LA POESIA 1. IL VERSO La poesia, come forma letteraria, ha una caratteristica sua propria che la distingue, anche visivamente, da tutte le altre: la distribuzione delle parole in versi. L’effetto ottico di quelle righe, più o meno brevi, che non raggiungono mai il margine della pagina e lasciano ampi spazi bianchi, è indubbiamente una componente essenziale del testo poetico e, anzi, è il fondamento stesso dell’ “effetto-poesia”. Il verso (dal latino vertere = “andare a capo”) è dunque l’unità fondamentale della poesia; esso consiste in una serie di sillabe e viene scandito, cioè suddiviso, da accenti ritmici che si trovano in posizioni codificate. I versi si distinguono in base al numero di sillabe che li compongono. Nella poesia italiana sono molto usati i versi quinari (di 5 sillabe), settenari (di 7 sillabe), novenari, decasillabi, endecasillabi (rispettivamente di 9, 10, 11 sillabe). Per poter riconoscere correttamente i versi, devi tener presente alcune regole: 1) Quando l’ultima parola del verso è tronca, cioè ha l’accento sull’ultima sillaba, devi contare una sillaba in più; quando invece l’ultima parola del verso è sdrucciola, cioè ha l’accento sulla terzultima sillaba, devi contare una sillaba in meno. Osserva questi due esempi: / col / suo / san / gue / la / tin / ta / da / rà / 1 2 3 4 5 6 7 8 9-10 Questo verso è formato da 9 sillabe, ma è decasillabo perché l’ultima sillaba appartiene a una parola tronca, e quindi “vale doppio”. / spar / sa / le / trec / ce / mor / bi / de / 1 2 3 4 5 6 7 8 Questo verso è formato da 8 sillabe, ma è un settenario, perché l’ultima sillaba “non vale”, in quanto la parola ‘morbide’ è sdrucciola. 2) Quando vi sono due o più vocali di seguito, all’interno di una stessa parola o tra parole vicine, devi contare le sillabe tenendo presente che: a) due vocali contigue entro una stessa parola possono contare come due sillabe diverse; in questo caso si ha la dieresi, una figura metrica spesso segnata con due puntini sulla prima vocale (visïone, ïo, ad esempio, andranno così divise: vi / si / o / ne, i / o); b) la sillaba finale di una parola terminante per vocale può unirsi con la sillaba iniziale della parola successiva, se essa inizia per vocale. In questo caso è in azione un’altra figura metrica, chiamata sinalefe. Osserva questo esempio: / dol / ce e / chia / ra è / la / not / te e / sen / za / ven / to / 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Questo verso è un endecasillabo. Se noi però non avessimo applicato la regola della sinalefe e avessimo contato le sillabe normalmente, ne sarebbero risultate ben 14! 2. IL RITMO Ogni componimento poetico ha un suo ritmo, una sua musicalità che è parte integrante del significato della poesia stessa e produce nel lettore impressioni particolari, proprio come avviene nella musica. Un ritmo fortemente scandito, magari sottolineato dalle rime, o invece un ritmo meno avvertibile, un ritmo ampio e disteso o invece un ritmo spezzato, con versi di lunghezza varia, suscitano nel lettore reazioni differenti. Anche per questo, le poesie andrebbero sempre lette ad alta voce, per apprezzarne gli aspetti sonori. Il ritmo è segnato non solo dalla lunghezza dei versi e dalle figure metriche, ma anche dagli accenti, oltre che dalle pause interne al verso (le cesure), dalla rima e dalle figure di suono (come l’allitterazione e l’onomatopea). Esso, inoltre, dipende anche dal tipo di parola scelto; ad esempio, le parole monosillabiche o bisillabiche possono rallentare il ritmo, mentre quelle più lunghe o sdrucciole lo accelerano. 2.a. Gli accenti ritmici e le pause Si chiamano accenti ritmici o ictus quei particolari accenti che all’interno del verso marcano alcune sillabe rispetto a certe altre. I versi hanno in genere un accento fisso sulla penultima sillaba, mentre uno o più altri accenti sono mobili, possono cioè variare. Si chiama cesura (dal latino = ‘taglio’) una pausa interna al verso, che si colloca dopo un accento particolarmente marcato (il suo effetto principale è quello di interrompere il verso dando un’intensità maggiore a ciò che precede e un tono meno sonoro a ciò che segue). Vi sono versi a ritmo sempre uguale (ad esempio il decasillabo) o invece molto vari (ad esempio il novenario e l’endecasillabo). Osserva questi due esempi: / S’o / de a / dé / stra u / no / squíl / lo / di tróm / ba; / / a / si / ní / stra / ri / spón / de u / no / squíl / lo: / / d’ am/ bo i / lá / ti / cal / pé / sto / ri m / bóm / ba / / da / ca / vál / li e / da f án / ti il / ter / rén. / / Quin / ci / spún / ta / per / l’á / ria un / ves / síl / lo; / / quin / di u / n ál / tr o / s’a / ván / za / spie / gá / to: / / ec / co ap / pá / re un / drap / pél / lo / schie / rá / to; / / ec / co u / n ál / tro / che in / còn / tro / gli / vién. / (A. Manzoni, Il Conte di Carmagnola) / Nel / méz / zo / dél / cam / mìn // di / nò / stra / vì / ta / / mi / rì / tro / vài // pe / r ù / na / sèl / va o / scù / ra / / che / là / di / rìt / ta / vì // a e / rà / smar / rì / ta. / (Dante, Inferno) Individua in quale dei due casi il ritmo è sempre uguale, così che potremmo anche “cantare” la strofe, in quale invece il ritmo varia. Tieni anche conto che la // indica una cesura, cioè una pausa interna al verso. Tutto questo ti può sembrare noioso, ma devi riflettere che la poesia si basa su queste convenzioni, così come la musica si basa sulla lunghezza delle battute e sulla durata delle singole note; il poeta applicando sapientemente queste regole, può rendere il ritmo del verso più veloce (come nel caso di / S’o / de a / dé / stra u / no / squíl / lo / di tróm / ba; / ) o più ampio e disteso (come nel caso di / dol / ce e / chia / ra è / la / not / te e / sen / za / ven / to / ) ed arricchire o sottolineare il significato di ciò che viene dicendo. 3. LA RIMA La rima consiste nell’identità della parte terminale di due o più parole a partire dall’ultima vocale accentata. La rima è dunque una ripetizione fonetica (di suono) che svolge anche una funzione ritmica. In realtà, la sua funzione è assai complessa e non si riduce alla ripetizione ritmica di suoni. Infatti, grazie a questa ripetizione che funziona come una eco, vengono collegati nella nostra percezione acustica i significati corrispondenti alle parole situate appunto in posizione di rima. In questo modo si potranno creare tra quei significati rapporti di analogia o di contrasto e comunque di arricchimento del senso complessivo. Secondo l’ordine in cui si succedono, le rime possono essere. - baciate (AA, BB, CC ecc.): Nella Torre il silenzio era già alto. Sussurravano i pioppi del Rio S alto. I cavalli normanni alle lor p oste frangevan la biada con rumor di croste (Pascoli) - alternate (AB, AB, CD, CD ecc.) O tu che dormi là su l a fiorita Collina tosca, e ti sta il padre a c anto; Non hai tra l’erbe del sepolcro ud ita Pur ora una gentil voce di pi anto? (Carducci) - incrociate (ABBA, CDDC ecc.) Solo e pensoso i più deserti c am pi vo mesurando a passi tardi e l enti, e gli occhi porto per f uggire int enti ove vestigio uman l’arena st am pi. (Petrarca) - incatenate (ABA, BCB, CDC ecc) Siede la terra dove nata f ui sulla marina dove ‘l Po disc ende per aver pace co’ seguaci s ui. Amor, ch’al cor gentil ratto s’appr ende , prese costui della bell a persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’off ende . Amor ch’ a nullo amat o amar perd ona mi prese del costui piacer sì f orte, che, come vedi, ancor non m’abband ona. (Dante) Le rime furono importantissime nella poesia moderna (XIII – XIX secolo), mentre in quella classica (greca e latina) non esistevano. Un tempo erano quasi d’obbligo, al punto che i poeti venivano detti anche rimatori. Oggi, invece, vengono usate in maniera non sistematica, per ottenere effetti particolari. 4. LE FIGURE FONICHE La rima, lo abbiamo visto, ha una funzione musicale, particolarmente importante per la sua posizione, collocata prima della breve pausa silenziosa di fine verso. E non è il solo mezzo per far risuonare quel “concerto di parole” che spesso è il componimento poetico. Le si accompagnano infatti diverse forme di ripetizioni di suoni (le figure foniche), le più comuni delle quali sono: - allitterazione: consiste nella ripetizione nello stesso verso o nella stessa strofa di un suono o di un gruppo di suoni uguali, o simili. La ripetizione può riguardare consonanti o vocali. L’allitterazione è diffusissima nelle filastrocche o nelle poesie scherzose, come nell’esempio che segue, tutto giocato sul suono / s / in diverse combinazioni vocaliche e consonantiche Sussurrar sen te Susanna un sospetto nella scranna solitario un sorcio secco succhia solo il suo sorbetto sibillini sassolini son tra sugheri e sterpini (B.Munari) Ma l’allitterazione ha spesso usi assai più “seri”, anche se meno vistosi: attraverso di essa il poeta spesso crea impressioni uditive legate ai significati che intende esprimere. Ad esempio, nei seguenti versi della poesia Il fiume, Giovanni Pascoli sottolinea il fragore delle onde marine con un uso ripetuto dei suoni / r / , / fr /, che in questi versi compaiono ben 13 volte (prova a sottolinearli e poi rileggi i versi a voce alta, prestando attenzione alla loro “qualità” sonora): eccoti giunto al fragoroso mare: ed ecco i flutti verso t e balzare su dall’interminabile pianura, in larghe file; e nella riva osc ura questa si frange, e quella in alto appare; tituba e croscia. E là, donde tu lieto, ... Talvolta l’allitterazione si spinge fino ad imitare un suono naturale, come in quest’altro esempio di Pascoli: Il tuono E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò rinfranto e poi vanì. Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto di una culla. - onomatopea: consiste nell’imitazione di suoni naturali (rumori della natura) mediante segni inventati, che non sono riconducibili a nessuna delle parti del discorso. Eccone alcuni esempi: Clof, clop, cloch, cloffète cloppete clocchete, chchch (sono segni che cercano di riprodurre lo sgocciolio dell’acqua nella poesia La fontana malata di Palazzeschi) ... Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte; sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte: sentivo nel cuore un sussulto, com’eco d’un grido che fu. Sonava lontano un singulto. Chiù... (Pascoli) (qui i segni fru fru indicano il rumore di un animale che si muove tra i rovi; chiù imita il verso dell’assiuolo, rapace notturno simile al gufo. In questo brano puoi notare ancora come, accanto all’onomatopea fru fru, l’allitterazione delle / r /, / f / e / t / contribuisca a dare quel rumore. Nel brano è inoltre presente un’altra figura , molto usata dai poeti di ogni tempo: l’anafora, che consiste nella ripetizione di una o più parole all’inizio di versi successivi: sentivo / sentivo / sentivo) 5. LA STROFA I versi possono succedersi senza partizioni in gruppi, oppure si presentano organizzati in gruppi di versi chiamati strofa. Se il verso corrisponde a un periodo ritmico in sé concluso, un insieme di versi raggruppati secondo uno schema prestabilito corrisponde a un periodo ritmico maggiore, terminato il quale si compie una pausa d’intensità solitamente più profonda di quella che si attua alla fine di ogni singolo verso. Chiamiamo strofa questo insieme di versi, spesso collegati da un ordine fisso di rime. Le strofe prendono il nome dal numero dei versi che le compongono; le loro combinazioni sono praticamente infinite. Le più importanti sono: - il distico: è la forma più semplice di strofa, costituita da una coppia di versi in rima baciata (cfr. Pascoli, La cavallina storna). Si hanno distici di versi uguali o di diversa misura. - la terzina: (o terza rima o terzetto) è uno degli schemi metrici fondamentali della poesia italiana, con varia combinazione di rime (su due o tre rime sono ad es. le terzine del sonetto); fra le quali primeggia la rima incatenata detta anche terza rima o terza rima dantesca perché adoperata da Dante nella Divina Commedia. - la quartina: si definisce quartina, comunemente, ogni strofa di quattro versi. Nella quartina si incontrano almeno due diversi sistemi di rime: - a rime alternate (ABAB); - a rime incrociate o chiuse (ABBA). - la sestina: strofa di sei versi, i primi quattro a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. - l’ottava: (o ottava rima), strofa di otto versi endecasillabi (detta anche ottava narrativa) dei quali i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema: ABABABABCC. E’ il metro dei poemi cavallereschi (Ariosto, Tasso), ma è anche adottato nella poesia lirica (es., le Stanze di Poliziano). 6. FORME METRICHE Le strofe, lo abbiamo detto, possono concorrere a dar vita alle forme metriche; qui analizziamo: a - Il sonetto. Il sonetto è tra le forme più antiche della lett. italiana. Invenzione siciliana, dovuta, con ogni probabilità a Jacopo da Lentini, notaio presso la corte di Federico II. Diffusosi rapidamente, è destinato fino al Novecento a enorme fortuna europea. Il nome deriva dal provenzale sonet (= piccolo suono, che in origine sta a indicare qualsiasi tipo di componimento poetico destinato al canto). E’ formato da quattordici versi endecasillabi, ripartiti in due quartine e in due terzine, con variazione nello schema delle rime a separare il primo blocco di otto versi dal secondo di sei. Lo schema metrico del sonetto è, a dispetto della brevità del componimento, estremamente vario: - quello più antico ha come ordine di rime nelle quartine la forma ABAB, ABAB (rime alternate) e nelle terzine la forma CDE, CDE; - presso gli Stilnovisti lo schema più comune divenne quello a rime incrociate ABBA, ABBA per le quartine (ma non fu abbandonata la forma antica); - combinazioni ancora più articolate conobbero le terzine: - le forme più usuali (CDE, CDE e CDC, DCD); - numerose altre varianti sono possibili e furono, di fatto, adoperate. In ogni caso, le quartine risultano sempre formate su due rime; le terzine su due o su tre. E una pausa semantica spesso assai forte (un punto fermo o un punto e virgola) dopo l’ottavo verso sottolinea ulteriormente il mutamento delle rime che si attua nelle terzine. Tra le forme metriche della poesia it., il sonetto è quella che ha avuto maggior fortuna in tutti i secoli, fino a tutto l’Ottocento. Anche nel Novecento non sono mancati però coloro che hanno tentato di conservarlo e restituirgli dignità: basti ricordare soltanto Gozzano e Saba. Più recentemente ne hanno offerto splendidi saggi, fra gli altri, Fortini, Sanguineti, Zanzotto. E’ stato utilizzato soprattutto nella lirica, ma anche in altri generi, dalla letteratura tematica a quella narrativa. E’ frequente anche l’impiego di questa forma per componimenti di maggiore estensione di cui il singolo sonetto costituisce, in un certo senso, la minima unità tematica. b -La canzone. E’ la forma metrica più illustre (assieme al sonetto) della tradizione poetica italiana, diffusa sin dalle origini ad opera prima dei rimatori Siciliani, che la ripresero dai trovatori provenzali (il modello provenzale doveva essere la cansò molto legato alla musica), e poi degli Stilnovisti. La canzone si compone di un numero vario di stanze: generalmente tra le cinque e le sette, raramente di meno. Ogni stanza si compone di due parti: la fronte e la sirma (o sirima o coda). La stanza non ha numero fisso di versi (comunque, non meno di 7 e non più di 21), ma costanti sono il numero di versi e l’ordine delle rime in ciascuna di esse all’interno della stessa canzone. I metri più usati sono l’endecasillabo e il settenario, da soli o più spesso in combinazione (con prevalenza del primo. c - La ballata. In origine era un genere per coro e solista (destinato dunque alla musica e alla danza. Gli stilnovisti elevano a forma d’arte. I versi usati sono l’endecasillabo e il settenario (soli o in combinazione). Si compone: - di una ripresa o ritornello (provenzale: respos o refranh) composta da un minimo di un verso ad un massimo di quattro (ma talora anche di più); - e di una o più stanze (generalmente una e comunque non più di quattro: se composta da più di una stanza si definisce ballata vestita). Ogni stanza è formata: - da due piedi tra loro identici come genere di versi e ordine e qualità di rime, - e da una volta, con numero di versi uguale a quello della ripresa, il primo in rima con l’ultimo del piede e l’ultimo con l’ultimo della ripresa. Il genere ebbe moderata fortuna fino a tutto il 500, poi declinò. Più recentemente hanno tentato di riportarlo in auge Carducci, Pascoli, D’Annunzio. 7. L’ENJAMBEMENT Enjambement è una parola francese che deriva dal verbo enjamber, “allungare la gamba in campo altrui”. Si ha quando la fine di una frase non coincide con la fine del verso, ma “allunga la gamba” nel verso successivo, che viene così ad essere strettamente legato al precedente. Nella lettura avvertiamo l’enjambement perché il verso non risulta di senso compiuto o comunque l’inizio del verso successivo lo completa in modo necessario: quindi alla fine del verso non si ha una pausa forte, ma il periodo poetico continua quasi senza interruzione, ottenendo un effetto di maggiore lentezza e solennità. Prendiamo ad esempio i primi versi dell’Infinito di Leopardi: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude Il primo verso forma una frase completa e alla sua fine facciamo una pausa (tanto che il poeta ha inserito una virgola). Nel secondo verso invece ha inizio una frase che si conclude solo nel verso successivo: per questa ragione alla fine del secondo verso non facciamo quasi pausa nella lettura. Tra secondo e terzo verso c’è dunque un enjambement.