CULTURA E VITICOLTURA NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÁ MONTANA GRAND PARADIS IN VALLE D’AOSTA
E NELLA COMMUNAUTE DE COMMUNES LES VERSANTS D’AIME IN TARENTAISE
Premessa
Uno studio integrato sulla viticoltura di due aree così particolari come la Comunità Montana Grand
Paradis (CMGP) e la Communauté de Communes Les Versants d’Aime (COVA) in Tarenteise è un
lavoro impegnativo in generale, che diviene ancor più difficile in un contesto delimitato e specifico
come il progetto ALCOTRA “Vignes et Terroirs”; sono infatti molti gli aspetti da prendere in
considerazione, con il rischio concreto di dimenticarne alcuni o di fornire dati poco significativi o non
aggiornati. Per questo si è tenuto presente l’obiettivo principale del progetto Vignes et Terroirs, che
non è quello di produrre contributi scientifici, ma di fare conoscere ai turisti e ai frequentatori degli
itinerari, alle persone interessate alla “corbeille” dei prodotti delle due comunità e ai giovani delle
scuole che vogliono approfondire aspetti culturali e sociali delle realtà rurali in cui vivono, gli specifici
elementi specifici di interesse della viticoltura, con richiami alle differenze e alle similitudini tra i due
versanti delle Alpi.
Per raggiungere questo obiettivo il testo è suddiviso in pochi capitoli, con un testo semplice e pochi
dati numerici essenziali, che potranno essere facilmente aggiornati dagli Enti e organizzazioni
responsabili di far vivere nel tempo il progetto.
Inoltre si sono inserite alcune notizie utili e linee di sviluppo futuro che potrebbero consentire di
incrementare gli scambi culturali ed economici transfrontalieri tra le Comunità Gran Paradiso e del
Versant d’Aime.
Ringraziamenti
Si ringraziano per il contributo fornito:
Marcello Blanc
Nicolas Ract
Rudy Sandi
Vigneron di Aymavilles
Communauté de Communes Les Versants d’Aime
Esperto di viticoltura valdostana e della sua storia
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La viticoltura nella CMGP
Questa parte della Valle d’Aosta è segnata nel fondovalle dall’inconfondibile linea dei filari, negli
appezzamenti su entrambi i versanti orografici della Dora Baltea.
La presenza del vigneto era significativa anche in epoche remote sul versante sinistro della Dora
Baltea, esposto a Sud, mentre la sua diffusione sulla destra orografica è più recente, e si è potuta
sviluppare anche grazie ai mutamenti climatici, che hanno modificato i microclimi e reso idonei alla
coltura della vite anche le zone che un tempo non lo erano.
Sul versante sinistro della Dora Baltea, i vigneti, esposti a Sud, si trovano fino a quote di 800-900
metri s.l.m., dove confinano con i prati delle aree a pascolo; lungo questo versante la coltura della vite
si alterna a prati e boschi, in prevalenza di latifoglie.
Sulla destra orografica il vigneto ha invece colonizzato in tempi più recenti il versante, esposto a Nord,
sostituendosi nel tempo a prati pascoli e ad altre colture da frutto, come il melo.
Su questo versante raggiunge quote di 700-800 metri s.l.m., dove confina con il bosco misto o a
prevalenza di conifere.
Storia ed economia
La coltura della vite ha avuto e ha ancor oggi un ruolo notevole, sull’economia e, più in generale, sulla
società locale, la sua cultura e la sua storia.
L’epoca pre-romana
Il fondovalle della Dora Baltea è stato per secoli un luogo inospitale, oggetto di alluvioni, frane ed altri
eventi naturali che ne ostacolavano l’antropizzazione.
In quei periodi i primi nuclei abitati in permanenza furono villaggi insediati sui terrazzi dei versanti,
caratterizzati da un’economia di auto sussistenza grazie all’allevamento, prevalentemente brado, del
bestiame e allo sfruttamento dei prodotti del bosco.
Lo scambio di prodotti avveniva quasi esclusivamente tra villaggi vicini, mediante baratto o comunque
con scarso uso della moneta.
Contrariamente a quanto si immagina, i villaggi più stabili e organizzati erano quelli apparentemente
più isolati, situati verso le testate alte di vallata, che grazie a questa posizione geografica potevano
mantenere una ricca rete di scambi commerciali con le popolazioni di oltre confine del Vallese, della
Tarentaise e del Piemonte.
Questo assetto economico e sociale si è mantenuto immutato per secoli, almeno fino all’epoca romana.
L’epoca romana
I Romani, seguendo un modello di insediamenti collaudato in numerose altre situazioni, iniziarono ad
insediarsi stabilmente nei fondovalle collegando i vari campi militari con vie di comunicazione
efficienti e sicure.
A questo scopo realizzarono importanti opere di regimazione delle acque, portando ovunque acque
potabili e irrigue: l’acquedotto romano di Pont d’Aël in comune di Aymavilles, perfettamente
conservato, è l’esempio più evidente di questa tipologia di opere monumentali.
Fino ad allora le popolazioni locali non avevano avuto interesse, né opportunità, di realizzare opere nei
fondovalle, da un lato per mancanza di risorse, ma anche, probabilmente, perché le condizioni di
relativo isolamento consentivano loro una maggiore sicurezza.
Anche se alcuni documenti dimostrano che la vite era già presente nelle regioni alpine, dunque anche
in Valle d’Aosta, in epoche precedenti l’invasione romana, è un fatto che furono i Romani a dare
impulso a questa coltura e lo fecero prima di tutto per avere in loco una produzione di vino sufficiente
a soddisfare le esigenze delle loro truppe, quale elemento fondamentale della loro dieta, dovuto loro
per “contratto”.
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Così, in ogni territorio occupato, i Romani hanno introdotto le tecniche di conduzione del vigneto e le
varietà di uva che avevano selezionato e sperimentato in altri climi e ambienti.
Probabilmente dobbiamo ai Romani la diffusione di vitigni attualmente coltivati sui diversi versanti
delle Alpi, dalla Tarentaise al Vallese, oltre naturalmente alla Valle d’Aosta, vitigni che non a caso
mostrano affinità parentali evidenti, se sottoposti ai moderni test genetici.
Intorno agli insediamenti romani si svilupparono rapidamente dei villaggi stabili, che hanno assunto
nei secoli successivi crescente importanza, fino a diventare i capoluoghi dei tanti nuclei originari
rimasti sui versanti; è il caso di Villeneuve, Sarre, Saint-Pierre, Aymavilles e Arvier, che da piccoli
agglomerati di edifici destinati a punti di sosta o basi del sistema dei trasporti con animali, sono
diventati i centri di scambio commerciale e di servizi che oggi conosciamo.
Con il crescere degli abitanti fu necessario recuperare, intorno ai nuovi abitati, nuovi terreni da
destinare all’agricoltura e fu possibile grazie alle numerose e successive opere di bonifica e
sistemazione superficiale dei conoidi alluvionali, alle prime opere di protezione delle aree esondabili
della Dora Baltea e dei corsi d’acqua secondari, ma anche alle opere di consolidamento dei versanti,
stabilizzati e resi coltivabili grazie alla realizzazione di chilometri di murature a secco che
contenevano, allora come oggi, il terreno vegetale necessario alle colture presenti.
Tra le colture, la vite aveva un’importanza relativa per gli abitanti locali, ma presto, sulla spinta delle
esigenze esterne e dopo avere constatato che il territorio e il clima permettevano buon sviluppo
vegetativo e qualità eccellente delle uve, ha assunto un ruolo essenziale e i vini che ne derivavano
iniziarono ad essere apprezzati anche al di fuori dei confini locali.
Nacque e si sviluppò così una prima embrionale attività commerciale, che raggiunse il suo apice tra il
1000 e il 1500, quando il clima mite favoriva i trasporti e dunque gli scambi transfrontalieri con
Savoia, Tarentaise e Vallese.
L’epoca post-romana
Nei secoli successivi alla caduta dell’impero romano, lo sviluppo della viticoltura non cessò, anzi sono
numerosi i documenti che testimoniano l’importanza commerciale ed economica crescente della
viticoltura e dell’enologia della Valle d’Aosta.
In epoca medioevale si intensificarono gli scambi di materiale viticolo con le regioni vicine,
soprattutto con quelle di Oltralpe (Savoia, Tarentaise e Vallese), scambi che hanno permesso di
incrementare il numero di vitigni coltivati, sia a bacca bianca, sia colorata, e di dare origine a numerosi
vini, prodotti anche per il mercato esterno e non solo per auto consumo famigliare.
A favorire questo sviluppo, oltre alle infrastrutture che rendevano più agevoli i trasporti e gli scambi
commerciali, era soprattutto la presenza di una casta nobiliare attiva, e numerosa, che disponeva di
residenze e castelli in molte parti del territorio; dai primi signori medioevali alla dinastia Savoia,
ognuno di essi ha lasciato segni della propria forza e potere che ancora oggi possiamo ammirare e
visitare nel territorio della Comunità Montana Grand Paradis, come i castelli di Aymavilles, SaintPierre, Villeneuve, Arvier e Sarre.
Altrettanto, se non più importante, fu il ruolo del clero, che disponeva non solo di risorse finanziarie,
ma soprattutto di un ricco patrimonio di conoscenze, utile a dare impulso a nuovi prodotti e nuove
tecniche anche in campo agricolo.
Entrambi questi gruppi sociali mantenevano viva una fitta rete di scambi culturali, ma anche
commerciali, con gruppi omologhi di territori confinanti e questo elemento ha consentito, fin
dall’epoca medioevale, di fare conoscere i prodotti della vigna anche al di fuori dei confini regionali;
come esempio più noto, anche se non relativo al territorio della Comunità Montana Grand Paradis, si
cita il vino passito ottenuto a Chambave da uve Moscato, le cui note dolci e aromatiche erano
conosciute e apprezzate anche presso le corti reali europee.
La crisi del XIX secolo
Le fortune della viticoltura della Valle d’Aosta terminarono bruscamente verso la metà del 1800, per
varie ragioni: clima, fillossera e nuove realtà commerciali.
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Gli effetti del clima sulla diffusione delle viticoltura sono ben documentati e si riferiscono
all’alternanza di secoli freddi, con temperature medie annuali basse e in cui si trovavano le nevi e i
ghiacci perenni a quote inferiori rispetto a oggi; in queste condizioni la viticoltura occupava le zone
meno elevate dal clima più mite.
Ai secoli freddi sono seguiti più volte altri periodi di riscaldamento climatico: si ricorda il lungo
periodo tra il 750 e il 1500, durante i quali si ha notizia della presenza della vite a quote superiori ai
1500 metri s.l.m.
In seguito il clima mutò e le temperature medie si abbassarono tanto che, nel XIX secolo,
l’avanzamento dei ghiacciai impedì alle carovane di muli che trasportavano anche i vini della Valle
d’Aosta, di percorrere i colli che portano al Vallese svizzero e alla Tarentaise francese.
Questa nuova condizione rese più costosi e rischiosi i trasporti e il vino valdostano, fino a quel
momento competitivo con altri vini, particolarmente italiani, perse importanza, anche perché vennero
a mancare risorse finanziarie importanti; infatti i casati nobiliari valdostani, come gli Challant, che
avevano avuto fino ad allora forti interessi nel commercio vitivinicolo e finanziato il sistema di
trasporto, si estinsero.
Intorno al 1850 giunse anche in Valle d’Aosta la fillossera, un insetto fino ad allora sconosciuto
introdotto a seguito degli scambi commerciali con le Americhe e che aveva già causato la distruzione
di gran parte dei vigneti europei della specie Vitis vinifera, quella delle nostre uve da vino, le cui radici
sono sensibili agli attacchi dell’insetto.
La Valle d’Aosta e in generale le Alpi furono toccate più tardi rispetto ad altre regioni viticole, ma in
pochi anni l’insetto causò la morte di gran parte delle viti; una calamità che ha risparmiato solamente
poche zone vitate isolate e particolari, oltre a quelle a quote più elevate, come l’area della Valdigne ai
piedi del Monte Bianco.
La terza ragione di crisi fu determinata da concorrenza e dazi: ai danni della fillossera, ma più in
generale di molte malattie della vite fino ad allora sconosciute, si aggiungono infatti in quegli anni la
concorrenza di vini di altre Regioni, in particolare piemontesi.
Prodotti in quantità e con prezzi favorevoli, ma anche di buona od ottima qualità, i vini piemontesi e di
altre regioni del nuovo Regno d’Italia, venivano commercializzati agevolmente sia sul mercato interno
che verso la Svizzera e la Francia e, in sostituzione dei difficili e pericolosi colli alpini, superati grazie
a muli o asini, furono utilizzate vie di comunicazione e mezzi di trasporto moderni come la ferrovia.
Inoltre il neonato Regno d’Italia decise di introdurre, dopo il 1861, forti dazi doganali; in questo modo
“l’ancien Duché d’Aoste, devenu désormais un simple arrondissement de la Province de Turin” fu
gravato da un peso insostenibile di costi per la commercializzazione che i producteurs encaveurs
locali, poco organizzati, non riuscirono a sostenere.
A causa di questi elementi negativi, la viticoltura valdostana crollò in breve tempo; a scomparire per
primi furono soprattutto i vitigni di antica coltivazione, tanto faticosamente selezionati nei secoli
precedenti, anche perché, per risolvere il problema della fillossera, i viticoltori utilizzarono le “nuove”
barbatelle: vitigni di varietà europee di Vitis vinifera innestati su una pianta di vite americana
(portainnesto), delle specie Vitis rupestris, V. riparia , V, berlandieri e loro ibridi, il cui apparato
radicale è resistente agli attacchi dell’insetto.
In quel periodo i vignerons avevano scarse conoscenze tecniche, così si affidavano ai consigli dei
medesimi commercianti di barbatelle, che vendevano il materiale di propagazione di cui disponevano;
in genere si trattava di varietà diverse, purché facili da innestare e resistenti, ma quasi mai di varietà
locali; per questa ragione i vigneti post fillossera erano costituiti da vitigni non locali, ma provenienti
prevalentemente dal vicino Piemonte.
Solo il Petit rouge mantenne in quegli anni una discreta presenza, soprattutto nel territorio della
Comunità Montana Grand Paradis.
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Il XX secolo e la ripresa della viticoltura
Agli inizi del 1900 la superficie coltivata a vite era passata dai 4.000 ettari del periodo di maggiore
diffusione del secolo precedente, a poche centinaia, per la maggior parte destinati all’autoconsumo
famigliare.
Bisogna attendere la fine della seconda guerra mondiale per registrare una ripresa dell’attività viticola.
Un contributo essenziale per ricostruire una piattaforma ampelografica (i vitigni presenti e coltivati
nella zona) idonea a dare vini di buona, costante e regolare qualità nel clima valdostano, è venuto dopo
gli anni ’50 per l’azione del canonico Joseph Vaudan, direttore dell’ Institut Agricole Régional.
Grazie alla sua esperienza, maturata nel vicino Vallese svizzero, Joseph Vaudan introdusse in quegli
anni alcune varietà idonee all’ambiente, che potevano dare origine a vini di elevato valore enologico e
apprezzati dal mercato, vitigni che la vicina Svizzera aveva selezionato, con cura e da tempo, nelle
aziende sperimentali delle sue scuole agrarie.
Alcuni vitigni erano di nuova introduzione in Valle, come Gamay, Pinot noir e blanc, Petite Arvine,
Syrah, altri erano già presenti in passato in Valle d’Aosta, come il Pinot gris, qui chiamato Malvoisie,
o l’Humagne rouge, omologo del Cornalin.
Gli altri vitigni “locali” di antica coltivazione, come Fumin, Mayolet, Bonda, Roussin, Premetta, Prié
rouge (Premetta) e blanc (Blanc de Valdigne), Vuillermin, ritrovati in pochi individui in varie parti
della Regione sono stati a poco a poco moltiplicati (grazie a vignerons appassionati e all’attività
dell’Institut Agricole Régional e di altri Centri di Ricerca, con il sostegno della Regione Autonoma
Valle d’Aosta), reintrodotti nei vigneti e infine utilizzati per vini di qualità in epoca molto recente, a
partire dagli anni ’80.
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Confronto tra la viticoltura nella CMGP e nella Communauté de
Communes Les Versants d’Aime
La coltivazione della vite ha avuto e ha un ruolo determinante nel territorio di fondovalle della CMGP,
con importanti effetti sul paesaggio, la storia, l’economia, ma soprattutto sulla vita sociale e sulla
cultura locali.
I comuni della Communauté de Communes Les Versants d’Aime (ex COVA), nel territorio della
confinante Tarentaise, hanno avuto nei secoli uno sviluppo simile a quello della Comunità Montana
Grand Paradis, ma negli ultimi decenni le due comunità hanno intrapreso percorsi diversi, in relazione
alle diverse condizioni economiche e istituzionali dei due paesi.
Sotto l’aspetto geomorfologico e, in parte, climatico, il territorio dei Versants d’Aime è molto simile a
quello della CMGP, con un fondovalle a 500-600 metri di quota e vallate laterali che risalgono oltre il
limite dei boschi; in queste vallate le piccole comunità locali agro-pastorali si sono trasformate negli
ultimi decenni in centri turistici di importanza mondiale, soprattutto nella stagione invernale.
Anche la storia di questa parte del territorio della Tarentaise è per molti aspetti sovrapponibile a quella
della Comunità Montana Grand Paradis; del resto le due comunità sono state unite per molto tempo
sotto il Regno dei Savoia e dunque hanno avuto un quadro normativo e giuridico identico.
Dopo la nascita del Regno d’Italia e la cessione della Savoia alla Francia, le due comunità hanno
inevitabilmente seguito percorsi diversi.
Sul lato italiano lo sviluppo è stato lento e graduale; nel territorio della Comunità Montana Grand
Paradis il settore industriale non ha mai avuto un ruolo significativo rispetto agli altri settori e il settore
turistico si è sviluppato principalmente per l’azione di imprese famigliari.
Tutto questo ha favorito l’agricoltura, basata anch’essa su piccole aziende a conduzione famigliare,
che hanno potuto svilupparsi grazie anche al sostegno della Regione Autonoma.
Accanto all’allevamento bovino da latte per la produzione di Fontina DOP, si sono così sviluppate
anche la viticoltura e la frutticoltura, passata da un ruolo di autoconsumo ad attività da reddito, grazie
alla nascita di cooperative e imprese private di produzione di vini DOC che danno uno sbocco di
mercato alle uve dei piccoli produttori locali.
Se le attività turistiche hanno avuto uno sviluppo più limitato rispetto al versante francese, questo è
dovuto alla situazione geomorfologica più sfavorevole del versante valdostano, ma anche all’assenza
di imprese del settore turistico di dimensioni economiche rilevanti.
Un ruolo particolare ha avuto il Parco Nazionale del Gran Paradiso, una realtà di antica costituzione
che ha generato dei vincoli, ma anche molte opportunità in campo turistico.
Sul lato francese la vallata di Aime e dei comuni limitrofi è stata invece caratterizzata dalla nascita e
dallo sviluppo di stazioni turistiche invernali di importanza economica e rilievo mondiali, create da
importanti realtà economiche del settore estranee al tessuto sociale locale, che tuttavia hanno garantito
uno sviluppo economico importante, anche nei settori dell’indotto (edilizia, servizi, ecc.), con
profonde modificazioni del tessuto sociale esistente.
In questo contesto di rapidi cambiamenti l’agricoltura ha perduto importanza, ad esclusione
dell’allevamento bovino da latte, che si è comunque mantenuto e sviluppato grazie al suo prodotto
caseario più noto e importante: il Beaufort.
L’insieme di questi elementi fa sì che nel territorio della Communauté de Communes Les Versants
d’Aime (COVA), la viticoltura è ancora oggi una tipica attività rurale non da reddito, orientata a
soddisfare le esigenze delle famiglie e non del mercato; una realtà che tuttavia, dopo lo sviluppo
tumultuoso degli ani ’70-‘80 si sta nuovamente modificando, con il ritorno all’attività agricola, e
soprattutto alla viticoltura, di alcuni agricoltori, anche di giovane età.
L’evoluzione nel tempo della viticoltura è per molti aspetti simile per entrambi i territori della CMGP
e della COVA: in origine è finalizzata principalmente all’autosufficienza, con piccoli appezzamenti a
carattere famigliare in quanto il vino è considerato un alimento e non un prodotto di piacere, e quindi
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con pochi scambi commerciali all’esterno della vallata; i vitigni utilizzati erano allora varietà locali,
alcune delle quali oggi recuperate, altre, forse, perdute per sempre.
Durante lo sviluppo industriale del XIX secolo l’agricoltura si trasforma in attività secondaria per
molte famiglie, impegnate nell’industria: le mutate condizioni sociali e la disponibilità di un salario
cambiano le abitudini alimentari, con un maggiore scambio di prodotti e una dieta più variata, ma la
viticoltura resta ancora legata al consumo famigliare, sia in Tarentaise che nella CMGP.
L’arrivo della fillossera, che distrugge i vigneti esistenti, spinge i viticoltori ad impiegare nuovi vitigni
per i reimpianti, o anche gli ibridi produttori diretti, come Baco, Clinton e Seibel, per dare colore e
corpo a vini altrimenti poco facili da conservare.
Il fenomeno è più evidente sul versante francese, mentre in Valle d’Aosta prevale l’introduzione di
vitigni piemontesi, regione dove i vivaisti hanno già sperimentato la tecnica dell’innesto su portinnesti
di Vitis americana.
Prima della fillossera in Tarentaise erano coltivati, secondo Pierre Tochon (1887), 754 ha di vigneto.
La crisi determinata dalla fillossera fu un colpo mortale per la viticoltura ma rese solamente più rapido
un abbandono che era già iniziato a seguito dei movimenti migratori di numerose famiglie della vallata
verso le città, come Parigi: chi restava bastava appena ai lavori dei campi e non poteva certo seguire le
vigne.
Dopo la fillossera bisogna attendere la fine dei due conflitti mondiali per assistere a un vero
cambiamento e all’evoluzione della viticoltura, che riguarda solo gli ultimi decenni.
La coltura della vite si sviluppa in un contesto molto diverso rispetto al passato; lo sviluppo
economico e l’inizio dell’era delle politiche comunitarie, crea nuove opportunità, nuovi mercati, ma
anche numerosi vincoli.
I vignerons e le aziende diminuiscono, anche per la perdita di superfici agricole dovuta allo sviluppo
edilizio e degli insediamenti produttivi artigianali e industriali, ma crescono gli scambi commerciali
grazie alle nuove reti di trasporto; in questo viene favorito il consumo di prodotti non locali.
Questo fenomeno interessa in particolare la comunità Les Versants d’Aime, più che la CMGP, perché
in Valle d’Aosta la viticoltura riprende importanza solo negli anni ’80-90 a seguito della realizzazione,
da parte dell’Ente Regione, di attrezzate cantine di trasformazione collettive, gestite dai vignerons in
forma cooperativa.
Grazie a queste opportunità tornano a crescere le superfici coltivate a vite, recuperando naturalmente i
vigneti quasi abbandonati, e le cantine possono mettere in commercio volumi importanti di vini di
qualità, che entrano nel mercato turistico e nel sistema della ristorazione.
Queste infrastrutture cooperative sono assenti sul lato francese, ma anche in questa situazione la
popolazione locale non ha accettato di lasciar morire la tradizione e la cultura del vigneto.
Nuove iniziative associative hanno consentito un lento ma costante ritorno della viticoltura in
Tarentaise, prima con le iniziative dell’associazione “Vivre en Tarentaise”, nel fondovalle di Cevins,
poi con l’associazione “Vignes de Tarentaise”, creata nel 2008 per salvaguardare e recuperare i vigneti
del “Versant du soleil” che si elevano fino a oltre 900 metri slm tra Moûtiers e Bourg-Saint-Maurice,
nel territorio della COVA.
L’associazione opera nel campo della formazione e dell’informazione e cerca di coinvolgere tutti, chi
è interessato alla gestione di vigneti, chi vuole solamente aiutare anziani parenti vignerons, chi, infine,
desidera solo“coccolare” la vecchia vite che si arrampica sul tetto della propria autorimessa.
Grazie all’impulso di questa nuova rete di idee la viticoltura non è ancora morta in alta Tarentaise e
anzi, utilizzando le opportunità offerte dal progetto ALCOTRA “Vignes et Terroirs”, è stato realizzato
nel 2011 un locale attrezzato per la trasformazione delle uve (pressoir), da mettere a disposizione dei
viticoltori, singoli o associati.
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Aspetti agronomici e ambientali nella CMGP
Geologia, clima, suoli e interazioni con viticoltura e vini
In questa parte di territorio l’origine dei suoli è prevalentemente da rocce moreniche, metamorfosate
per erosione, trasportate e sedimentate nei secoli da eventi alluvionali.
Ma non sempre è così: infatti la caratteristica collina di Les Crêtes, come altre simili in destra
orografica tra Aymavilles e Gressan, non si configura come un cumulo glaciale di origine morenica,
come si era pensato in passato, ma è una forma residuale della paleofrana di Vetan, che ha dato origine
anche alla conoide di Saint-Pierre e che aveva occupato tutta la valle della Dora Baltea fino alle porte
di Aosta; nel corso dei secoli successivi la successiva erosione ha modificato il paesaggio per dare
origine, all’attuale geomorfologia.
A conferma di questa tesi vi è il fatto che questi rilevi sono composti di calcescisti che hanno dato
origine a un suolo calcarei e a reazione basica, mentre gli gneiss di origine morenica sono
generalmente acidi.
Si tratta di suoli generalmente poveri, sciolti, poco dotati di sostanza organica, in una parola poco
fertili, ma sui quali la vite può prosperare grazie alla sua capacità di sviluppare grandi apparati radicali
che esplorano senza ostacoli il suolo a profondità insospettate.
Fattori che rendono il territorio particolarmente adatto alla viticoltura:
• origine dei suoli che, derivando da rocce moreniche metamorfosate per erosione, hanno dato
origine a suoli poco fertili, ma sui quali la vite può prosperare grazie alla sua capacità di
sviluppare grandi apparati radicali che esplorano senza ostacoli il suolo a profondità insospettati;
• clima asciutto e ventilato, che riduce il rischio di malattie fungine e quindi riduce la necessità
di interventi di difesa fitosanitaria, mentre la forte escursione termica favorisce la formazione di
aromi e profumi negli acini.
Geomorfologia e paesaggio
Questi due aspetti rappresentano un connubio molto importante nei territori viticoli perché sono in
stretta relazione uno con l’altro: da una parte la morfologia del territorio, intesa come pendenze ed
esposizioni, influenza la predisposizione ad accogliere i vigneti, imponendone l’orientamento e
condizionando le operazioni colturali, dall'altra la presenza dei vigneti disegna un paesaggio molto
particolare con forme e colori caratteristici.
Malgrado il progresso e l’utilizzo di tecnologie di avanguardia, come l’irrigazione di soccorso a
goccia, il paesaggio viticolo di questa parte di territorio, salvo alcune eccezioni, non è mutato di molto
rispetto al passato e il viticoltore contribuisce ancora oggi a disegnarlo.
Il segno più evidente e leggibile della presenza del vigneto è costituito dai filari, che sono sistemati o
nel senso della massima pendenza, oppure lungo le curve di livello; in questo caso oltre alle linee
diritte e verdi dei filari si nota il grigio delle murature a secco che sostengono le terrazze coltivate.
Poiché oggi si sta diffondendo la pratica dell’inerbimento del suolo (in applicazione delle pratiche di
tutela agro-ambientale e delle relative normative cui molti viticoltori aderiscono), il vigneto appare
come un mosaico di appezzamenti i cui filari verdi, orientati in vari modi rispetto alle pendenze,
formano linee continue, sullo sfondo verde, ma più uniforme e sfumato, del terreno inerbito.
Nei vigneti che utilizzano il sistema più tradizionale di lavorazione del terreno, i filari si staccano
invece nettamente sullo sfondo ocra o grigio del terreno nudo.
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Lo scenario complessivo che ne deriva è al tempo stesso affascinante e interessante per la varietà di
intrecci, sfumature e colori. In autunno questo paesaggio si trasforma in esplosione di colori caldi cha
vanno dal giallo, all’arancio al porpora.
La geomorfologia del territorio propone ripidi versanti alla sinistra orografica delle Dora Baltea, con
esposizione sud, e terrazzi alluvionali leggermente declivi sul versante rivolto a nord.
I primi sono ben esposti all’irraggiamento e protetti dalle correnti fredde in inverno, ma anche soggetti
a movimentazioni naturali dell’aria per convezione durante i periodi di forte escursione termica come
la primavera e l’autunno, caratteristiche che favoriscono la maturazione delle uve anche a quote
elevate
I secondi hanno comunque lunghi periodi di esposizione alla luce almeno durante il periodo
vegetativo.
Grazie alla geomorfologia stessa tutta l’area è soggetta a moti convettivi dell’aria per le escursioni
termiche naturali e questo consente, in annate normali, di ridurre il rischio di malattie da funghi.
La stessa escursione termica favorisce la formazione di aromi e profumi negli acini.
Si può affermare che il clima e la morfologia del territorio favoriscono la produzione di uve da vino di
qualità che, accanto ad oggettivi limiti naturali riguardo al tenore in polifenoli, mostrano peraltro
grandi pregi in ordine alla qualità dei profumi dei vini che ne derivano.
La biodiversità e i vigneti
Il territorio della Comunità Montana Grand Paradis si distingue per essere particolarmente ricco in
biodiversità. La grande varietà di specie e la presenza di elementi faunistici e floristici di elevato
interesse naturalistico e conservazionistico ha determinato l’istituzione di uno dei più importanti
parchi italiani, il Parco Nazionale del Gran Paradiso, oltre a numerosi Siti di Interesse Comunitario
(SIC).
Uno di questi, denominato “Castello e miniere abbandonate di Aymavilles”, si trova in località
Pompiod ed è facilmente osservabile dalla zona dei vigneti che si sviluppano intorno a Les Crêtes.
Si tratta di una parete rocciosa dove sono ancora ben visibili le gallerie scavate per l’estrazione di
calcare con cui veniva prodotta la castina adoperata per la produzione della ghisa, che avveniva
nell’acciaieria Cogne di Aosta.
L’interesse scientifico di queste antiche miniere è determinato dal fatto che esse sono attualmente
utilizzate come sito di svernamento per almeno 8 specie diverse di Chirotteri: in nessun altro sito, sul
territorio italiano, risulta accertata la presenza di un numero così elevato di specie di pipistrelli
ibernanti.
Va inoltre sottolineato che le miniere in questione ospitano in inverno numerosissimi esemplari di
Rhinolophus ferrumequinum: si tratta della più grande colonia svernante dell’Italia Nord-occidentale.
Il sito è ecologicamente collegato con la Cattedrale di Aosta dove la colonia di Rhinolophus
ferrumequinum va a riprodursi e con il Castello di Aymavilles, unico sito riproduttivo noto in Valle
d’Aosta per la specie Myotis myotis.
Le abitudini notturne e schive dei pipistrelli ne hanno a lungo limitato la conoscenza, creando nei loro
confronti un alone di mistero se non addirittura, a volte, di repulsione; in realtà questi piccoli
mammiferi hanno una grande importanza ecologica e per tale ragione sono tutelati dalle Direttive
europee.
Le specie presenti in Italia sono tutte insettivore e contribuiscono al corretto equilibrio ecologico
mantenendo sotto controllo le popolazioni di insetti, ivi comprese quelle dannose per l’agricoltura.
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I vitigni coltivati nella CMGP
“Un cépage est une variété de plant de vigne, ou raisin. Tel cépage déterminé constitue l'une des
composantes d'un terroir viticole”.
Da questa frase, tratta dal sito ”Vins de Savoie”, si nota il legame stretto, indissolubile, tra il concetto
di “terroir” e i vitigni in esso coltivati; anche per questo la gamma di vitigni coltivato in un territorio è
così importante a definirlo e descriverlo.
È un fatto che la viticoltura originaria del territorio della CMGP è stata storicamente caratterizzata
dalla coltivazione quasi esclusiva di varietà a bacca nera.
Tra queste la più diffusa, non solo nell’area vitata della CMGP, ma in tutta la Valle d’Aosta, è ancora
oggi il vitigno Petit rouge, le cui buone caratteristiche enologiche ne fanno il capostipite tra le uve da
vino di qualità nella CMGP.
Ma numerosi erano gli altri vitigni a bacca colorata, come Petit rouge, Vien de Nus, Premetta Fumin,
Cornalin, Mayolet, Vuillermin, Neyret, Ner D'ala, Neyret, Bonda, Roussin alcuni dei quali quasi
scomparsi, altri riscoperti e valorizzati, tanto che oggi danno il loro nome e vini “varietali” noti e
apprezzati non solo in ambito locale.
I vitigni a bacca bianca esistevano, ma erano più rari e poco coltivati, anzi venivano spesso impiegati
come uva da mensa nel periodo di maturazione, oppure da appassire per utilizzarli in occasioni
speciali, ad esempi a Natale.
Del resto le varietà locali allora conosciute, come il Blanc comun e il Prié blanc, erano poco adatte
alla vinificazione, perché povere in zuccheri e di maturazione eccessivamente precoce; maturavano
cioè quando le famiglie contadine erano impegnate in altre attività più importanti, come l’alpeggio.
Inoltre le attrezzature e i contenitori dell’epoca, esclusivamente in legno, erano poco adatti alla
produzione di vini bianchi, che si presentavano quasi sempre ossidati e pieni di difetti.
Oggi la gamma di vitigni coltivati, la “piattaforma ampelografia”, della viticoltura locale è
profondamente mutata.
Accanto alle varietà di antica coltivazione, quasi tutte a bacca colorata, sono state introdotte a partire
dagli anni ’80, numerose altre varietà tra le quali molte a bacca bianca, come lo Chardonnay, il
Müller Thurgau e la Petite Arvine, destinate alla produzione di vini bianchi di qualità.
Altre varietà a bacca rossa introdotte sono il Pinot noir, il Gamay, il Syrah,
Solo a partire dagli anni ’90 i viticoltori locali hanno avviato un’opera di reintroduzione di antichi
vitigni locali ormai quasi estinti, alcuni a bacca colorata, come i citati Fumin, il Cornalin e il
Mayolet, il Vuillermin, e altri a bacca bianca, come il Blanc commun
Da queste uve si ottenevano in passato pochi vini, comuni e di qualità mediocre.
Solo in alcune aree vitate, particolarmente note in passato e considerate vocate per caratteristiche
microclimatiche, come la zona dell’Enfer di Arvier, si distinguevano per la qualità delle uve e dei vini
prodotti; non a caso il vino più conosciuto, che ha aperto la via a quelli successivamente messi a punto
da produttori trasformatori più preparati, è proprio l’”Enfer di Arvier” che ha ottenuto la
Denominazione di Origine Controllata già nel 1972: un vino prodotto a partire principalmente da uve
Petit rouge, con minima presenza di uve di altri vitigni a bacca nera come il Vien de Nus.
Le zone viticole “storiche”
Nel territorio della CMGP ci sono diverse zone viticole; descriverle tutte è impossibile, ma alcune
sono particolarmente ricche di storia e presentano caratteristiche uniche o particolari.
In questa zone “storiche” l’attività viticola ha resistito anche durante i periodi di massimo abbandono
e, in epoca recente, intorno a queste zone si è sviluppata la “nuova” viticoltura della CMGP.
Quella che segue è una breve descrizione delle zone più note o caratteristiche.
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L’Enfer di Arvier
La zona posta sulla sinistra orografica del territorio di Arvier appena sopra il corso della Dora Baltea,
ripida, esposta a Sud e sovrastata da una grande parete rocciosa, ha un clima così particolare da avere
meritato la denominazione significativa di “Enfer”.
La zona è certamente coltivata da secoli: nel 1312 un documento cita la presenza di una vigna nella
zona dell'Enfer e, secondo altre notizie di cronaca, nel 1494 il vin “de l’Enfer” venne offerto al re di
Francia, Carlo VIII, di passaggio in Valle d'Aosta.
Dopo le difficoltà del periodo della fillossera e delle due guerre mondiali, i viticoltori locali sono
tornati a coltivare la vite nei terrazzi quasi abbandonati dell’Enfer, utilizzando in prevalenza il vitigno
Petit rouge, con grandi sforzi privati e collettivi: nel 1976 è stato portato a termine un programma di
reimpianto che ha comportato la messa a dimora di 22.000 barbatelle.
Dopo il riconoscimento della DOC nel 1972, nel 1978, la cooperativa di viticoltori locali, la Co-Enfer,
vendemmia il suo primo raccolto e produce il suo primo vino DOC, ma in zona operano anche aziende
vinicole private.
Negli anni ’80 è stato realizzato il primo intervento di riordino fondiario su vigneti, che ha interessato
2 ettari, cui sono seguiti in epoca più recente altri lavori di recupero che hanno interessato una
superficie analoga.
Da questi nuovi vigneti, coltivati in gran parte in forma collettiva, proviene oggi la maggior quantità
delle uve vinificate presso la nuova sede, moderna e attrezzata, della storica cooperativa locale, che ha
il merito di aver creduto in un prodotto unico nel panorama enologico locale e nazionale.
La zona di Mont Torrette
Poco a Ovest di Saint-Pierre, a monte dell’abitato principale, vi è una zona rocciosa, un ambiente
xerico, denominato “Torrette” o Mont Torretta.
È un paesaggio molto particolare, con gli storici terrazzamenti di vigneti, delimitati dai tradizionali
muretti a secco, e macchie vegetative di Roverella, Frassino e Pino Silvestre.
L’ambiente asciutto e isolato è favorevole alla presenza di una ricca e particolare avifauna (Sylvia
melanocephala, o Occhiocotto)
Qui il vigneto era presente già nei secoli scorsi, coltivato senza alcun apporto di acqua, se non quella
piovana; questo microclima esaltava le qualità del vitigno Petit rouge e non a caso il vino Torrette era
prodotto utilizzando uve di Petit rouge in purezza.
Les Crêtes di Aymavilles e la torre di avvistamento
Ad Est del Castello di Aymavilles, vi è una collina a forma di basso cono, ben visibile sia arrivando da
Ovest che da Est, alla cui sommità si trova una torre medioevale del 1300.
Da questo punto di osservazione, situato al centro della vallata della Dora Baltea, senza ostacoli alla
vista, si possono osservare numerosi altri castelli oltre a quello di Aymavilles: i castelli di Sarre,
Chatel Argent, Sarriod de La Tour, Saint-Pierre e i più lontani castelli di Quart e di Cly, in territorio di
Saint Denis, oltre che di Ussel in Comune di Châtillon a circa 25 km, di distanza.
Intorno a questa torre di avvistamento, erano già presenti in passato alcuni vigneti storici della località,
esposti verso tutti i punti cardinali perché posizionati in cerchio lungo i dolci pendii della collina.
Oggi il sito è interamente coperto di nuovi vigneti, condotti in modo diverso, a ritto chino o in filari
orizzontali, tanto da formare un mosaico unici e inconfondibile di vigneti in cui sono presenti
numerosi vitigno perché qui il principe dei vitigni locali, il Petit rouge, ha lasciato spazio a nuove
varietà, a bacca bianca come la Petite Arvine, o rossa, come il Syrah.
Villeneuve e Arbonne
La storia della viticoltura del Comune di Villeneuve riguarda i numerosi villaggi che compongono il
Comune, ognuno dei quali ha avuto in passato un’importante superficie coltivata a vigneto.
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Tra molte altre, la zona a vigneto più significativa dep Comune è probabilmente quella lungo la
sponda sinistra della Dora Baltea, denominata Arbonne, cui si accede attraversando la Dora sul ponte
coperto omonimo, unico nel suo genere in Valle d'Aosta.
Il ponte originario, lungo 30m e largo 1,80, era stato costruito nel 1700 e permetteva di collegare il
borgo di Villeneuve, sulla destra della Dora, ai villaggi di Cumiod e Montovert, sulla sinistra;
distrutto da un’alluvione nel 1993, il ponte è stato successivamente ricostruito rispettando le
caratteristiche originarie.
I vigneti di questa zona sono realizzati nella parte meno declive del fondovalle e sul pendio ripido e
terrazzato da muri a secco.
Sulla sinistra orografica della Dora Baltea la vite era presente anche in altre zone, oggi ritenute di
pregio per l’ottimale esposizione a Sud, come Veynes e La Crête, sia in quella più elevata dei villaggi
di Montovert.
Oggi la viticoltura di Villeneuve non ha più un ruolo così importante come in passato, almeno nei siti
storici; si è invece sviluppata un’importante attività viticola con produzione di uve a bacca bianca
destinate a vini passiti, in villaggi a quote più elevate, come Cumiod (oltre 850 m slm), un tempo
posizionati al di sopra del limite della coltura.
Non a caso in dialetto locale i viticoltori dicevano:
“Damòn la tsapalla de Cumioù renque de piquetta”
che letteralmente significa “più in alto della cappella di Cumiod, si ottiene solo “piquetta” (vino
scadente).
Sono da segnalare per importanza anche le vigne sulla destra orografica presso il villaggio di
Champagnolle, ai confini del comune di Aymavilles.
I vitigni della Communauté de Communes Les Versants d’Aime
In epoca pre-fillossera erano diffusi in Tarantasie, come in Valle d’Aosta, molti vitigni cosiddetti
“autoctoni”: nei testi locali sulla viticoltura vengono elencati “l’Hibou et la Douce-noire, qui n'étaient
souvent pas répandus dans les autres vignobles savoyards”.
Inoltre si citano “ la Gouche ou Guy-noir, la Rogettaz, le Rognin, la Grosse-rogettaz, le Belochin et la
Douce-noire grise”
Oggi queste varietà non sono più presenti nei pochi vigneti della vallata dei Versants d’Aime, se non
come singoli ceppi isolati, mentre i pochi vigneti di nuovo impianto si basano su vitigni più diffusi in
ambito regionale, come Mondeuse, Roussanne, Persan, Gamay, Pinot gris et noir, Chasselas Aligoté,
Altesse, Jacquère, Pinot gris, Pinot noir, Velteliner rouge précoce, Chardonnay, Cabernet franc,
Cabernet sauvignon, Merlot et Mondeuse blanche.
Sono ancora presenti nei vigneti più vecchi dei ceppi di ibridi produttori diretti, introdotti in passato
per garantire la produzione perché resistenti alla fillossera, peraltro inadatti a dare vini di qualità.
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La gestione del vigneto
Le forme di allevamento delle viti
La vite è un arbusto rampicante; se viene lasciata crescere spontaneamente, tende ad espandersi con
lunghi tralci striscianti, che si arrampicano se trovano sostegni naturali, come un albero o un arbusto, o
artificiali, come ad esempio il sistema di pali e fili di un vigneto.
Per garantire una produzione regolare e abbondante di fiori e dunque di frutti, l’uomo ha imparato nei
secoli ad “allevare” la pianta in forme diverse, attraverso la potatura e l’utilizzo di vari sostegni
artificiali.
I primi viticoltori hanno dovuto prima di tutto adattare la pianta al clima disponibile e nelle zone di
montagna hanno utilizzato in genere terreni marginali, non adatti alle colture necessarie alla
sopravvivenza, come i cereali e le leguminose, più esigenti in termini di fertilità dei suoli e acqua.
Questi terreni si trovavano sui versanti ripidi esposti a Sud e sono stati coltivati grazie alla costruzione
di terrazzi, sorretti da murature di pietra a secco: in queste condizioni la vite poteva sopravvivere
comunque, grazie al suo apparato radicale profondo ed esteso, ma solo se la pianta era di ridotte
dimensioni e con scarsa vegetazione, in modo da ridurne le esigenze nutritive.
Quando era possibile per la tipologia del vitigno, si utilizzava la forme di allevamento ad “alberello”,
che non necessita di particolari sostegni e che si utilizza ancor oggi in alcuni vigneti, ma in generale i
viticoltori della CMGP hanno scelto di utilizzare il sistema della “pergola”, perché molte uve coltivate
non producono uva sulle prime gemme del tralcio e dunque non si possono adottare potature troppo
“corte” come nel caso dell’alberello.
La densità di impianto
È un numero che esprime il numero di viti, o ceppi, presente su una unità di superficie (ettaro).
In linea generale più elevato è il numero di piantine per unità di superficie, più limitate saranno le
dimensioni delle piante, in competizione per utilizzare le scarse disponibilità di nutrienti del terreno,
ma la competizione, che impedisce uno sviluppo troppo rigoglioso delle viti, favorisce invece
l’accumulo di zuccheri nelle uve: ne deriva come conseguenza, almeno entro certi limiti, un
incremento della qualità dei mosti e dunque dei vini.
Dunque la densità di impianto è considerata oggi un fattore positivo, anche se comporta un costo di
impianto del vigneto superiore per l’acquisto delle piante.
Peraltro i viticoltori moderni hanno anche nuove necessità di avere spazi sufficienti per il passaggio
dei mezzi meccanici e questo comporta un incremento delle distanze tra i filari.
La densità di impianto è dunque un compromesso tra le esigenze delle piante e quelle del vigneron, ma
in alcuni vigneti è ancora superiore ai 7-8.000 ceppi per ettaro.
Le modalità di impianto
Nel passato l’impianto di un vigneto, nel territorio della CMGP, come in tutta la Valle d’Aosta, si
basava sulla tecnica delle ”provane”, termine dialettale per indicare una buca o una fossa, una specie
di solco molto profondo.
I vecchi vignerons raccontano che questa fossa, naturalmente scavata a mano, era profonda circa un
metro e larga almeno 50 centimetri.
Nel suo interno si versavano a strati successivi letame maturo, terriccio, paglia e vegetali sminuzzati, a
volte anche pezzi di cuoio sminuzzati: un “compost” ante litteram, all’interno del quale si piantava un
tralcio di vite che aveva già sviluppato le radici.
Grazie a questo terreno ricco di numerosi elementi nutritivi, la giovane pianta poteva crescere e
sviluppare un buon apparato radicale, fino a raggiungere l’età adulta nella quale le radici si spingevano
autonomamente a maggiore profondità a cercare nuovo nutrimento.
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Per ottenere nuove piante con radici, oppure per allargare la superficie del vigneto esistente, i
vignerons piegavano un tralcio lungo fino a terra e, senza staccarlo dalla pianta madre, lo ricoprivano
per una parte, lasciando poi emergere più oltre la parte apicale con le foglie.
L’anno successivo, nella parte interrata si erano sviluppate nuove radici e dunque una piantina nuova
da mettere a dimora in un altro vigneto. Se invece si voleva ampliare il vigneto già esistente, bastava
lasciare che la nuova vite si sviluppasse sul posto.
Questa modalità di propagazione delle vite si chiama “per propaggine” ed è ancor oggi utilizzata per
altre colture.
Era un metodo efficace e gradito ai vignerons, perché non costava quasi nulla, anche se passavano
diversi anni prima che l’appezzamento fosse completamente coperto dalle viti e dunque garantisse la
produzione prevista.
A partire dalla fine dell’800 questo sistema fu abbandonato a causa della fillossera, che attaccava il
sistema radicale, e i vivai hanno messo a disposizione dei viticoltori un altro tipo di piantine: le
barbatelle, frutto dell’innesto di una porzione di tralcio prelevata da una varietà di vite conosciuta,
chiamata “marza”, su una piantina radicata di vite “americana”, insensibile alla fillossera, che ha la
funzione di “portinnesto”.
Dalla prima si sviluppa la parte fogliare con la relativa produzione d’uva identica alla varietà scelta,
dalla seconda un apparato radicale resistente alla fillossera.
Il nome “barbatella” deriva dal fatto che, quando sono estratte dal terreno per metterle a dimora,
presentano una “barba” di radici.
Le piantine sono messe a dimora nel vigneto definitivo facendo in modo che il punto di innesto resti al
di sopra del piano di campagna, per evitare la formazione di radici da parte della parte di pianta
“europea”, sensibile all’insetto.
Con la diffusione ormai assoluta di questo sistema, il viticoltore ha dovuto cambiare le modalità di
impianto.
In primo luogo, non potendo più porre le viti alla profondità precedente per lasciare in alto il punto di
innesto e volendo comunque avere un vigneto produttivo e piante sane e robuste, è necessario
preparare non una buca profonda, ma tutto il terreno interessato: questo significa movimentare volumi
notevoli di terra.
Si tratta di un’operazione che è possibile in teoria effettuare ancora manualmente, ma a prezzo di
notevole impiego di manodopera e di tempo: per questo, nella realtà operativa, l’impianto ormai si
effettua solo con l’ausilio di macchine specifiche.
Inoltre ogni vite messa a dimora deve oggi essere acquistata.
Questi elementi hanno reso il viticoltore meno autonomo rispetto a questi fattori produttivi e hanno
portato a livelli elevatissimi i costi di impianto dei vigneti.
Cenni sulla potatura della vite
Una vite adulta produce uva su germogli che si sviluppano da una gemma di un tralcio che si è
sviluppato l’anno precedente.
Lo schema è semplice: il primo anno il germoglio erbaceo cresce, sviluppandosi da una gemma, ma
non produce frutto, poi lignifica e diventa “tralcio”; trascorre l’inverno e nel secondo anno le sue
gemme danno origine a nuovi germogli che, questa volta, portano dei frutti.
La potatura è l’azione che permette al vigneron di eliminare il materiale vegetale e i tralci che hanno
già dato frutti, per mantenere solamente i nuovi tralci fruttiferi.
Inoltre serve a gestire la pianta per creare un equilibrio tra foglie e uva: senza un buon apparato
fogliare che produce sostanze essenziali alla pianta, l’uva non potrebbe svilupparsi e maturare, mentre
un eccessivo sviluppo fogliare ostacola la buona maturazione delle uve.
Accanto alla potatura annuale invernale, si è perciò sviluppata una potatura “verde” che consiste
nell’eliminare anche durante la stagione vegetativa le foglie e i germogli in eccesso, per ristabilire
l’equilibrio necessario per avere un’uva di qualità.
Nei secoli l’uomo ha trovato molte soluzioni diverse a questi problemi, regolando la vegetazione non
solo in funzione delle esigenze della pianta, ma anche delle proprie, al fine di lavorare più
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agevolmente, dapprima da solo o con qualche animale da tiro, e in seguito con macchine di varie
dimensioni.
Semplificando, esistono in sostanza due metodi di potatura: “corta” e “lunga”.
La prima consiste nel tagliare i tralci dell’anno precedente lasciando poche gemme, 2 o 3 al massimo,
da cui si svilupperanno altrettanti germogli fruttiferi; la seconda consiste nel lasciare almeno 5-6
gemme sul tralcio, fino a 10 e oltre.
Oltre che per ragioni biologiche (la fertilità o meno delle prime gemme dei tralci), le forme di potatura
più lunghe come il sistema Guyot, si sono diffuse solo in epoca più recente, quando la vite, da coltura
secondaria e marginale, ha iniziato a rappresentare una forma di reddito per le famiglie contadine e
sono migliorate le condizioni sociali ed economiche delle popolazioni rurali.
Infatti il costo di impianto del vigneto, che comprende il complesso sistema di “palizzamento” per
consentire di legare la vegetazione più estesa che la potatura “lunga” comporta, è molto più elevato e
si giustifica quasi esclusivamente con il maggior reddito delle uve raccolte.
Tuttavia esistono e si sviluppano anche forme miste, come il cordone speronato, che è tecnicamente
una forma di potatura corta, ma con un tralcio perenne che viene ancorato a forme di sostegno
identiche o molto simili a quelle necessarie per il sistema Guyot.
Pergola bassa
Nella storia della viticoltura delle CMGP il sistema più diffuso era la pergola bassa, che sfrutta la
capacità della vite di arrampicarsi lungo i sostegni di cui dispone; per questo si realizza un sistema di
ancoraggio dei tralci fruttiferi formato da un reticolo di travi, traverse e longitudinali con o senza fili di
ferro zincato tesi tra gli elementi in legno, una struttura orizzontale sorretta da pilastri verticali, che in
montagna spesso erano in pietra, il tutto a formare una pensilina ad altezza variabile in relazione al
clima locale e agli obiettivi del viticoltore.
In generale i pali verticali sono di altezza ridotta, per mantenere un microclima favorevole alla
maturazione dell’uva al di sotto del piano di vegetazione, ma anche per contenere lo sviluppo delle
piante.
Nei primi anni il ceppo di vite viene lasciato crescere fino a raggiungere la palizzata orizzontale sulla
quale poi i tralci vengono legati e vegetano; i grappoli di uva, che nella vite si formano sui germogli
dei nuovi tralci annuali, scendono per gravità al di sotto del piano della pergola, dove vengono seguiti,
curati e infine raccolti con la vendemmia.
La potatura di una vite allevata a pergola è del tipo “lungo”, perché i diversi tralci che la vite ha
prodotto nella stagione estiva e che produrranno uva l’anno successivo, vengono accorciati, ma
mantengono almeno 4-5 gemme.
Spesso il pergolato era utilizzato come chiusura dell’appezzamento e si sviluppava esclusivamente sul
suo perimetro, mentre al centro venivano coltivati cereali o leguminose, ma questo sistema oggi è in
via di abbandono, rimanendo ancora presente solo addossato ai fabbricati dove però le varietà
utilizzate sono generalmente di uve da tavola e non da vino, e hanno anche funzione di
ombreggiamento.
Alberello (Taille en gobelet)
L’alberello è la forma di allevamento della vite più semplice ed elementare.
Con la potatura “corta” invernale di 2 o 3 tralci bassi, si eliminano quelli che hanno prodotto frutti
l’anno precedente, lasciando piccoli “speroni” con una o due gemme; in questo modo il numero di
gemme per pianta è molto limitato, con bassa produzione di uva.
Questo sistema permette la crescita di pochi germogli robusti che non richiedono sostegno, salvo, a
volte, un palo centrale in legno, un “tutore” al quale legare la vegetazione verde dell’anno.
Inoltre si mantiene ridotta la dimensione delle piante, che perciò consumano poca acqua e sostanze
nutritive; per questo l’alberello è la forma di allevamento tipica dei piccoli vigneti su suoli sciolti,
poveri e sassosi con poca acqua disponibile e non meccanizzabili.
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L’alberello, che non ha elevati costi di impianto grazie all’assenza di strutture di sostegno, è ancora
oggi il più diffuso sistema di allevamento nei vigneti famigliari del versante francese, nei vigneti della
COVA, mentre sul lato valdostano della CMGP non ha mai trovato posto, in quanto molti vitigni
coltivati hanno la caratteristica di avere le prime gemme sterili o poco fertili; il taglio dei tralci troppo
“corto” dell’alberello non garantisce una produzione di uva soddisfacente e per questo si sono diffusi i
sistemi di potatura “lunga” con più gemme per tralcio.
Giovane vite al 2° anno
Vite al 3° anno di con le tre
branche definitive
Vite adulta con i punti di taglio di
potatura su ogni branca
Guyot
La forma di allevamento più utilizzata, con alcune varianti locali, è la potatura “a Guyot”.
Questo metodo prevede che sul ceppo si mantengano ogni anno un piccolo tralcio corto accorciato a 12 gemme (sperone o poudzo), che serve solo a dare origine a tralci da utilizzare l’anno successivo, e un
tralcio fruttifero (capo a frutto o brot), con gemme tra 5 e 9 o più in relazione alla vigoria del ceppo e
agli spazi disponibili.
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Il tralcio che ha prodotto nell’anno precedente viene invece eliminato con la potatura invernale.
Il capo a frutto rimasto, in primavera viene piegato e legato in posizione orizzontale a un sostegno che
può essere un filo o anche una traversa in legno; in questo modo dopo il risveglio primaverile, da ogni
gemma si origina un germoglio che cresce in verticale e che porterà i grappoli.
Questo sistema di potatura richiede dunque un sistema complesso di sostegno della vegetazione che,
insieme alle allineate, dà origine a un “filare”, mentre il termine tecnico viticolo corretto per definirlo
è “controspalliera”, perché accessibile dai due lati.
Vite potata in primavera, prima del
germoglia mento, con un capo a
frutto orizzontale e uno sperone
Vite in autunno prima della
potatura
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Vite in inverno dopo la potatura
con il nuovo capo a frutto e il
nuovo sperone
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Cordone speronato (Taille en cordon)
Il cordone speronato è una forma particolare di allevamento, che si sta diffondendo soprattutto per la
sua praticità e per la facilità delle operazioni di potatura invernale.
In questo sistema il tralcio orizzontale che viene legato ai sostegni non viene tagliato di anno in anno,
ma rimane il medesimo, a volte per tutta la vita utile del ceppo.
Ogni nodo di questo tralcio produce un germoglio e sono questi germogli, che fruttificano di anno in
anno, ad essere tagliati lasciando 1 o al massimo 2 gemme.
Si tratta perciò una potatura “corta” che ha l’aspetto di un Guyot, perché si basa su un tralcio
orizzontale da cui “parte” la vegetazione fruttifera rinnovata ogni anno.
Le operazioni di potatura invernale sono molto più semplici rispetto al Guyot, dove occorre essere
molto precisi e attenti a non eliminare i germogli migliori, perdendo così produzione e danneggiando
la vite, mentre nel cordone speronato ogni germoglio produttivo dell’anno precedente viene
semplicemente accorciato.
La gestione delle vegetazione estiva è invece molto simile a quella del Guyot.
Cordone potato con speroni a 1-2
gemme
Sviluppo vegetativo e produzione
estivi
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Potatura dei nuovi tralci per il
rinnovo degli speroni
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Le sistemazioni dei terreni
I terrazzamenti
Mentre oggi anche il fondovalle è utilizzato per l’impianto dei vigneti, in passato la vite si coltivava
solo sui versanti e questo rendeva necessario sistemare il pendio in modo da rendere agevoli le
operazioni di impianto e quelle colturali.
La sistemazione tipica utilizzata in Valle d’Aosta era quella del terrazzamento che comportava
necessariamente la costruzione di numerosi muri a secco, tanto più alti quanto maggiore era la
pendenza del versante.
In questo modo si ottengono terrazzi regolari e pianeggianti, spesso con leggera pendenza verso valle,
in modo da favorire l’eliminazione dell’acqua meteorica in eccesso.
I terrazzamenti quasi pianeggianti erano adottati per diverse buone ragioni:
♦ dopo la grande fatica per realizzarli, è possibile provvedere alla cura del vigneto con minore
fatica:
♦ il terreno che viene sistemato tra il muro a valle e il versante originario è più profondo e questo
favorisce il buon sviluppo delle radici e delle piante:
♦ le acque meteoriche sono rallentate e questo ostacola i fenomeni di erosione, con minori
quantitativi di terreno vegetale che scivolano a valle ma anche con minore perdita di sostanze
nutritive utili alla pianta.
L’azione di contenimento dell’erosione era ancor più efficace in passato, quando sui terrazzamenti
erano presenti ancora molte pergole basse, con i loro “soffitti” di vegetazione che trattenevano e
rallentavano la forza delle piogge.
Oggi i terrazzamenti non sono stati abbandonati, anzi vengono costantemente ricostruiti, ma spesso si
preferisce ridurre il numero di murature per avere terrazzi più ampi e profondi, caratterizzati però da
maggiori pendenze: su queste superfici è possibile sistemare il vigneto sia in filari orizzontali, a volte
ciglionati, sia nel senso della massima pendenza (a rittochino).
I ciglioni
La sistemazione a ciglioni è stata solo di recente introdotta nei vigneti del comprensorio.
Consiste nel realizzare ripiani poco profondi e relative scarpate in genere inerbite, senza costruire muri
di sostegno
Ogni filare di vite occupa in genere un ripiano e la vite viene piantata sul lato a valle, cosicché il
viticoltore è costretto a operare quasi sempre solo da monte.
Questo sistema ha i vantaggi dei terrazzi, ma non ha costi di costruzione delle murature; non è indicato
per tutti i terreni e comporta comunque costi di impianto elevati per le necessità di usare macchine
specifiche per la movimentazione e la modellazione dei ciglioni.
La sistemazione a rittochino
Si tratta di una sistemazione in pendio in cui le piantine vengono sistemate lungo la linea di massima
pendenza.
Pur essendo la più antica fra le sistemazioni dei terreni collinari, nei vigneti è stata introdotta in epoca
relativamente recente, a seguito della meccanizzazione.
In Valle d’Aosta è stata introdotta anche sull’esempio dei vigneti del vicino Vallese svizzero che sono
quasi tutti sistemati in questo modo.
Il vantaggio principale del rittochino è quello di consentire una migliore meccanizzazione con il
massimo sfruttamento delle superfici disponibili, così come favorisce una buona esposizione delle
piante al sole.
Lo svantaggio è legato al fatto che la velocità di scorrimento delle acque, in caso di piogge
abbondanti, può favorire i fenomeni di erosione.
In una regione povera di precipitazioni come la Valle d’Aosta questo non rappresenta in generale un
grave inconveniente anche perché le misure agro-ambientali sostenute dall’Unione Europea hanno
portato alla diffusione della pratica dell'inerbimento del suolo, che ha effetti positivi non solo sulla
biodiversità, ma anche sul contenimento dell’erosione.
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Aspetti sociali ed economici
Il lavoro del viticoltore
Il viticoltore è sempre stato il perno intorno al quale ruota l’intera filiera ed è il soggetto che possiede
le conoscenze per gestire nel modo migliore le complesse operazioni di cura del vigneto, ma anche per
la manutenzione dei muri a secco, dei pali tutori in legno di castagno, delle stradine di collegamento
tra gli appezzamenti, dei canali di adduzione dell’acqua irrigua.
Malgrado il progresso e l’utilizzo di tecnologie di avanguardia, come l’irrigazione di soccorso a
goccia, il paesaggio viticolo di questa parte di territorio non è mutato di molto rispetto al passato e il
viticoltore contribuisce ancora oggi a disegnarlo.
Le motivazioni che in passato spingevano l’uomo a coltivare la vite erano quelle della necessità di
prodotti utili a migliorare la dieta poco varia delle popolazioni di montagna: oggi sono soprattutto di
ruolo sociale, perché il l’obiettivo del reddito non basta da solo a giustificare un impegno che resta
molto gravoso.
Il vigneron ha un rapporto particolare con la vite, nel quale sentimento e passione hanno un ruolo
prioritario rispetto alla produzione e al suo valore economico.
Non si tratta di retorica, ma di realtà dei fatti; il vigneron passa gran parte del suo tempo in una sorta di
simbiosi con le proprie viti, fin dal momento in cui sceglie il luogo e le varietà da piantare.
Le segue poi con attenzione, anche per essere tempestivo nelle cure che fermano o prevengono le
malattie più comuni e dannose o per apportare acqua di soccorso, quando l’estate è più calda e secca e
rischia di compromettere il raccolto.
Sacrifica, con tanta sofferenza, i grappoli in esubero, per garantire una migliore qualità delle uve e per
ottenere vini con maggiore personalità ed equilibrio.
Questo lavoro costante e attento si svolge principalmente in estate, con temperature elevate, pendenze
spesso rilevanti e pesi da trasportare a spalle.
Pochi dispongono di superfici aziendali di rilievo o di particelle vitate di grandi dimensioni che
giustificano un parco macchine e attrezzi per operare meccanicamente: gli altri sono ancora costretti
ad un grande lavoro manuale, dalla potatura invernale fino alla vendemmia.
Questo lavoro è impegnativo e pesante anche sotto l’aspetto fisico e purtroppo l’età media dei
vignerons è ancora elevata.
Ciò che accomuna tutti è la volontà, insieme a un sano spirito di competizione con gli altri vignerons,
di produrre uve di grande qualità, consapevoli che “il vino si fa in vigna” e non in cantina.
È una filosofia, un modo di vivere la vitivinicoltura non condiviso da tutti, perché la scienza enologica
e la tecnologia permettono oggi di realizzare vini di discreta qualità anche utilizzando uve di non
eccelsa qualità; ma il vino di eccellenza non è solamente un alimento, ma un prodotto che non è mai
separato dalla materia prima, dalle sue origini, caratteristiche e qualità oggettive, che non si può
produrre senza il territorio, con le sue caratteristiche geologiche e di microclima.
In questo contesto l’attività del vigneron è il vero legame, fisico e culturale, che riunisce tutti questi
vari aspetti materiali.
Il concetto stesso di terroir, che comprende quello di territorio fisico e geografico, è tale perché
racchiude in sé anche i vari fattori non materiali che contribuiscono a fare del vino di eccellenza un
prodotto unico, che non si consuma come alimento, ma si apprezza pienamente solo conoscendo le sue
origini, le sue caratteristiche e il contesto economico, sociale e culturale da cui proviene.
Il lavoro del vigneron, con le opere che realizza, le scelte in relazione alla gestione dell’acqua irrigua,
la filosofia con cui affronta e risolve i problemi legati alle malattie della vite, l’atteggiamento verso le
necessità delle biodiversità e dell’ambiente, oltre alla sua capacità tecnica di produrre buone o ottime
uve in condizioni difficili, è il simbolo stesso di questa cultura e per queste ragioni è stato utilizzato il
termine di “viticoltura eroica” per descrivere la viticoltura di montagna, di tutte le montagne del
mondo.
Uno dei segni più evidenti e tangibili di questo “eroismo” sono le terrazze.
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Le terrazze su murature in pietra a secco
Definite come “joyaux du vignoble “, veri e propri gioielli di tecnica costruttiva e del paesaggio
viticolo in particolare, queste autentiche muraglie non nascevano in un solo giorno, ma da lavori
manuali e faticosi che duravano anni e che portavano a stravolgere l’aspetto dei versanti, rendendo
coltivabili pendii che raggiungevano e a volte superavano il 60% di pendenza.
La costruzione di un terrazzo ha inizio, oggi come allora, con uno scavo di fondazione, realizzato
perpendicolarmente al pendio lungo l’ideale linea di livello.
Lo scavo è largo circa 50 cm se si prevede di realizzare un muro di circa 150 cm di altezza, di 70 cm
per muri di circa 2 metri e da 80 fino a 100 cm per muri superiori ai 3 metri.
Se il terreno originale è roccia affiorante, è necessario scalpellarla fino a quando non si è realizzato
uno “scalino” abbastanza ampio da permetter di posare le prime pietre di fondazione, che sono in
genere di forma regolare e di grandi dimensioni.
In questa fase è essenziale realizzare piccole canalizzazioni che permettano di allontanare con efficacia
e rapidamente l’acqua che tende a ristagnare vicino al piede del muro.
Dopo questa fase si può iniziare a posare le pietre sul muro, con la faccia più piana e regolare rivolta
verso l’esterno e quella più irregolare verso l’interno.
Ogni spazio viene riempito con pietrisco di minori dimensioni, terriccio e altro materiale, anche se,
naturalmente, ogni pietra viene scelta con cura per evitare di doverla lavorare con martello e scalpello,
oltre che per avere la minore quantità possibile di sfridi e di pietrisco.
Man mano che il muro sale, diviene meno profondo e, nello spazio tra muro e profilo del terreno
retrostante, che ovviamente è sempre più largo, viene postato altro materiale sciolto per favorire il
drenaggio.
Il muro a secco, infatti, deve la sua stabilità nel tempo non solo alla perfetta posa delle pietre l’una
sull’altra, ma soprattutto agli accorgimenti per evitare che alle spalle del muro si creino della sacche
d’acqua; il muro, apparentemente continuo alla vista, deve essere invece una specie di grande
“colapasta”, attraverso il quale l’acqua meteorica o di irrigazione defluisce senza trovare ostacoli e
quindi senza provocare spinte pericolose e distruttrici.
Nel tempo ovviamente gli elementi drenanti alle spalle del muro tendono a perdere la loro funzione,
perché si accumulano negli interstizi sabbia, terra fine, radici e altri ostacoli.
Per questo le murature a secco necessitano di manutenzione continua e la loro durata dipende molto
dalla maestria dei muratori che l’hanno realizzato.
Lo spazio a tergo dei muri veniva colmato da terreno, in parte era vagliato a mano con setacci e
crivelli per migliorarne la struttura.
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In questo modo, nei secoli, gli agricoltori di montagna hanno “domato” le pendenze e realizzato
chilometri di murature a secco, che a loro volta sorreggono ettari di superfici più o meno pianeggianti
dove, dopo la fatica necessaria per la loro realizzazione, i vignerons potevano finalmente impiantare le
viti e attendere con fiducia di raccogliere i frutti del loro impegno.
Le terrazze sono oggi elementi essenziali del paesaggio e, in riconoscimento del loro ruolo, sono
tutelate dal Piano Territoriale Paesistico e oggetto di incentivi al mantenimento da parte dell’Unione
Europea.
La manodopera necessaria per la loro realizzazione è oggi diminuita grazie alla disponibilità di
macchine di movimento terra agili, di piccole dimensioni e adatte a muoversi anche in piccoli spazi in
pendenza come nel caso in esame, ma la fatica della manutenzione di queste opere è ancora immane e
giustifica pienamente l’appellativo di “eroica” dato alla viticoltura di montagna.
La vendemmia
La vendemmia è il momento finale della stagione estiva, quando il vigneron e la sua famiglia
raccolgono il frutto del loro lavoro.
Come accade per le colture il cui ciclo dura molti mesi, come i cereali, le mele, la frutta in generale o
le patate, la raccolta dell’uva rappresenta anche un vero e proprio rito, che assume aspetti e forme
specifiche nelle diverse aree geografiche, influenzata dalla cultura rurale e dal clima e dalla
geomorfologia del territorio.
Il taglio dei grappoli, la scelta di quelli migliori per scartare già sul posto gli acini non maturi o colpiti
da malattie, la movimentazione dei cesti dalle zone alte del vigneto fino ai mezzi che poi
trasporteranno il raccolto alla cantina, comporta operazioni manuali, faticose e lente che impegnano
molte persone contemporaneamente.
In queste condizioni la vendemmia si trasforma quasi sempre in una festa collettiva, piena di richiami,
canti, battute, scherzi, che si conclude con cene o pranzi nel corso dei quali aneddoti e racconti dei più
anziani vengono ascoltati dai più giovani, che quasi inconsapevolmente li assimilano.
La vendemmia è, prima ancora che un’operazione colturale di scelta dei grappoli migliori, di fatica,
soddisfazione o delusione per la qualità delle uve raccolte, un evento culturale di grandissima
importanza sociale.
La scelta del momento migliore per vendemmiare si basava un tempo sul calendario e sulla tradizione
e spesso era stabilita in funzione del tempo libero che lasciava l’attività principale dell’allevamento
prima del ritorno delle mandrie nelle stalle di fondovalle provenienti dagli alpeggi alle quote elevate.
Nella CMGP si diceva ad esempio che
“quan i Fallère l’est ià lo dérì nevì, l’est meur lo Priì”
che letteralmente significa ”quando sul Mont Fallère (la montagna a Nord del Comuni di Sarre e SaintPierre) si è sciolto l’ultimo nevaio, è maturo il Prié” (l’uva bianca precoce con la quale si produce, ai
piedi del Monte Bianco, il famoso Blanc de Morgex et de La Salle); questo significa che la
vendemmia si faceva osservando le cime delle montagne, o il calendario, non la qualità enologica
delle uve.
Oggi invece i viticoltori sanno che la vendemmia deve essere fatta nel momento della cosiddetta
“maturità industriale“ dell’uva, un termine poco elegante che significa semplicemente che le uve
devono avere la migliore composizione solo in rapporto al tipo di vino che si desidera ottenere: vini
freschi e fruttati, o vini spumanti, richiederanno una vendemmia non troppo tardiva, per avere un buon
equilibrio tra zuccheri e acidità fissa, mentre vini più importanti e complessi richiederanno uve più
mature, a volte anche oltre i limiti che un tempo erano ritenuti assolutamente invalicabili.
Il termine “maturità industriale” significa che si sceglie di raccogliere in relazione alle esigenze del
vino e non della pianta!
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Il lavoro in cantina
Anche il lavoro in cantina in passato era un rito simile a quello della vendemmia, anche se vissuto in
modo più solitario, perché in genere svolto dal solo proprietario.
Era anch’essa un’attività difficile e faticosa, anche se si svolgeva principalmente durante l’inverno e al
riparo dalle intemperie.
Il vigneron encaveur disponeva di poche attrezzature e poco razionali, le grandi botti e i tini di
fermentazione erano solamente in legno e si trovavano in locali spesso inadeguati, situati al disotto del
livello del suolo o in luoghi naturali come i “barmet”, solo per avere condizioni di temperatura e
umidità più favorevoli alla conservazione dei vini.
Tutte le operazioni erano lunghe e difficili, tanto che negli anni più favorevoli la pressatura delle uve
si svolgeva spesso direttamente nel vigneto, al momento della raccolta, cesto per cesto, in modo da
arrivare in cantina con il mosto liquido, più facile da gestire, ma anche più ossidato e ossidabile; in
caso contrario occorreva pressare le uve nei tini in legno con mezzi rudimentali o con il calpestamento
a piedi nudi, operazione piacevole solo in apparenza, ma molto faticosa.
La mancanza di pompe per mosto e vini, di spazi nei locali, di aperture ampie per eliminare
rapidamente l’anidride carbonica della fermentazione, i contenitori in legno che richiedevano cure
particolari e ripetute, soprattutto quando erano vuoti in attesa della vendemmia successiva, la difficoltà
di provvedere alle semplici operazioni di travaso e chiarifica dei vini, la mancanza di ausili oggi quasi
essenziali, come i lieviti selezionati e gli attivatori della fermentazione, erano elementi che rendevano
complesse e faticose, oltre che, in qualche caso, pericolose, le operazioni in cantina.
Inoltre, molto spesso, i vini ottenuti dopo questi grandi sforzi erano di mediocre qualità, facilmente
ossidabili, poco stabili, alterabili nel tempo.
A partire dalla seconda metà del ‘900, con lo sviluppo economico generale, anche le famiglie
contadine avevano iniziato a conoscere vini di qualità provenienti da altre regioni e non erano più
disposte a consumare prodotti famigliari e genuini, ma spesso con tanti difetti.
Forse anche per questo motivo la nascita di cooperative di produttori, dotate di spazio e di attrezzature
moderne e automatiche, è stata accolta favorevolmente da molti vignerons, i quali hanno preferito
rinunciare a produrre vino dalle proprie uve per conferirle invece alle cooperative o venderle a
trasformatori privati.
Molte delle antiche cantine si sono così trasformate in locali per lo stoccaggio di vini imbottigliati o
altri prodotti agricoli, o in tavernette fresche e accoglienti dove, soprattutto nel caldo periodo estivo, il
proprietario e i suoi famigliari ospitano gli amici e spesso per bere in compagnia un buon bicchiere di
vino prodotto dalla cooperativa con le uve del proprietario medesimo.
In molti di questi locali si trovano ancora vecchie attrezzature e qualche magnifico oggetto in legno,
come le botti usate in passato per stoccare i vini di famiglia o i torchi a vite: piccoli musei,
testimonianza di antichi mestieri e di una cultura del vino e della vite profondamente radicata nei
vignerons della CMGP.
Importanza economica della viticoltura
Come già rilevato, dall’epoca romana sino gli anni’80, la viticoltura è stata soprattutto un’attività
destinata al consumo famigliare, “eroica” per definizione, perché basata sulla messa a coltura di aree
marginali e di difficile accesso, con pendenze notevoli che richiedevano la realizzazione faticosa, ma
magistrale, di grandi superfici di murature a secco.
Nonostante nel corso dei secoli anche la produzione vinicola valdostana abbia conosciuto periodi di
espansione e successo, è solo negli ultimi decenni che si è progressivamente trasformata in attività da
reddito e i vini hanno acquisito notorietà e quote di mercato.
Il primo ed essenziale fattore di sviluppo è stata la possibilità di svolgere l’attività anche senza la
manodopera famigliare, puntando sulla meccanizzazione delle operazioni colturali.
Questo fattore ha però reso necessario adattare alle macchine e agli attrezzi disponibili il sistema
complessivo di gestione dei vigneti e in particolare adottare forme di allevamento e densità di
impianto (numero di ceppi per unità di superficie) più moderne e flessibili.
I filari si sono “allargati” per permettere alle macchine di percorrerli, i fili di ferro orizzontali hanno
sostituito le palificazioni in legno tradizionali, è aumentato il numero di fili per permettere una
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migliore gestione della vegetazione durante la stagione vegetativa e le antiche pergole sono
praticamente scomparse.
Una mutazione quasi obbligata che ha cambiato il paesaggio viticolo e ha comportato un incremento
vertiginoso dei costi di impianto del vigneto.
Lo sviluppo del settore ha potuto però contare anche su adeguate strutture di trasformazione, verso le
quali i viticoltori hanno la possibilità di avviare le loro uve; nel territorio della CMGP operano oggi 2
società cooperative e diverse realtà private (14 nel 2013) che producono vini derivanti unicamente da
uve prodotte in questo territorio.
I vini sono per la maggior parte tutelati dal marchio di qualità comunitario DOC “Vallée d’Aoste”.
I prezzi riconosciuti ai produttori di uve sono generalmente più elevati rispetto ad analoghe realtà
vinicole di regioni vicine come il Piemonte, dove, pur essendo nota e riconosciuta come una delle
migliori realtà enologiche mondiali, il prezzo medio delle uve conferite è quasi sempre al di sotto della
soglia di 1,00 €/kg, mentre nella CMGP i viticoltori vengono remunerati con prezzi al kg che superano
sempre questa soglia fino ad arrivare a oltre 2,00 euro, e anche oltre nel caso di uve destinate a vini
particolari come i passiti.
Questo prezzo elevato costituisce prima di tutto un dovuto riconoscimento al lavoro e alle fatiche dei
vignerons di montagna, ma è anche la conseguenza del fatto che, malgrado lo sviluppo degli ultimi
decenni, il mercato dei vini valdostani resta di dimensioni trascurabili rispetto a quello complessivo
italiano; un’offerta ridotta e una domanda che resta sostenuta.
La tabella che segue fornisce i dati salienti riferiti alla CMGP:
superficie totale a vigneto
n° particelle vitate
superficie particellare media
particella vitata di maggiori dimensioni
n° particelle <= 200 m2
n° vignerons
130,08 ha
2 480
525 m2
22 000 m2
715
283
Come si può notare il numero complessivo di viticoltori è di 283, che coltivano 130 ettari di vigneto,
con una superficie media per particella vitata di soli 525 m2. La frammentazione è ancora un limite
molto penalizzante, tanto che circa il 30% delle particelle catastali non raggiunge i 200 m2.
Solo una parte dei vignerons produce per il mercato e conferisce le uve a cooperative o privati, ma
sono ancora molti quelli che producono e trasformano per uso esclusivamente famigliare.
Non vi sono dati aggiornati che distinguano le superfici destinate al mercato e all’autoconsumo1,
tuttavia, tenendo conto che nella Regione Valle d’Aosta i vini da tavola sono pressoché sconosciuti e
dunque la quasi totalità dei vini immessi sul mercato è a Denominazione di Origine, nella CMGP si
stima una produzione di 7-800.000 bottiglie l’anno.
Il mercato dei vini
Negli ultimi anni la domanda di vini di qualità è stata sostenuta e ancor oggi non si avvertono segnali
di flessione, anzi è prevedibile un ulteriore sviluppo, perché negli anni a venire entreranno in
produzione nuovi vigneti.
Questo incremento di produzione potrà essere sostenibile a condizione che i consumatori, per poter
apprezzare i prestigiosi vini della CMGP, conoscano in modo approfondito la storia, le origini, le
caratteristiche della viticoltura eroica del territorio e i prodotti della loro trasformazione.
1 È noto il dato regionale, ma non è disponibile quello riferito al solo territorio della CMGP.
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I vini della CMGP
I vini della CMGP sono per la maggior parte riconosciuti come vini DOC.
Esiste una sola DOC regionale, il Valle d’Aosta DOC, che comprende numerose possibili sottodenominazioni; tra queste vi sono i vini a denominazione territoriale, che richiamano una zona
specifica, come l’Enfer o il Torrette, i vini con indicazione di vitigno, come il Petit rouge, il Fumin e
altri ancora.
Inoltre vi sono vini classificati in base alle modalità di raccolta delle uve (vendemmia tardiva) o
ancora di trattamento delle stesse, come i vini passiti.
In questa sede è impossibile elencare tutti i vini prodotti nella CMGP, ma solo dare uno schema
riassuntivo del vastissimo panorama enologico presente, a partire dai vini a denominazione territoriale.
Enfer di Arvier
La sua zona di produzione coincide con il comprensorio di Arvier e i vigneti sono coltivati
nell’anfiteatro naturale già descritto, caratterizzato da un forte irraggiamento solare, da cui deriva
l’appellativo di “inferno”.
L’Enfer di Arvier è ricavato per almeno l’85% da uve Petit rouge e per la parte restante da altri vitigni
autorizzati a bacca rossa, principalmente il Vien de Nus, il Neyret, il Dolcetto, il Pinot nero e il
Gamay.
Il vino è di colore rosso rubino intenso che, con l’invecchiamento, tende al granata; ha un gusto secco
e vellutato, con retrogusto a volte leggermente amarognolo.
La gradazione alcoolica oscilla in genere tra gli 11,5° e i 12,5°.
Torrette
La sua zona di produzione è la più vasta tra le DOC di zona e interessando undici comuni di cui Sarre,
Saint-Pierre, Aymavilles, Villeneuve ed Introd sono nella CMGP.
Il vino prende il nome dalla zona del Mont Torrette, che si trova a Saint-Pierre al confine con Sarre.
La base del vitigno è il Petit rouge, che deve essere presente in quantità non inferiore al 70%.
Le altre uve sono quelle a bacca nera autorizzate per la Valle d’Aosta e vengono utilizzati in
prevalenza Vien de Nus, Pinot noir, Gamay, Fumin, Dolcetto, Mayolet o Premetta.
Il Vallée d’Aoste Torrette DOC ha un colore rosso rubino intenso con sapore secco e asciutto.
Ha buona struttura e una gradazione alcolica sufficiente a garantire un buon invecchiamento,
soprattutto nella versione Torrette supérieur, che, grazie alla resa a ettaro inferiore garantisce uve più
ricche e di conseguenza un vino più complesso e strutturato, che ben sopporta il periodo di
affinamento più lungo.
La gradazione alcolica è elevata e può superare i 13° alcolici.
Vini con indicazione di vitigno
Nel comprensorio della CMGP si producono moltissimi vini sotto il marchio “DOC Vallée d’Aoste”,
ma anche da tavola con marchio aziendale.
Si tratta di “vini di vitigno” che prendono il nome delle uve da cui provengono e che sono
profondamente influenzati dalle caratteristiche delle uve.
I vini bianchi sono in genere freschi, fruttati, dal sapore asciutto e pieno: a volte, grazie a tecniche
particolari di vinificazione, si presentano complessi, più austeri e ricchi di polifenoli, elementi che li
rendono adatti anche all’invecchiamento, soprattutto quando passano periodi di maturazione nel legno
di barriques o di botti più grandi
Tra questi vini si distinguono:
♦ lo Chardonnay, fresco, profumato, intenso e ricco, un vino che spesso viene prodotto utilizzando
il legno nelle varie fasi della lavorazione e che, grazie anche a queste caratteristiche, è stato
premiato in concorsi nazionali e internazionali:
♦ il Muller Thurgau, profumato e debolmente aromatico, fresco e giovane, per ché in genere non
migliora utilizzando vasche e botti in legno per invecchiarlo;
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♦
la Petite Arvine, elegante e fine, con un ampio bouquet di profumi e un colore brillante e
piacevole ampio, che si è diffuso anche per la buone caratteristiche di produttività del vitigno.
I vini rossi sono il frutto dell’introduzione di varietà internazionali, ma anche del recupero di varietà
autoctone quasi abbandonate.
In generale, poiché nella zona era presente il Petit rouge, che si consuma preferibilmente giovane e
fresco, i vignerons hanno rivolto la loro attenzione a vitigni che danno mosti più ricchi di estratto e
vini più complessi, in grado di migliorare con il tempo e di affrontare tecniche di trasformazione
particolari, come la conservazione in recipienti in legno.
Tra questi sono degni di nota:
il Pinot Noir, che dà un vino vigoroso e particolarmente caldo, morbido e gradevole, che affronta
bene anche brevi periodi in vasche di legno;
♦ il Gamay, vitigno originario del Beaujolais che dà
un vino di colore chiaro, dal gusto
particolarmente secco, con presenza di tannino;
♦ il Fumin, un vitigno “ritrovato” che in passato veniva usato per “irrobustire” il Petit rouge, e che
dà un vino strutturato, ricco in polifenoli, in grado di migliorare e ammorbidirsi durante
l’invecchiamento, anche in vasche in legno di rovere;
♦ il Cornalin, un altro vitigno “ritrovato”, omologo dell’Humagne rouge del vicino Valais svizzero,
che dà vini asciutti, secchi, colorati, con profumi fini da scoprire con attenzione;
♦ la Premetta, un vitigno precoce, come dice il nome, parente prossimo, a bacca colorata, del Prié
blanc a bacca bianca, che dà un vino rosato naturale, asciutto, fresco e molto gradevole se bevuto
giovane.
♦
L’introduzione di nuovi vitigni è stata negli ultimi anni tumultuosa e spontanea, perché i produttori di
vini hanno sentito il bisogno di ampliare la gamma della loro offerta ad un mercato sempre più
esigente. Ogni produttore ha perciò affiancato alla coltivazione di Petit rouge nuovi vigneti, con vari
vitigni.
Da questi vitigni è stato possibile ottenere vini secchi, ma anche vini speciali, come quelli a
vendemmia tardiva o i vini passiti.
Alcuni di questi prodotti sono stati premiati non solo in concorsi e manifestazioni specializzate, ma
soprattutto dal mercato e dai consumatori, tanto da essere stabilmente collocati ai primi posti delle
classifiche di riviste specializzate e di esperti stimati e riconosciuti.
Al consumo prevalentemente locale si è così affiancata una discreta attività di esportazione verso i
mercati internazionali e i vini della CMGP sono presenti oggi nelle Carte dei vini dei più noti ristoranti
di Stati Uniti, Francia, Germania e recentemente anche Russia e Cina.
Un successo ottenuto grazie alla tenacia dei vignerons di queste valli alpine, difficili e apparentemente
ostili, ma ricche di opportunità e aspetti positivi.
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ALLEGATI
1. Focus group dei portatori di interesse
2. I barmet di Villeneuve
3. Il vitigno Petit rouge
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Focus group dei portatori di interesse
Vignerons de Aime
Il vigneto e il vino ieri e oggi
Ieri
Vigneto non era fonte di reddito
Il vino non si vendeva né si acquistava, ma si produceva e consumava in famiglia
Era un alimento, soprattutto per i minatori della zona
I vigneti non bastavano per il consumo locale
Si procedeva allora a 3 diverse fermentazioni delle uve:
• Prima fermentazione
lo bon
• Seconda fermentazione con aggiunta di acqua
la “piquette” o “le second”
• Terza rifermentazione con ulteriore aggiunta di acqua
lo “troisième”
Per riattivare la fermentazione, si aggiungeva all’acqua un po’ di sidro di mele ancora ricco di
zuccheri.
Oggi
Non è cambiato molto.
In questa zona della Tarentaise l’economia si è indirizzata quasi esclusivamente sulla realizzazione al
turismo legato agli impianti e piste da sci.
A differenza della VdA, la viticoltura è stata quasi abbandonata, mentre prospera l’allevamento per la
produzione di latte e formaggio Beaufort.
Non ci sono oggi nella zona della COVA produttori che trasformano per il mercato.
Negli ultimi 20 anni non erano più stati piantati vigneti.
Dal 2011, grazie al programma transfrontaliero ALCOTRA, è disponibile un piccolo locale per la
trasformazione e l’imbottigliamento a disposizione dell’associazione dei vignerons locali che
intendono provare a organizzarsi per una futura attività anche commerciale.
Zone di produzione
Non esistono toponimi specifici per aree vitate, dunque una denominazione per il vino locale che viene
chiamato in termine dialettale “paché”.
Le zone vitate erano in passato quelle più vicine alle chiese o ai terreni dei signori del medioevo,
almeno fino alla rivoluzione francese.
Tecniche di realizzazione del vigneto
I vigneti si facevano nelle zone più difficili e ripide, per non occupare suolo destinato a foraggi e
cereali.
Terreno
Il terreno locale è costituito da argillo-calcare con materiale fine e rocce di origine morenica.
Si scavava questo substrato, realizzando, se necessario, muri di contenimento in pietra a secco
ottenendo appezzamenti in leggera pendenza e non pianeggianti: per questa ragione i muri sono in
genere meno alti rispetto alla Valle d’Aosta.
Fertilizzazione
Non si usava quasi mai letame perché i terreni di origine morenica sono sufficientemente dotati di
sostanze nutritive.
Acqua
Nessun apporto di acqua perché il clima è più piovoso che in VdA.
I
CULTURA E VITICOLTURA NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÁ MONTANA GRAND PARADIS IN VALLE D’AOSTA
E NELLA COMMUNAUTE DE COMMUNES LES VERSANTS D’AIME IN TARENTAISE
La sola acqua presente nei vigneti, raccolta in piccoli serbatoi, è quella per preparare le miscele
antiparassitarie.
Attrezzi, animali, mezzi di trasporto
Attrezzi
L’attrezzo impiegato era la ZAPPA almeno fino all’arrivo dell’argano a motore
Il suolo è prevalentemente lavorato e non inerbito
Gli attrezzi venivano portati nel vigneto di volta in volta e per questo ci sono pochi ripari artificiali
(“sarto”)
Animali
Non era consuetudine utilizzare il lavoro animale nel vigneto.
Trasporti
I trasporti all’interno dei vigneti venivano e vengono ancor oggi effettuati a spalle.
Solamente per il trasporto delle uve vendemmiate si usano piccoli automezzi motorizzati, anche
perché la viabilità è limitata.
Sistemi e forme di allevamento
Sistemazione
Il vigneto è generalmente sistemato a rittochino con i ceppi allevati ad alberello
Questo sistema, ancora prevalente, permette:
• di recuperare il terreno che scivola a valle per riportarlo a monte dell’appezzamento;
operazione che era manuale, ma che oggi si effettua con l’argano;
• un agevole movimento intorno ad ogni singolo ceppo per effettuare le diverse operazioni
colturali e la vendemmia, grazie all’assenza di sostegni orizzontali.
Più rara è la sistemazione a filari, con pali di testata in legno di castagno e sostegni orizzontali di legno
vario, fil di ferro o misti.
Potatura
La forma di allevamento e potatura era ed è ancor oggi il « gobelet », con palo centrale per il sostegno
della vegetazione annuale.
Nei vigneti più recenti si utilizza la potatura lunga del sistema Guyot o suo adattamento locale.
Vitigni e portinnesti
Vitigni
Un tempo erano coltivati molti vitigni autoctoni: Hibou, Douce-noire, Rogettaz, Rognin, Grosserogettaz, Belochin e Douce-noire grise.
Dopo la fillossera vennero introdotti vitigni ibridi da incrocio interspecifico (Plantet, 54-55) che sono
ancora oggi utilizzati per la loro resistenza e produttività.
Attualmente si utilizzano, nei pochi reimpianti, vitigni diffusi in ambito regionale come Gamay,
Merlot, Gamaret, Douce noire, Mondeuse noire, Persan e Pinot noir tra le uve nere, e Altesse,
Jacquère, Chasselas tra le uve bianche.
La Mondeuse blanche è utilizzata nei pergolati per produrre uva da mensa.
Barbatelle e materiale di propagazione
I vignerons utilizzano ciò che trovano sul mercato, non esiste una scelta preordinata e un programma
specifico di reimpianti.
Portinnesti
Non sono disponibili dati specifici per il passato, ma oggi il portainnesto più utilizzato è l’SO4.
Gli scambi con la Comunità Montana Gran Paradis
Non si ricorda alcuna forma di scambio specifica nel settore viti-vinicolo con la Comunità Montana
Grand Paradis.
II
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E NELLA COMMUNAUTE DE COMMUNES LES VERSANTS D’AIME IN TARENTAISE
Proposte e suggerimenti
I vignerons della COVA sanno che la viticoltura locale è ancora fortemente limitata e chiedono una
collaborazione con la Valle d’Aosta, soprattutto per valorizzare il loro piccolo locale di vinificazione e
per avviare a Aime e dintorni una piccola ma solida attività di produzione a fini commerciali.
Per questo si ritiene utile avviare contatti per ottenere alcuni quintali di uve valdostane da vinificare
per mettere in commercio un vino transfrontaliero, da denominare secondo convenienza (in ipotesi non
si ritiene utile l’AOC, dunque si potrebbe utilizzare la denominazione “vino da tavola” con nomi di
fantasia).
Le modalità di collaborazione sono da concordare, ma l’obiettivo è quello alimentare il paniere dei
prodotti enogastronomici delle due comunità (progetto Interreg-Alcotra) e di valorizzare il sito di
trasformazione di Aime.
Vignerons dalla Comunità Montana Grand Paradis
Il vigneto e il vino ieri e oggi
Ieri
Il vigneto era un’esigenza e spesso i vigneti non erano specializzati, ma solo coltura secondaria, o
meglio il contorno di prati, orti e altre colture principali.
Oggi
Il vigneto è per molti un’attività da reddito.
Zone di produzione
Non sono stati forniti particolari toponimi, se non il nome dei villaggi presso i quali i vigneti
sorgevano, oppure quelli, noti e riconosciuti da secoli, delle zone più vocate: Enfer di Arvier, Les
Cretes di Aymavilles, Mont Torrette di Saint-Pierre.
Tecniche di realizzazione del vigneto
Si realizzava quasi solamente sulle terrazze e sui versanti; non esisteva allora il rittochino, troppo
ripido e faticoso e poi, quando è stato introdotto, ha avuto effetti negativi sulla “bruciatura” dell’uva
(P.rouge).
All’impianto la distanza tra un vitigno e l’altro era di circa 45 centimetri sulla fila.
Murature e terrazzi
Le tecniche di muratura a secco venivano tramandate di padre in figlio da secoli
I muri a secco stavano su non solo perché eseguiti bene ma anche “perché i vigneti non erano bagnati
(irrigati)” dunque non c’era spinta di acque se non quelle meteoriche.
Terreno
Il vigneto si faceva “dove il terreno era brutto!”
Fertilizzazione
Per fertilizzare i suoli aridi e poveri si trasportava sul posto una miscela di letame maturo con residui
vegetali vari.
Acqua
Per fare attecchire le viti si portava un po’ d’acqua nei primi anni alle piantine, ma poi alla vita del
vigneto “ci pensava la pioggia” mentre oggi ci sono impianti a goccia.
Attrezzi, animali, mezzi di trasporto
Attrezzi
L’attrezzo era la zappa che è stata utilizzata fino all’avvento dell’argano a motore.
Questo attrezzo ha anche favorito lo sviluppo dei vigneti lungo la massima pendenza (rittochino)
prima troppo faticoso.
III
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Animali
Si utilizzavano, ma raramente, muli affittati a giornata con il “conducente”, come oggi si fa con altri
attrezzi costosi.
Trasporti
I trasporti nel vigneto di letame, acqua per i trattamenti, pali e sostegni da sostituire, uve vendemmiate,
e altri erano sempre effettuati dalle persone.
Sistemi e forme di allevamento
Potatura
Si coltivava principalmente il Petit rouge, che però non è fertile sulle prime gemme: per questo si
usava una potatura “lunga” e per questo si è diffuso il sistema Guyot e il “gobelet” o alberello non è
mai stato utilizzato
Sistemazione
I vigneti erano quasi sempre realizzati su terrazzi e sistemati a filari trasversali alla massima pendenza,
per poter lavorare in piano con il minor sforzo possibile
In passato si sono utilizzati i pergolati bassi, che garantivano una buona quantità di zuccheri e dunque
un vino più alcolica
Poi sono venuti i “filari” (controspalliera)
I sistemi a potatura lunga richiedono sostegni alla vegetazione annuale
La palificazione verticale era in legno di castagno, “quello migliore era di Pont d’Ael” (a monte di
Aymavilles nella vallata di Cogne), quella orizzontale in legno, ma dell’essenza disponibile al
momento, “tanto si sostituiva ogni volta che serviva”.
Vitigni e portinnesti
Vitigni
Petit rouge
Vitigno che consentiva di produrre un vino di qualità costante
Fumin
“Difficile” da bere in purezza, si mescolava con altri per renderli più “robusti”
Cornalin
Trascurato perché “sembrava non maturasse mai”, fino a quando, grazie agli strumenti
come mostimetri, i viticoltori hanno scoperto che invece era ricco in zuccheri
Bianchi
Nessuno ad eccezione del Prié blanc nelle pergole di fronte alle case, per utilizzarla
come uva da mensa (non per vinificazione)
Passiti
Nessun passito si è tramandato da epoca remota
Barbatelle e materiale di propagazione
La fillossera aveva raggiunto i vigneti di fronte, verso Saint-Pierre, Sarre , ma non quelli di
Aymavilles.
Le barbatelle innestate si usavano perciò solo sul lato sinistro della Dora Baltea, non sul destro dove si
piantavano direttamente le marze di vite vinifera.
Portinnesti
Fin dall’inizio dell’era moderna della viticoltura la maggior parte delle barbatelle erano innestate su
420A o Kober 5BB, i più idonei all’attecchimento (anche se non sempre adatti all’ambiente locale).
La produzione
Il motto di ogni viticoltore era “basta che sia rosso!” nel senso che si badava alla qualità, ma serviva
una bevanda alcolica abbondante, che togliesse la sete durante le dure giornate di lavoro
Per questo motivo si produceva anche la “piquetta”, aggiungendo acqua nella botte dove il vino stava
per esaurirsi, per avere una nuova quantità di bevanda, anche se “meno buona”
Gli scambi con la Tarentaise
Non si ricorda alcuna forma di scambio con la Francia e la Tarentaise in particolare.
IV
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Curiosità
Area del Monte Torrette
Il monte una volta era coltivato a vite solo sulla fascia altimetrica più bassa dove dava davvero dei vini
ottimi; in alto, dove adesso ci sono le vigne, si coltivavano solo cereali.
Vitigni esterni
I rapporto con altre zone viticole erano limitati.
Il solo vitigno che ha avuto un certo successo nel secolo scorso è stato il Dolcetto che maturava
abbastanza bene nei climi della Comunità Montana Gran Paradiso.
I proverbi
Non sono ricordati proverbi particolari.
V
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I barmet di Villeneuve
Il borgo storico di Villeneuve è caratterizzato dalla presenza di tipici locali naturali che sorgono nei
pressi delle abitazioni più antiche.
Si tratta di ampi spazi al di sotto delle grandi rocce a sbalzo che si trovano vicino alle case antiche del
borgo principale.
Sono chiamati barmet e il termine potrebbe derivare dal celtico bal-men, che significa pietra alta,
mentre altri pensano che potrebbe provenire dal latino valva, ossia apertura o finestra.
Un fatto è certo: il toponimo è presente lungo tutto l’arco alpino occidentale, per indicare famiglie
(Balma in Piemonte, Barmasse in Valle d’Aosta), o paesi (Balme), o colli (della Barma) o montagne
(Barma al confine tra il Biellese e la Valle d'Aosta), o ancora villaggi, come Barmasc nel comune di
Ayas.
In ogni caso le grandi rocce a sbalzo hanno una sporgenza tale da permettere di riparare dal maltempo,
pioggia, neve e altre intemperie, sia gli animali che l’uomo; venivano infatti utilizzate spesso come
stalle e come magazzino del foraggio o della lettiera.
Questi luoghi protetti sono caratterizzati soprattutto da una bassa temperatura costante tutto l’anno; per
questa ragione, chiusi da porte e da pareti in pietra per delimitare uno spazio più regolare, sono usati
ancora oggi come cantine naturali per conservare alimenti deperibili e tra questi il vino, che qui veniva
stoccato e poteva conservarsi più a lungo rispetto ad altri depositi.
Anche questa capacità di stoccaggio sicuro, presente solamente in Villeneuve, ha contribuito a far
nascer e crescere in quel comune una più sicura, continua e redditizia attività commerciale verso altri
mercati.
Da quando i viticoltori conferiscono a terzi soggetti le loro uve o dispongono di attrezzature più
moderne ed efficaci per produrre e stoccare i propri vini di consumo famigliare, l’importanza dei
barmet per l’enologia locale è divenuta trascurabile, anche se restano importanti per le famiglie
proprietarie che li utilizzano ancora oggi per conservare altri alimenti, ortaggi, formaggi, tuberi.
Le famiglie tengono molto a queste proprietà, e hanno attribuito ad ogni barmet un nome riferito alla
propria famiglia o a specifiche caratteristiche del luogo.
Dunque questo patrimonio naturale è caratterizzato da una specie di anagrafe specifica e univoca, che
permette di individuare con certezza il luogo di ritrovo o di appuntamento per una serata o per un
lavoro da svolgere insieme: ci si dà dunque appuntamento presso il barmet di una certa famiglia, di cui
spesso non porta il cognome, ma il soprannome di uso comune nella comunità per riconoscerla.
Il barmet è un ambiente unico, ma anche un esempio non comune di architettura naturale, riscoperto
grazie alla Festa, chiamata appunto “Fiha di Barmè”, organizzata a Villeneuve ogni anno, il 16 di
agosto, per fare conoscere principalmente le produzioni enologiche locali, ma anche quelle artigianali
e gastronomiche: miele, formaggi, pane e salumi.
La festa coinvolge tutto il borgo di Villeneuve, ma il luogo in cui raggiunge la sua massima intensità
sono proprio i barmet, dove ogni famiglia proprietaria per l’occasione ospita un viticulteur encaveur e
apre le porte al pubblico; in questa giornata si degustano i vini dei produttori locali, che ottengono così
una vetrina importante, molto frequentata dai turisti, i quali possono richiedere tutte le informazioni
che desiderano.
VI
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E NELLA COMMUNAUTE DE COMMUNES LES VERSANTS D’AIME IN TARENTAISE
Il vitigno Petit rouge
Origini
Come per molti altri vitigni diffusi e coltivati in passato nella Regione Valle d’Aosta e recentemente
reintrodotti e malgrado moderni e approfonditi studi, l’origine e la provenienza del vitigno Petit rouge
non sono ancora definite con certezza.
Questo vitigno è così diffuso e ha tali e tanti legami di parentela genetica con altri vitigni valdostani da
essere considerato “ l’archétype des cépages du Val d’Aoste” (Vouillamoz, Moriondo, Les origines
des cépages valaisans et valdôtains, novembre 2011).
Il primo studioso che si è occupato di ampelografia dei vitigni della Valle d’Aosta è certamente
Lorenzo Gatta, che intorno al 1830, prima dell’arrivo della fillossera che mutò radicalmente il
panorama dei vitigni coltivati, descrive una varietà chiamata “Picciourouzo”, trascrizione del nome
“Petit rouge” nel dialetto locale, e lo considera come uno dei tanti vitigni di una famiglia più
numerosa, chiamata “Orious”.
Tra tanti “fratelli” con diverse caratteristiche, come l’Oriou voirard, l’’O. curaré, l’O. lombard,
l’O.gris, era coltivata anche una varietà con gli acini di dimensioni più piccole, che alcuni chiamavano
“Oriou picciou”; secondo il Gatta questo è il “picciourouzo”, identico al Petit rouge attualmente
coltivato.
Gatta descrive la famiglia degli Oriou come vitigni di buona produttività, resistenti alle condizioni
climatiche dei luoghi, che danno origine a vini piacevoli, ma poco “robusti” e perciò poco adatti
all’invecchiamento.
In epoca successiva anche Giuseppe di Rovasenda, il più noto ampelografo del tempo, si occupò del
Petit rouge: al contrario del Gatta, sosteneva che gli Oriou non erano vitigni diversi di una grande
famiglia, ma un unico vitigno che aveva assunto diverse espressioni in base all’ambiente (fenotipi),
determinando le differenze osservate da viticoltori ed esperti del tempo.
A fine ‘800 lo studioso di agricoltura Bich, valdostano, si interessò invece dell’origine del Petit rouge,
sostenendo che si tratta di una varietà introdotta in Valle d’Aosta dalla Borgogna, senza però
specificare le fonti delle sue informazioni.
Il francese A. Berget, all’inizio del ‘900, riprese entrambi gli argomenti, sostenendo come il Gatta che
esiste una famiglia degli “Orious”, molto simile ad alcuni vitigni coltivati in Francia, ma che sarebbe
arrivata in Francia dalla Valle d’Aosta e non viceversa.
VII
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Oggi che il Petit rouge è ben definito e identificato come varietà ufficialmente riconosciuta, viticoltori
e tecnici ne descrivono anche diverse sottovarietà locali (biotipi), con forme, dimensioni,
caratteristiche un po’ diverse l’una dall’altra, determinate dall’effetto di microclimi e ambienti
particolari.
La questione sulle origini della diffusione dei vitigni sui due versanti alpini appassiona ancor oggi
storici e tecnici della vite, (Nicollier, 1974 – G. Moriondo, 1999 e 2001 e altri ancora), ma qualsiasi
opinione a questo riguardo non può negare l’evidenza di un fatto: il Petit rouge è il vitigno più “tipico”
del paesaggio viticolo valdostano ed è “autoctono”, se con questo temine intendiamo il frutto di
secoli di selezione naturale uniti al determinante intervento dei viticoltori.
La descrizione ufficiale del vitigno è ancora oggi quella proposta da Dalmasso e Reggio (1964) nella
Monografia pubblicata allora dal Ministero dell’Agricoltura e delle foreste, peraltro confermata e
meglio precisata da recenti osservazioni di G. Moriondo (1999 e 2011).
Il Petit rouge è stato ammesso al Registro Nazionale delle varietà di vite il 25 maggio 1970 e
il Decreto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 17 giugno del medesimo anno.
Caratteristiche
Il Petit rouge viene così descritto nella Monografia pubblicata dal Ministero:
Foglia
Di grandezza media, cordiforme, a tre, a volte cinque, lobi, con seno peziolare a lira quasi chiusa,
seni laterali (superiori) poco profondi, inferiori quasi mancanti, pagina superiore glabra, inferiore
leggermente setolosa, con radi peli lungo le nervature, lembo piegato a gronda o a coppa, denti
piuttosto minuti, colore del lembo verde cupo.
Picciolo di lunghezza media o corto, piuttosto grosso.
Colorazione autunnale delle foglie giallo-rossastra (con prevalenza del rosso).
Grappolo
Di grandezza media, non molto grande (da 15 a 20 cm), chiuso, di forma tronco-piramidale, con due
ali.
Acino piccolo, rotondo, regolare, buccia con molta pruina, di color bluastro-violaceo intenso, sottile e
tenera, con succo incolore, dal sapore semplice e dolce.
Uno o due vinaccioli a forma di pera, piuttosto grossi.
Tralcio legnoso robusto, ma di lunghezza media, a sezione circolare, con nodi poco evidenti,
lunghezza degli internodi media, di color bruno con punti grigi.
Fenologia
Germogliamento: epoca media (20 aprile).
Fioritura: 2a quindicina di giugno.
Invaiatura: 3a decade di agosto.
Maturazione dell'uva: III epoca.
Caduta delle foglie: verso metà novembre.
Diffusione attuale
Il Petit rouge è diffuso in tutta la Valle d’Aosta, a partire dalle aree viticole di Saint Vincent e di
Châtillon, dove esiste il villaggio chiamato “Orioux”, a Est della vallata centrale, fino al comune di
Avise, a Ovest, dove i vitigni a bacca colorata lasciano spazio al Prié blanc dei più alti vigneti vicini
alle pendici del Monte Bianco.
In questa ampia area, che tocca decine di comuni, la zona di maggiore concentrazione del Petit rouge
è quella della Comunità Montana Grand Paradis, dove il vitigno ha trovato ambienti ideali per
esprimere le sue caratteristiche migliori e tra questi ambienti si distinguono la zona dell’Enfer di
Arvier e quella del Mont Torrette di Saint-Pierre, tanto apprezzate da dare il proprio nome ai vini
prodotti con le uve Petit rouge.
VIII
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I vini da uve Petit rouge
Il Petit rouge ha una produzione stabile e abbastanza regolare di uva, in genere di buona qualità; per
questo garantisce, anche in annate poco favorevoli, un vino altrettanto buono.
Resiste bene ai freddi invernali, meno alle malattie più comuni, in particolare all’oidio.
Queste doti sono apprezzate dai viticoltori, ma lo erano soprattutto in passato, quando il vino era
soprattutto un alimento, fonte di preziose calorie per la famiglia.
Oggi, le tecniche moderne a disposizione dei viticoltori, permettono di esaltare altre doti enologiche
del Petit rouge una volta sconosciute, come il profumo inconfondibile.
Poiché i mosti sono generalmente poveri di estratto e con acidità poco elevata, i vini sono quasi
sempre morbidi ed equilibrati, pronti al consumo dopo pochi mesi, ma non si prestano al lungo
invecchiamento, ad esclusione di annate particolarmente positive o di uve prodotte in zone con un
microclima particolare, come l’Enfer di Arvier e la zona del Torrette di Saint-Pierre.
In queste aree - ma ormai, grazie al miglioramento della tecnica viticola, anche in altre zone della
Comunità - si producono uve dalla composizione più complessa e ricca e dai loro mosti si ottengono
vini più strutturati e corposi, che sopportano bene l’invecchiamento anche per alcuni anni.
Tuttavia anche questi vini mantengono il tratto distintivo più rilevante delle uve Petit rouge da cui
provengono: la straordinaria ricchezza di profumi dell’uva, che si trasforma nei vini in un “bouquet”
ampio e caratteristico, inconfondibile, con note floreali di rosa canina e viola e il fruttato dei frutti di
bosco.
Enfer di Arvier e Torrette
Nella storia dei vini della Valle d’Aosta l’Enfer di Arvier ha un ruolo determinante: infatti il vino
prodotto in questa zona di pochi ettari, ha ottenuto fin dal 1972 il riconoscimento della Denominazione
di Origine Controllata, aprendo la strada al successivo sviluppo dell’enologia locale.
In questo luogo straordinario, unico, compreso tra il fiume Dora Baltea e i versanti ripidi esposti a
Sud, protetti a Nord da una alta parete di roccia, si esaltano le caratteristiche positive del Petit rouge
che, insieme a una piccola quantità di altre uve, è la base essenziale di un vino morbido e ricco di
profumi, ma anche in grado di sostenere un certo invecchiamento.
La zona del Mont Torrette, a Saint-Pierre, ambiente difficile per le colture, perché arido, roccioso e
ventilato, è ancor più intimamente legata al Petit rouge: oggi i vitigni presenti nei suoi vigneti sono
molti, ma un tempo i viticoltori locali coltivavano in quest’area esclusivamente il Petit rouge,
ottenendo poco vino, ma complesso e ricco di profumi, colore e sapori, che si conservava a lungo.
Il connubio tra la zona Torrette e il Petit rouge è assoluto, tanto che, quando la Regione Valle d’Aosta
ha chiesto e ottenuto il diritto di dare un’unica denominazione di Origine (Valle d’Aosta DOC) ai suoi
tanti vini, il nome “Torrette” è stato attribuito ai vini prodotti da uve di Petit rouge di un comprensorio
molto ampio, che tocca tutti i comuni, tra cui tutti quelli della Comunità Montana Grand Paradis.
IX
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INDICE
PREMESSA.......................................................................................................................................................... 1
RINGRAZIAMENTI........................................................................................................................................... 1
LA VITICOLTURA NELLA CMGP................................................................................................................. 2
STORIA ED ECONOMIA ........................................................................................................................................ 2
L’epoca pre-romana...................................................................................................................................... 2
L’epoca romana ............................................................................................................................................ 2
L’epoca post-romana .................................................................................................................................... 3
La crisi del XIX secolo .................................................................................................................................. 3
Il XX secolo e la ripresa della viticoltura ..................................................................................................... 5
CONFRONTO TRA LA VITICOLTURA NELLA CMGP E NELLA COMMUNAUTÉ DE
COMMUNES LES VERSANTS D’AIME......................................................................................................... 6
ASPETTI AGRONOMICI E AMBIENTALI NELLA CMGP ....................................................................... 8
GEOLOGIA, CLIMA, SUOLI E INTERAZIONI CON VITICOLTURA E VINI ................................................................... 8
GEOMORFOLOGIA E PAESAGGIO ......................................................................................................................... 8
LA BIODIVERSITÀ E I VIGNETI ............................................................................................................................. 9
I VITIGNI COLTIVATI NELLA CMGP ....................................................................................................... 10
Le zone viticole “storiche”.......................................................................................................................... 10
I VITIGNI DELLA COMMUNAUTE DE COMMUNES LES VERSANTS D’AIME............................... 12
LA GESTIONE DEL VIGNETO ..................................................................................................................... 13
LE FORME DI ALLEVAMENTO DELLE VITI .......................................................................................................... 13
LA DENSITÀ DI IMPIANTO ................................................................................................................................. 13
LE MODALITÀ DI IMPIANTO .............................................................................................................................. 13
CENNI SULLA POTATURA DELLA VITE ............................................................................................................... 14
LE SISTEMAZIONI DEI TERRENI ......................................................................................................................... 19
I terrazzamenti ............................................................................................................................................ 19
I ciglioni ...................................................................................................................................................... 19
La sistemazione a rittochino........................................................................................................................ 19
ASPETTI SOCIALI ED ECONOMICI........................................................................................................... 20
IL LAVORO DEL VITICOLTORE ........................................................................................................................... 20
Le terrazze su murature in pietra a secco ................................................................................................... 21
La vendemmia ............................................................................................................................................. 22
Il lavoro in cantina...................................................................................................................................... 23
IMPORTANZA ECONOMICA DELLA VITICOLTURA............................................................................................... 23
IL MERCATO DEI VINI ........................................................................................................................................ 24
I VINI DELLA CMGP ...................................................................................................................................... 25
Enfer di Arvier............................................................................................................................................. 25
Torrette........................................................................................................................................................ 25
Vini con indicazione di vitigno.................................................................................................................... 25
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 27
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ALLEGATI
FOCUS GROUP DEI PORTATORI DI INTERESSE .......................................................................................................I
Vignerons de Aime .........................................................................................................................................I
Il vigneto e il vino ieri e oggi .........................................................................................................................I
Attrezzi, animali, mezzi di trasporto............................................................................................................. II
Sistemi e forme di allevamento..................................................................................................................... II
Vitigni e portinnesti...................................................................................................................................... II
Proposte e suggerimenti.............................................................................................................................. III
Vignerons dalla Comunità Montana Grand Paradis .................................................................................. III
Il vigneto e il vino ieri e oggi ...................................................................................................................... III
Oggi............................................................................................................................................................. III
Il vigneto è per molti un’attività da reddito. ............................................................................................... III
Murature e terrazzi...................................................................................................................................... III
Attrezzi, animali, mezzi di trasporto............................................................................................................ III
Sistemi e forme di allevamento.................................................................................................................... IV
Vitigni e portinnesti..................................................................................................................................... IV
Curiosità........................................................................................................................................................V
I BARMET DI VILLENEUVE ................................................................................................................................. VI
IL VITIGNO PETIT ROUGE .................................................................................................................................VII
Origini ........................................................................................................................................................ VII
Caratteristiche...........................................................................................................................................VIII
Diffusione attuale ......................................................................................................................................VIII
I vini da uve Petit rouge .............................................................................................................................. IX
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Premessa Ringraziamenti