UNIVERSITA’ POLITECNICA DELLE MARCHE
FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA
IN ODONTOIATRIA E PROTESI DENTARIA
CLINICA DI ODONTOSTOMATOLOGIA
Direttore: Prof. Maurizio Procaccini
TERAPIA
IMPLANTO-PROTESICA:
CONSIDERAZIONI MEDICO LEGALI
RELATORE: CHIAR.MO
TESI DI LAUREA DI:
PROF. MAURIZIO PROCACCINI
ALESSIA DELLI CARPINI
CORRELATORE:
DOTT. BRUNO MARCELLI
Anno Accademico 2007 - 2008
INDICE
INTRODUZIONE
I. PRINCIPI DI IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA
1.
L’implantologia osteointegrata
1.1 Pianificazione del trattamento
1.1.1 Diagnosi
1.1.2 Esame intraorale
1.1.3 Esame radiografico
1.1.4 Analisi osso disponibile
1.1.5 Scelta dell’impianto in funzione del sito
1.1.6 Preparazione sito chirurgico
1.1.7 Trattamento post-chirurgico
1.2 Criteri di successo in implantologia
1.3 Fallimenti e complicanze in implantologia
1.3.1 Cause dovute all’operatore
1.3.2 Fase post-chirurgica
1.3.3 La perimplantite
1.3.4 L’esame clinico dell’impianto
1.3.5 Fase protesica
I
1
4
7
8
9
12
15
18
21
22
27
30
41
43
50
54
II. CONTENZIOSO MEDICO-PAZIENTE: ASPETTI CLINICI E
MEDICO LEGALI
1. La responsabilità professionale
1.1 La responsabilità penale
1.1.1 Elementi costitutivi del reato
1.2 La responsabilità civile
1.2.1 La responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
1.2.2 L’obbligazione di mezzi e l’obbligazione di risultato
1.2.3 La ripartizione dell’onere probatorio
1.3 La responsabilità dell’odontoiatra nel trattamento
implantologico
2. L’informazione e il consenso
2.1 Il dovere di informare
2.1.1 Modalità, oggetto e limite dell’informazione
2.1.2 Violazione del dovere di informare: responsabilità
2.2 Il dovere di acquisire il consenso
58
59
62
68
69
70
74
75
86
94
96
99
2.2.1 Validità del consenso
2.2.2 Revoca del consenso
2.2.3 Trattamento medico in difetto di consenso del paziente
2.3 Il consenso informato in odontoiatria
2.3.1 Aspetti generali del consenso informato in odontoiatria
2.3.2 L’importanza della documentazione clinica
3. Il danno biologico
3.1 Contenuti del danno biologico
3.2 Il danno psichico
3.3 Criteri di valutazione del danno
104
112
113
115
123
127
129
132
135
136
3.3.1 Criteri di valutazione del danno dentario
4. Confine tra errore e complicanza
4.1 Prevenzione di errori e complicanze
139
142
147
5. Linee guida in implantologia
6. Malpractice e medicina difensiva
149
153
6.1 Il progetto “Accordia”
7. Casi clinici
159
166
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
170
INTRODUZIONE
Il notevole aumento di azioni giudiziarie nei confronti di sanitari
tendenti a riconoscere responsabilità colpose o dolose in ordine
alle loro prestazioni professionali, ha portato il problema del
contenzioso medico-paziente e della responsabilità medica ad
essere un argomento di grande attualità.
Il dilagare della responsabilità medica in sede giudiziaria è un
fenomeno in crescita esponenziale e, come cause riconosciute, si
può riassumere attraverso l’analisi di tre importanti fattori:

l’evoluzione tecnico-scientifica, che si traduce per il sanitario
in una crescente disponibilità di mezzi, strutture e specializzazioni,
che inficia la teoria dell’errore scusabile;

il passaggio da una cosiddetta medicina paternalistica ad
una medicina informata, con rinnovati riflessi sul rapporto
medico-paziente, il quale, in tale veste, acquisisce nuovi diritti
tutelati dall’ordinamento;

la maggiore attenzione della magistratura nei confronti
dell’errore medico.
Questi fattori, si riscontrano in campo medico in generale, quindi
anche in campo odontoiatrico c’è un gran fermento per quanto
riguarda la medicina difensiva e forense: sono sempre di più
infatti i pazienti che aprono un contenzioso per la richiesta di
risarcimento nei confronti del proprio odontoiatra, anche se, in
2/3 dei casi si tratta di richieste pretestuose.
Il contratto tra medico e paziente è un contratto d’opera
intellettuale, che si specifica come “contratto di prestazione
medica” e viene definito come “l’accordo in virtù del quale il
medico, effettuata la diagnosi ed indicata la terapia, si obbliga nei
confronti del paziente, dietro corrispettivo, a realizzarla secondo
le migliori prescrizioni dell’arte medica, assumendo, perciò una
obbligazione di mezzi”.
L’odontoiatria è una branca medica in cui, per alcune prestazioni
come ad esempio i trattamenti protesici è richiesto un obbligo di
risultato.
Un odontoiatra che si impegna a predisporre ed applicare una
protesi dentaria, fissa o mobile, assume nei confronti del paziente
un obbligazione di risultato perché è obbligato a realizzare un
opera in tutto idonea alla sua destinazione. L’odontoiatra che
abbia applicato al paziente una protesi inidonea per vizi o
difformità
alla
sua
destinazione
incorre
in
responsabilità
contrattuale ed è tenuto ad risarcire il danno biologico e il danno
patrimoniale.
Scopo di questo lavoro è definire e analizzare dal punto di vista
medico-legale la posizione dell’odontoiatra che intraprende una
terapia implanto-protesica, analizzando prima di tutto quali sono
le complicanze e i fallimenti che possono verificarsi durante il
trattamento e, in un secondo momento, quali sono i doveri legali
dell’odontoiatra e i casi in cui quest’ultimo potrebbe essere citato
in giudizio per il risarcimento di un danno biologico o
patrimoniale nel caso di un esito negativo del trattamento.
Tutto ciò supportato dallo studio di due casi clinici in cui il
pazienti avevano citato in giudizio i loro odontoiatri per
complicanze legate all’inserimento di impianti, uno risoltosi con
assoluzione, l’altro con condanna e successivo risarcimento del
paziente leso.
I. PRINCIPI DI IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA
1. L’IMPLANTOLOGIA OSTEOINTEGRATA
L’implantologia orale, che si avvale di impianti osteointegrati
utilizzati come supporto per una riabilitazione protesica fissa o
removibile,
è
universalmente
riconosciuta
come
una
metodologia clinica sicura e in grado di garantire risultati
duraturi nella riabilitazione orale.
La possibilità di non coinvolgere la dentatura naturale residua e
di fornire protesi fisse ai pazienti edentuli ha rivoluzionato il
moderno concetto di riabilitazione protesica, facendo degli
impianti osteointegrati uno strumento spesso indispensabile nella
preparazione del piano terapeutico.
Come si evince dalle precedenti righe, alla base della terapia
implantoprotesica c’è il concetto introdotto da Brånemark nel
1969
e
poi
ripreso
da
innumerevoli
autori,
dell’osteointegrazione che, secondo la sua definizione, è la
“congruenza anatomica tra osso vivente rimodellato e sano ed
un componente sintetico che trasferisce un carico all’osso”.
La terapia implantare ha come scopo principale quello di
sostituire elementi dentari andati persi con manufatti protesici;
ciò ha anche numerosi risvolti a livello anatomico e funzionale
su molte delle strutture presenti nel cavo orale.
Per prima cosa il posizionamento degli impianti permette il
mantenimento delle strutture ossee in quanto, grazie al carico
che essi trasferiscono all’osso sottostante, impediscono che
questo vada incontro ad atrofia e di conseguenza si avrà anche
un miglioramento e un mantenimento del profilo facciale
(soprattutto in caso di edentulie totali).
I fenomeni locali che conducono all’atrofia del mascellare
edentulo, infatti, sono imputabili alla pressione esercitata dal
periostio nei confronti del tessuto sottostante. La mancanza del
sistema fisiologico elemento dentale - legamento parodontale si
traduce nell’assenza dello stimolo funzionale che è necessario al
mantenimento del tessuto osseo. Il fenomeno elastico, pressionetensione mantiene il volume osseo tramite questo stimolo
meccanico. La massa ossea quindi è strettamente legata al carico.
Le forze di carico stimolano l’osso e per far si che non si verifichi
un riassorbimento è necessario che il carico applicato eserciti una
forza compresa tra i 2500 e i 4000 Newton.
Un diverso carico dinamico dell’osso comporta una reazione di
questo tessuto estremamente diversa: si verifica atrofia quando
l’osso è sottoposto a un carico inferiore a 200 N mentre si ha il
mantenimento del livello dell’osso con un carico compreso tra i
200 e i 2500 N. Questa è la condizione fisiologica per l’osso ed
è quella nella quale l’operatore dovrebbe cercare di mantenere
la sollecitazione funzionale della struttura implanto-protesica
progettata.
Si può arrivare alla frattura in condizioni differenti in rapporto al
tipo di osso e alla sua consistenza; questo fenomeno si attesta
quando il carico è di circa 25000 N di forza lineare.
La sostituzione degli elementi persi con impianti presenti anche
altri vantaggi come il mantenimento delle strutture muscolari
grazie al ripristino della corretta funzione masticatoria, una
corretta posizione dei denti (ad esempio con la messa in posa
del nuovo elemento viene meno il movimento di mesiodistalizzazione
degli
elementi
adiacenti
e
di
estrusione
dell’antagonista,…) e di conseguenza una corretta occlusione
che permette di riflesso di prevenire problemi all’articolazione
temporomandibolare.
Tutto ciò ha come ultimo, ma forse più importante, vantaggio
quello psicologico, in quanto il paziente vede risolti i suoi
problemi sia funzionali che estetici.
1.1 PIANIFICAZIONE DEL TRATTAMENTO
Lo studio del caso clinico in implantologia deve tener presente le
condizioni generali del paziente ai fini di considerare i diversi tipi
di piani di trattamento.
L’implantologia osseo integrata è un tipo di trattamento che può
trovare indicazione in ogni tipo di paziente, senza riferimento al
sesso e all’età.
L’utilizzo degli impianti osteointegrati è
certamente ideale in tutti quei soggetti che, in assenza di malattie
sistemiche o metaboliche, hanno un adeguata quantità di osso
nel mascellare superiore o inferiore.
Le indicazioni al trattamento implantare sono:
 edentulia totale;
 edentulia parziale;
 la riduzione di proporzione della lunghezza dei ponti fissi in
pazienti con un numero troppo limitato di pilastri;
 pazienti che rifiutano l’uso della protesi;
(Albrektsson e Blomberg; Blomberg e Linquist; Laney)
 abitudini parafunzionali che compromettono la stabilità
protesica;
 aspettative del paziente per una dentatura completa;
 pazienti psicologicamente contrari alla protesi removibile;
 numero e localizzazione sfavorevole di potenziali pilastri
derivanti da denti naturali;
 perdita di un singolo elemento.
(Adell; Laney; Zarb.)
Prima di intraprendere la pianificazione del trattamento bisogna
considerare le controindicazioni, sia assolute che relative,
all’implantologia.
Le controindicazioni relative all’uso degli impianti ostro integrati
sono date da:
 patologie dei tessuti duri o molli, come nel caso di tumori
benigni che vanno rimossi prima di ipotizzare la procedura
implantologica: dopo la rimozione della neoplasia, è possibile
verificare se il paziente sia un buon candidato al trattamento
implantologico. Pazienti con problemi dei tessuti molli, come
collagenopatie, devono essere attentamente valutati; ogni stadio
attivo di queste malattie deve essere trattato prima di
considerare il trattamento implantologico;
 nei pazienti che hanno subito estrazioni recenti è importante
determinare il tempo trascorso dall’avulsione e associare una
indagine
radiografica
per
poter
decidere
se
l’osso
è
adeguatamente guarito; secondo i canoni classici non esiste
motivo
per
attendere
l’esecuzione
della
procedura
implantologica oltre l’anno, in quanto le grosse modificazioni di
rimodellamento dell’osso, trascorso quel periodo sono già
avvenute;
 pazienti che sono stati irradiati con dosi inferiori a 400rads
possono essere sottoposti a trattamento chirurgico implantare
con l’avvertenza di ritardare la seconda fase chirurgica, perché
necessitano di un periodo di guarigione più lungo;
 pazienti affetti da discrasie ematiche (leucemia, emofilia,
porpora trombocitopenia idiopatica, coagulopatie,…), dove la
possibilità di intervenire è legata alle condizioni generali di
salute;
 pazienti con anamnesi clinica comprovante un abuso di
alcool, tabacco e/o uso di droghe. Questi pazienti hanno una
ridotta resistenza alle infezioni (circa il 30% in meno). Qualora
si proceda al trattamento è consigliabile che questi soggetti si
astengano dall’uso di queste sostanze per qualche settimana;
 pazienti
con
malattie
croniche
come
il
diabete
o
l’ipertensione, vanno compensati e valutati su base individuale.
Le controindicazioni assolute all’utilizzo degli impianti sono
invece da ricercare nei pazienti irradiati ad alte dosi (superiori a
500 rads), nei pazienti con problemi psichici gravi e nei pazienti
con disordini ematologici - sistemici (artrite reumatoide).
Per verificare la presenza di controindicazioni sistemiche o locali
e per individuare le caratteristiche anatomiche e strutturali del
sito implantare, l’approccio diagnostico è di fondamentale
importanza. La selezione preliminare del paziente richiede
l’esecuzione di un’accurata anamnesi affiancata da esami di
laboratorio, di routine e specifici (quest’ultimi volti a indagare il
metabolismo osseo), da un’ indagine clinica endorale e orto
panoramica e da un esame del sito implantare, arricchiti da
un’accurata documentazione fotografica.
1.1.1 Diagnosi
È fondamentale conoscere le condizioni generali del paziente ai
fini di una diagnosi e di un piano di trattamento corretto, la
storia clinica generale (anamnesi patologica prossima e remota)
e la storia clinica dentale nella quale bisogna ricercare eventuali
abitudini parafunzionali come il bruxismo o il serramento
notturno che, se non corrette, possono invalidare il trattamento
pianificato.
1.1.2 Esame intraorale
L’esame intraorale comprende la valutazione dell’igiene orale, le
condizioni dei tessuti molli e le condizioni di salute parodontale.
La valutazione di parametri parodontali, dell’occlusione, delle
aree edentule, del numero e stato degli elementi presenti,
evidenzia se esistono delle alterazioni del supporto locale ai fini
implantoprotesici.
Importante anche la valutazione dell’anatomia radiografica
riguardo la posizione ed estensione di strutture quali il forame
mentoniero, il nervo mandibolare, il seno mascellare, i seni
paranasali.
Ai
fini
implantoprotesici
riveste
particolare
importanza,
attraverso lo studio dei modelli in gesso, il numero e la
posizione dei denti residui e la possibilità di ricostruzione
implanto-protesica nelle aree edentule in rapporto all’osso
rimasto e alla relazione intermascellare.
Le informazioni che ne derivano sono utili, permettendo infatti
di predeterminare, compatibilmente al quadro anatomico, la
migliore distribuzione delle fixture.
1.1.3 L’esame radiografico
È determinante per stabilire la qualità e la quantità dell’osso
residuo. Gli esami radiologici da valutare sono:
 la radiografia panoramica (OPT) che fornisce una visione
generale della morfologia dell’osso a livello dei mascellari e
fornisce informazioni fondamentali sulle strutture anatomiche
adiacenti, permette di riconoscere l’ubicazione e la morfologia
del pavimento del naso e dei seni mascellari. La visione
radiografica
del
mascellare
superiore
consente
di
trarre
informazioni attendibili sulla misura, in senso verticale, dell’osso
e del grado di riassorbimento.
Sulla mandibola, l’anatomia radiologica evidenzia il contorno
della mandibola, i forami mentonieri e il canale mandibolare.
L’utilizzazione di dime individuali, ricavate da modelli di studio,
consente di effettuare una diagnosi iniziale in gran parte dei casi
di implantoprotesi.
 la teleradiografia laterolaterale è richiesta solo nelle atrofie
nelle edentulie del mascellare superiore e/o inferiore proprio
perché ci consente di valutare la relazione intermascellare fra le
due arcate. L’associazione dello studio cefalometrico con le altre
indagini radiografiche, principalmente la TC eseguita con
programmi dedicati come il DentaScan, consentono di dedurre
quale sia la reale necessità di ricostruzione dei mascellari atrofici.
Solo un’adeguata correlazione tra la posizione degli impianti ed
il supporto osseo delle due arcate consente di pianificare
correttamente il trattamento chirurgico da eseguirsi.
 le radiografie endorali mirate permettono di valutare, con
miglior qualità di risoluzione, il tipo e la morfologia dell’osso
preso in esame, attraverso l’uso di centratori assiali ed alla
mancanza di sovrapposizione di immagini come la colonna
vertebrale nell’OPT.
 la tomografia computerizzata (TC) con programmi dedicati
(Dentascan) ha reso meno difficile per il clinico l’individuazione
di qualità, morfologia e densità del tessuto osseo. Permette la
visualizzazione di sezioni trasversali multiple, misurazioni
millimetriche
accurate
e
miglior
contrasto
tissutale
che
permettono di visualizzare i mascellari su tre piani: assiale,
obliquo sagittale e panoramico. Inoltre può, in sezione
trasversale, visualizzare con grande precisione l’ubicazione del
canale alveolare inferiore, del canale incisivo e dei seni
mascellari, ottenendo delle misurazioni molto precise dell’osso
disponibile, senza le distorsioni tipiche dell’OPT. La TC con
Denta-scan consente infatti una visione tridimensionale del
futuro sito implantare, con possibilità di misurazioni dirette sul
radiogramma. Questi programmi consentono di identificare in
fase preoperatoria anche i difetti che richiedono un trattamento
di innesto osseo e quindi di pianificare in modo ottimale il
trattamento necessario. Attraverso lo studio densitometrico
fornito dall’immagine, è possibile valutare la qualità dell’osso
espressa in unità Hounsfield, parametro sicuramente più
affidabile della lettura soggettiva della scala di grigi che si ottiene
da un’OPT. Inoltre permette, nello studio dettagliato della
morfologia del seno mascellare, di identificare e sfruttare al
massimo le strutture ossee presenti, la presenza di eventuali
patologie o di setti sinusali (di Underwood). La tomografia
computerizzata evidenzia anche la presenza di patologie come
affezioni periapicali e parodontali, corpi estranei o tumori e cisti
che, a volte, non si vedono nell’OPT.
 l’esame densitometrico (MOC), scarsamente utilizzato come
esame preliminare, trova applicazione nel campo maxillofacciale nella diagnosi e nel monitoraggio dei pazienti con
osteoporosi in relazione alla necessità di una valutazione sia
quantitativa che qualitativa delle ossa mascellari in relazione di
un loro utilizzo per interventi di implantologia. Il MOC dal
punto di vista qualitativo può dirci se l’osso controllato, con il
rilievo degli “score”, rientra nei limiti della normale morfologia
o se esistono delle situazioni patologiche.
1.1.4 Analisi dell’osso disponibile
Le indagini radiografiche ci permettono di valutare la qualità e la
quantità di osso disponibile presente nel sito implantare.
A livello locale bisogna valutare l’altezza, l’ampiezza e la
lunghezza dell’osso presente. L’osso disponibile in altezza
fornisce indicazioni sulla lunghezza dell’impianto da inserire.
L’ampiezza e la forma del sito edentulo condizionano la scelta
del diametro dell’impianto e la sua angolazione rispetto all’osso.
L’ampiezza varia in funzione del riassorbimento osseo.
Lo
spessore vestibolo-orale dell’osso deve essere, al minimo, di 1
mm superiore al diametro dell’impianto. L’ampiezza condiziona
anche l’inclinazione dell’impianto: un asse impiantare ideale
prevede l’impianto allineato con le forze occlusali. Quella
accettabile varia dai 20° ai 30°. Più è inclinato, più aumenta lo
stress
sull’osso
crestale,
con
inevitabile
aumento
del
riassorbimento. Oltre i 30° l’inclinazione può causare la frattura
delle componenti protesiche12 .
Nell’inserimento di più impianti è importante calcolare la
distanza tra quelli vicini che dovrebbero distare tra di loro 3-4
mm e 3 mm dai denti naturali.
Distanze
inferiori
nell’adattamento
a
delle
queste
determinano
componenti
difficoltà
protesiche,
nel
mantenimento igienico, mancanza di spazio vitale tra le papille e
un maggior rischio di riassorbimento osseo perimplantare
(Tarnow et al. 2000).
La qualità ossea condiziona la stabilità implantare. Si possono
distinguere 4 diversi tipi di osso (classificazione secondo Mish):
 D1: il mascellare è formato quasi interamente da osso
compatto e omogeneo
 D2: uno spesso strato di osso compatto circonda un osso
trabecolare denso centrale
disponibile e alla sua densità. In presenza di osso D3, D4 bisogna
aumentare più possibile diametro e lunghezza e preparare il sito
con tecnica diversa. La tecnica degli osteotomi aumenta le
possibilità di successo e ciò è dimostrato da uno studio con
risultati a tre anni: “Impianti inseriti in osso a bassa densità con
tecnica degli osteotomi”
Zona n° imp. R.m. 1a R.m. 3 aa Fallimenti
dal carico dal carico
1 mm
1,1 mm
.4
8
-
.5
11
1,2 mm
1,2 mm
-
.6
11
1,3 mm
1,4 mm
1
.7
3
1,2 mm
33
1,2mm
1,2 mm
1
1.1.5 Scelta dell’impianto in funzione del sito
Gli esami radiografici più comuni illustrati in precedenza sono
sufficienti a fornire esaustive informazioni al clinico sull’anatomia
della cresta edentula e su questa base scegliere diametro e
lunghezza ideale dell’impianto. La scelta dell’impianto avviene
sovrapponendo alle radiografie speciali lucidi trasparenti con la
raffigurazione schematica delle diverse dimensioni implantari
(dima radiologica).
L’evoluzione delle superfici implantari e, l’aumento della reale
superficie di osteointegrazione degli impianti con superficie
ruvida, ha consentito di ridurre le dimensioni minime degli
impianti: se un tempo si cercava un ancoraggio bicorticale grazie
all’utilizzo di impianti lunghi, oggi, nella maggior parte delle
situazioni cliniche, si possono utilizzare impianti con lunghezza
di 10 o anche 8 mm, a patto che la posizione dell’impianto sia
ideale nelle tre dimensioni, e l’esistenza di corretti rapporti
intermascellari consenta un carico assiale e un rapporto ottimale
tra lunghezza dell’impianto e lunghezza della corona clinica
dell’elemento da sostituire.
A questo punto, terminata la pianificazione del trattamento, si
prosegue con la fase operativa che deve essere il più accurata
possibile in tutti i suoi passaggi per evitare qualunque tipo di
problematica legato a questa operazione.
Un intervento di chirurgia implantare prevede un’interruzione
della barriera mucosa, che mette in comunicazione i tessuti
profondi con l’ambiente orale, sempre colonizzato da diversi
tipi di germi. La penetrazione di quest’ultimi può esporre il
paziente a rischio di infezione locale o a distanza. Questo rischio
è maggiore in chirurgia implantare poiché gli impianti endossei,
seppur realizzati con materiali bioinerti e biocompatibili, si
comportano come corpi estranei interferendo con i normali
meccanismi di riparazione e guarigione. Per questo motivo, nella
maggior parte dei casi in chirurgia implantare viene utilizzato un
protocollo di preparazione dell’ambiente chirurgico sterile.
Per ridurre al minimo il rischio di infezione e per creare un
ambiente il più possibile sterile, anche all’interno del cavo orale,
il clinico può fare affidamento sul supporto farmacologico pre- e
postoperatorio.
La
maggior
parte
degli
Autori
consiglia
l’esecuzione di uno sciacquo con un colluttorio a base di
clorexidina
0,12%
o
0,2%
immediatamente
prima
dell’intervento di chirurgia implantare. Il controllo batterico da
parte della clorexidina è più efficace se l’antisepsi ha inizio 2/3
giorni prima dell’intervento. L’antisepsi locale con colluttori
disinfettanti viene effettuata anche nel periodo postoperatorio,
fino alla rimozione dei punti di sutura e se necessario anche nel
periodo successivo, con una schema che prevede 2 o 3 sciacqui
di un minuto al giorno.
Per quanto riguarda invece l’antibioticoprofilassi non esiste
attualmente un consenso per quanto riguarda l’opportunità di
eseguirla nei pazienti sani prima degli interventi implantari
(Esposito et al. 2004). In generale il ricorso alla profilassi
antibiotica è indicato nei pazienti a rischio di endocardite
batterica, nei pazienti immunodepressi, quando la chirurgia
interessa una sede infetta, nel caso di interventi invasivi e
prolungati e nel caso si faccia un esteso ricorso ad innesti di osso
autologo, biomateriali o barriere semipermeabili/membrane.
Nella maggior parte degli studi clinici riportati in letteratura,
anche per tecniche implantari di base, si fa tuttavia ricorso ad
una profilassi antibiotica preimplantare: in realtà il ricorso
indiscriminato alla profilassi antibiotica non sembra sempre
giustificato ed espone i pazienti al rischio di episodi allergici
gravi e allo sviluppo di resistenze nei confronti degli antibiotici
stessi.
1.1.6 Preparazione del sito chirurgico
Per il posizionamento bisogna calcolare le distanza tra impianto
e i denti naturali o, nel caso se ne posizionasse più di uno, tra
impianto e impianto.
Ogni metodica implantare prevede l’uso di una sequenza di
frese di diametro crescente per la preparazione atraumatica del
letto implantare. Oltre alla rimozione degli eventuali residui di
tessuto connettivale presenti a livello della cresta dopo lo
scollamento del lembo, mediante una curette chirurgica, le
principali fasi della sequenza chirurgica sono la regolarizzazione
della cresta, la perforazione del sito mediante frese, la verifica
del corretto asse e della corretta profondità dei siti implantari, la
maschiatura del sito (dove il sistema lo richiede), il sondaggio
finale, l’inserimento dell’impianto, la rimozione del dispositivo
di montaggio e l’inserimento della vite di chiusura.
La tecnica di preparazione del letto implantare deve essere
adattata alla qualità ossea locale. La diagnosi della qualità ossea
è essenzialmente clinica, anche se ad essa possono contribuire le
immagini radiografiche fornite dalla TAC, che permette di
valutare lo spessore della corticale e la mineralizzazione della
spongiosa. La qualità ossea viene comunque valutata durante la
preparazione del sito implantare, dopo la perforazione della
corticale, in base alla resistenza offerta al fresaggio da parte della
compagine ossea. Per l’osso di tipo 1 composto quasi
interamente da corticale e quindi molto denso (tipico della
regione interforaminale mandibolare), dove il rischio di
surriscaldamento e maggiore, devono essere utilizzate frese non
usurate, con elevato potere di taglio, applicate in modo
intermittente, rimuovendo costantemente l’osso fresato e
irrigando abbondantemente con soluzione fisiologica refrigerata.
Questi piccoli accorgimenti servono per far si che l’intervento sia
il più atraumatico possibile. A fronte di questi problemi però,
l’osso di tipo 1 consente di ottenere una elevata stabilità
primaria e da la possibilità di utilizzare impianti più corti senza
una sostanziale diminuzione della stabilità.
L’osso di tipo 2 presenta una spessa corticale e una midollare
ben mineralizzata e rappresenta la situazione ideale poiché la
preparazione del sito implantare è agevole, è ben vascolarizzato
ed è possibile ottenere una buona stabilità primaria. Nell’osso di
tipo 3 e 4, caratterizzati da una corticale sottile e da una
midollare rispettivamente densa (mascellare superiore e settori
latero-laterali della mandibola) e a bassa densità (settori lateroposteriori del mascellare superiore), la stabilità primaria degli
impianti rappresenta un obbiettivo più critico da raggiungere e
la percentuale di successo degli impianti per questo motivo è
inferiore (Jaffin e Berman, 1991)
1.1.7 Trattamento postchirurgico
Un
protocollo
farmacologico
postoperatorio
prevede
la
continuazione della profilassi antibiotica solo nel caso di
interventi più invasivi e prolungati, e l’assunzione di farmaci
analgesici (FANS) per i primi giorni dopo l’intervento.
Per il controllo della placca batterica il paziente prosegue per 1015 giorni gli sciacqui con un colluttorio a base di clorexidinadigluconato. Viene anche prescritta una dieta semisolida.
Dopo il periodo di guarigione viene eseguita la II fase chirurgica.
Con questo intervento, più rapido e meno traumatico del
primo, gli impianti vengono riesposti per essere poi connessi,
con le protesi definitive.
Durante questa fase, dopo 4-6 mesi, ogni impianto viene
valutato radiograficamente e clinicamente per la sua stabilità.
La maggior parte dei fallimenti (4%) avviene precocemente
(durante la II fase chirurgica) o dopo i primi mesi di funzione
masticatoria; i fallimenti tardivi (dopo la protesizzazione
definitiva) sono estremamente rari (1%). La piccola cavità ossea
che residua dopo il fallimento di un impianto, simile all'alveolo
vuoto dopo un'estrazione dentale, guarisce in circa due mesi e,
se necessario, può essere utilizzata per un nuovo impianto. Se
vengono posizionati più impianti, il fallimento di un singolo
elemento può non comportare, nella maggior parte dei casi,
l'insuccesso della protesi finale.
In
ogni
fase
adeguatamente
del
trattamento
istruito
e
il
informato
paziente
su
deve
ogni
essere
particolare
dell’intervento, soprattutto per le manovre di igiene e
comportamentali che dovrà avere a domicilio.
1.2 CRITERI DI SUCCESSO IN IMPLANTOLOGIA
L’implantologia moderna è ampiamente prevedibile; possiamo
affermare che si raggiunge il successo nel 96-97% dei casi 7.
E’ necessario però rispettare alcuni principi diagnosticoterapeutici.
La diagnosi deve essere effettuata accuratamente. Bisogna
valutare lo stato di salute generale, stabilendo, nell’anamnesi, se
sono presenti fattori di rischio che possano controindicare
all’intervento. Distinguiamo controindicazioni assolute e relative.
Le controindicazioni assolute sono rappresentate da malattie
metaboliche croniche, diabete scompensato, endocrinopatie,
cardiopatie scompensate, pazienti irradiati o in chemioterapia,
immunodeficienze
congenite
o
acquisite,
fattori
genetici,
malattie neurologiche, gravi disturbi psicologici e mentali, abuso
di alcool e droghe, osteoradionecrosi dei mascellari dopo
radioterapia.
Le controindicazioni relative invece sono legate alla presenza di
patologie
sistemiche
tenute
sotto
controllo
(malattie
cardiocircolatorie controllate, insufficienza respiratoria cronica,
epatopatie,…), storia di endocardite o di patologie vascolari
( per le quali è importante fare una corretta profilassi
antibiotica), disturbi della coagulazione (pazienti in terapia
anticoagulante trattati con eparina e antagonisti della vitamina K
o
in
terapia
antiaggregante
con
acido
acetilsalicilico),
ipertensione arteriosa, precedente radioterapia nel distretto
cervico-facciale, ansia e stress, forte tabagismo (più di 20
sigarette al giorno), malattia parodontale (il trattamento
implantare è possibile solo se dopo la terapia la malattia risulta
controllata), patologie della mucosa orale come lichen planus,
pemfigo, eritema multiforme, stomatite erpetica.
Per rispettare i protocolli dobbiamo porre molta attenzione alla
valutazione ossea per accertarci della quantità e qualità ossea e
delle eventuali limitazioni anatomiche e patologiche preesistenti.
L’intervento chirurgico deve essere effettuato nella condizioni di
massima sterilità possibile e la tecnica deve prevedere la minima
invasività e rispettare i protocolli consolidati dall’esperienza. I
materiali che vengono utilizzati devono rispondere agli standard
di
qualità,
sicurezza
e
garanzia
e
la
protesi
applicata
successivamente deve soddisfare i criteri di occlusione, estetica,
funzione e carico.
Al fine di ottenere una ottima riabilitazione e affinché il risultato
ottenuto si conservi il più a lungo possibile è importante la
compliance del paziente.
Egli deve
seguire con scrupolo tutte le indicazioni che gli
vengono date prima dell’intervento, nella fase preparatoria,
dopo l’intervento, nella fase di convalescenza e di guarigione dei
siti implantari, durante le fasi di preparazione della protesi e
dopo la consegna dei definitivi. Le due indicazioni principale a
cui deve attenersi senza riserve sono una corretta igiene orale
domiciliare (oltre alle sedute di igiene professionale prescritte) e
la rimozione di abitudine viziate quali, ad esempio, il fumo.
Molti studi hanno infatti dimostrato che l’abitudine al fumo
comporta delle alterazioni a livello del sistema immunitario
(alterazione dei polimorfonucleati e riduzione dell’AB sistemica),
un’
inibizione
dell’aggregazione
piastrinica,
un
maggior
riassorbimento e, di conseguenza a tutto ciò, una maggiore
predisposizione all’infiammazione perimplantare e quindi al
fallimento dell’impianto 7, 50.
Secondo uno studio di Bain C.2 basato sull’analisi di 223 impianti
in 78 pazienti la percentuale di fallimenti implantari nei fumatori
è del 38,46%, nei non fumatori è del 5,68%, mentre nei
fumatori con protocollo di astensione da 1 settimana prima
dell’intervento a 8 dopo è del 11,76%.
Uno studio simile è stata portato avanti da Swartz-Arad et al. 61
erano stati analizzati 959 impianti in 261 pazienti è la
percentuale di successo era stata del 98% in pazienti non
fumatori e del 96% in pazienti fumatori. Le complicanze invece
si erano manifestate nel 46% dei fumatori e nel 31% nei non
fumatori.
I risultati dei due lavori presi in considerazione sono discordanti,
ma una affermazione che possiamo affermare è che la
diminuzione dell’abitudine al fumo, è strettamente correlata al
calo delle complicanze a breve e a lungo termine.
Ultimo aspetto, ma di sicuro uno dei più importanti, riguarda le
visite
periodiche
di
controllo:
il
paziente
deve
essere
correttamente informato sull’importanza dei controlli periodici
ai quali deve obbligatoriamente sottoporsi e avvisato delle
possibili complicanze che si possono manifestare, le quali
possono accentuarsi se non diagnosticate per tempo. Questo sia
per responsabilizzare il paziente sulla sua salute orale, sia per
proteggere l’operatore da eventuali contenziosi nel caso del
fallimento della terapia legata a una sua negligenza: in questo
caso spetterà al paziente l’onere della prova ma il clinico avrà
dalla sua il fatto che il paziente non si sia presentato ai controlli
che egli stesso gli aveva raccomandato.
Ad ogni controllo il professionista dovrà valutare alcuni
parametri indicativi della buona riuscita dell’intervento come:
 immobilità dell’impianto;
 all’esame rx assenza di radiotrasparenza intorno all’impianto;
 nessun movimento delle componenti secondarie;
 assenza di infiammazione all’interfaccia tra protesi e tessuti
molli;
 assenza di interferenze occlusali;
Albrektsson et al. nel 1986 avevano descritto le percentuali di
successo a 1, 5 e a 10 anni:
 dopo il primo anno di carico perdita ossea 0,2 mm/anno;
 successo dell’85% a 5 anni e del 80% a 10 anni minimo.
Oggi queste percentuali sono state ampiamente riviste:

94,7% a 10 anni (Leonhardt, Gröndahl, Bergström,
Lekholm COIR 2002);

95,4% a 5 anni, 92,8% a 10 anni (Pjetursson, Tan, Lang,
Review su 560 art., COIR 2004).
1.3 FALLIMENTI E COMPLICANZE IN IMPLANTOLOGIA
Per insuccesso implantare si intende un riassorbimento osseo
perimplantare con sostituzione di tessuto di granulazione e
possibili
fatti
infettivi
osteomucosi.
Le
cause
di
questo
riassorbimento possono essere le più svariate:
 cause di ordine generale: malattie preesistenti non riconosciute
o non tenute nel debito conto: diabete, nefropatie scompensate,
malattie dismetaboliche importanti, menopausa con alterazioni
del metabolismo del calcio e potassio, vari tipi di anemie e in
genere tutte le malattie che controindicano gli interventi chirurgici
di elezione;
 malattie
intercorrenti
locali:
infezioni
orofaringee,
parodontopatie e granulomi dei denti residui con interessamento
del perimplanto; traumi diretti sugli impianti o sulla protesi
sovraimplantare;
gravi
traumi
craniofacciali
anche
senza
interessamento degli impianti;
 cause di ordine locale: errata scelta dell’impianto in rapporto
alla situazione anatomica locale; errato inserimento dell’impianto,
medicazione intra e postoperatoria inadeguata; carico precoce in
funzione della densità ossea, protesi provvisoria o definitiva non
corretta dal punto di vista occlusale o marginale; insufficiente
igiene orale in mancanza di controlli periodici.
Le cause più frequenti di insuccesso, sono da imputare a
due
cause: all’operatore e al paziente e in entrambi i casi possono
essere precoci o tardive.
Un’errata tecnica chirurgica oppure un errato tempo di carico
anticipato rispetto al tipo di osso sono gli errori più frequenti in
cui può incorrere il chirurgo.
La qualità e la quantità di osso del mascellare da trattare sono due
fattori
legati
al
paziente
dai
quali
dipende
il
successo
dell’impianto.
Gli altri fattori, anche di ordine generale, sono più rari e a volte
non chiaramente dimostrabili in rapporto con l’insuccesso;
certamente gli errori tecnici operatori, l’uso di materiali
contenenti impurità, la scelta inadeguata dell’impianto, lo stato di
decalcificazione dell’osso o uno stato di decalcificazione generale
del
soggetto
possono
influire
negativamente
sulla
durata
dell’impianto ma questi fattori abitualmente hanno una frequenza
minore come causa di insuccesso.
Deiscenza osteo-mucosa per diametro dell’impianto
eccessivo rispetto all’ampiezza ossea
Assenza di congruità della protesi e retrazione della
corticale vestibolare
1.3.1 Cause dovute all’operatore
Errori tecnici effettuati nella fase chirurgica, possono portare
all’assenza di stabilità primaria dell’impianto per una eccessiva
preparazione del sito rispetto o al diametro dell’impianto o alla
densità ossea; sarà quindi necessario rimuovere l’impianto per
sostituirlo con un altro di
diametro più largo, cercando di
sfruttare al massimo lo spessore della cresta, ricordando che
l’impianto deve essere circondato da almeno 1 mm di osso.
Qualora non fosse possibile ottenere una buona stabilità primaria
con un impianto a diametro maggiore, nella maggior parte dei
casi bisogna lasciar guarire l’alveolo chirurgico ed aspettare 2-3
mesi per intervenire nuovamente.
Gli errori tecnici durante l’esecuzione dell’intervento possono
purtroppo coinvolgere importanti strutture anatomiche presenti in
prossimità del cavo orale: tra le più importanti fosse nasali, seni
mascellari e canale mandibolare.
Queste lesioni si possono verificare si durante l’intervento per un
errore tecnico o possono verificarsi in un secondo momento in
seguito ad un insuccesso implantare.
Le Rx pre e post operatoria dimostrano la mancanza
di perizia nell’inserimento dei due impianti
L’interessamento di alcune formazioni anatomiche, quali il nervo
alveolare inferiore, il canale palatino e zone di addensamento
osseo di n.d.d. in sede intraoperatoria non dovrebbe mai
verificarsi;
l’accuratezza
degli
esami
radiografici
oggi
a
disposizione consente di determinare correttamente la lunghezza
ed il diametro dell’impianto da inserire, Il ricorso a TAC con
Dentascan riduce al minimo la possibilità di incorrere in un errore
di valutazione dello spazio disponibile. Si possono comunque
commettere
errori
tecnici
che,
indipendentemente
dalla
valutazione più o meno esatta della quantità d’osso disponibile,
possono portare all’interessamento delle suddette formazioni: per
prevenire queste lesioni iatrogene è bene adottare le tecniche
giuste, suggerite dall’esperienza dell’operatore, rimanendo alla
distanza di almeno 2 mm da una eventuale zona di pericolo. Vi
sono dei segni che permettono di stabilire immediatamente se la
mucosa dei seni mascellari o delle fosse nasali è stata perforata
durante la preparazione del sito.
Nelle fosse nasali il sintomo è una dolenza locale, in quanto la
corticale non è raggiunta dall’anestetico. La perforazione della
corticale non è un evento avverso quanto la perforazione della
mucosa: in questo caso l’impianto è a rischio di fallimento, in
quanto la contaminazione del sito è pressoché certa. In ogni caso
è prudente inserire l’impianto al di sotto della corticale.
Per i seni mascellari, va fatto un discorso a parte. La lesione della
mucosa difficilmente comporta una patologia, sia nell’immediato
che in futuro. Branemark et al, hanno dimostrato che gli impianti
possono essere inseriti all’interno del seno mascellare senza
conseguenze se avviene l’integrazione tra gli impianti e l’osso al di
sotto del seno. Di contro la percentuale di fallimento era
abbastanza elevata (30% a 5 e 10 aa)8 . L’interessamento della
sola corticale, a membrana integra consente, inoltre, di sfruttare le
capacità rigenerative della membrana di Schneider per aumentare
la quota di osso disponibile. La casistica, in letteratura, su questo
argomento è notevole, con un’alta percentuale di successo a
medio e lungo termine.
Sono descritti in letteratura casi in cui la perforazione della
mucosa e l’inserimento dell’impianto nel seno mascellare hanno
determinato la comparsa di sinusiti che, però, guariscono una
volta rimosso l’impianto 63,64.
Nei casi in cui la perforazione avviene in modo molto traumatico
e
l’infezione
locale
viene
trascurata,
oltre
alla
perdita
dell’impianto può residuare una comunicazione oro-antrale,
verificabile facilmente con la manovra di Valsalva.
Interessamento delle fosse nasali e dei seni mascellari si possono
avere anche a distanza di tempo dall’intervento implantologico
come
complicanze
di
un
insuccesso.
Si
verificano
quasi
esclusivamente in insuccessi di impianti iuxtaossei i quali, in
presenza di perimplantite determinano una distruzione della
parete ossea del pavimento del seno mascellare.
Ma le complicanze che più facilmente rivestono importanza
medico-legale sono quelle che riguardano le lesioni del nervo
mandibolare. Il canale mandibolare è un sottile tubicino di
corticale che contiene il nervo alveolare inferiore e le relative
arterie e vene il quale fuoriesce poi come nervo mentoniero a
livello del forame omonimo e continua nella regione incisiva con
rami per gli incisivi e i canini.
Per il chirurgo, delle tre formazioni presenti nel canale
mandibolare, la più importante è il nervo alveolare inferiore,
ramo sensitivo della terza branca del trigemino; l’arteria e le vene
satelliti, che di solito vengono lese contemporaneamente al
nervo, non danno sintomi, se non un imponente sanguinamento.
Il nervo alveolare è costituito da piccoli fasci di fibre nervose
contornati da un sottile strato di connettivo il quale conferisce al
fascio nervoso un certo grado di elasticità che permette uno
stiramento ed un allungamento che entro certi limiti non procura
danni.
Le lesioni che si possono produrre durante un intervento di
chirurgia implantare possono essere dovute all’azione delle frese,
a compressione o stiramenti del nervo dovuti sia all’impianto che
a frammenti ossei spostati da quest’ultimo oppure ad emorragie.
Le lesioni provocate dalle frese sono molto gravi in quanto, se il
nervo viene sezionato, difficilmente avremo una restitutio ad
integrum
o
comunque, in caso
di
questa
guarigione,
avverrà
in
tempi molto lunghi.
La sezione del nervo viene subito individuata dall’operatore
perché vengono contemporaneamente lese l’arteria e la vena
alveolare, con una immediata emorragia nel cavo orale spesso di
tipo arterioso.
Quest’evenienza deve essere assolutamente evitata prendendo
misure precise sulle radiografie endorali e sulla Dentascan.
Sicuramente l’uso del Dentascan ci permette non solo di avere una
perfetta riproduzione della morfologia mandibolare, ma anche
una precisa misurazione millimetrica.
La tecnica giusta per evitare questo tipo di complicanze è quella di
preparare il sito con molta cautela, soprattutto quando l’altezza
ossea è prossima alla lunghezza dell’impianto. Se l’impianto o la
fresa giungono in vicinanza o in contatto col canale alveolare e
non è stata praticata anestesia tronculare, il paziente avvertirà un
dolore, di solito proporzionale alla vicinanza con il canale stesso.
Questo perché la diffusione degli stimoli algogeni attraverso l’osso
avviene attraverso forze idrostatiche.
Se, però, il paziente avverte una scossa irradiata al mento vuol
dire che il nervo è stato leso. A conferma di ciò, il perdurare
dell’anestesia all’emilabio corrispondente, anche molto dopo che
è cessato l’effetto dell’anestetico.
L’inserzione lenta della fresa è fondamentale sia perché consente
all’operatore di mantenere la direzione esatta dell’asse di
preparazione, sia perché, nel caso abbastanza frequente che il
nervo venga stirato, compresso o spostato lateralmente, il danno
sarà minore in quanto l’elasticità propria del nervo e la
protezione
conferitagli
dall’epinevrio
gli
consentiranno
di
spostarsi, entro certo limiti, nel canale mandibolare, e di sfuggire
all’azione lesiva delle frese.
Tre sono sostanzialmente i problemi medico-legali che si
propongono in questi casi:
1) inquadramento nosografico dell' evento lesivo, indispensabile
agli effetti diagnostici e prognostici;
2) accertamento della responsabilità del sanitario, sotto il profilo
penale e civile;
3) valutazione del danno alla persona e della conseguente
inabilità temporanea e permanente.
Per quanto riguarda il primo punto, le difficoltà sono notevoli,
trattandosi di lesione di un nervo esclusivamente sensitivo e
quindi
comportante
soggettiva.
una
sintomatologia
sostanzialmente
Quasi sempre si renderà necessaria più di una visita, per
controllare l'evoluzione della sintomatologia nel tempo.
È possibile, in alcuni casi, una determinazione oggettiva della
conduzione nervosa mediante la metodica dei potenziali evocati.
Quanto al punto secondo, si dovrà tener conto dei consueti e ben
noti elementi: consenso informato (il paziente avvertito di tale
possibilità
è più propenso ad accettare senza allarmismi
l'evenienza, a non esagerarne le conseguenze e ad attenderne la
risoluzione), finalità francamente terapeutica o meno, corretta
valutazione del rapporto tra rischio e beneficio, indagine sull'
operato del sanitario sotto il profilo della diligenza, prudenza e
perizia. La valutazione della finalità terapeutica e del rapporto tra
rischio e beneficio terrà conto anzitutto della natura e gravità
della condizione patologica preesistente e della possibilità di
terapie alternative.
Il giudizio non potrà non essere in linea di principio più severo
nei casi di implantoprotesi e di chirurgia avente finalità
esclusivamente o prevalentemente estetica.
Quanto al terzo punto, riguardante la valutazione del danno alla
persona e della conseguente inabilità temporanea e permanente,
se per la prima non sembrano prospettarsi difficoltà degne di
nota, trattandosi, il più delle volte di giudizio fondato sull'esame
della storia clinica e dei relativi documenti, difficoltà notevoli si
prospettano per quanto riguarda l'inabilità permanente.
Se nei casi di semplice ipoestesia, più o meno spiccata,
accompagnata al massimo da sensazioni di formicolio, si può
ritenere che tale menomazione sia ininfluente sulla capacità
lavorativa generica, diverso è il caso di vera e propria
sintomatologia nevralgica, sia continua che accessuale.
In tali casi è da ammettersi quanto meno una diminuzione della
concentrazione richiesta dal lavoro ed una diminuzione della
resistenza alla fatica.
Luvoni e Bernardi, a proposito delle menomazioni trigeminali,
propongono i seguenti dati nell' ambito della responsabilità civile:
«Anestesia completa delle tre branche associata a crisi nevralgiche:
8%»; «Anestesia di una branca: 3%» 49.
In considerazione dell'impedimento al normale svolgimento di
fondamentali funzioni quali la parola e la masticazione, talvolta
associato a sintomatologia dolorosa di tipo nevralgico, riteniamo
potersi affermare che le menomazioni a carico del nervo alveolare
inferiore determinino a seconda della gravità, che è in funzione
eminentemente della componente dolorosa, una diminuzione
della generica capacità lavorativa dell' ordine del 2-5%.
Le lesioni provocate da frammenti ossei o da emorragie possono
provocare nel soggetto:
 parestesie cioè dolore, torpore, formicolio, sensazioni di
puntura caldo -freddo, bruciori nella regione del mento. In genere
si ha un ritorno alla normalità in un periodo di 4-8 settimane
durante le quali si nota una riduzione progressiva dell’area di
parestesia; in alcuni casi, a seconda dell’intensità e del tipo di
compressione, si può avere un ripristino della normalità anche
dopo un anno, o possono rimanere piccole zone di parestesia o
anestesia;
 anestesia e insensibilità della zona del mentoniero. Se non
provocata da sezione del nervo segue lo stesso iter delle
parestesie;
 iperestesia ed iperalgesia sempre nel territorio di innervazione
del mentoniero che consistono in aumentata sensibilità comune e
dolorifica, che possono essere mal tollerate dal paziente ma
sempre reversibili;
 ipoestesia ed ipoalgesia cioè diminuzione della sensibilità
normale e dolorifica che possono scomparire completamente o
essere residuo di una parestesia.
L’anestesia del mento può risolversi dopo alcuni mesi e raramente
è permanente; inoltre più del 50% dei casi le lesioni di lieve
entità del nervo alveolare guariscono spontaneamente in massimo
80 giorni. Nel caso il danno sia più importante, dopo 5/6 mesi il
danno della parestesia è ridotto dell’80 - 90% e nella massima
parte dei casi scompare completamente. Solo in un limitato
numero di pazienti possono permanere tracce di parestesia, del
tutto sopportabili.
In rari casi il danno può essere duraturo e noioso e in genere sono
questi i casi in cui il paziente può pretendere dal medico un
risarcimento per un danno che di solito egli stesso tende a
esagerare.
Quanto sia importante la posizione dell’impianto per il successo
della terapia implantoprotesica e per quali motivi è stato illustrato
dal P. Palacci nel suo compendio.
Da Palacci P. Implantoprotesi ed estetica2001, Quintessence ed.
1.3.2 Fase postchirurgica
Una volta inseriti gli impianti sarà fondamentale che il paziente
venga istruito e motivato adeguatamente sulle manovre di igiene
orale domiciliare che dovrà effettuare per permettere una corretta
guarigione del sito implantare.
Il mantenimento di una corretta igiene orale è senza dubbio
legato anche alla morfologia della protesi: il colletto della corona
è opportuno che sia metallico per circa 1mm in modo da essere
facilmente detergibile da parte del paziente con i normali presidi
domiciliari. A livello dei molari e dei premolari si dovrà
riprodurre una forma degli elementi protesici corretta e più simile
possibile a quella naturale per facilitare sia l’autodetersione sia lo
spazzolamento, ricreando un corretto punto di contato per
favorire la ripresa della papilla interdentale secondo i principi di
Turnow. La predicibilità di ogni terapia odontoiatrica aumenta
quando il mantenimento è eccellente. Il complesso implantoprotesico ha bisogno di un controllo periodico costante, in cui
debbono essere valutate le varie componenti. Informare, a volte,
non basta, poiché, dall’esperienza quotidiana, si evince che molti
pazienti sottovalutano questa problematica. È bene, quindi,
predisporre, di concerto con i collaboratori Igienisti una serie di
recall personalizzati, invitando i pazienti in modo mirato e
documentabile in caso di contenzioso. Questo perché alcuni
pazienti, per incuria, per mancanza di tempo, per paura, si
presentano solo quando si presentano sintomi. In alcuni casi le
attese portano al fallimento della terapia.
1.3.3 La perimplantite
Una delle complicanze più frequenti che si possono manifestare in
implantologia è la perimplantite ovvero un processo flogistico a
carico dei tessuti molli e duri dell’unità perimplantare che
determina
rapidamente
la
perdita
dell’osteointegrazione
e
progressivamente del supporto osseo, associata a sanguinamento
e spesso a suppurazione.
La perimplantite può essere definita precoce quando si manifesta
prima del carico protesico o addirittura dopo pochi giorni
dall’intervento; l’osteointegrazione non avviene per trauma
chirurgico eccessivo e surriscaldamento dell’osso, tecnica chirurgica
errata, ridotta capacità di guarigione dei tessuti, infezione precoce
dei tessuti perimplantari, mancata stabilità primaria. Viene invece
definita tardiva se compare dopo il carico protesico; le cause
determinanti della comparsa tardiva dell’infiammazione sono l’
inadeguato controllo di placca e/o il trauma occlusale.
Il fallimento tardivo è dovuto alla perdita di osteointegrazione
che riconosce un’eziopatogenesi traumatica o infettiva.
La perimplantite batterica trova la sua origine in un iniziale e
protratto inadeguato controllo di placca mentre quella traumatica
è inizialmente asettica e l’insorgenza della componente batterica è
secondaria.
I microrganismi che sono stati isolati nei casi di infiammazione
perimplantare sono diversi a seconda della natura traumatica o
batterica della stessa: nella prima le colonie individuate sono
costituite principalmente da streptococchi, compatibili con un
parodonto
sano
(Streptococcus
Sanguis,
Streptococcus
Morbillorum, Streptococcus Epidermidis) mentre nella seconda si
trova una microflora costituita per il 42% da spirochete,
fusobatteri e bastoncelli Gram negativi (Peptostreptococcus
Nigrescens,
Peptostreptococcus
Micros,
Fusobacterium
spp,
Porphiromonas Gingivalis, Prevotella Intermedia).
I microrganismi patogeni possono essere trasmessi dai denti agli
impianti:

con il flusso salivare;

con le setole degli spazzolini;

con le sonde parodontali durante l’ispezione;

con gli aghi delle siringhe da anestetico.
(Quirynen et al.1996)
Le
manifestazioni
patologiche
che
coinvolgono
i
tessuti
perimplantari, muco-gengivali ed ossei, hanno un’eziopatogenesi
strettamente correlata alla morfostruttura anatomica ed istologica
specifica degli stessi tessuti coinvolti nell’integrazione, alla
morfologia superficiale della fixture ed alla precisione di
accoppiamento dei componenti implantari. I tessuti molli
perimplantari hanno una ridotta capacità di difesa contro le
irritazioni
esogene
per
la
minore
resistenza
meccanica
dell’apparato di attacco. Inoltre i meccanismi di difesa dei tessuti
gengivali sono più efficaci di quelli delle mucose perimplantari nel
prevenire la propagazione apicale della flora batterica (Lindhe J.
et al.)34.
Tutte queste condizioni peculiari del sito implantare fanno sì che il
principale fattore eziologico della malattia perimplantare sia
quello infettivo; ricerche microbiologiche e cliniche sperimentali
hanno dimostrato che un efficace controllo di placca batterica
riduce la possibilità di malattia perimplantare così come per la
malattia parodontale 32,34.
La resistenza agli insulti traumatici e infettivi nei tessuti
perimplantari risente di un equilibrio patogeni-ospite
meno
favorevole rispetto ai denti naturali dovuto principalmente a
differenze di ordine anatomico:

assenza
di
vascolarizzazione
legamento
parodontale
e
relativa

assenza di cemento radicolare sulla superficie implantare

attacco connettivale con meno fibroblasti e con fibre senza
inserzioni sulla superficie implantare ma parallele ad essa.
Clinicamente si ha una minore resistenza al sondaggio nel solco
perimplantare sano rispetto al sondaggio nei denti naturali; in
studi sul modello animale in seguito ad un accumulo di placca per
un periodo da tre settimane a tre mesi si hanno lesioni
infiammatorie che hanno un’evoluzione ed una progressione in
profondità nei siti implantari contrariamente ai denti naturali
dove
l’infiammazione
si
limita
ai
tessuti
marginali73-78.
Gli impianti con superficie liscia presentano una più alta incidenza
di mancata osteointegrazione precoce, mentre quelli a superficie
ruvida sono associati a maggior percentuale di complicanze
tardive da infezione batterica.
La malattia perimplantare evolve attraverso tre stadi:

la mucosite perimplantare

la perimplantite ortograda

la perimplantite retrograda
La diagnosi delle mucositi e delle perimplantiti si avvale di un
corredo sintomatologico con segni e sintomi d’infiammazione che
va dal coinvolgimento dei tessuti molli perimplantari nella
mucosite fino ad estendersi ai tessuti più profondi nelle
perimplantiti. I principali parametri clinico-diagnostici per la
valutazione dello stato di salute dei tessuti perimplantari sono:
sanguinamento,
essudazione
e
suppurazione
ipertrofia
e
tumefazione dei tessuti molli, sondaggio perimplantare, mobilità
implantare,
osteolisi
perimplantare
all’esame
radiologico.
Nella mucosite si ha flogosi dei tessuti molli perimplantari con
tumefazione, edema, sanguinamento al sondaggio e/o spontaneo,
dolore alla palpazione ed alla masticazione con presenza di
essudato sieroematico o sieropurulento negli stadi più avanzati. La
mucosite isolata si manifesta senza alterazioni dei tessuti coinvolti
nell’osteointegrazione
quindi
senza
mobilità
implantare
e
lasciando la possibilità di una completa restitutio ad integrum .
Nel
caso
di
un’estensione
in
profondità
del
processo
infiammatorio alla mucosite si aggiunge il quadro vero e proprio
della perimplantite ortograda.
Per la diagnosi di perimplantite sono da valutare i seguenti
parametri:
•dolore localizzato spontaneo e/o alla percussione;
•indice di sanguinamento 2 (scala 0-3);
• PAL > 3 mm valutata nella sua evoluzione avendo come repere
non il margine libero della gengiva ma il margine della
connessione impianto-abutment;
● incremento
●
di fluido sulculare;
formazione di recessione indicante un processo distruttivo dei
tessuti molli e duri;
• presenza di pseudotasca;
• sanguinamento al sondaggio;
• presenza di suppurazione, indice tardivo;
• mobilità implantare, che indica il fallimento dell’impianto, non
più trattabile;
• esame radiografico con il quale prevalentemente si pone la
diagnosi individuando la perdita dell’osteointegrazione.
Immagini di osteolisi verticali si hanno per un’eziopatogenesi
traumatica, osteolisi “a scodella” per un’eziologia batterica.
La perimplantite retrograda è stata recentemente introdotta come
nuova entità nosologica definendola come una lesione di osteolisi
perimplantare localizzata al terzo apicale della vite implantare
caratterizzata da una insorgenza entro 30 giorni dall’inserimento
dell’impianto con dolore locale alla palpazione e spontaneo,
gonfiore e presenza di fistola. La causa della perimplantite
retrograda sembra riconducibile alla presenza di tessuti cicatriziali
e/o granulomatosi in corrispondenza del sito implantare dovuti a
precedenti episodi di osteite di origine endodontica.
La terapia della perimplantite traumatica consiste nella verifica
dell’occlusione e nella rimozione di eventuali precontatti e
interferenze e nel trattamento dei tessuti duri e molli, con
eventuale rimozione dell’impianto. La terapia della perimplantite
batterica invece prevede lo scaling con curettes del sito implantare
associato ad antibiotico-terapia (sistemica o locale) e sciacqui con
clorexidina per la disinfezione del sito. A ciò seguono poi
interventi di muco plastica, implanto-plastica e terapia resettiva,
con espianto e reimpianto immediato o differito della vite.
I principali tipo di trattamento sono due, ovvero rigenerativo
(prevede l’eliminazione, parziale o totale, del difetto osseo
seguito da rigenerazione ossea) e resettivo e talvolta possono
anche essere associati.
Recenti studi1 hanno dimostrato che il trattamento resettivo e/o
rigenerativo associati all’uso di laser ha una percentuale di
successo maggiore rispetto al trattamento convenzionale; nei siti
trattati in modo convenzionale rispetto a quelli decontaminati
con laser la percentuale di recidiva è più alta. Il laser infatti, come
descritto nello studio di Kreisler M. et al.31 riduce i batteri presenti
nel sito contaminato favorendo i processi di guarigione e
diminuendone i tempi, riducendo le complicanze e le recidive.
1.3.4 Esame clinico dell’impianto
L’impianto francamente fallito si presenterà mobile, dolente con
la mucosa circostante arrossata ed edematosa, con impotenza
masticatoria. A questo punto la diagnosi di insuccesso è
chiaramente
clinica
e
l’esame
radiologico
potrà
chiarirne
l’estensione e la gravità.
L’esame clinico al controllo periodico di un impianto in buona
salute deve dimostrare:
 stabilità dell’impianto;
 suono alto e squillante alla percussione;
 mancanza di dolore sia alla percussione dell’impianto sia del
processo alveolare nel quale l’impianto è contenuto;
 assenza
di
arrossamento
e
di
edema
della
mucosa
perimplantare;
 l’esame dell’occlusione eseguito sia con la carta che con le cere
articolari, ancora meglio se eseguito con Myomonitor, dovrà
dimostrare l’assenza di precontatti o di occlusioni traumatiche.
 l’esame radiografico, sempre eseguito con endorali che danno
una maggiore chiarezza dei dettagli perimplantari, non deve
dimostrare osteolisi irregolari e ampie intorno all’impianto.
 al Periotest deve esserci un valore di PTV ( Perio Test Value) tra
0 e -8.
I primi segni clinici di sofferenza perimplantare possono anche
essere asintomatici. Il paziente potrà riferire un disagio non ben
localizzato; in questa fase non ci sono ancora i segni infiammatori
perimplantari ma spesso all’esame radiografico si troverà un
cratere
iniziale
perimplantare
e,
all’esame
occlusale,
un
precontatto tra l’elemento su impianto e l’antagonista. In questo
caso spesso basterà la correzione del precontatto occlusale per
ottenere la remissione della sintomatologia ed evitare che il
riassorbimento osseo si estenda oltre.
Se il processo degenerativo osseo avanza e l’infiammazione
mucosa diviene cronica occorrerà eseguire un lembo parodontale,
con asportazione del tessuto di granulazione ed eventuale terapia
rigenerativa del difetto.
Dobbiamo tener presente e soprattutto informare il paziente, che
quanto più a lungo si mantiene un impianto sofferente in bocca,
tanto maggiore sarà la distruzione dell’osso e quindi sarà più
difficile la sostituzione con un altro tipo di impianto. Da questo
punto di vista il paziente va informato al momento della visita in
modo che in ogni occasione di eventuali segni di insuccesso possa
aderire immediatamente e senza indugi alle terapie necessarie.
Scala di qualità degli impianti
Gruppo I
Normale
Gruppo II
Soddisfacente
Gruppo III
Compromesso
Gruppo IV
fallimento
clinico
Gruppo V
fallimento
assoluto
Assenza di dolore. Impianto fisso.
Riassorbimento crestale <1,5 mm dalla
scopertura. Riassorbimento crestale <1
mm nei 3 anni successivi. Assenza di
essudato.
Assenza
si
rarefazione
rxgrafica, BI tra 0 e 1.
Assenza di dolore. Impianto fisso.
Riassorbimento crestale tra 1,5 e 3 mm.
Profondità di sondaggio
>4 mm.
Presenza transitoria di essudato.
Assenza di rarefazione rxgrafica, BI tra
0 e 1.
Assenza di dolore. Impianto fisso in
mancanza di carico. Mobilità entro 0,5
mm al carico protesico. Nessun
movimento verticale.
Riassorbimento crestale > di 3 mm nel
1° anno, >1 mm negli anni successivi.
Profondità di sondaggio
>5 mm.
Presenza di essudato. Rarefazione
rxgrafica nella porzione coronale, BI tra
1 e 3.
Dolore alla funzione, palpazione e
percussione. Mobilità orizzontale e
verticale.Riassorbimento
osseo
progressivo incontrollabile. Perdita
ossea superiore a ½ dell’altezza
dell’impianto. Pus.
Rarefazione ossea
generalizzata.
Impianto rimosso
Da Misch C.E.: Implant success or failure: clinical assestment in implant
dentistry. In Misch C.E. editor: contemporary Implant dentistry, pp 29-42, st
Louis, 1993
1.3.5 Fase protesica
La fase protesica segue quella chirurgica a distanza di un tempo
variabile legato al momento in cui si può protesizzare l’impianto.
Questo varia a seconda della densità ossea: più l’osso è denso e
prima sarà possibile applicare il carico.
Sono diverse le complicanze che possono verificarsi in questo
momento del piano di trattamento. Durante il posizionamento
della componente secondaria potrebbe verificarsi una rotazione
dell'impianto. Qualora si dovesse verificare tale evenienza e
l'impianto
risulti
stabile
e
non
dolente
sarà
necessario
riposizionare nuovamente la vite di guarigione senza stringere in
maniera eccessiva e valutare dopo 2-3 mesi.
Dopo l’applicazione della protesi il paziente potrebbe lamentare
la comparsa di dolore e in questo caso la prima manovra da
effettuare è quella della rimozione della protesi stessa per
verificare sia radiograficamente che clinicamente la stabilità
dell'impianto e l'eventuale grado di perimplantite.
In
tempi
più
o
meno
lunghi
possono
verificarsi
altre
problematiche, meno frequenti, come ad esempio la frattura
dell’impianto, che può avere principalmente 3 cause:
 disegno e materiale della fixture non idoneo all’elemento
dentale sostituito;
 adattamento non passivo della struttura protesica;
 inadeguato carico biomeccanico per eccessiva angolazione
dell’impianto all’atto chirurgico.
La frattura dell'impianto viene diagnosticata con un esame
radiografico; qualora un frammento dovesse essere localizzato in
prossimità di strutture anatomiche quali canale mandibolare,
forame mentoniero, seno mascellare sarà necessario effettuare una
tomografia computerizzata per valutare in modo opportuno i
rapporti tra l’impianto e queste strutture.
Il trattamento consiste nell'asportazione di entrambi i frammenti
ed il successivo posizionamento di un innesto osseo qualora il sito
debba essere riutilizzato per un nuovo impianto.
Sempre per l’eccessiva angolazione dell’impianto rispetto al carico
protesico si può verificare l’allentamento o la frattura della vite di
connessione protesi-impianto; rimuovendo la protesi è possibile
serrare di nuovo la vite di connessione con un cacciavite idoneo o
con una chiave dinamometrica con forza di serraggio a 35-40
Ncm. Nel caso di frattura, bisogna invece rimuovere, in modo
molto accurato, al fine di non danneggiare la parte filettata
dell'impianto, i due frammenti della vite, per poi sostituirla con
una nuova.
Ultima complicanza, ma forse la più frequente, legata alla protesi
è la decementazione della stessa; qualora si dovesse verificare
molto
frequentemente
è
opportuno
ricontrollare
possibili
interferenze occlusali.
Quindi il trattamento implantoprotesico può presentare delle
problematiche che vanno, prima di tutto, prevenute, ricorrendo
ad adeguati esami preliminari (tomografia computerizzata con
Dentascan), poi trattate in caso intervengano durante o subito
dopo la fase chirurgica, oppure nel corso della protesizzazione o
anche a distanza di anni dalla fine della terapia.
La raccolta di una completa documentazione del caso, qualora
non risulti presente un danno biologico permanente ed un
relativo nesso di causa, costituisce per il professionista una valida
dimostrazione della sua competenza in materia.
Inoltre risulterà necessario l’evidenziare nel consenso informato la
parte riguardante l’importanza dei richiami al fine di educare il
paziente alla salvaguardia della struttura implantoprotesica.
Quindi bisogna rinforzare la motivazione del paziente all’igiene
orale domiciliare, istruendolo all’uso di tutti i presidi necessari.
Nella fase di richiamo, sarà invece opportuno:
 controllare il grado di igiene del paziente;
 effettuare controlli radiografici;
 smontare il manufatto protesico periodicamente, qualora si
tratti di una protesi di tipo avvitato:
 controllare la fissità del complesso implanto-protesico.
II. CONTENZIOSO MEDICO-PAZIENTE: ASPETTI CLINICI E
MEDICO LEGALI
1. LA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE
Con il termine responsabilità, inteso in senso generale, si intende
il dover rispondere per la violazione di una qualsiasi norma di
condotta, subendone le relative e conseguenti sanzioni
La
responsabilità
professionale
concerne
una
33.
condotta
imprudente, negligente o attuata con imperizia, nell'esecuzione
di atti e prestazioni che fanno parte di una professione. Non
coinvolge,
quindi,
solo
l'ambito
sanitario
ma
qualsiasi
prestazione a carattere professionale.
La responsabilità professionale può essere vista sotto due ottiche
opposte: la prima, caratterizzata da un accezione negativa,
tende a vedere la responsabilità come l’attitudine a rispondere
del proprio operato professionale, in caso di errore od
omissione, davanti ad un giudicante (il danno viene valutato a
posteriori da parte di un soggetto esterno); la seconda, positiva,
vede la responsabilità come l’impegno a realizzare una condotta
professionale corretta nell’interesse di salute dell’assistito (la
valutazione avviene prima e durante la prestazione d’opera da
parte dello stesso soggetto agente).
L’accezione negativa emerge quando ormai il danno è avvenuto
(se opportunamente considerata, ha valore preventivo rispetto
ad ulteriori danni consimili) mentre quella positiva consente di
evitare danni alla persona assistita.
La responsabilità professionale ha un fondamento giuridico
penale e civile.
1.1 La responsabilità penale
In ambito penale il professionista della salute può essere
chiamato a rispondere di:
 lesione personale dolosa (art. 582 C.P.): intervento del
professionista, intrinsecamente lesivo della persona assistita, ad
esito fausto, ma posto in essere senza il consenso della persona
quando si consapevole;
 omicidio preterintenzionale (art. 584 C.P.): intervento
effettuato senza il consenso della persona assistita e che ha
causato il decesso della stessa a prescindere da errori del
professionista che non è intervenuto:
 lesione personale colposa (art. 590 C.P.): errore od omissione
colposo connesso a intervento del professionista che abbia
causato lesioni personali della persona assistita. È perseguibile a
querela: il paziente presenta una querela a supporto di
un’istanza di risarcimento perché ha subito un danno oppure
crede che il professionista non abbia svolto correttamente il suo
lavoro.
 omicidio colposo (art. 589 C.P.): errore (od omissione)
colposo connesso all’intervento del professionista che abbia
causato il decesso della persona assistita. Riguarda persone con
patologie pre-esistenti la cui morte sia causata ad esempio da
un’errata
anamnesi
pre-operatoria
o
da
un
errato
comportamento dell’operatore (es.: paziente subisce uno stress a
causa di un’estrazione dentaria: si alza subito dalla poltrona ma
sviene per un’ ipotensione posturale, sbatte la testa e muore:
l’odontoiatra potrebbe essere accusato di omicidio colposo per
omissione -non ha fatto rimanere il paziente steso abbastanza da
ristabilire una giusta pressione- );
 violenza privata (art. 610 C.P.): intervento del professionista
contro la volontà dell’assistito;
 omissione di soccorso (art. 593 C.P.): mancata prestazione di
assistenza occorrente nei confronti di una persona inanimata,
ferita o altrimenti in pericolo da parte di un professionista della
salute al di fuori di obblighi istituzionali , nel solo caso che egli si
imbatta nella persona;
 rifiuto d’atti d’ufficio-omissione (art. 328 C.P.): mancato
intervento del professionista, quando sia istituzionalmente
dovuto senza ritardo dallo stesso, in qualità di pubblico ufficiale
o incaricato di pubblico servizio;
 rivelazione di segreto professionale (art. 622 C.P.): violazione
della segretezza da parte del professionista in rapporto ad
attività libero professionale;
 rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 C.P.): violazione
della segretezza da parte del professionista in relazione a fatti
inerenti la propria pubblica funzione o pubblico servizio;
 falsità ideologica in certificati (art. 481 C.P.): falsa attestazione
in certificati in genere da parte del libero professionista;
 falsità ideologica in atti pubblici (art. 479 C.P.): falsa
attestazione in documentazione sanitaria redatta nell’ambito
dello svolgimento di pubbliche funzioni o di pubblico servizio;
 omissione di referto (art. 365 C.P.): mancata segnalazione di
delitti perseguibili d’ufficio all’autorità giudiziaria da parte del
professionista che presti opera o assistenza;
 omissione di denuncia (art. 361 e 362 C.P.): mancata
segnalazione all’autorità giudiziaria di reati perseguibili d’ufficio
da parte del professionista che ne venga a conoscenza, in quanto
riveste la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico
servizio.
1.1.1 Elementi costitutivi del reato
Come previsto dall’art. 1 del Codice Penale “nessuno può essere
punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come
reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
Affinché si configuri un reato, e dunque la responsabilità sia
“penalmente rilevante”, è necessario che vengano in essere i suoi
elementi costitutivi:
 condotta: non può esistere reato senza condotta criminosa
( “nullum crimen sine actione” ). La condotta può essere di due
tipi: commissiva quando l’azione criminosa prevista dal
legislatore presuppone un fare oppure omissiva qualora invece
l’obbligo giuridico è di impedire un evento e a seguito di questa
omissione l’evento avviene andando a configurare il reato.
Il diritto penale “quando eleva un omissione a condotta
criminosa
si
riferisce
solitamente
a
obblighi
di
giuridicamente imposti (obbligo di soccorrere una persona)
agire
22
”.
Sul piano legislativo i reati possono essere di sola azione, cioè
possono essere realizzati con una condotta esclusivamente
attiva, di sola omissione, in cui il legislatore ha tipizzato un
comportamento esclusivamente omissivo, a condotta mista, per
la cui realizzazione è necessario tenere una condotta attiva e una
omissiva e infine a condotta libera o alternativa, realizzati
indifferentemente con l’una o l’altra forma di comportamento;
 evento: non è da intendersi nel suo senso più generale e cioè
come il fatto in sé per sé ma, secondo la definizione di Palazzo:
“è evento naturalistico la morte di Tizio, intesa come fenomeno
biologico di cessazione di ogni attività cardio-circolatoria,
prodottasi come conseguenza della condotta omicida che ha
reciso la carotide della vittima, mentre è evento in senso
giuridico il contenuto di disvalore consistente nella perdita di
una vita umana”.
L’evento non è sempre una condizione necessaria poiché nella
costruzione della figura di reato è possibile prevedere reati di
evento e reati di pura condotta: nel reato di evento oltre alla
condotta giuridicamente errata, si verifica un danno (in ambito
sanitario al paziente, ad esempio nel caso di omicidio colposo,
lesione personale dolosa e colposa,…), mentre nel reato di pura
condotta non è rilevante la presenza del danno ma viene punito
il comportamento in sé (rivelazione di segreto, omissione di atti
di ufficio come la mancata richiesta di consenso,…);
 rapporto di causalità: consiste in un criterio di imputazione di
un evento alla condotta di un soggetto; infatti, solo se l'evento
può essere ritenuto ricollegabile alla condotta, l'agente potrà
essere tenuto a risponderne (c.d. principio di colpevolezza). Tale
concetto viene esplicitato dal codice penale nella formula usata
dall'Art. 40 comma 1 “nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o
pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è
conseguente dalla sua azione od omissione. Non impedire un
evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo”.
Per anni il sistema giudiziario si era basato su due ragionamenti
per definire il nesso di causalità; il probabilistico cioè il medico
rispondeva penalmente nell'ipotesi in cui poteva prevedere e
prevenire il fatto-reato, quale conseguenza della sua condotta, in
base alle regole di generalizzata esperienza -leggi scientifiche o
statistiche di copertura o criterio dell'id quod plerumque accidit-,
e lo statistico, secondo il quale la prova che il comportamento
alternativo dell'agente avrebbe impedito l'evento lesivo doveva
verificarsi con un elevato grado di probabilità in una percentuale
di casi prossima a cento.
Recentemente però una sentenza della Cassazione Penale a
sezioni unite ha definito con chiarezza il comportamento che il
giudicante deve assumere:
Cassazione Penale, sezioni unite, sentenza n. 30328:
“…non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente
di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno,
dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il
giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base
delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosi che,
all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso
l’interferenza
di
fattori
alternativi,
risulti
giustificata
e
processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva
del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con
‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità
logica’…”.
Da questa importante sentenza delle sezioni unite si evince come
il giudice di legittimità abbia voluto allontanarsi da qualsiasi
valutazione aprioristica e di carattere meramente presuntivo
circa l'esistenza del nesso causalistico.
Ritiene necessario che il procedimento logico-deduttivo debba
condurre il giudice alla “certezza processuale al di là di ogni
ragionevole dubbio”
(Sentenza Cassazione n. 38334), con
esclusione, quindi, dell'interferenza di decorsi alternativi.
Il giudizio prognostico deve pertanto essere rigoroso, basato sia
su conoscenze
scientifiche o statistiche, sia su conoscenze di
carattere generale, cercando di analizzare tutte le caratteristiche
del singolo caso;
 elemento
soggettivo
penalmente
alla
del
reato:
definizione
della
prima
di
procedere
responsabilità
bisogna
considerare la natura dell’azione o omissione dell’agente:
 dolosa, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o
pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la
legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto
e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;
 preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione
od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave
di quello voluto dall'agente;
 colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se
preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza
di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Nella valutazione della responsabilità bisogna tener conto di
altri importanti parametri quali la capacità di intendere e volere
al momento del fatto (art. 85 c.p.) (condizione necessaria per
l’imputabilità); la commissione del fatto con coscienza e volontà
(art. 42 c.p.); la previsione e volontà dell’evento come
conseguenza della propria azione od omissione (art. 43 c.p.); la
previsione e volontà dell’evento: negligenza, imprudenza,
imperizia…(art. 43 c.p.)
1.2 LA RESPONSABILITA’ CIVILE
Il fondamento giuridico della responsabilità civile professionale
risiede in alcuni articoli del Codice civile:
 Diligenza nell'adempimento (art. 1176 cc):
“Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la
diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle
obbligazioni inerenti all’esercizio di un’ attività professionale, la
diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività
esercitata”.
 Responsabilità del debitore (art. 1218 cc):
“Il debitore che non esegue correttamente la prestazione dovuta
è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che
l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile ”.
 Risarcimento per fatto illecito (art. 2043 cc)
“ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un
danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire
il danno ”.
Responsabilità del prestatore d'opera (art. 2236 cc):
“ Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di
speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni,
se non in caso di dolo o colpa grave”.
1.2.1 Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
La responsabilità in ambito civile può essere distinta in
responsabilità contrattuale o del debitore e responsabilità non
contrattuale o aquiliana.
La responsabilità contrattuale è la responsabilità derivante
dall'inadempimento,
dall'inesatto
adempimento
e
dall'adempimento tardivo di una preesistente obbligazione quale
che ne sia la fonte (ad esclusione del fatto illecito) e si distingue
dalla responsabilità extracontrattuale che deriva dalla violazione
del generico obbligo di non ledere alcuno senza che prima della
violazione sia possibile l'individuazione di una obbligazione.
Tale distinzione è stata messa in rilevo da ultimo da Cass. Sezioni
Unite 26 giugno 2007 n. 14712.
Per l’attribuzione della responsabilità civile, nella contrattuale
all’attore è sufficiente provare il preesistente rapporto giuridico
da cui deriva il suo diritto di credito ed è sul debitore convenuto
in giudizio che ricade l’onere della prova di dimostrare - se
vuole andare esente da responsabilità- che l’inadempimento
dell’obbligazione sia dovuto a causa a lui non imputabile (1218
c.c.).
In materia extracontrattuale, invece, la regola è che l’attore ha
l’onere di provare il fatto illecito. Vale a dire, non solo l’evento
dannoso ma anche la colpevolezza (dolo o colpa) nella
condotta dell’autore del danno ed il relativo nesso causale.
1.2.2 L’obbligazione di mezzi e l’obbligazione di risultati
In campo medico il sanitario instaura con il paziente un
contratto d’opera intellettuale, detto anche “contratto di
prestazione medica” e viene definito come “l’accordo in virtù
del quale il medico, effettuata la diagnosi ed indicata la terapia,
si obbliga nei confronti del paziente, dietro corrispettivo, a
realizzarla secondo le migliori prescrizioni dell’arte medica,
assumendo, perciò una obbligazione di mezzi”.
Dunque, il medico si impegna a prestare la propria opera
intellettuale secondo la diligenza, la prudenza e la perizia sulla
base di quella che è la miglior scienza ed esperienza medica del
momento ma non garantisce il conseguimento del risultato
sperato.
L’obbligazione
di
mezzi
è
affiancata
in
giurisprudenza
dall’obbligazione di risultato, nella quale il professionista si
impegna a raggiungere con tutti i mezzi a sua disposizione il
risultato concordato col paziente.
Ci sono delle discipline in campo medico in cui vige
l’obbligazione di risultato.
Una di questa è l’odontoiatria, soprattutto l’implanto-protesi,
dove il contratto stipulato tra operatore e paziente prevede
un’obbligazione di risultato.
Già nel 1993 il tribunale di Genova si era espresso in materia: “il
contratto intercorso tra il medico odontoiatra e il paziente, per
la progettazione e produzione di una protesi, ha per oggetto
una prestazione di risultato e l’obbligazione del professionista in
tal caso consiste in una prestazione d’opera idonea a
raggiungerlo. Nell’ipotesi in cui l’operato del dentista sia stato
causa di danni all’integrità fisica del paziente (rottura di elementi
dentari, sofferenza alle articolazioni temporomandibolari), tale
comportamento rileva e come inadempimento al contratto
d’opera professionale e come illecito extracontrattuale; è quindi
prospettabile il cumulo delle due azioni, una fondata sulla
responsabilità
contrattuale,
l’altra
sulla
responsabilità
extracontrattuale”.
L’intervento odontoiatrico di protesizzazione ha chiaramente
come finalità il risultato trattandosi di attività diretta alla
confezione e applicazione di protesi e quindi all’esclusivo
raggiungimento
di
un
obbiettivo
anatomo-funzionale
ed
estetico; nel caso in esame il trattamento era risultato scorretto e
incongruo
secondo
gli
accertamenti
del
C.T.U.,
non
rispondendo ai requisiti minimi di funzionalità, di resa estetica e
di rispetto dell’integrità del paziente.
L’odontoiatra incaricato della realizzazione e applicazione
di
una protesi, quindi, è responsabile se non realizza un manufatto
idoneo alla sua destinazione; incorre in una responsabilità
contrattuale ed è tenuto a risarcire il danno biologico e, se
presente, quello patrimoniale.
Nell'ambito civilistico, diversamente da quanto avviene in sede
penale, si distinguono una colpa lieve e una colpa grave,
inescusabile
"per
imperizia,
imprudenza,
inosservanza di leggi o regolamenti".
negligenza
o
La negligenza si manifesta nei casi in cui il medico agisce con
superficialità, disattenzione.
L'imprudenza si ha quando il medico agisce senza adottare le
dovute cautele dettate dall'ordinaria esperienza, quando agisce
con eccessiva fretta e avventatezza.
L'imperizia è invece la mancanza di esperienza o la carenza di
nozioni tecniche e scientifiche nonché della sufficiente esperienza
pratica richiesta per l'esercizio dell'attività medica.
Per colpa lieve si intende generalmente la omissione di diligenza
(di cui all’art. 1176) o negligenza dovuta alla preparazione non
coerente al caso concreto e causante un danno nella esecuzione
del trattamento chirurgico o nell'ambito della terapia medica.
Per colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 cc., si intende la
grossolanità dell'errore, dovuta alla violazione delle regole e
mancata adozione degli strumenti, e quindi di quelle conoscenze
che rientrano nel patrimonio minimo del medico, poiché
acquisite alla scienza medica.
Il metro di valutazione della colpa varia a seconda del
contenuto oggettivo (negligenza, imperizia o imprudenza) della
stessa ed a seconda della natura dell'intervento ( complesso o
routinario ) richiesto al medico.
1.2.3 La ripartizione dell'onere probatorio
Nelle obbligazioni di risultato (prestazioni odontoiatriche,
chirurgia
estetica...)
all'utente
basta
provare
il
mancato
raggiungimento del risultato, mentre spetta al professionista
l'onere della prova della mancanza di colpa; invece nelle
obbligazioni
di
mezzi
il
paziente
deve
dimostrare
l'inadempimento del professionista (e quindi la colpa dello
stesso), non bastando la prova che non si è ottenuto il risultato
al quale si mirava.
In questo ambito contrattuale l'utente che ritiene di avere subito
un danno è tenuto dunque a provare:
1. la responsabilità professionale dovuta a difettosa o inadeguata
prestazione professionale, per violazione del dovere di diligenza
esigibile ai sensi dell'art. 1176 , comma 2, cc.;
2. l'esistenza di un danno;
3. il rapporto di causalità tra il danno e la condotta tenuta
nell'espletamento del mandato.
Deve inoltre dimostrare che l'intervento concordato era di facile
esecuzione, allo scopo di fare valere la responsabilità per colpa
lieve.
Il medico per essere esonerato da responsabilità deve a sua volta
dimostrare che l'inadempimento non è a lui imputabile e che ha
tenuto il comportamento diligente richiesto dalla legge e dal
contratto avendo adottato tutti i mezzi e gli strumenti acquisiti
alla
scienza
medica
del
momento
storico
considerato.
1.3 LA RESPONSABILITA’ DELL’ODONTOIATRA NEL
TRATTAMENTO IMPLANTOLOGICO
La disciplina implantologica, per le sue peculiarità, offre un
ampio spettro di riflessioni medico-legali, sia perché si tratta di
interventi “di elezione”, che non presentano mai connotazione
di urgenza e per i quali si delinea quasi sempre la possibilità di
un’alternativa
terapeutica,
rappresentata
dalla
protesi
tradizionale, sia perché in talune situazioni la linea di
demarcazione
fra
la
responsabilità
dell’operatore
e
l’imprevedibilità della risposta del paziente al trattamento
appare piuttosto sfumata.
Il primo problema medico-legale che si pone è la verifica
dell’effettiva idoneità del soggetto al trattamento di chirurgia
implantare. In altri termini, il ricorso a questo tipo di tecnica non
può essere giustificato semplicemente da una preferenza
dell’operatore o da un’insistente richiesta del paziente, ma
necessita di una rigorosa selezione, volta ad escludere la
presenza di controindicazioni generali o locali che potrebbero
rappresentare causa di fallimento o peggio esporre il paziente al
rischio di gravi complicanze.
La dottrina medico-legale ha individuato quattro categorie entro
le quali rientrano i pazienti “candidati” al trattamento implantoprotesico:
 difetti anatomici: vi rientrano quei pazienti che hanno avuto
difficoltà ad utilizzare una protesi removibile a causa di una
morfologia dei tessuti poco o per niente adatta al supporto.
Questi
deficit
includono:
mancanza
di
adeguato
spazio
sublinguale, posizione irregolare della lingua, sfavorevole forma
della cresta ossea, anomala relazione tra le arcate;
 intolleranza fisiologica: a questa categoria appartengono
soggetti la cui tolleranza alla protesi convenzionale è dovuta al
dolore, irritazione o ulcerazione della mucosa per forze
modeste, non eccedenti quelle funzionali, oppure ad un
accentuato riflesso faringeo.
 intolleranza emotiva: sono pazienti che non accettano la
protesi removibile: lamentano di avere qualcosa in bocca, di
avvertire una “barra sotto la lingua” o una “placca sul palato”,
di “dover rimuovere ogni notte i propri denti”; desiderano
sentire i denti come parte integrante del loro corpo;
 pazienti che per esigenze professionali richiedono protesi con
superiori caratteristiche meccaniche o che esigono a tutti i costi il
miglior trattamento possibile e che, considerando la protesi su
impianto come la soluzione ideale, la desiderano anche se non
hanno difficoltà nel portare la removibile.
Altro
aspetto
indispensabile
da
considerare
è
l’indagine
preliminare sulle condizioni di salute generale del soggetto e su
quelle del cavo orale mediante accertamenti radiologici e
densitometrici (rx e dentascan) che consentano di valutare la
quantità e la qualità dell’osso, tenendo presente che dinanzi ad
un fallimento riconducibile ad un’insufficiente valutazione
iniziale, difficilmente l’odontoiatra potrà sottrarsi ad un
addebito di responsabilità.
Un altro punto cardine, alla luce della sentenza della Sez. I del
Tribunale di Milano del 9/06/1988, riguarda la scelta del tipo di
impianti; la decisione del tribunale che in questo caso attribuisce
la responsabilità all’odontoiatra è infatti così motivata: “Sussiste
la
responsabilità
professionale
del
medico….poiché
le
conseguenze dannose lamentate dalla paziente sono correlate
esclusivamente alla sua imperizia (tutti gli impianti a lamina,
presentano infatti problemi di traballamento)...”.
In questa sentenza la responsabilità del professionista è stata
ravvisata nell’inadeguata scelta degli inserti implantari ponendo
quindi l’accento sul valore da attribuire a metodiche di
consolidata
sperimentazione
e
validità
scientifica,
nella
fattispecie riconducibili alle procedure di osteointegrazione con
l’utilizzo di impianti cilindrici in titanio, che hanno ormai
soppiantato le vecchie tecniche.
Entrando
nel
merito
dei
fallimenti
del
trattamento
implantologico si possono per semplicità distinguere incidenti
nel corso dell’atto chirurgico ed insuccessi terapeutici a distanza.
I primi, a seconda dell’entità delle lesioni, possono causare un
danno temporaneo o permanente identificabile in una malattia
iatrogena, generalmente di tipo flogistico - infettiva destinata ad
una cronicizzazione o ad una soluzione con esiti anatomofunzionale. A tal proposito si considerino le lesioni neurologiche
(in particolare del nervo alveolare inferiore), le lesioni dei tessuti
limitrofi al sito implantare (invasione del seno mascellare o delle
cavità piriformi) o complicanze infettive (sinusiti mascellari,
etmoiditi,
comunicazioni
oroantrali)
riconducibili
a
contaminazione o errato posizionamento degli impianti.
In queste situazioni la dimostrazione dell’errore professionale
non è di particolare difficoltà, specialmente se l’evento dannoso
è
conseguenza
di
una
approssimativa
valutazione
delle
condizioni iniziali del paziente o dell’omissione di indagini
strumentali atte a fornire utili indicazioni per evitare l’incidente.
In riferimento a ciò in una recente sentenza (n.5945 del
3/11/2000) il giudice di legittimità si è espresso in materia di
responsabilità professionale medica affermando che questa “non
sussiste solo nelle ipotesi di colpa grave o dolo del sanitario,
bensì anche in presenza di colpa lieve quando, in un caso di
routine, non abbia osservato, per negligenza, le regole precise
che siano acquisite, per consolidata sperimentazione, alla pratica
medica, e che quindi il medico specialista non può ignorare”.
Tale
dichiarazione
pone
inevitabilmente
l’accento
sul
controverso quesito riguardante il possibile inquadramento della
disciplina implantologica fra le prestazioni che implicano la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. A nostro
avviso a fronte di protocolli operativi sempre più affidabili e del
costante sviluppo di settore, salvo rare eccezioni, il trattamento
di chirurgia implantare non può considerarsi di per sé di speciale
difficoltà, ove con questa accezione si intenda la soluzione di
casi complessi, tali da richiedere il ricorso a mezzi terapeutici non
studiati o sperimentati a sufficienza.
Ben diverso è il caso degli insuccessi terapeutici, rappresentati
dalla perdita precoce o tardiva dell’impianto, nei quali è
necessaria un’analisi particolareggiata, volta all’individuazione
delle
possibili
cause
e
di
un
eventuale
responsabilità
dell’operatore.
I fallimenti sono più frequentemente ascrivibili ad infezioni
perimplantari, mancata osteointegrazione, inadeguatezza degli
inserti endossei (per diametro, forma, lunghezza in relazione al
sito chirurgico) o inadeguato rapporto fra impianto e protesi
(per numero, posizione e/o angolazione).
In tutti questi casi la perdita dell’impianto avviene in seguito ad
alterazioni della struttura ossea, con perdita di sostanza
riconducibile a fenomeni osteolitici e aggravata dalle manovre di
rimozione dell’impianto. Ciò significherebbe che, nell’ipotesi in
cui sia accertata la responsabilità dell’operatore nel verificarsi
dell’evento dannoso, questi potrà essere chiamato a rispondere
di lesioni personali in sede penalistica, o a risarcire il danno alla
salute e quello patrimoniale in sede civilistica.
Perché si possa considerare colposo il comportamento del
professionista, occorre che sia verificata, in modo rigoroso, la
sussistenza del nesso di causalità fra la condotta dell’operatore
(imperita, negligente o imprudente) e l’evento dannoso,
tenendo presente che nell’ipotesi in cui sia imputato un
comportamento omissivo, fra questo e l’insuccesso terapeutico ci
deve essere una correlazione prossima alla certezza (Cass. IV
30328/02).
A tal proposito è indicativo il caso di una perdita dell’impianto a
seguito di processi infettivi perimplantari; è necessario verificare
se il fallimento sia dovuto alla presenza di focolai infettivi non
trattati in prossimità del sito chirurgico, il che implicherebbe una
condotta negligente da parte del professionista (è buona regola,
prima dell’intervento chirurgico, eliminare tutte le possibili fonti
di contaminazione batterica) o se sia invece causato dalla
trascuratezza del paziente che si assenta ai controlli periodici o
non adotta correttamente i presidi di igiene orale domiciliare
che gli sono stati prescritti.
Del tutto simile risulta l’ipotesi di un fallimento riconducibile a
mancata osteointegrazione. Qualora vengano utilizzati i corretti
sistemi implantari, l’esito negativo potrebbe dipendere da una
riscaldamento eccessivo dell’osso nella fase chirurgica, da un
errata progettazione protesica responsabile
di un carico
masticatorio o di uno schema occlusale inadeguati o, viceversa,
dalla mancata abolizione del fumo da parte del paziente,
nonostante le indicazioni dell’odontoiatra.
Si tratta solo di alcune delle possibili cause di fallimento del
trattamento implantare, significative tuttavia della difficile
interpretazione e valutazione di molti casi di presunta
responsabilità
professionale,
in
particolar
modo
poi
se
l’insuccesso si verifica in assenza di una plausibile spiegazione
tecnica. In tal caso sarà comunque a carico del sanitario l’onere
di dimostrare la correttezza del proprio operato, in termini di
valutazione delle possibili controindicazioni, scelta degli inserti
implantari idonei al caso specifico, rispetto dei tempi di
guarigione fra l’intervento chirurgico e la protesizzazione.
Dinanzi ad una condotta diligente, il paziente potrà rivalersi solo
se proverà di aver avuto dall’odontoiatra la certezza di un
risultato positivo.
Ciò rappresenta un nodo cruciale, anche in considerazione del
fatto che, nella maggioranza dei casi, uno dei motivi scatenanti il
contenzioso è la mancata o insufficiente informazione ricevuta
su possibili complicanze e fallimenti.
Questo sottolinea l’assoluta importanza dell’informazione che,
nel
campo
dell’implantologia,
in
considerazione
della
complessità della procedura e dei rischi connessi alla sua
invasività,
rappresenta un punto cardine di grande valore. Il
paziente va quindi in primo luogo delucidato sulle varie fasi
dell’intervento, sui tempi di guarigione da rispettare prima della
riabilitazione vera e propria, sui rischi attribuibili al trattamento
di protesi su impianti. Va inoltre informato dell’esistenza di
alternative alla chirurgia implantare, che presentano vantaggi,
ma anche risvolti negativi (riassorbimento osseo, irritazione dei
tessuti gengivali, sovraccarico sui denti residui).
L’ informazione che non deve limitarsi al momento precedente
la scelta del trattamento, ma interessare tutto il periodo nel
quale
si
svolge
la
terapia,
compresa
la
convalescenza,
comunicando al paziente la necessità di sottoporsi a regolari
controlli e di mettere in atto alcune misure importanti per il
buon mantenimento degli impianti.
Nel caso di abbandono del programma di cura e di controllo da
parte del paziente, se si verifica un evento dannoso, potrebbero
configurarsi le condizioni previste dall’art. 1227 del c.c.: “ Se il
fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il
risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità
delle conseguenze. Il risarcimento non è dovuto per i danni che
il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.
Alla luce di questo si sottolinea ancora una volta l’importanza di
una valida cartella clinica che, in particolar modo per la chirurgia
implantare deve essere il più dettagliata e precisa possibile.
Unitamente
all’anamnesi,
all’esame
obiettivo
e
all’analisi
gnatologica, è dunque opportuno che siano inseriti gli
accertamenti
radiologici,
eventuali
esami
ematologici
e
consulenze mediche specialistiche (es.: cardiologiche). Inoltre, se
l’intervento chirurgico viene eseguito in sedazione, è bene che in
cartella sia specificato il tipo di anestetico somministrato e sia
indicato il tipo di impianto endosseo utilizzato. E’ infine
consigliabile prendere nota in cartella delle osservazioni
effettuate nel corso dei successivi controlli, delle indicazioni
igieniche e delle prescrizioni farmacologiche, segnalando anche
eventuali mancanze del paziente. In conclusione è possibile
affermare che la responsabilità del medico deve essere ritenuta
quando l’errore professionale, in rapporto alla soluzione di un
determinato problema, dipenda da una particolare condotta
contraria, per negligenza, imprudenza o imperizia, con le regole
universalmente accettate nell’arte medica, e trovi origine o nella
mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali
attinenti alla professione, o nel difetto di quel minimo di abilità
e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali di
indagine o di terapia che il medico deve essere sicuro di poter
adoperare correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza
o diligenza che non devono mai difettare in chi esercita la
professione sanitaria.
Quando, come nel caso di interventi chirurgici, il lavoro si
svolga in “equipe”, ciascun componente è tenuto ad eseguire col
massimo scrupolo le funzioni proprie della specializzazione di
appartenenza. In materia di colpa professionale, l’esclusione
della colpa del sanitario trova un limite nella condotta del
professionista incompatibile con quel minimo di cultura e di
esperienza che deve legittimamente pretendersi in chi è abilitato
alla professione medica.
Nel caso di prestazioni mediche di natura specialistica, effettuate
da chi sia in possesso del diploma di specializzazione, non può
prescindersi dalla considerazione delle cognizioni generali e
fondamentali proprie di un medico specialista nel relativo
campo, non essendo sufficiente il riferimento alle cognizioni
fondamentali di un medico generico.
2. L’INFORMAZIONE E IL CONSENSO
Per consenso informato si intende, l'accettazione che il paziente
esprime in merito a un trattamento sanitario, in maniera libera,
e non mediata dai familiari, dopo essere stato informato sulle
modalità di esecuzione, i benefici, gli effetti collaterali e i rischi
ragionevolmente prevedibili, l'esistenza di valide alternative
terapeutiche. L'informazione costituisce una parte essenziale del
progetto terapeutico, dovendo esistere anche a prescindere dalla
finalità di ottenere il consenso.
2.1 IL DOVERE DI INFORMARE
L’acquisizione del consenso dovrebbe svolgersi in tre parti:
 una parte preliminare di informazione
 maturazione da parte del paziente delle informazioni ricevute
 firma del modulo di consenso
L’informazione non è da intendere come una trasmissione di
dati e notizie finalizzata a colmare la inevitabile differenza di
conoscenze tecniche tra medico è paziente ma ha lo scopo di
porre il paziente nella condizione di esercitare correttamente i
suoi diritti e di far si che si trovi nella posizione di scegliere
liberamente se intraprendere o meno il trattamento proposto.
Il medico ha il dovere di informare il paziente e il paziente ha il
diritto di essere informato: queste due condizioni costituiscono il
presupposto naturale e giuridico del consenso informato, che
può essere manifestato solo dal soggetto interessato che abbia
compreso la sua situazione sanitaria.
Informazione e consenso sono un binomio inscindibile.
Ma non è da sempre così. Ippocrate, celebre medico greco,
ammoniva i suoi discepoli affinché nulla fosse rivelato al malato
circa le sue condizioni di salute e i trattamenti a cui era
sottoposto: “…tieni all’oscuro i pazienti di ogni evento
futuro…”. Quest’ atteggiamento rimase vivo per tutto il
Medioevo fino all’Illuminismo quando, con gli scritti di Gregory
Rush si cominciò a prospettare la demistificazione della medicina
e, conseguentemente, l’opportunità di informare il paziente. Si
trattava
però
di
un’
informazione
non
ancora
volta
all’acquisizione del consenso ma solamente alla comprensione
da parte del paziente della prescrizione medica.
Il primo sostenitore del diritto del paziente all’informazione fu
Thomas Percival i cui studi furono poi alla base del primo
Codice di Deontologia medica americano del 1847.
Ai
giorni
nostri
“competente”
o
non
è
possibile
“consapevole”
parlare
senza
una
di
consenso
preliminare
informazione: senza informazione non vi è valido consenso.
Il rapporto medico-paziente è squilibrato in quanto si stabilisce
tra ineguali in termini di competenza tecnica; si tende però a
riconquistare una dimensione di “equità” tra medico e paziente,
esaltando in primo luogo la necessità di fornire un’accurata e
analitica informazione, tenendo conto dell’età, del grado di
maturità e del livello culturale del paziente; essa deve vertere
sugli aspetti della malattia, sul decorso, sulle finalità del piano di
cura proposto, sulle alternative possibili, sulle modalità, sui rischi
e sui benefici dei singoli interventi diagnostici e terapeutici,
affinché il paziente possa recuperare gran parte di quella
autonomia nelle decisioni che spetta alla persona umana, sia
sana che malata.
Il ruolo del medico non si limita all’elencare al paziente i
vantaggi e gli svantaggi ma deve aiutare il malato a scegliere con
serenità il trattamento più idoneo per la cura della sua
patologia.
L’obbligo
di
informare
il
paziente
è
anzitutto
regola
deontologica.
 art. 33 C.D. - Informazione al cittadino “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione
sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali
alternative
diagnostico-terapeutiche
e
sulle
prevedibili
conseguenze delle scelte operate; il medico dovrà comunicare
con
il
soggetto
comprensione,
al
tenendo
fine
conto
di
delle
sue
promuoverne
capacità
la
di
massima
partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte
diagnostico-terapeutiche.
Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente
deve essere soddisfatta.
Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da
poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona,
devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non
traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.
La documentata volontà della persona assistita di non essere
informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve
essere rispettata”.
L’articolo del nuovo Codice di Deontologia medica chiarisce che
il medico deve dare la più serena informazione (e cioè data con
cautela, non affrettatamente e senza drammatizzazione) sulla
diagnosi,
la
prognosi,
le
prospettive
terapeutiche
e
le
conseguenze delle stesse allo scopo di favorire la partecipazione
alle proposte terapeutiche da parte dell’assistito
e per un
miglior risultato del trattamento.
Il medico deve soddisfare ogni specifico quesito del paziente
dando risposte il più possibile chiare, rese cioè con un linguaggio
comprensibile, adeguato al livello culturale dell’interlocutore;
può evitare precisazioni superflue inerenti gli aspetti scientifici
dell’intervento.
Riguardo la delicata questione della prognosi infausta il nuovo
Codice Deontologico non riconosce più al sanitario la
discrezionalità della valutazione della opportunità o meno della
rivelazione: il medico deve fornire le informazioni riguardanti
prognosi
gravi
o
infauste
o
tali
da
poter
procurare
preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, usando ogni
cautela possibile, senza ricorrere a espressioni crude e esplicite
che possano risultare traumatizzanti e non escludendo mai
prospettive di evoluzione positive o favorevoli del male.
Sia in caso di prognosi fausta che infausta, il paziente ha il diritto
di conoscere il proprio destino, al fine di autodeterminarsi in
ordine alle proprie scelte future. Nascondere la prognosi infausta
al paziente “…appare frutto di una concezione autoritaria e
falsamente pietistica della relazione con l’ammalato…” 5.
Inoltre, la conoscenza della verità sulla malattia e sulle cure da
intraprendere, può spingere il malato ad una più profonda ed
efficace collaborazione con il medico per la guarigione.
Anche nel settore dell’informazione si dà essenziale rilievo alla
volontà manifestata dal paziente: il medico deve attenersi a
questa sia in relazione ai contenuti stessi dell’informazione ( ad
esempio se viene richiesta una spiegazione franca ed oggettiva
circa la prognosi e la diagnosi, senza edulcorare la realtà oppure
se il paziente preventivamente comunica di non voler essere
informato di una diagnosi infausta), sia in relazione ai destinatari
della stessa; il paziente infatti potrebbe vietare la comunicazione
delle informazioni a terzi (parenti o non): l’informazione a terzi
è ammessa solo previo consenso del paziente.
I congiunti possono essere i destinatari dell’informazione solo se
il paziente, unico titolare del diritto alla riservatezza, esprime la
volontà di comunicare le notizie riguardanti la sua malattia ai
parenti o a persone estranee all’ambito familiare.
L’obbligo di informare non appartiene solo nei doveri imposti
dall’etica professionale ma attiene anche al contenuto tipico del
contratto di cura: si tratta di un dovere funzionale all’esatto
adempimento della prestazione medica e, come tale, rileva in
modo autonomo rispetto a quello relativo alla diligenza
professionale che ogni operatore sanitario deve osservare
nell’esecuzione della sua prestazione.
Si può quindi configurare una responsabilità contrattuale per
violazione del dovere di informazione indipendentemente dalla
presenza di errori professionali nell’esecuzione del trattamento.
L’informazione rileva nella misura in cui la sua omissione o
inesattezza,
incidendo
all’autodeterminazione
sul
esercitato
diritto
con
del
paziente
l’autorizzazione
al
trattamento sanitario, si traduce nella lesione di un diritto
costituzionalmente protetto.
L’obbligo di informazione è quindi diretto a preservare la
persona dalla specifica possibilità di danno (lesione del diritto
alla
salute,
intesa
quale
compressione
della
libertà
di
autodeterminazione di cui agli art. 13-32 della costituzione)
derivante dalla particolare relazione instauratasi tra medico e
paziente.
Da quanto appena detto si evince che il dovere di informazione
si
desume
non
solo
da
norme
etiche-deontologiche
e
contrattuali ma anche da norme costituzionali.
La conferma viene dalla Corte di Cassazione: “Il dovere di
informare il paziente sulla natura dell’intervento medico e/o
chirurgico, sulla sua portata ed estensione e sui suoi rischi, sui
risultati conseguibili e sulle possibili conseguenze negative,
gravante sul medico in generale, si desume e dalle norme
costituzionali e dal comportamento secondo buona fede cui
sono tenute le parti nello svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto” (Cass. civ. 25 novembre 1994 n.
10014).
Ne deriva che “un consenso immune da vizi non può che
formarsi dopo aver avuto piena conoscenza della natura
dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed
estensione e dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle
possibili conseguenze negative, sicché presuppone una completa
informazione sugli stessi da parte del sanitario o del chirurgo ”
(Cass. civ. 12 giugno 1982 n. 3604).
2.1.1 Modalità, oggetto e limiti dell’informazione
L’Informazione può essere definita come un processo attivo di
comunicazione fra medico, che fornisce notizie, e paziente, che
chiede delucidazioni e interroga su eventuali alternative al
trattamento proposto.
L’obbligo di informare grava sul medico curante o sul medico
delegato dotato di adeguata capacità tecnica; il personale
infermieristico e gli assistenti di poltrona non soni tenuti a
informare, a meno che non gli possa essere riconosciuta una
specifica autonomia operativa in un determinato settore: in
questa ipotesi può avere il potere-dovere di informare.
L’informazione dovrebbe essere perciò proposta in modo da
stimolare chi la riceve ad una partecipazione critica alla
decisione: il consenso informato, fondato sul principio di
autonomia, richiede una chiara assunzione di responsabilità da
parte di entrambi i soggetti della relazione e richiede perciò che i
problemi siano formulati in modo chiaro e non ambiguo.
Il linguaggio deve essere chiaro e comprensibile, adatto al
singolo paziente in relazione alla sua cultura e alla sua capacità
intellettiva da un lato e al suo stato psichico dall’altro.
La recettività del paziente al discorso informativo è affidata alla
sensibilità e all’esperienza del medico.
Per certi versi, la spiegazione rivolta a persona non colta, nel
senso generale del termine, è più semplice, in quanto maggiore è
l’affidamento al sanitario, visto quale depositario unico della
verità tecnica, e minore è la richiesta di approfondimento, vista
la totale fiducia nel sanitario. Ciò però non
autorizza una
indebita semplificazione del dialogo, alla fine del quale il medico
potrebbe
dubitare
di
non
essere
stato
esaustivo
e
sufficientemente chiaro, e di aver ottenuto un consenso
immotivato.
Viceversa, il dialogo con una persona colta è in genere facilitato
dalla possibilità di utilizzare un linguaggio più tecnico ma di
contro c’è una richiesta di approfondimento esasperato che, pur
nascendo da un legittimo desiderio di rassicurazione, può finire
col raggiungere l’effetto opposto.
2.1.2 Violazione del dovere di informare: responsabilità.
La violazione del dovere di informare (ovvero in caso di
informazione carente, errata o fuorviante) assume rilevanza dal
punto
di
vista
civilistico
tutte
la
volte
che
da
tale
inadempimento sia conseguito un danno per il paziente.
Se il paziente non viene informato ad esempio dei rischi
(possibili e/o prevedibili) connessi ad un determinato intervento
chirurgico -esistenti indipendentemente dall’osservanza di tutte
le “leges artis” che il caso richiede -qualora l’intervento abbia
purtroppo esito negativo, il paziente avrà diritto al risarcimento
dei danni subiti provando di essersi sottoposto al trattamento
solo in quanto non gli erano stati prospettati i relativi rischi.
Pertanto se l’informazione è stata adeguata e completa, il
medico risponderà dei danni eventualmente cagionati solo per
colpa professionale, cioè per sua negligenza, imprudenza o
imperizia; di contro se l’informazione è stata insufficiente, pur in
assenza di colpa, il medico si espone a responsabilità.
In giurisprudenza è stato affermato che “ il professionista
sanitario ha l’obbligo, di natura contrattuale, di informare
compiutamente il paziente dei rischi connessi alla terapia
consigliata e prescritta […] onde ingenerare nel paziente il c.d.
consenso informato, funzionale alla formazione di una sua libera
scelta […] ” (Corte d’Appello di Milano, I sez. civ., 21 marzo
1995 n. 1256).
E ancora: “Deve ritenersi che il consenso generico alla cura,
implicito nella richiesta di intervento dei sanitari, non può
ritenersi esteso a quei particolari trattamenti, la cui particolare
pericolosità debba presumersi ignorata dal paziente. Va poi
rilevato che è dovere professionale del medico […] informare il
paziente dei rischi di quel trattamento di cui il paziente debba
presumersi all’ oscuro […]” (Trib. Perugia, II sez. civ., 10 luglio
1987 n. 977).
Dall’inadempimento del dovere contrattuale dell’informazione
consegue
non
solo
la
violazione
del
diritto
di
autodeterminazione del paziente, ma anche l’eventuale danno
alla salute derivato causalmente dall’intervento chirurgico -pur
correttamente eseguito- proprio perché non si da al paziente
l’opportunità di valutare se affrontare o meno l’operazione, non
mettendolo in grado di rifiutare l’intervento o di accettarlo,
assumendosene consapevolmente anche il relativo rischio, non
derivante da errore professionale.
Sotto il profilo strettamente probatorio, è sufficiente l’esistenza
di un effettivo ambito di scelta da parte del paziente sui tempi e
sui modi delle cure e la prova della mancata informazione da
parte dei medici sui prevedibili rischi dell’intervento da cui era
stato conseguito il danno alla salute per attribuire ai sanitari la
responsabilità della mancata informazione.
L’obbligo informativo non è solo precedente alla scelta del
trattamento; esso copre l’intero sviluppo della relazione di cura
e quindi anche la fase successiva, laddove sia necessario fornire
al
paziente
regole
di
condotta
per
il
periodo
della
convalescenza, ad esempio dovrà essere informato della
necessità di sottoporsi a controlli post-operatori oppure sulle
misure da adottare per la corretta manutenzione di impianti
protesici.
Molto spesso il trattamento chirurgico viene svolto in equipe e
in più fasi ognuna delle quali presenta un significativo rischio
per il paziente: il consenso informato deve essere acquisito in
ogni singola fase: “… è noto che interventi particolarmente
complessi, specie nel lavoro in equipe svolto in più fasi […]
l’obbligo di informazione si estende anche alle singole fasi a ai
rispettivi rischi”.
Dal punto di vista penale invece l’omessa informazione è punita
come “omissione di atti d’ufficio” (art. 328 C.P. : Rifiuto di atti
d'ufficio. Omissione ) con la reclusione da 6 mesi a 2 anni.
2.2 IL DOVERE DI ACQUISIRE IL CONSENSO
Il consenso del paziente, libero e informato, costituisce il
presupposto e la condizione di legittimità giuridica oltre che
etica dell’atto medico.
 Art. 50 C.P. “ NON E' PUNIBILE CHI LEDE O PONE IN
PERICOLO UN DIRITTO COL CONSENSO DELLA PERSONA
CHE PUO' VALIDAMENTE DISPORNE.”
L’art. 50 prevede la causa di giustificazione del consenso
dell’avente diritto; le cause di giustificazione (dette anche
scriminanti o cause di liceità) sono particolari situazioni in
presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale
non è perché la legge lo consente o lo impone.
Altri due articoli giustificano l’attività sanitaria:
 art. 5 Codice Civile
“Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando
cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o
quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o
al buon costume”.
 art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana
“La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività,e garantisce cure
gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in
nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana”.
Anche nella Convenzione di Oviedo per la protezione dei diritti
dell’uomo si parla espressamente di consenso informato:
 Consiglio d’Europa: Convenzione per la protezione dei
diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo
all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione
sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina Oviedo, 4 aprile 1997 16.
Cap. II art. 5 - Consenso - (Regola generale)
“Qualsiasi intervento in campo sanitario non può essere
effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato il
proprio
Questa
consenso
persona
libero
riceve
e
informato.
preventivamente
un’informazione
adeguata in merito allo scopo e alla natura dell’intervento
nonché
alle
sue
conseguenze
ed
ai
suoi
rischi.
La persona interessata può liberamente ritirare il proprio
consenso in qualsiasi momento”.
L’individuazione dei requisiti del consenso non è regolata da
norme specifiche ma si cerca di fare riferimento alle fonti più
autorevoli e alla casistica giurisprudenziale.
In primo luogo il consenso deve essere personale.
È il paziente che riceve l’informazione ed è solo il paziente che,
di persona, presta il consenso.
La possibilità che altre persone decidano al suo posto è
assolutamente eccezionale, in quanto costituisce una violazione
della libertà dell’individuo: essa può essere giustificata solo in
presenza di circostanze del tutto particolari previste dalla legge e
può avvenire solo con garanzie rigorose.
Dal punto di vista giuridico è totalmente irrilevante il consenso
dei familiari e possono essere informati solo se è il paziente a
chiederlo.
La sfera personale del paziente può essere invasa solo se questi,
preventivamente informato, vi ha consentito, mentre non può
essere invasa se ha opposto il suo rifiuto: il paziente ha la facoltà
di decidere in modo libero e consapevole della propria persona.
A questa libertà l’ordinamento giuridico pone un solo limite:
l’art. 5 del Codice Civile vieta gli atti di disposizione del proprio
corpo
“quando
cagionino
una
diminuzione
permanente
dell’integrità fisica” nonché quelli che “siano altrimenti contrari
alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume”.
Anche il codice deontologico dei Medici Chirurghi e Odontoiatri
si esprime in materia di consenso informato:
 art. 35 C.D. - Acquisizione del consenso “Il medico non deve intraprendere attività diagnostiche e/o
terapeutiche senza l’acquisizione del consenso esplicito e
informato del paziente.
Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge
e nei casi in cui per le particolarità diagnostiche e/o terapeutiche
o per le possibili conseguenze delle stesse sull’integrità fisica si
renda opportuna una manifestazione documentata della volontà
della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo
informativo di cui all’art. 33. […]
In ogni caso, la presenza di documentato rifiuto di persona
capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici
e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico
contro la volontà della persona.
Il medico deve intervenire, con scienza e coscienza, nei confronti
del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e
della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico ,
tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”.
Parlando di consenso si deve distinguere:
 consenso generico o tacito all'atto sanitario che è implicito
nella richiesta di visita o di prestazione sanitaria in genere,
nonché nella richiesta di ricovero ospedaliero: si riferisce a
pratiche diagnostiche e/o terapeutiche normali, prive di
particolari rischi per il paziente ( atto medico ordinario );
 consenso specifico od esplicito che deve essere richiesto ogni
qualvolta i sanitari ritengano di dovere procedere a manovre
diagnostiche complesse e rischiose, ad interventi chirurgici
demolitori e/o menomanti, a pratiche terapeutiche comunque
non prive di significativi pericoli. In questi casi il consenso è
valido ove fornito dal maggiorenne non interdetto, in
condizioni di capacità di intendere e di volere. Il consenso del
minore e dell'interdetto deve essere espresso rispettivamente
dall'esercente la patria potestà o dal tutore.
2.2.1 Validità del consenso
La validità del consenso prestato dal paziente ad un determinato
trattamento medico, sotto il profilo giuridico, deve poggiare su
alcuni elementi indispensabili.
Perché esplichi efficacia scriminante, il consenso deve essere
libero e spontaneo: esso cioè deve essere immune da violenza,
errore, dolo (sono i cosiddetti “vizi della volontà” previsti dal
codice civile). Data la sua natura di atto e non di negozio, la
relativa validità prescinde da requisiti di forma: potendo il
consenso essere prestato in qualsiasi modo, è indifferente il
mezzo (scritto, orale,…) con cui si manifesta. Può anche essere
desunto
dal
comportamento
oggettivamente
univoco
dell'avente diritto (consenso c.d. tacito).
Il consenso deve essere acquisito prima di compiere qualsiasi
atto diagnostico/terapeutico: non scrimina, invece, il consenso
successivo o ratifica.
Per essere valido, quindi, il consenso deve presentare i seguenti
requisiti, mancandone uno solo il consenso è da ritenersi viziato:
deve essere richiesto per un trattamento necessario;
 la persona che da il consenso deve essere titolare del diritto;
 la persona cui viene richiesto il consenso deve possedere la
capacità di intendere e di volere;
 la persona a cui viene richiesto il consenso deve ricevere
informazioni chiare e comprensibili sia sulla sua malattia sia sulle
scelte programmate tanto ai fini diagnostici che terapeutici;
 in caso di indicazione chirurgica o di necessità di esami
diagnostici, la persona a cui viene richiesto il consenso deve
essere
esaurientemente
informata
sulla
manualità
della
prestazione, in rapporto alla propria capacità di apprendimento;
 la persona che deve dare il consenso deve essere portata a
conoscenza sui rischi connessi e sulla loro percentuale di
incidenza, nonché sui rischi derivanti dalla mancata effettuazione
della prestazione; gli effetti collaterali, le menomazioni e le
mutilazioni inevitabili;
 la persona che deve dare il consenso deve essere informata
sulle capacità della struttura sanitaria di intervenire in caso di
manifestazione del rischio temuto;
 il consenso scritto e controfirmato dal paziente e dal medico
deve essere conservato sia dall' uno sia dall' altro.
Quando in giurisprudenza di parla di incapacità (assenza della
capacità di intendere e di volere) è d’obbligo fare una
distinzione tra incapacità legale e incapacità naturale.
L’incapacità legale riguarda i soggetti minorenni.
Consiglio d’Europa;Convenzione sui diritti dell’uomo e
sulla biomedicina Oviedo, 4 aprile 1997 16.
Cap. II art. 6 -Consenso- Tutela delle persone che non hanno la
capacità di dare il consenso.
“Quando secondo la legge un minore non ha la capacità di dare
il consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato
senza l’autorizzazione del suo rappresentante, dell’autorità o di
una persona o un tutore designato dalla legge”.
La volontà dell’incapace legale, se questi si trovi ad essere capace
di intendere e di volere al momento dell’atto medico, prevale
rispetto a quella del suo legale rappresentante: si pensi
all’ipotetico contrasto tra la volontà del genitore o del tutore e
quella del minore “quasi” diciottenne che abbia acquisto una
sufficiente maturità di giudizio.
In realtà questa è una questione ancora molto discussa:
l’orientamento di apertura a un’adeguata valorizzazione del
consenso informato del minore espresso dal CNB (Comitato
Nazionale per la Bioetica) ha trovato parziale risonanza
sopranazionale nella Convenzione sui diritti dell’uomo e della
Biomedicina di Strasburgo21, secondo cui per la realizzazione di
un intervento medico-chirurgico devono concorrere il consenso
del minore che abbia la capacità di darlo e l’autorizzazione del
suo rappresentante, dell’autorità, di una persona o un tutore
designato dalla legge, pur con attribuzione di maggiore
determinazione al parere del minore in rapporto all’età e al suo
grado di maturità.
Su
posizioni
di
minore
ampiezza
si
attesta
il
Codice
Deontologico che ribadisce che il consenso del minore.
dell’interdetto e dell’inabilitato agli intervento diagnostici e
terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere
espresso dal legale rappresentante, pur prevedendo l’obbligo del
medico di dare informazione al minore e di tenere conto della
sua volontà, compatibilmente con l’età e la capacità di
comprensione, nel rispetto dei diritti del legale rappresentante.
 Art. 37 - Consenso del legale rappresentante “Allorché si tratti di minore, di interdetto, il consenso […], deve
essere espresso dal rappresentante legale.
Il medico, nella caso in cui sia stato nominato dal giudice
tutelare un amministratore di sostegno deve debitamente
informarlo e tenere nel massimo conto le sue istanze.
In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al
trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di
incapaci, il medico è tenuto a informare l'autorità giudiziaria; se
vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e
dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo
e secondo necessità alle cure indispensabili”.
È certo comunque che non è capace chi abbia meno di 14 anni e
il consenso potrà essere prestato dal legale rappresentante,
sempre però nell’interesse del rappresentato; non è pertanto
valido un consenso dato al compimento di un’ attività
intrinsecamente dannosa per l’incapace.
Necessario nel rapporto col minore è riuscire a valutare la sua
“competenza”, i cui elementi fondamentali sono la capacità di
decidere, il ragionamento, la previsione delle conseguenze.
Nel documento del CNB si legge: “…il consenso è in qualche
modo concepibile tra 7 e 10-12 anni ma sempre non del tutto
autonomo e da considerare insieme con quello dei genitori.
Solo entrando nell’età adolescenziale si può pensare che il
consenso diventi progressivamente autonomo.”
È chiaro quindi che, grazie a questa valorizzazione della volontà
del minore nelle scelte relative alla sua persona e salute, si deve
ritenere che il consenso dei genitori o del tutore non sia sempre
sufficiente da solo al compimento di atti medici che incidono
sull’integrità personale del minorenne.
Oltre all’ipotesi di incapacità legale va ricordata anche
l’incapacità naturale: si tratta di tutte quelle condizioni che, a
prescindere dalla capacità legale, consentono di escludere che il
soggetto possa prestare un valido consenso; sono riconducibili
sia a situazioni transitorie - uso di sostanze stupefacenti o alcool sia a stati patologici di maggiore permanenza, come un grave
stato di decadimento psico-fisico che di fatto privano il soggetto
dell’attitudine ad intendere il significato dell’atto che compie.
 Consiglio d’Europa: Convenzione sui diritti dell’uomo e
sulla biomedicina Oviedo, 4 aprile 1997 13.
Cap. II art. 6 - Consenso - Tutela delle persone che non hanno la
capacità di dare il consenso.
“Quando, secondo la legge, un maggiorenne non ha, a causa di
un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare,
la capacità di dare il consenso ad un intervento, questo non può
essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante,
dell’autorità o di una persona o tutore designato dalla legge. La
persona interessata, nella misura possibile, deve essere coinvolta
nella procedura di autorizzazione”.
In caso di disaccordo tra i legali rappresentanti dell’incapace, il
medico deve ricorrere all’autorità giudiziaria al fine dei necessari
provvedimenti.
Oltre che personale il consenso deve essere esplicito: il paziente
deve manifestarlo in modo chiaro, univoco e non condizionato;
questo aggettivo presuppone autentica libertà sia in senso
giudico che morale.
La prima riguarda un consenso non viziato dalla violenza, dalla
minaccia e dall’inganno, la seconda attiene alla volontà e alla
coscienza su cui non devono gravare violenza, pressioni o
suggestioni psicologiche.
La forma del consenso è libera. Salvo disposizione di legge (per
trapianti di organi e donazione di sangue è tassativamente
scritto), è sufficiente che il consenso sia espresso oralmente. La
forma orale, tra l’altro, ben si addice alla relazione fiduciaria tra
medico e paziente per evitare ogni forma di spersonalizzazione e
burocratizzazione della relazione di cura.
In ogni caso il consenso scritto è da ritenere un dovere morale
del medico in tutti i casi in cui le prestazioni diagnosticoterapeutiche per la loro particolare natura (il rischio che
comportano, la durata del trattamento, le implicazioni personali
e familiari, le eventuali alternative al trattamento…) sono tali da
rendere opportuna una manifestazione univoca e documentata
della volontà del paziente.
Il modulo del consenso scritto deve essere allegato alla cartella
clinica e ne fa parte integrante oltre alle annotazioni da parte del
medico delle ragioni delle sue proposte diagnostiche e
terapeutiche.
È importante ricordare che una cartella clinica ben redatta può
costituire un supporto difensivo al contrario di una compilata in
maniera insufficiente che rischia di diventare un atto di accusa in
relazione a ciò che non vi risulta annotato.
In alternativa al modulo in cui sono riassunte tutte le spiegazioni
e le informazioni date al paziente può essere usato il verbale
testimoniato, sempre però sottoscritto dal paziente. Si tratta di
un consenso di cui rimane nella cartella clinica un’ indicazione
scritta indiretta,
cioè viene riportato che al paziente è stata
fornita una corretta e adeguata informazione e che egli ha
acconsentito alla terapia.
È importante che il medico, anche in presenza di modulo di
consenso scritto, non rinunci mai alla comunicazione e al
rapporto diretto col paziente, sviluppando il più possibile le sue
capacità di ascolto e di dialogo, oltre che di sensibilità
psicologica.
2.2.2 Revoca del consenso
Il paziente ha la facoltà di revocare il consenso. Questo può
verificarsi ancor prima dell’inizio della prestazione medica
oppure quando questa ha già avuto inizio: in questo caso
rimane lecita la parte che è stata posta in essere prima della
revoca.
Se la revoca interviene durante il trattamento , l’azione non
dovrebbe essere proseguita: ma se il medico non può
tecnicamente interrompere la condotta, il suo operato sarà
ugualmente lecito, poiché in questo caso la revoca non può
avere alcuna efficacia giuridica.
Se l’interruzione, materialmente possibile, espone il paziente a
danno grave e imminente, l’eventuale prosecuzione, malgrado
la revoca del consenso, può essere scriminata dallo stato di
necessità (art. 54 del C.P. : “Non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare […] altri
dal pericolo attuale di un danno grave alla persona […]”).
A conclusione del discorso non va comunque dimenticato che la
revoca
del
consenso
è
espressione
del
diritto
all’autodeterminazione del paziente e in quanto tale dovrebbe
essere rispettato.
2.2.3 Trattamento medico in difetto di consenso del
paziente: responsabilità
La violazione del consenso del paziente pone il problema della
responsabilità penale del sanitario anche a prescindere dalle
conseguenza fauste o infauste dell’intervento. Secondo la nostra
giurisprudenza, in ipotesi di trattamento arbitrario (ovvero non
consentito) incidente sull’integrità fisica del paziente, il medico è
responsabile di:
 violenza privata ( intervento del professionista contro la
volontà dell’assistito - art. 610 C.P. - )
 sequestro di persona (art. 605 C.P.)
 lesioni personali volontarie (intervento del professionista
intrinsecamente lesivo della persona assistita ad esito fausto, ma
posto in essere senza il consenso della persona quando sia
consapevole - art. 582 C.P. -)
 omicidio preterintenzionale (o oltre l’intenzione, quando
dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso
più grave di quello voluto dall’agente - art. 584 C.P. - ).
Il consenso informato è manifestazione della libera scelta di ogni
persona sulla propria salute e sulla propria vita, una scelta che
sia libera non solo formalmente (assenza di costrizioni) ma sia il
frutto di una libera consapevolezza raggiunta attraverso
un’informazione offerta in modo corretto e competente da
medici tanto esperti tecnicamente quando capaci di ricostruire i
propri percorsi decisionali e coinvolgere il paziente nei passaggi
decisivi, il tutto in una realtà di comunicazione la più ricca e
profonda possibile.
Il consenso informato perciò non è solo una strumento per
sollevarsi dalle responsabilità connesse alla professione sanitaria
ma è un modo per rendere partecipe delle eventuali
responsabilità derivate dalla terapia la persona assistita oltre che
espressione di profondo rispetto del paziente e della sua
volontà, il quale in questo modo si assume le proprie
responsabilità relative agli eventi non graditi che possono
derivare dalla terapia.
2.3 IL CONSENSO INFORMATO IN ODONTOIATRIA
Quanto detto precedentemente non può che valere anche per
l’attività odontoiatrica: l’odontoiatra libero professionista, quale
esercente di un servizio di pubblica necessità ai sensi dell’art. 359
del Codice Penale, non può esimersi dall’obbligo di acquisire il
consenso del soggetto che a lui si rivolge e dall’obbligo di una
preventiva e adeguata informazione.
L’attività odontoiatrica, nella pratica quotidiana, non espone a
pericolo la vita del paziente ma è innegabile la presenza di un
“rischio odontoiatrico” del quale è necessario informare il
paziente che presterà o meno il suo consenso sapendo quali
sono le situazioni rischiose in cui può incorrere.
Perciò, oltre al consenso implicito nella richiesta di una
prestazione sanitaria, è sempre bene richiedere, soprattutto nelle
attività rientranti nella chirurgia orale (estrazioni dentarie,
impianti protesici), il consenso informato specifico e consapevole
del paziente.
Quando si parla di rischio, infatti, ci si riferisce anche a quelle
terapie che potenzialmente possono condurre a complicazioni o
a esiti negativi che per alcuni trattamenti possono anche essere
permanenti.
I danni permanenti relativi a trattamenti chirurgici odontoiatrici
sono principalmente legati a problemi neurologici qualora
vengano interessati i nervi che decorrono nel distretto orofacciale. La valutazione si basa sull’anamnesi e l’esame obiettivo
per documentare durata, grado e miglioramenti di sintomi e
segni: il paziente potrebbe lamentare un deficit sensitivo
soggettivo (anestesia, ipoestesia, dolore neuropatico) oppure
manifestare conseguenze come alterazioni del gusto, morsicature
del labbro e della lingua, scialorrea, limitazione della vita di
relazione.
In quest’ottica in odontoiatria il rischio è quasi sempre presente,
trattandosi di attività prevalentemente chirurgica (attività che
implica non solo una diagnosi, ma anche, spesso, un
trattamento): è quindi una condotta colposa il non rilevare
l’anamnesi medica del paziente per quanto concerne il rischio
durante le cure odontoiatriche. L’anamnesi deve, quindi, essere
accurata, non tralasciando aspetti importanti delle eventuali
patologie di base del paziente. Alcune possono essere una
controindicazione
assoluta,
altre
relativa
al
trattamento
odontoiatrico (cardiopatie, fenomeni allergici,…).
Ciò che è oggetto di rischio deve essere, quindi, necessariamente
oggetto
di
informazione.
L’ampiezza
e
la
profondità
dell’informazione sono da rapportarsi al tipo di terapia da
intraprendere: il dovere di informare impone all’odontoiatra di
soffermarsi maggiormente su quelle situazioni in cui la terapia
comporta un’ aggressione più profonda dell’integrità fisica del
paziente (avulsione dentaria, impianti,…). Ma non solo questo.
Anche una banale ablazione del tartaro potrebbe mettere a
rischio il paziente (cardiopatici non compensati, emofiliaci, in
terapia con anticoagulanti,…) ma di certo è la chirurgia che
comporta un aumentato stress e che quindi potrebbe causare
portare delle conseguenza più gravi soprattutto per pazienti già
affetti da patologie che compromettono in maniera importante
il loro organismo.
L’informazione dovrà essere ancora più rigorosa in quei casi,
non frequenti nella pratica, in cui l’intervento non è fine a sé
stesso ma “ rientra in un più ampio disegno terapeutico, come
ad esempio una estrazione o una regolarizzazione alveolare nel
corso di una riabilitazione protesica, oppure una serie di
estrazioni o una frenulectomia nel quadro di una terapia
ortognatodontica, oppure una bonifica del cavo orale prima
dell’inserimento di impianti…” 33.
Alcune delle discipline odontoiatriche per la loro particolarità
sono più esposte a rischio di contenzioso; basti pensare all’
anestesia locale, entrata ormai nella pratica quotidiana, che, pur
essendo di facile esecuzione nasconde in se dei pericolosi rischi
per il paziente se non effettuata in maniera adeguata e con i
dovuti accorgimenti. Il rischio più grave è quello dello shock
anafilattico dovuto all’intolleranza al farmaco utilizzato o alla
sensibilità allergica.
L’anestesia deve essere eseguita con molta cautela soprattutto
nei pazienti diabetici e cardiopatici: queste due patologie hanno
per
molto
tempo
rappresentato
una
controindicazione
all’anestesia locale ma in realtà, usando il farmaco più adeguato
ed evitando l’uso di adrenalina ( associata all’anestetico per il
suo effetto vasocostrittore), si evita di incorrere in conseguenze
indesiderate.
La violazione delle norme di diligenza, prudenza e perizia
nell’esecuzione del trattamento anestetico può essere fonte di
responsabilità penale per l’odontoiatra, soprattutto in assenza
del consenso del paziente, alla luce dei rischi cui può risultare
esposta l’integrità fisica del paziente.
Una situazione di malpractice può dipendere da una condotta
errata
(montaggio
errato
dello
strumentario,
mancata
aspirazione dopo infissione dell’ago per verificare se è entrato in
un’ arteria, iniezione troppo rapida, sovradosaggio) e da una
tecnica errata, oppure essere conseguenza della mancanza di
farmaci di emergenza ( ossigeno, benzodiazepine, adrenalina,
cortisonici).
La giurisprudenza più volte si è soffermata sulle varie ipotesi di
responsabilità dopo errato trattamento anestetico, stigmatizzano
una serie di condotte colpose: il mancato esame anamnestico del
paziente ( omettendo di valutare le controindicazione generali ),
l’intossicazione da anestesia, l’omessa vigilanza dopo l’anestesia.
Ma anche altre discipline odontoiatriche sono esposte al rischio
di contenzioso, come ad esempio l’ortognatodonzia, la
chirurgia, l’implantoprotesi e la protesi.
Nell’ortognatodonzia gli aspetti giuridici di maggiore interesse
sono quelli legati da un lato alla legittimazione ad esprimere il
consenso, dall’altro alla eventuale necessità di estrarre elementi
dentari sani. Sotto il primo profilo è importante ricordare che di
solito il paziente ortognatodontico è minore di età ed è perciò
necessario il consenso del genitore o del legale rappresentante.
Ciò ovviamente non significa ignorare la volontà del minore e
neppure non informarlo.
Spesso il trattamento ortodontico si protrae nel tempo
e
richiede una grande collaborazione da parte del paziente e dei
genitori e comporta particolari difficoltà per chi ne subisce le
conseguenze; in considerazione poi del fatto che il consenso è
sempre successivamente revocabile, è consigliabile per eventuali
e future contestazioni, non solo che sia specifico ma anche in
forma scritta.
Un problema molto discusso è quello dell’estrazione dei denti
sani per raggiungere un miglioramento dell’allineamento degli
elementi dentari. È bene intraprendere questa pratica solo se,
dopo aver effettuato tutti gli specifici esami, si arriva alla
conclusione che l’estrazione è l’unica via da percorrere e la
disgnazia non può essere corretta in nessun altro modo.
Qualora ciò non sia vero e l’estrazione causi dei problemi al
paziente, l’odontoiatra sarà chiamato a rispondere in caso di un
eventuale
contenzioso,
di
menomazione
permanente
dell’integrità fisica perché l’estrazione di un dente sano
rappresenta un indebolimento permanente dell’organo della
masticazione, nonché di lesioni personali gravi.
Nei trattamenti conservativo-protesici il rischio di contenzione è
legato soprattutto a un non raggiungimento del risultato
previsto nel caso di un restauro, soprattutto in zona estetica, o
dell’applicazione
di
una
protesi
esteticamente
e/o
funzionalmente non corretta.
Senza dubbio la disciplina odontoiatrica più a rischio è la
chirurgia e, di conseguenza, l’implantologia. Pur essendo
fondamentale per qualunque branca, il consenso informato è
essenziale per le pratiche chirurgiche: il paziente deve sapere
quali sono i rischi e le conseguenze ( dolore, gonfiore,
impossibilità di alimentarsi ) legati all’intervento chirurgico che
dovrà affrontare e deve impegnarsi rispettare categoricamente le
indicazioni post-chirurgiche che gli da il suo odontoiatra ( igiene
orale, alimentazione, farmaci, controlli periodici,…) perché è
anche da queste che dipende la buona riuscita dell’intervento.
Il sanitario che si accinge ad affrontare un intervento chirurgico
deve conoscere alla perfezione lo stato di salute generale del
paziente perché questi interventi potrebbero portare ad uno
stress fisico che persone con patologie sistemiche quali ad
esempio
cardiopatie,
diabete,
problemi
ematici
e
della
coagulazione potrebbero non sopportare. Anche un banale
intervento odontoiatrico può avere ripercussioni generali
importanti.
Inoltre il paziente deve essere informato sul periodo di
convalescenza che dovrà affrontare e che gli potrebbe impedire
di praticare le sue attività quotidiane a seconda dell’importanza
dell’intervento: se ciò non fosse l’odontoiatra potrebbe essere
poi chiamato a rispondere di un eventuale danno patrimoniale
da lucro cessante subito dal paziente che non ha potuto
attendere alle sue mansioni lavorative a causa dei postumi
dell’intervento.
2.3.1
Aspetti
generali
del
consenso
informato
in
odontoiatria
Prima di intraprendere una qualsiasi cura odontoiatrica è
necessario che sussista, da un lato, la richiesta del paziente e,
dall’altro, un consenso consapevole in relazione a ciò che si
andrà a operare sia in termini diagnostici che terapeutici.
L’odontoiatra deve assolvere all’obbligo di informare il paziente
con particolare scrupolo e attenzione.
I mezzi di informazione sono sempre più veloci e le fonti sempre
più accessibili (internet). L’informazione che si cerca è sempre
maggiore, ma il sanitario ha il dovere di integrare e rendere
accettabili, sotto il profilo umano, insostituibile da nessuno dei
mezzi di comunicazione esistenti, tutti i risvolti clinici sulle
terapie che si dovranno praticare. Il pubblico infatti sta
ricevendo in questi ultimi anni, un’accresciuta informazione da
parte dei mass-media sulle possibili e alternative terapeutiche e
sui pregressi in campo scientifico.
Tutto ciò però determina anche un aumento della fiducia nei
mezzi della medicina e della chirurgia può indurre il paziente a
diminuire la sua fiducia nel sanitario soprattutto quando la
terapia non produce l’effetto desiderato, credendo che ciò sia da
addebitarsi al medico: i messaggi, a volte del tutto fuorvianti
(dubbi e tutt’altro che certi), trasmessi sulla pubblicità sanitaria
rischiano di creare nel paziente aspettative sovente ingiustificate
o erronee attese di risultato. Per questo l’informazione deve
essere precisa e chiara, oltre che comprensibile e adeguata al
grado di cultura dell’interlocutore, onde evitare incomprensioni
tra le parti destinate a sfociare in liti giudiziarie.
L’informazione
deve
necessariamente
tenere
conto
della
particolarità dell’odontoiatria (ad esempio in caso di un restauro
conservativo non è sufficiente il consenso generico del paziente
ma bisogna, ad esempio, renderlo partecipe della scelta del
materiale, estetico o meno, che andremo ad utilizzare); il
paziente “…deve poter acconsentire ad una piuttosto che ad
un’altra soluzione sulla base di un’adeguata informazione resa
dall’odontoiatra sulle varie possibilità, sui rischi, benefici e sulle
possibili alternative. Il paziente può decidere il tipo di terapia,
solo dopo aver vagliato le possibilità, i rischi, le complicanze e le
possibili alternative. Se ad una paziente le superfici masticanti dei
premolari e molari inferiori vengono realizzate in metallo, cosa
che non avrebbe assolutamente accettato se preventivamente
informata, avrà buone possibilità di risarcimento in un eventuale
contenzioso.” 39.
Nella chirurgia orale e nell’implantologia ci sono molte più
situazioni a rischio con possibili complicazioni e l’odontoiatra
deve trasmettere un’accurata ed esauriente informazione, per
permettere al paziente di esprimere un consenso consapevole,
libero.
A titolo di esempio possiamo far riferimento a quegli interventi
chirurgici necessari ma non urgenti (urgenti sono quelli legati ad
una patologia acuta in atto), considerati non indispensabili ma
comunque opportuni: estrazione ottavi inclusi, apicectomie,
inserimento di impianti.
In
questi
casi
necessariamente
l’informazione
estendersi
anche
dell’odontoiatra
alle
conseguenze
deve
poco
gradevoli, per quanto temporanee, costituite dall’impossibilità di
parlare
agevolmente
o
dalla
possibilità
di
tumefazioni
antiestetiche di non immediata risoluzione: solo quando il
paziente ha ricevuto queste informazioni può rilasciare un
consenso consapevole e quindi valido.
In difetto, l’odontoiatra potrebbe seriamente esporsi ad una
azione di danni per inadempimento contrattuale: la violazione
del dovere di informare in maniera chiara ed esaustiva assume
rilevanza dal punto di vista civilistico tutte le volte che da tale
inadempimento sia conseguito un danno (risarcibile) per il
paziente.
In questo caso l’onere della prova incombe sul paziente, nel
senso che è quest’ultimo che deve dimostrare i danni patiti, il
nesso eziologico tra il danno e la terapia odontoiatrica, e di
essersi sottoposto alla terapia stessa solo perché non gli erano
stati prospettati i relativi rischi. Ma se un paziente non
adeguatamente informato si ritrova ad esempio a non far fronte
a impegni di lavoro prefissati nei giorni successivi all’intervento e
per questo subisce un danno professionale di natura economica (
“lucro cessante”, ossia un mancato guadagno), potrebbe
agevolmente dimostrare che se fosse stato informato degli
eventuali inconvenienti
- gonfiore, tumefazione, difficoltà di
parola – avrebbe rifiutato per il momento l’intervento.
Il consenso deve essere prestato dal paziente solo dopo una
completa ed esauriente informazione medica riguardo tutti gli
aspetti favorevoli e sfavorevoli delle possibili complicanze della
terapia che verrà effettuata, senza addentrarsi nei particolari
tecnici sa non espressamente richiesti ma mettendo in risalto che
le tecniche e i materiali adottati sono conformi ai protocolli
internazionali più accettati.
2.3.2 L’importanza della documentazione clinica in
odontoiatria
Nell’ archivio che ogni odontoiatra dovrebbe avere per i suoi
pazienti, è necessario raccogliere diversi documenti. Il primo è la
scheda sulla privacy e di consenso al trattamento dei dati
personali, come da obbligo del garante, poi la scheda di
anamnesi, redatta durante la prima visita, nella quale sono
raccolte tutte le informazioni generali sullo stato di salute del
paziente: malattie del cuore, emorragiche, allergiche, del sistema
nervoso, oltre che informazioni sulla salute dentarie e sulle
precedenti cure odontoiatriche.
Le scheda di anamnesi fa parte della cartella clinica dove viene
poi trascritto, a seconda dei dati raccolti in precedenza e delle
richieste del paziente, il piano di trattamento prescelto:
l’odontoiatra però dovrà informare il paziente sui trattamenti
alternativi e specificare i rischi e i benefici di quella che andrà ad
attuare. Iniziata la terapia, la cartella clinica deve rappresentarne
il diario cronologico in quanto vi si possono annotare gli esiti
delle sedute, anestetici utilizzati, i materiali, le reazioni del
paziente dopo l’uso degli stessi, le eventuali assenza del paziente
nel corso della terapia. È buona norma registrare anche le
complicazioni emerse durante il trattamento e le precauzioni
suggerite al paziente nella fase successiva, compresa la necessità
delle visite periodiche di controllo.
Necessari nella documentazione sono le radiografie (endorali,
panoramiche, TC, Dentascan), modelli di studio di inizio e fine
cura
e
valutazioni
fotografiche.
Non
va
sottovalutata
l’importanza della scheda di preventivo, in cui vanno riportate
le caratteristiche del lavoro da svolgere e i costi globali del
trattamento:
questo
perché
in
ipotesi
di
controversia
sull’onorario pattuito la mancanza di specifiche documentazioni
rende ardua per l’odontoiatra la prova del suo effettivo
ammontare.
Una documentazione corretta e aggiornata è anche simbolo di
un estrema professionalità dell’odontoiatra che svolge un lavoro
preciso e affidabile col suo paziente; in più annotare tutte le fasi
nei minimi dettagli, documentare il proprio lavoro con una
buona iconografia e una cartella clinica precisa sono d’aiuto
all’operatore in caso di contenzioso quale prova del suo
operato; una cartella clinica redatta in modo distratto e
negligente potrebbe essere invece usata come elemento negativo
nella valutazione dell’operato del dentista. Infatti, il giudizio del
magistrato, non conoscendo le parti in causa, si basa solo sulla
documentazione esibita dalle parti. Un errore professionale non
esime dalla colpa, anche in presenza del consenso informato e
della documentazione appropriata, ma, in caso di richiesta
pretestuosa, sarà la prova documentata che il sanitario ha agito
secondo scienza e coscienza.
3. IL DANNO BIOLOGICO
La figura del danno biologico è venuta creandosi nel corso degli
anni ad opera della giurisprudenza e si è affiancata alle figure del
danno patrimoniale e del danno morale previste dalla legge. Il
danno patrimoniale si verifica nel momento in cui vi è un danno
che colpisce la sfera patrimoniale del soggetto e viene risarcito ai
sensi dell'art. 2043 del Codice civile ( Risarcimento per fatto
illecito: “ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri
danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire
il danno “. ). Nel danno patrimoniale posso essere individuate
due sottocategorie: il danno emergente, cioè il danno che emerge
dalle conseguenze del fatto stesso, e il lucro cessante, nel caso in
cui il danno provochi al soggetto una diminuzione della sua
attività produttiva protratta nel tempo. Il danno morale, invece,
viene a sussistere tutte le volte in cui non vi sia un danno
patrimoniale ma comunque una specifica disposizione di legge a
carattere penale così come stabilito dall'art. 2059 del Codice civile
( Danno non patrimoniale: “ Il danno non patrimoniale deve
essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge “). Il danno
biologico o danno alla salute viene in considerazione anche in
totale assenza di un danno patrimoniale o di un illecito penale; è
espressione del diritto alla salute e come diritto inviolabile di
rilevanza costituzionale va sempre risarcito nel momento in cui
viene leso.
I tipi di danno sono:
 danno composito: se gli esiti permanenti di una lesione
corrispondono a più voci, riferite a
un organo o apparato
contenute in tabella, si rileva un danno composito; il valore di
danno deve fare riferimento alla globale riduzione dell’integrità di
un determinato distretto anatomo-funzionale;
 danno plurimo monocromo: è il danno permanente formato
da lesioni plurime monocrome che interessano più organi o
apparati;
 menomazioni preesistenti: è la definizione del danno che
interessa organi o apparati già sede di patologia o di esiti di
patologia. La giurisprudenza ha individuato i caratteri essenziali
della figura del danno biologico "nella menomazione dell'integrità
psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto
incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che
non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si
collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto
nell'ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo
economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica"
(Cass. 90/7101; Cass. Sez. Lav. 88/5033; Corte di Cassazione
Civile n.2883 del 1988). L'individuazione del contenuto del
danno biologico e la sua conseguente differenza dal danno
morale o patrimoniale, è stata ben espressa dalla Corte
Costituzionale sentenza n.184 del 1986. Sebbene la Corte
Costituzionale abbia stabilito la non coincidenza tra le due
definizioni di danno, la Cassazione n. 1130 del 1985 ha espresso il
concetto per cui il danno biologico, come menomazione
dell'integrità psicofisica della persona, costituisce un danno
ingiusto di natura patrimoniale, in quanto colpisce un valore
essenziale che fa parte integrante di quel complesso di beni di
esclusiva e diretta pertinenza del danneggiato.
3.1 CONTENUTI DEL DANNO BIOLOGICO
Il danno alla salute deve essere risarcito in ogni caso di danno alla
persona, mentre il danno morale e quello patrimoniale per
perdita di capacità lavorativa e di reddito lo saranno solo se,
quanto al primo, derivi da un atto illecito che abbia carattere
penale, quanto al secondo sia dimostrata la effettiva diminuzione
patrimoniale. La figura del danno alla salute si venne così
individuando come figura a sé stante appunto come tertium genus
del danno. La lesione che produce il danno alla salute riguarda il
"valore uomo", per le attitudini non lucrative ed i servizi resi a se
stessi (vestirsi, aver cura della propria persona, camminare,
guidare ecc.) che la lesione ostacola, impedisce o rende comunque
difficoltosa, e per le ripercussioni negative in ogni ambito in cui si
svolge la personalità dell'uomo. La lesione alla salute è prova di
per sé dell'esistenza del danno, ma non della sua entità, che va
provata ai fini del quantum. "Il bene della salute costituisce, come
tale, oggetto di autonomo diritto primario assoluto, sicché il
risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere limitato alle
conseguenze che incidono soltanto sull'idoneità a produrre
reddito, ma deve autonomamente comprendere il c.d. danno
biologico – in cui vanno ricomprese quelle forme di danno non
incidenti sulla capacità di produrre reddito – inteso come la
menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé
considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua
dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre
ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali
riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza
non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed
estetica" (Cass. Civile n.7101 del 1990). Nel corso degli anni in
questa categoria del danno alla salute sono venuti inserendosi
diverse tipologie di danno da quello alla vita di relazione, inteso
come danno che incide negativamente sull'esplicazione di attività
diverse da quella lavorativa normale, come le attività sociali e
ricreative (Cass. Civile n.9170 del 1994) a quello del danno alla
sfera sessuale, consistente nella menomazione anatomo-funzionale
del soggetto, idonea a modificarne le preesistenti condizioni
psicofisiche, e quindi ad incidere negativamente sulla sfera
individuale (Cass. Civile n.6536 del 1990) al danno estetico come
lesione delle funzioni naturali dell'uomo nella sua dimensione
(Cass. civile n.411 del 1990). Volendo sintetizzare quelli che la
giurisprudenza ha inteso indicare come sintomi dell'esistenza di un
danno biologico possiamo indicare:
 modificazione
dell'aspetto
esteriore,
ossia
dei
caratteri
morfologici della persona;
 riduzione dell'efficienza psicofisica, ossia ridotta possibilità di
utilizzare il proprio corpo;
 riduzione della capacità sociale, ossia dell'attitudine della
persona ad affermarsi nel consorzio umano mediante la sua vita
di relazione con gli altri;
 riduzione della capacità lavorativa generica, ossia dell'attitudine
dell'uomo al lavoro in generale;
 perdita di chances lavorative o lesione del diritto alla libertà di
scelta del lavoro;
 maggior fatica nell'espletamento del proprio lavoro, senza
perdita di guadagno;
 usura delle forze lavorative di riserva, quando non renda
necessario il prepensionamento.
3.2 IL DANNO PSICHICO
Questa figura di danno, ancora in corso di definizione ad opera
della dottrina e della giurisprudenza, si differenzia dal danno
prettamente fisico, possibile oggetto di risarcimento per danno
biologico, dal momento che esso non ha una manifestazione
esteriore tangibile, ma solamente una manifestazione di tipo
comportamentale. La lesione fisica lascia sempre una traccia
tangibile, la lesione psichica invece ha delle manifestazioni di
carattere nervoso e psichico che non sempre hanno delle
ripercussioni sul corpo del soggetto. Occorrerà quindi una analisi
di differente tipologia sul soggetto affetto da patologia di
carattere psichico al fine di accertare se e in quale misura tali
manifestazioni di comportamento costituiscano menomazione nel
senso tecnico-giuridico del termine, ossia nella sua accezione
medico legale, per poi risalire dalla menomazione alla lesione
psichica ed al fatto illecito. Certamente dovrà essere preso in
considerazione il fattore effetto, ovvero la ripercussione che tale
danno sta avendo sulla vita del soggetto che si pretende aver
subito la lesione.
La menomazione psichica consiste nella riduzione, temporanea o
permanente, di una o più funzioni psichiche della persona, la
quale, incidendo sul valore uomo globalmente inteso, impedisce
alla vittima di attendere in tutto o in parte alle sue ordinarie
occupazioni di vita.
Ciò che risulta difficile per l'interprete è di individuare il nesso
causale, che deve essere sempre presente nel rapporto causaeffetto, tra danno psichico e fatto lesivo.
3.3 CRITERI DI VALUTAZIONE DEL DANNO
L'onere della prova che incombe su colui che agisca in giudizio per
il risarcimento del danno alla persona, assume contenuti diversi in
relazione alla natura del danno del quale si pretende il
risarcimento, a seconda che si tratti di danno biologico o di danno
patrimoniale in senso stretto. Dato che non sempre il danno alla
salute si viene a trovare in concomitanza con un danno
patrimoniale, ma dato che si è pur sempre in presenza di un
danno, è sorta la necessità di trovare dei criteri equilibrati,
generici e sempre applicabili per poter quantificare in termini
economici il risarcimento per il danno subito. Poiché il danno
biologico si identifica con l'evento dannoso e si qualifica dunque
come danno-evento, una volta dimostrata la lesione, si è anche
dimostrata l'esistenza del danno biologico, in quanto il fatto
costitutivo del diritto al risarcimento del danno si identifica con la
lesione stessa, pur permanendo la necessità di provare l'entità
della menomazione dell'integrità psicofisica subita. In questo caso
il tema probatorio è circoscritto all'esistenza di una lesione
personale e di una menomazione a questa conseguente.
Per quanto riguarda la prova questa dovrà basarsi su di una
perizia medico-legale che accerti il grado di invalidità subito dal
soggetto leso. Ultimamente, dato che spesso la menomazione
viene quantificata dal medico in termini di percentuale di
invalidità (invalidità intesa come incapacità psicofisica di attendere
alle normali attività della vita quotidiana), molti tribunali hanno
elaborato una tabella, che tenendo conto del grado di invalidità e
dell'età dell'individuo, indica una cifra che può venire considerata
come base di partenza per quantificare il quantum del
risarcimento. Non costituiscono tuttavia una certezza per il
soggetto che ha subito un danno biologico, ma possono essere
considerate, in buona misura, un criterio abbastanza preciso.
TABELLA DEL DANNO BIOLOGICO DI LIEVE ENTITA'
(art. 139 del Dlgs 209/2005)
(Tabella aggiornata al D.M. 24/6/2008, pubblicato sulla G.U.del 30 giugno 2008)
Punti di
invalidità
Età
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
1
2
3
4
5
6
7
8
9
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
720,95 1586,09 2595,42 3748,94 5407,13 7353,69 9588,64 12111,96 14923,67
717,35 1578,16 2582,44 3730,20 5380,09 7316,92 9540,69 12051,40 14849,05
713,74 1570,23 2569,47 3711,45 5353,05 7280,15 9492,75 11990,84 14774,43
710,14 1562,30 2556,49 3692,71 5326,02 7243,38 9444,81 11930,28 14699,81
706,53 1554,37 2543,51 3673,96 5298,98 7206,62 9396,86 11869,72 14625,19
702,93 1546,44 2530,53 3655,22 5271,95 7169,85 9348,92 11809,16 14550,57
699,32 1538,51 2517,56 3636,47 5244,91 7133,08 9300,98 11748,60 14475,96
695,72 1530,58 2504,58 3617,73 5217,88 7096,31 9253,03 11688,04 14401,34
692,11 1522,65 2491,60 3598,98 5190,84 7059,54 9205,09 11627,48 14326,72
688,51 1514,72 2478,63 3580,24 5163,80 7022,77 9157,15 11566,92 14252,10
684,90 1506,79 2465,65 3561,49 5136,77 6986,01 9109,20 11506,36 14177,48
681,30 1498,86 2452,67 3542,75 5109,73 6949,24 9061,26 11445,80 14102,86
677,69 1490,92 2439,69 3524,00 5082,70 6912,47 9013,32 11385,24 14028,25
674,09 1482,99 2426,72 3505,26 5055,66 6875,70 8965,37 11324,68 13953,63
670,48 1475,06 2413,74 3486,51 5028,63 6838,93 8917,43 11264,12 13879,01
666,88 1467,13 2400,76 3467,77 5001,59 6802,16 8869,49 11203,56 13804,39
663,27 1459,20 2387,79 3449,02 4974,56 6765,39 8821,54 11143,00 13729,77
659,67 1451,27 2374,81 3430,28 4947,52 6728,63 8773,60 11082,44 13655,15
656,06 1443,34 2361,83 3411,54 4920,48 6691,86 8725,66 11021,88 13580,54
652,46 1435,41 2348,86 3392,79 4893,45 6655,09 8677,71 10961,32 13505,92
648,86 1427,48 2335,88 3374,05 4866,41 6618,32 8629,77 10900,76 13431,30
3.3.1 Criteri di valutazione del danno dentario
Per valutare correttamente l’entità del danno alla persona
conseguente alla perdita dentaria totale o parziale, è necessario
esaminare i vari fattori correttivi quali lo stato anteriore, il
coefficiente di antagonismo, il danno dentario specifico, la
possibilità di masticazione, il tipo di protesi e l’attività
professionale.
Lo stato anteriore della dentatura rappresenta il parametro che
permette di definire il danno rispetto alla reale situazione clinica
del soggetto. La situazione va graduata in base alla preesistenza di
lesioni cariose, paradontopatie, situazioni malocclusive che
possono
ridurre
il
valore
dei
singoli
elementi.
Tuttavia
l’importanza di una singola unità alveolo-dentaria potrà essere
anche notevolmente aumentata rispetto ai valori proposti se, per
motivi connessi alla funzione di supporto di protesi, la sua
presenza ha un significato fondamentale nel vicariare altri
elementi dentari, svolgendo quindi funzioni superiori a quelle che
normalmente le competono (supporto di uno scheletrato,…).
L’incidenza dello stato anteriore sulla valutazione del danno
dentario non può essere valutata in percentuali fisse, poiché si
deve adeguare alla variabilità della realtà clinica, determinabile di
volta in volta con riferimento a parametri clinici, quali, per
esempio, l’indice di placca, l’altezza dell’osso alveolare o la
mobilizzazione degli elementi. Si deve inoltre tener presente che
l’obiettivazione dello stato anteriore è, in genere, molto
complessa per la scarsezza della documentazione clinica pretrattamento al momento della valutazione del danno.
Il
coefficiente
di
antagonismo
è
stato
sempre
valutato
considerando il concetto di “coppia masticatoria” e non di
“trigono dentario”, più corretto dal punto di vista dell’occlusione
fisiologica.
L’incidenza del danno dentario specifico sulla capacità lavorativa
del soggetto è molto importante ai fini della valutazione del
danno. E’ ostacolato infatti l’esercizio di quelle professioni che
richiedono l’integrità degli elementi dentari (soprattutto quelli
frontali) come i suonatori di strumenti musicali a fiato e quelle in
cui l’uso della favella costituisce strumento preminente di lavoro
(avvocati, insegnanti, rappresentanti di commercio, cantanti) ed
infine quelle in cui anche il pregiudizio estetico può configurare
una menomazione specifica (attori, fotomodelle).
Va sottolineato che la sostituzione con protesi non reintegra
completamente le funzioni del dente perduto e non ripristina lo
“stato anteriore” del soggetto leso. Secondo alcuni autori la forza
masticatoria esplicabile dopo l’applicazione di una protesi
varierebbe da 1/10 ad 1/6 di quella naturale per la protesi totale
rimovibile, mentre per quella fissa sarebbe di circa 1/2. Inoltre la
protesizzazione non elimina alcune conseguenze inevitabili
causate dalla perdita del dente come il riassorbimento locale
dell’osso alveolare. Per alcuni Autori l’impianto assolverebbe
invece anche a questa funzione 13.
Infine, per un corretto risarcimento del danno nelle lesioni
dentarie, è necessario prendere in considerazione le cosiddette
“spese future”, che, come danno emergente, assumono una
rilevanza monetaria a volte esorbitante rispetto a quella
dell’effettivo danno alla persona, in funzione delle spese
necessarie al rimedio funzionale cui il leso si è sottoposto o dovrà
sottoporsi.
4. CONFINE TRA ERRORE E COMPLICANZA
Anche al medico, come a qualsiasi altro soggetto, si applica il
principio per il quale egli risponde in sede penale e civile
dell’eventuale danno che arrechi a terzi. Risponde in caso di
comportamento imperito, imprudente, negligente o in caso di
inosservanza di norme e regolamenti cui il sanitario è tenuto ad
attenersi. Ciò che acquista rilievo ed è oggetto di analisi è l’ipotesi
colposa, per la valutazione della cui responsabilità occorre
individuare l’esistenza degli elementi costitutivi del danno civile
ossia l’evento, l’elemento c.d. soggettivo (la colpa appunto) il
nesso causale e infine il danno.
Perché la colpa medica possa acquistare rilievo in sede giuridica,
occorre che al comportamento colposo consegua un danno,
lesioni o morte del paziente. Inoltre, perché il danno sia
attribuibile all’erroneo agire del sanitario, con la conseguente
affermazione di responsabilità per colpa, occorre dimostrare il
collegamento causale tra i due eventi.
“Non è sempre agevole in una professione che affronta una
materia biologica, assolutamente imprevedibile per autonoma ed
individuale reazione, non solo ad uno stimolo patogeno, ma
anche all’azione di un farmaco, dimostrare tale rapporto causale,
per cui se l’argomento è tema di accanite e costanti dispute in
dottrina, esso rileva anche nelle aule giudiziarie laddove si spazia
tra
teoria
dell’efficienza,
ovvero
dell’idoneità,
e
teoria
condizionalistica; l’esasperazione di questa diversa impostazione
giuridica è prevalente in ambito penale, laddove in civile,
l’impossibilità a comprovare da parte del medico il suo corretto
operato porta a sentenze che hanno inserito nel diritto il principio
di una riconosciuta responsabilità in base alla sola presunzione di
colpa”.
Il comportamento medico ritenuto censurabile è caratterizzato dal
verificarsi di un evento avverso, il quale di per sé non sempre
configura un errore ma più spesso è l’effetto di una complicanza
che non consegue necessariamente ad un comportamento
colposo.
Il danno che configura colpa medica e responsabilità professionale
è invece quello che consegue ad un errore: quest’ultimo può
essere scusabile o inescusabile e solo di quest’ultimo il sanitario
risponde in sede giudiziaria.
A questo punto è d’obbligo fare una distinzione tra l’errore
medico e la complicanza.
Si definisce “errore medico” un’omissione di intervento, o un
intervento inappropriato, a cui consegue un evento avverso
clinicamente significativo. Rientra nella definizione il concetto che
non tutti gli eventi avversi sono dovuti ad errori, ma solo quelli
evitabili. La stima della frequenza degli errori è difficile: uno degli
ostacoli maggiori è il timore di conseguenze amministrative o
medico-legali, che spinge chi ha commesso un errore a negarlo e
comunque a non comunicarlo; inoltre, non sempre è facile
stabilire se un evento avverso sarebbe stato evitabile (e dunque
dovuto a errore) oppure no.
L’ostacolo alla dichiarazione degli errori
è il timore
di
provvedimenti punitivi o di conseguenze medico-legali; sarebbe
dunque necessario un sistema che consentisse di mantenerli
confidenziali.
La complicanza invece è un evento negativo che può anche non
dipendere
necessariamente
dal
comportamento
sbagliato
dell’operatore sanitario.
Gli studi sull’errore in medicina si concentrano prevalentemente
sugli eventi avversi consecutivi a trattamenti inappropriati o
sull’omissione di interventi necessari; si tratta cioè di errori
terapeutici. Gli errori di diagnosi conducono a eventi avversi in
modo indiretto, per conseguenti interventi terapeutici sbagliati o
per omissione o ritardo di interventi necessari. L’idea tradizionale
che l’errore è dovuto alla colpa individuale di chi lo commette
genera due effetti negativi. Primo, chi commette un errore tende a
nasconderlo, e non certo a dichiararlo spontaneamente; secondo,
nella prevenzione degli errori si ignora la corresponsabilità, spesso
preminente, delle cause remote. Nella concezione attuale si
distinguono tre livelli causali degli errori medici:
• cause remote;
• cause immediate, dovute all’errore del singolo operatore;
• insufficienza o fallimento dei meccanismi che avrebbero dovuto
impedire le conseguenze negative dell’errore. L’errore quindi non
deve essere attribuito solo e unicamente alla persona che l’ha
commesso ma concorrono al verificarsi di questo difetti
organizzativi, carenze strutturali e di attrezzature, carico di lavoro
eccessivo
o
maldistribuito,
mancata
supervisione,
cattiva
comunicazione fra operatori e altri fattori. Anche i difetti di
competenza clinica e di esperienza dei singoli operatori derivano
in parte da errori a monte, quali la mancanza di programmi di
educazione continua e il cattivo coordinamento fra operatori
esperti e novizi.
Cause remote di errore in medicina
1. Carico di lavoro eccessivo
2. Supervisione inadeguata
3. Struttura edilizia dell’ambiente di lavoro o tecnologie
inadeguate
4. Comunicazione inadeguata fra operatori
5 Competenza o esperienza inadeguate
6. Ambiente di lavoro stressante
7. Recente e rapida modificazione dell’organizzazione di lavoro
Da BMJ 1998;316:1154-7 (18)BOX 1
BOX 2
Cause immediate di errore in medicina dovute all’operatore
1. Omissione di un intervento necessario
2. Errori per scarsa attenzione, negligenza
3. Violazioni di un procedimento diagnostico o terapeutico
appropriato
4. Inesperienza in una procedura diagnostica o terapeutica
invasiva definita
5. Difetto di conoscenza
6. Insufficiente competenza clinica
7. Insufficiente capacità di collegare i dati del paziente con le
conoscenze acquisite
8. Prescrizione:
a. ricetta illeggibile
b. spiegazioni insufficienti e compliance insufficiente
Da BMJ Publ Group 1995:31-54, sintesi (16) e da BMJ 1998;316:1154-7 (18)
4.1 PREVENZIONE DI ERRORI E COMPLICANZE
Per evitare il verificarsi di complicanze legate all’intervento è
opportuno innanzitutto fare una buona diagnosi utilizzando tutti
gli strumenti a disposizione, per accertarsi che non ci siano
condizioni sistemiche o locali che possano influire negativamente
sull’operato del professionista.
Un’ attenta pianificazione del trattamento e un’esecuzione
dell’intervento precisa e coerente con le linee guida relative ad
esso concorrono al raggiungimento dello scopo voluto senza il
verificarsi di complicanze.
È importante però ricordare che le complicanze possono
verificarsi anche nel periodo postoperatorio quindi è compito
dell’operatore informare il paziente degli accorgimenti che
dovrà seguire una volta dimesso e monitorare l’andamento della
situazione clinica periodicamente.
Per quanto riguarda l’errore invece le strategie di prevenzione
devono essere pluridirezionali.
È stata sottolineata recentemente l’importanza di una migliore
conoscenza della tipologia degli errori medici, per ottenere la
quale sarebbe necessario istituire sistemi che consentano ai
medici di riportare i propri errori in anonimo e con la garanzia
della riservatezza.
Nell’attuale ottica sistemica di riduzione dell’errore la strategia
più semplice di prevenzione appare quella di progettare sistemi
che proteggano gli operatori dagli errori cognitivi, rendendoli
più visibili e intercettabili.
Partendo dal presupposto che gli errori non possono essere del
tutto debellati, la loro riduzione è tuttavia conseguibile
attraverso opportune modifiche di sistema:
 riduzione della complessità dei compiti: eliminazione delle
tappe
non
necessarie,
miglioramento
delle
informazioni,
uniformazione delle procedure;
 ottimizzazione del sistema informativo: adozione di liste di
controllo, protocolli, procedure scritte;
 introduzione di procedure automatizzate finalizzate al
miglioramento qualitativo del sistema;
 progettazione ed introduzione di barriere protettive: fisiche,
procedurali (eliminazione delle sostanze pericolose), culturali
(eliminazione delle abbreviazioni con obbligo di redazione di
una prescrizione completa);
 la costruzione e il mantenimento di una cultura della
sicurezza;
 limitazione dei danni: pronto riconoscimento dell’errore e sua
visibilità, prevenzione dell’eventuale danno, monitoraggio delle
situazioni a rischio.
5.
LINEE
GUIDA
IN
IMPLANTOLOGIA:
LA
DOCUMENTAZIONE DEL CASO E LA COMUNICAZIONE COL
PAZIENTE: DALLA PRIMA VISITA AI RICHIAMI
L’implantoprotesi, nell’ultimo decennio, ha avuto una grande
diffusione. Sono tanti gli operatori che si dedicano a questa
specialità e sempre di più i pazienti che vi ricorrono in alternativa
alla protesi convenzionale. L’ampia diffusione di questa metodica
rende necessario uniformare, oltre ai protocolli operativi, anche il
modo di comunicare col paziente e la gestione della cartella
clinica. Tutto ciò è mirato ad avere sempre sotto controllo tutte le
fasi cliniche. L’esperienza operativa ci consente di prevenire e
trattare i problemi chirurgici e protesici, ma una corretta gestione
della documentazione, sia iconografica che clinica, rende possibile
una migliore comunicazione e facilita la gestione di un eventuale
contenzioso.
Le
schematicamente:
linee
guida
possono
essere
riassunte

informazione al paziente sull’implantologia in generale
durante la prima visita (presupposti,
fasi cliniche chirurgiche e
protesiche, periodicità e importanza dei controlli) e sui possibili
fallimenti e loro cause;

adattabilità dell’implantologia al singolo caso: illustrare
benefici, rischi e possibili alternative protesiche, fare un’ accurata
anamnesi generale e odontoiatrica, valutare lo stato di salute,
l’eventuale assunzione di farmaci, l’abitudine al fumo; a questo
punto si procede con l’esame obiettivo stomatologico che
permette di valutare lo stato dei tessuti molli, lo stato e il numero
degli
elementi
presenti,
le
condizioni
dell’articolazione
temporomandibolare. L’obbiettivo di questa due fasi preliminari è
informare sulle possibilità del trattamento implanto-protesico,
ponendo in giusto risalto i benefici e le possibilità di fallimento.
Una volta deciso di intraprendere il trattamento implantoprotesico è bene fare degli esami utili alla documentazione clinica:
impronte di studio, fotografie intraorali, dei settori frontali e
laterali e delle particolari zone di interesse clinico, radiografie
(OPT, endorali, TC con dentascan o RMN secondo la complessità
del caso o della zona d’intervento).
Obiettivo di questa fase è documentare il caso in maniera
completa: ciò aiuta sia nella comunicazione con il paziente sia
nella preparazione della fase chirurgica.

fase prechirurgica: realizzare modelli di studio e ceratura
diagnostica, compilare il consenso informato personalizzato e
dettagliato con le varie fasi, illustrare al paziente la diagnosi con le
componenti cliniche ed estetiche e le fasi dell’intervento, istruire
sulle norme da osservare prima dell’intervento, consegnare una
copia del consenso informato, far sottoscrivere la copia da
conservare,
consegnare
la
ricetta
con
le
prescrizioni
farmacologiche e le norme post-intervento. È buona norma, la
sera dopo l’intervento e nei giorni seguenti, informarsi sulla salute
del paziente e sul buon andamento della convalescenza.
richiami postchirurgici da effettuare ogni mese per i controlli
obiettivi e radiografici fino alla fase protesica. Ad ogni controllo è
opportuno riportare sul diario clinico le osservazioni quali: il
mantenimento di una corretta igiene orale, il buon andamento
dei processi di guarigione, eventuali complicanze e prescrizioni
farmacologiche…

fase protesica: alla consegna del provvisorio sono utili le
raccomandazioni sul tipo di igiene e sulle precauzioni da
osservare. È importante documentare con foto e rx la fase
protesica. I controlli prima del definitivo devono essere eseguiti
periodicamente e annotate sul diario clinico le osservazioni.

richiami dopo la fase protesica: alla consegna del definitivo
il paziente deve essere invitato ai controlli periodici, che devono
avvenire, nel suo interesse, secondo i protocolli attuali, dopo il
primo mese, dopo 3 mesi e ogni 6 mesi.
L’ obbiettivo è far capire al paziente l’importanza della terapia
terminata e che solo il rispetto delle prescrizioni e la puntualità
nei controlli sono necessari alla durate nel tempo e a prevenire e
a trattare in modo semplice e immediato eventuali problemi.
6. MALPRACTICE E MEDICINA DIFENSIVA
La malpractice medica è “la cattiva condotta per scarsa abilità o
negligenza che provoca danni al paziente” (The American
Heritage Dictionary).
È necessario riconoscere che, a monte della questione della
malpractice (mala praxis = cattiva condotta) e della crescente
problematicità della sua gestione, c’è una crisi del rapporto
fiduciario alla base della relazione fra paziente e medico e di
quello, più in generale, dei cittadini nei confronti della sanità,
pubblica e privata.
Se i messaggi dei media, da una parte, alimentano nei cittadini
grandi aspettative circa i traguardi sempre più avanzati raggiunti
dalla medicina in ogni settore, se crescono il consenso e la
partecipazione ad iniziative solidaristiche anche di massa a
sostegno della ricerca, d’altro canto, gli stessi mezzi di
comunicazione danno sempre più frequentemente spazio e risalto
a notizie di cronaca nelle quali i pazienti sono vittime di errori
medici di grande gravità, spesso del tutto ingiustificabili. Tutto ciò
getta, comprensibilmente, il mondo degli utenti dei servizi sanitari
in uno stato di profondo disorientamento.
Ma anche per i professionisti della sanità, compressi tra la ricerca
delle migliori cure per il paziente, le disposizioni spesso
paralizzanti degli organi di amministrazione in un regime di tagli
alla spesa sempre più invasivi, la fallibilità umana e la litigiosità in
aumento, il momento è incerto e sicuramente difficile. Lo
testimoniano l'incremento del numero di denunce presso
l’autorità giudiziaria contro i medici per i loro presunti errori (le
cifre per l’Italia, secondo un’indagine dell’ANIA vanno dalle
17.000 denunce dei medici nel 1996 alle 28.000 del 2006, con un
aumento del 66%") e la continua pressione di stampa e
televisione, a volte, responsabili di operazioni a carattere
marcatamente scandalistico.
Il tema della malpractice sanitaria, dunque, è fatto di due aspetti
inscindibili: quello del paziente, che sente diminuire drasticamente
la fiducia nei confronti della sanità e dei medici e teme che sia
negato il proprio diritto costituzionale alla tutela della salute e
quello del medico, per il quale essere sottoposto ad un giudizio
produce danni pesanti, perfino incancellabili dal punto della
credibilità professionale, anche nel caso di una piena assoluzione.
Tra i medici italiani oggi in Italia, molto più che in passato, la
paura di un contenzioso dilaga. Infatti l'87,6% di essi ritiene che il
rischio di ricevere un esposto o una denuncia da parte dei pazienti
sia oggi più elevato. Questa percentuale, quasi plebiscitaria,
emerge dall'indagine “Medici in difesa, prima ricerca del
fenomeno in Italia: numeri e conseguenze”, commissionata
dall'Ordine dei medici della Provincia di Roma e condotta su 800
camici bianchi attraverso dei questionari. A stupire di più sono i
dati scorporati per provenienza dei medici o specialità. Infatti a
sentirsi potenzialmente “a rischio” è il 93,8% di chi lavora negli
ospedali pubblici, soprattutto gli anestesisti (96,8%), i chirurghi
(98,9%) e il totale di ortopedici e ginecologi. La percezione del
rischio è tale che solo il 6,7% dei sanitari si sente di escludere la
probabilità di una denuncia a suo carico. I timori maggiori, rivela
lo studio, toccano i giovani medici fino ai 34 anni e gli uomini in
generale. Le paure di vedersi citare in tribunale sono tali da far
ritenere all'89,8% dei medici molto rischioso, oggi, affidarsi alla
sola analisi clinica e non anche a quella tecnologica, per formulare
una diagnosi. Da qui il proliferare di prestazioni mediche e
ricoveri, oltre che di ricette di farmaci, con l'obiettivo di non
assumersi troppe responsabilità.
Queste dinamiche sono alla base del prodursi del meccanismo
perverso noto come “medicina difensiva”.
Questo meccanismo è costituito dalla sistematica e consapevole
prescrizione di farmaci, procedure terapeutiche o accertamenti
diagnostici non necessari alla salute del paziente (si parla in questo
caso di tipologia positiva o commissiva), ovvero dalla tendenza
ad evitare prestazioni ad alto rischio (tipologia negativa od
omissiva), al solo fine di prevenire denunce giudiziarie, ma con
ovvie ripercussioni negative, non solo sulla salute del paziente, ma
anche sul piano dei costi.
Secondo la definizione di Fiori “la medicina difensiva è
identificabile in una serie di decisioni attive od omissive,
consapevoli ma non di rado inconsapevoli o non specificatamente
meditate, che non obbediscono al criterio essenziale del bene del
malato nel rispetto di un equilibrato rapporto costo beneficio,
bensì all’intento di evitare accuse per non aver effettuato tutte le
indagini e tutte le cure conosciute o al contrario per aver
effettuato trattamenti gravati da alto rischio di insuccessi e
complicanze” 25.
Nella sua versione negativa-omissiva, questa pratica, diffusissima
all’estero, arriva a spingersi al progressivo abbandono di
particolari specializzazioni, considerate troppo rischiose. Dal
punto di vista dei pazienti, ciò significa, nei casi con bassa
probabilità di successo o con alto tasso di rischiosità, vedersi
negato addirittura il diritto alla cura.
Anche in assenza di dati e stime ufficiali che traccino con certezza i
confini del fenomeno, è opinione comune che negli ultimi anni le
accuse di negligenza professionale in campo sanitario siano
aumentate vertiginosamente.
La causa dell’aumentata litigiosità non è, però, da ricercarsi nella
riduzione della qualità delle prestazioni professionali del sanitario.
Sicuramente è aumentata la coscienza dei pazienti e la loro
attenzione nei confronti del personale sanitario; ma si ritiene che
in alcuni casi le aspettative dei pazienti nei confronti della
medicina possano essere eccessive, e quindi deluse. Il paziente,
insomma, non si considera più oggetto di trattamenti terapeutici,
ma soggetto titolare di diritti che egli vuole vedere garantiti nel
proprio interesse ed in quello della collettività.
D’altro canto, al di là degli esiti in merito alla effettiva
responsabilità, il procedimento giudiziario provoca di per sé ai
medici spesso seri danni sul piano dell’immagine, sul piano
economico e anche su quello morale.
In tale quadro, le Compagnie Assicuratrici mostrano un chiaro
fenomeno di progressivo allontanamento dal settore sanitario.
Infatti, è evidente il fenomeno di riduzione del numero di
Compagnie che operano polizze assicurative professionali per i
medici e per le strutture sanitarie.
L’insieme di questi fattori ha generato lo stravolgimento del
rapporto medico-paziente, ora pervaso da reciproca diffidenza,
tanto da sembrare ormai diffuso il principio che la salute dei
cittadini debba essere salvaguardata più da un controllo assiduo
della magistratura che dalla professionalità del medico.
Opinione comune è che la causa dell’aumento delle denunce per
malpractice sanitaria vada ricercata nella carenza di rapporto di
fiducia tra medico e paziente. Diventa così di primaria importanza
favorire le condizioni di una ritrovata fiducia verso i medici da
parte dei pazienti.
In tale contesto, per porre un freno al contenzioso dilagante e
offrire un aiuto concreto ai medici e pazienti, l'Ordine Provinciale
di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri ha avviato, in
via sperimentale, il Progetto Accordia (di cui parleremo meglio in
seguito), incentrato sulla costituzione di uno Sportello di
Conciliazione come strumento per migliorare il rapporto medicopaziente,tutelando, da una parte, il decoro e l'immagine del
professionista e dall'altra la salute del cittadino.
D’altronde, il decreto istitutivo dell’Ordine (D.Lgs.C.P.S. 13
settembre 1946, n. 233 Ricostituzione degli Ordini delle
professioni sanitarie e per la disciplina dell'esercizio delle
professioni) elenca, all’articolo 3, lett. 9, tra le funzioni spettanti
al Consiglio direttivo di ciascun Ordine proprio quella di
“interporsi, se richiesto, nelle controversie fra sanitario e sanitario,
o fra sanitario e persona o enti a favore dei quali il sanitario abbia
prestato o presti la propria opera professionale, per ragioni di
spese, di onorari e per altre questioni inerenti all'esercizio
professionale, procurando la conciliazione della vertenza e, in
caso di non riuscito accordo, dando il suo parere sulle
controversie stesse”.
6.1 IL “PROGETTO ACCORDIA”
Per far fronte al fenomeno degenerativo della litigiosità, dal forte
impatto sociale,
l'Ordine Provinciale di Roma dei Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri ha lanciato, in via sperimentale, la
costituzione di uno Sportello di Conciliazione, allo scopo di
accogliere ed esaminare gratuitamente le denunce dei cittadini per
indirizzarle a una soluzione bonaria e di trasmettere le domande
di conciliazione, che presentassero una serie di requisiti, alla
Camera di Conciliazione istituita dall'Ordine degli Avvocati di
Roma e dalla Corte di Appello di Roma, così da ottenere una
proposta di composizione in tempi estremamente brevi se
paragonati a quelli della giustizia ordinaria: novanta giorni a
fronte di numerosi anni.
Lo Sportello ha raccolto le esperienze dei cittadini in relazione al
loro rapporto con la sanità, soffermandosi, in particolare, sulle
segnalazioni di errori e carenze delle prestazioni mediche nonché
eventuali testimonianze di episodi di buona sanità; ha costituito
un punto informativo sul mondo sanitario offrendo sia ai medici
sia ai cittadini la possibilità di risolvere in via amichevole le
controversie tra loro insorte tramite la conciliazione.
Il progetto, realizzato per la prima volta in Italia, ha avuto
carattere assolutamente innovativo.
I principali elementi di novità sono rappresentati:
 dalla convergenza di due ordini professionali in un programma
di tutela diffusa dei diritti (tanto quelli dei pazienti, quanto quelli
dei medici);
 dall’approccio teso al dialogo, alla consulenza e all’incontro e
non all’esasperazione della conflittualità;
 dalla disponibilità di Compagnie di Assicurazione di primaria
importanza che, accettando di intraprendere un percorso che va
ben al di là delle tradizionali logiche assicurative, hanno stipulato
una convenzione con l’Ordine dei Medici, in base alla quale esse
si sono impegnate a partecipare al progetto Accordia quando
fosse interpellato un medico loro assicurato.
Lo Sportello di Conciliazione è stato aperto a tutti i cittadini che
ritenessero di essere rimasti vittima di episodi di malasanità la cui
responsabilità fosse imputabile esclusivamente al medico.
Obiettivo primario del progetto è stato, infatti, quello di creare
un punto di ascolto e di raccolta delle segnalazioni dei pazienti,
nel quale essi potessero confidarsi e confrontarsi con personale
specializzato, competente e motivato, sugli aspetti concreti della
negligenza professionale sanitaria.
Attore importante del progetto è stata la Commissione Tecnica,
composta da quattro membri effettivi, due avvocati e due medici
legali alla quale è spettato il compito di valutare le richieste
pervenute allo Sportello, esprimendo un parere sulla possibilità di
procedere ad una definizione amichevole della controversia.
In particolare, le domande di conciliazione dovevano rispettare
alcune
caratteristiche, quali:
 riguardare il rapporto professionale medico-paziente, con
espressa esclusione di strutture pubbliche o private eventualmente
coinvolte nel rapporto di lavoro;
 le liti dovevano avere natura civilistica e quindi sono state
escluse tutte le controversie di natura penale;
 il valore della richiesta di risarcimento non doveva superare i
25.000 euro;
 le controversie oggetto della conciliazione non dovevano
essere state precedentemente denunciate con formale lettera di un
legale o sottoposta all’Autorità Giudiziaria Ordinaria.
In caso di riscontro positivo da parte della Commissione Tecnica,
il paziente e il medico hanno avuto la possibilità incontrarsi con
un Conciliatore nominato dalla Camera di Conciliazione, organo
istituito dall'Ordine degli Avvocati di Roma e dalla Corte di
Appello di Roma con lo scopo di favorire una rapida
conciliazione preventiva delle liti, evitando il ricorso automatico
all' Autorità Giudiziaria Ordinaria.
La procedura di conciliazione è basata su una Convenzione
stipulata tra la Camera di Conciliazione di Roma e l'Ordine
Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri,
orientata alla definizione extragiudiziaria delle controversie tra i
medici iscritti all'Ordine di Roma e i cittadini, al fine di migliorare
il rapporto medico-paziente, tutelando da una parte il decoro e
l'immagine del professionista e dall'altra i diritti del cittadino.
Inoltre, la Convenzione prevede che la risoluzione delle
controversie tra il medico e il paziente gratuitamente ed in tempi
brevi (massimo novanta giorni dalla presentazione delle domande
di conciliazione).
È fondamentale sottolineare che tutto il meccanismo messo in
moto da Accordia ha una base di adesione puramente volontaria.
Il medico o la compagnia assicuratrice, infatti, sono liberi di
aderire o meno al progetto e anche, nel caso di adesione, la
proposta di conciliazione avanzata in sede di Camera di
Conciliazione può essere rifiutata, tanto dal medico, quanto dal
paziente e non preclude in alcun modo la possibilità, da parte di
entrambi, se insoddisfatti, di ricorrere alla giustizia ordinaria.
I servizi dello Sportello sono totalmente gratuiti, poiché i costi
sono sostenuti dall'Ordine Provinciale di Roma dei Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri e dalle Compagnie Assicuratrici che
hanno aderito al progetto.
Le uniche spese a carico del cittadino sono quelle relative agli
onorari del legale da cui egli decida eventualmente di farsi
assistere.
I tempi della procedura sono serrati, per permettere una veloce
risoluzione del problema. Infatti, entro 30 giorni dal contatto, lo
Sportello verifica la completezza della documentazione e la
disponibilità del medico a partecipare alla procedura conciliativa.
In seguito, la domanda presentata dal cittadino, unitamente al
carteggio fornito dal sanitario, viene trasmessa alla Commissione
Tecnica,
che
la
esamina,
valutandone
la
fondatezza
e
l'ammissibilità secondo i requisiti stabiliti dalla Convenzione per la
conciliazione ed esprime entro 30 giorni un parere sulla possibilità
di procedere alla definizione amichevole della controversia.
Nell’ipotesi in cui le parti non giungano ad un accordo, il
Conciliatore redige un verbale di mancato accordo, precisandone
le ragioni. Le parti rimangono, pertanto, libere di procedere in
altro modo ed eventualmente di adire l'Autorità Giudiziaria
Ordinaria.
Si evince dai primi sommari dati acquisiti che il progetto è riuscito
nel suo intento di realizzare un luogo di ascolto, di incontro e di
mediazione tra le legittime aspettative dei cittadini e i problemi
concreti affrontati quotidianamente dal medico nell'esercizio della
professione.
Inoltre, la conciliazione si è rivelata una soluzione tecnica che, pur
garantendo il risarcimento degli eventuali danni, indirizza il
conflitto sulla via dell’accordo e della pacificazione tra medico e
paziente, senza che si verifichi una rottura dei rapporti.
Si tratta di risultati che incoraggiano a proseguire l’esperienza,
certo con indispensabili correttivi, ma anche con significativi
ampliamenti, sempre in collaborazione con l’Ordine degli
Avvocati, la Camera di Conciliazione e le Compagnie Assicuratrici.
7. CASI CLINICI
Caso 1
Paziente di 40 aa.
Si presenta alla osservazione con una protesi definitiva in lega
aurea-ceramica eseguita circa 15 anni prima. L’obiettivo richiesto
era di ricreare la condizione naturale con impianti osteointegrati
nelle zone edentule al fine di ottenere una riabilitazione con
elementi singoli.
La pLa paziente, aveva
eseguito, presso un altro sanitario, degli innesti ossei nelle zone
edentule per correggere l’atrofia marcata. Nonostante tale
procedura, il guadagno osseo non era stato eccellente (Rx).
Il chirurgo ha comunque inserito gli impianti in dette zone, con il
risultato di un elevato inestetismo in corrispondenza della zona
2.1,2.2.
Insoddisfatta del risultato
ha richiesto il risarcimento
per il danno subito,
poiché ha dovuto ricorrere
di
nuovo allo stesso tipo di
protesi fissa preesistente. Il
tribunale ha parzialmente
accolto
la
richiesta,
valutando una carenza di
consenso
informato
e
condannando il sanitario alla sola restituzione della parcella
riguardante la terapia implantoprotesica, laddove non aveva avuto
successo, ma non accogliendo la tesi dei danni, in quanto non c’era
stato un esito peggiorativo dal precedente stato.
Caso 2
Paziente di 55 aa,
l’obiettivo della terapia era di inserire impianti in zona 4.5, 4.6 a
supporto di una protesi fissa (rx). Per un errore chirurgico, gli
impianti erano stati inseriti
parzialmente
nel
canale
mandibolare, ma durante la
preparazione del sito era
stato
sezionato
il
n.
mandibolare, con
conseguente parestesia.
La
rimozione
delle
fixture non aveva sortito
alcun effetto sulla ripresa
della
sensibilità
a
distanza di 4 anni, per
cui la paziente chiedeva
il risarcimento dei danni.
Il giudice accoglieva la
richiesta, condannando il
dentista per imperizia e
imprudenza, per l’errore tecnico e per negligenza per non aver
prescritto tutte le indagini radiologiche necessarie. Inoltre
nell’ammontare dei danni è stato quantificato un 6% di invalidità,
per la lesione del nervo alveolare, in primis e per la necessità di
ricorrere ad una terapia protesica diversa da quella stabilita, stante
l’impossibilità all’inserimento di nuovi impianti nella stessa zona
per la vasta distruzione ossea creata dalla rimozione obbligatoria
delle fixture.
CONCLUSIONI
Gli operatori sanitari e soprattutto gli odontoiatri devono chiarire
a loro stessi e ai loro pazienti, che è l’etica la colonna portante
della loro professione.
Una qualsiasi manovra diagnostica e terapeutica che eseguono su
un paziente dovrebbe essere sempre preceduta dalla domanda se
tale procedura è sostenibile e indicata. Il modo più semplice per
capirlo in tutta onestà è porsi la domanda se essi stessi si
sottoporrebbero a quanto propongono oppure no. Spesso gli
odontoiatri si sono dedicati a cavilli e orpelli marginali della loro
professione perdendo di vista il rapporto etico e morale con i
pazienti. Questo terreno va sicuramente recuperato e in fretta,
poiché il rapporto tra medico e paziente si basa sulla reciproca
fiducia. Per dare tale fiducia ai nostri pazienti bisogna sapersi
comportare in modo corretto.
Da un articolo pubblicato su Andkronos salute del 24 settembre
2008 emerge che il 60% dei medici, in una o più occasioni, ha
prescritto farmaci o a eseguito dei trattamenti in un'ottica di
medicina difensiva.
Questo uno dei dati che emerge dall'indagine “Medici in difesa,
prima ricerca del fenomeno in Italia: numeri e conseguenze”,
commissionata dall'Ordine dei medici della Provincia di Roma e
condotta su 800 camici bianchi attraverso questionari. Solo il
39,3% dei medici intervistati, infatti, dichiara di non essere mai
stato spinto a compilare ricette dalla paura di incorrere in guai
giudiziari. Il 41,3%, invece dichiara di non averlo fatto quasi mai
(uno o due casi su 10), il 13,6% talvolta (3-4 casi su 10) e il 5,8%
spesso, cioè oltre 4 volte su 10.
1
2
3
4
1. 39,3% - mai
2. 41,3% - 1/2 casi su 10
3. 13,6% - 3/4 casi su 10
4. 5,8% oltre 4 casi su 10
Questi dati appaiono sconcertanti ma non sono altro che il
risultato dell’alterato rapporto di fiducia medico-paziente che si è
andato modificando in questi ultimi anni: da una parte, a causa
dell’informazione talora non corretta o troppo superficiale dei
mass media, i pazienti alimentano delle speranze nei confronti
delle nuove tecnologie che spesso vengono deluse il che li porta
ad aprire una lotta contro il medico che, secondo la loro ottica,
non è riuscito a dargli il risultato voluto; dall’altra i medici hanno
perso di vista il lato umanitario della loro professione basato su
un rapporto di ascolto e di fiducia nei confronti delle persone che
gli stanno davanti, di dialogo e di comprensione, allontanando
così i pazienti e facendo aumentare in loro la diffidenza. I
contenziosi hanno spesso alla base una mancata comunicazione
tra medico e paziente, il quale abbandonato a se stesso non
esiterà e citarlo in giudizio nel momento in cui non vedrà
soddisfatte le sue aspettative.
D’altro canto invece, un medico che instaura un buon dialogo con
paziente, che gli spiega tutte le eventuali complicanze e gli
eventuali insuccessi della terapia che stanno per intraprendere, che
ascolte le sue esigenze e le sue preoccupazioni si troverà davanti
un paziente informato e consapevole e sicuramente predisposto
ad accettare e capire l’eventuale esito negativo della terapia senza
attribuire la colpa di non aver fatto a aver fatto male al
professionista.
Il modo migliore per concludere questo lavoro è senz’altro citare
questa massima:
“… se ti proponi come un Dio, non ti lamentare se quando
piove se la prendono con te…”
(Anonimo)
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