sociale deve avere nei confronti dell’utente.
IL SEGRETO PROFESSIONALE
Per delineare brevemente il concetto è necessario definisce il segreto professionale come
una relazione intercorrente tra la conoscenza di cose o fatti e un determinato soggetto,
rilevante sotto un duplice aspetto: da un punto di vista passivo il segreto comporta
l’obbligo per i non autorizzati di non procurarsi, divulgare o utilizzare notizie relative a certi
oggetti; dal un punto di vista attivo, il segreto dà luogo a un potere, spettante a date
persone, di escludere i terzi da quella conoscenza dalla sua comunicazione ad altri o dal
suo sfruttamento.
La prima e documentata traccia delle radici del segreto professionale trova il fondamento
nel Giuramento di Ippocrate (460 - 370 a.C.) “...Consapevole dell’importanza e della
solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di osservare il segreto su
tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della
mia professione o in ragione del mio stato...”.
La Legge n. 675 del 31 dicembre 1996, meglio conosciuta come la legge sulla privacy,
impone alcune incombenze, molte delle quali peraltro già contemplate dal Codice
Deontologico e dal Codice Penale, riguardanti il segreto professionale.
L’assistente sociale deve serbare il segreto su tutto ciò che gli è confidato o che può
conoscere in ragione della sua professione, nonché sulle prestazioni effettuate o da
effettuare.
Deve tutelare la riservatezza della documentazione in suo possesso riguardante gli utenti
e, nella compilazione e trasmissione di ogni atto, deve garantire la tutela della segretezza.
Anche nella collaborazione alla costituzione di banche di dati deve assicurarsi della tutela
della riservatezza.
Il segreto professionale, assoluto e inderogabile nella sua sacralità come visto già nel
Giuramento di Ippocrate, rappresenta anche negli ordinamenti moderni un fondamentale
obbligo sia etico che giuridico: la violazione del segreto professionale è penalmente
sanzionata dagli articoli 622 e 326 del Codice Penale. E, quindi, si dovrà, dunque, aver
cura ad attuare tutte quelle procedure atte a salvaguardare la privacy del cittadino utente.
Si dovrà evitare l'esposizione pubblica della documentazione oppure l'esposizione
pubblica dei nomi degli utenti, ovvero dare l'informazione senza la previa autorizzazione
del diretto interessato.
Quando l'utente chiede di conoscere la sua posizione in ordine alla prenotazione nelle liste
degli utenti che si rivolgono al servizio sociale, si dovrà aver cura di criptare i nominativi
delle altre persone negli elenchi di attesa.
Particolare cura andrà posta anche nel rilascio, in busta chiusa ai diretti interessati (o a chi
è espressamente delegato) dei risultati e dei documenti.
A questo proposito bisogna ricordare che la Legge prevede anche la presenza di un
professionista affinché spieghi agli utenti la natura delle certificazioni e la casistica di
riferimento.
Tuttavia, l’applicazione della Legge può essere quanto mai difficoltosa nei casi urgenti o
nei casi in cui l’utente è in stato di incoscienza o di demenza senile.
In questo caso si dovrà ricorrere ancora ad una maggiore attenzione alla riservatezza dei
dati: sarà cura, in questi specifici casi, del personale medico accertarsi che chi ne ha il
diritto legalmente, venga a conoscenza dei dati dell’utente (che, per altri aspetti, si è
trasformato in un paziente).
*****
C’è un altro aspetto da considerare nella salvaguardia del segreto professionale: sono i
principi dettati dal codice deontologico.
Il Codice Deontologico contiene le esigenze etiche di una professione.
Esso costituisce il suo elemento di identità, è lo strumento attraverso il quale un
professionista si presenta alla società e, contestualmente, è lo strumento che orienta e
guida il professionista nelle scelte di comportamento, nel fornire i criteri per affrontare i
dilemmi etici e deontologici, nel dare pregnanza etica alle azioni professionali.
Più specificamente, il codice deontologico è incentrato tutto sulla responsabilità di una
professione a servizio delle persone, delle famiglie, della società, dell’organizzazione di
lavoro, nonché dei colleghi e della professione stessa.
Il codice deontologico è la normativa di riferimento del professionista cui si deve attenere
per l'espletamento della sua professione.
Non è, e non può essere trattata alla stessa stregua di una norma vera e propria perché le
norme dettate dagli ordini professionali sono atti che non entrano nel sistema delle fonti
del diritto.
Le fonti del diritto, infatti, che comunemente chiamiamo “diritto positivo”, inteso come
norma promanante dal potere politico, sono circondate dalle garanzie procedimentali
tipiche delle fonti per quanto riguarda la loro formazione.
Le norme, quindi, del codice deontologico non godono delle medesime garanzie e non
sono interessate dal circuito politico decisionale dello stato.
E’ pur vero che gli organismi degli ordini sono elettivi, ma rappresentano pur sempre solo
una parte della società civile (cioè a dire una categoria professionale) diversamente dal
soggetto/rappresentante politico che, invece, rappresentano la generalità dei consociati.
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In data 8 maggio 1997 è entrata in vigore la legge 31 dicembre 1996 numero 675 " Tutela
delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali".
La normativa prevede alcune incombenze per quelle attività professionali in cui vi è la
necessità di raccogliere, registrare in archivio cartaceo o informatico e utilizzare i dati
personali degli assistiti per le finalità specifiche della professione.
In particolare, ai sensi degli articoli 9 - 10 - 11 - 12 - 13 e 14 della legge citata, è
necessario acquisire il consenso scritto del cittadino/utente che lo autorizza a raccogliere,
registrare e utilizzare i dati personali.
Il consenso deve essere esteso, per evidenti motivi di continuità professionale, anche ai
sostituti in caso di assenza dell’assistente sociale titolare (qui parliamo di equipe,
evidentemente).
Quando si tratta di bambini è necessaria l’autorizzazione del genitore che ne esercita la
potestà e, nel caso in cui questa manchi, del giudice tutelare.
Abbiamo visto, in pratica, che la Legge n° 675/96 sulla privacy si è inserita nel nostro
ordinamento in maniera trasversale, creando spesso incertezze e confusione in un settore
che, per voi che sarete assistenti sociali, è già regolato dalle norme (per così dire) del
codice deontologico.
Recenti disposizioni del Garante della Privacy, scaturite in parte dalle quotidiane
esperienze e dalle varie segnalazioni o richieste di spiegazioni, stanno in parte
semplificando e chiarendo i comportamenti da adottare nelle singole situazioni.
L'informativa al cittadino su come verranno utilizzati i dati personali può essere orale,
oppure con apposita modulistica o cartellonistica visibile, purché in linguaggio
comprensibile.
Tutta la documentazione deve essere consegnata al diretto interessato - o se minore a chi
esercita la potestà tutoria - oppure anche ad altre persone purché muniti di delega scritta.
Importante è che tale documentazione dovrà essere consegnata in busta chiusa.
Inoltre, nel caso in cui vi fossero presenti anche dati sanitari questi ultimi possono essere
resi noti all'interessato solo tramite un medico: pertanto, possono essere consegnati al
medico di fiducia che a sua volta li rende noti al paziente e chiarisce oralmente
all'interessato, oppure insieme alla refertazione allegando un breve giudizio scritto.
Nell’ambito degli addetti al trattamento dei dati personali va ribadito che il personale
dipendente è tenuto al segreto professionale o d'ufficio.
Tutta la documentazione deve essere conservata in posti non alla portata di tutti.
In relazione alla privacy agli sportelli, lo abbiamo detto prima, vanno criptati gli elenchi
delle prenotazioni e agli sportelli, o nelle segreterie vanno adottati provvedimenti atti a
tutelare la riservatezza: segnare la distanza di cortesia dallo sportello, oppure far entrare
uno alla volta nella segreteria.
La richiesta da parte dell'interessato dell'invio a una Compagnia Assicurativa di
documentazione clinica per la definizione di pratiche risarcitorie si configura come
consenso all'operazione, ovvero deve esserci esplicito consenso di trasmissione dei dati
del paziente all'Assicurazione.
Ogni cittadino ha diritto di conoscere i dati personali dell’assistente sociale con cui intende
instaurare un rapporto.
Inoltre gli Albi Professionali sono pubblici e chiunque li può consultare presso gli Ordini e,
spesso, gli stessi Ordini Professionali li rendono fruibili tramite la rete internet.
*****
Ma cos’è davvero il segreto professionale?
Il segreto, in senso letterale, è ciò che deve essere tenuto nascosto.
La Suprema Corte di Cassazione (con sentenza n. 2393 sez. III del 10 gennaio 1967) ha
affermato che, in senso giuridico, il segreto è ogni fatto che, per disposizione di legge o
per decisione di una volontà giuridicamente autorizzata è destinato a rimanere nascosto a
qualsiasi persona diversa dal legittimo depositario.
La consegna del segreto costituisce da sempre un aspetto della fisionomia di qualsiasi
professionista che ha l'opportunità di apprendere, vedere o semplicemente intuire aspetti
della sfera più intima dell’utente o dei suoi familiari, non solo per rispetto dell'altrui privacy,
ma anche per garantire l'esercizio di una attività professionale libera da sospetti o riserve.
Il segreto professionale è l’obbligo a non rivelare le informazioni aventi natura di segreto,
apprese all’interno del rapporto fiduciario.
Ha un fondamento:
 Etico, perché legato al rispetto della persona;
 Deontologico, sancito come norma di comportamento professionale nel Codice
Deontologico con un forte richiamo ad un obbligo di riservatezza;
 Giuridico, in quanto sancito dagli artt. 200 e 622 del c.p., dalla Legge 675/96 sulla
privacy e dalla Legge del 3 aprile 2001 n. 119 (legge specifica per gli assistenti
sociali).
Ne deriva che il segreto tende a proteggere la riservatezza dell’individuo.
Nel campo del servizio sociale le notizie date dagli utenti non devono essere propagate.
Il mancato rispetto della riservatezza è punibile a querela della persona offesa, ed è
importante sottolineare che, perché sia reato, e quindi punibile, occorre:
 la querela della persona offesa;
 senza giusta causa, per cui si presuppone che ci sia una giusta causa, cioè quando
ci sono interessi maggiori rispetto a quelli tutelati dal segreto professionale;
 se dal fatto può derivare nocumento, cioè pregiudizio, un danno ingiusto cioè
contrario al diritto, arrecato al soggetto.
Dunque, riepiloghiamo.
La legge n. 675 del 1996 istituisce l'Autorità del Garante per la tutela dei dati personali
mentre il segreto professionale è tradizionalmente uno dei doveri fondamentali di qualsiasi
professionista ed è una delle regole essenziali della deontologia.
La legge n. 675 del 1996 non ha fatto altro che costituire un rafforzamento dei compiti che
già l’assistente sociale (in questo caso ed in questo ambito parliamo di assistenti sociali)
era tenuto a osservare per quanto riguarda la tutela dei dati e delle notizie relative ai propri
utenti.
Al riguardo vi faccio notare come tra le cause che costituiscono "giusta causa" di
rivelazione del segreto professionale è stato aggiunto un punto che prevede la possibilità
di derogare alle norme sul segreto professionale, laddove esista l'urgenza di
salvaguardare la vita o la salute di terzi anche in caso di diniego dell'interessato, ma previa
autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali.
In questo caso si è inteso con tale modificazione sancire che, per la deroga al segreto
professionale, é inderogabile sia l'urgenza di salvaguardare la vita dell’utente (e/o lo stato
di disagio o la salute di terzi) sia l'autorizzazione del Garante.
Questa autorizzazione può discendere sia da un provvedimento generale sia da una
richiesta specifica che l’assistente sociale può inoltrare.
Va da sé che nemmeno, in ultima analisi, la cancellazione dall’albo professionale esime
moralmente il professionista dagli obblighi di non divulgare fatti e notizie apprese nel corso
della professione non più esercitata.
Ripeto: l’assistente sociale, cessando la propria attività e chiedendo la cancellazione
dall'albo, non può ritenersi esentato dal rispetto del segreto professionale.
E', questa, una considerazione di notevole importanza considerando che le rivelazioni
concernenti i dati sensibili di alcuni utenti potrebbero riguardare, inoltre, soggetti molto noti
al pubblico e vi potrebbe essere un interesse economico per l’assistente sociale, anche se
non più professionalmente in attività, a utilizzare alcune conoscenze acquisite durante la
propria vita professionale anche per scopi di lucro non certo commendevoli.
Il segreto professionale che, come è noto, è anche previsto dal codice penale (artt. 326 e
622) è un obbligo imposto a determinati professionisti di non divulgare notizie di cui sono
venuti a conoscenza nell’ambito della loro professione.
E' chiaro che la norma penale si riferisce anche ad avvocati, magistrati, commercialisti ed
altri ma è altrettanto chiaro che per l’assistente sociale (a cui si richiama la legge
professionale n. 119 del 3 aprile 2001) la problematica del segreto professionale è
particolarmente importante considerata la delicatezza del rapporto che si instaura fra
assistente ed utente.
Il segreto professionale viene definito, dal punto di vista giuridico, una relazione che
intercorre fra la conoscenza di cose e fatti e un determinato soggetto.
*****
Ma… quand’è che incontriamo le giuste cause di rivelazione del segreto professionale?
Vi possono essere occasioni in cui il segreto professionale può venire meno: occorre
innanzitutto distinguere in cause legali e cause sociali.
Le cause legali
Derivano dal diritto positivo e sono costituite da norme imperative, scriminative e
permissive.
In altri termini:
 le norme imperative impongono di rendere noto il segreto in forza di una
disposizione di legge che impone al professionista il dovere di informativa mediante
le denunce, i referti, i rapporti, le relazioni e le certificazioni; oppure richiedono di
riferire su fatti riscontrati in occasione di perizie, consulenze tecniche, arbitrati o
visite varie;
 le norme scriminative escludono la punibilità perché eliminano l'antigiuridicità del
fatto o fanno venir meno la colpevolezza dell'autore della rivelazione.
Per esempio, non è perseguibile penalmente il sanitario che ha reso noto il segreto col
consenso del titolare (art. 50 c.p.); oppure quando ricorre il caso fortuito o la forza
maggiore (art. 45 c.p.); o, ancora quando il professionista è stato costretto con la violenza
(art. 46 c.p.), cadendo in errore (art. 47 c.p.), tratto in inganno (art. 48 c.p.), per uno stato
di necessità (art. 54 c.p.) o per difendere la propria reputazione professionale (art. 52 c.p.);
 le norme permissive si riferiscono alla facoltà riconosciuta dall’art. 351 del c.p.p. di
astenersi dal testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale, tanto nei
processi penali quanto nelle cause civili.
L'astenersi dalla testimonianza costituisce un diritto e non un obbligo, il quale è pertanto
libero di decidere se rendere o non rendere la deposizione, valutandone l'opportunità
secondo le circostanze e assumendone la responsabilità. L'Autorità può a sua volta
imporre con ordinanza la deposizione del professionista ma, a parte ciò, la regola
deontologica espressamente richiamata è quella di non deporre mai su argomenti coperti
dal segreto professionale.
Le cause sociali
Anche se non è presente una norma precisa in merito, sarebbe giustificabile l’assistente
sociale che si sottrae all'obbligo del segreto spinto da pulsioni etico-sociali; si fa, per
questo, l'esempio della segnalazione di una malattia di un addetto a pubblici servizi che
mette in pericolo l'incolumità di molte persone o la rilevazione fatta allo scopo di salvare un
terzo innocente da una condanna ingiusta.
Possiamo dedurre, a questo punto, che la rivelazione è consentita ed è lecita qualora
sussista una giusta causa.
Ma affinché si configuri il reato è necessario che dalla rivelazione del segreto, avvenuta
senza - appunto - giusta causa derivi, o possa derivarne per l’utente, un danno ingiusto
ovvero contrario al diritto.
Gli atti di indagine, per esempio, compiuti dal pubblico ministero (art. 358 c.p.p.) e dalla
polizia giudiziaria (art. 348 c.p.p.) sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne
possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art.
405 c.p.p.).
Quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero può, in
deroga a quanto previsto dall'art. 114, consentire, con decreto motivato, la pubblicazione
di singoli atti o di parte di essi.
In tal caso, gli atti pubblicati sono depositati presso la segreteria del pubblico ministero.
Anche quando gli atti non sono più coperti dal segreto a norma del comma 1, il pubblico
ministero, in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, può disporre, con
decreto motivato:
a) l'obbligo del segreto per singoli atti, quando l'imputato lo consente o quando la
conoscenza dell'atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone;
b) il divieto di pubblicare (art. 414 c.p.p.) il contenuto di singoli atti o notizie specifiche
relative a determinate operazioni.
*****
Facciamo un altro esempio, questa volta in ambito medico.
Una possibilità di superare il dilemma, posto dal diritto alla riservatezza del paziente affetto
da patologie infettive, si trova nel Codice di deontologia medica che prevede che il medico
valuti l’opportunità della deroga al dovere di segreto allorché sia in grave pericolo la salute
o la vita di terzi.
Resta il piano etico, che vede confrontarsi le istanze di chi sostiene l’opportunità di
privilegiare la tutela della salute del partner del paziente sieropositivo, rispetto a chi
afferma il prevalere dell’obbligo di segreto nei confronti di quest’ultimo.
Molti autori, in dottrina, che sostengono l’opportunità di informare il partner di un soggetto
sieropositivo, ignaro della situazione di malattia del proprio compagno, avallano il principio
primario della tutela della salute di terzi.
A tale concezione si contrappone quella di chi afferma invece che il principio del rispetto
della riservatezza è il fondamento della tutela della salute di ogni cittadino.
Come vedete… non ne usciamo.
Ora, la possibilità per il professionista di poter instaurare un rapporto efficace con il proprio
utente, deriva dalla fiducia che quest’ultimo ripone in lui. Tale sentimento non può
prescindere dalla garanzia di un segreto su tutto ciò che avviene tra l’assistente sociale e
l’utente.
Di qui la concezione che segreto, fiducia ed esercizio della professione siano
strettamente connessi e, quindi, il venir meno del primo di questi tre fondamenti, conduca
all’impossibilità di instaurare con lui un rapporto tale da poterlo tutelare.
Il professionista deve rispettare, accanto al segreto professionale, anche l’obbligo di
denuncia che subentra quando – nell’esercizio della propria funzione – abbia il sospetto o
la certezza di trovarsi di fronte ad un reato perseguibile d’ufficio (art. 331–332 Codice di
procedura penale, c.p.p.).
La denuncia d’ufficio (art. 331 c.p.p.) è sancita da comportamenti violenti che costituiscono
reati perseguibili d’ufficio. La legge prevede che determinate categorie di persone (pubblici
ufficiali, incaricati di un pubblico servizio) che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o
servizio vengano a conoscenza di questo tipo di reato, devono farne denuncia per ciò
eventualmente anche contro la volontà della persona offesa dal reato: il procedimento
penale sarà lo stesso di quello instaurato con una querela.
Solo la persona offesa dal reato può decidere se presentare querela (art 336 c.p.p) ovvero
se vuole instaurare un giudizio nei confronti dell’autore del reato. Il termine per la querela
è di 90 gg. (mentre per la violenza sessuale e “stalking” è di 180 gg.).
Decorso il termine non è più possibile presentare querela.
In qualsiasi momento – sino all’apertura formale del processo (apertura del dibattimento) la querela può essere ritirata con la conseguenza che il reato non è più perseguibile.
Solo nel caso di violenza sessuale la querela è irrevocabile.
Inoltre si parla di obbligo di denuncia-segnalazione quando il benessere di una persona
minore o di una persona incapace di tutelare i propri interessi sia in pericolo e, in questo
caso, viene effettuata una segnalazione all’Ufficio Minori .
Si parla di obbligo “senza indugio” ovvero senza fare trascorrere del tempo inutile se è
necessaria un’immediata chiarificazione sul prosieguo della procedura.
*****
Passiamo ad altro.
La professione che svolgerete si avvale del lavoro in équipe, multidisciplinare, ed il
servizio sociale presuppone la conoscenza dello stato psico-fisico del soggetto affinché
possano essere erogate le giuste prestazioni di carattere assistenziale o previdenziale.
La trasmissione dei dati avviene normalmente tra colleghi e riguarda pure le notizie che il
docente riferisce agli studenti a lezione.
Ai sensi dell'art. 622 del codice penale, la rivelazione del segreto professionale è punibile
solo se ne possa derivare nocumento.
Qui, però, può trovare applicazione un principio generale della scienza penalistica,
previsto all'art. 5 del c.p. che testualmente prevede che "non è punibile chi lede o pone
in pericolo un diritto con il consenso della persona che può validamente disporne".
In sostanza non c'è miglior giudice di chi eventualmente subirebbe il danno dalla
rivelazione delle notizie da tenere segrete sulla opportunità o meno della rivelazione
stessa.
Occorre al riguardo, peraltro, precisare che, a volte, l'obbligo del segreto professionale è
posto a tutela di un interesse della collettività di cui neanche il cittadino/utente può essere
arbitro.
Il sistema delle deroghe, comunque, attribuisce al professionista la valutazione
sull'opportunità di svelare il segreto quando sia in grave pericolo la salute o la vita di terzi.
A mio avviso tale previsione, di carattere molto ampio, è pur sempre applicabile in modo
più restrittivo rispetto alla "giusta causa" prevista come deroga dall'art. 622 del c.p.
La deroga di cui si tratta attribuisce all’assistente sociale la responsabilità di superare
l'obbligo del rispetto del segreto quando, a suo giudizio, esistano situazioni estremamente
gravi che mettono a repentaglio la salute e la vita dei terzi, ferma restando la preventiva
autorizzazione del Garante per la tutela dei dati personali, in relazione anche a quanto già
specificato.
L'obbligo della non divulgazione del segreto professionale rimane a carico dell’assistente
sociale anche dopo la morte dell’utente a tutela del diritto alla riservatezza di cui gli eredi
sono i depositari secondo le normali regole successorie quali ideali continuatori della
personalità dello scomparso.
L'ultimo comma dell'articolo 622 c.p. che vi sto commentando affronta una delle
problematiche più scottanti del rapporto fra deontologia professionale e ordinamento
giudiziario.
Tale comma prevede, infatti, il divieto di testimoniare al Giudice su fatti di cui egli sia
venuto a conoscenza per ragioni dipendenti dall'esercizio della professione.
E infatti è necessario subito ricordare che l'art. 200 c.p.p. contempla, al punto d), “gli
esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi
dal deporre, determinata dal segreto professionale”, e tra questi - pertanto - vi sono
anche gli assistenti sociali.
LA PRIVACY
Dal 1° gennaio 2004 è in vigore il Codice della privacy, testo organico e integrato di tutte le
disposizioni emanate dal 1996 in poi in materia di protezione dei dati personali.
In Italia la normativa sulla privacy è stata oggetto, negli ultimi anni, di continui
aggiornamenti in tutti gli ambiti.
Non so se ci avete fatto caso ma una normativa “instabile” è generalmente un indicatore di
tensioni e conflitti.
Per gli operatori professionali la traduzione pratica di tutto ciò può essere un aumento di
“carte”, di burocrazia e di stress lavorativo.
La privacy (termine che verrà utilizzato per designare ogni aspetto dell’ampia e variegata
sfera della riservatezza) è cambiata nel tempo: da diritto della persona a essere lasciata in
pace a diritto di controllare l’uso che altri fanno di informazioni sul proprio conto ma anche
un diritto alla libertà delle proprie scelte esistenziali.
E’ emersa, da subito, la necessità di una nuova cultura che valutasse la privacy come un
valore comune a tutti quelli che operano nel sistema che, al tempo stesso, avrebbe potuto
garantire la dignità dell’assistito nel suo percorso assistenziale.
1. Storia ed evoluzione del concetto di privacy
Il diritto di privacy è il diritto dell'individuo di “essere lasciato solo”, è la pretesa giusta
dell'individuo
di determinare in che misura egli desidera condividere parte di sé con gli altri, e di
determinare il suo controllo sul tempo, sul luogo e sulle circostanze debite per comunicare
con gli altri.
Essa significa il suo diritto di ritirarsi e di partecipare a seconda di come lo desidera.
E' anche il diritto dell'individuo di controllare la diffusione dell'informazione su se stesso.
Al momento della sua nascita, alla fine del 1800, il "right of privacy" si configurava come
diritto di essere lasciato in pace (right to be let alone), di non subire intrusioni
indesiderate nella sfera della vita privata, in una società caratterizzata da una circolazione
delle informazioni sempre più vasta e veloce.
L’affermarsi di un right of privacy, distinto da quello al rispetto dell'onore, del decoro e
della reputazione, ha origine sul finire dell’800 nel mondo anglosassone, espressione della
libertà dell'individuo da ingerenze non gradite nella propria vita privata.
A più di un secolo di distanza, oggi, da quella prima riflessione giuridica, il diritto alla
privacy ha subito una notevole trasformazione, riconducibile a diversi fattori, che trovano la
loro matrice comune nell’evoluzione storico-politica della società.
In tale evoluzione, si è passati da una visione statica e negativa della "privacy", intesa
come strumento atto ad impedire la conoscenza, da parte di estranei, delle informazioni
personali, ad una visione dinamica e attiva della stessa, intesa come strumento che il
singolo ha a sua disposizione per controllare la raccolta, la classificazione e l’uso di quelle
informazioni da parte di chi gestisce le banche dati, nelle quali le stesse sono inserite e
conservate (soggetti pubblici o privati).
In merito a questo, si possono richiamare i diritti riconosciuti all’interessato tra i quali quelli
di conoscere l’esistenza di trattamenti che lo riguardano, di essere informato circa le
finalità del trattamento, di ottenere, dal titolare o dal responsabile, la comunicazione dei
dati che gli appartengono, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco
dei dati trattati in violazione di legge, l’aggiornamento, la rettifica, l’integrazione dei dati
inesatti o incompleti, l’attestazione che tali modifiche siano state rese note a coloro ai quali
i dati erano stati comunicati.
Il concetto di privacy è inserito nella consapevolezza del carattere inarrestabile e rapido di
tale progresso a fronte della lentezza delle innovazioni istituzionali.
La privacy assume quindi un duplice significato:
- quello di diritto ad essere lasciati soli (inteso come diritto esclusivo di conoscenze delle
vicende relative alla propria vita privata);
- quello riferito alla tematica dei computers crimes (che si può intendere come dirittointeresse al controllo dei propri dati personali).
Accanto alla tutela della vita privata si affianca, quindi, il nuovo rapporto tra l’individuo e il
potere pubblico e privato. Si nota, appunto, l’esigenza di creare un controllo delle
informazioni personali da parte del potere e, al di la di tale problematica politicoistituzionale, si deve considerare anche il problema della criminalità tecnologica
(computers crimes, dicevo).
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Orbene, con riferimento alle illecite schedature dei cittadini e alla divulgazione dei dati
personali:
1. De iure condito, occorre verificare gli strumenti legislativi offerti dal nostro sistema
positivo.
2. De iure condendo, constatata la sempre maggiore natura pubblicistica della privacy, è
utile l’analisi comparatistica tra diverse esperienze di politica criminale.
La precedente definizione di privacy come interesse alla conoscenza esclusiva, deve
essere rivista anche in relazione al sistema penale positivo.
Il concetto di privacy visto sotto il duplice aspetto considerato, può essere inteso come
classificazione fondamentale, alla quale ricondurre tutta una serie di interessi
singolarmente considerati meritevoli di protezione.
È proprio in relazione al termine privacy che si scorge l’inadeguatezza del termine
riservatezza che ne rappresenta solo un aspetto marginale.
Da ricordare che quando al termine privacy associamo il termine vita privata, si considera
la privacy in un campo strettamente tecnico. Si nota che al di là del tema in questione,
nella elaborazione nord americana, il termine privacy ha assunto un contenuto così vasto
per cui non lo si può ricondurre ad un’unica nozione. Da ciò si giustifica l’esistenza del più
ampio right of privacy che racchiude tutta una serie di interessi che fanno pensare alla
privacy come una clausola generale (cioè come un unico diritto della personalità)
specificata dal giudice di volta in volta in relazione all’interesse da tutelare.
Appare però evidente che tale nozione aperta di privacy non può essere utilmente
considerata come vigente nel diritto penale.
In relazione al principio di tassatività e all’esigenza di protezione del bene giuridico
tutelato bisognerà valutare le posizioni di quella parte della dottrina che ritiene non
specificato il bene vita privata, e ritenendo che sia stato già specificato dall’art. 615 bis c.p.
Quanto detto apre una nuova indagine volta a definire se sia sufficiente che il legislatore
delimiti l’apparente contenuto del bene.
In Italia, l’esistenza di un diritto alla riservatezza è stata oggetto di varie vicende
giurisprudenziali, prima del riconoscimento in diritto positivo, avvenuto con la L. 675/96.
Il suo fondamento era da ricercarsi nella L. 848/55, di ratifica ed esecuzione della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - firmata a
Roma il 4 novembre 1950 - e del Protocollo addizionale - firmato a Parigi il 20 marzo 1952
- , dove all’art. 8 si affermava così: "Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata
e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può aversi interferenza di
un'Autorità pubblica nell'esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è
necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere
economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la
protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli
altri".
Già nella Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, - all’art 12 si stabiliva che: “Nessun
individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua
famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua
reputazione.
Ogni individuo ha diritto a essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni".
La direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’ottobre 1995, dettava
regole sulla tutela delle persone fisiche, riguardo al trattamento dei dati personali nonché
alla libera circolazione degli stessi.
Nel dicembre dello stesso anno, venivano promulgate: la citata L. 675 e la L. 676, di
delega al Governo in tema di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento
di dati personali.
Il 30/6/2003 veniva varato, con D.Lgs. 196, il testo unico denominato “Codice in materia
di protezione dei dati personali”.
Dal 1996, pertanto, si è avviata una stagione di crescente interesse per il tema della
privacy, con un susseguirsi di normative regolamentari e di pronunce dell’Autorità Garante
fino alla stipula del suddetto codice entrato in vigore nel 2004.
La recente Costituzione per l’Europa, all’art. II-68 sancisce che “ogni persona ha diritto alla
protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali dati devono essere trattati
secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona
interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto
di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. Il rispetto di tali
regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”.
2. Riservatezza e segreto (differenze)
La differenza tra riservatezza e segreto è stata configurata da molti come una differenza di
grado del bene tutelato, che sarebbe sempre lo stesso, consistendo sempre nella
riservatezza, intesa come modo di essere negativo della persona rispetto alla conoscenza
altrui; modo di essere che, rispetto a certi particolari settori e manifestazioni della vita
privata, diventa “completamente” negativo, assumendo, così, i contorni del segreto.
La distinzione tra riservatezza e segreto viene individuata, allora, contrapponendo
l’interesse al segreto, vale a dire ad impedire che terzi vengano a conoscenza della
notizia, e l’interesse alla riservatezza, vale a dire a precludere la divulgazione e la
pubblicizzazione della notizia stessa.
L’interesse di fondo che si vuole garantire è, ad ogni modo, lo stesso e consiste, almeno in
parte, in un’esigenza di isolamento morale della persona, accanto alla quale, però, è stata
individuata anche quella, ulteriore, di “stare con gli altri alle proprie condizioni”.
3. Il consenso informato
Il consenso informato lo troviamo in occasione, per esempio, di ricoveri ospedalieri (per
interventi chirurgici) ma, anche, in quelle situazione di particolare disagio sociale (quali, ad
esempio, una perdurante crisi familiare in cui vi potrebbero essere coinvolti soggetti
minori).
Può essere espresso per iscritto o verbalmente.
Nel caso del consenso espresso verbalmente è necessaria la dell’avvenuta espressione
del consenso da parte del professionista o dell’operatore che agisce per conto di un
organismo che riceve, appunto, tale consenso.
Il consenso deve essere ottenuto, di norma, prima del trattamento dei dati anche se, in
certe circostanze, è consentito provvedere successivamente: per esempio, nel caso vi
siano delle situazioni gravi che impediscono l’immediato reperimento del consenso.
La comunicazione dei dati deve avvenire in forma intelligibile, anche attraverso l’utilizzo di
grafia comprensibile; in caso di comunicazione di codici o sigle, devono essere forniti,
anche mediante gli incaricati, i parametri per la comprensione del relativo significato.
Il consenso informato può essere espresso da un'altra persona, solo se questa è stata
chiaramente delegata; titolare del bene giuridico tutelato è sempre l’utente, mentre nel
caso di minore o incapace di intendere e di volere, è il legale rappresentante.
Badate, il consenso dei parenti prossimi non ha alcun significato legale.
4. Privacy e dati genetici
Il Consiglio d’Europa, con la raccomandazione n. 97 del 2004 sull’argomento, afferma che
“L’espressione dei dati genetici si riferisce a tutti i dati, indipendentemente dalla tipologia,
che riguardano i caratteri ereditari di un individuo o le modalità di trasmissione di tali
caratteri nell’ambito di un gruppo di individui legati da vincoli di parentela”.
Ed aggiunge che “L’espressione dati genetici” si riferisce ugualmente ad ogni dato che
riguardi lo scambio di informazione genetica relativa ad un individuo o a una discrepanza
genetica, in rapporto con gli aspetti, quali che siano, della salute o di una malattia, ne
costituiscono o meno un carattere identificabile”.
Perché vi ho dato notizia di questa Raccomandazione del Consiglio d’Europa?
Perché questa norma è richiamata nella delega parlamentare che ha condotto alla
preparazione ed alla redazione della Legge 675/96.
Dunque, i dati genetici potranno essere utilizzati solo con particolari modalità e per finalità
di tutela della salute, ricerca scientifica ed epidemiologica o utilizzo probatorio in sede
giudiziaria.
L'autorizzazione generale, necessaria per rendere legittimo il trattamento dei dati genetici,
è rivolta agli esercenti le professioni sanitarie, alle strutture sanitarie pubbliche e private, ai
laboratori di genetica, agli enti ed istituti di ricerca, agli psicologi, sociologi, assistenti
sociali e consulenti tecnici, ai farmacisti (limitatamente ai dati indispensabili per la fornitura
dei farmaci), agli avvocati e agli investigatori privati (limitatamente alle operazioni e ai dati
necessari per svolgere investigazioni difensive, a patto che il diritto sia di pari rango di
quello dell'interessato).
La protezione dei dati personali fissa i limiti per l'utilizzo di questa delicatissima categoria
di dati, legata alla sfera più intima della persona, e per il rispetto dei diritti fondamentali e
della dignità della persona.
Si possono utilizzare tali dati sensibili in relazione alle garanzie necessarie allorquando sia
indispensabile ricorrere all'utilizzazione di dati genetici per circoscritte e tassative finalità di
tutela della salute dell'interessato o di un terzo appartenente alla stessa linea genetica, di
ricerca scientifica e statistica finalizzata alla tutela della salute della collettività in campo
medico, biomedico o epidemiologico, o per finalità probatorie in un procedimento civile o
penale.
Il trattamento è di regola ammesso solo dopo aver acquisito il consenso scritto
dell'interessato e dopo averlo comunque specificamente informato sugli scopi perseguiti,
sui risultati che si intendono conseguire, sui diritti che egli ha di opporsi al trattamento, sul
periodo di conservazione dei dati e dei campioni biologici.
Il consenso è sempre revocabile.
5. Privacy e segreto professionale
Le informazioni sulla salute di un paziente sono utili per la cura del soggetto, ma possono
rivelare anche altri dati sensibili. Il trattamento di questi dati deve essere conforme alla
legge, altrimenti il rischio è quello di violare il diritto di riservatezza.
Quando si fa riferimento a dati sensibili, la normativa della privacy ha una portata
maggiore rispetto al segreto professionale che deve mantenere il professionista.
La legge, tuttavia, viene considerata inutile da molte categorie professionali e operatori
sociali dato che il rapporto utente/assistente sembrerebbe già sufficientemente tutelato
dalle norme deontologiche.
La legge, però, può essere letta diversamente in relazione alle varie prospettive in cui è
posta.
Infatti da un lato permette all’interessato il controllo dei dati, inclusa la circolazione, e
dall’atro apre consapevolmente delle falle in relazione al segreto professionale, anche se
con lo scopo di tutelare il terzo o la collettività.
Stefano Rodotà (ricorderete, primo garante della privacy) afferma che viene tutelato il
diritto di ognuno all’autodeterminazione informativa e alla non discriminazione, ma allo
stesso tempo sottolinea che il diritto dell’utente a mantenere la riservatezza sui dati deve
decadere quando il trattamento di questi è “indispensabile” e strettamente utile per la
tutela di terzi e collettività.
A tal proposito l’’art 23 della legge 675/96 afferma che “gli esercenti, le professioni
sanitarie e gli organi sanitari pubblici” possono trattare i dati “idonei a rivelare lo stato di
salute” di un paziente solo con l’autorizzazione del Garante, anche in mancanza del
consenso del paziente stesso, in relazione alla tutela di terzi e della collettività, per il
perseguimento di tutela di incolumità fisica e della salute.
6. Caratteristiche della privacy
Da tempo la privacy ha assunto un significato più ampio: non è solo la difesa della sfera
privata, ma è la possibilità di ciascuno di controllare l'uso delle informazioni che lo
riguardano in quanto, nelle società attuali, queste informazioni rappresentano elementi
fondamentali nell'organizzazione sociale, nell'efficienza amministrativa ed imprenditoriale.
Il problema dell'ammissibilità di una tutela della riservatezza distinta e complementare
rispetto alla tutela dell'onore, del decoro e della reputazione in quanto avente per oggetto il
riserbo, l'intimità della vita privata, considerati come interessi direttamente meritevoli di
protezione è stato per lunghi anni oggetto di discussione che ha coinvolto dottrina e
giurisprudenza.
La legge 196 / 2003 (di cui vi parlerò tra poco) ha introdotto nel nostro ordinamento una
disciplina sulla protezione dei dati personali e ha istituito un organo di garanzia del rispetto
dei diritti della personalità per quanto attiene alle multiformi attività di trattamento dei dati
stessi.
La tutela dei dati personali è generalmente considerata uno dei contenuti della
riservatezza.
Quest'ultima e l'identità personale (la cui menzione costituisce un tratto originale della
normativa italiana) si pongono come specificazioni di una disciplina che colloca i dati
personali in una dimensione propriamente costituzionale visto che, ai sensi dell'art.1, il loro
trattamento deve svolgersi “nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della
dignità delle persone fisiche”.
La complessità dei soggetti, delle attività e delle formule che autorizzano alla trattazione
dei dati propone ancora una volta l’affermazione di una ovvietà: l’obbligo di riservatezza
sui contenuti degli incontri professionali, nonché sulla documentazione ad essi attinente,
deve essere tenuto nei confronti di tutti indistintamente, siano essi privati cittadini, autorità
pubbliche o colleghi.
7. Eccezioni di divulgazione dei dati
Vi sono dei casi specifici in cui è possibile, ovvero eccezionalmente accettato, divulgare i
dati in possesso.
1. La prima eccezione è costituita dall’Autorizzazione al trattamento dei dati idonei a
rivelare lo stato di salute e la vita sessuale rilasciata dal Garante per la protezione dei dati
personali.
L’autorizzazione è rilasciata in via generale e preventiva, senza che i professionisti
interessati ne debbano fare richiesta. La ratio di tale autorizzazione appare chiara:
consentire lo svolgimento del proprio lavoro utilizzando e rivelando, nella sola misura
strettamente indispensabile alla corretta prestazione professionale, alcune informazioni
sullo stato di salute fisico e psichico dell’utente che, altrimenti, sarebbero protette, sia dalla
legge 675/96 che dal più ampio dovere di segreto professionale.
2. La seconda eccezione al generale dovere di mantenere il segreto su quanto appreso
per doveri professionali è costituita dai rapporti tra il professionista e l’Autorità giudiziaria.
Anche il Codice Deontologico si occupa del problema ma, solo per la professione medica,
viene in soccorso l’art. 365 del codice penale, nel secondo comma, che ammette una
importante deroga posta proprio a tutela del segreto professionale ed a garanzia di quella
libertà del professionista di cui si è già accennato.
Difatti, voi tutti sapete che il referto può essere omesso in tutti quei casi in cui la sua
proposizione esporrebbe la persona assistita ad un procedimento penale. Ciò
significa che il medico ha l’obbligo di referto quando il proprio cliente riferisce gli elementi
che integrano l’ipotesi di un delitto perseguibile d’ufficio senza che ne possa rimanere
coinvolto, in caso contrario il medico deve omettere il referto.
8. Misure di sicurezza per la riservatezza dei dati personali
Queste misure di sicurezza sono dei provvedimenti tecnici, logistici e organizzativi
programmati e attuati per l’effettiva tutela dei dati personali.
Si distinguono in:
- Misure di sicurezza minime, tese a ridurre i rischi di distruzione o perdita di dati, di
accesso non autorizzato o di trattamento non conforme alla normativa.
Devono essere periodicamente aggiornate, in rapporto al progresso tecnologico e alla
tipologia dei rischi; la loro adozione è obbligatoria.
L’omissione, qualora si verifichi un evento di danno, comporta responsabilità penale.
- Misure di sicurezza idonee: sono destinate a ridurre i rischi.
Sono da individuarsi in base alle soluzioni tecniche concretamente disponibili e alle
esigenze peculiari di ogni ambito.
Da carenze di tali misure possono conseguire addebiti di responsabilità civile.
Estrema attenzione dovrà essere riservata alla custodia di documenti contenenti dati
sensibili.
9. La legge 675/1996 e il decreto l.vo 196/2003
Come detto fino ad ora, il principale obiettivo della L. 31 dicembre 1996, n. 675, c.d. “legge
sulla privacy”, era quello di garantire che il trattamento di dati personali si svolga nel
rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dei soggetti.
La normativa non riguardava solo le banche dati vere e proprie, ma tutti i trattamenti di
dati, intendendosi per “trattamento” qualsiasi operazione, svolta con strumenti manuali o
elettronici avente ad oggetto dati di persone fisiche o di enti collettivi.
Infatti, la L. 675/1996, parifica il regime dei dati relativi alle persone fisiche a quello proprio
delle informazioni concernenti le persone giuridiche pubbliche e private, gli enti e le
associazioni non riconosciute e riconosce che il trattamento dei dati personali è lecito
sempre che siano rispettati una serie di adempimenti formali che hanno lo scopo di
tutelare la persona rispetto all’intrusione di un terzo nella sua vita privata.
Per verificare se il trattamento dei dati si svolga secondo le regole dettate dalla legge,
sono previsti due fondamentali passaggi.
Il primo riguarda l’informativa che riceverà l’interessato il quale potrà, in questo modo,
conoscere tutti i dettagli circa il trattamento, compresi l’ambito e la durata dello stesso.
Particolari formalità di raccolta ed utilizzazione sono previste per i cosiddetti “dati sensibili”
e per quelli di cui all’art. 686 del c.p.p. (iscrizioni nel casellario giudiziario).
Per questi dati, infatti, il trattamento svolto da soggetti privati è possibile solo con il
consenso scritto dell’interessato e con la contemporanea autorizzazione del Garante.
Il secondo passaggio attiene all’istituzione dell’Autorità Garante che ha conoscenza,
anche tramite la notificazione, del trattamento in corso ed al quale sono attribuiti una serie
di poteri di vigilanza, controllo, regolamentazione, decisione, stimolo normativo, nonché
informazioni nei confronti dell’opinione pubblica.
Sempre in termini generali va ancora ricordato che la "legge sulla privacy" evidenzia la
necessità di bilanciare i rapporti intercorrenti tra la tutela della riservatezza ed altri diritti
costituzionalmente garantiti.
10. Privacy e lavoro. Tutela della salute.
Fino a quando non si ha l'occasione di leggere il testo della legge sulla privacy si può
pensare che essa sia essenzialmente indirizzata alla categoria dei giornalisti per
proteggere l'ignaro cittadino dai golosi scoop ai quali detti professionisti sono dediti,
nonché ad altri soggetti operanti soprattutto in campo informatico e multimediale (in
particolare ai pirati informatici, ai gestori di reti, ai venditori per corrispondenza, ecc.) che
sono in grado di registrare e catalogare le caratteristiche e le azioni del singolo che si
avventura per le autostrade informatiche.
Ma la lettura del testo fa ricredere lo studioso giacché si avvede subito che molti sono i
soggetti che vengono chiamati in causa.
La normativa è, infatti, dedicata alla protezione del cittadino per quanto riguarda la sua
riservatezza e la tutela della sua identità personale, caratteristiche denominate
comunemente privacy.
I dati personali tutelati dalla legge sono tutti quei dati che sono identificativi del soggetto
fisico, giuridico, di ente o associazione e, quindi, come tali, anche i dati anagrafici, o
addirittura un eventuale indicazione numerica identificativa della persona.
Il legislatore probabilmente all'inizio non aveva esteso le sue considerazioni ai dati che
obbligatoriamente vengono trattati nel mondo del lavoro ed in particolare a quelli finalizzati
alla tutela dai rischi con le attività lavorative ed il cui trattamento peraltro è previsto da vari
disposti legislativa.
Le attività di sicurezza e protezione lavorativa richiedono l'istituzione di una serie di
documenti non sempre esplicitamente previsti dall'attuale legislazione in materia, nei quali
vengono contenuti dati che per il loro significato possono avere la connotazione di
sensibili.
La norma quindi prevede che i dati sensibili possano essere trattati nei luoghi di lavoro
soltanto nei casi specificamente previsti ed essere trattati soltanto da soggetti sottoposti
all'obbligo del segreto d'ufficio e non debbano essere, in alcun caso, comunicati a
impiegati dell'ufficio del personale se non per le informazioni indispensabili alle assunzioni
di decisioni attinenti alle mansioni relative dell'interessato.
LE IMPLICAZIONI DI CARATTERE PENALE
In quest’ultimo ambito analizzeremo alcune norme del codice di procedura penale
relativamente, appunto alle implicazioni di carattere penale nel rispetto del segreto
professionale e della privacy.
Tutti sappiamo che la procedura penale rappresenta il complesso di norme giuridiche
create dal legislatore al fine di regolare e disciplinare le varie fasi del procedimento penale.
Nella procedura penale è coinvolto un determinato soggetto in ordine ad un reato ed il
codice raccoglie, quindi, le norme che regolano il processo penale.
In Italia il “nuovo” codice di procedura penale è entrato in vigore il 24 ottobre 1989.
L'attuale modello giuridico a cui si ispira la giustizia italiana prevede una sostanziale parità
fra accusa e difesa nel corso del dibattimento, momento centrale di tutto l'intero
procedimento.
Fa eccezione la fase pre-processuale delle indagini preliminari nella quale la figura del
pubblico ministero è prevalente su quella della difesa.
La legge impone che le parti siano tutte tutelate e le norme che regolano il processo
penale davanti al giudice sono tali che le ragioni delle parti abbiano uguale tutela giuridica.
Il giudice deve essere parte indipendente per poter esercitare la propria funzione
giudicante e la stessa è svolta in un contesto di norme che, nella forma e nella sostanza,
regolano l'esercizio del potere giudiziario nell'imporre la pena ovvero determinare le
modalità di assoluzione.
Si può affermare che il diritto processuale penale è un corpus normativo che detta le
regole in merito all'esecuzione del procedimento penale con riferimento ai modi, tempi e
luoghi dove esso si svolge.
Il procedimento penale è costituito da: indagini preliminari, udienza preliminare, dibattito.
Nelle indagini preliminari sono più frequenti i contatti tra gli assistenti sociali e le strutture
dove essi operano, e dall’altra dall’Autorità Giudiziaria e le forze dell’ordine.
Orbene, il professionista è penalmente tenuto a non rivelare fatti riservati degli utenticlienti dei quali è venuto a conoscenza per via della propria professione (in ossequio
all’art. art. 622 c.p), però deve rispondere secondo verità quando viene sentito come
testimone nel processo penale.
Tuttavia, i professionisti indicati nell’art. 200 del c.p.p (e, quindi, anche gli assistenti sociali
per via dell’espresso richiamo fatto dalla legge n. 119 del 3.04.01) sono in possesso della
facoltà di non rispondere a determinate domande quando la risposta comporti la violazione
dell’obbligo del segreto professionale.
È però necessario che il professionista non abbia comunque un obbligo giuridico di riferire
un determinato fatto alle autorità giudiziarie.
La comparazione fra l'art. 622 del c.p. e le norme di riferimento del Codice deontologico
aiuta a capire quale deve essere il comportamento da seguire.
Sotto il profilo penalistico, per dichiarare un professionista penalmente perseguibile,
occorre che sussistano queste condizioni:
- che abbia rivelato un segreto appreso in ragione della professione;
- che lo abbia rivelato senza giusta causa, ovvero a proprio o altrui profitto;
- che la rivelazione possa provocare un danno all’utente.
Secondo la norma penale non vi è quindi l'obbligo del riserbo per fatti già notori o
comunque conosciuti o conoscibili, viceversa il codice deontologico impone di non rilevare
tutto ciò che è stato confidato.
Per entrambi si rende necessario il “rapporto tecnico” che lega l'apprendimento di un fatto
con l'esercizio della professione. La rilevazione senza giusta causa può avvenire
comunicando il segreto a persona estranea senza trovare giustificazione in una norma di
diritto.
La violazione del segreto richiede il dolo (la colpa non è sufficiente a costituire questo
delitto) che consiste nella volontà di rivelare il segreto o di impiegarlo a proprio o altrui
profitto, con la consapevolezza di agire senza giusta causa.
Non occorre neppure che il nocumento abbia ad avverarsi, è sufficiente che dalla
rivelazione sorga il pericolo anche remoto di un danno ingiusto, materiale o morale, per il
titolare del segreto.
Per il Codice deontologico la violazione del segreto sussiste indipendentemente dal
proprio profitto o dall'altrui danno; non occorre neppure che il danno provocato sia
ingiusto; ogni danno che derivi all’utente dalla violazione del segreto costituisce
un'aggravante ed in questo si avvicina molto a quanto previsto dal c.p. per la rilevazione di
un segreto d'ufficio da parte di un pubblico ufficiale o di persona incaricata di un pubblico
servizio.
La norma prevede infatti tre possibili fattispecie:
1) rivelazione colposa generica;
2) rivelazione colposa specifica o dolosa comune;
3) rivelazione dolosa per profitto patrimoniale, non patrimoniale o per cagionare ad
altri un danno ingiusto.
Il segreto professionale è opponibile solo nella testimonianza, nelle informazioni
testimoniai, nelle intercettazioni: non sono però valide quelle relative a comunicazioni o
conversazioni di soggetti presenti nell’art. 200 quando hanno a oggetto fatti conosciuti per
ragione del ministero, ufficio o per la stessa professione, ad eccezione che le stesse
persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano divulgati.
Inoltre il segreto professionale può essere violato nei sequestri: i soggetti indicati negli
artt. 200 e 201 hanno l’obbligo di consegnare immediatamente all’autorità
giudiziaria, ogni cosa esistente; fatto salvo che si tratti di segreto di Stato.
1. I reati
Il codice penale fa una distinzione prettamente formale in contravvenzione e in delitto,
secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite.
La contravvenzione è un reato minore e ha come pene l’arresto e l’ammenda.
Il delitto ha come pene l’ergastolo, la reclusione, la multa.
Ma in merito all’argomento, quali sono i reati perseguibili d’ufficio che interessano l’attività
del professionista?
I delitti contro la vita, la persona, la libertà personale, la famiglia.
2. Tutela penale del segreto professionale
Prima di tutto bisogna ricordare che il professionista comune (ovvero colui che non rientra
nelle categorie del art. 200 del c.p.p.) è obbligato a deporre nel processo penale anche se
al di fuori di questo è tenuto al segreto professionale (art. 622 c.p.).
Riprendendo il concetto di segreto già definito in precedenza, con esso si intende una
notizia che non deve essere divulgata, che pertanto non è già di per se notoria; il fatto che
un utente si “metta nelle mani” di un assistente sociale per determinati problemi comporta
la rivelazione di notizie private.
Il professionista comune è penalmente tenuto a non rivelare senza giusta causa i segreti
appresi.
Dato che nel processo penale il professionista è considerato alla stregua degli altri testi,
deve rispondere in verità. Infatti questo elemento costituisce giusta causa nell'art. 622 c.p.;
per questo motivo non è violato il segreto professionale.
Viceversa, per i professionisti qualificati presenti nell'art. 200 del c.p.p. (ed in quelli a cui
richiamati dalle leggi specifiche della professione), hanno il potere-dovere di rifiutarsi di
parlare e rispondere in merito a domande che narrino qualcosa che è stato appreso nella
loro attività.
Tale segreto viene denominato “qualificato” perché il legislatore ritiene che il segreto
professionale abbia priorità sulla giustizia e sull'accertamento dei reati.
Solitamente sono situazioni di rilievo costituzionale ma il codice pone un ulteriore limite:
che il professionista qualificato non abbia però obbligo giuridico di riferire un determinato
fatto all'autorità.
Se il professionista qualificato eccepisce il segreto, il giudice deve provvedere agli
accertamenti.
Se il giudice ritiene fondata l'eccezione, allora viene rispettata la facoltà di tacere; nel caso
venga ritenuta infondata, allora viene ordinato al testimone di deporre. Nel caso però che
il professionista apprenda informazioni al di fuori dell'esercizio, allora in questo
caso, se interrogato dal giudice, è obbligato a rispondere secondo verità.
Dal punto di vista processuale, le dichiarazioni del professionista qualificato, che non si
avvale della facoltà di non rispondere e commette reato di rivelazione, resta comunque
utilizzabile perché non è comunque violato un divieto probatorio.
3. Violazione segreto professionale
La violazione del segreto professionale (art. 200 c.p.p.) può essere punita con una
reclusione fino a un anno, con la multa da euro 30 a 516; il delitto è punibile a querela
della persona offesa.
Non esiste un criterio oggettivo di ciò che deve essere considerato segreto, ma ogni
essere umano ha il vincolo morale di non svelare fatti a sua conoscenza relativi alla
sfera intima di un’altra persona da ritenere costitutivi di segreti (segreti personali) e non
esiste un criterio oggettivo poiché dal fatto può derivare nocumento e non sapendo cosa la
persona considera segreto.
Inoltre, essendo molte le circostanze dell’acquisizione dei segreti, se la notizia viene
fornita in ragione della professione, anche in ambito esterno, va considerato sempre
segreto professionale.
Rivelarlo vuol dire comunicarlo a una o più persone che non siano a loro volta vincolate
per ragione di stato, ufficio, arte o professione. La rivelazione di segreto professionale è un
reato di pericolo a cui si aggiunge pacificamente che la rivelazione è comparabile ad un
delitto a titolo di dolo, ovverossia vi è la volontà di rivelare la notizia o impiegarla a proprio
e altrui profitto.
La rivelazione può essere attiva o passiva.
Nello specifico, La violazione del segreto professionale può dar luogo all’applicazione degli
artt. 622 e 326 cp. oltre ovviamente a procedimenti ordinistici per violazione alle norme
previste dal Codice deontologico.
4. Il segreto d’ufficio e il segreto di Stato
Il segreto d'ufficio è determinato dalla legge e da regolamenti di pubblica
amministrazione, che impongono il segreto su determinate notizie nel servizio pubblico.
In particolare il c.p. statuisce che "ogni persona offesa da un reato per cui non debba
procedersi d'ufficio o dietro richiesta o istanza ha diritto di querela"; ovvero, a meno che
non si tratti di reati per cui è prevista la procedibilità d'ufficio (o su richiesta o istanza), solo
la persona offesa dal reato ha diritto di chiedere allo Stato che si proceda contro l'autore
del reato.
Il segreto di Stato è una particolare forma di segreto d'ufficio.
Secondo l'art. 200 c.p.p. sono vincolati da tale segreto i pubblici ufficiali, i pubblici
impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio: hanno l' obbligo (261 c.p.) di astenersi dal
deporre (204 c.p.) su fatti coperti dal segreto di Stato. Tra questi vi rientrerebbero dunque
anche gli assistenti sociali e tale segreto è legato al vincolo del silenzio professionale.
5. Giusta causa e non punibilità
Qui prenderemo in considerazione la situazione di giusta causa e l'impunibilità annessa; di
seguito invece sarà poi fatto riferimento alle sanzioni e ai provvedimenti disciplinari per
coloro che violano il segreto professionale.
In tutte le cause di giustificazione (o scriminanti, o esimenti) che valgono in massima per
tutti i reati, che sono contemplate nel Libro I del Codice penale, si fa riferimento al
professionista non punibile che renda noto quanto è coperto dal segreto professionale ma
che ha il consenso dell'avente diritto (art. 50 c.p.) o suo legale rappresentante; inoltre il
professionista che agisce nell'esercizio di un diritto o nell'adempimento di un dovere
imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità (art. 51 C.
p.).
Altro caso in cui non vi è reato è se l’assistente sociale ha commesso il fatto per un caso
fortuito o per forza maggiore (art. 45 C. p.), per costringimento fisico (art, 46 C.p.), per
errore di fatto (art. 47 C. p.) o per errore determinato dall'altrui inganno (art. 48 C. p.).
Costituisce causa di giustificazione anche l'aver agito per legittima difesa (art. 52 C. p.),
cioè per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di
un'offesa ingiusta, ovvero per lo stato di necessità (art. 54 C. p.) di salvare sé od altri dal
pericolo attuale di un danno grave alle persone, pericolo da lui non volontariamente
causato, né altrimenti evitabile.
6. Sequestri
Come esplicitato nell’art. 256 c.p.p. le persone indicate negli artt. 200 e 201 devono
consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria, che ne faccia richiesta, gli atti e i
documenti, anche in originale, se così è ordinato, e ogni altra cosa esistente presso di
esse per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione, arte, salvo che dichiarino
per iscritto che si tratta di segreto di Stato ovvero segreto inerente al loro ufficio o
professione.
Inoltre quando la dichiarazione concerne un segreto d’ufficio o professionale, l’autorità
giudiziaria, se ha motivo di dubitare della fondatezza degli atti, i documenti o le cose
indicati nel comma 1, provvede agli accertamenti necessari.
Se la dichiarazione risulta infondata, l’autorità giudiziaria dispone il sequestro.
7. Il principio di causalità
Il principio di causalità ha sempre avuto un importante ruolo sociale, rappresentando una
difesa dall'angoscia dell'imprevedibile, perché quando si può spiegare un evento come
l'effetto di una causa, tale evento diventa meno spaventoso e si può pensare di prevenirlo
adottando specifiche cautele.
Il rapporto di causalità ha una enorme rilevanza nel diritto, in quanto consente di
determinare se un dato evento possa essere riconducibile ad un soggetto o a un evento.
Il Codice Penale (art. 40 c.p.) stabilisce che un evento, per essere ascrivibile all'imputato,
deve essere “conseguenza” della sua azione od omissione e specifica che “non impedire
un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
L’ elemento centrale del reato è il nesso di causalità materiale e giuridica tra la condotta (o
azione) volontaria e l'evento di danno (art. 40 c.p.). Il fatto-reato è costituito, pertanto, oltre
che dall'elemento (dolo o colpa), anche dalla condotta e dall'evento dannoso quindi dalla
conseguenza della prima.
La verifica del nesso causale si basa sul procedimento di eliminazione mentale o giudizio
controfattuale secondo cui la condotta umana è condizione necessaria dell'evento se,
eliminata mentalmente, l'evento non si sarebbe verificato.
Nell'ambito della responsabilità professionale il nesso di causalità, deve essere accertato
secondo il criterio della probabilità e non della necessaria certezza.
Buona parte della giurisprudenza ritiene che l'accertamento del nesso causale deve
basarsi sulle leggi statistiche esistenti: infatti, una conoscenza basata sulle leggi universali
sarebbe impossibile.
CONCLUSIONE
Mantenere il segreto professionale su tutto ciò che si apprende nel rapporto
assistente/utente non è solo un’incombenza formale, né un semplice obbligo sancito, ma è
regolamentato e giuridicamente dettato.
Nel momento in cui l’utente si affida all’assistente sociale mette nelle sue mani tutte le
informazioni su se stesso e deve fidarsi di quest’ultimo.
L’obbligo della riservatezza si estende a tutte le informazioni sulla sua vita.
L’assistente deve riservare nella maniera più assoluta tutto ciò che apprende dal paziente
e deve essere costantemente consapevole che ogni suo atto, per quanto semplice ed
apparentemente banale, è carico di implicazioni etiche, giuridiche e spesso
amministrative-gestionali.
Deve, quindi, prestare la massima attenzione ed il massimo impegno in ogni momento
della propria attività.
Questo tende a rendere la professione sempre più burocratica, sottraendo tempo ad
aspetti
tecnici.
La nascita di un legame di fiducia è tanto importante, è un punto particolarmente spinoso
della deontologia e, in quanto tale, ha suscitato da sempre molta attenzione.
Il principio etico della riservatezza e del segreto si è posto fin dall’inizio della professione. Il
carattere dei rapporti entro i quali si devono salvaguardare le confidenze dell’assistito è
una delle considerazioni etiche più importanti.
Il mio personale punto di vista riguarda essenzialmente il danno che potrebbe verificarsi a
carico di soggetti innocenti a causa del silenzio dell’assistente su punti che vengono
abitualmente ritenuti soggetti all’obbligo del segreto professionale.
A mio parere, il segreto professionale deve essere salvaguardato fin tanto che questo
segreto non possa nuocere alla “salute” della collettività.
L'ordinamento giuridico italiano ha sempre tutelato solo quegli aspetti della personalità e
della libertà che sconfinano nel negoziabile, nel "vendibile" ovvero il diritto alla difesa
dell'onore (personale, familiare, professionale), la violazione della segretezza della
corrispondenza, il segreto professionale etc..
Ma sino al 1996 la riservatezza dei dati personali non trovava alcuna tutela specifica o
direttamente derivata dal principio di autonomia e di libera disposizione. La riservatezza,
ad esempio dei dati sensibili o identificativi, ha invece un proprio definito oggetto di tutela
ovvero i dati che conducono all'identificazione personale o al convincimento politico,
filosofico, religioso, allo stato di salute, all'orientamento sessuale e così via.
Tuttavia, il segreto per quanto tutelato non dà piena garanzia di riservatezza.
La rivelazione del segreto, come abbiamo visto - può essere ritenuta lecita, e non essere
sanzionata, per giusta causa di legge e, comunque, concerne solo quanto espressamente
forma l'oggetto del segreto; la riservatezza è altra cosa e va tutelata nell'ambito del diritto
di autodeterminazione dell'individuo in ogni sua sfera di libero esercizio della personalità.
In buona sostanza la tutela del diritto alla riservatezza è un obbligo morale che va
esercitato discutendo con l’utente, informandolo delle ripercussioni di certe sue richieste
ed invitandolo a riflettere e ad esercitare il proprio diritto.
La riservatezza attiene al pregio della persona e pertanto anche al pregio del
professionista.
Eticamente la riservatezza non può essere un valore assoluto, ma va parametrato a livello
quantitativo nei singoli e concreti casi delle vicende professionali.
Occorre individuare i quantitativi della riservatezza, perché nella scala da zero a cento si
può andare da un estremo disinteresse dell’utente ad una violazione della sua privacy.
La legge, quindi, non costituisce altro che un rafforzamento dei compiti che già il
professionista era tenuto a osservare per quanto riguarda la tutela dei dati e delle notizie
relative ai propri utenti.
Penso che sia lecito, oggigiorno, in un’analisi che non voglia indulgere alla facile retorica e
che intenda invece prendere consapevolmente atto del radicale mutamento organizzativo,
strutturale e, in un certo senso, anche e soprattutto culturale, dell’attuale realtà, parlare del
segreto professionale nei termini di “pietra angolare dell’esercizio professionale” e di
prerogativa della professione “che più ha sollecitato il senso di responsabilità etica e
morale del professionista”.
E, d’altra parte, si può affermare che le esigenze pubbliche hanno ormai finito con il
corrodere le basi e il significato stesso del rispetto della riservatezza nell’ambito del
rapporto privatistico assistente-utente.
Ritengo che spesso, l’assistente sociale si trovi a dover fronteggiare situazioni in cui il
pilastro del principio di segretezza si pone in contrasto con gli interessi, di altri soggetti o
della collettività, e l’impegno alla riservatezza sembra configurarsi sempre meno come
obbligo e sempre più come opzione.
Appare indispensabile riconoscere la necessità di conciliare le esigenze del segreto con le
esigenze della vita moderna che sono portatrici di interessi prevalentemente di natura
pubblica.
Il segreto deve allora essere ritenuto “ciò che non è comunemente noto, che fa
ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e del suo modo di
essere non ovviamente palesi, non destinati comunque all’altrui comune conoscenza”, di
cui il professionista abbia nozione a motivo della sua attività professionale (secondo
un’analogia, che sembra pertinente nell’approccio definitorio alla nozione di segreto, con la
nozione di dati sensibili di cui all’art.22 della Legge n.675/1996).
Il tema della riservatezza, In conclusione deve essere riconosciuto come un dato di fatto:
la regola del silenzio non costituisce più un principio assoluto, ma piuttosto un principio la
cui validità potrebbe definirsi in relazione solo più alle situazioni in cui il cittadino-utente
deve e ha il diritto di far valere i propri diritti.
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RISPETTO DEL SEGRETO PROFESSIONALE E DELLA PRIVACY