UNIVERSITA’ POLITECNICA DELLE MARCHE FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN ODONTOIATRIA E PROTESI DENTARIA CLINICA DI ODONTOSTOMATOLOGIA Direttore: Prof. Maurizio Procaccini TERAPIA IMPLANTO-PROTESICA: CONSIDERAZIONI MEDICO LEGALI RELATORE: CHIAR.MO TESI DI LAUREA DI: PROF. MAURIZIO PROCACCINI ALESSIA DELLI CARPINI CORRELATORE: DOTT. BRUNO MARCELLI Anno Accademico 2007 - 2008 INDICE INTRODUZIONE I. PRINCIPI DI IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA 1. L’implantologia osteointegrata 1.1 Pianificazione del trattamento 1.1.1 Diagnosi 1.1.2 Esame intraorale 1.1.3 Esame radiografico 1.1.4 Analisi osso disponibile 1.1.5 Scelta dell’impianto in funzione del sito 1.1.6 Preparazione sito chirurgico 1.1.7 Trattamento post-chirurgico 1.2 Criteri di successo in implantologia 1.3 Fallimenti e complicanze in implantologia 1.3.1 Cause dovute all’operatore 1.3.2 Fase post-chirurgica 1.3.3 La perimplantite 1.3.4 L’esame clinico dell’impianto 1.3.5 Fase protesica I 1 4 7 8 9 12 15 18 21 22 27 30 41 43 50 54 II. CONTENZIOSO MEDICO-PAZIENTE: ASPETTI CLINICI E MEDICO LEGALI 1. La responsabilità professionale 1.1 La responsabilità penale 1.1.1 Elementi costitutivi del reato 1.2 La responsabilità civile 1.2.1 La responsabilità contrattuale ed extracontrattuale 1.2.2 L’obbligazione di mezzi e l’obbligazione di risultato 1.2.3 La ripartizione dell’onere probatorio 1.3 La responsabilità dell’odontoiatra nel trattamento implantologico 2. L’informazione e il consenso 2.1 Il dovere di informare 2.1.1 Modalità, oggetto e limite dell’informazione 2.1.2 Violazione del dovere di informare: responsabilità 2.2 Il dovere di acquisire il consenso 58 59 62 68 69 70 74 75 86 94 96 99 2.2.1 Validità del consenso 2.2.2 Revoca del consenso 2.2.3 Trattamento medico in difetto di consenso del paziente 2.3 Il consenso informato in odontoiatria 2.3.1 Aspetti generali del consenso informato in odontoiatria 2.3.2 L’importanza della documentazione clinica 3. Il danno biologico 3.1 Contenuti del danno biologico 3.2 Il danno psichico 3.3 Criteri di valutazione del danno 104 112 113 115 123 127 129 132 135 136 3.3.1 Criteri di valutazione del danno dentario 4. Confine tra errore e complicanza 4.1 Prevenzione di errori e complicanze 139 142 147 5. Linee guida in implantologia 6. Malpractice e medicina difensiva 149 153 6.1 Il progetto “Accordia” 7. Casi clinici 159 166 CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA 170 INTRODUZIONE Il notevole aumento di azioni giudiziarie nei confronti di sanitari tendenti a riconoscere responsabilità colpose o dolose in ordine alle loro prestazioni professionali, ha portato il problema del contenzioso medico-paziente e della responsabilità medica ad essere un argomento di grande attualità. Il dilagare della responsabilità medica in sede giudiziaria è un fenomeno in crescita esponenziale e, come cause riconosciute, si può riassumere attraverso l’analisi di tre importanti fattori: l’evoluzione tecnico-scientifica, che si traduce per il sanitario in una crescente disponibilità di mezzi, strutture e specializzazioni, che inficia la teoria dell’errore scusabile; il passaggio da una cosiddetta medicina paternalistica ad una medicina informata, con rinnovati riflessi sul rapporto medico-paziente, il quale, in tale veste, acquisisce nuovi diritti tutelati dall’ordinamento; la maggiore attenzione della magistratura nei confronti dell’errore medico. Questi fattori, si riscontrano in campo medico in generale, quindi anche in campo odontoiatrico c’è un gran fermento per quanto riguarda la medicina difensiva e forense: sono sempre di più infatti i pazienti che aprono un contenzioso per la richiesta di risarcimento nei confronti del proprio odontoiatra, anche se, in 2/3 dei casi si tratta di richieste pretestuose. Il contratto tra medico e paziente è un contratto d’opera intellettuale, che si specifica come “contratto di prestazione medica” e viene definito come “l’accordo in virtù del quale il medico, effettuata la diagnosi ed indicata la terapia, si obbliga nei confronti del paziente, dietro corrispettivo, a realizzarla secondo le migliori prescrizioni dell’arte medica, assumendo, perciò una obbligazione di mezzi”. L’odontoiatria è una branca medica in cui, per alcune prestazioni come ad esempio i trattamenti protesici è richiesto un obbligo di risultato. Un odontoiatra che si impegna a predisporre ed applicare una protesi dentaria, fissa o mobile, assume nei confronti del paziente un obbligazione di risultato perché è obbligato a realizzare un opera in tutto idonea alla sua destinazione. L’odontoiatra che abbia applicato al paziente una protesi inidonea per vizi o difformità alla sua destinazione incorre in responsabilità contrattuale ed è tenuto ad risarcire il danno biologico e il danno patrimoniale. Scopo di questo lavoro è definire e analizzare dal punto di vista medico-legale la posizione dell’odontoiatra che intraprende una terapia implanto-protesica, analizzando prima di tutto quali sono le complicanze e i fallimenti che possono verificarsi durante il trattamento e, in un secondo momento, quali sono i doveri legali dell’odontoiatra e i casi in cui quest’ultimo potrebbe essere citato in giudizio per il risarcimento di un danno biologico o patrimoniale nel caso di un esito negativo del trattamento. Tutto ciò supportato dallo studio di due casi clinici in cui il pazienti avevano citato in giudizio i loro odontoiatri per complicanze legate all’inserimento di impianti, uno risoltosi con assoluzione, l’altro con condanna e successivo risarcimento del paziente leso. I. PRINCIPI DI IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA 1. L’IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA L’implantologia orale, che si avvale di impianti osteointegrati utilizzati come supporto per una riabilitazione protesica fissa o removibile, è universalmente riconosciuta come una metodologia clinica sicura e in grado di garantire risultati duraturi nella riabilitazione orale. La possibilità di non coinvolgere la dentatura naturale residua e di fornire protesi fisse ai pazienti edentuli ha rivoluzionato il moderno concetto di riabilitazione protesica, facendo degli impianti osteointegrati uno strumento spesso indispensabile nella preparazione del piano terapeutico. Come si evince dalle precedenti righe, alla base della terapia implantoprotesica c’è il concetto introdotto da Brånemark nel 1969 e poi ripreso da innumerevoli autori, dell’osteointegrazione che, secondo la sua definizione, è la “congruenza anatomica tra osso vivente rimodellato e sano ed un componente sintetico che trasferisce un carico all’osso”. La terapia implantare ha come scopo principale quello di sostituire elementi dentari andati persi con manufatti protesici; ciò ha anche numerosi risvolti a livello anatomico e funzionale su molte delle strutture presenti nel cavo orale. Per prima cosa il posizionamento degli impianti permette il mantenimento delle strutture ossee in quanto, grazie al carico che essi trasferiscono all’osso sottostante, impediscono che questo vada incontro ad atrofia e di conseguenza si avrà anche un miglioramento e un mantenimento del profilo facciale (soprattutto in caso di edentulie totali). I fenomeni locali che conducono all’atrofia del mascellare edentulo, infatti, sono imputabili alla pressione esercitata dal periostio nei confronti del tessuto sottostante. La mancanza del sistema fisiologico elemento dentale - legamento parodontale si traduce nell’assenza dello stimolo funzionale che è necessario al mantenimento del tessuto osseo. Il fenomeno elastico, pressionetensione mantiene il volume osseo tramite questo stimolo meccanico. La massa ossea quindi è strettamente legata al carico. Le forze di carico stimolano l’osso e per far si che non si verifichi un riassorbimento è necessario che il carico applicato eserciti una forza compresa tra i 2500 e i 4000 Newton. Un diverso carico dinamico dell’osso comporta una reazione di questo tessuto estremamente diversa: si verifica atrofia quando l’osso è sottoposto a un carico inferiore a 200 N mentre si ha il mantenimento del livello dell’osso con un carico compreso tra i 200 e i 2500 N. Questa è la condizione fisiologica per l’osso ed è quella nella quale l’operatore dovrebbe cercare di mantenere la sollecitazione funzionale della struttura implanto-protesica progettata. Si può arrivare alla frattura in condizioni differenti in rapporto al tipo di osso e alla sua consistenza; questo fenomeno si attesta quando il carico è di circa 25000 N di forza lineare. La sostituzione degli elementi persi con impianti presenti anche altri vantaggi come il mantenimento delle strutture muscolari grazie al ripristino della corretta funzione masticatoria, una corretta posizione dei denti (ad esempio con la messa in posa del nuovo elemento viene meno il movimento di mesiodistalizzazione degli elementi adiacenti e di estrusione dell’antagonista,…) e di conseguenza una corretta occlusione che permette di riflesso di prevenire problemi all’articolazione temporomandibolare. Tutto ciò ha come ultimo, ma forse più importante, vantaggio quello psicologico, in quanto il paziente vede risolti i suoi problemi sia funzionali che estetici. 1.1 PIANIFICAZIONE DEL TRATTAMENTO Lo studio del caso clinico in implantologia deve tener presente le condizioni generali del paziente ai fini di considerare i diversi tipi di piani di trattamento. L’implantologia osseo integrata è un tipo di trattamento che può trovare indicazione in ogni tipo di paziente, senza riferimento al sesso e all’età. L’utilizzo degli impianti osteointegrati è certamente ideale in tutti quei soggetti che, in assenza di malattie sistemiche o metaboliche, hanno un adeguata quantità di osso nel mascellare superiore o inferiore. Le indicazioni al trattamento implantare sono: edentulia totale; edentulia parziale; la riduzione di proporzione della lunghezza dei ponti fissi in pazienti con un numero troppo limitato di pilastri; pazienti che rifiutano l’uso della protesi; (Albrektsson e Blomberg; Blomberg e Linquist; Laney) abitudini parafunzionali che compromettono la stabilità protesica; aspettative del paziente per una dentatura completa; pazienti psicologicamente contrari alla protesi removibile; numero e localizzazione sfavorevole di potenziali pilastri derivanti da denti naturali; perdita di un singolo elemento. (Adell; Laney; Zarb.) Prima di intraprendere la pianificazione del trattamento bisogna considerare le controindicazioni, sia assolute che relative, all’implantologia. Le controindicazioni relative all’uso degli impianti ostro integrati sono date da: patologie dei tessuti duri o molli, come nel caso di tumori benigni che vanno rimossi prima di ipotizzare la procedura implantologica: dopo la rimozione della neoplasia, è possibile verificare se il paziente sia un buon candidato al trattamento implantologico. Pazienti con problemi dei tessuti molli, come collagenopatie, devono essere attentamente valutati; ogni stadio attivo di queste malattie deve essere trattato prima di considerare il trattamento implantologico; nei pazienti che hanno subito estrazioni recenti è importante determinare il tempo trascorso dall’avulsione e associare una indagine radiografica per poter decidere se l’osso è adeguatamente guarito; secondo i canoni classici non esiste motivo per attendere l’esecuzione della procedura implantologica oltre l’anno, in quanto le grosse modificazioni di rimodellamento dell’osso, trascorso quel periodo sono già avvenute; pazienti che sono stati irradiati con dosi inferiori a 400rads possono essere sottoposti a trattamento chirurgico implantare con l’avvertenza di ritardare la seconda fase chirurgica, perché necessitano di un periodo di guarigione più lungo; pazienti affetti da discrasie ematiche (leucemia, emofilia, porpora trombocitopenia idiopatica, coagulopatie,…), dove la possibilità di intervenire è legata alle condizioni generali di salute; pazienti con anamnesi clinica comprovante un abuso di alcool, tabacco e/o uso di droghe. Questi pazienti hanno una ridotta resistenza alle infezioni (circa il 30% in meno). Qualora si proceda al trattamento è consigliabile che questi soggetti si astengano dall’uso di queste sostanze per qualche settimana; pazienti con malattie croniche come il diabete o l’ipertensione, vanno compensati e valutati su base individuale. Le controindicazioni assolute all’utilizzo degli impianti sono invece da ricercare nei pazienti irradiati ad alte dosi (superiori a 500 rads), nei pazienti con problemi psichici gravi e nei pazienti con disordini ematologici - sistemici (artrite reumatoide). Per verificare la presenza di controindicazioni sistemiche o locali e per individuare le caratteristiche anatomiche e strutturali del sito implantare, l’approccio diagnostico è di fondamentale importanza. La selezione preliminare del paziente richiede l’esecuzione di un’accurata anamnesi affiancata da esami di laboratorio, di routine e specifici (quest’ultimi volti a indagare il metabolismo osseo), da un’ indagine clinica endorale e orto panoramica e da un esame del sito implantare, arricchiti da un’accurata documentazione fotografica. 1.1.1 Diagnosi È fondamentale conoscere le condizioni generali del paziente ai fini di una diagnosi e di un piano di trattamento corretto, la storia clinica generale (anamnesi patologica prossima e remota) e la storia clinica dentale nella quale bisogna ricercare eventuali abitudini parafunzionali come il bruxismo o il serramento notturno che, se non corrette, possono invalidare il trattamento pianificato. 1.1.2 Esame intraorale L’esame intraorale comprende la valutazione dell’igiene orale, le condizioni dei tessuti molli e le condizioni di salute parodontale. La valutazione di parametri parodontali, dell’occlusione, delle aree edentule, del numero e stato degli elementi presenti, evidenzia se esistono delle alterazioni del supporto locale ai fini implantoprotesici. Importante anche la valutazione dell’anatomia radiografica riguardo la posizione ed estensione di strutture quali il forame mentoniero, il nervo mandibolare, il seno mascellare, i seni paranasali. Ai fini implantoprotesici riveste particolare importanza, attraverso lo studio dei modelli in gesso, il numero e la posizione dei denti residui e la possibilità di ricostruzione implanto-protesica nelle aree edentule in rapporto all’osso rimasto e alla relazione intermascellare. Le informazioni che ne derivano sono utili, permettendo infatti di predeterminare, compatibilmente al quadro anatomico, la migliore distribuzione delle fixture. 1.1.3 L’esame radiografico È determinante per stabilire la qualità e la quantità dell’osso residuo. Gli esami radiologici da valutare sono: la radiografia panoramica (OPT) che fornisce una visione generale della morfologia dell’osso a livello dei mascellari e fornisce informazioni fondamentali sulle strutture anatomiche adiacenti, permette di riconoscere l’ubicazione e la morfologia del pavimento del naso e dei seni mascellari. La visione radiografica del mascellare superiore consente di trarre informazioni attendibili sulla misura, in senso verticale, dell’osso e del grado di riassorbimento. Sulla mandibola, l’anatomia radiologica evidenzia il contorno della mandibola, i forami mentonieri e il canale mandibolare. L’utilizzazione di dime individuali, ricavate da modelli di studio, consente di effettuare una diagnosi iniziale in gran parte dei casi di implantoprotesi. la teleradiografia laterolaterale è richiesta solo nelle atrofie nelle edentulie del mascellare superiore e/o inferiore proprio perché ci consente di valutare la relazione intermascellare fra le due arcate. L’associazione dello studio cefalometrico con le altre indagini radiografiche, principalmente la TC eseguita con programmi dedicati come il DentaScan, consentono di dedurre quale sia la reale necessità di ricostruzione dei mascellari atrofici. Solo un’adeguata correlazione tra la posizione degli impianti ed il supporto osseo delle due arcate consente di pianificare correttamente il trattamento chirurgico da eseguirsi. le radiografie endorali mirate permettono di valutare, con miglior qualità di risoluzione, il tipo e la morfologia dell’osso preso in esame, attraverso l’uso di centratori assiali ed alla mancanza di sovrapposizione di immagini come la colonna vertebrale nell’OPT. la tomografia computerizzata (TC) con programmi dedicati (Dentascan) ha reso meno difficile per il clinico l’individuazione di qualità, morfologia e densità del tessuto osseo. Permette la visualizzazione di sezioni trasversali multiple, misurazioni millimetriche accurate e miglior contrasto tissutale che permettono di visualizzare i mascellari su tre piani: assiale, obliquo sagittale e panoramico. Inoltre può, in sezione trasversale, visualizzare con grande precisione l’ubicazione del canale alveolare inferiore, del canale incisivo e dei seni mascellari, ottenendo delle misurazioni molto precise dell’osso disponibile, senza le distorsioni tipiche dell’OPT. La TC con Denta-scan consente infatti una visione tridimensionale del futuro sito implantare, con possibilità di misurazioni dirette sul radiogramma. Questi programmi consentono di identificare in fase preoperatoria anche i difetti che richiedono un trattamento di innesto osseo e quindi di pianificare in modo ottimale il trattamento necessario. Attraverso lo studio densitometrico fornito dall’immagine, è possibile valutare la qualità dell’osso espressa in unità Hounsfield, parametro sicuramente più affidabile della lettura soggettiva della scala di grigi che si ottiene da un’OPT. Inoltre permette, nello studio dettagliato della morfologia del seno mascellare, di identificare e sfruttare al massimo le strutture ossee presenti, la presenza di eventuali patologie o di setti sinusali (di Underwood). La tomografia computerizzata evidenzia anche la presenza di patologie come affezioni periapicali e parodontali, corpi estranei o tumori e cisti che, a volte, non si vedono nell’OPT. l’esame densitometrico (MOC), scarsamente utilizzato come esame preliminare, trova applicazione nel campo maxillofacciale nella diagnosi e nel monitoraggio dei pazienti con osteoporosi in relazione alla necessità di una valutazione sia quantitativa che qualitativa delle ossa mascellari in relazione di un loro utilizzo per interventi di implantologia. Il MOC dal punto di vista qualitativo può dirci se l’osso controllato, con il rilievo degli “score”, rientra nei limiti della normale morfologia o se esistono delle situazioni patologiche. 1.1.4 Analisi dell’osso disponibile Le indagini radiografiche ci permettono di valutare la qualità e la quantità di osso disponibile presente nel sito implantare. A livello locale bisogna valutare l’altezza, l’ampiezza e la lunghezza dell’osso presente. L’osso disponibile in altezza fornisce indicazioni sulla lunghezza dell’impianto da inserire. L’ampiezza e la forma del sito edentulo condizionano la scelta del diametro dell’impianto e la sua angolazione rispetto all’osso. L’ampiezza varia in funzione del riassorbimento osseo. Lo spessore vestibolo-orale dell’osso deve essere, al minimo, di 1 mm superiore al diametro dell’impianto. L’ampiezza condiziona anche l’inclinazione dell’impianto: un asse impiantare ideale prevede l’impianto allineato con le forze occlusali. Quella accettabile varia dai 20° ai 30°. Più è inclinato, più aumenta lo stress sull’osso crestale, con inevitabile aumento del riassorbimento. Oltre i 30° l’inclinazione può causare la frattura delle componenti protesiche12 . Nell’inserimento di più impianti è importante calcolare la distanza tra quelli vicini che dovrebbero distare tra di loro 3-4 mm e 3 mm dai denti naturali. Distanze inferiori nell’adattamento a delle queste determinano componenti difficoltà protesiche, nel mantenimento igienico, mancanza di spazio vitale tra le papille e un maggior rischio di riassorbimento osseo perimplantare (Tarnow et al. 2000). La qualità ossea condiziona la stabilità implantare. Si possono distinguere 4 diversi tipi di osso (classificazione secondo Mish): D1: il mascellare è formato quasi interamente da osso compatto e omogeneo D2: uno spesso strato di osso compatto circonda un osso trabecolare denso centrale disponibile e alla sua densità. In presenza di osso D3, D4 bisogna aumentare più possibile diametro e lunghezza e preparare il sito con tecnica diversa. La tecnica degli osteotomi aumenta le possibilità di successo e ciò è dimostrato da uno studio con risultati a tre anni: “Impianti inseriti in osso a bassa densità con tecnica degli osteotomi” Zona n° imp. R.m. 1a R.m. 3 aa Fallimenti dal carico dal carico 1 mm 1,1 mm .4 8 - .5 11 1,2 mm 1,2 mm - .6 11 1,3 mm 1,4 mm 1 .7 3 1,2 mm 33 1,2mm 1,2 mm 1 1.1.5 Scelta dell’impianto in funzione del sito Gli esami radiografici più comuni illustrati in precedenza sono sufficienti a fornire esaustive informazioni al clinico sull’anatomia della cresta edentula e su questa base scegliere diametro e lunghezza ideale dell’impianto. La scelta dell’impianto avviene sovrapponendo alle radiografie speciali lucidi trasparenti con la raffigurazione schematica delle diverse dimensioni implantari (dima radiologica). L’evoluzione delle superfici implantari e, l’aumento della reale superficie di osteointegrazione degli impianti con superficie ruvida, ha consentito di ridurre le dimensioni minime degli impianti: se un tempo si cercava un ancoraggio bicorticale grazie all’utilizzo di impianti lunghi, oggi, nella maggior parte delle situazioni cliniche, si possono utilizzare impianti con lunghezza di 10 o anche 8 mm, a patto che la posizione dell’impianto sia ideale nelle tre dimensioni, e l’esistenza di corretti rapporti intermascellari consenta un carico assiale e un rapporto ottimale tra lunghezza dell’impianto e lunghezza della corona clinica dell’elemento da sostituire. A questo punto, terminata la pianificazione del trattamento, si prosegue con la fase operativa che deve essere il più accurata possibile in tutti i suoi passaggi per evitare qualunque tipo di problematica legato a questa operazione. Un intervento di chirurgia implantare prevede un’interruzione della barriera mucosa, che mette in comunicazione i tessuti profondi con l’ambiente orale, sempre colonizzato da diversi tipi di germi. La penetrazione di quest’ultimi può esporre il paziente a rischio di infezione locale o a distanza. Questo rischio è maggiore in chirurgia implantare poiché gli impianti endossei, seppur realizzati con materiali bioinerti e biocompatibili, si comportano come corpi estranei interferendo con i normali meccanismi di riparazione e guarigione. Per questo motivo, nella maggior parte dei casi in chirurgia implantare viene utilizzato un protocollo di preparazione dell’ambiente chirurgico sterile. Per ridurre al minimo il rischio di infezione e per creare un ambiente il più possibile sterile, anche all’interno del cavo orale, il clinico può fare affidamento sul supporto farmacologico pre- e postoperatorio. La maggior parte degli Autori consiglia l’esecuzione di uno sciacquo con un colluttorio a base di clorexidina 0,12% o 0,2% immediatamente prima dell’intervento di chirurgia implantare. Il controllo batterico da parte della clorexidina è più efficace se l’antisepsi ha inizio 2/3 giorni prima dell’intervento. L’antisepsi locale con colluttori disinfettanti viene effettuata anche nel periodo postoperatorio, fino alla rimozione dei punti di sutura e se necessario anche nel periodo successivo, con una schema che prevede 2 o 3 sciacqui di un minuto al giorno. Per quanto riguarda invece l’antibioticoprofilassi non esiste attualmente un consenso per quanto riguarda l’opportunità di eseguirla nei pazienti sani prima degli interventi implantari (Esposito et al. 2004). In generale il ricorso alla profilassi antibiotica è indicato nei pazienti a rischio di endocardite batterica, nei pazienti immunodepressi, quando la chirurgia interessa una sede infetta, nel caso di interventi invasivi e prolungati e nel caso si faccia un esteso ricorso ad innesti di osso autologo, biomateriali o barriere semipermeabili/membrane. Nella maggior parte degli studi clinici riportati in letteratura, anche per tecniche implantari di base, si fa tuttavia ricorso ad una profilassi antibiotica preimplantare: in realtà il ricorso indiscriminato alla profilassi antibiotica non sembra sempre giustificato ed espone i pazienti al rischio di episodi allergici gravi e allo sviluppo di resistenze nei confronti degli antibiotici stessi. 1.1.6 Preparazione del sito chirurgico Per il posizionamento bisogna calcolare le distanza tra impianto e i denti naturali o, nel caso se ne posizionasse più di uno, tra impianto e impianto. Ogni metodica implantare prevede l’uso di una sequenza di frese di diametro crescente per la preparazione atraumatica del letto implantare. Oltre alla rimozione degli eventuali residui di tessuto connettivale presenti a livello della cresta dopo lo scollamento del lembo, mediante una curette chirurgica, le principali fasi della sequenza chirurgica sono la regolarizzazione della cresta, la perforazione del sito mediante frese, la verifica del corretto asse e della corretta profondità dei siti implantari, la maschiatura del sito (dove il sistema lo richiede), il sondaggio finale, l’inserimento dell’impianto, la rimozione del dispositivo di montaggio e l’inserimento della vite di chiusura. La tecnica di preparazione del letto implantare deve essere adattata alla qualità ossea locale. La diagnosi della qualità ossea è essenzialmente clinica, anche se ad essa possono contribuire le immagini radiografiche fornite dalla TAC, che permette di valutare lo spessore della corticale e la mineralizzazione della spongiosa. La qualità ossea viene comunque valutata durante la preparazione del sito implantare, dopo la perforazione della corticale, in base alla resistenza offerta al fresaggio da parte della compagine ossea. Per l’osso di tipo 1 composto quasi interamente da corticale e quindi molto denso (tipico della regione interforaminale mandibolare), dove il rischio di surriscaldamento e maggiore, devono essere utilizzate frese non usurate, con elevato potere di taglio, applicate in modo intermittente, rimuovendo costantemente l’osso fresato e irrigando abbondantemente con soluzione fisiologica refrigerata. Questi piccoli accorgimenti servono per far si che l’intervento sia il più atraumatico possibile. A fronte di questi problemi però, l’osso di tipo 1 consente di ottenere una elevata stabilità primaria e da la possibilità di utilizzare impianti più corti senza una sostanziale diminuzione della stabilità. L’osso di tipo 2 presenta una spessa corticale e una midollare ben mineralizzata e rappresenta la situazione ideale poiché la preparazione del sito implantare è agevole, è ben vascolarizzato ed è possibile ottenere una buona stabilità primaria. Nell’osso di tipo 3 e 4, caratterizzati da una corticale sottile e da una midollare rispettivamente densa (mascellare superiore e settori latero-laterali della mandibola) e a bassa densità (settori lateroposteriori del mascellare superiore), la stabilità primaria degli impianti rappresenta un obbiettivo più critico da raggiungere e la percentuale di successo degli impianti per questo motivo è inferiore (Jaffin e Berman, 1991) 1.1.7 Trattamento postchirurgico Un protocollo farmacologico postoperatorio prevede la continuazione della profilassi antibiotica solo nel caso di interventi più invasivi e prolungati, e l’assunzione di farmaci analgesici (FANS) per i primi giorni dopo l’intervento. Per il controllo della placca batterica il paziente prosegue per 1015 giorni gli sciacqui con un colluttorio a base di clorexidinadigluconato. Viene anche prescritta una dieta semisolida. Dopo il periodo di guarigione viene eseguita la II fase chirurgica. Con questo intervento, più rapido e meno traumatico del primo, gli impianti vengono riesposti per essere poi connessi, con le protesi definitive. Durante questa fase, dopo 4-6 mesi, ogni impianto viene valutato radiograficamente e clinicamente per la sua stabilità. La maggior parte dei fallimenti (4%) avviene precocemente (durante la II fase chirurgica) o dopo i primi mesi di funzione masticatoria; i fallimenti tardivi (dopo la protesizzazione definitiva) sono estremamente rari (1%). La piccola cavità ossea che residua dopo il fallimento di un impianto, simile all'alveolo vuoto dopo un'estrazione dentale, guarisce in circa due mesi e, se necessario, può essere utilizzata per un nuovo impianto. Se vengono posizionati più impianti, il fallimento di un singolo elemento può non comportare, nella maggior parte dei casi, l'insuccesso della protesi finale. In ogni fase adeguatamente del trattamento istruito e il informato paziente su deve ogni essere particolare dell’intervento, soprattutto per le manovre di igiene e comportamentali che dovrà avere a domicilio. 1.2 CRITERI DI SUCCESSO IN IMPLANTOLOGIA L’implantologia moderna è ampiamente prevedibile; possiamo affermare che si raggiunge il successo nel 96-97% dei casi 7. E’ necessario però rispettare alcuni principi diagnosticoterapeutici. La diagnosi deve essere effettuata accuratamente. Bisogna valutare lo stato di salute generale, stabilendo, nell’anamnesi, se sono presenti fattori di rischio che possano controindicare all’intervento. Distinguiamo controindicazioni assolute e relative. Le controindicazioni assolute sono rappresentate da malattie metaboliche croniche, diabete scompensato, endocrinopatie, cardiopatie scompensate, pazienti irradiati o in chemioterapia, immunodeficienze congenite o acquisite, fattori genetici, malattie neurologiche, gravi disturbi psicologici e mentali, abuso di alcool e droghe, osteoradionecrosi dei mascellari dopo radioterapia. Le controindicazioni relative invece sono legate alla presenza di patologie sistemiche tenute sotto controllo (malattie cardiocircolatorie controllate, insufficienza respiratoria cronica, epatopatie,…), storia di endocardite o di patologie vascolari ( per le quali è importante fare una corretta profilassi antibiotica), disturbi della coagulazione (pazienti in terapia anticoagulante trattati con eparina e antagonisti della vitamina K o in terapia antiaggregante con acido acetilsalicilico), ipertensione arteriosa, precedente radioterapia nel distretto cervico-facciale, ansia e stress, forte tabagismo (più di 20 sigarette al giorno), malattia parodontale (il trattamento implantare è possibile solo se dopo la terapia la malattia risulta controllata), patologie della mucosa orale come lichen planus, pemfigo, eritema multiforme, stomatite erpetica. Per rispettare i protocolli dobbiamo porre molta attenzione alla valutazione ossea per accertarci della quantità e qualità ossea e delle eventuali limitazioni anatomiche e patologiche preesistenti. L’intervento chirurgico deve essere effettuato nella condizioni di massima sterilità possibile e la tecnica deve prevedere la minima invasività e rispettare i protocolli consolidati dall’esperienza. I materiali che vengono utilizzati devono rispondere agli standard di qualità, sicurezza e garanzia e la protesi applicata successivamente deve soddisfare i criteri di occlusione, estetica, funzione e carico. Al fine di ottenere una ottima riabilitazione e affinché il risultato ottenuto si conservi il più a lungo possibile è importante la compliance del paziente. Egli deve seguire con scrupolo tutte le indicazioni che gli vengono date prima dell’intervento, nella fase preparatoria, dopo l’intervento, nella fase di convalescenza e di guarigione dei siti implantari, durante le fasi di preparazione della protesi e dopo la consegna dei definitivi. Le due indicazioni principale a cui deve attenersi senza riserve sono una corretta igiene orale domiciliare (oltre alle sedute di igiene professionale prescritte) e la rimozione di abitudine viziate quali, ad esempio, il fumo. Molti studi hanno infatti dimostrato che l’abitudine al fumo comporta delle alterazioni a livello del sistema immunitario (alterazione dei polimorfonucleati e riduzione dell’AB sistemica), un’ inibizione dell’aggregazione piastrinica, un maggior riassorbimento e, di conseguenza a tutto ciò, una maggiore predisposizione all’infiammazione perimplantare e quindi al fallimento dell’impianto 7, 50. Secondo uno studio di Bain C.2 basato sull’analisi di 223 impianti in 78 pazienti la percentuale di fallimenti implantari nei fumatori è del 38,46%, nei non fumatori è del 5,68%, mentre nei fumatori con protocollo di astensione da 1 settimana prima dell’intervento a 8 dopo è del 11,76%. Uno studio simile è stata portato avanti da Swartz-Arad et al. 61 erano stati analizzati 959 impianti in 261 pazienti è la percentuale di successo era stata del 98% in pazienti non fumatori e del 96% in pazienti fumatori. Le complicanze invece si erano manifestate nel 46% dei fumatori e nel 31% nei non fumatori. I risultati dei due lavori presi in considerazione sono discordanti, ma una affermazione che possiamo affermare è che la diminuzione dell’abitudine al fumo, è strettamente correlata al calo delle complicanze a breve e a lungo termine. Ultimo aspetto, ma di sicuro uno dei più importanti, riguarda le visite periodiche di controllo: il paziente deve essere correttamente informato sull’importanza dei controlli periodici ai quali deve obbligatoriamente sottoporsi e avvisato delle possibili complicanze che si possono manifestare, le quali possono accentuarsi se non diagnosticate per tempo. Questo sia per responsabilizzare il paziente sulla sua salute orale, sia per proteggere l’operatore da eventuali contenziosi nel caso del fallimento della terapia legata a una sua negligenza: in questo caso spetterà al paziente l’onere della prova ma il clinico avrà dalla sua il fatto che il paziente non si sia presentato ai controlli che egli stesso gli aveva raccomandato. Ad ogni controllo il professionista dovrà valutare alcuni parametri indicativi della buona riuscita dell’intervento come: immobilità dell’impianto; all’esame rx assenza di radiotrasparenza intorno all’impianto; nessun movimento delle componenti secondarie; assenza di infiammazione all’interfaccia tra protesi e tessuti molli; assenza di interferenze occlusali; Albrektsson et al. nel 1986 avevano descritto le percentuali di successo a 1, 5 e a 10 anni: dopo il primo anno di carico perdita ossea 0,2 mm/anno; successo dell’85% a 5 anni e del 80% a 10 anni minimo. Oggi queste percentuali sono state ampiamente riviste: 94,7% a 10 anni (Leonhardt, Gröndahl, Bergström, Lekholm COIR 2002); 95,4% a 5 anni, 92,8% a 10 anni (Pjetursson, Tan, Lang, Review su 560 art., COIR 2004). 1.3 FALLIMENTI E COMPLICANZE IN IMPLANTOLOGIA Per insuccesso implantare si intende un riassorbimento osseo perimplantare con sostituzione di tessuto di granulazione e possibili fatti infettivi osteomucosi. Le cause di questo riassorbimento possono essere le più svariate: cause di ordine generale: malattie preesistenti non riconosciute o non tenute nel debito conto: diabete, nefropatie scompensate, malattie dismetaboliche importanti, menopausa con alterazioni del metabolismo del calcio e potassio, vari tipi di anemie e in genere tutte le malattie che controindicano gli interventi chirurgici di elezione; malattie intercorrenti locali: infezioni orofaringee, parodontopatie e granulomi dei denti residui con interessamento del perimplanto; traumi diretti sugli impianti o sulla protesi sovraimplantare; gravi traumi craniofacciali anche senza interessamento degli impianti; cause di ordine locale: errata scelta dell’impianto in rapporto alla situazione anatomica locale; errato inserimento dell’impianto, medicazione intra e postoperatoria inadeguata; carico precoce in funzione della densità ossea, protesi provvisoria o definitiva non corretta dal punto di vista occlusale o marginale; insufficiente igiene orale in mancanza di controlli periodici. Le cause più frequenti di insuccesso, sono da imputare a due cause: all’operatore e al paziente e in entrambi i casi possono essere precoci o tardive. Un’errata tecnica chirurgica oppure un errato tempo di carico anticipato rispetto al tipo di osso sono gli errori più frequenti in cui può incorrere il chirurgo. La qualità e la quantità di osso del mascellare da trattare sono due fattori legati al paziente dai quali dipende il successo dell’impianto. Gli altri fattori, anche di ordine generale, sono più rari e a volte non chiaramente dimostrabili in rapporto con l’insuccesso; certamente gli errori tecnici operatori, l’uso di materiali contenenti impurità, la scelta inadeguata dell’impianto, lo stato di decalcificazione dell’osso o uno stato di decalcificazione generale del soggetto possono influire negativamente sulla durata dell’impianto ma questi fattori abitualmente hanno una frequenza minore come causa di insuccesso. Deiscenza osteo-mucosa per diametro dell’impianto eccessivo rispetto all’ampiezza ossea Assenza di congruità della protesi e retrazione della corticale vestibolare 1.3.1 Cause dovute all’operatore Errori tecnici effettuati nella fase chirurgica, possono portare all’assenza di stabilità primaria dell’impianto per una eccessiva preparazione del sito rispetto o al diametro dell’impianto o alla densità ossea; sarà quindi necessario rimuovere l’impianto per sostituirlo con un altro di diametro più largo, cercando di sfruttare al massimo lo spessore della cresta, ricordando che l’impianto deve essere circondato da almeno 1 mm di osso. Qualora non fosse possibile ottenere una buona stabilità primaria con un impianto a diametro maggiore, nella maggior parte dei casi bisogna lasciar guarire l’alveolo chirurgico ed aspettare 2-3 mesi per intervenire nuovamente. Gli errori tecnici durante l’esecuzione dell’intervento possono purtroppo coinvolgere importanti strutture anatomiche presenti in prossimità del cavo orale: tra le più importanti fosse nasali, seni mascellari e canale mandibolare. Queste lesioni si possono verificare si durante l’intervento per un errore tecnico o possono verificarsi in un secondo momento in seguito ad un insuccesso implantare. Le Rx pre e post operatoria dimostrano la mancanza di perizia nell’inserimento dei due impianti L’interessamento di alcune formazioni anatomiche, quali il nervo alveolare inferiore, il canale palatino e zone di addensamento osseo di n.d.d. in sede intraoperatoria non dovrebbe mai verificarsi; l’accuratezza degli esami radiografici oggi a disposizione consente di determinare correttamente la lunghezza ed il diametro dell’impianto da inserire, Il ricorso a TAC con Dentascan riduce al minimo la possibilità di incorrere in un errore di valutazione dello spazio disponibile. Si possono comunque commettere errori tecnici che, indipendentemente dalla valutazione più o meno esatta della quantità d’osso disponibile, possono portare all’interessamento delle suddette formazioni: per prevenire queste lesioni iatrogene è bene adottare le tecniche giuste, suggerite dall’esperienza dell’operatore, rimanendo alla distanza di almeno 2 mm da una eventuale zona di pericolo. Vi sono dei segni che permettono di stabilire immediatamente se la mucosa dei seni mascellari o delle fosse nasali è stata perforata durante la preparazione del sito. Nelle fosse nasali il sintomo è una dolenza locale, in quanto la corticale non è raggiunta dall’anestetico. La perforazione della corticale non è un evento avverso quanto la perforazione della mucosa: in questo caso l’impianto è a rischio di fallimento, in quanto la contaminazione del sito è pressoché certa. In ogni caso è prudente inserire l’impianto al di sotto della corticale. Per i seni mascellari, va fatto un discorso a parte. La lesione della mucosa difficilmente comporta una patologia, sia nell’immediato che in futuro. Branemark et al, hanno dimostrato che gli impianti possono essere inseriti all’interno del seno mascellare senza conseguenze se avviene l’integrazione tra gli impianti e l’osso al di sotto del seno. Di contro la percentuale di fallimento era abbastanza elevata (30% a 5 e 10 aa)8 . L’interessamento della sola corticale, a membrana integra consente, inoltre, di sfruttare le capacità rigenerative della membrana di Schneider per aumentare la quota di osso disponibile. La casistica, in letteratura, su questo argomento è notevole, con un’alta percentuale di successo a medio e lungo termine. Sono descritti in letteratura casi in cui la perforazione della mucosa e l’inserimento dell’impianto nel seno mascellare hanno determinato la comparsa di sinusiti che, però, guariscono una volta rimosso l’impianto 63,64. Nei casi in cui la perforazione avviene in modo molto traumatico e l’infezione locale viene trascurata, oltre alla perdita dell’impianto può residuare una comunicazione oro-antrale, verificabile facilmente con la manovra di Valsalva. Interessamento delle fosse nasali e dei seni mascellari si possono avere anche a distanza di tempo dall’intervento implantologico come complicanze di un insuccesso. Si verificano quasi esclusivamente in insuccessi di impianti iuxtaossei i quali, in presenza di perimplantite determinano una distruzione della parete ossea del pavimento del seno mascellare. Ma le complicanze che più facilmente rivestono importanza medico-legale sono quelle che riguardano le lesioni del nervo mandibolare. Il canale mandibolare è un sottile tubicino di corticale che contiene il nervo alveolare inferiore e le relative arterie e vene il quale fuoriesce poi come nervo mentoniero a livello del forame omonimo e continua nella regione incisiva con rami per gli incisivi e i canini. Per il chirurgo, delle tre formazioni presenti nel canale mandibolare, la più importante è il nervo alveolare inferiore, ramo sensitivo della terza branca del trigemino; l’arteria e le vene satelliti, che di solito vengono lese contemporaneamente al nervo, non danno sintomi, se non un imponente sanguinamento. Il nervo alveolare è costituito da piccoli fasci di fibre nervose contornati da un sottile strato di connettivo il quale conferisce al fascio nervoso un certo grado di elasticità che permette uno stiramento ed un allungamento che entro certi limiti non procura danni. Le lesioni che si possono produrre durante un intervento di chirurgia implantare possono essere dovute all’azione delle frese, a compressione o stiramenti del nervo dovuti sia all’impianto che a frammenti ossei spostati da quest’ultimo oppure ad emorragie. Le lesioni provocate dalle frese sono molto gravi in quanto, se il nervo viene sezionato, difficilmente avremo una restitutio ad integrum o comunque, in caso di questa guarigione, avverrà in tempi molto lunghi. La sezione del nervo viene subito individuata dall’operatore perché vengono contemporaneamente lese l’arteria e la vena alveolare, con una immediata emorragia nel cavo orale spesso di tipo arterioso. Quest’evenienza deve essere assolutamente evitata prendendo misure precise sulle radiografie endorali e sulla Dentascan. Sicuramente l’uso del Dentascan ci permette non solo di avere una perfetta riproduzione della morfologia mandibolare, ma anche una precisa misurazione millimetrica. La tecnica giusta per evitare questo tipo di complicanze è quella di preparare il sito con molta cautela, soprattutto quando l’altezza ossea è prossima alla lunghezza dell’impianto. Se l’impianto o la fresa giungono in vicinanza o in contatto col canale alveolare e non è stata praticata anestesia tronculare, il paziente avvertirà un dolore, di solito proporzionale alla vicinanza con il canale stesso. Questo perché la diffusione degli stimoli algogeni attraverso l’osso avviene attraverso forze idrostatiche. Se, però, il paziente avverte una scossa irradiata al mento vuol dire che il nervo è stato leso. A conferma di ciò, il perdurare dell’anestesia all’emilabio corrispondente, anche molto dopo che è cessato l’effetto dell’anestetico. L’inserzione lenta della fresa è fondamentale sia perché consente all’operatore di mantenere la direzione esatta dell’asse di preparazione, sia perché, nel caso abbastanza frequente che il nervo venga stirato, compresso o spostato lateralmente, il danno sarà minore in quanto l’elasticità propria del nervo e la protezione conferitagli dall’epinevrio gli consentiranno di spostarsi, entro certo limiti, nel canale mandibolare, e di sfuggire all’azione lesiva delle frese. Tre sono sostanzialmente i problemi medico-legali che si propongono in questi casi: 1) inquadramento nosografico dell' evento lesivo, indispensabile agli effetti diagnostici e prognostici; 2) accertamento della responsabilità del sanitario, sotto il profilo penale e civile; 3) valutazione del danno alla persona e della conseguente inabilità temporanea e permanente. Per quanto riguarda il primo punto, le difficoltà sono notevoli, trattandosi di lesione di un nervo esclusivamente sensitivo e quindi comportante soggettiva. una sintomatologia sostanzialmente Quasi sempre si renderà necessaria più di una visita, per controllare l'evoluzione della sintomatologia nel tempo. È possibile, in alcuni casi, una determinazione oggettiva della conduzione nervosa mediante la metodica dei potenziali evocati. Quanto al punto secondo, si dovrà tener conto dei consueti e ben noti elementi: consenso informato (il paziente avvertito di tale possibilità è più propenso ad accettare senza allarmismi l'evenienza, a non esagerarne le conseguenze e ad attenderne la risoluzione), finalità francamente terapeutica o meno, corretta valutazione del rapporto tra rischio e beneficio, indagine sull' operato del sanitario sotto il profilo della diligenza, prudenza e perizia. La valutazione della finalità terapeutica e del rapporto tra rischio e beneficio terrà conto anzitutto della natura e gravità della condizione patologica preesistente e della possibilità di terapie alternative. Il giudizio non potrà non essere in linea di principio più severo nei casi di implantoprotesi e di chirurgia avente finalità esclusivamente o prevalentemente estetica. Quanto al terzo punto, riguardante la valutazione del danno alla persona e della conseguente inabilità temporanea e permanente, se per la prima non sembrano prospettarsi difficoltà degne di nota, trattandosi, il più delle volte di giudizio fondato sull'esame della storia clinica e dei relativi documenti, difficoltà notevoli si prospettano per quanto riguarda l'inabilità permanente. Se nei casi di semplice ipoestesia, più o meno spiccata, accompagnata al massimo da sensazioni di formicolio, si può ritenere che tale menomazione sia ininfluente sulla capacità lavorativa generica, diverso è il caso di vera e propria sintomatologia nevralgica, sia continua che accessuale. In tali casi è da ammettersi quanto meno una diminuzione della concentrazione richiesta dal lavoro ed una diminuzione della resistenza alla fatica. Luvoni e Bernardi, a proposito delle menomazioni trigeminali, propongono i seguenti dati nell' ambito della responsabilità civile: «Anestesia completa delle tre branche associata a crisi nevralgiche: 8%»; «Anestesia di una branca: 3%» 49. In considerazione dell'impedimento al normale svolgimento di fondamentali funzioni quali la parola e la masticazione, talvolta associato a sintomatologia dolorosa di tipo nevralgico, riteniamo potersi affermare che le menomazioni a carico del nervo alveolare inferiore determinino a seconda della gravità, che è in funzione eminentemente della componente dolorosa, una diminuzione della generica capacità lavorativa dell' ordine del 2-5%. Le lesioni provocate da frammenti ossei o da emorragie possono provocare nel soggetto: parestesie cioè dolore, torpore, formicolio, sensazioni di puntura caldo -freddo, bruciori nella regione del mento. In genere si ha un ritorno alla normalità in un periodo di 4-8 settimane durante le quali si nota una riduzione progressiva dell’area di parestesia; in alcuni casi, a seconda dell’intensità e del tipo di compressione, si può avere un ripristino della normalità anche dopo un anno, o possono rimanere piccole zone di parestesia o anestesia; anestesia e insensibilità della zona del mentoniero. Se non provocata da sezione del nervo segue lo stesso iter delle parestesie; iperestesia ed iperalgesia sempre nel territorio di innervazione del mentoniero che consistono in aumentata sensibilità comune e dolorifica, che possono essere mal tollerate dal paziente ma sempre reversibili; ipoestesia ed ipoalgesia cioè diminuzione della sensibilità normale e dolorifica che possono scomparire completamente o essere residuo di una parestesia. L’anestesia del mento può risolversi dopo alcuni mesi e raramente è permanente; inoltre più del 50% dei casi le lesioni di lieve entità del nervo alveolare guariscono spontaneamente in massimo 80 giorni. Nel caso il danno sia più importante, dopo 5/6 mesi il danno della parestesia è ridotto dell’80 - 90% e nella massima parte dei casi scompare completamente. Solo in un limitato numero di pazienti possono permanere tracce di parestesia, del tutto sopportabili. In rari casi il danno può essere duraturo e noioso e in genere sono questi i casi in cui il paziente può pretendere dal medico un risarcimento per un danno che di solito egli stesso tende a esagerare. Quanto sia importante la posizione dell’impianto per il successo della terapia implantoprotesica e per quali motivi è stato illustrato dal P. Palacci nel suo compendio. Da Palacci P. Implantoprotesi ed estetica2001, Quintessence ed. 1.3.2 Fase postchirurgica Una volta inseriti gli impianti sarà fondamentale che il paziente venga istruito e motivato adeguatamente sulle manovre di igiene orale domiciliare che dovrà effettuare per permettere una corretta guarigione del sito implantare. Il mantenimento di una corretta igiene orale è senza dubbio legato anche alla morfologia della protesi: il colletto della corona è opportuno che sia metallico per circa 1mm in modo da essere facilmente detergibile da parte del paziente con i normali presidi domiciliari. A livello dei molari e dei premolari si dovrà riprodurre una forma degli elementi protesici corretta e più simile possibile a quella naturale per facilitare sia l’autodetersione sia lo spazzolamento, ricreando un corretto punto di contato per favorire la ripresa della papilla interdentale secondo i principi di Turnow. La predicibilità di ogni terapia odontoiatrica aumenta quando il mantenimento è eccellente. Il complesso implantoprotesico ha bisogno di un controllo periodico costante, in cui debbono essere valutate le varie componenti. Informare, a volte, non basta, poiché, dall’esperienza quotidiana, si evince che molti pazienti sottovalutano questa problematica. È bene, quindi, predisporre, di concerto con i collaboratori Igienisti una serie di recall personalizzati, invitando i pazienti in modo mirato e documentabile in caso di contenzioso. Questo perché alcuni pazienti, per incuria, per mancanza di tempo, per paura, si presentano solo quando si presentano sintomi. In alcuni casi le attese portano al fallimento della terapia. 1.3.3 La perimplantite Una delle complicanze più frequenti che si possono manifestare in implantologia è la perimplantite ovvero un processo flogistico a carico dei tessuti molli e duri dell’unità perimplantare che determina rapidamente la perdita dell’osteointegrazione e progressivamente del supporto osseo, associata a sanguinamento e spesso a suppurazione. La perimplantite può essere definita precoce quando si manifesta prima del carico protesico o addirittura dopo pochi giorni dall’intervento; l’osteointegrazione non avviene per trauma chirurgico eccessivo e surriscaldamento dell’osso, tecnica chirurgica errata, ridotta capacità di guarigione dei tessuti, infezione precoce dei tessuti perimplantari, mancata stabilità primaria. Viene invece definita tardiva se compare dopo il carico protesico; le cause determinanti della comparsa tardiva dell’infiammazione sono l’ inadeguato controllo di placca e/o il trauma occlusale. Il fallimento tardivo è dovuto alla perdita di osteointegrazione che riconosce un’eziopatogenesi traumatica o infettiva. La perimplantite batterica trova la sua origine in un iniziale e protratto inadeguato controllo di placca mentre quella traumatica è inizialmente asettica e l’insorgenza della componente batterica è secondaria. I microrganismi che sono stati isolati nei casi di infiammazione perimplantare sono diversi a seconda della natura traumatica o batterica della stessa: nella prima le colonie individuate sono costituite principalmente da streptococchi, compatibili con un parodonto sano (Streptococcus Sanguis, Streptococcus Morbillorum, Streptococcus Epidermidis) mentre nella seconda si trova una microflora costituita per il 42% da spirochete, fusobatteri e bastoncelli Gram negativi (Peptostreptococcus Nigrescens, Peptostreptococcus Micros, Fusobacterium spp, Porphiromonas Gingivalis, Prevotella Intermedia). I microrganismi patogeni possono essere trasmessi dai denti agli impianti: con il flusso salivare; con le setole degli spazzolini; con le sonde parodontali durante l’ispezione; con gli aghi delle siringhe da anestetico. (Quirynen et al.1996) Le manifestazioni patologiche che coinvolgono i tessuti perimplantari, muco-gengivali ed ossei, hanno un’eziopatogenesi strettamente correlata alla morfostruttura anatomica ed istologica specifica degli stessi tessuti coinvolti nell’integrazione, alla morfologia superficiale della fixture ed alla precisione di accoppiamento dei componenti implantari. I tessuti molli perimplantari hanno una ridotta capacità di difesa contro le irritazioni esogene per la minore resistenza meccanica dell’apparato di attacco. Inoltre i meccanismi di difesa dei tessuti gengivali sono più efficaci di quelli delle mucose perimplantari nel prevenire la propagazione apicale della flora batterica (Lindhe J. et al.)34. Tutte queste condizioni peculiari del sito implantare fanno sì che il principale fattore eziologico della malattia perimplantare sia quello infettivo; ricerche microbiologiche e cliniche sperimentali hanno dimostrato che un efficace controllo di placca batterica riduce la possibilità di malattia perimplantare così come per la malattia parodontale 32,34. La resistenza agli insulti traumatici e infettivi nei tessuti perimplantari risente di un equilibrio patogeni-ospite meno favorevole rispetto ai denti naturali dovuto principalmente a differenze di ordine anatomico: assenza di vascolarizzazione legamento parodontale e relativa assenza di cemento radicolare sulla superficie implantare attacco connettivale con meno fibroblasti e con fibre senza inserzioni sulla superficie implantare ma parallele ad essa. Clinicamente si ha una minore resistenza al sondaggio nel solco perimplantare sano rispetto al sondaggio nei denti naturali; in studi sul modello animale in seguito ad un accumulo di placca per un periodo da tre settimane a tre mesi si hanno lesioni infiammatorie che hanno un’evoluzione ed una progressione in profondità nei siti implantari contrariamente ai denti naturali dove l’infiammazione si limita ai tessuti marginali73-78. Gli impianti con superficie liscia presentano una più alta incidenza di mancata osteointegrazione precoce, mentre quelli a superficie ruvida sono associati a maggior percentuale di complicanze tardive da infezione batterica. La malattia perimplantare evolve attraverso tre stadi: la mucosite perimplantare la perimplantite ortograda la perimplantite retrograda La diagnosi delle mucositi e delle perimplantiti si avvale di un corredo sintomatologico con segni e sintomi d’infiammazione che va dal coinvolgimento dei tessuti molli perimplantari nella mucosite fino ad estendersi ai tessuti più profondi nelle perimplantiti. I principali parametri clinico-diagnostici per la valutazione dello stato di salute dei tessuti perimplantari sono: sanguinamento, essudazione e suppurazione ipertrofia e tumefazione dei tessuti molli, sondaggio perimplantare, mobilità implantare, osteolisi perimplantare all’esame radiologico. Nella mucosite si ha flogosi dei tessuti molli perimplantari con tumefazione, edema, sanguinamento al sondaggio e/o spontaneo, dolore alla palpazione ed alla masticazione con presenza di essudato sieroematico o sieropurulento negli stadi più avanzati. La mucosite isolata si manifesta senza alterazioni dei tessuti coinvolti nell’osteointegrazione quindi senza mobilità implantare e lasciando la possibilità di una completa restitutio ad integrum . Nel caso di un’estensione in profondità del processo infiammatorio alla mucosite si aggiunge il quadro vero e proprio della perimplantite ortograda. Per la diagnosi di perimplantite sono da valutare i seguenti parametri: •dolore localizzato spontaneo e/o alla percussione; •indice di sanguinamento 2 (scala 0-3); • PAL > 3 mm valutata nella sua evoluzione avendo come repere non il margine libero della gengiva ma il margine della connessione impianto-abutment; ● incremento ● di fluido sulculare; formazione di recessione indicante un processo distruttivo dei tessuti molli e duri; • presenza di pseudotasca; • sanguinamento al sondaggio; • presenza di suppurazione, indice tardivo; • mobilità implantare, che indica il fallimento dell’impianto, non più trattabile; • esame radiografico con il quale prevalentemente si pone la diagnosi individuando la perdita dell’osteointegrazione. Immagini di osteolisi verticali si hanno per un’eziopatogenesi traumatica, osteolisi “a scodella” per un’eziologia batterica. La perimplantite retrograda è stata recentemente introdotta come nuova entità nosologica definendola come una lesione di osteolisi perimplantare localizzata al terzo apicale della vite implantare caratterizzata da una insorgenza entro 30 giorni dall’inserimento dell’impianto con dolore locale alla palpazione e spontaneo, gonfiore e presenza di fistola. La causa della perimplantite retrograda sembra riconducibile alla presenza di tessuti cicatriziali e/o granulomatosi in corrispondenza del sito implantare dovuti a precedenti episodi di osteite di origine endodontica. La terapia della perimplantite traumatica consiste nella verifica dell’occlusione e nella rimozione di eventuali precontatti e interferenze e nel trattamento dei tessuti duri e molli, con eventuale rimozione dell’impianto. La terapia della perimplantite batterica invece prevede lo scaling con curettes del sito implantare associato ad antibiotico-terapia (sistemica o locale) e sciacqui con clorexidina per la disinfezione del sito. A ciò seguono poi interventi di muco plastica, implanto-plastica e terapia resettiva, con espianto e reimpianto immediato o differito della vite. I principali tipo di trattamento sono due, ovvero rigenerativo (prevede l’eliminazione, parziale o totale, del difetto osseo seguito da rigenerazione ossea) e resettivo e talvolta possono anche essere associati. Recenti studi1 hanno dimostrato che il trattamento resettivo e/o rigenerativo associati all’uso di laser ha una percentuale di successo maggiore rispetto al trattamento convenzionale; nei siti trattati in modo convenzionale rispetto a quelli decontaminati con laser la percentuale di recidiva è più alta. Il laser infatti, come descritto nello studio di Kreisler M. et al.31 riduce i batteri presenti nel sito contaminato favorendo i processi di guarigione e diminuendone i tempi, riducendo le complicanze e le recidive. 1.3.4 Esame clinico dell’impianto L’impianto francamente fallito si presenterà mobile, dolente con la mucosa circostante arrossata ed edematosa, con impotenza masticatoria. A questo punto la diagnosi di insuccesso è chiaramente clinica e l’esame radiologico potrà chiarirne l’estensione e la gravità. L’esame clinico al controllo periodico di un impianto in buona salute deve dimostrare: stabilità dell’impianto; suono alto e squillante alla percussione; mancanza di dolore sia alla percussione dell’impianto sia del processo alveolare nel quale l’impianto è contenuto; assenza di arrossamento e di edema della mucosa perimplantare; l’esame dell’occlusione eseguito sia con la carta che con le cere articolari, ancora meglio se eseguito con Myomonitor, dovrà dimostrare l’assenza di precontatti o di occlusioni traumatiche. l’esame radiografico, sempre eseguito con endorali che danno una maggiore chiarezza dei dettagli perimplantari, non deve dimostrare osteolisi irregolari e ampie intorno all’impianto. al Periotest deve esserci un valore di PTV ( Perio Test Value) tra 0 e -8. I primi segni clinici di sofferenza perimplantare possono anche essere asintomatici. Il paziente potrà riferire un disagio non ben localizzato; in questa fase non ci sono ancora i segni infiammatori perimplantari ma spesso all’esame radiografico si troverà un cratere iniziale perimplantare e, all’esame occlusale, un precontatto tra l’elemento su impianto e l’antagonista. In questo caso spesso basterà la correzione del precontatto occlusale per ottenere la remissione della sintomatologia ed evitare che il riassorbimento osseo si estenda oltre. Se il processo degenerativo osseo avanza e l’infiammazione mucosa diviene cronica occorrerà eseguire un lembo parodontale, con asportazione del tessuto di granulazione ed eventuale terapia rigenerativa del difetto. Dobbiamo tener presente e soprattutto informare il paziente, che quanto più a lungo si mantiene un impianto sofferente in bocca, tanto maggiore sarà la distruzione dell’osso e quindi sarà più difficile la sostituzione con un altro tipo di impianto. Da questo punto di vista il paziente va informato al momento della visita in modo che in ogni occasione di eventuali segni di insuccesso possa aderire immediatamente e senza indugi alle terapie necessarie. Scala di qualità degli impianti Gruppo I Normale Gruppo II Soddisfacente Gruppo III Compromesso Gruppo IV fallimento clinico Gruppo V fallimento assoluto Assenza di dolore. Impianto fisso. Riassorbimento crestale <1,5 mm dalla scopertura. Riassorbimento crestale <1 mm nei 3 anni successivi. Assenza di essudato. Assenza si rarefazione rxgrafica, BI tra 0 e 1. Assenza di dolore. Impianto fisso. Riassorbimento crestale tra 1,5 e 3 mm. Profondità di sondaggio >4 mm. Presenza transitoria di essudato. Assenza di rarefazione rxgrafica, BI tra 0 e 1. Assenza di dolore. Impianto fisso in mancanza di carico. Mobilità entro 0,5 mm al carico protesico. Nessun movimento verticale. Riassorbimento crestale > di 3 mm nel 1° anno, >1 mm negli anni successivi. Profondità di sondaggio >5 mm. Presenza di essudato. Rarefazione rxgrafica nella porzione coronale, BI tra 1 e 3. Dolore alla funzione, palpazione e percussione. Mobilità orizzontale e verticale.Riassorbimento osseo progressivo incontrollabile. Perdita ossea superiore a ½ dell’altezza dell’impianto. Pus. Rarefazione ossea generalizzata. Impianto rimosso Da Misch C.E.: Implant success or failure: clinical assestment in implant dentistry. In Misch C.E. editor: contemporary Implant dentistry, pp 29-42, st Louis, 1993 1.3.5 Fase protesica La fase protesica segue quella chirurgica a distanza di un tempo variabile legato al momento in cui si può protesizzare l’impianto. Questo varia a seconda della densità ossea: più l’osso è denso e prima sarà possibile applicare il carico. Sono diverse le complicanze che possono verificarsi in questo momento del piano di trattamento. Durante il posizionamento della componente secondaria potrebbe verificarsi una rotazione dell'impianto. Qualora si dovesse verificare tale evenienza e l'impianto risulti stabile e non dolente sarà necessario riposizionare nuovamente la vite di guarigione senza stringere in maniera eccessiva e valutare dopo 2-3 mesi. Dopo l’applicazione della protesi il paziente potrebbe lamentare la comparsa di dolore e in questo caso la prima manovra da effettuare è quella della rimozione della protesi stessa per verificare sia radiograficamente che clinicamente la stabilità dell'impianto e l'eventuale grado di perimplantite. In tempi più o meno lunghi possono verificarsi altre problematiche, meno frequenti, come ad esempio la frattura dell’impianto, che può avere principalmente 3 cause: disegno e materiale della fixture non idoneo all’elemento dentale sostituito; adattamento non passivo della struttura protesica; inadeguato carico biomeccanico per eccessiva angolazione dell’impianto all’atto chirurgico. La frattura dell'impianto viene diagnosticata con un esame radiografico; qualora un frammento dovesse essere localizzato in prossimità di strutture anatomiche quali canale mandibolare, forame mentoniero, seno mascellare sarà necessario effettuare una tomografia computerizzata per valutare in modo opportuno i rapporti tra l’impianto e queste strutture. Il trattamento consiste nell'asportazione di entrambi i frammenti ed il successivo posizionamento di un innesto osseo qualora il sito debba essere riutilizzato per un nuovo impianto. Sempre per l’eccessiva angolazione dell’impianto rispetto al carico protesico si può verificare l’allentamento o la frattura della vite di connessione protesi-impianto; rimuovendo la protesi è possibile serrare di nuovo la vite di connessione con un cacciavite idoneo o con una chiave dinamometrica con forza di serraggio a 35-40 Ncm. Nel caso di frattura, bisogna invece rimuovere, in modo molto accurato, al fine di non danneggiare la parte filettata dell'impianto, i due frammenti della vite, per poi sostituirla con una nuova. Ultima complicanza, ma forse la più frequente, legata alla protesi è la decementazione della stessa; qualora si dovesse verificare molto frequentemente è opportuno ricontrollare possibili interferenze occlusali. Quindi il trattamento implantoprotesico può presentare delle problematiche che vanno, prima di tutto, prevenute, ricorrendo ad adeguati esami preliminari (tomografia computerizzata con Dentascan), poi trattate in caso intervengano durante o subito dopo la fase chirurgica, oppure nel corso della protesizzazione o anche a distanza di anni dalla fine della terapia. La raccolta di una completa documentazione del caso, qualora non risulti presente un danno biologico permanente ed un relativo nesso di causa, costituisce per il professionista una valida dimostrazione della sua competenza in materia. Inoltre risulterà necessario l’evidenziare nel consenso informato la parte riguardante l’importanza dei richiami al fine di educare il paziente alla salvaguardia della struttura implantoprotesica. Quindi bisogna rinforzare la motivazione del paziente all’igiene orale domiciliare, istruendolo all’uso di tutti i presidi necessari. Nella fase di richiamo, sarà invece opportuno: controllare il grado di igiene del paziente; effettuare controlli radiografici; smontare il manufatto protesico periodicamente, qualora si tratti di una protesi di tipo avvitato: controllare la fissità del complesso implanto-protesico. II. CONTENZIOSO MEDICO-PAZIENTE: ASPETTI CLINICI E MEDICO LEGALI 1. LA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Con il termine responsabilità, inteso in senso generale, si intende il dover rispondere per la violazione di una qualsiasi norma di condotta, subendone le relative e conseguenti sanzioni La responsabilità professionale concerne una 33. condotta imprudente, negligente o attuata con imperizia, nell'esecuzione di atti e prestazioni che fanno parte di una professione. Non coinvolge, quindi, solo l'ambito sanitario ma qualsiasi prestazione a carattere professionale. La responsabilità professionale può essere vista sotto due ottiche opposte: la prima, caratterizzata da un accezione negativa, tende a vedere la responsabilità come l’attitudine a rispondere del proprio operato professionale, in caso di errore od omissione, davanti ad un giudicante (il danno viene valutato a posteriori da parte di un soggetto esterno); la seconda, positiva, vede la responsabilità come l’impegno a realizzare una condotta professionale corretta nell’interesse di salute dell’assistito (la valutazione avviene prima e durante la prestazione d’opera da parte dello stesso soggetto agente). L’accezione negativa emerge quando ormai il danno è avvenuto (se opportunamente considerata, ha valore preventivo rispetto ad ulteriori danni consimili) mentre quella positiva consente di evitare danni alla persona assistita. La responsabilità professionale ha un fondamento giuridico penale e civile. 1.1 La responsabilità penale In ambito penale il professionista della salute può essere chiamato a rispondere di: lesione personale dolosa (art. 582 C.P.): intervento del professionista, intrinsecamente lesivo della persona assistita, ad esito fausto, ma posto in essere senza il consenso della persona quando si consapevole; omicidio preterintenzionale (art. 584 C.P.): intervento effettuato senza il consenso della persona assistita e che ha causato il decesso della stessa a prescindere da errori del professionista che non è intervenuto: lesione personale colposa (art. 590 C.P.): errore od omissione colposo connesso a intervento del professionista che abbia causato lesioni personali della persona assistita. È perseguibile a querela: il paziente presenta una querela a supporto di un’istanza di risarcimento perché ha subito un danno oppure crede che il professionista non abbia svolto correttamente il suo lavoro. omicidio colposo (art. 589 C.P.): errore (od omissione) colposo connesso all’intervento del professionista che abbia causato il decesso della persona assistita. Riguarda persone con patologie pre-esistenti la cui morte sia causata ad esempio da un’errata anamnesi pre-operatoria o da un errato comportamento dell’operatore (es.: paziente subisce uno stress a causa di un’estrazione dentaria: si alza subito dalla poltrona ma sviene per un’ ipotensione posturale, sbatte la testa e muore: l’odontoiatra potrebbe essere accusato di omicidio colposo per omissione -non ha fatto rimanere il paziente steso abbastanza da ristabilire una giusta pressione- ); violenza privata (art. 610 C.P.): intervento del professionista contro la volontà dell’assistito; omissione di soccorso (art. 593 C.P.): mancata prestazione di assistenza occorrente nei confronti di una persona inanimata, ferita o altrimenti in pericolo da parte di un professionista della salute al di fuori di obblighi istituzionali , nel solo caso che egli si imbatta nella persona; rifiuto d’atti d’ufficio-omissione (art. 328 C.P.): mancato intervento del professionista, quando sia istituzionalmente dovuto senza ritardo dallo stesso, in qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio; rivelazione di segreto professionale (art. 622 C.P.): violazione della segretezza da parte del professionista in rapporto ad attività libero professionale; rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 C.P.): violazione della segretezza da parte del professionista in relazione a fatti inerenti la propria pubblica funzione o pubblico servizio; falsità ideologica in certificati (art. 481 C.P.): falsa attestazione in certificati in genere da parte del libero professionista; falsità ideologica in atti pubblici (art. 479 C.P.): falsa attestazione in documentazione sanitaria redatta nell’ambito dello svolgimento di pubbliche funzioni o di pubblico servizio; omissione di referto (art. 365 C.P.): mancata segnalazione di delitti perseguibili d’ufficio all’autorità giudiziaria da parte del professionista che presti opera o assistenza; omissione di denuncia (art. 361 e 362 C.P.): mancata segnalazione all’autorità giudiziaria di reati perseguibili d’ufficio da parte del professionista che ne venga a conoscenza, in quanto riveste la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. 1.1.1 Elementi costitutivi del reato Come previsto dall’art. 1 del Codice Penale “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. Affinché si configuri un reato, e dunque la responsabilità sia “penalmente rilevante”, è necessario che vengano in essere i suoi elementi costitutivi: condotta: non può esistere reato senza condotta criminosa ( “nullum crimen sine actione” ). La condotta può essere di due tipi: commissiva quando l’azione criminosa prevista dal legislatore presuppone un fare oppure omissiva qualora invece l’obbligo giuridico è di impedire un evento e a seguito di questa omissione l’evento avviene andando a configurare il reato. Il diritto penale “quando eleva un omissione a condotta criminosa si riferisce solitamente a obblighi di giuridicamente imposti (obbligo di soccorrere una persona) agire 22 ”. Sul piano legislativo i reati possono essere di sola azione, cioè possono essere realizzati con una condotta esclusivamente attiva, di sola omissione, in cui il legislatore ha tipizzato un comportamento esclusivamente omissivo, a condotta mista, per la cui realizzazione è necessario tenere una condotta attiva e una omissiva e infine a condotta libera o alternativa, realizzati indifferentemente con l’una o l’altra forma di comportamento; evento: non è da intendersi nel suo senso più generale e cioè come il fatto in sé per sé ma, secondo la definizione di Palazzo: “è evento naturalistico la morte di Tizio, intesa come fenomeno biologico di cessazione di ogni attività cardio-circolatoria, prodottasi come conseguenza della condotta omicida che ha reciso la carotide della vittima, mentre è evento in senso giuridico il contenuto di disvalore consistente nella perdita di una vita umana”. L’evento non è sempre una condizione necessaria poiché nella costruzione della figura di reato è possibile prevedere reati di evento e reati di pura condotta: nel reato di evento oltre alla condotta giuridicamente errata, si verifica un danno (in ambito sanitario al paziente, ad esempio nel caso di omicidio colposo, lesione personale dolosa e colposa,…), mentre nel reato di pura condotta non è rilevante la presenza del danno ma viene punito il comportamento in sé (rivelazione di segreto, omissione di atti di ufficio come la mancata richiesta di consenso,…); rapporto di causalità: consiste in un criterio di imputazione di un evento alla condotta di un soggetto; infatti, solo se l'evento può essere ritenuto ricollegabile alla condotta, l'agente potrà essere tenuto a risponderne (c.d. principio di colpevolezza). Tale concetto viene esplicitato dal codice penale nella formula usata dall'Art. 40 comma 1 “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguente dalla sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Per anni il sistema giudiziario si era basato su due ragionamenti per definire il nesso di causalità; il probabilistico cioè il medico rispondeva penalmente nell'ipotesi in cui poteva prevedere e prevenire il fatto-reato, quale conseguenza della sua condotta, in base alle regole di generalizzata esperienza -leggi scientifiche o statistiche di copertura o criterio dell'id quod plerumque accidit-, e lo statistico, secondo il quale la prova che il comportamento alternativo dell'agente avrebbe impedito l'evento lesivo doveva verificarsi con un elevato grado di probabilità in una percentuale di casi prossima a cento. Recentemente però una sentenza della Cassazione Penale a sezioni unite ha definito con chiarezza il comportamento che il giudicante deve assumere: Cassazione Penale, sezioni unite, sentenza n. 30328: “…non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosi che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’…”. Da questa importante sentenza delle sezioni unite si evince come il giudice di legittimità abbia voluto allontanarsi da qualsiasi valutazione aprioristica e di carattere meramente presuntivo circa l'esistenza del nesso causalistico. Ritiene necessario che il procedimento logico-deduttivo debba condurre il giudice alla “certezza processuale al di là di ogni ragionevole dubbio” (Sentenza Cassazione n. 38334), con esclusione, quindi, dell'interferenza di decorsi alternativi. Il giudizio prognostico deve pertanto essere rigoroso, basato sia su conoscenze scientifiche o statistiche, sia su conoscenze di carattere generale, cercando di analizzare tutte le caratteristiche del singolo caso; elemento soggettivo penalmente alla del reato: definizione della prima di procedere responsabilità bisogna considerare la natura dell’azione o omissione dell’agente: dolosa, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente; colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Nella valutazione della responsabilità bisogna tener conto di altri importanti parametri quali la capacità di intendere e volere al momento del fatto (art. 85 c.p.) (condizione necessaria per l’imputabilità); la commissione del fatto con coscienza e volontà (art. 42 c.p.); la previsione e volontà dell’evento come conseguenza della propria azione od omissione (art. 43 c.p.); la previsione e volontà dell’evento: negligenza, imprudenza, imperizia…(art. 43 c.p.) 1.2 LA RESPONSABILITA’ CIVILE Il fondamento giuridico della responsabilità civile professionale risiede in alcuni articoli del Codice civile: Diligenza nell'adempimento (art. 1176 cc): “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’ attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Responsabilità del debitore (art. 1218 cc): “Il debitore che non esegue correttamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile ”. Risarcimento per fatto illecito (art. 2043 cc) “ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno ”. Responsabilità del prestatore d'opera (art. 2236 cc): “ Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. 1.2.1 Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale La responsabilità in ambito civile può essere distinta in responsabilità contrattuale o del debitore e responsabilità non contrattuale o aquiliana. La responsabilità contrattuale è la responsabilità derivante dall'inadempimento, dall'inesatto adempimento e dall'adempimento tardivo di una preesistente obbligazione quale che ne sia la fonte (ad esclusione del fatto illecito) e si distingue dalla responsabilità extracontrattuale che deriva dalla violazione del generico obbligo di non ledere alcuno senza che prima della violazione sia possibile l'individuazione di una obbligazione. Tale distinzione è stata messa in rilevo da ultimo da Cass. Sezioni Unite 26 giugno 2007 n. 14712. Per l’attribuzione della responsabilità civile, nella contrattuale all’attore è sufficiente provare il preesistente rapporto giuridico da cui deriva il suo diritto di credito ed è sul debitore convenuto in giudizio che ricade l’onere della prova di dimostrare - se vuole andare esente da responsabilità- che l’inadempimento dell’obbligazione sia dovuto a causa a lui non imputabile (1218 c.c.). In materia extracontrattuale, invece, la regola è che l’attore ha l’onere di provare il fatto illecito. Vale a dire, non solo l’evento dannoso ma anche la colpevolezza (dolo o colpa) nella condotta dell’autore del danno ed il relativo nesso causale. 1.2.2 L’obbligazione di mezzi e l’obbligazione di risultati In campo medico il sanitario instaura con il paziente un contratto d’opera intellettuale, detto anche “contratto di prestazione medica” e viene definito come “l’accordo in virtù del quale il medico, effettuata la diagnosi ed indicata la terapia, si obbliga nei confronti del paziente, dietro corrispettivo, a realizzarla secondo le migliori prescrizioni dell’arte medica, assumendo, perciò una obbligazione di mezzi”. Dunque, il medico si impegna a prestare la propria opera intellettuale secondo la diligenza, la prudenza e la perizia sulla base di quella che è la miglior scienza ed esperienza medica del momento ma non garantisce il conseguimento del risultato sperato. L’obbligazione di mezzi è affiancata in giurisprudenza dall’obbligazione di risultato, nella quale il professionista si impegna a raggiungere con tutti i mezzi a sua disposizione il risultato concordato col paziente. Ci sono delle discipline in campo medico in cui vige l’obbligazione di risultato. Una di questa è l’odontoiatria, soprattutto l’implanto-protesi, dove il contratto stipulato tra operatore e paziente prevede un’obbligazione di risultato. Già nel 1993 il tribunale di Genova si era espresso in materia: “il contratto intercorso tra il medico odontoiatra e il paziente, per la progettazione e produzione di una protesi, ha per oggetto una prestazione di risultato e l’obbligazione del professionista in tal caso consiste in una prestazione d’opera idonea a raggiungerlo. Nell’ipotesi in cui l’operato del dentista sia stato causa di danni all’integrità fisica del paziente (rottura di elementi dentari, sofferenza alle articolazioni temporomandibolari), tale comportamento rileva e come inadempimento al contratto d’opera professionale e come illecito extracontrattuale; è quindi prospettabile il cumulo delle due azioni, una fondata sulla responsabilità contrattuale, l’altra sulla responsabilità extracontrattuale”. L’intervento odontoiatrico di protesizzazione ha chiaramente come finalità il risultato trattandosi di attività diretta alla confezione e applicazione di protesi e quindi all’esclusivo raggiungimento di un obbiettivo anatomo-funzionale ed estetico; nel caso in esame il trattamento era risultato scorretto e incongruo secondo gli accertamenti del C.T.U., non rispondendo ai requisiti minimi di funzionalità, di resa estetica e di rispetto dell’integrità del paziente. L’odontoiatra incaricato della realizzazione e applicazione di una protesi, quindi, è responsabile se non realizza un manufatto idoneo alla sua destinazione; incorre in una responsabilità contrattuale ed è tenuto a risarcire il danno biologico e, se presente, quello patrimoniale. Nell'ambito civilistico, diversamente da quanto avviene in sede penale, si distinguono una colpa lieve e una colpa grave, inescusabile "per imperizia, imprudenza, inosservanza di leggi o regolamenti". negligenza o La negligenza si manifesta nei casi in cui il medico agisce con superficialità, disattenzione. L'imprudenza si ha quando il medico agisce senza adottare le dovute cautele dettate dall'ordinaria esperienza, quando agisce con eccessiva fretta e avventatezza. L'imperizia è invece la mancanza di esperienza o la carenza di nozioni tecniche e scientifiche nonché della sufficiente esperienza pratica richiesta per l'esercizio dell'attività medica. Per colpa lieve si intende generalmente la omissione di diligenza (di cui all’art. 1176) o negligenza dovuta alla preparazione non coerente al caso concreto e causante un danno nella esecuzione del trattamento chirurgico o nell'ambito della terapia medica. Per colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 cc., si intende la grossolanità dell'errore, dovuta alla violazione delle regole e mancata adozione degli strumenti, e quindi di quelle conoscenze che rientrano nel patrimonio minimo del medico, poiché acquisite alla scienza medica. Il metro di valutazione della colpa varia a seconda del contenuto oggettivo (negligenza, imperizia o imprudenza) della stessa ed a seconda della natura dell'intervento ( complesso o routinario ) richiesto al medico. 1.2.3 La ripartizione dell'onere probatorio Nelle obbligazioni di risultato (prestazioni odontoiatriche, chirurgia estetica...) all'utente basta provare il mancato raggiungimento del risultato, mentre spetta al professionista l'onere della prova della mancanza di colpa; invece nelle obbligazioni di mezzi il paziente deve dimostrare l'inadempimento del professionista (e quindi la colpa dello stesso), non bastando la prova che non si è ottenuto il risultato al quale si mirava. In questo ambito contrattuale l'utente che ritiene di avere subito un danno è tenuto dunque a provare: 1. la responsabilità professionale dovuta a difettosa o inadeguata prestazione professionale, per violazione del dovere di diligenza esigibile ai sensi dell'art. 1176 , comma 2, cc.; 2. l'esistenza di un danno; 3. il rapporto di causalità tra il danno e la condotta tenuta nell'espletamento del mandato. Deve inoltre dimostrare che l'intervento concordato era di facile esecuzione, allo scopo di fare valere la responsabilità per colpa lieve. Il medico per essere esonerato da responsabilità deve a sua volta dimostrare che l'inadempimento non è a lui imputabile e che ha tenuto il comportamento diligente richiesto dalla legge e dal contratto avendo adottato tutti i mezzi e gli strumenti acquisiti alla scienza medica del momento storico considerato. 1.3 LA RESPONSABILITA’ DELL’ODONTOIATRA NEL TRATTAMENTO IMPLANTOLOGICO La disciplina implantologica, per le sue peculiarità, offre un ampio spettro di riflessioni medico-legali, sia perché si tratta di interventi “di elezione”, che non presentano mai connotazione di urgenza e per i quali si delinea quasi sempre la possibilità di un’alternativa terapeutica, rappresentata dalla protesi tradizionale, sia perché in talune situazioni la linea di demarcazione fra la responsabilità dell’operatore e l’imprevedibilità della risposta del paziente al trattamento appare piuttosto sfumata. Il primo problema medico-legale che si pone è la verifica dell’effettiva idoneità del soggetto al trattamento di chirurgia implantare. In altri termini, il ricorso a questo tipo di tecnica non può essere giustificato semplicemente da una preferenza dell’operatore o da un’insistente richiesta del paziente, ma necessita di una rigorosa selezione, volta ad escludere la presenza di controindicazioni generali o locali che potrebbero rappresentare causa di fallimento o peggio esporre il paziente al rischio di gravi complicanze. La dottrina medico-legale ha individuato quattro categorie entro le quali rientrano i pazienti “candidati” al trattamento implantoprotesico: difetti anatomici: vi rientrano quei pazienti che hanno avuto difficoltà ad utilizzare una protesi removibile a causa di una morfologia dei tessuti poco o per niente adatta al supporto. Questi deficit includono: mancanza di adeguato spazio sublinguale, posizione irregolare della lingua, sfavorevole forma della cresta ossea, anomala relazione tra le arcate; intolleranza fisiologica: a questa categoria appartengono soggetti la cui tolleranza alla protesi convenzionale è dovuta al dolore, irritazione o ulcerazione della mucosa per forze modeste, non eccedenti quelle funzionali, oppure ad un accentuato riflesso faringeo. intolleranza emotiva: sono pazienti che non accettano la protesi removibile: lamentano di avere qualcosa in bocca, di avvertire una “barra sotto la lingua” o una “placca sul palato”, di “dover rimuovere ogni notte i propri denti”; desiderano sentire i denti come parte integrante del loro corpo; pazienti che per esigenze professionali richiedono protesi con superiori caratteristiche meccaniche o che esigono a tutti i costi il miglior trattamento possibile e che, considerando la protesi su impianto come la soluzione ideale, la desiderano anche se non hanno difficoltà nel portare la removibile. Altro aspetto indispensabile da considerare è l’indagine preliminare sulle condizioni di salute generale del soggetto e su quelle del cavo orale mediante accertamenti radiologici e densitometrici (rx e dentascan) che consentano di valutare la quantità e la qualità dell’osso, tenendo presente che dinanzi ad un fallimento riconducibile ad un’insufficiente valutazione iniziale, difficilmente l’odontoiatra potrà sottrarsi ad un addebito di responsabilità. Un altro punto cardine, alla luce della sentenza della Sez. I del Tribunale di Milano del 9/06/1988, riguarda la scelta del tipo di impianti; la decisione del tribunale che in questo caso attribuisce la responsabilità all’odontoiatra è infatti così motivata: “Sussiste la responsabilità professionale del medico….poiché le conseguenze dannose lamentate dalla paziente sono correlate esclusivamente alla sua imperizia (tutti gli impianti a lamina, presentano infatti problemi di traballamento)...”. In questa sentenza la responsabilità del professionista è stata ravvisata nell’inadeguata scelta degli inserti implantari ponendo quindi l’accento sul valore da attribuire a metodiche di consolidata sperimentazione e validità scientifica, nella fattispecie riconducibili alle procedure di osteointegrazione con l’utilizzo di impianti cilindrici in titanio, che hanno ormai soppiantato le vecchie tecniche. Entrando nel merito dei fallimenti del trattamento implantologico si possono per semplicità distinguere incidenti nel corso dell’atto chirurgico ed insuccessi terapeutici a distanza. I primi, a seconda dell’entità delle lesioni, possono causare un danno temporaneo o permanente identificabile in una malattia iatrogena, generalmente di tipo flogistico - infettiva destinata ad una cronicizzazione o ad una soluzione con esiti anatomofunzionale. A tal proposito si considerino le lesioni neurologiche (in particolare del nervo alveolare inferiore), le lesioni dei tessuti limitrofi al sito implantare (invasione del seno mascellare o delle cavità piriformi) o complicanze infettive (sinusiti mascellari, etmoiditi, comunicazioni oroantrali) riconducibili a contaminazione o errato posizionamento degli impianti. In queste situazioni la dimostrazione dell’errore professionale non è di particolare difficoltà, specialmente se l’evento dannoso è conseguenza di una approssimativa valutazione delle condizioni iniziali del paziente o dell’omissione di indagini strumentali atte a fornire utili indicazioni per evitare l’incidente. In riferimento a ciò in una recente sentenza (n.5945 del 3/11/2000) il giudice di legittimità si è espresso in materia di responsabilità professionale medica affermando che questa “non sussiste solo nelle ipotesi di colpa grave o dolo del sanitario, bensì anche in presenza di colpa lieve quando, in un caso di routine, non abbia osservato, per negligenza, le regole precise che siano acquisite, per consolidata sperimentazione, alla pratica medica, e che quindi il medico specialista non può ignorare”. Tale dichiarazione pone inevitabilmente l’accento sul controverso quesito riguardante il possibile inquadramento della disciplina implantologica fra le prestazioni che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. A nostro avviso a fronte di protocolli operativi sempre più affidabili e del costante sviluppo di settore, salvo rare eccezioni, il trattamento di chirurgia implantare non può considerarsi di per sé di speciale difficoltà, ove con questa accezione si intenda la soluzione di casi complessi, tali da richiedere il ricorso a mezzi terapeutici non studiati o sperimentati a sufficienza. Ben diverso è il caso degli insuccessi terapeutici, rappresentati dalla perdita precoce o tardiva dell’impianto, nei quali è necessaria un’analisi particolareggiata, volta all’individuazione delle possibili cause e di un eventuale responsabilità dell’operatore. I fallimenti sono più frequentemente ascrivibili ad infezioni perimplantari, mancata osteointegrazione, inadeguatezza degli inserti endossei (per diametro, forma, lunghezza in relazione al sito chirurgico) o inadeguato rapporto fra impianto e protesi (per numero, posizione e/o angolazione). In tutti questi casi la perdita dell’impianto avviene in seguito ad alterazioni della struttura ossea, con perdita di sostanza riconducibile a fenomeni osteolitici e aggravata dalle manovre di rimozione dell’impianto. Ciò significherebbe che, nell’ipotesi in cui sia accertata la responsabilità dell’operatore nel verificarsi dell’evento dannoso, questi potrà essere chiamato a rispondere di lesioni personali in sede penalistica, o a risarcire il danno alla salute e quello patrimoniale in sede civilistica. Perché si possa considerare colposo il comportamento del professionista, occorre che sia verificata, in modo rigoroso, la sussistenza del nesso di causalità fra la condotta dell’operatore (imperita, negligente o imprudente) e l’evento dannoso, tenendo presente che nell’ipotesi in cui sia imputato un comportamento omissivo, fra questo e l’insuccesso terapeutico ci deve essere una correlazione prossima alla certezza (Cass. IV 30328/02). A tal proposito è indicativo il caso di una perdita dell’impianto a seguito di processi infettivi perimplantari; è necessario verificare se il fallimento sia dovuto alla presenza di focolai infettivi non trattati in prossimità del sito chirurgico, il che implicherebbe una condotta negligente da parte del professionista (è buona regola, prima dell’intervento chirurgico, eliminare tutte le possibili fonti di contaminazione batterica) o se sia invece causato dalla trascuratezza del paziente che si assenta ai controlli periodici o non adotta correttamente i presidi di igiene orale domiciliare che gli sono stati prescritti. Del tutto simile risulta l’ipotesi di un fallimento riconducibile a mancata osteointegrazione. Qualora vengano utilizzati i corretti sistemi implantari, l’esito negativo potrebbe dipendere da una riscaldamento eccessivo dell’osso nella fase chirurgica, da un errata progettazione protesica responsabile di un carico masticatorio o di uno schema occlusale inadeguati o, viceversa, dalla mancata abolizione del fumo da parte del paziente, nonostante le indicazioni dell’odontoiatra. Si tratta solo di alcune delle possibili cause di fallimento del trattamento implantare, significative tuttavia della difficile interpretazione e valutazione di molti casi di presunta responsabilità professionale, in particolar modo poi se l’insuccesso si verifica in assenza di una plausibile spiegazione tecnica. In tal caso sarà comunque a carico del sanitario l’onere di dimostrare la correttezza del proprio operato, in termini di valutazione delle possibili controindicazioni, scelta degli inserti implantari idonei al caso specifico, rispetto dei tempi di guarigione fra l’intervento chirurgico e la protesizzazione. Dinanzi ad una condotta diligente, il paziente potrà rivalersi solo se proverà di aver avuto dall’odontoiatra la certezza di un risultato positivo. Ciò rappresenta un nodo cruciale, anche in considerazione del fatto che, nella maggioranza dei casi, uno dei motivi scatenanti il contenzioso è la mancata o insufficiente informazione ricevuta su possibili complicanze e fallimenti. Questo sottolinea l’assoluta importanza dell’informazione che, nel campo dell’implantologia, in considerazione della complessità della procedura e dei rischi connessi alla sua invasività, rappresenta un punto cardine di grande valore. Il paziente va quindi in primo luogo delucidato sulle varie fasi dell’intervento, sui tempi di guarigione da rispettare prima della riabilitazione vera e propria, sui rischi attribuibili al trattamento di protesi su impianti. Va inoltre informato dell’esistenza di alternative alla chirurgia implantare, che presentano vantaggi, ma anche risvolti negativi (riassorbimento osseo, irritazione dei tessuti gengivali, sovraccarico sui denti residui). L’ informazione che non deve limitarsi al momento precedente la scelta del trattamento, ma interessare tutto il periodo nel quale si svolge la terapia, compresa la convalescenza, comunicando al paziente la necessità di sottoporsi a regolari controlli e di mettere in atto alcune misure importanti per il buon mantenimento degli impianti. Nel caso di abbandono del programma di cura e di controllo da parte del paziente, se si verifica un evento dannoso, potrebbero configurarsi le condizioni previste dall’art. 1227 del c.c.: “ Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. Alla luce di questo si sottolinea ancora una volta l’importanza di una valida cartella clinica che, in particolar modo per la chirurgia implantare deve essere il più dettagliata e precisa possibile. Unitamente all’anamnesi, all’esame obiettivo e all’analisi gnatologica, è dunque opportuno che siano inseriti gli accertamenti radiologici, eventuali esami ematologici e consulenze mediche specialistiche (es.: cardiologiche). Inoltre, se l’intervento chirurgico viene eseguito in sedazione, è bene che in cartella sia specificato il tipo di anestetico somministrato e sia indicato il tipo di impianto endosseo utilizzato. E’ infine consigliabile prendere nota in cartella delle osservazioni effettuate nel corso dei successivi controlli, delle indicazioni igieniche e delle prescrizioni farmacologiche, segnalando anche eventuali mancanze del paziente. In conclusione è possibile affermare che la responsabilità del medico deve essere ritenuta quando l’errore professionale, in rapporto alla soluzione di un determinato problema, dipenda da una particolare condotta contraria, per negligenza, imprudenza o imperizia, con le regole universalmente accettate nell’arte medica, e trovi origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione, o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali di indagine o di terapia che il medico deve essere sicuro di poter adoperare correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o diligenza che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria. Quando, come nel caso di interventi chirurgici, il lavoro si svolga in “equipe”, ciascun componente è tenuto ad eseguire col massimo scrupolo le funzioni proprie della specializzazione di appartenenza. In materia di colpa professionale, l’esclusione della colpa del sanitario trova un limite nella condotta del professionista incompatibile con quel minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi in chi è abilitato alla professione medica. Nel caso di prestazioni mediche di natura specialistica, effettuate da chi sia in possesso del diploma di specializzazione, non può prescindersi dalla considerazione delle cognizioni generali e fondamentali proprie di un medico specialista nel relativo campo, non essendo sufficiente il riferimento alle cognizioni fondamentali di un medico generico. 2. L’INFORMAZIONE E IL CONSENSO Per consenso informato si intende, l'accettazione che il paziente esprime in merito a un trattamento sanitario, in maniera libera, e non mediata dai familiari, dopo essere stato informato sulle modalità di esecuzione, i benefici, gli effetti collaterali e i rischi ragionevolmente prevedibili, l'esistenza di valide alternative terapeutiche. L'informazione costituisce una parte essenziale del progetto terapeutico, dovendo esistere anche a prescindere dalla finalità di ottenere il consenso. 2.1 IL DOVERE DI INFORMARE L’acquisizione del consenso dovrebbe svolgersi in tre parti: una parte preliminare di informazione maturazione da parte del paziente delle informazioni ricevute firma del modulo di consenso L’informazione non è da intendere come una trasmissione di dati e notizie finalizzata a colmare la inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico è paziente ma ha lo scopo di porre il paziente nella condizione di esercitare correttamente i suoi diritti e di far si che si trovi nella posizione di scegliere liberamente se intraprendere o meno il trattamento proposto. Il medico ha il dovere di informare il paziente e il paziente ha il diritto di essere informato: queste due condizioni costituiscono il presupposto naturale e giuridico del consenso informato, che può essere manifestato solo dal soggetto interessato che abbia compreso la sua situazione sanitaria. Informazione e consenso sono un binomio inscindibile. Ma non è da sempre così. Ippocrate, celebre medico greco, ammoniva i suoi discepoli affinché nulla fosse rivelato al malato circa le sue condizioni di salute e i trattamenti a cui era sottoposto: “…tieni all’oscuro i pazienti di ogni evento futuro…”. Quest’ atteggiamento rimase vivo per tutto il Medioevo fino all’Illuminismo quando, con gli scritti di Gregory Rush si cominciò a prospettare la demistificazione della medicina e, conseguentemente, l’opportunità di informare il paziente. Si trattava però di un’ informazione non ancora volta all’acquisizione del consenso ma solamente alla comprensione da parte del paziente della prescrizione medica. Il primo sostenitore del diritto del paziente all’informazione fu Thomas Percival i cui studi furono poi alla base del primo Codice di Deontologia medica americano del 1847. Ai giorni nostri “competente” o non è possibile “consapevole” parlare senza una di consenso preliminare informazione: senza informazione non vi è valido consenso. Il rapporto medico-paziente è squilibrato in quanto si stabilisce tra ineguali in termini di competenza tecnica; si tende però a riconquistare una dimensione di “equità” tra medico e paziente, esaltando in primo luogo la necessità di fornire un’accurata e analitica informazione, tenendo conto dell’età, del grado di maturità e del livello culturale del paziente; essa deve vertere sugli aspetti della malattia, sul decorso, sulle finalità del piano di cura proposto, sulle alternative possibili, sulle modalità, sui rischi e sui benefici dei singoli interventi diagnostici e terapeutici, affinché il paziente possa recuperare gran parte di quella autonomia nelle decisioni che spetta alla persona umana, sia sana che malata. Il ruolo del medico non si limita all’elencare al paziente i vantaggi e gli svantaggi ma deve aiutare il malato a scegliere con serenità il trattamento più idoneo per la cura della sua patologia. L’obbligo di informare il paziente è anzitutto regola deontologica. art. 33 C.D. - Informazione al cittadino “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico dovrà comunicare con il soggetto comprensione, al tenendo fine conto di delle sue promuoverne capacità la di massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata”. L’articolo del nuovo Codice di Deontologia medica chiarisce che il medico deve dare la più serena informazione (e cioè data con cautela, non affrettatamente e senza drammatizzazione) sulla diagnosi, la prognosi, le prospettive terapeutiche e le conseguenze delle stesse allo scopo di favorire la partecipazione alle proposte terapeutiche da parte dell’assistito e per un miglior risultato del trattamento. Il medico deve soddisfare ogni specifico quesito del paziente dando risposte il più possibile chiare, rese cioè con un linguaggio comprensibile, adeguato al livello culturale dell’interlocutore; può evitare precisazioni superflue inerenti gli aspetti scientifici dell’intervento. Riguardo la delicata questione della prognosi infausta il nuovo Codice Deontologico non riconosce più al sanitario la discrezionalità della valutazione della opportunità o meno della rivelazione: il medico deve fornire le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, usando ogni cautela possibile, senza ricorrere a espressioni crude e esplicite che possano risultare traumatizzanti e non escludendo mai prospettive di evoluzione positive o favorevoli del male. Sia in caso di prognosi fausta che infausta, il paziente ha il diritto di conoscere il proprio destino, al fine di autodeterminarsi in ordine alle proprie scelte future. Nascondere la prognosi infausta al paziente “…appare frutto di una concezione autoritaria e falsamente pietistica della relazione con l’ammalato…” 5. Inoltre, la conoscenza della verità sulla malattia e sulle cure da intraprendere, può spingere il malato ad una più profonda ed efficace collaborazione con il medico per la guarigione. Anche nel settore dell’informazione si dà essenziale rilievo alla volontà manifestata dal paziente: il medico deve attenersi a questa sia in relazione ai contenuti stessi dell’informazione ( ad esempio se viene richiesta una spiegazione franca ed oggettiva circa la prognosi e la diagnosi, senza edulcorare la realtà oppure se il paziente preventivamente comunica di non voler essere informato di una diagnosi infausta), sia in relazione ai destinatari della stessa; il paziente infatti potrebbe vietare la comunicazione delle informazioni a terzi (parenti o non): l’informazione a terzi è ammessa solo previo consenso del paziente. I congiunti possono essere i destinatari dell’informazione solo se il paziente, unico titolare del diritto alla riservatezza, esprime la volontà di comunicare le notizie riguardanti la sua malattia ai parenti o a persone estranee all’ambito familiare. L’obbligo di informare non appartiene solo nei doveri imposti dall’etica professionale ma attiene anche al contenuto tipico del contratto di cura: si tratta di un dovere funzionale all’esatto adempimento della prestazione medica e, come tale, rileva in modo autonomo rispetto a quello relativo alla diligenza professionale che ogni operatore sanitario deve osservare nell’esecuzione della sua prestazione. Si può quindi configurare una responsabilità contrattuale per violazione del dovere di informazione indipendentemente dalla presenza di errori professionali nell’esecuzione del trattamento. L’informazione rileva nella misura in cui la sua omissione o inesattezza, incidendo all’autodeterminazione sul esercitato diritto con del paziente l’autorizzazione al trattamento sanitario, si traduce nella lesione di un diritto costituzionalmente protetto. L’obbligo di informazione è quindi diretto a preservare la persona dalla specifica possibilità di danno (lesione del diritto alla salute, intesa quale compressione della libertà di autodeterminazione di cui agli art. 13-32 della costituzione) derivante dalla particolare relazione instauratasi tra medico e paziente. Da quanto appena detto si evince che il dovere di informazione si desume non solo da norme etiche-deontologiche e contrattuali ma anche da norme costituzionali. La conferma viene dalla Corte di Cassazione: “Il dovere di informare il paziente sulla natura dell’intervento medico e/o chirurgico, sulla sua portata ed estensione e sui suoi rischi, sui risultati conseguibili e sulle possibili conseguenze negative, gravante sul medico in generale, si desume e dalle norme costituzionali e dal comportamento secondo buona fede cui sono tenute le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto” (Cass. civ. 25 novembre 1994 n. 10014). Ne deriva che “un consenso immune da vizi non può che formarsi dopo aver avuto piena conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione e dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, sicché presuppone una completa informazione sugli stessi da parte del sanitario o del chirurgo ” (Cass. civ. 12 giugno 1982 n. 3604). 2.1.1 Modalità, oggetto e limiti dell’informazione L’Informazione può essere definita come un processo attivo di comunicazione fra medico, che fornisce notizie, e paziente, che chiede delucidazioni e interroga su eventuali alternative al trattamento proposto. L’obbligo di informare grava sul medico curante o sul medico delegato dotato di adeguata capacità tecnica; il personale infermieristico e gli assistenti di poltrona non soni tenuti a informare, a meno che non gli possa essere riconosciuta una specifica autonomia operativa in un determinato settore: in questa ipotesi può avere il potere-dovere di informare. L’informazione dovrebbe essere perciò proposta in modo da stimolare chi la riceve ad una partecipazione critica alla decisione: il consenso informato, fondato sul principio di autonomia, richiede una chiara assunzione di responsabilità da parte di entrambi i soggetti della relazione e richiede perciò che i problemi siano formulati in modo chiaro e non ambiguo. Il linguaggio deve essere chiaro e comprensibile, adatto al singolo paziente in relazione alla sua cultura e alla sua capacità intellettiva da un lato e al suo stato psichico dall’altro. La recettività del paziente al discorso informativo è affidata alla sensibilità e all’esperienza del medico. Per certi versi, la spiegazione rivolta a persona non colta, nel senso generale del termine, è più semplice, in quanto maggiore è l’affidamento al sanitario, visto quale depositario unico della verità tecnica, e minore è la richiesta di approfondimento, vista la totale fiducia nel sanitario. Ciò però non autorizza una indebita semplificazione del dialogo, alla fine del quale il medico potrebbe dubitare di non essere stato esaustivo e sufficientemente chiaro, e di aver ottenuto un consenso immotivato. Viceversa, il dialogo con una persona colta è in genere facilitato dalla possibilità di utilizzare un linguaggio più tecnico ma di contro c’è una richiesta di approfondimento esasperato che, pur nascendo da un legittimo desiderio di rassicurazione, può finire col raggiungere l’effetto opposto. 2.1.2 Violazione del dovere di informare: responsabilità. La violazione del dovere di informare (ovvero in caso di informazione carente, errata o fuorviante) assume rilevanza dal punto di vista civilistico tutte la volte che da tale inadempimento sia conseguito un danno per il paziente. Se il paziente non viene informato ad esempio dei rischi (possibili e/o prevedibili) connessi ad un determinato intervento chirurgico -esistenti indipendentemente dall’osservanza di tutte le “leges artis” che il caso richiede -qualora l’intervento abbia purtroppo esito negativo, il paziente avrà diritto al risarcimento dei danni subiti provando di essersi sottoposto al trattamento solo in quanto non gli erano stati prospettati i relativi rischi. Pertanto se l’informazione è stata adeguata e completa, il medico risponderà dei danni eventualmente cagionati solo per colpa professionale, cioè per sua negligenza, imprudenza o imperizia; di contro se l’informazione è stata insufficiente, pur in assenza di colpa, il medico si espone a responsabilità. In giurisprudenza è stato affermato che “ il professionista sanitario ha l’obbligo, di natura contrattuale, di informare compiutamente il paziente dei rischi connessi alla terapia consigliata e prescritta […] onde ingenerare nel paziente il c.d. consenso informato, funzionale alla formazione di una sua libera scelta […] ” (Corte d’Appello di Milano, I sez. civ., 21 marzo 1995 n. 1256). E ancora: “Deve ritenersi che il consenso generico alla cura, implicito nella richiesta di intervento dei sanitari, non può ritenersi esteso a quei particolari trattamenti, la cui particolare pericolosità debba presumersi ignorata dal paziente. Va poi rilevato che è dovere professionale del medico […] informare il paziente dei rischi di quel trattamento di cui il paziente debba presumersi all’ oscuro […]” (Trib. Perugia, II sez. civ., 10 luglio 1987 n. 977). Dall’inadempimento del dovere contrattuale dell’informazione consegue non solo la violazione del diritto di autodeterminazione del paziente, ma anche l’eventuale danno alla salute derivato causalmente dall’intervento chirurgico -pur correttamente eseguito- proprio perché non si da al paziente l’opportunità di valutare se affrontare o meno l’operazione, non mettendolo in grado di rifiutare l’intervento o di accettarlo, assumendosene consapevolmente anche il relativo rischio, non derivante da errore professionale. Sotto il profilo strettamente probatorio, è sufficiente l’esistenza di un effettivo ambito di scelta da parte del paziente sui tempi e sui modi delle cure e la prova della mancata informazione da parte dei medici sui prevedibili rischi dell’intervento da cui era stato conseguito il danno alla salute per attribuire ai sanitari la responsabilità della mancata informazione. L’obbligo informativo non è solo precedente alla scelta del trattamento; esso copre l’intero sviluppo della relazione di cura e quindi anche la fase successiva, laddove sia necessario fornire al paziente regole di condotta per il periodo della convalescenza, ad esempio dovrà essere informato della necessità di sottoporsi a controlli post-operatori oppure sulle misure da adottare per la corretta manutenzione di impianti protesici. Molto spesso il trattamento chirurgico viene svolto in equipe e in più fasi ognuna delle quali presenta un significativo rischio per il paziente: il consenso informato deve essere acquisito in ogni singola fase: “… è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in equipe svolto in più fasi […] l’obbligo di informazione si estende anche alle singole fasi a ai rispettivi rischi”. Dal punto di vista penale invece l’omessa informazione è punita come “omissione di atti d’ufficio” (art. 328 C.P. : Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione ) con la reclusione da 6 mesi a 2 anni. 2.2 IL DOVERE DI ACQUISIRE IL CONSENSO Il consenso del paziente, libero e informato, costituisce il presupposto e la condizione di legittimità giuridica oltre che etica dell’atto medico. Art. 50 C.P. “ NON E' PUNIBILE CHI LEDE O PONE IN PERICOLO UN DIRITTO COL CONSENSO DELLA PERSONA CHE PUO' VALIDAMENTE DISPORNE.” L’art. 50 prevede la causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto; le cause di giustificazione (dette anche scriminanti o cause di liceità) sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale non è perché la legge lo consente o lo impone. Altri due articoli giustificano l’attività sanitaria: art. 5 Codice Civile “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana “La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività,e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Anche nella Convenzione di Oviedo per la protezione dei diritti dell’uomo si parla espressamente di consenso informato: Consiglio d’Europa: Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina Oviedo, 4 aprile 1997 16. Cap. II art. 5 - Consenso - (Regola generale) “Qualsiasi intervento in campo sanitario non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato il proprio Questa consenso persona libero riceve e informato. preventivamente un’informazione adeguata in merito allo scopo e alla natura dell’intervento nonché alle sue conseguenze ed ai suoi rischi. La persona interessata può liberamente ritirare il proprio consenso in qualsiasi momento”. L’individuazione dei requisiti del consenso non è regolata da norme specifiche ma si cerca di fare riferimento alle fonti più autorevoli e alla casistica giurisprudenziale. In primo luogo il consenso deve essere personale. È il paziente che riceve l’informazione ed è solo il paziente che, di persona, presta il consenso. La possibilità che altre persone decidano al suo posto è assolutamente eccezionale, in quanto costituisce una violazione della libertà dell’individuo: essa può essere giustificata solo in presenza di circostanze del tutto particolari previste dalla legge e può avvenire solo con garanzie rigorose. Dal punto di vista giuridico è totalmente irrilevante il consenso dei familiari e possono essere informati solo se è il paziente a chiederlo. La sfera personale del paziente può essere invasa solo se questi, preventivamente informato, vi ha consentito, mentre non può essere invasa se ha opposto il suo rifiuto: il paziente ha la facoltà di decidere in modo libero e consapevole della propria persona. A questa libertà l’ordinamento giuridico pone un solo limite: l’art. 5 del Codice Civile vieta gli atti di disposizione del proprio corpo “quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica” nonché quelli che “siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume”. Anche il codice deontologico dei Medici Chirurghi e Odontoiatri si esprime in materia di consenso informato: art. 35 C.D. - Acquisizione del consenso “Il medico non deve intraprendere attività diagnostiche e/o terapeutiche senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per le particolarità diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sull’integrità fisica si renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33. […] In ogni caso, la presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, con scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico , tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”. Parlando di consenso si deve distinguere: consenso generico o tacito all'atto sanitario che è implicito nella richiesta di visita o di prestazione sanitaria in genere, nonché nella richiesta di ricovero ospedaliero: si riferisce a pratiche diagnostiche e/o terapeutiche normali, prive di particolari rischi per il paziente ( atto medico ordinario ); consenso specifico od esplicito che deve essere richiesto ogni qualvolta i sanitari ritengano di dovere procedere a manovre diagnostiche complesse e rischiose, ad interventi chirurgici demolitori e/o menomanti, a pratiche terapeutiche comunque non prive di significativi pericoli. In questi casi il consenso è valido ove fornito dal maggiorenne non interdetto, in condizioni di capacità di intendere e di volere. Il consenso del minore e dell'interdetto deve essere espresso rispettivamente dall'esercente la patria potestà o dal tutore. 2.2.1 Validità del consenso La validità del consenso prestato dal paziente ad un determinato trattamento medico, sotto il profilo giuridico, deve poggiare su alcuni elementi indispensabili. Perché esplichi efficacia scriminante, il consenso deve essere libero e spontaneo: esso cioè deve essere immune da violenza, errore, dolo (sono i cosiddetti “vizi della volontà” previsti dal codice civile). Data la sua natura di atto e non di negozio, la relativa validità prescinde da requisiti di forma: potendo il consenso essere prestato in qualsiasi modo, è indifferente il mezzo (scritto, orale,…) con cui si manifesta. Può anche essere desunto dal comportamento oggettivamente univoco dell'avente diritto (consenso c.d. tacito). Il consenso deve essere acquisito prima di compiere qualsiasi atto diagnostico/terapeutico: non scrimina, invece, il consenso successivo o ratifica. Per essere valido, quindi, il consenso deve presentare i seguenti requisiti, mancandone uno solo il consenso è da ritenersi viziato: deve essere richiesto per un trattamento necessario; la persona che da il consenso deve essere titolare del diritto; la persona cui viene richiesto il consenso deve possedere la capacità di intendere e di volere; la persona a cui viene richiesto il consenso deve ricevere informazioni chiare e comprensibili sia sulla sua malattia sia sulle scelte programmate tanto ai fini diagnostici che terapeutici; in caso di indicazione chirurgica o di necessità di esami diagnostici, la persona a cui viene richiesto il consenso deve essere esaurientemente informata sulla manualità della prestazione, in rapporto alla propria capacità di apprendimento; la persona che deve dare il consenso deve essere portata a conoscenza sui rischi connessi e sulla loro percentuale di incidenza, nonché sui rischi derivanti dalla mancata effettuazione della prestazione; gli effetti collaterali, le menomazioni e le mutilazioni inevitabili; la persona che deve dare il consenso deve essere informata sulle capacità della struttura sanitaria di intervenire in caso di manifestazione del rischio temuto; il consenso scritto e controfirmato dal paziente e dal medico deve essere conservato sia dall' uno sia dall' altro. Quando in giurisprudenza di parla di incapacità (assenza della capacità di intendere e di volere) è d’obbligo fare una distinzione tra incapacità legale e incapacità naturale. L’incapacità legale riguarda i soggetti minorenni. Consiglio d’Europa;Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina Oviedo, 4 aprile 1997 16. Cap. II art. 6 -Consenso- Tutela delle persone che non hanno la capacità di dare il consenso. “Quando secondo la legge un minore non ha la capacità di dare il consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, dell’autorità o di una persona o un tutore designato dalla legge”. La volontà dell’incapace legale, se questi si trovi ad essere capace di intendere e di volere al momento dell’atto medico, prevale rispetto a quella del suo legale rappresentante: si pensi all’ipotetico contrasto tra la volontà del genitore o del tutore e quella del minore “quasi” diciottenne che abbia acquisto una sufficiente maturità di giudizio. In realtà questa è una questione ancora molto discussa: l’orientamento di apertura a un’adeguata valorizzazione del consenso informato del minore espresso dal CNB (Comitato Nazionale per la Bioetica) ha trovato parziale risonanza sopranazionale nella Convenzione sui diritti dell’uomo e della Biomedicina di Strasburgo21, secondo cui per la realizzazione di un intervento medico-chirurgico devono concorrere il consenso del minore che abbia la capacità di darlo e l’autorizzazione del suo rappresentante, dell’autorità, di una persona o un tutore designato dalla legge, pur con attribuzione di maggiore determinazione al parere del minore in rapporto all’età e al suo grado di maturità. Su posizioni di minore ampiezza si attesta il Codice Deontologico che ribadisce che il consenso del minore. dell’interdetto e dell’inabilitato agli intervento diagnostici e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso dal legale rappresentante, pur prevedendo l’obbligo del medico di dare informazione al minore e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e la capacità di comprensione, nel rispetto dei diritti del legale rappresentante. Art. 37 - Consenso del legale rappresentante “Allorché si tratti di minore, di interdetto, il consenso […], deve essere espresso dal rappresentante legale. Il medico, nella caso in cui sia stato nominato dal giudice tutelare un amministratore di sostegno deve debitamente informarlo e tenere nel massimo conto le sue istanze. In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto a informare l'autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili”. È certo comunque che non è capace chi abbia meno di 14 anni e il consenso potrà essere prestato dal legale rappresentante, sempre però nell’interesse del rappresentato; non è pertanto valido un consenso dato al compimento di un’ attività intrinsecamente dannosa per l’incapace. Necessario nel rapporto col minore è riuscire a valutare la sua “competenza”, i cui elementi fondamentali sono la capacità di decidere, il ragionamento, la previsione delle conseguenze. Nel documento del CNB si legge: “…il consenso è in qualche modo concepibile tra 7 e 10-12 anni ma sempre non del tutto autonomo e da considerare insieme con quello dei genitori. Solo entrando nell’età adolescenziale si può pensare che il consenso diventi progressivamente autonomo.” È chiaro quindi che, grazie a questa valorizzazione della volontà del minore nelle scelte relative alla sua persona e salute, si deve ritenere che il consenso dei genitori o del tutore non sia sempre sufficiente da solo al compimento di atti medici che incidono sull’integrità personale del minorenne. Oltre all’ipotesi di incapacità legale va ricordata anche l’incapacità naturale: si tratta di tutte quelle condizioni che, a prescindere dalla capacità legale, consentono di escludere che il soggetto possa prestare un valido consenso; sono riconducibili sia a situazioni transitorie - uso di sostanze stupefacenti o alcool sia a stati patologici di maggiore permanenza, come un grave stato di decadimento psico-fisico che di fatto privano il soggetto dell’attitudine ad intendere il significato dell’atto che compie. Consiglio d’Europa: Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina Oviedo, 4 aprile 1997 13. Cap. II art. 6 - Consenso - Tutela delle persone che non hanno la capacità di dare il consenso. “Quando, secondo la legge, un maggiorenne non ha, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, la capacità di dare il consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, dell’autorità o di una persona o tutore designato dalla legge. La persona interessata, nella misura possibile, deve essere coinvolta nella procedura di autorizzazione”. In caso di disaccordo tra i legali rappresentanti dell’incapace, il medico deve ricorrere all’autorità giudiziaria al fine dei necessari provvedimenti. Oltre che personale il consenso deve essere esplicito: il paziente deve manifestarlo in modo chiaro, univoco e non condizionato; questo aggettivo presuppone autentica libertà sia in senso giudico che morale. La prima riguarda un consenso non viziato dalla violenza, dalla minaccia e dall’inganno, la seconda attiene alla volontà e alla coscienza su cui non devono gravare violenza, pressioni o suggestioni psicologiche. La forma del consenso è libera. Salvo disposizione di legge (per trapianti di organi e donazione di sangue è tassativamente scritto), è sufficiente che il consenso sia espresso oralmente. La forma orale, tra l’altro, ben si addice alla relazione fiduciaria tra medico e paziente per evitare ogni forma di spersonalizzazione e burocratizzazione della relazione di cura. In ogni caso il consenso scritto è da ritenere un dovere morale del medico in tutti i casi in cui le prestazioni diagnosticoterapeutiche per la loro particolare natura (il rischio che comportano, la durata del trattamento, le implicazioni personali e familiari, le eventuali alternative al trattamento…) sono tali da rendere opportuna una manifestazione univoca e documentata della volontà del paziente. Il modulo del consenso scritto deve essere allegato alla cartella clinica e ne fa parte integrante oltre alle annotazioni da parte del medico delle ragioni delle sue proposte diagnostiche e terapeutiche. È importante ricordare che una cartella clinica ben redatta può costituire un supporto difensivo al contrario di una compilata in maniera insufficiente che rischia di diventare un atto di accusa in relazione a ciò che non vi risulta annotato. In alternativa al modulo in cui sono riassunte tutte le spiegazioni e le informazioni date al paziente può essere usato il verbale testimoniato, sempre però sottoscritto dal paziente. Si tratta di un consenso di cui rimane nella cartella clinica un’ indicazione scritta indiretta, cioè viene riportato che al paziente è stata fornita una corretta e adeguata informazione e che egli ha acconsentito alla terapia. È importante che il medico, anche in presenza di modulo di consenso scritto, non rinunci mai alla comunicazione e al rapporto diretto col paziente, sviluppando il più possibile le sue capacità di ascolto e di dialogo, oltre che di sensibilità psicologica. 2.2.2 Revoca del consenso Il paziente ha la facoltà di revocare il consenso. Questo può verificarsi ancor prima dell’inizio della prestazione medica oppure quando questa ha già avuto inizio: in questo caso rimane lecita la parte che è stata posta in essere prima della revoca. Se la revoca interviene durante il trattamento , l’azione non dovrebbe essere proseguita: ma se il medico non può tecnicamente interrompere la condotta, il suo operato sarà ugualmente lecito, poiché in questo caso la revoca non può avere alcuna efficacia giuridica. Se l’interruzione, materialmente possibile, espone il paziente a danno grave e imminente, l’eventuale prosecuzione, malgrado la revoca del consenso, può essere scriminata dallo stato di necessità (art. 54 del C.P. : “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare […] altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona […]”). A conclusione del discorso non va comunque dimenticato che la revoca del consenso è espressione del diritto all’autodeterminazione del paziente e in quanto tale dovrebbe essere rispettato. 2.2.3 Trattamento medico in difetto di consenso del paziente: responsabilità La violazione del consenso del paziente pone il problema della responsabilità penale del sanitario anche a prescindere dalle conseguenza fauste o infauste dell’intervento. Secondo la nostra giurisprudenza, in ipotesi di trattamento arbitrario (ovvero non consentito) incidente sull’integrità fisica del paziente, il medico è responsabile di: violenza privata ( intervento del professionista contro la volontà dell’assistito - art. 610 C.P. - ) sequestro di persona (art. 605 C.P.) lesioni personali volontarie (intervento del professionista intrinsecamente lesivo della persona assistita ad esito fausto, ma posto in essere senza il consenso della persona quando sia consapevole - art. 582 C.P. -) omicidio preterintenzionale (o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente - art. 584 C.P. - ). Il consenso informato è manifestazione della libera scelta di ogni persona sulla propria salute e sulla propria vita, una scelta che sia libera non solo formalmente (assenza di costrizioni) ma sia il frutto di una libera consapevolezza raggiunta attraverso un’informazione offerta in modo corretto e competente da medici tanto esperti tecnicamente quando capaci di ricostruire i propri percorsi decisionali e coinvolgere il paziente nei passaggi decisivi, il tutto in una realtà di comunicazione la più ricca e profonda possibile. Il consenso informato perciò non è solo una strumento per sollevarsi dalle responsabilità connesse alla professione sanitaria ma è un modo per rendere partecipe delle eventuali responsabilità derivate dalla terapia la persona assistita oltre che espressione di profondo rispetto del paziente e della sua volontà, il quale in questo modo si assume le proprie responsabilità relative agli eventi non graditi che possono derivare dalla terapia. 2.3 IL CONSENSO INFORMATO IN ODONTOIATRIA Quanto detto precedentemente non può che valere anche per l’attività odontoiatrica: l’odontoiatra libero professionista, quale esercente di un servizio di pubblica necessità ai sensi dell’art. 359 del Codice Penale, non può esimersi dall’obbligo di acquisire il consenso del soggetto che a lui si rivolge e dall’obbligo di una preventiva e adeguata informazione. L’attività odontoiatrica, nella pratica quotidiana, non espone a pericolo la vita del paziente ma è innegabile la presenza di un “rischio odontoiatrico” del quale è necessario informare il paziente che presterà o meno il suo consenso sapendo quali sono le situazioni rischiose in cui può incorrere. Perciò, oltre al consenso implicito nella richiesta di una prestazione sanitaria, è sempre bene richiedere, soprattutto nelle attività rientranti nella chirurgia orale (estrazioni dentarie, impianti protesici), il consenso informato specifico e consapevole del paziente. Quando si parla di rischio, infatti, ci si riferisce anche a quelle terapie che potenzialmente possono condurre a complicazioni o a esiti negativi che per alcuni trattamenti possono anche essere permanenti. I danni permanenti relativi a trattamenti chirurgici odontoiatrici sono principalmente legati a problemi neurologici qualora vengano interessati i nervi che decorrono nel distretto orofacciale. La valutazione si basa sull’anamnesi e l’esame obiettivo per documentare durata, grado e miglioramenti di sintomi e segni: il paziente potrebbe lamentare un deficit sensitivo soggettivo (anestesia, ipoestesia, dolore neuropatico) oppure manifestare conseguenze come alterazioni del gusto, morsicature del labbro e della lingua, scialorrea, limitazione della vita di relazione. In quest’ottica in odontoiatria il rischio è quasi sempre presente, trattandosi di attività prevalentemente chirurgica (attività che implica non solo una diagnosi, ma anche, spesso, un trattamento): è quindi una condotta colposa il non rilevare l’anamnesi medica del paziente per quanto concerne il rischio durante le cure odontoiatriche. L’anamnesi deve, quindi, essere accurata, non tralasciando aspetti importanti delle eventuali patologie di base del paziente. Alcune possono essere una controindicazione assoluta, altre relativa al trattamento odontoiatrico (cardiopatie, fenomeni allergici,…). Ciò che è oggetto di rischio deve essere, quindi, necessariamente oggetto di informazione. L’ampiezza e la profondità dell’informazione sono da rapportarsi al tipo di terapia da intraprendere: il dovere di informare impone all’odontoiatra di soffermarsi maggiormente su quelle situazioni in cui la terapia comporta un’ aggressione più profonda dell’integrità fisica del paziente (avulsione dentaria, impianti,…). Ma non solo questo. Anche una banale ablazione del tartaro potrebbe mettere a rischio il paziente (cardiopatici non compensati, emofiliaci, in terapia con anticoagulanti,…) ma di certo è la chirurgia che comporta un aumentato stress e che quindi potrebbe causare portare delle conseguenza più gravi soprattutto per pazienti già affetti da patologie che compromettono in maniera importante il loro organismo. L’informazione dovrà essere ancora più rigorosa in quei casi, non frequenti nella pratica, in cui l’intervento non è fine a sé stesso ma “ rientra in un più ampio disegno terapeutico, come ad esempio una estrazione o una regolarizzazione alveolare nel corso di una riabilitazione protesica, oppure una serie di estrazioni o una frenulectomia nel quadro di una terapia ortognatodontica, oppure una bonifica del cavo orale prima dell’inserimento di impianti…” 33. Alcune delle discipline odontoiatriche per la loro particolarità sono più esposte a rischio di contenzioso; basti pensare all’ anestesia locale, entrata ormai nella pratica quotidiana, che, pur essendo di facile esecuzione nasconde in se dei pericolosi rischi per il paziente se non effettuata in maniera adeguata e con i dovuti accorgimenti. Il rischio più grave è quello dello shock anafilattico dovuto all’intolleranza al farmaco utilizzato o alla sensibilità allergica. L’anestesia deve essere eseguita con molta cautela soprattutto nei pazienti diabetici e cardiopatici: queste due patologie hanno per molto tempo rappresentato una controindicazione all’anestesia locale ma in realtà, usando il farmaco più adeguato ed evitando l’uso di adrenalina ( associata all’anestetico per il suo effetto vasocostrittore), si evita di incorrere in conseguenze indesiderate. La violazione delle norme di diligenza, prudenza e perizia nell’esecuzione del trattamento anestetico può essere fonte di responsabilità penale per l’odontoiatra, soprattutto in assenza del consenso del paziente, alla luce dei rischi cui può risultare esposta l’integrità fisica del paziente. Una situazione di malpractice può dipendere da una condotta errata (montaggio errato dello strumentario, mancata aspirazione dopo infissione dell’ago per verificare se è entrato in un’ arteria, iniezione troppo rapida, sovradosaggio) e da una tecnica errata, oppure essere conseguenza della mancanza di farmaci di emergenza ( ossigeno, benzodiazepine, adrenalina, cortisonici). La giurisprudenza più volte si è soffermata sulle varie ipotesi di responsabilità dopo errato trattamento anestetico, stigmatizzano una serie di condotte colpose: il mancato esame anamnestico del paziente ( omettendo di valutare le controindicazione generali ), l’intossicazione da anestesia, l’omessa vigilanza dopo l’anestesia. Ma anche altre discipline odontoiatriche sono esposte al rischio di contenzioso, come ad esempio l’ortognatodonzia, la chirurgia, l’implantoprotesi e la protesi. Nell’ortognatodonzia gli aspetti giuridici di maggiore interesse sono quelli legati da un lato alla legittimazione ad esprimere il consenso, dall’altro alla eventuale necessità di estrarre elementi dentari sani. Sotto il primo profilo è importante ricordare che di solito il paziente ortognatodontico è minore di età ed è perciò necessario il consenso del genitore o del legale rappresentante. Ciò ovviamente non significa ignorare la volontà del minore e neppure non informarlo. Spesso il trattamento ortodontico si protrae nel tempo e richiede una grande collaborazione da parte del paziente e dei genitori e comporta particolari difficoltà per chi ne subisce le conseguenze; in considerazione poi del fatto che il consenso è sempre successivamente revocabile, è consigliabile per eventuali e future contestazioni, non solo che sia specifico ma anche in forma scritta. Un problema molto discusso è quello dell’estrazione dei denti sani per raggiungere un miglioramento dell’allineamento degli elementi dentari. È bene intraprendere questa pratica solo se, dopo aver effettuato tutti gli specifici esami, si arriva alla conclusione che l’estrazione è l’unica via da percorrere e la disgnazia non può essere corretta in nessun altro modo. Qualora ciò non sia vero e l’estrazione causi dei problemi al paziente, l’odontoiatra sarà chiamato a rispondere in caso di un eventuale contenzioso, di menomazione permanente dell’integrità fisica perché l’estrazione di un dente sano rappresenta un indebolimento permanente dell’organo della masticazione, nonché di lesioni personali gravi. Nei trattamenti conservativo-protesici il rischio di contenzione è legato soprattutto a un non raggiungimento del risultato previsto nel caso di un restauro, soprattutto in zona estetica, o dell’applicazione di una protesi esteticamente e/o funzionalmente non corretta. Senza dubbio la disciplina odontoiatrica più a rischio è la chirurgia e, di conseguenza, l’implantologia. Pur essendo fondamentale per qualunque branca, il consenso informato è essenziale per le pratiche chirurgiche: il paziente deve sapere quali sono i rischi e le conseguenze ( dolore, gonfiore, impossibilità di alimentarsi ) legati all’intervento chirurgico che dovrà affrontare e deve impegnarsi rispettare categoricamente le indicazioni post-chirurgiche che gli da il suo odontoiatra ( igiene orale, alimentazione, farmaci, controlli periodici,…) perché è anche da queste che dipende la buona riuscita dell’intervento. Il sanitario che si accinge ad affrontare un intervento chirurgico deve conoscere alla perfezione lo stato di salute generale del paziente perché questi interventi potrebbero portare ad uno stress fisico che persone con patologie sistemiche quali ad esempio cardiopatie, diabete, problemi ematici e della coagulazione potrebbero non sopportare. Anche un banale intervento odontoiatrico può avere ripercussioni generali importanti. Inoltre il paziente deve essere informato sul periodo di convalescenza che dovrà affrontare e che gli potrebbe impedire di praticare le sue attività quotidiane a seconda dell’importanza dell’intervento: se ciò non fosse l’odontoiatra potrebbe essere poi chiamato a rispondere di un eventuale danno patrimoniale da lucro cessante subito dal paziente che non ha potuto attendere alle sue mansioni lavorative a causa dei postumi dell’intervento. 2.3.1 Aspetti generali del consenso informato in odontoiatria Prima di intraprendere una qualsiasi cura odontoiatrica è necessario che sussista, da un lato, la richiesta del paziente e, dall’altro, un consenso consapevole in relazione a ciò che si andrà a operare sia in termini diagnostici che terapeutici. L’odontoiatra deve assolvere all’obbligo di informare il paziente con particolare scrupolo e attenzione. I mezzi di informazione sono sempre più veloci e le fonti sempre più accessibili (internet). L’informazione che si cerca è sempre maggiore, ma il sanitario ha il dovere di integrare e rendere accettabili, sotto il profilo umano, insostituibile da nessuno dei mezzi di comunicazione esistenti, tutti i risvolti clinici sulle terapie che si dovranno praticare. Il pubblico infatti sta ricevendo in questi ultimi anni, un’accresciuta informazione da parte dei mass-media sulle possibili e alternative terapeutiche e sui pregressi in campo scientifico. Tutto ciò però determina anche un aumento della fiducia nei mezzi della medicina e della chirurgia può indurre il paziente a diminuire la sua fiducia nel sanitario soprattutto quando la terapia non produce l’effetto desiderato, credendo che ciò sia da addebitarsi al medico: i messaggi, a volte del tutto fuorvianti (dubbi e tutt’altro che certi), trasmessi sulla pubblicità sanitaria rischiano di creare nel paziente aspettative sovente ingiustificate o erronee attese di risultato. Per questo l’informazione deve essere precisa e chiara, oltre che comprensibile e adeguata al grado di cultura dell’interlocutore, onde evitare incomprensioni tra le parti destinate a sfociare in liti giudiziarie. L’informazione deve necessariamente tenere conto della particolarità dell’odontoiatria (ad esempio in caso di un restauro conservativo non è sufficiente il consenso generico del paziente ma bisogna, ad esempio, renderlo partecipe della scelta del materiale, estetico o meno, che andremo ad utilizzare); il paziente “…deve poter acconsentire ad una piuttosto che ad un’altra soluzione sulla base di un’adeguata informazione resa dall’odontoiatra sulle varie possibilità, sui rischi, benefici e sulle possibili alternative. Il paziente può decidere il tipo di terapia, solo dopo aver vagliato le possibilità, i rischi, le complicanze e le possibili alternative. Se ad una paziente le superfici masticanti dei premolari e molari inferiori vengono realizzate in metallo, cosa che non avrebbe assolutamente accettato se preventivamente informata, avrà buone possibilità di risarcimento in un eventuale contenzioso.” 39. Nella chirurgia orale e nell’implantologia ci sono molte più situazioni a rischio con possibili complicazioni e l’odontoiatra deve trasmettere un’accurata ed esauriente informazione, per permettere al paziente di esprimere un consenso consapevole, libero. A titolo di esempio possiamo far riferimento a quegli interventi chirurgici necessari ma non urgenti (urgenti sono quelli legati ad una patologia acuta in atto), considerati non indispensabili ma comunque opportuni: estrazione ottavi inclusi, apicectomie, inserimento di impianti. In questi casi necessariamente l’informazione estendersi anche dell’odontoiatra alle conseguenze deve poco gradevoli, per quanto temporanee, costituite dall’impossibilità di parlare agevolmente o dalla possibilità di tumefazioni antiestetiche di non immediata risoluzione: solo quando il paziente ha ricevuto queste informazioni può rilasciare un consenso consapevole e quindi valido. In difetto, l’odontoiatra potrebbe seriamente esporsi ad una azione di danni per inadempimento contrattuale: la violazione del dovere di informare in maniera chiara ed esaustiva assume rilevanza dal punto di vista civilistico tutte le volte che da tale inadempimento sia conseguito un danno (risarcibile) per il paziente. In questo caso l’onere della prova incombe sul paziente, nel senso che è quest’ultimo che deve dimostrare i danni patiti, il nesso eziologico tra il danno e la terapia odontoiatrica, e di essersi sottoposto alla terapia stessa solo perché non gli erano stati prospettati i relativi rischi. Ma se un paziente non adeguatamente informato si ritrova ad esempio a non far fronte a impegni di lavoro prefissati nei giorni successivi all’intervento e per questo subisce un danno professionale di natura economica ( “lucro cessante”, ossia un mancato guadagno), potrebbe agevolmente dimostrare che se fosse stato informato degli eventuali inconvenienti - gonfiore, tumefazione, difficoltà di parola – avrebbe rifiutato per il momento l’intervento. Il consenso deve essere prestato dal paziente solo dopo una completa ed esauriente informazione medica riguardo tutti gli aspetti favorevoli e sfavorevoli delle possibili complicanze della terapia che verrà effettuata, senza addentrarsi nei particolari tecnici sa non espressamente richiesti ma mettendo in risalto che le tecniche e i materiali adottati sono conformi ai protocolli internazionali più accettati. 2.3.2 L’importanza della documentazione clinica in odontoiatria Nell’ archivio che ogni odontoiatra dovrebbe avere per i suoi pazienti, è necessario raccogliere diversi documenti. Il primo è la scheda sulla privacy e di consenso al trattamento dei dati personali, come da obbligo del garante, poi la scheda di anamnesi, redatta durante la prima visita, nella quale sono raccolte tutte le informazioni generali sullo stato di salute del paziente: malattie del cuore, emorragiche, allergiche, del sistema nervoso, oltre che informazioni sulla salute dentarie e sulle precedenti cure odontoiatriche. Le scheda di anamnesi fa parte della cartella clinica dove viene poi trascritto, a seconda dei dati raccolti in precedenza e delle richieste del paziente, il piano di trattamento prescelto: l’odontoiatra però dovrà informare il paziente sui trattamenti alternativi e specificare i rischi e i benefici di quella che andrà ad attuare. Iniziata la terapia, la cartella clinica deve rappresentarne il diario cronologico in quanto vi si possono annotare gli esiti delle sedute, anestetici utilizzati, i materiali, le reazioni del paziente dopo l’uso degli stessi, le eventuali assenza del paziente nel corso della terapia. È buona norma registrare anche le complicazioni emerse durante il trattamento e le precauzioni suggerite al paziente nella fase successiva, compresa la necessità delle visite periodiche di controllo. Necessari nella documentazione sono le radiografie (endorali, panoramiche, TC, Dentascan), modelli di studio di inizio e fine cura e valutazioni fotografiche. Non va sottovalutata l’importanza della scheda di preventivo, in cui vanno riportate le caratteristiche del lavoro da svolgere e i costi globali del trattamento: questo perché in ipotesi di controversia sull’onorario pattuito la mancanza di specifiche documentazioni rende ardua per l’odontoiatra la prova del suo effettivo ammontare. Una documentazione corretta e aggiornata è anche simbolo di un estrema professionalità dell’odontoiatra che svolge un lavoro preciso e affidabile col suo paziente; in più annotare tutte le fasi nei minimi dettagli, documentare il proprio lavoro con una buona iconografia e una cartella clinica precisa sono d’aiuto all’operatore in caso di contenzioso quale prova del suo operato; una cartella clinica redatta in modo distratto e negligente potrebbe essere invece usata come elemento negativo nella valutazione dell’operato del dentista. Infatti, il giudizio del magistrato, non conoscendo le parti in causa, si basa solo sulla documentazione esibita dalle parti. Un errore professionale non esime dalla colpa, anche in presenza del consenso informato e della documentazione appropriata, ma, in caso di richiesta pretestuosa, sarà la prova documentata che il sanitario ha agito secondo scienza e coscienza. 3. IL DANNO BIOLOGICO La figura del danno biologico è venuta creandosi nel corso degli anni ad opera della giurisprudenza e si è affiancata alle figure del danno patrimoniale e del danno morale previste dalla legge. Il danno patrimoniale si verifica nel momento in cui vi è un danno che colpisce la sfera patrimoniale del soggetto e viene risarcito ai sensi dell'art. 2043 del Codice civile ( Risarcimento per fatto illecito: “ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno “. ). Nel danno patrimoniale posso essere individuate due sottocategorie: il danno emergente, cioè il danno che emerge dalle conseguenze del fatto stesso, e il lucro cessante, nel caso in cui il danno provochi al soggetto una diminuzione della sua attività produttiva protratta nel tempo. Il danno morale, invece, viene a sussistere tutte le volte in cui non vi sia un danno patrimoniale ma comunque una specifica disposizione di legge a carattere penale così come stabilito dall'art. 2059 del Codice civile ( Danno non patrimoniale: “ Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge “). Il danno biologico o danno alla salute viene in considerazione anche in totale assenza di un danno patrimoniale o di un illecito penale; è espressione del diritto alla salute e come diritto inviolabile di rilevanza costituzionale va sempre risarcito nel momento in cui viene leso. I tipi di danno sono: danno composito: se gli esiti permanenti di una lesione corrispondono a più voci, riferite a un organo o apparato contenute in tabella, si rileva un danno composito; il valore di danno deve fare riferimento alla globale riduzione dell’integrità di un determinato distretto anatomo-funzionale; danno plurimo monocromo: è il danno permanente formato da lesioni plurime monocrome che interessano più organi o apparati; menomazioni preesistenti: è la definizione del danno che interessa organi o apparati già sede di patologia o di esiti di patologia. La giurisprudenza ha individuato i caratteri essenziali della figura del danno biologico "nella menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica" (Cass. 90/7101; Cass. Sez. Lav. 88/5033; Corte di Cassazione Civile n.2883 del 1988). L'individuazione del contenuto del danno biologico e la sua conseguente differenza dal danno morale o patrimoniale, è stata ben espressa dalla Corte Costituzionale sentenza n.184 del 1986. Sebbene la Corte Costituzionale abbia stabilito la non coincidenza tra le due definizioni di danno, la Cassazione n. 1130 del 1985 ha espresso il concetto per cui il danno biologico, come menomazione dell'integrità psicofisica della persona, costituisce un danno ingiusto di natura patrimoniale, in quanto colpisce un valore essenziale che fa parte integrante di quel complesso di beni di esclusiva e diretta pertinenza del danneggiato. 3.1 CONTENUTI DEL DANNO BIOLOGICO Il danno alla salute deve essere risarcito in ogni caso di danno alla persona, mentre il danno morale e quello patrimoniale per perdita di capacità lavorativa e di reddito lo saranno solo se, quanto al primo, derivi da un atto illecito che abbia carattere penale, quanto al secondo sia dimostrata la effettiva diminuzione patrimoniale. La figura del danno alla salute si venne così individuando come figura a sé stante appunto come tertium genus del danno. La lesione che produce il danno alla salute riguarda il "valore uomo", per le attitudini non lucrative ed i servizi resi a se stessi (vestirsi, aver cura della propria persona, camminare, guidare ecc.) che la lesione ostacola, impedisce o rende comunque difficoltosa, e per le ripercussioni negative in ogni ambito in cui si svolge la personalità dell'uomo. La lesione alla salute è prova di per sé dell'esistenza del danno, ma non della sua entità, che va provata ai fini del quantum. "Il bene della salute costituisce, come tale, oggetto di autonomo diritto primario assoluto, sicché il risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sull'idoneità a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere il c.d. danno biologico – in cui vanno ricomprese quelle forme di danno non incidenti sulla capacità di produrre reddito – inteso come la menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica" (Cass. Civile n.7101 del 1990). Nel corso degli anni in questa categoria del danno alla salute sono venuti inserendosi diverse tipologie di danno da quello alla vita di relazione, inteso come danno che incide negativamente sull'esplicazione di attività diverse da quella lavorativa normale, come le attività sociali e ricreative (Cass. Civile n.9170 del 1994) a quello del danno alla sfera sessuale, consistente nella menomazione anatomo-funzionale del soggetto, idonea a modificarne le preesistenti condizioni psicofisiche, e quindi ad incidere negativamente sulla sfera individuale (Cass. Civile n.6536 del 1990) al danno estetico come lesione delle funzioni naturali dell'uomo nella sua dimensione (Cass. civile n.411 del 1990). Volendo sintetizzare quelli che la giurisprudenza ha inteso indicare come sintomi dell'esistenza di un danno biologico possiamo indicare: modificazione dell'aspetto esteriore, ossia dei caratteri morfologici della persona; riduzione dell'efficienza psicofisica, ossia ridotta possibilità di utilizzare il proprio corpo; riduzione della capacità sociale, ossia dell'attitudine della persona ad affermarsi nel consorzio umano mediante la sua vita di relazione con gli altri; riduzione della capacità lavorativa generica, ossia dell'attitudine dell'uomo al lavoro in generale; perdita di chances lavorative o lesione del diritto alla libertà di scelta del lavoro; maggior fatica nell'espletamento del proprio lavoro, senza perdita di guadagno; usura delle forze lavorative di riserva, quando non renda necessario il prepensionamento. 3.2 IL DANNO PSICHICO Questa figura di danno, ancora in corso di definizione ad opera della dottrina e della giurisprudenza, si differenzia dal danno prettamente fisico, possibile oggetto di risarcimento per danno biologico, dal momento che esso non ha una manifestazione esteriore tangibile, ma solamente una manifestazione di tipo comportamentale. La lesione fisica lascia sempre una traccia tangibile, la lesione psichica invece ha delle manifestazioni di carattere nervoso e psichico che non sempre hanno delle ripercussioni sul corpo del soggetto. Occorrerà quindi una analisi di differente tipologia sul soggetto affetto da patologia di carattere psichico al fine di accertare se e in quale misura tali manifestazioni di comportamento costituiscano menomazione nel senso tecnico-giuridico del termine, ossia nella sua accezione medico legale, per poi risalire dalla menomazione alla lesione psichica ed al fatto illecito. Certamente dovrà essere preso in considerazione il fattore effetto, ovvero la ripercussione che tale danno sta avendo sulla vita del soggetto che si pretende aver subito la lesione. La menomazione psichica consiste nella riduzione, temporanea o permanente, di una o più funzioni psichiche della persona, la quale, incidendo sul valore uomo globalmente inteso, impedisce alla vittima di attendere in tutto o in parte alle sue ordinarie occupazioni di vita. Ciò che risulta difficile per l'interprete è di individuare il nesso causale, che deve essere sempre presente nel rapporto causaeffetto, tra danno psichico e fatto lesivo. 3.3 CRITERI DI VALUTAZIONE DEL DANNO L'onere della prova che incombe su colui che agisca in giudizio per il risarcimento del danno alla persona, assume contenuti diversi in relazione alla natura del danno del quale si pretende il risarcimento, a seconda che si tratti di danno biologico o di danno patrimoniale in senso stretto. Dato che non sempre il danno alla salute si viene a trovare in concomitanza con un danno patrimoniale, ma dato che si è pur sempre in presenza di un danno, è sorta la necessità di trovare dei criteri equilibrati, generici e sempre applicabili per poter quantificare in termini economici il risarcimento per il danno subito. Poiché il danno biologico si identifica con l'evento dannoso e si qualifica dunque come danno-evento, una volta dimostrata la lesione, si è anche dimostrata l'esistenza del danno biologico, in quanto il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno si identifica con la lesione stessa, pur permanendo la necessità di provare l'entità della menomazione dell'integrità psicofisica subita. In questo caso il tema probatorio è circoscritto all'esistenza di una lesione personale e di una menomazione a questa conseguente. Per quanto riguarda la prova questa dovrà basarsi su di una perizia medico-legale che accerti il grado di invalidità subito dal soggetto leso. Ultimamente, dato che spesso la menomazione viene quantificata dal medico in termini di percentuale di invalidità (invalidità intesa come incapacità psicofisica di attendere alle normali attività della vita quotidiana), molti tribunali hanno elaborato una tabella, che tenendo conto del grado di invalidità e dell'età dell'individuo, indica una cifra che può venire considerata come base di partenza per quantificare il quantum del risarcimento. Non costituiscono tuttavia una certezza per il soggetto che ha subito un danno biologico, ma possono essere considerate, in buona misura, un criterio abbastanza preciso. TABELLA DEL DANNO BIOLOGICO DI LIEVE ENTITA' (art. 139 del Dlgs 209/2005) (Tabella aggiornata al D.M. 24/6/2008, pubblicato sulla G.U.del 30 giugno 2008) Punti di invalidità Età 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 1 2 3 4 5 6 7 8 9 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67 717,35 1578,16 2582,44 3730,20 5380,09 7316,92 9540,69 12051,40 14849,05 713,74 1570,23 2569,47 3711,45 5353,05 7280,15 9492,75 11990,84 14774,43 710,14 1562,30 2556,49 3692,71 5326,02 7243,38 9444,81 11930,28 14699,81 706,53 1554,37 2543,51 3673,96 5298,98 7206,62 9396,86 11869,72 14625,19 702,93 1546,44 2530,53 3655,22 5271,95 7169,85 9348,92 11809,16 14550,57 699,32 1538,51 2517,56 3636,47 5244,91 7133,08 9300,98 11748,60 14475,96 695,72 1530,58 2504,58 3617,73 5217,88 7096,31 9253,03 11688,04 14401,34 692,11 1522,65 2491,60 3598,98 5190,84 7059,54 9205,09 11627,48 14326,72 688,51 1514,72 2478,63 3580,24 5163,80 7022,77 9157,15 11566,92 14252,10 684,90 1506,79 2465,65 3561,49 5136,77 6986,01 9109,20 11506,36 14177,48 681,30 1498,86 2452,67 3542,75 5109,73 6949,24 9061,26 11445,80 14102,86 677,69 1490,92 2439,69 3524,00 5082,70 6912,47 9013,32 11385,24 14028,25 674,09 1482,99 2426,72 3505,26 5055,66 6875,70 8965,37 11324,68 13953,63 670,48 1475,06 2413,74 3486,51 5028,63 6838,93 8917,43 11264,12 13879,01 666,88 1467,13 2400,76 3467,77 5001,59 6802,16 8869,49 11203,56 13804,39 663,27 1459,20 2387,79 3449,02 4974,56 6765,39 8821,54 11143,00 13729,77 659,67 1451,27 2374,81 3430,28 4947,52 6728,63 8773,60 11082,44 13655,15 656,06 1443,34 2361,83 3411,54 4920,48 6691,86 8725,66 11021,88 13580,54 652,46 1435,41 2348,86 3392,79 4893,45 6655,09 8677,71 10961,32 13505,92 648,86 1427,48 2335,88 3374,05 4866,41 6618,32 8629,77 10900,76 13431,30 3.3.1 Criteri di valutazione del danno dentario Per valutare correttamente l’entità del danno alla persona conseguente alla perdita dentaria totale o parziale, è necessario esaminare i vari fattori correttivi quali lo stato anteriore, il coefficiente di antagonismo, il danno dentario specifico, la possibilità di masticazione, il tipo di protesi e l’attività professionale. Lo stato anteriore della dentatura rappresenta il parametro che permette di definire il danno rispetto alla reale situazione clinica del soggetto. La situazione va graduata in base alla preesistenza di lesioni cariose, paradontopatie, situazioni malocclusive che possono ridurre il valore dei singoli elementi. Tuttavia l’importanza di una singola unità alveolo-dentaria potrà essere anche notevolmente aumentata rispetto ai valori proposti se, per motivi connessi alla funzione di supporto di protesi, la sua presenza ha un significato fondamentale nel vicariare altri elementi dentari, svolgendo quindi funzioni superiori a quelle che normalmente le competono (supporto di uno scheletrato,…). L’incidenza dello stato anteriore sulla valutazione del danno dentario non può essere valutata in percentuali fisse, poiché si deve adeguare alla variabilità della realtà clinica, determinabile di volta in volta con riferimento a parametri clinici, quali, per esempio, l’indice di placca, l’altezza dell’osso alveolare o la mobilizzazione degli elementi. Si deve inoltre tener presente che l’obiettivazione dello stato anteriore è, in genere, molto complessa per la scarsezza della documentazione clinica pretrattamento al momento della valutazione del danno. Il coefficiente di antagonismo è stato sempre valutato considerando il concetto di “coppia masticatoria” e non di “trigono dentario”, più corretto dal punto di vista dell’occlusione fisiologica. L’incidenza del danno dentario specifico sulla capacità lavorativa del soggetto è molto importante ai fini della valutazione del danno. E’ ostacolato infatti l’esercizio di quelle professioni che richiedono l’integrità degli elementi dentari (soprattutto quelli frontali) come i suonatori di strumenti musicali a fiato e quelle in cui l’uso della favella costituisce strumento preminente di lavoro (avvocati, insegnanti, rappresentanti di commercio, cantanti) ed infine quelle in cui anche il pregiudizio estetico può configurare una menomazione specifica (attori, fotomodelle). Va sottolineato che la sostituzione con protesi non reintegra completamente le funzioni del dente perduto e non ripristina lo “stato anteriore” del soggetto leso. Secondo alcuni autori la forza masticatoria esplicabile dopo l’applicazione di una protesi varierebbe da 1/10 ad 1/6 di quella naturale per la protesi totale rimovibile, mentre per quella fissa sarebbe di circa 1/2. Inoltre la protesizzazione non elimina alcune conseguenze inevitabili causate dalla perdita del dente come il riassorbimento locale dell’osso alveolare. Per alcuni Autori l’impianto assolverebbe invece anche a questa funzione 13. Infine, per un corretto risarcimento del danno nelle lesioni dentarie, è necessario prendere in considerazione le cosiddette “spese future”, che, come danno emergente, assumono una rilevanza monetaria a volte esorbitante rispetto a quella dell’effettivo danno alla persona, in funzione delle spese necessarie al rimedio funzionale cui il leso si è sottoposto o dovrà sottoporsi. 4. CONFINE TRA ERRORE E COMPLICANZA Anche al medico, come a qualsiasi altro soggetto, si applica il principio per il quale egli risponde in sede penale e civile dell’eventuale danno che arrechi a terzi. Risponde in caso di comportamento imperito, imprudente, negligente o in caso di inosservanza di norme e regolamenti cui il sanitario è tenuto ad attenersi. Ciò che acquista rilievo ed è oggetto di analisi è l’ipotesi colposa, per la valutazione della cui responsabilità occorre individuare l’esistenza degli elementi costitutivi del danno civile ossia l’evento, l’elemento c.d. soggettivo (la colpa appunto) il nesso causale e infine il danno. Perché la colpa medica possa acquistare rilievo in sede giuridica, occorre che al comportamento colposo consegua un danno, lesioni o morte del paziente. Inoltre, perché il danno sia attribuibile all’erroneo agire del sanitario, con la conseguente affermazione di responsabilità per colpa, occorre dimostrare il collegamento causale tra i due eventi. “Non è sempre agevole in una professione che affronta una materia biologica, assolutamente imprevedibile per autonoma ed individuale reazione, non solo ad uno stimolo patogeno, ma anche all’azione di un farmaco, dimostrare tale rapporto causale, per cui se l’argomento è tema di accanite e costanti dispute in dottrina, esso rileva anche nelle aule giudiziarie laddove si spazia tra teoria dell’efficienza, ovvero dell’idoneità, e teoria condizionalistica; l’esasperazione di questa diversa impostazione giuridica è prevalente in ambito penale, laddove in civile, l’impossibilità a comprovare da parte del medico il suo corretto operato porta a sentenze che hanno inserito nel diritto il principio di una riconosciuta responsabilità in base alla sola presunzione di colpa”. Il comportamento medico ritenuto censurabile è caratterizzato dal verificarsi di un evento avverso, il quale di per sé non sempre configura un errore ma più spesso è l’effetto di una complicanza che non consegue necessariamente ad un comportamento colposo. Il danno che configura colpa medica e responsabilità professionale è invece quello che consegue ad un errore: quest’ultimo può essere scusabile o inescusabile e solo di quest’ultimo il sanitario risponde in sede giudiziaria. A questo punto è d’obbligo fare una distinzione tra l’errore medico e la complicanza. Si definisce “errore medico” un’omissione di intervento, o un intervento inappropriato, a cui consegue un evento avverso clinicamente significativo. Rientra nella definizione il concetto che non tutti gli eventi avversi sono dovuti ad errori, ma solo quelli evitabili. La stima della frequenza degli errori è difficile: uno degli ostacoli maggiori è il timore di conseguenze amministrative o medico-legali, che spinge chi ha commesso un errore a negarlo e comunque a non comunicarlo; inoltre, non sempre è facile stabilire se un evento avverso sarebbe stato evitabile (e dunque dovuto a errore) oppure no. L’ostacolo alla dichiarazione degli errori è il timore di provvedimenti punitivi o di conseguenze medico-legali; sarebbe dunque necessario un sistema che consentisse di mantenerli confidenziali. La complicanza invece è un evento negativo che può anche non dipendere necessariamente dal comportamento sbagliato dell’operatore sanitario. Gli studi sull’errore in medicina si concentrano prevalentemente sugli eventi avversi consecutivi a trattamenti inappropriati o sull’omissione di interventi necessari; si tratta cioè di errori terapeutici. Gli errori di diagnosi conducono a eventi avversi in modo indiretto, per conseguenti interventi terapeutici sbagliati o per omissione o ritardo di interventi necessari. L’idea tradizionale che l’errore è dovuto alla colpa individuale di chi lo commette genera due effetti negativi. Primo, chi commette un errore tende a nasconderlo, e non certo a dichiararlo spontaneamente; secondo, nella prevenzione degli errori si ignora la corresponsabilità, spesso preminente, delle cause remote. Nella concezione attuale si distinguono tre livelli causali degli errori medici: • cause remote; • cause immediate, dovute all’errore del singolo operatore; • insufficienza o fallimento dei meccanismi che avrebbero dovuto impedire le conseguenze negative dell’errore. L’errore quindi non deve essere attribuito solo e unicamente alla persona che l’ha commesso ma concorrono al verificarsi di questo difetti organizzativi, carenze strutturali e di attrezzature, carico di lavoro eccessivo o maldistribuito, mancata supervisione, cattiva comunicazione fra operatori e altri fattori. Anche i difetti di competenza clinica e di esperienza dei singoli operatori derivano in parte da errori a monte, quali la mancanza di programmi di educazione continua e il cattivo coordinamento fra operatori esperti e novizi. Cause remote di errore in medicina 1. Carico di lavoro eccessivo 2. Supervisione inadeguata 3. Struttura edilizia dell’ambiente di lavoro o tecnologie inadeguate 4. Comunicazione inadeguata fra operatori 5 Competenza o esperienza inadeguate 6. Ambiente di lavoro stressante 7. Recente e rapida modificazione dell’organizzazione di lavoro Da BMJ 1998;316:1154-7 (18)BOX 1 BOX 2 Cause immediate di errore in medicina dovute all’operatore 1. Omissione di un intervento necessario 2. Errori per scarsa attenzione, negligenza 3. Violazioni di un procedimento diagnostico o terapeutico appropriato 4. Inesperienza in una procedura diagnostica o terapeutica invasiva definita 5. Difetto di conoscenza 6. Insufficiente competenza clinica 7. Insufficiente capacità di collegare i dati del paziente con le conoscenze acquisite 8. Prescrizione: a. ricetta illeggibile b. spiegazioni insufficienti e compliance insufficiente Da BMJ Publ Group 1995:31-54, sintesi (16) e da BMJ 1998;316:1154-7 (18) 4.1 PREVENZIONE DI ERRORI E COMPLICANZE Per evitare il verificarsi di complicanze legate all’intervento è opportuno innanzitutto fare una buona diagnosi utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, per accertarsi che non ci siano condizioni sistemiche o locali che possano influire negativamente sull’operato del professionista. Un’ attenta pianificazione del trattamento e un’esecuzione dell’intervento precisa e coerente con le linee guida relative ad esso concorrono al raggiungimento dello scopo voluto senza il verificarsi di complicanze. È importante però ricordare che le complicanze possono verificarsi anche nel periodo postoperatorio quindi è compito dell’operatore informare il paziente degli accorgimenti che dovrà seguire una volta dimesso e monitorare l’andamento della situazione clinica periodicamente. Per quanto riguarda l’errore invece le strategie di prevenzione devono essere pluridirezionali. È stata sottolineata recentemente l’importanza di una migliore conoscenza della tipologia degli errori medici, per ottenere la quale sarebbe necessario istituire sistemi che consentano ai medici di riportare i propri errori in anonimo e con la garanzia della riservatezza. Nell’attuale ottica sistemica di riduzione dell’errore la strategia più semplice di prevenzione appare quella di progettare sistemi che proteggano gli operatori dagli errori cognitivi, rendendoli più visibili e intercettabili. Partendo dal presupposto che gli errori non possono essere del tutto debellati, la loro riduzione è tuttavia conseguibile attraverso opportune modifiche di sistema: riduzione della complessità dei compiti: eliminazione delle tappe non necessarie, miglioramento delle informazioni, uniformazione delle procedure; ottimizzazione del sistema informativo: adozione di liste di controllo, protocolli, procedure scritte; introduzione di procedure automatizzate finalizzate al miglioramento qualitativo del sistema; progettazione ed introduzione di barriere protettive: fisiche, procedurali (eliminazione delle sostanze pericolose), culturali (eliminazione delle abbreviazioni con obbligo di redazione di una prescrizione completa); la costruzione e il mantenimento di una cultura della sicurezza; limitazione dei danni: pronto riconoscimento dell’errore e sua visibilità, prevenzione dell’eventuale danno, monitoraggio delle situazioni a rischio. 5. LINEE GUIDA IN IMPLANTOLOGIA: LA DOCUMENTAZIONE DEL CASO E LA COMUNICAZIONE COL PAZIENTE: DALLA PRIMA VISITA AI RICHIAMI L’implantoprotesi, nell’ultimo decennio, ha avuto una grande diffusione. Sono tanti gli operatori che si dedicano a questa specialità e sempre di più i pazienti che vi ricorrono in alternativa alla protesi convenzionale. L’ampia diffusione di questa metodica rende necessario uniformare, oltre ai protocolli operativi, anche il modo di comunicare col paziente e la gestione della cartella clinica. Tutto ciò è mirato ad avere sempre sotto controllo tutte le fasi cliniche. L’esperienza operativa ci consente di prevenire e trattare i problemi chirurgici e protesici, ma una corretta gestione della documentazione, sia iconografica che clinica, rende possibile una migliore comunicazione e facilita la gestione di un eventuale contenzioso. Le schematicamente: linee guida possono essere riassunte informazione al paziente sull’implantologia in generale durante la prima visita (presupposti, fasi cliniche chirurgiche e protesiche, periodicità e importanza dei controlli) e sui possibili fallimenti e loro cause; adattabilità dell’implantologia al singolo caso: illustrare benefici, rischi e possibili alternative protesiche, fare un’ accurata anamnesi generale e odontoiatrica, valutare lo stato di salute, l’eventuale assunzione di farmaci, l’abitudine al fumo; a questo punto si procede con l’esame obiettivo stomatologico che permette di valutare lo stato dei tessuti molli, lo stato e il numero degli elementi presenti, le condizioni dell’articolazione temporomandibolare. L’obbiettivo di questa due fasi preliminari è informare sulle possibilità del trattamento implanto-protesico, ponendo in giusto risalto i benefici e le possibilità di fallimento. Una volta deciso di intraprendere il trattamento implantoprotesico è bene fare degli esami utili alla documentazione clinica: impronte di studio, fotografie intraorali, dei settori frontali e laterali e delle particolari zone di interesse clinico, radiografie (OPT, endorali, TC con dentascan o RMN secondo la complessità del caso o della zona d’intervento). Obiettivo di questa fase è documentare il caso in maniera completa: ciò aiuta sia nella comunicazione con il paziente sia nella preparazione della fase chirurgica. fase prechirurgica: realizzare modelli di studio e ceratura diagnostica, compilare il consenso informato personalizzato e dettagliato con le varie fasi, illustrare al paziente la diagnosi con le componenti cliniche ed estetiche e le fasi dell’intervento, istruire sulle norme da osservare prima dell’intervento, consegnare una copia del consenso informato, far sottoscrivere la copia da conservare, consegnare la ricetta con le prescrizioni farmacologiche e le norme post-intervento. È buona norma, la sera dopo l’intervento e nei giorni seguenti, informarsi sulla salute del paziente e sul buon andamento della convalescenza. richiami postchirurgici da effettuare ogni mese per i controlli obiettivi e radiografici fino alla fase protesica. Ad ogni controllo è opportuno riportare sul diario clinico le osservazioni quali: il mantenimento di una corretta igiene orale, il buon andamento dei processi di guarigione, eventuali complicanze e prescrizioni farmacologiche… fase protesica: alla consegna del provvisorio sono utili le raccomandazioni sul tipo di igiene e sulle precauzioni da osservare. È importante documentare con foto e rx la fase protesica. I controlli prima del definitivo devono essere eseguiti periodicamente e annotate sul diario clinico le osservazioni. richiami dopo la fase protesica: alla consegna del definitivo il paziente deve essere invitato ai controlli periodici, che devono avvenire, nel suo interesse, secondo i protocolli attuali, dopo il primo mese, dopo 3 mesi e ogni 6 mesi. L’ obbiettivo è far capire al paziente l’importanza della terapia terminata e che solo il rispetto delle prescrizioni e la puntualità nei controlli sono necessari alla durate nel tempo e a prevenire e a trattare in modo semplice e immediato eventuali problemi. 6. MALPRACTICE E MEDICINA DIFENSIVA La malpractice medica è “la cattiva condotta per scarsa abilità o negligenza che provoca danni al paziente” (The American Heritage Dictionary). È necessario riconoscere che, a monte della questione della malpractice (mala praxis = cattiva condotta) e della crescente problematicità della sua gestione, c’è una crisi del rapporto fiduciario alla base della relazione fra paziente e medico e di quello, più in generale, dei cittadini nei confronti della sanità, pubblica e privata. Se i messaggi dei media, da una parte, alimentano nei cittadini grandi aspettative circa i traguardi sempre più avanzati raggiunti dalla medicina in ogni settore, se crescono il consenso e la partecipazione ad iniziative solidaristiche anche di massa a sostegno della ricerca, d’altro canto, gli stessi mezzi di comunicazione danno sempre più frequentemente spazio e risalto a notizie di cronaca nelle quali i pazienti sono vittime di errori medici di grande gravità, spesso del tutto ingiustificabili. Tutto ciò getta, comprensibilmente, il mondo degli utenti dei servizi sanitari in uno stato di profondo disorientamento. Ma anche per i professionisti della sanità, compressi tra la ricerca delle migliori cure per il paziente, le disposizioni spesso paralizzanti degli organi di amministrazione in un regime di tagli alla spesa sempre più invasivi, la fallibilità umana e la litigiosità in aumento, il momento è incerto e sicuramente difficile. Lo testimoniano l'incremento del numero di denunce presso l’autorità giudiziaria contro i medici per i loro presunti errori (le cifre per l’Italia, secondo un’indagine dell’ANIA vanno dalle 17.000 denunce dei medici nel 1996 alle 28.000 del 2006, con un aumento del 66%") e la continua pressione di stampa e televisione, a volte, responsabili di operazioni a carattere marcatamente scandalistico. Il tema della malpractice sanitaria, dunque, è fatto di due aspetti inscindibili: quello del paziente, che sente diminuire drasticamente la fiducia nei confronti della sanità e dei medici e teme che sia negato il proprio diritto costituzionale alla tutela della salute e quello del medico, per il quale essere sottoposto ad un giudizio produce danni pesanti, perfino incancellabili dal punto della credibilità professionale, anche nel caso di una piena assoluzione. Tra i medici italiani oggi in Italia, molto più che in passato, la paura di un contenzioso dilaga. Infatti l'87,6% di essi ritiene che il rischio di ricevere un esposto o una denuncia da parte dei pazienti sia oggi più elevato. Questa percentuale, quasi plebiscitaria, emerge dall'indagine “Medici in difesa, prima ricerca del fenomeno in Italia: numeri e conseguenze”, commissionata dall'Ordine dei medici della Provincia di Roma e condotta su 800 camici bianchi attraverso dei questionari. A stupire di più sono i dati scorporati per provenienza dei medici o specialità. Infatti a sentirsi potenzialmente “a rischio” è il 93,8% di chi lavora negli ospedali pubblici, soprattutto gli anestesisti (96,8%), i chirurghi (98,9%) e il totale di ortopedici e ginecologi. La percezione del rischio è tale che solo il 6,7% dei sanitari si sente di escludere la probabilità di una denuncia a suo carico. I timori maggiori, rivela lo studio, toccano i giovani medici fino ai 34 anni e gli uomini in generale. Le paure di vedersi citare in tribunale sono tali da far ritenere all'89,8% dei medici molto rischioso, oggi, affidarsi alla sola analisi clinica e non anche a quella tecnologica, per formulare una diagnosi. Da qui il proliferare di prestazioni mediche e ricoveri, oltre che di ricette di farmaci, con l'obiettivo di non assumersi troppe responsabilità. Queste dinamiche sono alla base del prodursi del meccanismo perverso noto come “medicina difensiva”. Questo meccanismo è costituito dalla sistematica e consapevole prescrizione di farmaci, procedure terapeutiche o accertamenti diagnostici non necessari alla salute del paziente (si parla in questo caso di tipologia positiva o commissiva), ovvero dalla tendenza ad evitare prestazioni ad alto rischio (tipologia negativa od omissiva), al solo fine di prevenire denunce giudiziarie, ma con ovvie ripercussioni negative, non solo sulla salute del paziente, ma anche sul piano dei costi. Secondo la definizione di Fiori “la medicina difensiva è identificabile in una serie di decisioni attive od omissive, consapevoli ma non di rado inconsapevoli o non specificatamente meditate, che non obbediscono al criterio essenziale del bene del malato nel rispetto di un equilibrato rapporto costo beneficio, bensì all’intento di evitare accuse per non aver effettuato tutte le indagini e tutte le cure conosciute o al contrario per aver effettuato trattamenti gravati da alto rischio di insuccessi e complicanze” 25. Nella sua versione negativa-omissiva, questa pratica, diffusissima all’estero, arriva a spingersi al progressivo abbandono di particolari specializzazioni, considerate troppo rischiose. Dal punto di vista dei pazienti, ciò significa, nei casi con bassa probabilità di successo o con alto tasso di rischiosità, vedersi negato addirittura il diritto alla cura. Anche in assenza di dati e stime ufficiali che traccino con certezza i confini del fenomeno, è opinione comune che negli ultimi anni le accuse di negligenza professionale in campo sanitario siano aumentate vertiginosamente. La causa dell’aumentata litigiosità non è, però, da ricercarsi nella riduzione della qualità delle prestazioni professionali del sanitario. Sicuramente è aumentata la coscienza dei pazienti e la loro attenzione nei confronti del personale sanitario; ma si ritiene che in alcuni casi le aspettative dei pazienti nei confronti della medicina possano essere eccessive, e quindi deluse. Il paziente, insomma, non si considera più oggetto di trattamenti terapeutici, ma soggetto titolare di diritti che egli vuole vedere garantiti nel proprio interesse ed in quello della collettività. D’altro canto, al di là degli esiti in merito alla effettiva responsabilità, il procedimento giudiziario provoca di per sé ai medici spesso seri danni sul piano dell’immagine, sul piano economico e anche su quello morale. In tale quadro, le Compagnie Assicuratrici mostrano un chiaro fenomeno di progressivo allontanamento dal settore sanitario. Infatti, è evidente il fenomeno di riduzione del numero di Compagnie che operano polizze assicurative professionali per i medici e per le strutture sanitarie. L’insieme di questi fattori ha generato lo stravolgimento del rapporto medico-paziente, ora pervaso da reciproca diffidenza, tanto da sembrare ormai diffuso il principio che la salute dei cittadini debba essere salvaguardata più da un controllo assiduo della magistratura che dalla professionalità del medico. Opinione comune è che la causa dell’aumento delle denunce per malpractice sanitaria vada ricercata nella carenza di rapporto di fiducia tra medico e paziente. Diventa così di primaria importanza favorire le condizioni di una ritrovata fiducia verso i medici da parte dei pazienti. In tale contesto, per porre un freno al contenzioso dilagante e offrire un aiuto concreto ai medici e pazienti, l'Ordine Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri ha avviato, in via sperimentale, il Progetto Accordia (di cui parleremo meglio in seguito), incentrato sulla costituzione di uno Sportello di Conciliazione come strumento per migliorare il rapporto medicopaziente,tutelando, da una parte, il decoro e l'immagine del professionista e dall'altra la salute del cittadino. D’altronde, il decreto istitutivo dell’Ordine (D.Lgs.C.P.S. 13 settembre 1946, n. 233 Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell'esercizio delle professioni) elenca, all’articolo 3, lett. 9, tra le funzioni spettanti al Consiglio direttivo di ciascun Ordine proprio quella di “interporsi, se richiesto, nelle controversie fra sanitario e sanitario, o fra sanitario e persona o enti a favore dei quali il sanitario abbia prestato o presti la propria opera professionale, per ragioni di spese, di onorari e per altre questioni inerenti all'esercizio professionale, procurando la conciliazione della vertenza e, in caso di non riuscito accordo, dando il suo parere sulle controversie stesse”. 6.1 IL “PROGETTO ACCORDIA” Per far fronte al fenomeno degenerativo della litigiosità, dal forte impatto sociale, l'Ordine Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri ha lanciato, in via sperimentale, la costituzione di uno Sportello di Conciliazione, allo scopo di accogliere ed esaminare gratuitamente le denunce dei cittadini per indirizzarle a una soluzione bonaria e di trasmettere le domande di conciliazione, che presentassero una serie di requisiti, alla Camera di Conciliazione istituita dall'Ordine degli Avvocati di Roma e dalla Corte di Appello di Roma, così da ottenere una proposta di composizione in tempi estremamente brevi se paragonati a quelli della giustizia ordinaria: novanta giorni a fronte di numerosi anni. Lo Sportello ha raccolto le esperienze dei cittadini in relazione al loro rapporto con la sanità, soffermandosi, in particolare, sulle segnalazioni di errori e carenze delle prestazioni mediche nonché eventuali testimonianze di episodi di buona sanità; ha costituito un punto informativo sul mondo sanitario offrendo sia ai medici sia ai cittadini la possibilità di risolvere in via amichevole le controversie tra loro insorte tramite la conciliazione. Il progetto, realizzato per la prima volta in Italia, ha avuto carattere assolutamente innovativo. I principali elementi di novità sono rappresentati: dalla convergenza di due ordini professionali in un programma di tutela diffusa dei diritti (tanto quelli dei pazienti, quanto quelli dei medici); dall’approccio teso al dialogo, alla consulenza e all’incontro e non all’esasperazione della conflittualità; dalla disponibilità di Compagnie di Assicurazione di primaria importanza che, accettando di intraprendere un percorso che va ben al di là delle tradizionali logiche assicurative, hanno stipulato una convenzione con l’Ordine dei Medici, in base alla quale esse si sono impegnate a partecipare al progetto Accordia quando fosse interpellato un medico loro assicurato. Lo Sportello di Conciliazione è stato aperto a tutti i cittadini che ritenessero di essere rimasti vittima di episodi di malasanità la cui responsabilità fosse imputabile esclusivamente al medico. Obiettivo primario del progetto è stato, infatti, quello di creare un punto di ascolto e di raccolta delle segnalazioni dei pazienti, nel quale essi potessero confidarsi e confrontarsi con personale specializzato, competente e motivato, sugli aspetti concreti della negligenza professionale sanitaria. Attore importante del progetto è stata la Commissione Tecnica, composta da quattro membri effettivi, due avvocati e due medici legali alla quale è spettato il compito di valutare le richieste pervenute allo Sportello, esprimendo un parere sulla possibilità di procedere ad una definizione amichevole della controversia. In particolare, le domande di conciliazione dovevano rispettare alcune caratteristiche, quali: riguardare il rapporto professionale medico-paziente, con espressa esclusione di strutture pubbliche o private eventualmente coinvolte nel rapporto di lavoro; le liti dovevano avere natura civilistica e quindi sono state escluse tutte le controversie di natura penale; il valore della richiesta di risarcimento non doveva superare i 25.000 euro; le controversie oggetto della conciliazione non dovevano essere state precedentemente denunciate con formale lettera di un legale o sottoposta all’Autorità Giudiziaria Ordinaria. In caso di riscontro positivo da parte della Commissione Tecnica, il paziente e il medico hanno avuto la possibilità incontrarsi con un Conciliatore nominato dalla Camera di Conciliazione, organo istituito dall'Ordine degli Avvocati di Roma e dalla Corte di Appello di Roma con lo scopo di favorire una rapida conciliazione preventiva delle liti, evitando il ricorso automatico all' Autorità Giudiziaria Ordinaria. La procedura di conciliazione è basata su una Convenzione stipulata tra la Camera di Conciliazione di Roma e l'Ordine Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, orientata alla definizione extragiudiziaria delle controversie tra i medici iscritti all'Ordine di Roma e i cittadini, al fine di migliorare il rapporto medico-paziente, tutelando da una parte il decoro e l'immagine del professionista e dall'altra i diritti del cittadino. Inoltre, la Convenzione prevede che la risoluzione delle controversie tra il medico e il paziente gratuitamente ed in tempi brevi (massimo novanta giorni dalla presentazione delle domande di conciliazione). È fondamentale sottolineare che tutto il meccanismo messo in moto da Accordia ha una base di adesione puramente volontaria. Il medico o la compagnia assicuratrice, infatti, sono liberi di aderire o meno al progetto e anche, nel caso di adesione, la proposta di conciliazione avanzata in sede di Camera di Conciliazione può essere rifiutata, tanto dal medico, quanto dal paziente e non preclude in alcun modo la possibilità, da parte di entrambi, se insoddisfatti, di ricorrere alla giustizia ordinaria. I servizi dello Sportello sono totalmente gratuiti, poiché i costi sono sostenuti dall'Ordine Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e dalle Compagnie Assicuratrici che hanno aderito al progetto. Le uniche spese a carico del cittadino sono quelle relative agli onorari del legale da cui egli decida eventualmente di farsi assistere. I tempi della procedura sono serrati, per permettere una veloce risoluzione del problema. Infatti, entro 30 giorni dal contatto, lo Sportello verifica la completezza della documentazione e la disponibilità del medico a partecipare alla procedura conciliativa. In seguito, la domanda presentata dal cittadino, unitamente al carteggio fornito dal sanitario, viene trasmessa alla Commissione Tecnica, che la esamina, valutandone la fondatezza e l'ammissibilità secondo i requisiti stabiliti dalla Convenzione per la conciliazione ed esprime entro 30 giorni un parere sulla possibilità di procedere alla definizione amichevole della controversia. Nell’ipotesi in cui le parti non giungano ad un accordo, il Conciliatore redige un verbale di mancato accordo, precisandone le ragioni. Le parti rimangono, pertanto, libere di procedere in altro modo ed eventualmente di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria. Si evince dai primi sommari dati acquisiti che il progetto è riuscito nel suo intento di realizzare un luogo di ascolto, di incontro e di mediazione tra le legittime aspettative dei cittadini e i problemi concreti affrontati quotidianamente dal medico nell'esercizio della professione. Inoltre, la conciliazione si è rivelata una soluzione tecnica che, pur garantendo il risarcimento degli eventuali danni, indirizza il conflitto sulla via dell’accordo e della pacificazione tra medico e paziente, senza che si verifichi una rottura dei rapporti. Si tratta di risultati che incoraggiano a proseguire l’esperienza, certo con indispensabili correttivi, ma anche con significativi ampliamenti, sempre in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati, la Camera di Conciliazione e le Compagnie Assicuratrici. 7. CASI CLINICI Caso 1 Paziente di 40 aa. Si presenta alla osservazione con una protesi definitiva in lega aurea-ceramica eseguita circa 15 anni prima. L’obiettivo richiesto era di ricreare la condizione naturale con impianti osteointegrati nelle zone edentule al fine di ottenere una riabilitazione con elementi singoli. La pLa paziente, aveva eseguito, presso un altro sanitario, degli innesti ossei nelle zone edentule per correggere l’atrofia marcata. Nonostante tale procedura, il guadagno osseo non era stato eccellente (Rx). Il chirurgo ha comunque inserito gli impianti in dette zone, con il risultato di un elevato inestetismo in corrispondenza della zona 2.1,2.2. Insoddisfatta del risultato ha richiesto il risarcimento per il danno subito, poiché ha dovuto ricorrere di nuovo allo stesso tipo di protesi fissa preesistente. Il tribunale ha parzialmente accolto la richiesta, valutando una carenza di consenso informato e condannando il sanitario alla sola restituzione della parcella riguardante la terapia implantoprotesica, laddove non aveva avuto successo, ma non accogliendo la tesi dei danni, in quanto non c’era stato un esito peggiorativo dal precedente stato. Caso 2 Paziente di 55 aa, l’obiettivo della terapia era di inserire impianti in zona 4.5, 4.6 a supporto di una protesi fissa (rx). Per un errore chirurgico, gli impianti erano stati inseriti parzialmente nel canale mandibolare, ma durante la preparazione del sito era stato sezionato il n. mandibolare, con conseguente parestesia. La rimozione delle fixture non aveva sortito alcun effetto sulla ripresa della sensibilità a distanza di 4 anni, per cui la paziente chiedeva il risarcimento dei danni. Il giudice accoglieva la richiesta, condannando il dentista per imperizia e imprudenza, per l’errore tecnico e per negligenza per non aver prescritto tutte le indagini radiologiche necessarie. Inoltre nell’ammontare dei danni è stato quantificato un 6% di invalidità, per la lesione del nervo alveolare, in primis e per la necessità di ricorrere ad una terapia protesica diversa da quella stabilita, stante l’impossibilità all’inserimento di nuovi impianti nella stessa zona per la vasta distruzione ossea creata dalla rimozione obbligatoria delle fixture. CONCLUSIONI Gli operatori sanitari e soprattutto gli odontoiatri devono chiarire a loro stessi e ai loro pazienti, che è l’etica la colonna portante della loro professione. Una qualsiasi manovra diagnostica e terapeutica che eseguono su un paziente dovrebbe essere sempre preceduta dalla domanda se tale procedura è sostenibile e indicata. Il modo più semplice per capirlo in tutta onestà è porsi la domanda se essi stessi si sottoporrebbero a quanto propongono oppure no. Spesso gli odontoiatri si sono dedicati a cavilli e orpelli marginali della loro professione perdendo di vista il rapporto etico e morale con i pazienti. Questo terreno va sicuramente recuperato e in fretta, poiché il rapporto tra medico e paziente si basa sulla reciproca fiducia. Per dare tale fiducia ai nostri pazienti bisogna sapersi comportare in modo corretto. Da un articolo pubblicato su Andkronos salute del 24 settembre 2008 emerge che il 60% dei medici, in una o più occasioni, ha prescritto farmaci o a eseguito dei trattamenti in un'ottica di medicina difensiva. Questo uno dei dati che emerge dall'indagine “Medici in difesa, prima ricerca del fenomeno in Italia: numeri e conseguenze”, commissionata dall'Ordine dei medici della Provincia di Roma e condotta su 800 camici bianchi attraverso questionari. Solo il 39,3% dei medici intervistati, infatti, dichiara di non essere mai stato spinto a compilare ricette dalla paura di incorrere in guai giudiziari. Il 41,3%, invece dichiara di non averlo fatto quasi mai (uno o due casi su 10), il 13,6% talvolta (3-4 casi su 10) e il 5,8% spesso, cioè oltre 4 volte su 10. 1 2 3 4 1. 39,3% - mai 2. 41,3% - 1/2 casi su 10 3. 13,6% - 3/4 casi su 10 4. 5,8% oltre 4 casi su 10 Questi dati appaiono sconcertanti ma non sono altro che il risultato dell’alterato rapporto di fiducia medico-paziente che si è andato modificando in questi ultimi anni: da una parte, a causa dell’informazione talora non corretta o troppo superficiale dei mass media, i pazienti alimentano delle speranze nei confronti delle nuove tecnologie che spesso vengono deluse il che li porta ad aprire una lotta contro il medico che, secondo la loro ottica, non è riuscito a dargli il risultato voluto; dall’altra i medici hanno perso di vista il lato umanitario della loro professione basato su un rapporto di ascolto e di fiducia nei confronti delle persone che gli stanno davanti, di dialogo e di comprensione, allontanando così i pazienti e facendo aumentare in loro la diffidenza. I contenziosi hanno spesso alla base una mancata comunicazione tra medico e paziente, il quale abbandonato a se stesso non esiterà e citarlo in giudizio nel momento in cui non vedrà soddisfatte le sue aspettative. D’altro canto invece, un medico che instaura un buon dialogo con paziente, che gli spiega tutte le eventuali complicanze e gli eventuali insuccessi della terapia che stanno per intraprendere, che ascolte le sue esigenze e le sue preoccupazioni si troverà davanti un paziente informato e consapevole e sicuramente predisposto ad accettare e capire l’eventuale esito negativo della terapia senza attribuire la colpa di non aver fatto a aver fatto male al professionista. Il modo migliore per concludere questo lavoro è senz’altro citare questa massima: “… se ti proponi come un Dio, non ti lamentare se quando piove se la prendono con te…” (Anonimo) BIBLIOGRAFIA 1. 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